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D DOSSIER POPOLAZIONI PERSEGUITATE / 1 YAZIDI TESTI DI: Simone Zoppellaro. INTRODUZIONE DI: Paolo Moiola. A CURA DI: Paolo Moiola. © Frederick Florin / AFP

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DDOSSIER

POPOLAZIONI PERSEGUITATE / 1

YAZIDITESTI DI: Simone Zoppellaro. INTRODUZIONE DI: Paolo Moiola.

A CURA DI: Paolo Moiola.

© Frederick Florin / AFP

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GUERRE E COLPI DI SPUGNA

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Secondo il dizionario Treccani, genocidio èun termine coniato, in forma inglese (ge-nocide), dal giurista polacco Raphael Lem-kin nel 1944 e pubblicamente usato nel

processo di Norimberga (1946). «Grave crimine -continua il Treccani -, di cui possono rendersi col-pevoli singoli individui oppure organismi statali,consistente nella metodica distruzione di ungruppo etnico, razziale o religioso, compiuta at-traverso lo sterminio degli individui, la dissocia-zione e dispersione dei gruppi familiari, l’imposi-zione della sterilizzazione e della prevenzionedelle nascite, lo scardinamento di tutte le istitu-zioni sociali, politiche, religiose, culturali, la di-struzione di monumenti storici e di documentid’archivio, ecc.». Alla luce di questadefinizione, è facilerendersi conto chela storia annoveramolti genocidi (an-che se alcuni nonsono unanimementericonosciuti cometali): lo sterminio deipopoli amerindi du-rante la conquistadelle Americhe, ilgenocidio armenoad opera della Tur-chia ottomana (1915-16), lo sterminio de-gli ebrei e dei romdurante l’epoca na-zista, quello perpe-trato dai Khmerrossi in Cambogia(1977-79), quello deimusulmani di Bo-snia nella guerra della ex Jugoslavia (1995), quellodei Tutsi in Rwanda nel 1994.Senza dimenticare, ai giorni nostri, i molti popoliindigeni - alcuni formati da poche decine di indivi-dui - che sono a rischio d’estinzione a causa dei«bianchi».

In Siria (nella parte settentrionale, denominataRojava) e Iraq i Curdi sono in prima fila nellaguerra contro il Daesh (Isis). Ma sono osteg-

giati - per questioni politiche - da tutti gli statidella regione, a iniziare dalla Turchia del ditta-tore Erdogan. Gli YAZIDI sono una piccola popola-zione kurdofona - le stime più alte parlano di 700mila persone - a sua volta perseguitata e oggi vit-tima dei miliziani del Daesh. Nella regione natale,nel Nord Ovest dell’Iraq, attorno alla città di Sin-

jar, migliaia dei loro uomini sono stati uccisi, men-tre un numero imprecisato delle loro donne sonostate fatte schiave sessuali dagli uomini del Ca-liffo nero. Nel 2016 due di esse, NADIA MURAD BA-SEE TAHA e LAMIYA AJI BASHAR, fuggite in Ger-mania, sono state insignite del «Premio Sacharovper la libertà di pensiero», assegnato dal Parla-mento europeo (dal 1988). Lamiya (nella foto)porta sul viso e sul corpo i segni delle sofferenzepatite. Sappiamo che il traffico di esseri umani ela riduzione in schiavitù è un affare mondiale. IlDaesh è un passo avanti: utilizza il Corano pergiustificare questo trattamento. In Dabiq, la suarivista (dalla grafica ricercata), sono stati pubbli-cati articoli per spiegare la correttezza del com-

portamento dei pro-pri miliziani stupra-tori. Per credere leg-gere Dabiq n. 4 e n. 9.

Terrorismo,guerre non di-chiarate, con-

flitti cosiddetti abassa intensità: ledefinizioni non man-cano. Probabilmentela sintesi più efficaceè da attribuire apapa Francesco che,nell’agosto del 2014,disse: «Siamo entratinella Terza guerramondiale, solo che sicombatte a pezzetti,a capitoli». Ci sono popolazioniche si vorrebbe can-cellare con un colpo

di spugna. Ma che, in un modo o nell’altro, ri-escono a resistere e a sopravvivere. Anche, unavolta tanto, grazie all’informazione. Quella pocache rimane nell’epoca del post-giornalismo e dellapost-verità.

Paolo Moiola

Questo è il primo di due dossier che dediche-remo alle minoranze dimenticate ed oppresse.In esso simone Zoppellaro parla degli YaZIdI

dell’Iraq. Il prossimo, a firma di Piergiorgio Pescali,sarà centrato sui RohIngYa, la minoranza musulmanaperseguitata nel Myanmar buddhista di aung san suuKyi, premio nobel per la pace. (pa.mo.)

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YAZIDI, UNA MINORANZA IN PERICOLO

La storia di ieri e di oggi è piena di minoranze perseguitate. Con una religione e unacultura poco conosciute gli Yazidi sono spesso fraintesi e diventano un facile bersaglio.Il rischio è che la loro diaspora porti all’assimilazione e quindi alla loro scomparsa.Rendendo il mondo più povero.

Contrariamente a quanto spesso si pensa,l’islam non ha mai cercato di estirpare conla spada le altre religioni. Pur marginaliz-zando, penalizzando e, in alcuni periodi,

anche perseguitando i membri di altre fedi, la do-minazione musulmana ha permesso di mantenerein vita per oltre un millennio, nei vasti territori con-quistati, una sorprendente pluralità religiosa, im-pensabile nell’Europa pre-illuminista. Cristiani, ebrei e zoroastriani - fra gli altri - hannopotuto così godere per secoli, sotto la mezzaluna, diuna libertà che solo il colonialismo, l’emergere delnazionalismo e il conflitto arabo-israeliano hanno

purtroppo spezzato. Questo discorso vale ancheper gli Yazidi, piccola minoranza religiosa nella suaquasi totalità di lingua curda che, abbarbicata allesue montagne nell’odierno Iraq Nord occidentale,ha potuto tramandare di generazione in genera-zione - pur fra mille difficoltà e privazioni - la suacultura e la sua fede. Un contesto per nulla affatto

YAZIDI

Quando vinconola diffidenza e il pregiudizioDI SIMONE ZOPPELLARO

Sotto: rifugiati yazidi nel campo di Newroz, nella regione curda diRojava, in Siria. Pagina precedente: il viso deturpato di Lamiya AjiBashar, yazida fatta schiava dai miliziani stupratori dell’Isis.

