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GLI AMANTI DELLE SILFIDI:
gli spiriti elementari di Paracelso, dell’abate Montfaucon de Villars e del medico ed avventuriero Borri.
Massimo Marra - saggista
Paracelso. I tozzi nani e gli aerei elfi tolkienani dalle saettanti frecce, recentemente riportati alla ribalta dal
cinema, sono parenti stretti di diverse entità elementali - ovvero variamente legate ai quattro elementi - che, partendo da quell’immenso serbatoio di simboli ed archetipi che è il patrimonio folklorico,
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hanno variamente percorso la letteratura occidentale. Tra queste creature, in una dimensione immateriale ed invisibile, vi sono gli gnomi, le salamandre, gli ondini ed i silfidi. Nel corso dell’era
moderna, a più riprese, diversi autori hanno trattato di queste presenze invisibili. Proviamo a ripercorrere le tappe principali della storia e della fortuna letteraria di gnomi, ondini, silfidi e
salamandri, percorrendo le pagine e le vicende di autori noti e meno noti. La figura gigantesca e potente di Paracelso (1494-1541),
attraversa il rinascimento con la potenza di un uragano. Mescolando alchimia, magia, medicina colta, tradizione filosofica
e tradizione folklorica, l’immensa opera paracelsana crea una miniera, un bazar culturale sconfinato e rivoluzionario, di cui
ancor oggi non sono ben chiari i confini. L’opera di revisione e ridiscussione delle concezioni scolastiche operata da Filippus
Aureolus Theofrastus Bombastus von Hohneheim, travalicando l’opera del medico, alchimista e mago, sconfina nell’etica, nella
politica, nella teologia, nella mistica, con il linguaggio provocatorio e vibrante del visionario, del folle, del profetico
arringatore degli spenti rappresentanti di una cultura ufficiale che egli vive come asfittica e morente.
Il piccolo popolo degli elementi, il mondo dei salamandri, degli gnomi, degli ondini e dei silfidi, proveniente, in varie forme e
coloriture, dalla cultura e dal folklore dei popoli centroeuropei, fa il suo primo ingresso nella letteratura magica proprio nell’opera
di Paracelso.
Il De Nymphis, Sylphis, Pygmaeis et Salamandris et coeteris spiritibus (1), è stato più volte ristampato nelle opere del medico-mago, spesso
mescolato o in appendice ai trattati filosofici e scientifici.
E’ questa la prima fonte in cui incontriamo, nella storia letteraria occidentale, il nascosto popolo degli elementi.
Vediamo in dettaglio cosa ce ne dice Paracelso.
«Mi propongo d’intrattenervi sulle quattro specie d’esseri di natura spirituale, cioè le Ninfe, i Pigmei, i Silfi e le Salamandre
(2); a queste quattro specie, per la verità, bisognerebbe aggiungere i Giganti e parecchie altre. Questi esseri, benché
abbiano apparenza umana, non discendono affatto da Adamo; hanno un’origine del tutto differente da quella degli uomini e da
quella degli animali....Però si accoppiano con l’uomo, e da questa unione nascono individui di razza umana».
Nella visione paracelsiana vi sono due nature: una è quella umana, spessa, palpabile e sensibile, mortale, l’altra quella
spirituale, impercettibile, eterna. Tra queste due vi è la natura intermedia, partecipe delle altre due, che, in un assottiglimento
progressivo fino all’invisibile, sembra collegare i diversi piani della creazione divina. « Quest’ultima natura partecipa di quella dell’uomo e di quella dello spirito, senza diventare natura né di questo né di quella: infatti gli esseri che appartengono ad essa non potrebbero essere classificati con gli uomini, perché volano
alla maniera degli spiriti; ma neppure potrebbero essere classificati con gli spiriti, perché evacuano, bevono, hanno carne
ed ossa alla maniera degli uomini. L’uomo ha un’ anima, lo
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spirito non ne ha bisogno; le creature in questione non hanno affatto un’anima e tuttavia non sono simili agli spiriti: questi non
muoiono, quelli muoiono. Queste creature che muoiono e non hanno un’anima, sono dunque animali? Esse sono più che
animali: infatti parlano e ridono, cosa che questi non fanno. Di conseguenza, si avvicinano più agli uomini che agli animali.
Però, esse si avvicinano agli uomini senza divenire tali...
Si può anche dire che sono superiori agli uomini, perché sono inafferrabili come gli spiriti; però bisogna aggiungere che il
Cristo, nato e morto per riscattare gli esseri dotati di anima e discendenti da Adamo, non ha riscattato queste creature che
non hanno un’anima e non discendono da lui.
Nessuno deve stupirsi o dubitare della loro esistenza. Si deve solo ammirare la varietà che Dio mette nelle sue opere. Per la verità di questi esseri non se ne vedono ogni giorno, ed, anzi,
non se ne vedono che raramente. Io stesso non li ho visti che in una specie di sogno....
Esse sono prudenti, ricche, sagge, povere, folli come siamo noi. Sono l’immagine rozza dell’uomo come l’uomo è l’immagine
rozza di Dio....
Questi esseri non temono né il fuoco né l’acqua. Sono soggetti alle malattie ed alle indisposizioni umane. Muoiono da bestie e la loro carne va in putrefazione come quella animale.
Virtuosi o viziosi, puri o impuri, migliori o peggiori, come gli uomini, essi ne hanno le abitudini, i gesti, il linguaggio; come
loro differiscono per la taglia e l’aspetto, vivono sotto una legge comune, lavorano con le loro mani, tessono i loro abiti (3), si
governano con saggezza e giustizia, danno prova di raziocinio in tutto... E poiché sono privi di anima non pensano a servire Dio né a seguire i suoi comandamenti; soltanto l’istinto li spinge a
comportarsi onestamente. ».
Dotati di organizzazione sociale e di naturale orizzonte etico, i diversi popoli vivono naturalmente nel proprio elemento di
pertinenza, in un infallibile equilibrio cosmico. Gli ondini, vivono nell’acqua, i salamandri nel fuoco, gli gnomi nella terra e i Silfidi nell’aria. Così come noi possiamo meravigliarci di pensare agli
ondini che vivono nell’acqua, o agli gnomi che vivono nella terra, così essi si sorprendono nel guardare noi, le nostre abitudini ed i nostri costumi. L’armonia perfetta di ogni popolo con il suo Caos,
fa si che queste creature possano, nell’ambito del proprio elemento, muoversi senza difficoltà alcuna. Anche gli gnomi, che vivono nella terra, e che dunque, risiedono in un caos spesso, essendo
sottili, la attraversano senza alcuna difficoltà. Gli uomini, al contrario, che vivono in un caos sottile, come è l’aria, sono assai
più spessi. E’ evidente che il caos delle diverse specie, confina con quello delle altre. Così gli Gnomi, che hanno come caos la terra,
avranno sotto di sé la terra, e sopra l’acqua. Gli ondini hanno 3
sopra di sé la terra e sotto il cielo. E così via.
Le specie elementali possono vivere senza difficoltà nel caos dell’uomo, poiché esse sono di natura sottile. L’uomo, di natura troppo spessa, non potrebbe sopravvivere in elementi anch’essi
spessi come l’acqua e la terra.
Ognuna delle specie ha un proprio firmamento:
«Gli Gnomi vedono il sole, la luna e le stelle attraverso la terra, parimenti, le Ondine scorgono il sole attraverso l’acqua, le
Salamandre lo vedono fecondare e riscaldare il loro caos, e riportare l’estate, l’inverno, il giorno, la notte...».
La specie più simile all’uomo – e, a partire dalle affermazioni di Paracelso, si direbbe, la più rozza - è quella dei silfidi, che
condivide lo stesso caos della razza umana, l’aria.
L’apparente somiglianza con l’umanità, tuttavia, non tragga in inganno sull’apparenza prodigiosa e straordinaria di queste
diverse specie di esseri. Infatti, in genere, gli gnomi e i salamandri sono scambiati per spiriti, poiché appaiono in una forma brillante e splendente. Essi sono tenui ed agili come gli
spiriti incorporei. Il loro sangue e la loro carne sono di sostanza luminosa. Per Paracelso, le fiammelle che alle volte si vedono
danzare di notte sui campi, sono proprio gnomi, e non fantasmi e spiriti vaganti, come pensa il volgo.
Gli ondini spesso, lasciano il loro elemento per contattare l’uomo, parlargli ed unirsi carnalmente a lui. Essi condividono lo
stesso linguaggio con gli Gnomi, i quali a loro volta, talvolta contattano l’uomo, ma si contentano di servirlo, e, se l’uomo si
comporta con loro onestamente e se mantiene le promesse fatte, non esitano a coprirlo dei tesori e delle ricchezze di cui
essi sono custodi nelle viscere della terra. Ma la ricchezza dispensata dagli gnomi deve essere sperperata, non
tesaurizzata, o le piccole entità cesseranno la dispensazione dei loro preziosi favori.
I silfidi, che non conoscono il nostro linguaggio, sono il popolo più timido. I Salamandri parlano poco, frequentano poco l’uomo e preferiscono le vecchie e le fattucchiere. Chi salisse sul monte Etna, potrebbe facilmente sentire le grida ed i rumori delle loro attività, l’inquieta operosità che agita il loro elemento. Possono essere infidi, e, talvolta, ricettacoli del Maligno. Questi, infatti,
alle volte penetra nel corpo di gnomi e silfidi, specie delle femmine, inducendo parti abortivi e provocando nascite di bimbi
malati.
Gnomi ed ondine servono bene l’uomo, e volentieri entrano in contatto con lui, ma se maltrattati in vicinanza del loro
elemento, spariscono prontamente. Lontano dal loro elemento, invece, subiscono anche i maltrattamenti che l’uomo può voler
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infliggere loro.
Ma per quale ragione, talvolta, questi esseri nascosti si palesano all’uomo, cosa li spinge ad entrare in relazione con i figli di Adamo? Per qual ragione, soprattutto, essi ricercano
l’amore dell’uomo? Paracelso continua:
«Abbiamo detto che questi esseri potrebbero avere rapporti carnali con gli uomini ed averne dei figli. Questi figli sono di
razza umana, perché il padre, essendo uomo e discendente di Adamo, dà loro un’anima che li rende somiglianti a lui, e sono eterni. Io credo che la femmina che riceve quest’anima con il
seme sia, come la donna, riscattata dal Cristo. Noi non perveniamo al regno divino se non quando comunichiamo con Dio. Similmente, questa donna non acquista un’anima fino a
quando non conosce un uomo. Infatti, chi è superiore comunica la sua virtù a chi è inferiore. Ecco, quindi, un’altra ragione
dell’apparizione di questi esseri; essi chiedono il nostro amore per elevarsi, come i pagani chiedono il battesimo per acquisire
un’anima e rinascere con il Cristo.».
Ma il rapporto con le ondine non è privo di rischi. Se tradite senza permesso, esse ricompaiono all’improvviso ed uccidono
senza pietà l’amante umano infedele. Inoltre, il legame che instaurano con i loro amanti è talmente profondo e forte, che il loro destino si riflette prontamente su quello dell’amante. Se esse soffocano o patiscono, anche il loro sposo soffocherà e patirà. Se esse muoiono, anche lo sposo morirà. Il legame si
scioglie solo con il consenso unanime delle due parti.
Gli elementali di Paracelso, emersi dalle nebbie del folklore e dignificati da considerazioni e rivelazioni al confine tra filosofia
ed immaginazione pura, dispersi nella vasta e variegata produzione attribuita al grande mago rinascimentale, non
sembreranno riscuotere rilevante attenzione per ancora un po’ di tempo. Bisognerà attendere, più di un secolo dopo,
l’immaginazione e la brillante sornioneria di un travagliato sacerdote francese, perché salamandri, gnomi, silfidi e ondini ritornino alla ribalta, divenendo un fenomeno culturale di cui troviamo tracce anche nella successiva letteratura europea.
L’abate Nicholas Henry Montfaucon de Villars, fu, stando alle testimonianze pervenute in nostro possesso, se non uno degli spiriti più alti, ascetici e filosofici dei suoi giorni, senz’altro uno
dei più divertenti e brillanti. Pur circondata da un alone di dissolutezza e disordine, la breve vita di questo strano
personaggio, così come ci è pervenuta negli scorci biografici offertici dai suoi contemporanei, è tutt’altro che monotona e
prevedibile.
Nicholas sembra, anzi, far di tutto perché ogni previsione sul suo conto naufraghi miseramente.
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Discendente di un antico e nobile casato, che non ha mancato di offrire nomi illustri alla storia di Francia, nato nel 1635 nei possedimenti di famiglia, nei dintorni di Tolosa, la vita di De
Villars sembra da subito felicemente preordinata ad una serena e soddisfacente riuscita.
Frequenta il seminario, e poi si addottora con profitto in teologia alla facoltà di Tolosa, città in cui, tra parentesi, inizia
con successo la sua attività pastorale di sacerdozio e predicazione.
Ben presto, intorno al 1667, egli si trasferisce a Parigi, dove ha in animo di portare a profitto le sue doti di uomo di cultura e
di studi nel sacerdozio. Sfortunatamente però, la cultura e l’intelligenza vivida di De Villars, si fondono ad un carattere di incostanza, frivolezza, mondanità. Il successo mondano negli
ambienti nobili e non della società parigina, mal si concilia con la vocazione e l’abito sacerdotale. Il giovane prelato si trova così alle prese con dei superiori poco inclini alla benevolenza nei confronti di un ecclesiastico che gira per i salotti frivoli, ed al
riguardo della cui condotta morale circola già più di un pettegolezzo. La vita dissipata, il gusto per la critica ardita e per
la letteratura frivola e romanzesca, l’immaginazione ardita, l’imprudenza e l’irruenza, sorrette da un temperamento brillante
che lo porta di sovente al centro dell’attenzione della vita parigina, sono tutte caratteristiche – o se si preferisce, dato il ruolo sacerdotale, limiti – che portano comunque il Villars ad applicare i propri mezzi intellettuali e culturali al servizio di cause e produzioni non sempre consone alla gravità ed alla
serietà dell’impegno religioso.
Così nel 1670 egli debutta col suo primo e più fortunato romanzo, Le Comte de Gabalis, ou entretiens sur les sciences secrètes (4). Il testo, piacevole ed arguto, non manca di assicurare pronta ed ulteriore fama all’autore. Per dirla con il compilatore della voce dedicata al nostro Villars nella Biographie Universelle di Michaud
«...nulla di più amabile che il carattere dato dall’abate de Villars a questo naïf ma sapiente e spirituale apostolo della magia. La parte che lo stesso autore sostiene nella conversazione è sul
tono di un’ironia talmente fine che dopo avere letto il libro molta gente non sa se egli abbia voluto celiare o se abbia invece
parlato seriamente ... » (5).
In realtà de Villars, nel descrivere i suoi elementali, non fa che saccheggiare a piene mani il trattato paracelsano. Le creature descritte nel Conte sono né più, né meno di quelle che l’arguto
sacerdote ha avuto la possibilità di leggere nell’opera del grande medico-mago. Nell’entusiasmo del successo dell’opera, però,
nessuno sembra accorgersi del prestito, e la cabala (6) del Conte appare la genuina ed originale satira di dottrine segrete e di
credenze inedite.
Pure, la fama dell’opera nuoce a quella dell’autore. Come 6
annota in seguito il compilatore della Biographie Universelle «...I credenti zelanti gli erano avversi poiché si era burlato di loro ed aveva parlato con irriverenza del terribile impero degli gnomi, dei silfidi e dei salamandri. Gli spiriti gravi pensavano che egli
avrebbe dovuto refutare seriamente la cabala, i cui errori attaccavano le basi stesse della fede. Essi non perdonavano ad
un ecclesiastico qualche gaiezza un po’ vivace sugli amori di silfidi e di demoni incubi con i saggi e con i santi: sulle
disavventure di Noè reso eunuco da suo figlio Cham «... mentre che il buon vegliardo era preso dal vino...». Infine i devoti
scusavano ancor di meno qualche tratto assai piccante contro i monaci e i dottori togati, senza parlare di due o tre passaggi che
suonavano molto male, in odor di deismo, come le parole a proposito del giansenismo: “ noi non sappiamo cos’è, e
disdegniamo di informarci in cosa consistano le sette differenti e le diverse religioni di cui si infatuano gli ignoranti: noi ci atteniamo all’antica religione dei nostri padri filosofi...”.
Come si vede il Villars fu assai abile nel confezionare un prodotto che dispiacesse ad una quantità di categoria diverse e
potenti, tutte in grado di screditarlo presso l’attenta autorità religiosa. Così, non ci si stupirà nel sapere che di lì a breve, il libro venne messo all’indice, ed il Villars stesso fu interdetto
dalla predicazione. Questo, tuttavia, non sembra minimamente frenare l’attività letteraria del giovane scrittore. (7).
Ma se l’attività letteraria e filosofica, stando al rapido succedersi delle date di pubblicazione ed al volume degli scritti del Villars, farebbe pensare ad una attività intellettuale se non sostenuta, almeno abbastanza intensa, e tale da non lasciare all’autore spazio per altre gravi preoccupazioni, nel seguire gli sviluppi della biografia dell’abate, non si può fare a meno di
rimanere ulteriormente stupiti.
Nel suo soggiorno Parigino Nicholas, infatti, si era già distinto agli occhi della polizia per la sua vicinanza ad ambienti di giovani irrequieti, dediti allo sbeffeggio del potere regale
attraverso la composizione e distribuzione di libelli contro il re e lo stato. Il giovane ha già subito un arresto ed ha già scontato
qualche mese alla Bastiglia nel 1661, ma tutto ciò appare davvero poca cosa se si tiene conto che, a pochi mesi di
distanza, i magistrati di Tolosa emettono un mandato di cattura per il brillante abate delle serate parigine, con un’infamante
accusa di omicidio. (8).
Le eccellenti coperture che consentirono al Villars di sottrarsi all’arresto e di continuare, paradossalmente, la sua vita pubblica
di intellettuale e polemista, non poterono però difenderlo da nemici meno prevedibili e controllabili della regia magistratura.
Nel 1673, lungo la strada per Lione, ad appena 38 anni, Montafaucon de Villars viene assassinato da ignoti. Forse
briganti, forse conseguenze nefaste e vendette dell’affaire de 7
Ferroul, forse altre inimicizie procurate nei movimentati anni di soggiorno parigino. Il delitto rimarrà impunito, e qualcuno,
inevitabilmente, non mancherà di ipotizzare, tra il serio ed il faceto, che forse il buon de Villars aveva incontrato lungo quella
solitaria strada, quei popoli elementari in collera per il suo scritto, o i misteriosi adepti della Rosa-Croce decisi a punirlo per
aver divulgato i loro segreti....
Ma la fortuna del Conte di Gabalì e dei popoli elementari descritti nei suoi dialoghi, sopravvivrà alla morte dell’autore.
Per avvicinarci alla struttura ed alla trama del libro, leggiamo cosa ne dice il prefattore dell’edizione del 1788 (9), l’editore
Charles-Georges-Thomas Garnier:
«... La favola del romanzo del Conte di Gabalì è semplice: si suppone che un famoso adepto che si chiama Conte di Gabalì, venga a trovare l’autore dall’interno della Germania, dove era abitualmente residente; egli crede di aver scoperto nell’autore
delle disposizioni naturali ai grandi misteri della cabala, e questa scoperta determina il nostro cabalista, non solo a fare un lungo
viaggio per venire a trovare questo nuovo saggio, ma a sviluppare nel neofita le conoscenze di questa scienza sublime e segreta fin nei suoi più intimi dettagli. Con questo presupposti, il
conte di Gabalì ha cinque conversazioni con l’autore, in cui spaccia al suo interlocutore, con un tono dogmatico e
sentenzioso, delle vere e proprie stravaganze. Talvolta la testa del cabalista si scalda, e delle vivide apostrofe alla divinità ed agli spiriti elementari provano un’immaginazione esaltata con
barlumi di ragione e di fondata filosofia che appaiono di tanto in tanto, provano che il visionario aveva originariamente un buono
spirito, che si è lasciato sedurre e guastare dall’amore disordinato per il meraviglioso...».
La cabala del Conte, consiste essenzialmente nell’entrata in relazione con le creature invisibili che popolano ed affollano gli elementi, gli elementali, i quattro popoli degli Gnomi, degli Ondini,
dei Silfidi e dei Salamandri. Di questi popoli e delle loro meraviglie, che poi, come già detto, sono essenzialmente
prelevate dal trattato paracelsano, ma di cui nel racconto di Villars apprendiamo altre ed inedite precisazioni e notizie,
vediamo cosa emerge dal commento riassuntivo di un altro commentatore:
«... E’ a Rueil, nel labirinto che Villars apprende da Gabalì i segreti dei geni cabalistici; fino ad allora egli aveva ignorato che
l’aria “ha degli abitanti ben più nobili degli uccelli e dei moscerini”, e che i mari “ben altri ospiti che i delfini e le
balene”; che “le profondità della terra non sono solo per le talpe” e che il fuoco, il più nobile degli elementi, non è fatto “per
restare inutile e vuoto”. Gli spiriti dell’aria, o Silfidi, sono “di figura umana”, “assai amanti delle scienze”, “nemici degli
sciocchi e degli ignoranti”. Le Silfidi, loro donne e figlie, hanno la 8
“bellezza mascolina” delle amazzoni. Nei mari e nei fiumi abitano gli Ondini, di molto inferiori per numero e grazia alle loro compagne, le Ondine. Nelle viscere della terra “verso il centro”, vivono gli “Gnomi, gente di piccola statura, guardiani di tesori,
miniere e pietre preziose “; essi hanno per spose le Gnome, il cui “abbigliamento è assai curioso”. Gli “abitanti infiammati della regione del fuoco” sono i Salamandri; li si vede raramente, e le
loro mogli e figlie più raramente ancora; ma i pittori e gli scultori che rappresentano le salamandre come “laide bestie” sono degli
“ignoranti”.
Tutti questi popoli elementari possono morire, come “le parti più pure dell’elemento che abitano” può dissolversi; ma
frequentando la razza umana, essi possono acquisire l’immortalità. Essi sono, dice Gabalì, nemici dei diavoli e dei
folletti, ed adoratori dell’”Essere Supremo”. Erano loro, secondo lo stesso interprete dei “Saggi”, “i Silfidi, i Salamandri, gli Gnomi
o gli Ondini”, che rendevano gli oracoli a Delfi ed a Dodona.» (10).
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L’incontro tra Gabalì ed il misterioso interlocutore in un’incisione tratta dall’edizione del 1788 del Comte de Gabalis curata dall’editore l’editore Charles-Georges-Thomas Garnier nell’ambito della raccolta Voyages imaginaires, songes, visions et romans cabalistiques, Amsterdam 1888.
Attraverso il commercio carnale con uomini e donne, nella più pura tradizione paracelsana, le entità elementari, acquistano
l’immortalità, e per questo fine ben volentieri si sottomettono al volere dei sapienti e li aiutano nel loro fine. La costruzione
immaginifica del Villars, coglie un’atmosfera propizia. La Francia di Luigi XIV parla dei misteriosi fratelli della Rosa-Croce, dei loro misteri e delle loro dottrine segrete. Sulle queste, in particolare, si favoleggiano le cose più diverse. L’alchimia e l’astrologia sono al centro degli interessi delle accademie culturali, ed anche dei
più frivoli salotti di corte (11).
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Immediatamente il tono satirico ma l’accuratezza di riferimenti e la competenza del Villars, inducono all’equivoco. Si
tratta di arguta satira ai fautori delle scienze segrete, o piuttosto, sotto la maschera della satira, si nasconde un cultore
e volgarizzatore della cabala magica e delle sue dottrine più segrete? Villars, alla fine del libro, non manca di ricusare ogni sospetto in merito ad una sua presunta condivisione delle idee
magiche esposte nel libro. Ma una mossa del genere, prevedibilmente, non fa che accrescere i sospetti in questione,
ed il Villars, per molti, è un seguace delle stesse dottrine che nel libro egli mette in ridicolo (12).
Tuttavia, qualunque sia il più intimo pensiero dell’autore in merito, fatto sta che gli elementali di Montfaucon danno luogo ad imitazioni ed ispirazioni letterarie molteplici. Ce ne parla il
Delaporte (13), con una rapida elencazione che forse, per render conto delle dimensioni dell’impatto del Conte nell’ambito
letterario francese del XVII e XVIII secolo, conviene riportare nei suoi passi salienti:
« ...Le Génies assistans, imitazione miserevole del Gabalì (14). Questi geni sono “degli angeli, ed angeli potenti” che “ si
pongono a nostri assidui direttori e vigilanti nell’ordine naturale e nella Politica”, grazie ai quali si riesce “nella guerra, nei negozi
e nelle arti”. L’autore cita una moltitudine di fatti bizzarri, attribuiti da lui a questi geni che rassomigliano abbastanza al
demone di Socrate ed ai folletti del Mogol....
... Le Gnome irreconciliable. Questo opuscolo contiene un trattato abbastanza strano sull’anima umana; uno gnomo vi profferisce una sequela di proposizioni poco ortodosse, ed il tutto viene poi interrotto dall’arrivo di “un inviato dai Saggi della Cina”; vale a
dire da un Silfide che si è fatto partire ... da Tonchino”, e che “ivi deve rientrare in pochi minuti”. (15) ....
... Nel 1681, Thomas Corneille e de Visé provarono ad introdurre questi geni degli elementi sulla scena comica.
L’argomento impresso alla loro commedia, in prosa, la Pierre Philosophale, riporta infatti tra i personaggi i popoli dei quattro elementi...anche il conte di Gabalì vi giocava il suo ruolo...
Alle soglie del XVIII secolo, grazie probabilmente ad un generale ritorno alle fiabe, i geni dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco riappaiono nelle pagine letterarie. Uno dei racconti più curiosi che conosciamo è del certosino che si firma Vigneul
de Marville. E’ il racconto di una serata presso il cartesiano Rohault. Lì, di fronte a Rohault, di Clerselier, suo padrino, e di Pecquet, altro amico di Descartes, un personaggio che Vigneul
de Marville non nomina, “rallegra la compagnia” spiegando come, attraverso i meravigliosi elementali, le bestie sono mosse
come automi. Vi sono, dice, i piccoli popoli degli elementi che “fanno funzionare tutte queste macchine... secondo le regole
della meccanica”. Perché le volgari salamandre non si bruciano 11
nel bel mezzo del fuoco di un braciere? E’ perché lo spirito del fuoco “fa funzionare” molto delicatamente “la macchina della
salamandra”. I Silfidi, allo stesso modo, animano e muovono gli uccelli, ma ciascuno secondo il suo carattere e seguendo la
disposizione degli organi, la diversa configurazione delle specie volatili: “Un silfide meditabondo si alloggerà nella macchina di
un gufo, di un barbagianni o d’una civetta: al contrario un silfide di umore gaio e che ami cantare canzoncine, si insinua in un
usignolo, in una capinera o in un canarino”.
Lo stesso per gli spiriti acquatici: “Un ondino che si compiace di nuotare nelle grandi acque, non manca di alloggiarsi in una balena e di condurla per tutto l’oceano. Un altro che ami fare
prodigi e conseguire grandi risultati attraverso piccoli mezzi, si piazzerà in una remora, il più piccolo di tutti i pesci, che è però
in grado di fermare un Galeone, che è il più grande di tutti i vascelli”. Gli ondini di umor dolce abitano nei laghi e nei fiumi....
...E gli gnomi? “Uno gnomo fiero si impadronisce di un corsiero di Napoli o un cavallo di Spagna”; uno gnomo crudele alloggerà una tigre o un leone; “uno burlone e faceto in una
scimmia o un gorilla”. Vi sono dei nani più sottili e più abili tra gli gnomi; costoro fanno muovere “ la macchina di una formica, di
una tarma, di un acaro”. I loro fratelli che risiedono nei corpi delle “bestie più grandi”, sono gelosi di questi microscopici motori; da ciò vengono le guerre tra gli insetti e gli animali
superiori...»
Confessiamo, nel leggere il commento riassuntivo del Delaporte per lo scritto del Vigneul de Marville, uno sbarazzino desiderio di leggere uno scherzo letterario tanto gustoso, che
ripropone provocatoriamente al meccanicismo cartesiano l’armamentario mitico e folklorico degli spiritelli elementari.
Purtroppo non siamo riusciti a reperirlo. Comunque la rassegna del Delaporte non si ferma certo qui. Gli spiritelli elementali
fanno capolino ne Les blue devils di Alfred de Vigny, nei Contes de Fées e nei Noveaux contes de Fées di Madame de Murat.
Ed ancora: «Hamilton adorna i suoi racconti di questo piccolo mondo invisibile. Il “piccolo gnomo” Poinçon è uno degli attori
principali del suo Bélier. ...La Motte fu probabilmente il solo poeta che ospita nelle sue rime questi geni, immagini diafane
dell’”umano animale”....».
L’elenco di Delaporte si conclude con il Rape of the lock, il poema di Alexander Pope che, non a caso, in traduzione italiana fu
allegato dal Principe de Sangro all’edizione italiana del Conte di Gabalì. Ma il XVIII secolo conosce almeno uno scrittore che sembra sfuggito all’attenzione del Delaporte (16), ovvero il
marchese D’Argens, uomo dalla vita avventurosa e dalle vicende complesse, che meriterebbe almeno, se lo spazio ce lo
consentisse, altrettanta attenzione di quella che abbiamo dedicato al Montfaucon de Villars.(17). Anche nelle sue Lettres
12
cabalistiques (1769), che pure ebbero discreta diffusione e successo, gnomi, ondini, silfidi e salamandre, sono protagonisti.
Ma la eco più importante degli elementari del Villars, quella proveniente da un nome, in quegli anni, di risonanza europea,
proviene dall’Italia, da un personaggio la cui vita avventurosa ed il cui nebuloso profilo, sembra far impallidire perfino quello
agitato ed irrequieto dell’abate francese.
Il signor Nicholas Lefevre, alchimista e chimico reale, dimostratore di chimica presso il Giardino Botanico di Luigi VIV, a Parigi, poi chiamato da Carlo II d’Inghilterra a dirigere i reali
laboratori di Saint.-James, membro illustre della Royal Society di Londra, nel quarto tomo del suo Cours de chymie, pour servir
d’introduction à cette science, [Paris, chez Jean Noel Leloup, 1702 (18)], nel trattare diffusamente diversi tipi di acque, dopo aver
parlato della rugiada di Maggio e delle sue proprietà, intrattiene il lettore sull’acqua piovana. Ecco cosa ce ne dice l’illustre uomo
di scienza: «L’acqua piovana, soprattutto quella del mese di Marzo, reclama qui il suo giusto posto. Essa è pregna di virtù femminili, tanto delle piante che degli altri corpi terrestri: è
fortificata dal sale volatile che esala dai corpi terrestri.....Qualcuno ha anche preteso che fosse un mestruo
universale, ed il famoso cavaliere Borri si è spinto tanto lontano che ne ha voluto fare ingrediente della Pietra Filosofale,
sostenendo che essa contiene in sé tutta la sostanza degli astri, e che è carica dello spirito universale del mondo, o mercurio dei Filosofi. Ma quest’artista non è riuscito, poiché i più abili filosofi
convengono sul fatto che non occorre un mestruo universale, ma piuttosto un mestruo salino per risolvere l’oro e trarne il germe o
semenza...».
Non ci occorre, in questa sede, mettere a confronto le opinioni riportate dall’illustre maestro, contemporaneo e collega
di Boyle, quanto piuttosto interrogarci sul quel famoso cavaliere Borri, l’artista di cui viene riferita la rilevante opinione, figura che,
pur notissima ai suoi contemporanei, ci lascia oggi moltissimi dubbi, e, soprattutto, pochi scritti scientifici di certa attribuzione, comunque poca cosa per legittimare una tal notorietà europea. Sembra quasi che la storia letteraria degli gnomi e dei popoli
elementari, si sviluppi interamente nelle produzioni di avventurieri e personaggi dalla storia complessa e travagliata.
Nel caso del Borri, è praticamente impossibile sintetizzare un percorso biografico che renda giustizia della travagliata ed in gran parte ancora indecifrabile esistenza di questo alchimista errante, anch’egli in amistà con silfidi, gnomi ed altre creature elementali. Proviamo tuttavia a dare comunque qualche notizia
sintetica, che ci aiuti ad inquadrare lo scrittore Borri e la sua vicenda.
Giuseppe Francesco Borri nasce a Milano nel 1630, figlio di una Savinia Morosini, che muore di parto dandolo alla luce, e di
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Branda Borri, noto e valente medico milanese.