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casuale, quello montuoso, se si pensa ad esempioalla sopravvivenza millenaria di insediamenti amaggioranza cristiana come Ma‘lula in Siria, doveancora oggi si parla una variante dell’aramaico, unamoderna derivazione della lingua parlata da Gesù.O ancora al Caucaso, che gli arabi chiamavano ja-bal al-alsun, la «Montagna delle lingue», per la suasorprendente varietà linguistica e culturale, ma an-che religiosa. E proprio l’isolamento e la protezionefornita da questo contesto geografico arduo e im-pervio hanno permesso agli Yazidi di mantenere

una fede che, seppur influenzata dall’islam permolti aspetti e ad esso in parte riconducibile findalle sue origini, si è sviluppata in seguito in modoirrimediabilmente «altro». Una religione - spessodefinita in modo dispregiativo come setta - che, sefosse nata nell’Europa medievale anziché nelmondo musulmano, sarebbe stata indubbiamentebollata come «eresia».Se non che, questa tradizione di tolleranza, sancitaanche dal Corano nell’invito alla protezione e al ri-spetto per ebrei e cristiani, è entrata in crisi altempo del colonialismo, per essere poi spazzata via,nel modo più violento, nei luoghi caratterizzati direcente in vario modo dall’insorgere del fondamen-talismo islamico. Certo, non in tutti i paesi musul-mani ciò è vero, come d’altronde non in tutti i go-verni islamici le cose funzionano allo stesso modo:la Repubblica islamica nata in Iran nel 1979 graziealla guida carismatica dell’ayatollah Khomeini, pernon fare che un esempio, ha mantenuto intatta -con la sola dolorosa eccezione dei bahai - la plura-lità religiosa che ha caratterizzato da sempre que-sto grande paese. Altrove, invece, e soprattutto neiterritori segnati dall’influenza del wahabismo pro-pagandato a suon di petroldollari dalle monarchiedel Golfo, la storia ha preso purtroppo un’altrapiega. E le conseguenze sono ben note, almeno perchi presti attenzione in modo non estemporaneo aquanto succeda lontano da noi.E così, a un secolo dal Medz Yeghern, il genocidioarmeno del 1915, e a oltre settant’anni dalla Shoah,la pagina ignominiosa dei genocidi sembra non tro-vare fine. Gli Yazidi lottano oggi per la loro soprav-vivenza, sterminati, cacciati dai loro villaggi e ri-dotti in schiavitù nei territori conquistati in Iraqdal Daesh. Ieri come oggi, l’indifferenza del mondoè grande, e sul destino di questo piccolo popolo -composto (forse) da 700 mila persone - si consu-mano i grandi giochi della geopolitica e dell’econo-mia. Una lotta, quella degli Yazidi, che si svolge inuna solitudine disperata e che ha luogo senza chenulla si voglia fare sia da parte di chi muove le levedel potere, che a livello locale e della società civile.Persino i Curdi, con i quali condividono una linguacomune (nella variante settentrionale detta «Kur-manji») e molti aspetti della loro cultura, il più dellevolte di fronte alle loro sofferenze si sono limitati aguardare da un’altra parte, quando non a cercare ilproprio vantaggio. Una denuncia, questa, sentitapiù volte ripetere dai rappresentanti yazidi, a par-tire dalla più famosa di tutte: la candidata al Nobelper la pace Nadia Murad.Privi di una chiesa o uno stato che li protegga, an-che la diaspora - a differenza di quanto avvenuto inpassato in altri casi - è troppo frammentata e re-cente per essere in grado di incidere, o anche solodi fornire qualche conforto ai profughi che oggi sitrovano, privi di una coordinazione, dispersi per ilmondo. E così, anche per la maggioranza di coloroche riescono (spesso in circostanze rocambole-sche) a fuggire dalla schiavitù e dalla guerra, il de-stino che li attende sono i campi profughi della Tur-

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Sopra: un profugo della comunità yazida intento ad arrotolarsi unasigaretta in un campo di rifugiati vicino a Dohuk, in Iraq (17 novem-bre 2016). Pagina seguente: mappa dell’Iraq con le varie zone d’in-fluenza (Kurdi, sciiti, sunniti); una famiglia yazida, rifugiata nellaprovincia di Sirnak, nel Sud Est della Turchia, mostra le foto diSaeed, ucciso mentre tentava di rientrare nel suo villaggio in Iraq.

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chia o di altri paesi, dove mancano spesso i benipiù basilari. Nessuno stato al mondo (con la solaeccezione della Germania, che ha ospitato e for-nito assistenza medica e psicologica a diverse mi-gliaia di Yazidi e, più di recente, del Canada) ha in-fatti voluto finora assumersi l’onere di accogliere isopravvissuti, facendosi carico dei loro traumi edelle storie di violenza e orrore che essi, inevita-bilmente, portano con sé. Inutile ricordare come,per questi sopravvissuti a un genocidio - che poi inmolti casi sono donne, vittime di abusi sessuali eridotte in schiavitù dagli uomini dell’Isis - non ba-stino solo un pezzo di pane e un tetto per alle-viarne il dolore e ridare loro dignità.Questa assenza di sostegno da parte della comu-nità internazionale costituisce un paradosso. In-fatti, sebbene sia unanime la condanna del terrori-smo islamista e tutte le forze politiche di ognipaese siano oggi parimenti concordi nel riconosci-mento della violenza perpetrata dai miliziani del-l’Isis contro le minoranze religiose, la campagna

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portata avanti dagli attivisti per il riconoscimentodel genocidio yazida non ha finora raccolto i risul-tati sperati. Eppure, un raffronto con il passato, conl’Olocausto degli armeni e degli ebrei, innanzitutto,dovrebbe gettare luce sul destino di questa gente.Si è di fronte ancora una volta al sistematico tenta-tivo di annientamento non solo fisico, ma anche cul-turale e spirituale di un intero popolo, portatoavanti da un manipolo di fanatici, ma con la compli-cità e la collaborazione di una parte delle popola-zioni sottoposte al dominio del Califfo al-Baghdadi.La persecuzione e lo sterminio avvenuti dall’agosto2014 a oggi non sono - come raccontano i rappre-sentanti stessi della comunità yazida - che l’ultimoe più sanguinoso epilogo di una persecuzione inatto sin dall’Ottocento, che periodicamente riaf-fiora. «Gli eventi del 2014 rappresentano per loro -ha scritto Vicken Cheterian su Le Monde Diplomati-que (gennaio 2017) - il settantatreesimo massacro».