Difficile e controversa figura di alchimista, medico e profeta messianico, il Borri, dopo una turbolenta formazione giovanile in quel seminario romano in cui aveva insegnato il grande gesuita,
neopitagorico e cabalista Athanasius Kircher, inizia, parallelamente ad una fortunata carriera di medico e di studioso
di alchimia, una fervida attività di predicazione e politica messianica – prima a Roma, poi a Milano - che lo porterà
rapidamente ad essere incriminato dall’inquisizione. Vicino agli ambienti quietisti che in quegli anni si diffondono in Italia,
fautore di una teocrazia universale retta dal papa, egli, condendo la sua predicazione di toni profetici ed estasi
visionarie, si autonominava prochristus, annunciatore e paladino dell’avvento di questa era felice di dominio universale del
papato che avrebbe riportato il mondo alla purezza del messaggio evangelico. Pare che ai suoi seguaci, che tra Roma e Milano spesso ne seguirono le sorti giudiziarie, egli mostrasse
una spada che gli era stata donata da S. Michele, a simbolo della sua investitura a paladine del nuovo avvento dell’era del Cristo.
Costretto a fuggire inizia una peregrinazione che lo porterà nelle principali corti d’Europa, dove tra un continuo alternarsi di
fortune e improvvisi rivolgimenti, di potenti amicizie ed altrettanto subdole inimicizie, consoliderà una solida fama
europea di medico ed alchimista. Conobbe e frequentò a lungo, ed in diverse occasioni, il milieu di intellettuali raccolto intorno
alla corte romana di Cristina di Svezia, fu stimato amico di scienziati di grande fama, come il danese Borrichius.
Nel 1670, egli viene arrestato in Moldavia, diretto verso la Turchia, e viene consegnato nelle mani dell’inquisizione romana, che già nel 1661 lo aveva condannato in contumacia ed aveva
pubblicamente appiccato e bruciato la sua effige ed i suoi scritti in Campo de’ Fiori a Roma.
Incarcerato a Castel S. Angelo, grazie alle sue abilità di medico ed alle sue potenti amicizie, riesce per alcuni anni ad ottenere una sorta di regime di
semilibertà che gli consente di esercitare la sua professione, studiare e frequentare i salotti romani, in cui, a dispetto della ignominiosa condizione di
condannato, la sua stella continua a risplendere, ma con l’elevazione al trono di Innocenzo XII nel 1691, ogni privilegio viene annullato, ed il Borri si ritrova
nuovamente in regime di carcere duro. Morirà pochi anni dopo, consumato dalle febbri, il 16 agosto 1695 nella sua cella a Castel S. Angelo.
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Incisione di P. Van Schuppen dal dipinto di F. Ovens, raffigurante il Borri.
Frontespizio dell’edizione originale del La Chiave del Gabinetto del Borri.
L’avventuriero, il profeta, l’alchimista e guaritore, sono stati definiti, per complessità e vicissitudini, precursori della figura
misteriosa di quel Cagliostro che, pochi decenni dopo, attraverserà con ancora più fulgida ed universale notorietà
l’Europa.
Di lui ci rimangono un certo numero di opere (19), ma l’opera che ci interessa in questa sede, però, è la sola Chiave del Gabinetto,
una raccolta di lettere di argomento alchemico, filosofico e cabalistico. Si tratta quasi totalmente di un plagio (20), se si
eccettuano, probabilmente, le lettere a contenuto più propriamente alchemico che Borri non avrebbe avuto alcuno
scopo di plagiare. Come la voce curata da S. Rotta del Dizionario Biografico degli Italiani non manca di sottolineare, le prime due lettere della Chiave sono una versione pressoché letterale del Conte di Gabalì del Villars, mentre l’ultima è “...una traduzione
fedele di De l’âme des Betes di A. Dilly, uscita a Lione nel 1676” (Dizionario Biografico degli Italiani cit., ed. Treccani, voce Borri). Per
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quanto riguarda le lettere cabalistiche, il misterioso adepto tedesco di Montfaucon diviene un altrettanto misterioso Danese (21). Questa è pressoché l’unica variante che si può incontrare
comparando le lettere della Chiave con i dialoghi del Conte. Pure, il testo, pur non conoscendo successive ristampe, ebbe una
rilevante diffusione e fu ben conosciuto negli ambienti occultistici fino ai secoli successivi. Nonostante la Chiave fosse un plagio evidente, il nome del Borri, già al centro di varie leggende misteriose, rimarrà indissolubilmente legato al destino letterario
ed occultistico dei popoli elementari. Non si commetta l’errore di considerare che il retaggio magico-
cabalistico si esaurisca agli autori esaminati entro il periodo compreso tra XVI e XVIII secolo. Ancora in pieno ‘900 molte
organizzazioni iniziatiche e molti scrittori di occultismo raccolgono la tradizione dei popoli elementari. Per rimanere
soltanto ai capiscuola consacrati dalla più diffusa notorietà, gli spiriti elementari sono presenti negli insegnamenti della teosofia
di Madame Blavatsky (22), così come negli insegnamenti di (23) e dell’ermetista italiano Giuliano Kremmerz
. Rimane da comprendere il senso di una sopravvivenza e di una longevità degli spiriti elementali all’interno della tradizione
cosmologica ermetica, che non è priva di relazioni con le istanze rigenerative ed esoteriche della magia colta.
Pochi decenni dopo Paracelso, il De occulta Philosophia del mago Cornelio Agrippa (1486-1535) sembra ridefinire, senza la dovizia
di particolari del trattato paracelsano, le presenze elementali all’interno di una precisa gerarchia che distingue le presenze
invisibili in tre grandi schiere: quella delle intelligenze Supercelesti, spiriti puri completamente e perfettamente
separati da ogni residuo di corporeità, “..che adorano e servono l’unico Dio, come loro fermissima e stabilissima unità o centro” e
che pertanto sono essenzialmente di natura divina, costantemente impegnati nell’adorazione dell’Altissimo ed
incapaci di influenzare direttamente la realtà materiale ed i corpi terreni e concreti. Questa schiera trasmette la luce suprema e
divina alla schiera immediatamente inferiore, quella dei demoni mondani, che non si occupano del culto divino «... ma sono
assegnati alle sfere del mondo, presiedono a ciascun cielo e a ciascuna stella... governano i segni, le triplicità, i decani, i
quinari, i gradi e le stelle fisse...». Sono i demoni mondani che governano i movimenti delle sfere, delle costellazioni e dei
pianeti, ed il delicato e complesso gioco di influenze che le stelle trasmettono sui corpi e sui destini terrestri. Agrippa ne precisa numero e competenze, e specifica che «...a ciascuna è stato
conferito un nome e sono stati attribuiti segni chiamati caratteri, che gli antichi adoperavano nelle invocazioni e negli incantesimi
e che incidevano sugli strumenti magici, sulle immagini, sulle lamine, sugli specchi, sugli anelli... dimodochè quando
operavano al sole facevano le loro invocazioni coi nomi del Sole e coi nomi dei demoni solari e così per le altre.».
La terza schiera, è appunto quella dei demoni propriamente detti, « specie di ministri sottoposti alle intelligenze superiori e
Un raro ritratto del mago ottocentesco Eliphas Levi, al secolo l'abate Alphonse Louis Constant.
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preposti al governo delle cose terrene che Origene definisce virtù invisibili capaci di disporre le cose di quaggiù; poiché difatti senza che le vediamo ci conducono spesso nei nostri viaggi ed
affari e si trovano spesso nei combattimenti e fanno ben riuscire i loro amici con soccorsi che danno insensibilmente... Questi
demoni sono distinti in più specie, sia secondo i quattro elementi, aria, acqua, fuoco e terra, sia secondo i quattro poteri
delle anime celesti, mente, ragione, immaginazione e natura vivifica o motrice. Perciò i demoni del fuoco seguono la mente delle anime celesti e contribuiscono alla contemplazione delle
cose più sublimi; i demoni dell’aria seguono la ragione e favoriscono la potenza razionale, allontanandola in qualche modo dalla potenza sensuale e vitale e indirizzando alla vita
attiva.... i demoni dell’acqua seguono l’immaginazione e il senso e indirizzano alla vita voluttuosa; i demoni della terra seguono la natura e stimolano la facoltà vegetativa....Alcuni di tali demoni
somigliano tanto all’uomo, tanto gli sono familiari da essere perfino soggetti alle passioni umane...”.
I demoni elementari del De Occulta Philosophia, fin qui, a partire dalla coloritura astrologica che si estrinseca nelle ulteriori
suddivisioni di queste tre categorie in sottocategorie legate ai punti cardinali, ai pianeti ed alle stelle, sembrano abbastanza
diversi, a prima vista, dai popoli elementari di Paracelso. I demoni di Agrippa – il mago ne elenca circa una trentina di
diversa natura - sono potenti, onnipresenti nel loro elemento, e presiedono alle diverse sfere materiali ed immateriali della
realtà. Non hanno bisogno dell’uomo, ma, anzi, in qualche modo ne governano le sorti. Essi non sono soggetti alle influenze delle
stelle, ma anzi le comandano, e rendono conto del proprio cielo sopramondano. Ma tale differenza si attenua
notevolmente quando si considera l’impianto teorico generale entro cui si muovono i popoli di Paracelso ed i demoni del De Occulta Philosophia. Entrambi, infatti, possono essere indotti ad
eseguire la volontà umana (è per questo che i demoni di Agrippa hanno nomi e caratteri da utilizzare nella pratica evocatoria). Da
questo punto di vista la prigionia coatta che si adombra in Paracelso quale possibilità per l’uomo di procurarsi i servigi degli
elementali, equivale alla formula cerimoniale evocatoria di Agrippa.
Un celebre ritratto di Madame Balvatsky.
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Il magista napoletano Giuliano Kremmerz (Ciro Formisano).
Sia i demoni di Agrippa che gli elementali di Paracelso somigliano all’uomo, ne hanno le passioni e la personalità. In più, i demoni del terzo ordine descritti nel De Occulta Philosophia, hanno un corpo sensibile, variamente visibile a seconda delle impurità terree, sono attratti dalle donne umane e ne ottengono i favori.
Inoltre, i demoni di Paracelso nelle narrazioni del Villars, non sono subordinati che ai saggi, ovvero agli iniziati, conservando
intatta la loro carica di potenza nei confronti del volgo. Si tratta dunque, nel caso degli elementali di Paracelso e dei demoni di
Agrippa, di una omogenea concezione del cosmo, entro cui trovano il loro posto e la loro funzione le semi-invisibili entità degli elementi, con un ruolo ben preciso che non può essere
estraneo alle prospettive soteriologiche e rigenerative del sapere magico ed alchemico.
Ci rimane appunto da inquadrare il modo in cui tali dati si fondevano con l’universo mitico e la ricerca interiore
dell’alchimia e della magia colta, il rapporto complesso che lega l’apparenza superstiziosa della gabala di Villars e Borri al
cammino eroico di rigenerazione che deve compiere l’ermetista, il mago realizzato. In poche righe, a questo proposito, un altro
grande alchimista ed ermetista italiano fiorito a cavallo tra XVI e 18
XVII secolo, il nobile romano Cesare Della Riviera, ci offre una interessante chiave di lettura. Nel Mondo Magico de gli Heroi (1605),
che citiamo nella versione curata da Evola., nell’ambito della realizzazione magico-alchemica compiuta dall’heroe il Della
Riviera accenna alla percezione spirituale degli aspetti occulti della natura. Il corsivo inserito nella citazione è nostro :
«...Parimenti rossa è la Terra magica, e rosso ne è altresì il sangue, come si disse altrove. Questo sangue è la pinguedine,
cioè il limo terreo di cui Iddio, nostro primo padre ci compose, e del quale consta il nostro piccolo Mondo. Quanto poi alle varie forme
che si celano in questo, esse sono la tanto ammirata invisibilità dei maghi. Nondimeno è verissimo che la vera e santa Magia sarebbe in
parte inferiore a quella falsa e diabolica, se essa non giungesse a rendere visibili le suddette forme [ ... ] Ma poiché ogni dono che
venga dall’alto dal Padre dei Lumi è - come attesta il glorioso Giacomo - perfetto [ ... ] come tale esso potrà rivelare
perfettamente le varie forme contenute che si mostrano non come prestigiose e apparenti, ma come reali, consistenti e palpabili....».
Per ottenere ciò, l’eroe dovrà faticare assai più che non utilizzando la magia diabolica e falsa, che si serve però di
demoni fraudolenti.
Dopo aver descritto le metamorfosi magiche che la materia subisce sotto gli occhi dell’eroe ermetico, Della Riviera continua :
«... Finalmente nel nostro Mondo magico non solo si manifestano le specie corporee, ma si rendono visibili anche quelle
incorporee. Il detto mondo viene formato dall’eroe secondo l’ordine che segue.
Dalla materia prima, vale a dire dalla prima terra magica, egli trae con mirabile artificio spagirico e con sottile arte pironomica tutte le specie elementali e corruttibili: il Mondo elementare. Da questo vengon poi tratte con esattissima diligenza le specie celesti e incorruttibili [ ... ] formate tutte le specie elementari e celesti si viene per ultimo alla formazione delle altre, interamente perfette, che,
[ ... ] posson dirsi specie intellettuali e menti magiche disciolte...».
Il contatto palpabile con le specie elementari è dunque parte del procedimento alchemico, frutto di un “mirabile artificio spagirico” e “sottile arte pironomica”, percezione spirituale
interna all’itinerario individuale di quella separazione dei misti che è alla base della grande opera.
Silfi, gnomi, ondine e salamandre sono dunque precipitati simbolici, ipostasi individuate dell’essenza degli elementi che
l’alchimista-mago purifica. Prodotti reali dell’opera ermetica, del contatto dell’artefice con la materia prima. Essi sono palpabili come
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palpabile è il mercurio fissato dall’azione ignea dello zolfo alchemico, come palpabile è lo splendore invisibile che guida l’artista verso la pietra, come palpabile effettivamente è, per
l’alchimista, la fitta rete di correlazioni ed analogie che unisce il visibile all’invisibile, il solido all’etereo. Nel processo del solve et
coagula, in sostanza, nello sciogliere le impurità ed i legami grossolani della materia bruta e nel coagulare le forme
energetiche di una percezione rigenerata, gli elementali si presentano quali personificazioni magiche ed archetipali dei
semi della materia, guide che la materia stessa custodisce nel suo seno, interlocutori mitici dell’alchimista-mago errante.
E di recente, ancora, era una Ninfa sapiente che guidava con dolcezza i lavori dell’ignoto alchimista che sul finire del XIX
secolo si nascondeva sotto lo pseudonimo di Cyliani, così come ci racconta l’Hermes Devoilé. Di questa Ninfa alchemica, nella
traduzione di Stefano Andreani riportiamo infine, per accomiatarci a nostra volta dal grazioso popolo elementale, il
saluto con cui si diparte dall’affranto Cyliani :
«... Mi gettai ai suoi piedi per ringraziarla di un simile beneficio ed umilmente ringraziai anche l’Eterno di avermi fatto
superare tanti pericoli.
Poi ella mi disse addio, aggiungendo: Non mi dimenticare !
Disparve, e la sua fuga mi fece provare una pena talmente grande che mi svegliai...».
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Ancora un’incisione tratta dal vol XXXIV di Voyages imaginaires, songes, visions et romans cabalistiques, Amsterdam 1888, ad illustrazione di Les Ondines di Madame
Robert.
NOTE:
(1) La traduzione del trattato è compresa in Paracelso, Scritti alchemici e magici¸ Genova 1991, ed. Phoenix, pgg. 17-32.
(2) Più oltre Paracelso specifica, tuttavia: «Io non credo che questi siano veramente quelli di cui esse si servono tra loro, ma penso che ad esse li abbiano dati persone che non hanno
conversato con loro, tuttavia, dato che sono in uso tra noi, li conserverò, benché si possano anche chiamare Ondine le creature dell’acqua, Silvestri quelle dell’aria, Gnomi quelle della
terra e Vulcani quelle del fuoco...». In verità, Paracelso parla, ad un certo punto del suo trattato, anche di altri esseri, che egli definisce di natura essenzialmente mostruosa, teratogena ed eccezionale: Sono le Sirene, i Giganti e i Nani. Le sirene, generate dagli Ondini, nuotano
preferibilmente sulla superficie dell’acqua, sanno cantare e suonare il flauto. I giganti sono invece generati dai silfidi, ed i nani dagli gnomi. Tutte queste creature non hanno un’anima, e non possono riprodursi. Alla medesima categoria, con un umorismo provocatorio notevole, Paracelso fa risalire anche una diversa categoria, generazione mostruosa degli gnomi e delle
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ondine: «...I Monaci, che sono simili agli uomini e vivono nel loro ambiente...”.
(3) Più avanti, Paracelso chiarisce la materia prima della tessitura: «Come a noi, Dio ha dato loro la lana di montone; Dio, infatti, può creare dei montoni diversi da quelli che vediamo noi,
che pascolano nel fuoco, nell’acqua o nella terra.”
(4) La traduzione italiana uscirà nel con il titolo di Il Conte di Gabalì o ragionamenti sulle scienze segrete Londra (Napoli) 1751, per cura di Raimondo de Sangro, principe di Sansevero,
illuminato alchimista e massone del settecento napoletano, sulla cui complessa figura, rimandiamo all’esauriente saggio di L. Sansone Vagni Raimondo de Sangro, principe di San
Severo¸ Foggia 1992, Bastogi.
(5) L’articolo della Biographie universelle, di Michaud, (Parigi, 1843) è nel tomo 43, da pag. 434 a pag. 436.
(6) In realtà la Cabala del Montfaucon e del Borri è cosa ben distante dalla originaria tradizione ebraica da cui mutua il nome, ed è forse molto più vicina a sopravvivenze pagane di culti che nel XVII secolo dovevano forse essere ancora ben vivi nelle tradizioni folkoriche e
della religiosità popolare di gran parte d’Europa.Gershom Scholem, in un saggio dedicato ai rapporti tra alchimia e Kabbalah (Alchimia e Kabbalah, trad. di Marina Sartorio 1995, Einaudi) ben descrive il carattere della presunta
cabala che emergeva dal complesso panorama degli scritti ermetici tra XVI e XVII secolo : “Il nome della misteriosa disciplina [ ... ] divenne parola d’ordine di tutti i circoli interessati alla teosofia e all’occultismo nell’epoca del Rinascimento ed in quella successiva del Barocco.
Divenne una specie di bandiera, dietro la quale - poiché non v’era da temere alcun controllo da parte dei pochi veri cultori della kabbalah - praticamente tutto poteva offrirsi al pubblico : da contenuti autenticamente ebraici a meditazioni solo vagamente ebraizzanti di profondi mistici
cristiani fino agli ultimi prodotti da fiera della geomanzia e della cartomanzia. Il nome Kabbalah, con il brivido reverenziale che incuteva, comprendeva tutto. Anche i più estranei elementi di folklore occidentale, anche le scienze del tempo in qualche modo orientate verso
l’occultismo, come l’astrologia, l’alchimia, la magia naturale, diventavano kabbalah.....”.Tale considerazione è vera ancor oggi, se pensiamo al nome di cabala fonetica con cui alcuni
alchimisti moderni (ad es. Fulcanelli ed allievi) designano il bellissimo gioco simbolico di etimi assonanti che utilizzano con tanta frequenza. In effetti, la gabala del Villars ha poco o niente a che fare con la kabbalah ebraica. Non che questa fosse del tutto ignota nella seconda metà del ‘600. Tuttavia, se si eccettua la credenza di fondo nella possibilità di accoppiarsi e
procreare con entità incorporee (si pensi, nella tradizione ebraica, ai Lillim, i figli demoni che Lilith partorisce rubando il seme disperso dell’uomo) del resto comune a diverse tradizioni, il
fondo che si scorge tra gli elementari del Villars e degli epigoni che vedremo tra poco, è invece eminentemente magico.
(7) Al conte segue infatti, a distanza di un anno, L’amour sans faiblesse, ou Anne de Bretagne et Almanzaris (Paris, 1671, Barbin, in tre tomi), un voluminoso romanzo ristampato in volume
unico nel 1729 col titolo di Géomyler et Almanzaris, che narra la storia di un géomyler¸ appunto, una sorta di non meglio identificato religioso turco che, sfruttando la sua carica si
introduce alla corte (e nel serraglio) di diversi principi carpendo l’amore di svariate principesse. Il romanzo viene presentato, con una classica finzione letteraria, come la traduzione della
versione castigliana di un antico romanzo arabo, eseguita da una signora che aveva trovato, nello scritto, “meno difetti che nella maggior parte dei romanzi moderni”. Da un punto di vista
letterario la prova appare inferiore alle aspettative, e riscuote critiche negative. Ma il Villars prosegue imperterrito la sua carriera letteraria con una serie di libelli polemici che abbracciano vari argomenti letterari e filosofici. Abbiamo così la Critique de la Berenice de M. Racine et de M. Corneille, libello che, pur ottenendo qualche apprezzamento, non suscita alcuna risposta da parte di Corneille, ed un solo accenno da parte di Racine nella prefazione ad un’edizione della
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Berenice. Dopo qualche altro libello di polemica - ad esempio i cinque dialoghi De la delicatesse, del 1671, dedicati a Les entretiens d’Ariste et d’Eugène di Barbier d’Aucour, che provocano, peraltro, una vibrante risposta dell’autore - il Villars pubblica, più o meno nello
stesso periodo le Reflexions sur la vie de la Trappe, la Lettre contre M. Arnauld e la Critique des Pensées de M. Pascal, che contengono, come si può arguire dagli stessi titoli, forti spunti polemici di taglio filosofico contro la scuola di Port-Royal. Infine, a quarantadue anni dalla
morte dell’autore, nel 1715, verranno pubblicati i sette nuovi Entretien sur les sciences secrètes, che fanno da seguito al Conte di Gabalì, e che sono incentrati su di una feroce satira
della filosofia Cartesiana e dei suoi sostenitori.
(8) Il Villars avrebbe, in combutta con sua sorella ed un servo fedele, ucciso nientemeno che suo zio materno, Pierre de Ferroul, signore di Montgaillard. Malgrado il mandato di cattura, il Villars però si sottrae all’arresto, e, cosa inspiegabile, continua a Parigi la sua vita pubblica.
Vicenda poco chiara, come poco chiare dovettero essere le amicizie e le aderenze del rampollo de Villars, che gli consentirono tuttavia di beffarsi del mandato di arresto per omicidio emesso a suo nome. Tanto più che, il mandato di arresto per l’omicidio del signore di Montgaillarde
verrà ripetuto dai magistrati qualche anno dopo, nel 1668.
(9) E’ l’edizione compresa, insieme ad altre opere di argomento simile, nel trentaquattresimo tomo della serie Voyages imaginaires, songes, visions et romans cabalistiques, Amsterdam
1888.
(10) Abbiamo preso in prestito questa efficace sintesi del tema principale del romanzo di Villars da Du merveilleux dans la littérature Françoise sous le règne de Louis XIV, del dotto
padre gesuita Delaporte (Parigi 1891).
(11) Leggiamo, ad esempio, come lo scrittore Gérard de Nerval (1808-1855), descrive la curiosità per l’occulto che caratterizza la cultura francese tra XVI e XVIII secolo: «I libri
trattanti di cabala e scienze occulte, inondarono allora le biblioteche; le più bizzarre speculazioni medievali resuscitarono sotto una forma più spirituale e leggera, propria a
recuperare a queste idee ritornate di moda, il favore di un pubblico frivolo, per metà ateo e per metà credulo....L’abate de Villars, Dom Pernety, il marchese D’Argens, divulgarono i misteri dell’Oedipus Aegyptiacus e le sapienti immaginazioni dei neoplatonici fiorentini. Pico della Mirandola e Marsilio Ficino rinacquero, tutti intrisi dello spirito manierato del XVIII secolo,
nel Conte di Gabalì, nelle Lettere Cabalistiche ed altre produzioni di filosofia trascendente alla portata dei salotti. Così non si parlava più che di spiriti elementari, di simpatie occulte, di
incanti, di possessioni, di migrazioni delle anime, e soprattutto di magnetismo e alchimia...» (G. de Nerval, Opere, Paris 1986, ed. Garnier).
(12) E’ questo l’atteggiamento che emerge, ad esempio, dalla lettera dell’anonima volgarizzatrice dell’opera di Villars, anteposta all’edizione italiana del De Sangro, lettera che la
Sansone Vagni (op. cit., pag. 82) non manca di attribuire, insieme alla traduzione stessa, allo stesso principe di S. Severo: «..E perché ne faccia sapere altrui tutto quel tanto ch’io ne so dico prima c’ogni altro che’l suo Chiarissimo Autore è l’Abate di Villars, Egli con questo Conte di Gabalì ha tentato di guarire il fanatismo de’ cabalisti nella stessa guisa appunto, nella quale il famoso Michele Cervantes imprese di guarire col suo D. Chisciotte il fanatismo de’ Cavalieri Erranti. Tutto il libro si trova condotto in una continua ironia; ma è scritto con tale vivacità e
finezza che ci ha molti, i quali si son dati a credere che avess’egli inteso di spacciare un dogma, e non già una satira...». (Montfaucon\Borri, Il Conte di Gabalì, ristampa del volgarizzamento italiano con commento e note di C. Miccinelli e C. Animato, Genova 1986, ECIG, pag. 75).
Probabilmente l’affermazione che’l suo Chiarissimo Autore è l’Abate di Villars, tende a smascherare il plagio italiano del Borri, di cui ci occuperemo tra poco.
(13) Op. cit. pgg. 121 e sgg.23
(14) Il Delaporte, di quest’opera, riporta in nota un’edizione di Amsterdam del 1715
(15) Anche per quest’opera Delaporte riporta come data e luogo Amsterdam, 1715.
(16) In verità il Delaporte non menziona neanche l’anonimo Le Sylphe, impresso per la prima volta nel 1730, e L’amant Salamandre, ou adventures de l’infortunée Julie, di un Cointreau di
cui non conosciamo altre notizie se non il nome. Manca infine all’appello Les Ondins di Madame Robert (Marie-Anne de Roumiere,morta a Parigi nel 1771), cui si devono vari
romanzi, tra i quali Les voyages de Milord Ceton dans les sept planettes. Tutte queste opere sono comprese nella raccolta edita dal Garnier, i Voyages imaginaires, songes, visions et
romans cabalistiques, Amsterdam 1888, raccolta molto ampia che raccoglie, probabilmente, il meglio della letteratura fantastica disponibile a quell’epoca.
(17) Jean Baptiste de Boyer, marchese D’Argens (1704 – 1771), indirizzato dalla tradizione familiare alla magistratura, preferì tuttavia la carriera militare. Giovanissimo fugge in Spagna
con una attrice di cui è perdutamente innamorato, ma viene arrestato per iniziativa della famiglia prima di aver potuto sposare la donna. Viene inviato a Costantinopoli, al servizio
dell’ambasciatore di Francia. Anche qui, pare, ebbe vita avventurosa. Ritornato in Francia, con l’intento di seguire la carriera della magistratura, ancora una volta preferisce la vita
avventurosa e gli amori delle attrici, e così egli finisce per riprendere la carriera militare. Nel 1734 un incidente di servizio - una caduta da cavallo - lo costringe ad abbandonare il servizio.
Essendo stato diseredato da suo padre, trasferitosi in Olanda, è costretto ad intraprendere la carriera di scrittore per vivere. Il successo gli arride e ben presto entra nelle grazie di Federico II di Prussia, sotto la cui protezione rimane a lungo, non mancando, comunque, di continuare a suscitare scalpore per polemiche argute e per condotte morali poco consone al suo ruolo ed alla sua fama. Nella sua copiosa produzione letteraria spiccano le Lettres Juives (1754), le Lettres
Chinoises (1755) e le Lettres Cabalistiques (1769).
(18) Abbiamo consultato questa edizione, rivista ed aumentata dal Signor Di Monstier, speziale della marina ed a sua volta membro della Royal Society di Londra e di quella di
Berlino. L’edizione originale dell’opera di Lefevre era apparsa nel 1660, e riscosse un rapido successo, tanto da meritare, nel 1667, una traduzione tedesca. Si conosce anche un’edizione
inglese del 1664, ristampata nel 1670. Il Cours de Chimie, comunque, conoscerà riedizioni fino a tutta la metà del XVIII secolo (vi è un’edizione francese del 1751). Su Lefevre vedi
Ferdinand Hoefer, Histoire de la chimie depuis les temps les plus reculés jusqu'à notre époque. Tome deuxième, Paris, 1843, pgg. 286-290.
(19) Le opere conosciute attribuite abitualmente al Borri, sono : “Lettere di F. B. ad un suo amico circa l’attione intitolata : La Virtù coronata”, Roma 1643; Gentis Burrhorum notitia, Argentorati 1660; Iudicium....de lapide in stomacho cervi reperto, Hanoviae 1662; Epistolae
duae, 1 De cerebri ortu & usu medico. 2 De artificio oculorum Epistolae duae Ad Th. Bartholinum, Hafniae 1669; La chiave del Gabinetto del Cavagliere G. F. Borri, Colonia
(Ginevra) 1681; Istruzioni politiche date al re di Danimarca, Colonia (Ginevra) 1681; Hyppocrates Chymicus seu Chyniae Hyppocraticae Specimina quinque a F. I. B. recognita et Olao Borrichio dedicata. Acc. Brevis Quaestio de circulatione sanguinis, Coloniae 1690 ; De virtutibus Balsami Catholici secundum artem chymicam a propriis manibus F. I. B. elaborati,
Romae 1694; De vini degeneratione in acetum et an sit calidum vel frigidum decisio experimentalis in Galleria di Minerva, II Venezia 1697.
(20) A questo proposito, non riteniamo credibile l’ipotesi, avanzata da Clara Miccinelli e Carlo Animato nella citata riedizione del volgarizzamento italiano del Conte, di una scrittura a quattro mani dei dialoghi cabalistici da parte del Borri e di Montfaucon de Villars. Basandosi
su di un’annotazione manoscritta sul foglio di risguardo di un’edizione delle Istruzioni politiche al re di Danimarca a firma di un p. Roseto. Nell’annotazione si relaziona degli scritti
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di un alchimista (Vinacche) che racconterebbe di un incontro avvenuto ad Amsterdam nel 1663, durante il quale i due alchimisti avrebbero composto in comune il Conte. In realtà come
abbiamo visto, La Chiave è un’opera plagiata da più fonti diverse, non solo dal Villars. Peraltro, non si hanno notizie di viaggi del Villars ad Amsterdam, e questa del Roseto è l’unica
fonte da cui emerge l’ipotesi di una tale collaborazione. Del resto, non è improbabile che il Borri, alchimista e, indubbiamente, conoscitore delle opere di Paracelso, si sia sentito ben poco
in colpa nel plagiare dei dialoghi a loro volta in larga parte improntati ad idee ed invenzioni paracelsane. Curiosamente, confondendo evidentemente la successione cronologica delle date di uscita, il citato prefattore dell’edizione del 1788 del Conte, il Garnier, a proposito dell’opera
del Villars, afferma: «...Ciò nonostante il fondo dell’opera non gli appartiene affatto: esso è tratto da un’opera di Borry, intitolata la Chiave del Gabinetto..” (pag. IV della citata edizione).
(21) Un ulteriore omaggio al Borrichius?
(22) Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891), di origine russa, ebbe vita avventurosa, viaggiò a lungo e fu scrittrice prolifica e fondatrice della Società Teosofica, movimento ancor oggi
esistente con varie sedi e filiazioni in tutto il mondo, da molti considerato matrice di gran parte del frastagliato mondo delle organizzazioni occultistiche ed inziatiche. Nella dottrina della
Blavatsky, all’interno della sistemazione gerarchica degli esseri spirituali, gli ultimi gradi, il sesto ed il settimo, sono appunto quelli occupati dagli spiriti elementari: «...Il Sesto e Settimo
Ordine partecipano alle qualità inferiori del quaternario. Sono entità coscienti ed eteree, invisibili quanto l’etere,: come rami di un albero, esse partono dal primo gruppo centrale
quaternario e si sviluppano, a loro volta, in infiniti gruppi collaterali di cui gli ultimi sono gli Spiriti della Natura o Elementali, esseri le cui specie e varietà sono incommensurabili...». (H. P. Blavatsky, La Doctrine Secrète I.re partie : Evolution Cosmique – Stances de Dzyan, Paris
1906, pag. 202). Anche essi sono inseriti, per la Blavatsky, nel piano generale di evoluzione del cosmo previsto dalla dottrina teosofica.