Il monoteismo degli YazidiI fondamentalisti di oggi trovano nella fede e cul-tura yazida la ragione principale per perseguitare ecercare di eliminare quella popolazione. Una diffi-denza e un pregiudizio ormai radicati per una fedesentita come estranea, chiusa, sincretistica, e per-ciò difficilmente classificabile. Eppure, a ben guar-dare, lo Yazidismo è anch’esso, al pari delle tre reli-gioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e is-lam), una religione monoteistica, seppure con al-cuni tratti originali. I suoi seguaci fanno risalire le loro origini indietrodi migliaia di anni, e lo sviluppo di riti e credenze fusenza dubbio il frutto di un lungo processo di com-mistioni religiose e di acculturazione. Ma fu solo inepoca islamica, ci dicono gli specialisti, che gli Ya-zidi acquisirono un’identità precisa e distinta sia intermini etnici che religiosi. In particolare, vi è unpersonaggio che ricorre come fondamentale nell’et-nogenesi di questa minoranza. Ci riferiamo alla ca-rismatica figura del mistico sufi Shaikh Adi ibnMussafir (morto nel 1162) che predicò nella regionedivenendo, dopo la sua dipartita, oggetto di grandevenerazione. «È il loro profeta, il loro grande santo,adorato quasi come Dio», scriveva lo storico dellereligioni Giuseppe Furlani, «la cui tomba, nel tem-pio che hanno a Nord Est di Mossul, essi riguar-dano come loro santuario nazionale».Di questo loro pellegrinaggio al santuario di Lalishci ha lasciato un racconto suggestivo, in un articolopubblicato sul portale Treccani, Gianfilippo Terri-bili, docente all’Università La Sapienza di Roma.Terribili ha preso parte di persona nel 2015, ovvero

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A sinistra: un combattente yazida. Pagina seguente: un’immaginedell’Angelo Pavone (Malak Tawus) della religione yazida, conside-rato un’emanazione divina posta come intermediario fra il cielo egli uomini.

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a un anno esatto dalla data di inizio del genocidioyazida, alle festività stagionali estive che raccol-gono ogni anno pellegrini provenienti dalla regione,ma anche ogni angolo del mondo. Il pellegrinaggio,infatti - come ricorda Terribili - «è tra i principalidoveri del fedele yazida ed è un evento che strut-tura i legami sociali interni ad una comunità spessoemarginata e chiusa alle influenze esterne». Unevento ricco di tradizioni, rituali e suggestioni cherimandano, spesso, a pratiche analoghe tipichedell’islam e del cristianesimo, altre volte a praticheancora più remote. «L’intera valle», prosegue lostudioso, «è un microcosmo sacro che include i san-tuari costruiti intorno alle tombe dei principalisette personaggi santi venerati dalla tradizione, conluoghi o edifici connessi che costituiscono il circuitoattraverso il quale è scandito il pellegrinaggio e isuoi atti rituali».

L’accusa: «Adoratori del diavolo»La paura e la diffidenza - ma in parte anche ilgrande fascino - che circondano gli Yazidi ruotanoattorno alla leggenda, diffusa in terra di islam comeanche fra viaggiatori e fonti orientalistiche occiden-tali, che li identifica come «adoratori del diavolo».Un pregiudizio del tutto infondato, come ricordaFurlani: «Tanto sono lontani anzi da tale adora-zione che non hanno affatto nella loro religione ildiavolo: essi negano addirittura l’esistenza delmale». Un epiteto, e insieme uno stigma, che trag-gono origine da una delle caratteristiche fonda-mentali del monoteismo yazida, che affianca, a ununico Dio creatore, sette entità angeliche, chiamatei Sette Misteri (haft surr), che nel corso della storiasi sono periodicamente reincarnate in formaumana. Dio ha affidato loro il governo del mondo,sotto la guida dell’Angelo Pavone (Malak Tawus),emanazione divina posta come intermediario fra ilcielo e gli uomini. Suggestivo a questo propositol’incipit di uno dei due testi sacri degli Yazidi, il Li-bro nero, redatto in lingua curda, che riportiamonella traduzione di Giuseppe Furlani:«In principio Dio creò la perla bianca dal suo pre-zioso seno e creò un uccello di nome Anfar. Eglipose la perla sopra la sua schiena e dimorò sopradi essa quarantamila anni. Il primo giorno in cuiDio creò fu una domenica. Egli creò in essa un an-gelo dal nome ‘Azra’il: esso è il Pavone Angelo, ilcapo di tutti».

Il racconto prosegue con la descrizione di come Diocreò i sette angeli che a loro volta partecipano allacreazione dell’uomo (ascritta all’ultimo di loro, Nu-ra’il) e di tutte le altre creature. Dopo l’opera dellacreazione, il mondo, come detto, fu affidato da Dioproprio alle sette entità angeliche, che agisconocome protezione e guida.L’Angelo Pavone - questa l’origine del «mito satani-sta» sugli Yazidi - corrisponde poi per alcuniaspetti a Iblis, il Satana della religione musulmana,con tratti che sembrano filtrati in particolare dallarielaborazione della tradizione mistica sufi, di cuiresta abbondante traccia anche nella letteratura

persiana medievale. Un Satana, quindi, che dopo lasua ribellione si è pentito ed è stato accolto dinuovo da Dio. Ma gli Yazidi negano con forza que-sta identificazione fra le due figure, al punto - comescrive l’orientalista Christine Allison - di arrivare aproibire la pronuncia stessa della parola Satana(Shaitan), e persino di alcune parole che la richia-mano da un punto di vista fonetico.