(23) Eliphas Levi fu il nom de plume, o, se si preferisce, il nome iniziatico di Alphonse-Louis Constant (1810-1875), diacono della chiesa cattolica espulso da diverse istituzioni religiose, occultista, scrittore prolifico e seguace di dottrine politiche socialiste, fu uno dei principali
artefici della rinascita e della rivalutazione delle dottrine occultiste nel XIX secolo. Per il Levi, gli spiriti elementari possono rimanere invisibili o Incarnarsi in uomini: «... Questi spiriti non emancipati, schiavi dei quattro elementi, sono ciò che i cabalisti chiamano demoni elementari, e popolano gli elementi che corrispondono al loro stato di servitù. Esistono dunque in realtà le
silfidi, le ondine, gli gnomi e le salamandre; gli uni erranti in cerca d’incarnarsi , gli altri incarnati e viventi sulla terra. Questi sono gli uomini viziosi o imperfetti...» (E. Levi, Il dogma
dell’alta magia¸trad. di Carlo de Rysky, Roma s.d., Athanor, pag. 49).
(24) Nome iniziatico di Ciro Formisano (Portici 1861 - Beausoleil 1930), il principale volgarizzatore italiano dell’occultismo e della magia ermetica, autore di numerose monografie raccolte ne Il mondo secreto e l’Avviamento alla scienza dei magi: «...Sono condensazioni di materia eterea con determinazioni di vita, con finalità determinata. Essendo una vita, anche se
transitoria, ogni spirito elementare deve contenere i quattro elementi con la prevalenza caratteristica della forma determinante il suo ufficio... Spirito elementare è quel consenso di virtù attribuite ad una determinata cosa; no già l’anima, ma l’aura (es: di un insegnamento,
della carità ecc.) il senso, l’odore di questo qualcosa che diciamo spirito. Gli spiriti del fuoco danno il calore, quelli dell’aria tendono alla variabilità e al movimento ecc.. Al tempo dei
Neoplatonici si cominciò a personificarli, e allora si ebbero gli gnomi (spiriti terreni), i silfi (quelli dell’aria) le salamandre ecc.... I maghi possono crearne a beneficio proprio o di altrui per determinare qualche fenomeno, ma in tal caso la creazione vitale di un mago va chiamata
Genio...» (U. D. Cisaria, Dizionario Kremmerziano dei termini ermetici, Roma 1984, Mediterranee, pag. 373). I Geni di Kremmerz sono creazioni della volontà purificata del mago,
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gli sono obbedienti e fedeli, si immedesimano nell’uomo e gli conferiscono facoltà speciali.
(25) Agrippa non manca di specificare : «...intendendosi qui per demoni non quelli che noi chiamiamo diavoli, ma esseri spirituali, così chiamati per la proprietà del vocabolo, quasi
scienti, intelligenti e saggi.». (Agrippa, La Filosofia occulta o la Magia, trad. di A. Fidi, ed. Mediterranee, pag. 205). Agrippa tratta i demoni malvagi più oltre, nello stesso libro.
Curiosamente, è proprio Agrippa ad offrirci una utile traccia per definire il carattere folklorico dei popoli elementali paracelsani: «... Le leggende della Danimarca e della Norvegia
riferiscono che in quelle contrade v’hanno varie specie di demoni ai servigi degli uomini. Alcuni dei demoni sono corporei e mortali e nascono e muoiono, quantunque vivano a
lungo...”. (Agrippa, Op. Cit. pag 208). Paul Lacroix, citando A. Maury, annota: «....In tutte le regioni settentrionali, le credenze relative agli elfi sono associate ad altre relative ai nani, dice A. Maury. Le leggende su questi esseri singolari sono assai numerose in Germania; esse ce li
rappresentano come i geni della terra e del sole....». (Paul Lacroix, Curiosités Infernales¸ Paris 1886, pgg. 249-250. le Curiositées, senza trascurare le fate, dedicano un intero capitolo ai nani
ed uno agli elfi ).
GLI AFORISMI BASILIANI DI EGLINUS ICONIUS (ANGELUS MEDICUS):
simbolismo ermetico ed influenze paracelsane in un testo alchemico seicentesco.
introduzione e note di Massimo Marra traduzione di Michela Brindisi
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Ritratto di Paracelso attribuito a J. Van Scorel /495-1562)Quello che presentiamo di seguito nella prima traduzione italiana dall'originale latino, è un testo
alchemico seicentesco di evidente impostazione paracelsana, nato in ambito luterano, la cui attribuzione, nascosta da uno pseudonimo, può essere oggi determinata con sicurezza. Un testo che
testimonia una ricchezza di riferimenti dottrinari ad una tradizione ermetico-alchemica che, nel seicento, e proprio in ambito luterano, produrrà forse i suoi frutti più maturi, che sfoceranno poi
nella formazione della tradizione ermetico-rosicruciana.L’alchimia seicentesca si caratterizza, sopra ogni altra cosa,
per il carattere particolare che la diffusione delle idee paracelsiane imprime ad una vasta produzione di testi e studi.
Questo carattere, se impronta parte consistente della letteratura medica, è altrettanto presente nella letteratura alchemica di
natura più scopertamente iniziatica ed ermetica.
Le teorie paracelsiane fanno così da sfondo, oltre che alla trattatistica propriamente medico-scientifica, anche ad una
vasta produzione di natura più o meno scopertamente esoterica, specialmente concentrata nell’Europa centrale e settentrionale,
in ambienti assai spesso interni alla riforma luterana e calvinista.
Gli aforismi ermetici che presentiamo qui costituiscono un esempio abbastanza emblematico di questa vasta produzione.
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Essi godono di una certa notorietà per essere stati oggetto dell’attenzione di una delle menti più fertili delle rinascita
occultistica a cavallo dei secoli XIX e XX, l’erudito ermetista Emile Grillot de Givry, noto traduttore di Paracelso ed autore del
celebre Musée des sorciers, mages et alchimistes (Paris, 1929) (1). La versione francese degli Aforismi presentata da de Givry, è quella
recentemente portata alle stampe dalla Arché di Milano (2).
L’edizione di de Givry, non fa che riproporre senza alcuna modifica il testo degli aforismi in francese, così come sono
riprodotti nelle Oeuvres tant medecinal que Chymiques [Paris 1661 (3)] del padre Gabriel de Castaigne (4), alchimista francese della
seconda metà del XVII secolo, cui talvolta, gli aforismi vengono addirittura disinvoltamente attribuiti. Pure, lo stesso de Givry, non aveva mancato di specificare, a proposito dell’attribuzione
degli aforismi: “L’autore di questi aforismi è sconosciuto; è poco probabile che essi siano del R. P. de Castaigne; essi,
semplicemente, sono stati tradotti dal latino da questo sapiente medico ed alchimista, che non li presenta come opera sua”.
In effetti Grillot de Givry segnala unicamente il testo di de Castaigne come fonte degli aforismi.
Un’altra edizione a stampa era però comparsa già tra il 1608 ed il 1609, in redazione latina, in appendice ad un’opera di Basilio Valentino, di cui riportiamo per intero il frontespizio:
De microcosmo deque magno mundi mysterio et medicina hominis liber geminus, magni Basilii Valentini, quondam ordinis benedectini philosophi
germani: exterorum in gratiam recens, ab Angelo Medico latinitate donatus, cum interpretis aphorismis Basilianis et praefatione philosophica, ad Illustriss. Celsissimumque Principem Dn. Augustum Anhaltinum. Marpurgi, Typis
Guolgangi Kezelii, 1609 (5).
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Gli aforismi compaiono alla fine dell’opera, con un proprio frontespizio datato però 1608.
E’ questa l’edizione di riferimento su cui abbiamo condotto il nostro lavoro.
Dal frontespizio principale del libretto risulta che le operette attribuite a Basilio Valentino sono tradotte da un Angelo Medico (6) e che, unitamente alle traduzioni, il lettore potrà leggere gli aforismi basiliani e la prefazione filosofica del traduttore (7). A ben
ragione, dunque, padre de Castaigne, non si attribuisce gli aforismi, la cui paternità è dichiarata dal frontespizio
dell’edizione latina del 1609. Gli aforismi non sono adespoti: essi si devono a un Angelus Medicus di cui, d’altro canto, non si sa
proprio nulla. Non conosciamo alcun testo a stampa o manoscritto - d’alchimia o d’altro - alcuna testimonianza storica o d’archivio che ci confermi l’esistenza di un tale personaggio. Unica traccia che possa ricondurci almeno ad una collocazione
storica dell’autore – oltre, ovviamente, alla data dell’edizione – è la dedica dell’opera a quel Principe Augusto di Anhalt (1565-1653), conte di Aschersleben e signore di Zerbst, intellettuale
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raffinato con cui anche Keplero si era incontrato e con cui, intorno al 1607, intratteneva corrispondenza di materia
scientifica, discorrendo anche dei rapporti tra astronomia, musica e numeri pitagorici (8).
Un principe, per quel che ne sappiamo, tutt’altro che rozzo o incolto, e dunque destinatario privilegiato di un’opera di alchimia
sui misteri del macrocosmo, del microcosmo e della medicina ermetica.
Tuttavia, l’edizione latina degli aforismi uscita nel 1608/1609 per i tipi Wolgangus Kezelius non è l’unica. Gli aforismi erano già
apparsi quasi contemporaneamente in un trattato di Raphael Eglinus Iconius, di cui riportiamo il frontespizio:
Disquisitio de Helia Artista, in qua de metallorum transformatione adversus Hagelii et Pererii Jesuitarum opiniones, evidenter et solide disseritur. Editio
postrema correctior et melior. Accesserunt recens Canones Hermetici de Spiritu, Anima et Corpore majoris et minoris Mundi, cum appendice. Marpurgi, Typis
Hutwelckerianis, 1608
In seguito, troviamo gli aforismi inclusi nel trattato attribuito ad un Nicolaus Niger Hapelius (9):
Cheiragogia Heliana de Auro Philosophico necdum cognito: undo iuxta facile percipi potest tum opus Universalissimum totius Monarchiae Chymicae in
regno Minerali: tum omnes in suo quiq; genere Universales ejusdem Regni Mineralis Lapides, Tincturaeve particulares, cujus author Nicolaus Niger
Hapelius Anagrammatizomenos..., Marpurgi Cattorum, ex officina Rudolphi Hutwelckeri, 1612 (10).
Ed è sempre con l’attribuzione Happelius che ritroviamo gli aforismi a pag. 327 del quarto volume del Theatrum Chemicum di
Zetner (11), insieme alla Cheiragogia (pag. 300) ed alla Nova disquisitio de Helia Artista, quest’ultima attribuita ad un Heliophilus
Philochemico. Ma Nicolaus Niger Hapelius è in realtà l’anagramma di Raphael Eglinus Iconius, che amava firmarsi anche come
Heliophilus Philochemicus (12).
Chi era Raphael Eglinus Iconius?
Era il figlio di Tobia Eglinus, funzionario svizzero che ricoprì diversi incarichi nel cantone di Zurigo ed in altri cantoni svizzeri,
poeta, morto nel 1571 a Coire, che aveva cambiato l’originale patronimico Goetz nel latinizzante Iconius (Goetze in tedesco
significa letteralmente “idolo”, e, dunque, la forma latinizzata è appunto iconius). Raphael nacque a Frauenfeld, in Turgovia (13), nel 1559. Si formò a Coire, a Zurigo, a Ginevra e a Basilea. La
Biographie Universelle del Michaud racconta che egli si perde dietro ad un ciarlatano italiano, per poi ritornare all’insegnamento, a
Ginevra, del teologo calvinista Theodorus Beza (1519 – 1605), di cui ottiene la fiducia e la stima. Nel 1583 il suo primo incarico di
insegnamento è a Sondrio, in Valtellina. L’anno successivo 30
appare il suo Via ac ratio scholae raethorum, ma, nel 1586, egli viene scacciato dalla Valtellina dalle persecuzioni cattoliche. Dopo un breve soggiorno a Winterthour dove esercita la professione di maestro di scuola, viene richiamato a Zurigo dove ha diversi incarichi ecclesiastici, e si impegna negli studi e nelle dispute teologiche. E’ durante questa sua permanenza che incontra
Giordano Bruno, da cui rimane, a quanto pare, profondamente influenzato. Per motivi economici (secondo la Biographie del
Michaud e secondo vari altri autori, è la passione per l’alchimia che lo getta sul lastrico, ma, più probabilmente, i suoi studia
ermetici gli creano solo delle difficoltà con l’autorità ecclesiastica) è costretto ad espatriare, e, nel 1607 è
all’università di Marpurgo, dove occupa la cattedra di teologia. La sua è una produzione copiosa di scritti di teologia, retorica, grammatica, poesia, letteratura, filosofia. Egli muore proprio a
Marpurgo nell’agosto del 1622. Di tutta la sua produzione scientifica, curiosamente, oltre agli scritti di alchimia - che
ebbero vasta risonanza fra gli studiosi della crisopea - si ricorda sempre la Conjectura halietica characterum piscium marinorum ad latera
stupendo prodigio insignitorum desumta, Hannover 1611, in cui Eglinus dava la sua spiegazione delle misteriose lettere impresse su dei
pesci pescati al largo della Norvegia e nel Baltico.
Rimane dunque da dirimere il senso dell’attribuzione, che abbiamo visto espressa sul frontespizio del De Microcosmo, del 1609, degli aforismi ad Angelus Medicus. Abbiamo visto come lo
pseudonimo non fosse una pratica nuova per Eglinus, e, se dovessimo pensare ad un caso di plagio, ci risulterebbe
senz’altro difficile immaginare un plagio stampato nella città stessa in cui risiedeva ed insegnava pubblicamente l’Eglinus. Vieppiù rischioso, ci parrebbe poi un plagio dedicato ad una personalità in vista e colta come Augusto di Anhalt. D’altro
canto, l’angelo della medicina nella tradizione biblica è Raphael, e dunque, con buona probabilità, ci pare di poter
ragionevolmente ipotizzare che anche il misterioso Angelus Medicus non sia altri che il nostro Raphael Eglinus Iconius, che
aggiunge così un nuovo pseudonimo alla sua collezione.
Quella che presentiamo qui, grazie alla gentilezza della accorta e valente traduttrice Michela Brindisi, è la prima
edizione in lingua italiana condotta sull’originale latino, che riproduciamo, del resto, in appendice. Quanti hanno già avuto
contatti col testo nella sua redazione francese, noteranno che, in non pochi punti, nello stabilire il testo italiano, si è preferito
riconsiderare parzialmente le scelte di traduzione del padre de Castaigne.
Ciò che induce a ritornare su questo testo, di là della semplice esercitazione filologica, è senz’altro la densità dei contenuti ermetici e dei riferimenti simbolici e dottrinari che emergono dalla lettura di questi brevi aforismi, un piccolo gioiello della
letteratura ermetica del XVII secolo.
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Il tema centrale, è la definizione del mercurio filosofico, la materia prima allo stato virginale, che anima e sottende alla
natura creata, e che rappresenta, in sintesi, contemporaneamente l’anima mundi e la scaturigine della
medicina ermetica, la fonte di quel sale filosofico o tintura che, nel microcosmo corporeo dell’operatore rappresenta il medium
conjungendi tincturas, legame del microcosmo al macrocosmo. Lo stesso candido mercurio la cui fissazione costituisce il
conseguimento, sul piano microcosmico, dell’obiettivo ultimo della scienza di Ermete.
Il nostro Angelus Medicus, o se si preferisce, come risulta dal frontespizio interno, Hermophilo Philochemico, nell’apporre i propri
aforismi in appendice al De Microcosmo, ha voluto definirli Basiliani, anche in rapporto specifico con il tema della relazione tra macrocosmo e microcosmo, sviluppato nelle due operette attribuite al misterioso monaco-alchimista Basilio Valentino.
Tuttavia, a giudicare dalla densa dottrina esposta, gli aforismi potrebbero, in maniera forse anche più appropriata, definirsi
paracelsiani, tanto, in filigrana, è evidente l’impianto dottrinario del grande Elvetico Monarca dei Fisici, Filippo di Hohenheim, ossia
Paracelso (14).
Come si evidenzierà ulteriormente nelle note al testo, la dottrina dei tre principi [Vis animans, Vis vegetans e Mineralitas (15) ]
esposta negli aforismi è, né più né meno, che quella paracelsiana della triade Zolfo, Mercurio e Sale (16).