Il divieto dei matrimoni mistiA contribuire al pregiudizio e alla paura nei con-fronti degli Yazidi furono anche la naturale chiu-sura di questo gruppo religioso, che non accettaconversioni da altre fedi e vede in modo negativo -ma è così per molte minoranze in Medio Oriente,soprattutto se esigue da un punto di vista numerico- i matrimoni misti. Pratiche e tabù particolar-mente severi riguardano molti aspetti della vita deifedeli, dal cibo, fino alla proibizione di pronunciareun certo numero di parole. Un’altra peculiarità ya-zida è il fatto di credere di essere discendenti delseme di Adamo ma - a differenza del resto dell’u-manità - non di Eva. Questo a ulteriore testimo-nianza di come gli Yazidi si autorappresentinocome un popolo «altro» rispetto al resto del mondo.A contribuire al mistero che circonda questa reli-gione sono anche i suoi testi esoterici, tramandatioralmente di generazione in generazione, e perciò

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assai poco noti ieri come oggi al di fuori dei circolidei correligionari. Come già nell’islam, l’«orto-prassi» ha un ruolo preponderante rispetto all’«or-todossia», il che vuol dire che rituali e pratichehanno più importanza nella vita del fedele rispettoalle disquisizioni teologiche, viste come secondariee accessorie. Fondamentale nello yazidismo anchela suddivisione sociale in tre caste (si veda il riqua-dro alla pagina 46, ndr), nettamente divise, aspettoche si interseca a un’altra importante caratteristicadella loro fede: la credenza nella metempsicosi, cioènella reincarnazione. Le due caste superiori rap-presenterebbero infatti niente di meno che la di-scendenza delle più recenti reincarnazioni delle en-tità angeliche, i Sette Misteri che, come detto, tor-nano periodicamente a rivestire forma umana.Come nelle religioni abramitiche, anche nello yazi-dismo esistono paradiso e inferno, ma altri aspettidella loro cosmogonia rimandano invece alle anti-che religioni iraniche, come ad esempio allo zoroa-strismo.

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Il pericoloUn patrimonio religioso e culturale, quello da noiqui tratteggiato con un breve schizzo, che rischia divenire annullato da qui a pochi anni, se non av-verrà presto un’inversione di tendenza: una presadi coscienza del mondo nei confronti di questa tra-gedia. Dispersi per il pianeta, gli ultimi figli di que-sto antico popolo sopravvissuti alle persecuzioni diieri e di oggi, rischiano l’assimilazione e la scom-parsa definitiva dei loro usi, costumi e credenze.Questo il significato più profondo e drammaticodella parola genocidio: il tentativo posto in atto si-stematicamente di eliminare non solo un intero po-polo, ma anche la sua cultura materiale e immate-riale, insieme al suo lascito spirituale. L’orrore delsangue, e insieme la maledizione di aver reso il no-stro mondo più povero, senza possibilità di appello,destinando a definitiva scomparsa persino la me-moria di una minoranza, e non solo la sua esistenzafisica.

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Chi scrive ha incontrato sopravvissuti Yazidied è rimasto impressionato dai loro rac-conti, soprattutto se paragonati ai reso-conti di ebrei e armeni. Un’analogia che la-

scia senza fiato. È come se il tempo, vinto da unamaledizione, fosse condannato a ripetersi in tutto eper tutto, con schemi fissi e immutabili, e produ-cendosi solo in minime varianti. Stessa la furiacieca dei carnefici, così come egualmente scienti-fica, gelida e ben ponderata è l’organizzazione chesta alla base di tutto. Stesso il dolore delle vittime,un dolore tanto forte a tratti da spogliare chi viviene investito di ogni dignità umana e amore di sée del prossimo. Stesso l’opportunismo, e in molticasi la complicità, delle popolazioni sottoposte alterrore, pronte a girarsi dall’altra parte, ma anchea cercare di massimizzare il profitto che derivadalle altrui disgrazie e dalla morte. Stessa anchel’indifferenza del mondo, che finge di non vedere e

di non sapere, un po’ per noia o apatia, o per pigri-zia mentale, ma anche perché il dolore - quando ècosì grande e lontano - ci lascia impotenti e confusi.Stessa infine anche l’azione solitaria di alcuni giu-sti: pochi uomini, forse pochissimi che - andando incontrotendenza rispetto a tutti e anche alla storia -rischiano la loro vita, i loro beni e il proprio status,per dimostrarci che neppure il male più feroce è ca-pace di cancellare le ultime tracce di bene e di uma-nità che affiorano anche qui, dove la Terra sembraaver già toccato l’inferno.

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In basso: rifugiati yazidi ricevono un pasto caldo in un campo im-provvisato nella provincia di Sirnak, nel Sud Est della Turchia.Pagina precedente: bambini yazidi nel campo di Essian, a Duhok,nel Kurdistan iracheno (25 maggio 2016).

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Quando a Sinjararrivarono i milizianiDI SIMONE ZOPPELLARO

I miliziani dello Stato islamico considerano gli Yazidi degli «infedeli». Nell’agosto del2014 arrivati nella loro regione hanno compiuto una strage. E costretto alla schiavitùsessuale migliaia di donne e bambine.

RACCONTO DI UN MASSACRO

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Durante la dominazione ottomanaCome si è arrivati alla riduzione in schiavitù didonne e bambini, alla persecuzione sistematica e aimassacri del 2014 che gli Yazidi rivendicano ostina-tamente come un genocidio? Si tratta di una storiache parte da lontano. Anzi, a sentire quanto rac-contano i stessi membri di questa comunità, gli Ya-zidi avrebbero già subito addirittura 72 genocidi nelcorso della loro storia. Si tratta forse di un’iperbole,diranno in molti, eppure è un’affermazione signifi-cativa almeno per capire due cose. In primis, che laquestione yazida non è nata con i miliziani dell’Isis,ma ha radici assai più profonde e, per questa ra-gione, molto più difficili da estirpare. In secondoluogo che, esattamente come per gli armeni e gliebrei, la memoria delle persecuzioni subite è ormaidivenuta parte fondamentale della identità propriadegli Yazidi, del loro modo di autorappresentarsicome gruppo. E in effetti si può ben dire che, findall’inizio, l’identità yazida sia stata forgiata anchedal sangue e dalla violenza subita nel corso di unmillennio. Già fra XII e XV secolo, infatti, questa popolazionesi trovò a subire continui attacchi da parte di chinon tollerava la sua fede e la sua identità. Le coseandarono peggiorando ulteriormente in epoca otto-mana. Nel 1892 - negli stessi anni in cui avvenivano

i primi massacri degli armeni che sfociarono a ini-zio novecento in un vero e proprio progetto di geno-cidio - ebbe luogo una spedizione guidata dal gover-natore di Mossul che portò a numerose uccisioni ea conversioni forzate. All’inizio del nuovo secolo,poi, nel 1904, il sacro tempio di Lalish venne tra-sformato in moschea.