Lasciamola esporre brevemente allo stesso Paracelso:
«Tra tutte le sostanze, ve ne sono tre che danno corpo a tutte le cose, vale a dire che tutti i corpi sono fatti di queste tre cose. I
loro nomi sono Zolfo, Mercurio e Sale. Se queste tre cose sono riunite, allora prendono il nome di corpo; e nulla gli si aggiunge,
se non la vita e quanto è inerente a questa (…) innanzi tutto, bisogna conoscere queste tre sostanze e tutte le loro proprietà
nel macrocosmo. Allora, le si troveranno assolutamente consimili nell’uomo (microcosmo). (…) per farvi comprendere meglio,
prendete l’esempio del legno (...) Bruciatelo. Ciò che ne brucerà è lo zolfo; ciò che ne esalerà in fumo è il mercurio; ciò che resta in cenere è il sale (...). Bisogna notare, al riguardo di questi tre principi, che ogni cosa li contiene in ugual maniera. Se essi non
si offrono immediatamente alla vista in modo uniforme, nondimeno essi si rivelano sotto l’influenza dell’arte che li isola e
li rende visibili. Ciò che brucia è lo zolfo. Tutto ciò che entra in combustione è zolfo. Ciò che si leva in fumo è mercurio. Nulla sublima all’infuori del mercurio. Ciò che si risolve in cenere è il sale. Nulla si riduce in cenere che non sia sale: Ciò che rimane
cenere è la sostanza, vale a dire la parte di cui il legno è costituito. E benché sia l’ultima e non la prima materia, essa, ciò
nonostante, testimonia della prima, di cui essa è l’ultima allorché è unita ai corpi viventi. (...) E benché la materia prima di
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questa non sia visibile, nondimeno l’ultima materia della prima è visibile(...). E’ in queste tre cose che si trova la sanità, come anche la malattia e tutto ciò che vi si riferisce. E così, come
queste tre sole cose esistono, così esse formano le sole cause di tutte le malattie, e non i quattro umori, qualità ed altri simili
argomenti tanto dibattuti (...).
Se ora vogliamo parlare delle proprietà e della natura di questi tre principi, bisogna considerare la questione in questo modo: la Natura è nel mercurio, nello zolfo e nel sale, sia essa
buona, cattiva, sana o malata. Perché ogni sostanza, quale essa sia, possiede la sua natura caratteristica. Se, ora, il miscuglio di questi tre principi ha luogo in un solo corpo, allora le nature si manifestano sotto una sola forma, e ciò nonostante devono
essere poste ciascuna nella sua propria sostanza, e non nella sostanza comune (...). Se esse non sono favorevoli appare la
malattia. Da ciò potrai dunque saper quale parte della sostanza si separa. Perché la separazione di una è l’accesso di un’altra
(...)” (17).
La teoria paracelsiana, insomma, spaccia la centralità dei quattro umori della scuola ufficiale per introdurre la teoria delle
tre essenze. Lo stato di sanità del corpo deriva dall’equilibrio perfetto delle tre essenze, che sono emanazione diretta della
potenza degli astri. Quando una delle tre essenze si separa dalle altre, allora si ha uno squilibrio nella composizione dell’essere
che genera le multiformi malattie. L’uomo è generato dal limbo in cui la materia prima dell’uomo è allo stato potenziale,
generata dall’unione dei tre principi, ed è dunque a questo livello che si formano squilibri e malattie. La vera composizione delle cose è nascosta dalla vita, che getta un velo di illusione
innanzi agli occhi dell’uomo; solo la morte e la corruzione svelano la separazione dei principi. Attraverso il fuoco
alchemico, il fuoco di Vulcano, tuttavia è possibile penetrare parzialmente il velo di illusione e percepire la verità. Il fuoco lascia intatta solo la parte fissa, immutabile, purificata della
materia nel sale.
E’ questo il sale dei filosofi, il mercurio candido e puro che rappresenta la conquista fondamentale della ricerca filosofale, il
misterium magnum dell’alchimia.
Il simbolismo ed il linguaggio paracelsiano degli aforismi si mostra evidente, ma denso e complicato nei riferimenti e
nell’esposizione. Esso presuppone una certa familiarità, anche minima, del lettore con il linguaggio ermetico. Anche a partire
da tale familiarità, tuttavia, la specificità di alcuni riferimenti può rendere ostica la lettura.
Abbiamo pertanto arricchito di un apparato critico di note il testo, laddove la complessità del simbolismo e la sinteticità della
forma aforismatica lo richiedevano.
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Frontespizio dell’edizione italiana del 1751 del Conte di Gabalì edita dal principe Raimondo De Sangro (il vero luogo d’edizione, con ogni
probabilità, è Napoli).
Aforismi basiliani o Canoni ermetici sullo spirito, l’anima e il corpo del Mondo Maggiore e Minore, composti da Hermophilus Philochemicus. Ermete
Trismegisto.
Queste cose appaiono vere al sapiente: incredibili all’ignorante.
Marpurgo.
Dall’officina di Wolgangus Kezelius
1608.
________________
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1 - Ermete Trismegisto meritò di essere chiamato Padre dei Filosofi per aver indagato il triplice regno Minerale, Vegetale e
Animale; anzi per aver indagato la triplica sussistenza in un’unica essenza creata, in cui esplorò ogni virtù della Natura
vegetale, animale e minerale.
2 - La forza vegetante nella natura del Mercurio volatile, candido a guisa di neve, coagulato, non è comune; questo è in
qualche modo lo Spirito sia del mondo maggiore che del minore, da cui dipendono la mobilità e la fluidità della stessa natura
umana, secondo l’anima razionale.
3 – La forza animante, d'altra parte, in quanto legame del mondo, è in mezzo tra lo Spirito ed il corpo e vincolo per
entrambi. Si trova nello Zolfo di un certo olio rosso e trasparente, simile al Sole nel Mondo Maggiore ed è il cuore del
Microcosmo.
4 – La mineralità, infine, possiede un corpo quasi a guisa di Sale, di mirabile virtù e odore; quando il sale sarà stato separato
dalle scorie della terra, non sarà dissimile dal Mercurio se non per lo spessore del corpo e la consistenza della terra.
5 - Queste tre sussistenze in un’unica essenza creata, costituiscono il limbo del mondo maggiore e minore da cui fu creato il primo uomo, plasmato dalla polvere della terra. Qui accede, come Regina, l’anima razionale del Microcosmo, la
quale è immortale, immediatamente insufflata da Dio nonché causa motrice e direttrice di queste tre e di tutte le funzioni
nell’uomo.
6 – In effetti, come dai quattro elementi, grazie alla polvere coagulata della terra, la forza e la vita dei nostri corpi traggono salute se lo spirito mercuriale, l’umido radicale, l’anima sulfurea
e il caldo naturale - assieme alla consistenza del sale che preserva dalla putredine - si armonizzano in uno, così, viceversa,
è necessario separare l’anima immortale dal corpo di polvere coagulata della terra, se sopraggiunge difetto in uno o più dei
tre principi. Se la mancanza è totale, allora sopravviene la morte, se parziale, la malattia. L’anatomia consiste
precipuamente nel vedere ciò che si trova nei sette membri Principali.
7 – A questa triplice mancanza niente può ugualmente rimediare quanto quella massa del limbo (18), coagulata dai tre
principi in uno solo, da cui fu animato il primo uomo, e che equivale alla potenza della natura ed alla forza che deve essere suscitata e alimentata, quando nel corpo astrale fisso sarà stata
debitamente convertita.
8 – Da ciò si comprende come il Balsamo del soggetto Ermetico, abbia una singolare armonia col corpo umano: perciò
quell’Elvetico Monarca dei Fisici, Filippo di Hohenheim, ossia 35
Paracelso, nel Libro sulla Pietra Fisica, detto anche Manuale, giustissimamente asserisce che il Microcosmo, situato nel limbo terrestre e formato dalla polvere della terra, non solo secondo
un’opinione, ma veramente e propriamente, può essere condotto alla sanità e conservato radicalmente, grazie a questa
Medicina, del pari che dal suo simile.
9 - Invero, tanto più occorre fare attenzione, quanto più la medicina comune è debole nei confronti di quei tre principi del
microcosmo e della loro armonia, che deve essere radicalmente preservata e mantenuta: è senza dubbio per caso che essa aiuta
la nascita dei tre principi [dal momento che la sua forza è impiegata quasi tutta nei quattro umori].
10 - Al contrario, la Medicina Minerale Chimica, estratta dai metalli e dai minerali, raramente è sia preparata che
amministrata correttamente: per questo Paracelso, nel suo libro, preferisce la sua medicina ad ogni altra: egli non nega, tuttavia,
che vi siano analogamente grandi Arcani nelle altre cose Minerali, ma di più lunga opera e lavoro, non facilmente
conquistabili in modo corretto, soprattutto dagli inesperti: questi, imbattendosi in queste cose, procurano più danno di
quanto possano giovare.
11 - Cerchiamo dunque il Limbo nel Microcosmo in cui questo è situato; cerchiamo cioè quel viscido globo terrestre, coagulato
dal Mercurio, dallo Zolfo e dal Sale: dal momento che questo certamente nasce da una certa sostanza umida, secondo Geber
può ben essere definito viscosa umidità dell’umidità.
12 - Infatti sebbene il Mondo abbia avuto origine dal Nulla, deve la sua origine all’Acqua, sulla quale aleggiava lo Spirito del
Signore: da essa provengono tutte le cose sia Celesti che Terrestri. Così, a questo punto, il Limbo emerge da un’Acqua non volgare, e non dalla rugiada celeste o dall’Aere condensato nelle
caverne della Terra o nel Recipiente stesso, né è attinto dall’abisso del Mare, dalle fonti, dai pozzi o dai fiumi: ma
piuttosto da una certa Acqua che ha patito sofferenza, sotto gli occhi di ognuno, ma conosciuta da pochissimi, che ha in sé tutte
le cose che le sono necessarie per il compimento di tutta l’opera, a prescindere da ogni moto esterno.
13 - D’altra parte la Natura è quel certo spazio intermedio tra il Mondo Maggiore e Minore, che è reperibile ovunque e sia presso il povero che presso il ricco, come riferiscono tutti i Filosofi. Infatti essa fu gettata per le strade e calpestata,
sebbene tuttavia sia fonte di mirabili operazioni. Ne consegue che dovranno essere reintegrati quei tre principi del nostro
corpo che godono di diverse proprietà.
14 - Questa materia dissolta nella sua propria Acqua [dall’Acqua scaturisce infatti ogni Generazione] è fatta ruotare
attraverso i quattro Elementi, finché non si trasformi nella 36
Natura Astrale fissa, nell’Uovo Fisico, così detto per il calore della Gallina che cova le uova all’infinito: diversamente
perirebbe la speranza di ogni discendenza (19).
15 - Così l’Uccello Ermetico (20) una volta chiuso nella Gabbia, che è la Fornace, deve essere eccitato gradatamente dal calore continuato del nostro fuoco denso di vapori, finché
non si schiuda e risani ognuno col suo parto.
16 - Come d’altra parte nella preparazione dei tre Principi di quest’Acqua - che ha sofferto pazientemente - non aggiungiamo
nulla alla Materia sostanziale, e niente sottraiamo alle tre proprietà sussistenti, ma rimuoviamo piuttosto dalla sola
preparazione le cose superflue, cioè eterogenee, come la Terra inaridita e l’acqua insipida, così l’opera Ermetica viene
intrapresa grazie alla congiunzione dei tre Principi preparati in una certa proporzione. Naturalmente, il peso del corpo corrisponde quasi alla sesquialtera parte dello Spirito e
dell’Anima (21).
17 - Dopo di ciò tutte le cose devono essere rette da un calore continuo, affinché la Natura, come Agente più profondo, non si arresti né patisca un eccesso. Al principio si faccia dunque un fuoco mite, inizialmente di quasi 4 gocce ovvero fili, finché la Materia annerisca. Poi aumenta fino ad arrivare quasi a 14 fili,
finché la Materia si purifichi e l’Iride che appare finisca in colore Grigio. Quindi persevera fino a quasi 24 fili, fino alla perfetta Albedo, superiore alla Neve, fluente, fissa, che è la Luna del
Microcosmo (22).
18 - Perciò se vuoi procedere verso la perfetta Rubedo, continuerai il fuoco per 70 giorni, finché il Lapis si muti in Rubino
trasparente, massiccio e pesante, che è proprio il Sole del Microcosmo, che deve essere aumentato nello stesso modo in
cui fu incominciato. Un grano di questo equivale a seimila grani, per cui deve essere amministrato in dosi piccolissime.
RADIX ELIXIRISΔ
R. E.I. (23)
Vigore e immagine celeste sono ispirati da colui dal quale fluisce a noi questa medicina di Dio.
FINE
TESTO LATINO(edizione 1608)
37
APHORISMI BASILIANI
SIVE
CANONES HERMETICI
DE SPIRITU, ANIMA, ET CORPORE
Majoris et Minoris Mundi,
Conscripti ab
HERMOPHILO PHILOCHEMICO
Ter Maximus Hermes,
Haec scienti quidem vera videantur:
Ignoranti vero incredibilia
MARPURGI
Ex Officina Guolgangi Kezelii
MDCVIII
1. Hermes τρίσμέγιστος ob triplicis regni Mineralis, Vegetabilis, Animalis, imo ob triplicis in una creata essentia subsistentiae
indagationem, in qua vim omnem vegetabilis, animalis et mineralis Naturae exploravit, Pater Philosophorum dici meruit.
2. Vis vegetans in natura Mercurii volantis, instar nivis candidi, concreti, non vulgaris inest ; qui tam majoris, quam minoris mundi
quidam Spirutus est, unde naturae ipsius humanae, secundum animam rationalem, pendet mobilitas, atque fluxibilitas.
3. Animans autem vis, tanquam Mundi glutinum, inter Spiritum atque corpus medium est, atque utriusque vinculum, in Sulphure nimirum rubentis atque transparentis olei cujusdam, veluti Soli in
Majore Mundo et cor Microcosmi.
4. Mineralitas denique tanquam corpus instar Salis obtinet, mirabilis virtutis et odoris, ubi sal a scoria terrae separatum fuerit, a
Mercurio non nisi corporis crassitie, et consistentia terrae distans.
5. Hae tres subsistentiae in una creata essentia limbum minoris et majoris mundi constituunt, ex quo formatus est primus homo, cum
fingeretur e pulvere terrae. Huc accedit anima rationalis Microcosmi immortalis a Deo immediate inspirata, horum trium et omnium functionum in homine motrix atque directrix causa, veluti
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Regina.
6. Caeterum ut e quatuor elementis conglobato pulvere terrae vis corporum nostrorum atque vita integra est, si spiritus Mercurialis, tanquam humidum radicale, et anima sulphurea, tanquam calidum
naturale, una cum salis consistentia a putredine asservantis, suaviter in unum conspirent : ita vice versa animam immortalem a
corpore conglobati pulveris terrae separari necesse est, si vel in uno principiorum trium pluribusve defectus oboriatur : in toto
quidem unde mors ; in parte vero, unde morbus : quod in septem Principalium membrorum anatomia praecipue videre est.
7. Huic triplici defectui nihil aeque mederi potest, quam illa limbi, ex quo primus homo conflatus est, conglobata in unum e ternis
principiis massa, quae ad quamvis naturae potentiam atque vim excitandam ac fovendam valet, si in corpus astrale fixum debite
fuerit versa.
8. Ex quo intelligitur Balsamum subjecti Hermetici cum corpore humano singularem harmoniam habere : unde Helveticus ille Physicorum Monarcha PHILIPPUS AB HOHENHEIM sive PARACELSUS, libro de Lapide Physico, Manuali dicto, hac
Medicina Microcosmum, qui in limbo terrae situs et ex pulvere terrae formatus est, RADICALITER TANQUAM A SUO SIMILI, non autem secundum opinionem, sed vere ac proprie ad sanitatem
posse perduci et conservari, rectissime asserit.
9. Tanto vero id magis attendum est, quanto medicina vulgaris debilior est ad tria illa principia microcosmi, eorundemque
harmoniam radicaliter tuendam atque instruendam : quippe veluti ex accidenti (quandoquidem tota fere in quatuor humoribus
occupatur) tribus illis principiis obstetricans.
10. Mineralis autem Medicina Chymica e metallis et mineralibus raro vel recte paratur vel administratur : unde Paracelsus eodem in libro
Medicinam suam omnibus praefert: negare tamen sese negat, magna Arcana item aliis in rebus Mineralibus inesse, sed longioris
operae et laboris, neque facile recte usurpari, praesertim ab imperitioribus; qui in haec incidentes plus damni dent, quam
prodesse queant.
11. Quaeramus igitur Limbum Microcosmi in quo is situs est ; hoc est, globum illum viscidum terrae, ex Mercurio, Sulphure, et Sale concretum : qui quidem quoniam ex humido quodam existit,
pulchre viscosa humiditatis humiditas, secundum Gebrum, dici potest.