Da Saddam al DaeshIn epoca più recente, durante il regime di SaddamHussein gli Yazidi si trovano di nuovo a essere, alpari dei curdi, bersaglio di persecuzioni e attacchi.Migliaia di loro in quegli anni lasciarono l’Iraq percercare scampo e fortuna in Europa. Dopo la ca-duta di Saddam, nel vuoto di potere creatosi in se-guito all’invasione americana e all’incauto smantel-lamento delle forze di sicurezza ereditate dal pre-cedente regime, gli Yazidi si trovarono in una situa-zione, se possibile, ancora più difficile. Il 14 agostodel 2007, quattro attacchi suicidi coordinati fra lorocolpirono gli Yazidi a Kahtaniya e Jazeera, neipressi di Mossul. Sconvolgente il bilancio delle vit-time, come riportato dalla Mezzaluna Rossa ira-chena: almeno 500 morti e 1.500 feriti. Una maca-bra anticipazione di quanto sarebbe avvenuto, connumeri ancora maggiori, pochi anni dopo, quando,siamo nel 2014, un nuovo e temibile attore arriva asconvolgere - a suon di vittorie repentine, massacrie propaganda - l’Iraq, la Siria e l’intero MedioOriente. Ci riferiamo allo Stato islamico guidato daAbu Bakr al-Baghdadi. Il contesto da cui ha origineil genocidio degli Yazidi è delineato con precisioneda Patrick Cockburn, giornalista del quotidiano

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Sotto: una donna yazida con un figlioletto nel campo profughivicino a Duhok, nel Kurdistan iracheno (17 novembre 2016).Pagina seguente: Raphael Lemkin, il giurista polacco che coniòil termine «genocidio».

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Independent e testimone diretto fra i più autorevolidi questa guerra:

«Nel corso dell’estate, lo Stato islamico avevasconfitto con campagne fulminee prima l’esercitoiracheno, poi quello siriano, i ribelli siriani e ipeshmerga curdo-iracheni, creando un dominioche si estende da Baghdad ad Aleppo, e dal con-fine siriano con la Turchia al deserto dell’Iraq oc-

cidentale. Gruppi etnici e religiosi di cui il mondonon aveva mai sentito parlare prima o di cui si sa-peva pochissimo, come gli Yazidi di Sinjar o i cri-stiani caldei di Mossul, sono caduti vittime dellacrudeltà e del fanatismo settario dell’Isis».

Ma, anche stando a quanto afferma un’investiga-zione condotta dalle Nazioni Unite e pubblicata nelgiugno 2016, si tratterebbe di più di semplici atti dicrudeltà e fanatismo. Nel rapporto pubblicato con iltitolo di «Sono venuti per distruggere: i crimini del-l’Isis contro gli Yazidi» (They Came to Destroy: IsisCrimes against the Yazidis), l’indagine condottadall’Onu utilizza ben 97 volte in 40 pagine la parolagenocidio. Un riconoscimento inequivocabile e si-gnificativo, dato anche che, per la prima volta, unriconoscimento viene fatto prima da un attore non-statale che da parte di un singolo paese. Ed eccouna breve descrizione di quanto avvenuto, percome la leggiamo nel rapporto dell’Onu:

«Nelle prime ore del 3 agosto 2014, i combattentidel gruppo terroristico chiamato Stato Islamicodell’Iraq e al-Sham (Isis), si riversano fuori dalleloro basi in Siria e in Iraq, e si dirigono rapida-mente verso il Sinjar. La regione del Sinjar nelnord dell’Iraq è, nel suo punto più prossimo, ameno di 15 chilometri dal confine con la Siria. È lasede della maggioranza degli Yazidi nel mondo,una comunità religiosa distinta le cui credenze epratiche risalgono a migliaia di anni, e i cui ade-renti l’Isis taccia pubblicamente di essere infe-deli. Pochi giorni dopo l’attacco, emergono i primiresoconti delle atrocità inimmaginabili com-messe dall’Isis contro la comunità yazida: uominiuccisi o costretti a convertirsi; donne e ragazze,alcune giovani fino a nove anni, vendute al mer-cato e tenute in uno stato di schiavitù sessualedai combattenti dell’Isis; ragazzi strappati dalleloro famiglie e costretti ad andare in campi di ad-destramento dell’Isis. È stato da subito evidenteche gli orrori commessi sugli Yazidi catturati siverificavano sistematicamente anche in tutti ter-ritori controllati dall’Isis in Siria e Iraq».

Un altro testo, utile ad abbozzare il quadro dei cri-mini commessi, e soprattutto del piano genocidariomesso in atto dai fondamentalisti, lo riprendiamoinvece da un rapporto pubblicato dall’Ong Yazda edalla Fondazione Free Yazidi, redatto in collabora-zione con le autorità del governo regionale del Kur-distan iracheno:

«Rimuovendo l’intera popolazione yazida dallaloro patria, infliggendo il danno psicologico e fi-sico della violenza sessuale contro le donne e leragazze, l’Isis si è assicurato che questi non sa-rebbero più stati in grado di tornare alle loro co-munità. Forzando i giovani maschi a cambiare laloro religione e a diventare combattenti nelle lorostesse fila, l’Isis ha cercato di annientare l’iden-tità religiosa, le tradizioni e l’esistenza stessa de-

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Genocidio

Chissà che cosa avrebbe pensato RaphaelLemkin, il giurista polacco che inventò edefinì la parola «genocidio», se avessepotuto guardare avanti fino al nostro

presente. La sua grande intuizione, che legava inmodo indissolubile in un solo lemma il drammadegli armeni nel 1915 e quello della Shoah - dicui lui aveva ben colto, prima di ogni altro, leprofonde analogie - guardava certo al passato eal presente insieme ma, in modo profetico, an-che al nostro oggi. Chissà cosa avrebbe pensatoLemkin, dunque, se avesse potuto vedere il ge-nocidio compiuto dai Khmer rossi in Cambogia, ilRwanda, Srebrenica, e ora anche il dramma incorso di cui sono vittime gli Yazidi. Come dimo-stra il suo acume nello scoprire e denunciare -oltre ai casi già menzionati dell’Olocausto degliarmeni e degli ebrei - anche l’Holodomor deglianni Trenta, «la distruzione della nazioneucraina», come lui l’aveva definita, non abbiamodubbi che nei nostri anni avrebbe trovato un en-nesimo, terribile riscontro alla sua intuizione,che ora è parte della coscienza e del vocabolariodi tutti noi, e di ogni lingua del mondo. Il suo ter-mine, inventato perché neppure la parola «atro-cità» era più sufficiente per esprimere l’orrore diAuschwitz, e adottato dalla convenzione delleNazioni Unite nel 1948, arriva così a investirenuovi contesti e aree geografiche assai vaste, eun’epoca diversa e lontana da quella in cui Lem-kin stesso si trovò ad operare. «Genocidio - hascritto lo storico Boris Barth - è quando un gran

numero di personevengono uccise permotivi razziali, etnicio religiosi. Come re-gola generale, l’ese-cutore è uno statoche ha l’intenzionedichiarata di annien-tare alcuni gruppi et-nici o religiosi. Cosìviene anche definitonella Convenzionedelle Nazioni Unite».