12. Sicuti enim Mundus licet ex Nihilo conditus, originem debet Aquae, cui Spiritus Domini incubabat : rebus tam Coelestibus quam Terrestribus omnibus inde prodeuntibus : ita Limbus hic
emergit ex Aqua non vulgari, neque ex rore coelesti, aut ex Aëre condensato in cavernis Terrae , vel in Recipiente ipso, non ex
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abysso Maris, fontibus, puteis, fluminibusve hausto : sed ex Aqua quadam perpessa, omnibus obvia ; paucissimis cognita ; Que in se
habet, quaecunque ad totius operis complementum sunt ei necessaria, omni a moto extrinseco
13. Est autem Natura haec quaedam media inter Majorem et Minorem Mundum ubique repertitia, et tam ad pauperem, quam ad divitem :
uti adferunt omnes Philosophi. Projicitur enim in viis, et conculcatur pedibus : licet tam admirandarum operationum sit
fons. Unde tria illa corporis nostri principia, diversis proprietatibus gaudentia, sunt instauranda.
14. Haec materia resoluta in suam propriam Aquam (ab Aqua enim omnis Generatio profluit.) per 4. Elementa rotatur, donec in Naturam Astralem fixam abeat, in Ovo Physico; quod a fotu
Gallinae indesinenter ovis incubantis dicitur: alioqui spes omnis sobolis periret.
15. Sic Avis Hermetis semel inclusa Caveae, quae Furnus est, vaporosi ignis nostri calore continuato gradatim excitanda est,
donec seipsam excludat, et suo partu omnes sanet.
16. Ut autem in trium Principiorum perpessae hujus Aquae praeparatione nihil addimus substantiali Materiei, nihilque
subsistentibus tribus proprietatibus in ea adimimus, sed sola praeparatione superflua removemus, hoc est, heterogenea, sive Terram emortuam, et aquam insipidam: ita opus Hermeticum trium Principiorum praeparatorum conjunctione inchoatur sub certa proportione, nempe pondere corporis sesquialtera parte
Spiritum Animamque propemodum aequantis.
17. Exinde fotu continuo regenda sunt omnia, ut Natura Agens interior, neque cesset, neque excessum patiatur. Fiat igitur initio
ignis mitis, et primus quidem quasi 4. guttarum sive filorum : donec Materia nigrescat. Post adde, ut sit quasi 14. filorum: donec se abluat, et Iris apparens in colorem Gryseum desinat. Inde urge quasi 24. filis, usque ad Albedinem perfectam, Nive superiorem,
fluentem, fixam, quae est Luna Microcosmi.
18. Quod si procedere cupis ad Rubedinem perfectam, per dies 70. continuabis ignem, donec Lapis vertatur in Rubinum pellucidum
gravem, atque ponderosum: qui quidem est Sol Microcosmi, eodem modo augmentandus, quo fuit inchoatus. Hujus unum
granum, sex mille granis aequipollet: unde in tenuissima Dosi est administrandus.
RADIX ELIXIRIS
Δ
R. E.
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I.
Entheus est olli vigor et coelestis imago,
Unde fluit nobis haec medicina Dei.
FINIS
I
NOTE:
(1) Nato a Parigi nel 1874 da una antica famiglia della Borgogna, si forma presso i gesuiti, ed apprende latino, greco ed ebraico, padroneggiando, nel contempo, italiano e tedesco. Entra presto in contatto con gli ambienti occultistici parigini, con personaggi come Stanislas De Guaita, Papus (Gérard Encausse) e Péladan, divenendo ben presto uno degli ermetisti più
autorevoli e degli studiosi più stimati. Si guadagna da vivere con l’insegnamento del francese, compie studi musicali e, tra il 1910 ed il 1920, suona come organista in una chiesa parigina. Il
suo debutto letterario avviene con la traduzione francese del Trattato dei sette gradi della perfezione di Savonarola. Studioso infaticabile, gli si debbono, oltre alle opere citate, il saggio
Lourdes, etude hiérologique (1902) – reperibile in traduzione italiana presso le edizioni Mediterranee col titolo di Lourdes, città iniziatica – e l’ispirata operetta Le grand Oeuvre
(anch’essa reperibile in traduzione italiana per i tipi delle Mediterranee). Muore nel 1929, poco dopo l’uscita del Musée.
(2) Grillot de Givry, Aphorismes basiliens ou Canons Hermétiques – Traité des sept grades de la perfection, préface de Philippe Monville (Milano, 1980), raccoglie la prima traduzione di de Givry (quella del trattatello savonaroliano, come abbiamo detto) e la riproposizione, con una introduzione di poche righe, della versione francese degli aforismi comparsa nell’opera di de
Castaigne. L’edizione originale degli aforismi curata da de Givry era uscita sotto forma di opuscolo a tiratura limitata (72 esemplari numerati, a l’usage des initiés) nel 1909.
(3) Il frontespizio dell’opera recita Seconde édition, ma non abbiamo alcuna notizia della eventuale edizione precedente. Grillot de Givry cita un’edizione del 1681.
(4) Gabriel de Castaigne, cappellano di Enrico IV e Luigi XIII, dottore in Teologia, francescano conventuale di Avignone e vescovo di Saluces, alchimista rinomato, uomo di
fiducia di Maria de’ Medici ed amico di Beroaldo da Verville. Il Ferguson (John Ferguson – Bibliotheca Chemica – a bibliography of books on alchemy, chemistry and pharmaceutics s.d. ma reprint dell’ediz. del 1954 di Londra - Kessinger publishing, pp. 148 -149) segnala, prima della raccolta citata, l’uscita de L’Or Potable qui guarit de tous maux (Paris 1611) e Le Gran Miracle de la Nature Metallique (Paris 1615). Entrambe queste opere, insieme a Le Paradis
Terrestre e Le Trésor Philosophique de la medecine Metallique, sono incluse nell’edizione de Les Oeuvres del 1661. Il de Castaigne viene annoverato dallo Chevreul, nella sua lunga
recensione al Cours de Philosophie Hermétique di Cambriel, tra i pochi che nel XVII secolo acquisiscono fama come alchimisti (Journal des Savants Maggio 1851, pag. 291). Il de
Castaigne è pure citato di sfuggita da Hoefer (F. Hoefer, Histoire de la chimie depuis les temps les plus recules jusqu’a notre époque Hachette, Paris 1843, vol. II, pag. 331) e dal Figuier (L.
Figuier, L’alchimie et les alchimistes, essaie historique et critique sur la philosophie hermétique, Hachette, Paris 1860, terza ediz., pag. 60) che però lo chiama de Chataigne. Sul de Castaigne ed il suo milieu, ultimamente, vedi François Secret, De quelques traités d’alchimie
41
au temps de la régence de Marie de Médecis , in Chrysopoeia¸ III, fasc. 4, Octobre – Décembre 1989, in particolare L’Or Potable (1613), Le grand miracle de Nature (1615) et Le paradis
terrestre (1615) de Gabriel de Castaigne¸
(5) L’opera, che sfugge ai consueti repertori bibliografici specialistici, viene citata di sfuggita da Hoefer in un’edizione di Strasburgo del 1681 (F. Hoefer, Histoire de la chimie... cit. vol. I
pag. 466) di cui non abbiamo, però, altre segnalazioni.
(6) Un’edizione in tedesco dei trattatelli contenuti nel De Microcosmo era uscita, qualche anno prima, in: Ein kurtz summarischer Tractat, von dem grossen Stein der Uralten, daran so viel
tausend Meister anfangs der Welt hero gemacht haben, darinnen das gantze werck nach Philosophischer art für Augen gestalt, mit seiner eigenen Vorrede für etlich viel Jahren
hinterlassen, Und nunmehr allen filijs doctrinæ zu gutem Publiciret den Druck ans Leicht bracht. Durch Iohannem Thölden Hessum. 8° Gedruckt zu Eisleben, durch Bartholomæum Hornigk, 1599. Una seconda edizione, che includeva anche Le dodici chiavi¸ era uscita nel 1602 (cfr. Duveen, Biblotheca alchemica et chemica, Weil, London 1949, pgg. 46-47). E’
probabilmente da una di queste due edizioni che traduce Angelo Medico.
(7) Come abbiamo visto il frontespizio recita testualmente: «.. cum interpretis aphorismis Basilianis et praefatione philosophica». Sarebbe dunque il traduttore delle due operette di
Basilio Valentino l’Hermophilo Philochemico autore degli aforismi. Faremo tra beve qualche ipotesi sull’identità del misterioso personaggio.
(8) Cfr. Joannis Kepleri astronomi: Opera Omnia. Edidit Ch. Frisch, 1858, volumen I, pgg. 203-204.
(9) Ferguson, che riprende la notizia da Roth- Scholtz, segnala l’esistenza di questa edizione (Ferguson, op. cit., Vol. I, pag. 233)
(10) Ferguson, op. cit., Vol. I, pgg. 364 – 365. Duveen segnala due edizioni di una traduzione in inglese, una del 1659, l’altra, ristampa della prima, del 1667 (Duveen, op. cit., pag. 189). Riportiamo il frontespizio della prima, in cui la Cheiragogia è unita all’Epistola sul Fuoco Filosofico del Pontano: Cheiragogia Heliana. A Manuduction to the Philosopher’s magical Gold: out of which Profound and Subtile Discourse Two of the particular Tinctures, That of Saturn and Jupiter Conflate: and of Jupiter Single are recommended as shirt and profitable
Works, by the Restorer of It to the Light. To which is added: Zoroaster’s cave: Or an intellectual Echo &c. Together with the Famous Catholic Epistle of John Pontanus upon the
Minerall Fire. By Geo. Thor, Astromagus. London, printed for Humphrey Moseley at the Prince’s Armes in St. Paul’s Church-yard. 1659.
(11) THEATRUM chemicum, praecipuos selectorum auctorum tractatus de chemiae et lapidis philosophici antiquitate, veritate, iure, praestantia et operationibus, continens: In gratiam
verae chemiae, et medicinae chemicae studiosorum, (ut qui uberrimam inde optimorum remediorum messem facere poterunt) congestum, & in sex partes seu volumina digestum; singulis voluminibus, suo auctorum et librorum catalogo primis pagellis: rerum vero et verborum Indice postremis annexo. Volumen primum [-sextum]. Argentorati : sumptibus
heredum Eberh. Zetzneri, 1659-61.
(12) Più precisamente si ritrova, in calce ad alcune edizioni dei suoi scritti alchemici, la firma Heliophilus à Percis. philochemico. Vediamo cosa ne dice il Ferguson: «Quale fosse l’oggetto
di questa mistificazione, al di là del gioco dell’anagramma, è difficile da capire. Per quanto riguarda il nome Heliophilus, mi pare semplicemente un epiteto, che per qualche equivoco è stato eretto a pseudonimo. “Heliophilus à Percis.” non è molto lontano dall’essere un altro
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anagramma di Raphael Eglin Iconius, allo stesso modo in cui “Spes mea est in Agno “ lo è di Joannes d’Espagnet....» (Ferguson, op cit, pag. 365).
(13) Abbiamo presentato data e luogo di nascita desumendoli dall’articolo omonimo della Biographie universelle di Michaud, ma vi è discordanza in merito. Per il Ferguson Eglinus
nasce a Götz, nel Münchhof. Per The New Schaff-Herzog Encyclopedia of Religious Knowledge.di Phillip Schaff [1819-1893] Edited by Samuel Macauley Jackson. Grand Rapids: Baker Book House, 1952, alla voce Eglinus, il teologo e alchimista è nato a Rüssickon, vicino
Zurigo,
(14) Vedi più oltre, l’aforisma n°8.
(15) Vedi gli aforismi nn° 2, 3, 4 e 5.
(16) Abbiamo già trattato sommariamente del simbolismo dei tre principi paracelsiani in rapporto al simbolismo del tre e del quattro in Vas Electionis: Cenni introduttivi al simbolismo
del Vaso, seconda parte in Atrium¸anno IV numero 3 (la prima parte era stata pubblicata sul numero 2 dello stesso anno), in particolare pgg. 8 – 19.
(17) Paracelso, Oeuvres médico-chimiques ou Paradoxes – liber Paramirum I - II , Sebastiani, Milano 1975, tomi 2 in uno, reprint dell’edizione parigina del 1913, t. I, pgg. 158-162. La
struttura paracelsiana della creazione come espressione dell’unione dei tre principi di zolfo, mercurio e zolfo, rivoluzionerà l’intera cultura medico-scientifica ed alchemica, per penetrare perfino, a meno di due secoli di distanza, anche nella simbologia mistica. Cfr. Angelo Silesio:
“Che Dio sia uno e trino, te lo mostra ogni erba / Dove in uno si vedono sale, mercurio e zolfo” (A. Silesio, Il Pellegrino Cherubico, a cura di Giovanna Fozzer e Marco Vannini,
Edizioni Paoline, Cuneo 1992, pag. 151)
(18) «L’uomo ha la sua materia prima nel limbo, che è lo zolfo, il mercurio ed i sali dei quattro elementi, coagulati in un sol uomo». (Paracelso, op. cit. t. I, pag. 163). Non sarà inutile
richiamare brevemente l’antropogonia paracelsiana: «Prima che il cielo e la terra fossero formati, lo Spirito del Signore fluttuava sulle acque ed era come sostenuto da queste. Queste
acque erano la matrice, poiché è nella acque che il cielo e la terra sono stati creati, ed in nessuna altra matrice. In queste era portato lo Spirito del Signore, vale a dire lo Spirito di Dio
che è nell’uomo e che tutte le altre creature non posseggono. (...) Poiché, dunque, il mondo non è altra cosa che un’acqua (...) così essa è la matrice del mondo e di tutte le creature che sono in
esso. E poiché doveva esistere anche una matrice dell’uomo, nella quale Dio ha formato l’uomo (...) la matrice di quest’uomo era il mondo intero; la sua semenza era il limbo, vale a dire una semenza nella quale risiedeva l’intero mondo (...). In seguito l’uomo è stato separato da questa matrice, e da lui, è stata formata la sua propria matrice, vale a dire quella femmina
che non è altro che il mondo intero; e lo Spirito del Signore è in essa (...). Vi sono così tre matrici. La prima è l’acqua, sulla quale era portato lo Spirito del Signore, ed era quella matrice
in cui sono stati formati il cielo e la terra. In seguito furono formati cielo e terra; poi, dalla mano di Dio, fu formata la matrice di Adamo. Infine, dall’uomo fu formata la femmina, che è la matrice di tutti gli uomini fino alla fine del mondo (...) poiché il Limbo è la prima materia dell’uomo, è indispensabile al medico conoscere cos’è questo Limbo: Perché tutto ciò che è
Limbo è uomo. Chi conosce il Limbo conosce cos’è l’uomo. (...) in verità il Limbo è il cielo e la terra, la sfera superiore e quella inferiore, i quattro elementi e tutto ciò che è in essi
contenuto» (Paracelso, op. cit. t II, pgg 166-170). Risulteranno assai più chiari, a questo punto, i riferimenti degli aforismi successivi (11–12–13–14)
(19) E’ la rotazione degli elementi, ovvero la reiterazione delle operazioni filosofiche di cottura della materia e sublimazione delle materie sottili, mediante l’azione del fuoco.
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Attraverso la reiterazione delle cotture, si ottiene appunto quel sale filosofico che è il vero soggetto dell’arte.
(20) Ovvero la parte volatile eccitata ed accresciuta dalla reiterazione delle sublimazioni. Spesso, nella simbologia alchemica, questo uccello è l’aquila, condotta nelle operazioni ad
uccidere il leone - il fisso - . Cfr., ad es., il Filalete, Introitus apertus ad occlusum regis palatium (1645) – in traduzione italiana in Filalete, Opere tradotte e curate da Paolo Lucarelli,
Mediterranee, Roma 2001.
(21) Il corpo pesa cioè quasi una volta e mezzo lo Spirito e l’Anima, ovvero corrisponde ai 3/2 dello Spirito e dell’Anima.