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gli Yazidi. Durante l’attacco alla piana di Ninive,l’Isis ha anche distrutto 19 santuari religiosi».

Il 3 agosto 2014 i miliziani dell’Isis non incontraronoquasi nessuna resistenza. I peshmerga curdi, comeriportano fonti yazide e lo stesso documento delleNazioni Unite, decisero di ritirarsi lasciando la po-polazione, non preventivamente avvertita, in baliadella violenza. Nel giro di poche ore, vinta con faci-lità la resistenza improvvisata da alcuni uomini neivillaggi, gli uomini dello Stato islamico assunsero ilpieno controllo della regione. Nella confusione diquelle ore, che videro migliaia di civili darsi allafuga senza neppure il tempo di raccogliere il mi-nimo indispensabile dalle loro case, un episodioparticolarmente drammatico investì coloro checercarono di trovare scampo sul monte Sinjar. Leggiamo ancora dal rapporto delle Nazioni Unite:

«Coloro che sono fuggiti in tempo per raggiun-gere l’altopiano superiore del monte Sinjar ven-gono assediati dall’Isis. Una crisi umanitaria haluogo non appena l’Isis intrappola decine di mi-gliaia di uomini, donne e bambini Yazidi, in unluogo dove le temperature superano i 50 gradi eimpedendo loro l’accesso all’acqua, al cibo o al-l’assistenza medica. Il 7 agosto 2014, su richiestadel governo iracheno, il presidente degli StatiUniti Barack Obama annuncia un’azione militareamericana per aiutare gli Yazidi intrappolati sulmonte Sinjar. Forze americane, irachene, inglesi,francesi, australiane vengono coinvolte in lanci diacqua e altre forniture agli Yazidi assediati. Iltutto mentre i combattenti dell’Isis sparano con-tro gli aerei impegnati nel lancio di aiuti, e controgli elicotteri che tentano di evacuare gli Yazidi piùvulnerabili. Centinaia di Yazidi - inclusi neonati ebambini - trovano la morte sul monte Sinjar

prima che le forze curde siriane, il Ypg (nome del-l’esercito kurdo della regione siriana di Rajava,ndr), siano in grado di aprire un corridoio dallaSiria al Monte Sinjar, consentendo agli assediatisul monte di essere spostati in sicurezza».

Uccisi, schiavizzati, dimenticatiLontano dal monte Sinjar, il progetto di sterminioviene portato avanti con uno stesso schema, villag-gio per villaggio, con rapidità sistematica. Una ri-petizione di atti e violenze che non lascia nulla alcaso e che rende evidente come quello commesso(e in parte ancora in atto) contro gli Yazidi sia ungenocidio e non una serie di massacri verificatisi inmodo spontaneo. In ogni luogo della regione, ven-gono divisi uomini, donne e bambini. I primi - cheincludono anche gli adolescenti dai dodici anni insu - vengono uccisi seduta stante o costretti a con-vertirsi all’islam, mentre le seconde, insieme ai lorobambini, vengono vendute come schiave. Non la-scia adito ad ambiguità la conclusione del rapportodell’Onu già citato: «L’Isis ha commesso e continuaa macchiarsi del crimine di genocidio, ma anche didiversi crimini contro l’umanità e crimini di guerra,contro gli Yazidi». Un riconoscimento importante, che però non è fi-nora riuscito a scongiurare o a alleviare il drammain corso. Private di un passato e di un futuro, moltemigliaia di Yazidi sono tuttora ridotte in stato dischiavitù nei territori dello Stato islamico, o accam-pate nei campi profughi di Siria, Turchia e Grecia.Qui, troppo spesso, i rifugiati si trovano privi deiservizi essenziali, senza che venga fornita loro l’as-sistenza medica e psicologica che potrebbe contri-buire a ridare loro un minimo di dignità e coraggio.

Simone Zoppellaro

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Le guide e le caste

In cima alla scala sociale e alla divisione per casteche caratterizzano la vita della minoranza yazidatroviamo due figure chiave, il Mir e il Baba

Sheikh. Il primo, il cui titolo potremmo tradurrecome «principe», assomma in sé il potere tempo-rale e quello spirituale. L’attuale Mir degli Yazidi èTahsin Said (nella foto), posto a guida del Consigliospirituale degli Yazidi, il Majlesi Rohani. Una figurache, secondo gli Yazidi, discende dalle sette entitàangeliche presiedute dall’Angelo Pavone. Con fun-zioni di guida spirituale, ma in realtà subordinatoal Mir anche da questo punto di vista è la figuradel Baba Sheikh. A rivestire questo ruolo attual-mente è Khurto Hajji Ismail. Questi presiede atutte le cerimonie più importanti della vita spiri-tuale della comunità, e in particolar modo a quelleche avvengono presso il sacro tempio di Lalish. En-trambe le figure sono parte della più importante

delle tre caste yazide, quella degli Sheikh. Sempreelevata, anche se per alcuni aspetti in subordine ri-spetto alla prima, è la casta dei Pir, gli «anziani».Anche questi, come gli Sheikh, ricevono un’elemo-sina in forma di una tassa dall’ultimo gruppo: i Mo-rid, i «discepoli», che sono tenuti a scegliere comeloro guida una figura per ciascuna delle due castesuperiori. Questi rappresentano la larga maggio-ranza della popolazione e non rivestono alcunaparticolare funzione rappresentativa. Le caste de-gli yazidi - che conoscono al loro interno ulteriori,complesse, sottoclassificazioni - sono perlopiù en-dogame, e vietano cioè il matrimonio fra gli appar-tenenti ai diversi gruppi sociali.

Si.Zo.

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Stoccarda. È una ragazza semplice, la can-didata al Nobel per la pace Nadia Murad,appena 23 anni, ma già donna simbolodella lotta degli Yazidi per la sopravvi-

venza. Nel condominio dove la incontro ad agosto,subito fuori Stoccarda, insiste per accompa-gnarmi giù dalle scale fino in strada per salu-tarmi, come si usa fare in Medio Oriente. Veste inmodo semplice, di nero, come semplici sono lepassioni di cui parla, dal calcio all’Italia, che ha vi-sitato da poco. Ed umile è anche il palazzo popo-lare in cui ci incontriamo, un alloggio per rifugiatidove risuonano di continuo le grida festanti deibimbi yazidi arrivati da poco dall’Iraq. Proprionon sembra di avere di fronte una delle 100 per-sone più influenti al mondo, secondo la classificadella rivista Time (aprile 2016). Eppure, fra i tantiincontri fatti in questi anni, quello con Nadia Mu-rad è stato di gran lunga quello che più mi ha col-pito. Dettagli: il tono della voce, calmo e ieratico,con cui mi racconta in lingua kurda l’epopea di or-rore che ha investito la sua famiglia e la sua gente.E poi quegli occhi profondi di chi ha guardato infaccia il male e la morte, di chi all’inferno è giàstata salvo riuscire a riemergervi e a tornare franoi. Miracolosamente.

Quell’estate del 2014Sulla sua pelle si scorgono piccole cicatrici, bru-ciature di sigaretta inflitte al tempo della schia-vitù cui l’avevano ridotta gli uomini dell’Isis. An-che la postura chiusa del suo corpo racconta inmodo inequivocabile delle violenze subite. Ep-pure, mentre si lascia fotografare, sorride se-rena, quasi pacificata. Ho davanti a me una ra-gazza con una calma e una forza fuori dal co-

mune, dolce e insieme inflessibile, con qualcosa dioscuro, ma anche di caldo e materno. «Non ho maipensato di uccidermi, ma ho sperato che fosseroaltri a farlo», racconta, rievocando l’orrore dellasua lunga prigionia. Sì, perché Nadia Murad inquei giorni dell’agosto 2014 ha visto morire da-vanti a lei sei suoi fratelli, diciotto familiari, elarga parte degli abitanti del suo villaggio, Kocho,stretto d’assedio dai mili-ziani dell’Isis. Nei due anni e mezzotrascorsi da quell’e-state del 2014, l’attivi-sta yazida è stata co-perta di onori per ilsuo coraggio e la suadeterminazione. Can-didata al Nobel per lapace, ambasciatricedi buona volontàdelle NazioniUnite per ladignità deisopravvis-suti allatratta di es-seri umani

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A destra: una commossa Nadia Murad con Ban Ki-moon,l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, a Istanbul il24 maggio 2016.

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Rapita, venduta, violentata dagli stupratori dell’Isis, Nadia Murad, oggi 23enne, è ladonna simbolo della lotta degli Yazidi. Divenuta mondialmente conosciuta, riempita diriconoscimenti, lei chiede che questa attenzione si trasformi in aiuti concreti per il suopopolo ferito e disperso.

Storia di Nadia,da schiava ad ambasciatrice DI SIMONE ZOPPELLARO

INCONTRO CON NADIA MURAD

© UN Photo / Eskinder Debebe

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e ancora vincitrice del Premio Václav Havel per idiritti umani, conferitole dal Consiglio d’Europa, edel Premio Sakharov per i diritti umani, assegna-tole dall’Europarlamento, insieme a Lamiya AjiBashar.

Donne e bambine in balia dei milizianiGrandi onori e attenzioni da parte dei media ditutto il mondo. Eppure, con una lucidità e una fer-mezza sorprendente, mi racconta tutta la sua soli-tudine, l’impotenza e la disperazione di fronte aldramma della sua gente. «Non ho alcuna speranza», confessa Nadia, a dueanni esatti dal genocidio. «La mia comunità è invia di estinzione. Il 90% dei nostri sopravvissutivivono dispersi in campi profughi. Abbiamo an-cora migliaia di bambini tenuti come schiavi dal-l’Isis, e quanto ai pochi che sono riusciti a fuggire,nessuno se ne occupa. Oggi siamo dispersi in giroper il mondo, e i nostri villaggi - anche quelli libe-rati - sono distrutti e non possiamo farci ritorno.La nostra sola, piccola speranza è la comunità in-ternazionale. Senza il loro aiuto, per noi non c’èfuturo». Secondo le cifre fornite da Yazda, l’ong yazida,sono 5.000 gli Yazidi che hanno perso la vita permano dell’Isis, mentre altri 7.000 sono stati rapiti.

Un computo ancora incerto, purtroppo, comegrandi sono le incertezze circa il possibile ritornoin patria dei sopravvissuti, anche una volta che ilDaesh sia stato debellato. Nadia Murad era unaragazza di 19 anni, una studentessa, il giorno incui la storia ha fatto irruzione nella sua vita, stra-volgendola per sempre. «Dopo che hanno preso noi donne dal villaggio -racconta Nadia -, ci hanno raccolte e messe in-sieme a centinaia di altre ragazze provenienti daaltri villaggi del Sinjar. Abbiamo chiesto loro cosaci facessero lì e cosa fosse successo loro. Ci hannorisposto che venivano picchiate ogni giorno e cheogni giorno venivano a scegliere alcune di loro perabusarne in diversi modi, inclusi stupri di gruppo.Poi ci prendevano per portarci in stanze dove imilitanti dell’Isis venivano, ci guardavano e sce-glievano le ragazze che volevano portarsi via.Questo capitava a bambine e donne dai 9 ai 60anni. E così è capitato a me. Ci prendevano e ciobbligavano a convertirci, portandoci alla Corteislamica di Mossul. Lì venivamo registrate comeschiave, senza alcun diritto, a differenza delle loromadri, mogli e figlie. Ci spartivano fra loro e abu-savano di noi. Inoltre, dovevamo servirli».All’origine del suo salvataggio, avvenuto dopo unprimo tentativo di fuga fallito - cui era seguita una

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© Meabh Smith / Trocaire

La diaspora

Uno dei pericoli maggiori che si trova oggi adaffrontare la comunità yazida è quello dellasua dispersione. Un fenomeno non nato in

questi ultimi anni, ma che ha conosciuto di re-cente una spaventosa accelerazione. Questa,unita al numero esiguo dei suoi membri, e all’as-senza pressoché totale di centri di potere econo-mico, politico o religioso che possano supportarla,rischia di condannare la minoranza in questione auna rapida scomparsa. Difficile, anche a causadella situazione in divenire e della dispersione,avere un’idea chiara di quanti siano effettiva-mente gli Yazidi. Si stima che, prima dell’invasionedell’Isis, se ne trovassero in Iraq fino a un massimodi mezzo milione. Altri insediamenti storici di que-sta minoranza, con numeri assai più ridotti, si tro-vano in Siria, in Turchia, in Russia e nel Caucasodel Sud, ovvero in Georgia e Armenia. In quest’ul-timo paese, dato il notevole numero di profughi ela buona integrazione nella società che li accoglie,è in via di costruzione - caso unico al mondo - untempio yazida. Il paese europeo che più ha apertole porte ai membri di questa minoranza persegui-tata è stato senza dubbio la Germania, dove si tro-vano oggi oltre 100.000 Yazidi. Qui, prima e inmaggior misura che altrove, è stato possibile av-viare programmi di riabilitazione anche psicolo-gica per i sopravvissuti allo sterminio e per le

donne yazide che hanno subito violenze. Oltre allaGermania, altri paesi europei che li hanno accoltisono, per esempio, Francia, Gran Bretagna eOlanda. Al di fuori del nostro continente, il Canadasembra aver deciso di recente di seguire l’esempiodella Germania nel fornire asilo e assistenza aiprofughi yazidi.

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punizione crudele - è l’opera di una famiglia di giu-sti che le offre aiuto e protezione, a rischio dellaloro stessa vita. Questi forniscono infatti alla Na-dia documenti falsi, in cui risulterebbe essere unaloro parente, moglie di loro figlio. Con un velo euna veste integrale islamica riesce così a fuggire ea rifugiarsi in Kurdistan, al sicuro. Finiscono così i tre mesi di prigionia e tortura acui, a differenza di tante altre donne yazide, è ri-uscita a sottrarsi. Da lì, poi, muoverà in Germa-nia, a Stoccarda, dove riceverà aiuto e assistenzae dove avrà inizio il suo impegno politico per il ri-conoscimento del genocidio yazida. Certo, avevaaltri sogni nella vita, Nadia, prima di quell’agosto:diventare un’insegnante di storia o una trucca-trice, racconta.

Tanti premi, nessun impegno concretoNe siamo certi, non esiste premio al mondo, perquanto prestigioso, che possa consolarla dellaperdita della sua vita di un tempo, scomparsa nelgiro di pochissimi giorni.Quella vita semplice di cui racconta, pur segnatada povertà e stenti, resta impressa nella sua me-moria come simbolo di una felicità perduta, quasiun idillio. Oggi l’indifferenza del mondo sembranon darle pace. Un muro di gomma, quello che sitrova ad affrontare ogni giorno, fatto di grandieventi e onori, di premi, immagini e marketing,ma di nessun impegno e sostanza politica. La ve-rità - e Nadia lo sa benissimo - è che nessuno livuole, i sopravvissuti yazidi. Nessuno vuole pren-dersi l’onere e l’onore di aiutare questa gente. Inun’Europa che - pur di tenersi lontani i profughi -è persino disposta a finanziare lautamente regimiliberticidi, dalla Turchia alla Libia. Degli Yazidinon importa nulla a nessuno. O quasi a nessuno.E non sarà un caso allora, come mi ha raccontatola stessa attivista yazida, che una felice eccezionesia costituita dal Land tedesco del Baden-Würt-temberg, guidato dal governatore verde WinfriedKretschmann. Cattolico praticante, proveniente lui stesso da unafamiglia di profughi rifugiatisi nel Sud della Ger-mania al tempo della seconda guerra mondiale,Kretschmann ha voluto impegnarsi di personanon solo per accogliere, ma anche per fornire assi-stenza medica e psicologica alle vittime yazide.Certo si tratta solo di un timido barlume in unmare di tenebra. Eppure, per questo piccolo po-polo, anche i 2.500 bambini e donne traumatizzatiaccolti e curati in questo Land rappresentano unagrande conquista, e una speranza per il domani.O, forse, molto di più: il sogno di un domani an-cora possibile che si concretizza per gli adoratoridell’Angelo Pavone e per i loro figli, là dove solo

morte e orrore sembravano possibili. E qui, inquesto piccolo segnale di un’umanità ritrovata,scopro forse il segreto di Nadia Murad, della suaineluttabile forza.

Simone Zoppellaro

YAZIDID

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FONTI E BIBLIOGRAFIA• Patrick Cockburn, L’ascesa dello stato islamico. ISIS, il ritorno

del jihadismo, edizioni Stampa Alternativa, 2015.• Christine Allison, Yazidis, voce dell’Encyclopædia Iranica pub-

blicata dalla Columbia University e disponibile online, 2004. • Gianfilippo Terribili, Via della seta. In pellegrinaggio con gli

Yazidi, 2 settembre 2015, Atlante, rivista del portale Treccani. • Giuseppe Furlani, Gli adoratori del pavone. I yezidi: i testi sacri

di una religione perseguitata, ed. Jouvence, 2016.• Simone Zoppellaro, La guerra agli yazidi sul corpo delle donne,

9 agosto 2016, il Manifesto.• Claudia Ryan, Hana la Yazida. L’inferno è sulla Terra, Edizioni

San Paolo, 2016.

SITOGRAFIA• www.yazda.org

Il sito dell’omonima organizzazione degli Yazidi.• www.nadiamurad.org

Il sito ufficiale di Nadia Murad.

QUESTO DOSSIER È STATO FIRMATO DA:• SIMONE ZOPPELLARO - Nato a Ferrara, è giornalista free-

lance. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran,l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni comecorrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». I suoiarticoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste na-zionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda,dove vive. Per MC ha pubblicato i reportage su Nagorno Kara-bahk (agosto 2016) e Armenia (ottobre 2016).

• A CURA DI: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

• FOTO DELLE COPERTINEIn prima di copertina: Nadia Murad, insignita del Premio Sa-kharov per i diritti umani, parla a Strasburgo davanti al Parla-mento europeo il 13 dicembre 2016. In ultima di copertina:profugo yazido nel campo di Nea Kavala, vicino a Polikastro, nelNord della Grecia (agosto 2016).

A destra: le yazide Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar (in secondopiano) con Martin Schulz, ex presidente del Parlamento europeo,durante la cerimonia del 13 dicembre 2016.

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