(22) « Quel fuoco non brucia la materia e non separa niente da essa, non separa le parti pure dalle impure, come dicono i Filosofi, ma converte tutto quanto il soggetto in purezza (…) quel fuoco si comprende solo per mezzo della profonda meditazione: allora può essere capito nei
libri, e non prima » (Giovanni Pontano, Epistola sulla Pietra Filosofale, citiamo dalla traduzione italiana in Il Filo di Arianna: 44 trattati di alchimia scelti e tradotti da Sabina e
Rosario Piccolini, Mimesis, Milano 2001, 3 vol., vol. 1 pag. 330)
La questione dei regimi del fuoco è, in alchimia, della più profonda importanza. In questo caso, l’autore si uniforma al dettame tradizionale che prescrive l’applicazione di un fuoco
progressivo nella cottura filosofica. Il Fuoco – il sistema di misurazione in fili adoperato negli aforismi ci è tuttavia sconosciuto – deve seguire una andamento progressivo, dal fuoco
debolissimo a quello rosso, di fiamma, delle fasi finali. A partire da questa indicazione di base, il numero e l’intensità dei fuochi consigliati dai testi possono variare. Spesso se ne contano
quattro: « Generalmente si distinguono nel fuoco quattro gradi di calore, il primo è quello del bagno, del letame, o di digestione. E’ il più dolce, quello che noi chiamiamo Tiepido (...) Al
tatto, bisogna che la mano possa sostenere l’effetto del fuoco senza una sensazione viva (...) Il fuoco vaporoso dei Filosofi è di questo genere; essi lo paragonano al calore che sentono le uova quando sono covate dalla gallina (...). Il secondo grado è quello del bagno di ceneri; è più vivo
di quello del bagno di acqua tiepida o del bagno vaporoso; nondimeno deve essere così moderato che, facendosi sentire più vivamente, gli organi non ne siano affatto alterati. Il terzo è un calore che non si deve poter sopportare senza bruciarsi, come quello del bagno di sabbia, o di limatura di ferro. Il quarto è un calore così violento che di più non si può dare; è quello dei
carboni ardenti e della fiamma, che separa, disunisce le parti dei misti, e li riduce in ceneri o le fonde; è il fuoco di riverbero. Tutti questi gradi, però, hanno ciascuno vari gradi di intensità» (Dom. A. G. Pernety Dizionario Mito-ermetico, traduzione di Giacomo Catinella, Phoenix,
Genova 1985, vol.I, pag. 148). Altre volte, invece, come nel caso degli Aforismi¸ gli Artisti ne contano tre: «Propriamente abbiamo tre fuochi, senza i quali l’arte non è portata a compimento
e chi lavora senza loro fatica invano. Il primo è di lampada ed è continuo, vaporoso, aereo e fatto ad arte per scoprire, infatti la lampada deve essere proporzionata alla chiusura e in essa bisogna usare grande giudizio, cosa che non capita ad un artefice di testa dura, perché se il
fuoco di lampada non è proporzionato geometricamente e nel modo dovuto o non è di calore perfetto, non vedrai in tempo i segni designati: o per l’eccessivo ritardo ti sfuggirà ciò che
attendi, o per l’eccessivo ardore i fiori dell’oro si bruceranno e crudelmente piangerai la tua fatica. Il secondo fuoco è delle ceneri, nelle quali è chiuso il vaso sigillato ermeticamente, o
piuttosto è quel calore dolcissimo che [provenendo] dal vapore temperato della lampada avvolge in modo uguale il vaso; esso non è violento se non viene eccessivamente eccitato, è digerente, è alterante, è preso da un corpo diverso dalla materia, è unico, umido e innaturale, etc. Il terzo è quel fuoco naturale della nostra acqua, il quale è anche chiamato contro natura,
perché è acqua e nondimeno dall’oro fa un puro spirito, cosa che il fuoco comune non può fare; è minerale, eguale, partecipa dello zolfo, dirompe, congela, scioglie e calcina tutte le cose (...)” (Artefio, Il libro segreto dell’arte occulta e della pietra dei filosofi, in Il Filo di Arianna cit..,
vol. III pag. 25)
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Arnaldo Da Villanova, a proposito dell’applicazione di un fuoco violento sulla materia non preparata, nel Flos Florum, mette il lettore in guardia dal sublimare “non con sublimazione volgare, come intendono gli idioti”, essi “per mezzo del fuoco gagliardo fanno ascendere i
corpi con gli spiriti e dicono allora che i corpi sono sublimati; si sono invece sbagliati perché dopo li trovano più immondi di quanto prima non fossero” (in Il Filo di Arianna cit.., vol I, pag. 37). Ciò avviene essenzialmente perché la materia volgare, sottoposta ad una azione
dissolvente violenta con un fuoco eccessivamente eccitato, lascia innalzare, insieme al mercurio filosofico spirituale, una grande quantità di fecce ed impurità volgari. Un altro grave
rischio del fuoco eccessivo è riportato dal Filalete: «La combustione dei fiori prima che le tenere materie siano state estratte bene dalla loro profondità è un grave errore, tuttavia si commette facilmente. Bisogna cautelarsene, specialmente dopo la terza settimana. Infatti
all’inizio l’umido è così abbondante che se hai retto l’opera con fuoco troppo forte, il vaso fragile non sopporterà la grande quantità di venti e si romperà, a meno che il tuo vaso non sia
estremamente grande, ma allora l’umido si disperderà in così tanto spazio da non tornare più al proprio corpo, o almeno non abbastanza da rianimarlo» (citiamo da Filalete, Opere cit.)
(23) Senza poterci dilungare sul significato simbolico del triangolo all’interno della tradizione esoterica occidentale, diremo solo, in questa sede, che il delta posto in fine degli aforismi
richiama il simbolo alchemico del fuoco, la vera base delle operazioni alchemiche, il quale è a sua volta collegato con il significato pitagorico del tre e, nella tradizione cristiana, con la
Trinità. L’autore gioca inoltre sulla presenza, all’interno del segno greco equivalente alla D latina, che delimita in triangolo isoscele simile ad uno di quelli delimitati dalle due metà di una X, sulla presenza, nel Δ, delle forme approssimative e stilizzate della L e della A. In tal modo,
l’acrostico R.I.E. è scioglibile con RADIX ELIXIR. Il triangolo trinitario precede significativamente il riferimento religioso finale
SPECCHI MAGICI E ARS SPECULARIS:
DEI RIFLESSIVI INCANTI
Luciano Pirrrota - saggista
Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n° 34 (febbraio 1989), pp. 34-43, riprodotto per gentile concessione dell’autore che ne detiene i diritti.
Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo.
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Dama allo specchio (guazzo su carta, india, 1730 circa)La pratica della catottromanzia, la divinazione condotta con l’ausilio degli specchi, ha radici
simboliche profonde, connesse con le figure archetipiche della donna, dell’acqua e della luna: a questo sostrato simbolico è legato anche un certo carattere i nefandezza che gli spechi conservano in
diverse tradizioni culturali. gli oracolanti hanno la possibilità di portare alla superficie «verità» occulte, ma rischiano anche di «aver gli occhi cavati dai corvi».
Il tema dello specchio ha sempre affascinato lo spirito umano attirando nel corso dei secoli l’attenzione delle più svariate figure di ricercatori. Agli inizi de ‘900 le scoperte relative ai territori inconsci da parte di Freud e Jung ne hanno fatto un simbolo elettivo degli oscuri recessi dell’anima: lo specchio
inteso come luogo di manifestazione del «doppio», canale di decantazione della controparte occulta della personalità
cosciente, è stato studiato all’interno del mito arcaico di Narciso, della storia avventurosa di alice, del sostrato superstizioso di
molte tradizioni popolari.- Nonostante la molteplicità diversificata degli approcci, il concetto di superficie riflettente (al
di là della sua riduzione oggettuale) ha mantenuto un pars irriducibile alle spiegazioni, un quid refrattario a qualsiasi
classificazione, che continua a circonfonderlo di inquietante enigmaticità. L’esegesi simbolica dell’immagine speculare ha dato luogo a tante interpretazioni da non richiedere in questa
sede ulteriori ragguagli; tuttavia è propri partendo dalla favola e dal mito, ricchissimi di contenuti simbolici, che può essere
avviato un discorso su di un aspetto per nulla secondario del
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contesto catottrico (1): quello dei cosiddetti «specchi magici», conosciuti in differenti culture fin dalla più remota antichità, e
sui quali la fantasia della gente ha esercitato un immenso potere deformante. va notato anzitutto, e forse questo è sfuggito meno
ai bambini che agli adulti, che la prodigiosità dello specchio, nella quasi totalità dei mitologemi, non è mai disgiunta da una
certa negatività. dalla «strega» malvagia di Biancaneve ai protagonisti dei racconti medio-orientali, dalle saghe celto-scandinave, alla favolistica araba, i detentori dell’oggetto in
tutte le sue innumerevoli morfologie, appaiono portatori di un potere misterioso che riveste in qualche modo una latente
pericolosità. Del resto l’aspetto nefasto dell’atto di rispecchiarsi e la letalità del mezzo che lo permette, emergono già nella
vicenda disperata del giovinetto amato invano dalla ninfa Eco. Ma i fattori interconnessi che diacronicamente consolidano nel
tessuto culturale una simile connotazione, sono alcune referenti fisse da sempre collegate con le superfici di riverbero. Esse
possono essere rappresentate in sintesi da diagramma riportato in basso. Sebbene non sia possibile qui una disamina ancorché
sommaria delle relazioni che collegano (e non solo sul piano simbolico) i singoli elementi di tale struttura, sarà bene almeno
accettarne qualcuna, ai fini di una maggiore chiarezza dei contenuti che si verranno a esporre. Il rapporto LUNA-ACQUA conosciuto da tutte le discipline tradizionali (basti ricordare
l’Alchimia) e dalla psicologia del profondo, è troppo noto anche alla scienza profana attraverso fenomeni quali quello del flusso
periodico delle maree, per richiedere ulteriori precisazioni in merito. La connessione LUNA-DONNA, altrettanto scontata
nell’ambito della storia delle religioni, data la frequentissima identificazione sia in occidente che in oriente di molte dee con l’astro notturno, trova ulteriore riscontro a livello fisiologico, nel
collegamento esistente tra fasi lunari e ciclo mestruale femminile (2). Il nesso LUNA-SPECCHIO oltre all’analogia funzionale (entrambi inerti per natura, vivono di vita riflessa; la luna stesa è una sorta di specchio), e morfologica (la sagoma tondeggiante), riaffiora nella pratica occulta, in cui numerosi esperimenti con lo specchio, sia a scopo divinatorioo che magico-operativo, devono tener conto dei ritmi lunari e svolgersi (specialmente se il rito è
all'aperto) alla luce soffusa del satellite terrestre. Il legame ACQUA-DONNA è anch'esso universalmente notorio nei domini
della simbolica mitico-religiosa, esoterica, psicoanalitica, artistico-letteraria e la sua trattazione, da sola, richiederebbe un'
intera enciclopedia.
In occidente la natura femminile dell'acqua, temibile per le sue caratteristiche di incostanza e molteplicità rispetto all'unità
stabile del principio igneo-solare, viene affermata nell'insegnamento orfico, eracliteo e platonico; riecheggiata da
Clemente Alessandrino e Giamblico, si trova ribadita senza soluzione di continuità nella letteratura alchemica nonché religiosa durante l'intero arco del Medioevo. Benché sia
quest'ultima ad attuare la saldatura definitiva tra ingannevolezza dell'elemento acquatico (rappresentato dal
serpente) e volubile doppiezza dell'indole femminile (paradigmatica in proposito, per la definizione della donna quale
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instrumentum Diaboli, l'esegesi di S. Gerolamo, il quale già nel termine che la designa in latino – fe-mina da fe-minus: che serba
minore fedeltà - riconosceva la radice costitutiva dell'essenza muliebre; predisposta ab imo al peccato originale) la polarità negativa incarnata da tale archetipo era manifesta a tutte le civiltà «tradizionali» e utilizzata conseguentemente durante i
rituali misterici. Peraltro il fascino letale della compagna dell'uomo è costantemente adombrato nell'universo mitologico,
dove le varie Circi, Medee, Melusine, Lamie, Sirene, ecc. rammentano, sotto metafora, la potestas annientante celata in essa. Ad oriente analoghe attribuzioni si rintracciano sia in area babilonese che estremo orientale (Cina, India, Giappone), dove la peculiarità dissolvente legata all'acqua (con le prerogative classiche di umidità e passività) viene assimilata alla forza
trascinante dell'eros, suscitato nell'uomo dal contatto carnale con la polarità opposta (3).
L'associazione ACQUA-SPECCHIO risulta palese nei suoi termini di corrispondenza, vuoi a livello di strutture culturali
profonde (il più antico e semplice mezzo di riflessione dell'immagine è offerto proprio dall'acqua, che costituisce quindi
il capostipite naturale di tutti gli specchi), vuoi di tecniche vaticinatorie (lo specchio può essere sostituito, come si vedrà, da recipienti colmi d'acqua, senza alterazione del fenomeno atteso). Per quanto riguarda infine la correlazione DONNA-
SPECCHIO, questa emerge così chiaramente dalla stessa storia dell'iconografia e del costume, da costituire un binomio ormai
inscindibile: dee, regine, dame, streghe, vi contemplano a seconda dei casi la bellezza, i guasti del tempo, il diavolo in
persona (4).
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Narciso si specchia nell'acqua, arazzo del XV - XVI secolo (part.).
La rete dei rimandi sopra illustrati conduce pertanto ad una prima conclusione circa l'atmosfera di negatività che più o meno velatamente accompagna lo strumento riflettente: lo specchio racchiude in sé potenzialità nefaste, o almeno pericolose, in
quanto strettamente collegato alla costituzione intima dell'acqua, della donna e della luna (5).
Lo specchio adoperato in occultismo non sfugge a questa regola; anzi, considerando che fin dall’antichità fu impiegato a scopi precipuamente mantici e che, nonostante la presenza di
figure maschili di indovini, la maggior parte dei personaggi legati alla divinazione apparteneva all’altro sesso (sibille, profetesse ecc.), la pratica predittoria andò sempre più a identificarsi con l’aspetto cosiddetto «lunare» della magia, contrapponendosi
(pur se condotto ai massimi gradi) al magistero «solare» virile, operante nella prospettiva della realizzazione trascendente
dell’individuo. Poste tali necessarie premesse, si apre all’indagine il versante più propriamente pratico della
catottromanzia. In primis : con che cosa e come vengono fabbricati gli «specchi magici»? Le ricette antiche e moderne
presentano a riguardo una ampia casistica. In Europa si trovano maggiormente usati fogli di rame, stano acciaio; nell’india si
preferisce l’oro, in Giappone la giada opportunamente levigata (6). Materiali alternativi sono costituiti da minerali fossili
(antracite) e cristallini (quarzo, malachite, onice ecc.), tutti 49
lavorati in modo da offrire un’area lucida, possibilmente senza fenditure. Varianti diffuse fin da tempi remoti sono i contenitori colmi di liquidi e parecchie pietre preziose o semipreziose di cui non viene più osservata la superficie, ma l’interno trasparente
(7).
Un esempio emblematico della possibilità di interscambio o coniugazione di simili mezzi è offerto dalla coppia di maghi
elisabettiani John Dee – Edward Kellly, che si avvalevano, per le sedute di comunicazione con altre dimensioni della realtà, di numerose «pietre di lettura», oltre a un particolare specchio
nero di ossidiana risalente alla spedizione azteca di Cortes (8).
La prima testimonianza occcidentale di predizione mediante superfici brillanti (una sorta di protocatottromanzia) ci giunge da Aristotele, che negli Arcanesi (appr. 426 a. C. )riferisce dell’uso di uno scudo d bronzo cosparso d’olio, da
parte del soldato Lamaco in procinto di partire per la guerra contro Sparta (9). Intorno allo stesso periodo si colloca il vaso detto «a figure rosse» di Vulci (oggi custodito nel Museo di Berlino), raffigurante la giovane profetessa Temi che si
serve a fini oracolari di una coppa svasata (forse uno specchio di bronzo concavo), mentre non molto diverso (un nappo d'argento) appare il mezzo
impiegato dal sileno barbuto dell'affresco augusteo di Pompei durante le fasi dell'iniziazione dionisiaca (10). Non si può dire tuttavia che materiali e tecniche di fattura degli specula «magici» conoscano nel tempo effettiva evoluzione. In
tutto il corso di questa branca dell' Ars specularis, modalità creative estremamente elaborate e componenti rarissime da un lato, si alternano dall'altro
a materie prime - e procedimenti modestissimi. Talvolta a comunicare con l'invisibile basta un semplice bacile d'acqua, un'unghia inumidita, un tuorlo
d'uovo, un pezzo di cartone ricoperto di stoffa scura da un lato e carta stagnola dall'altro (specchio del Barone du Potet), una lastra di vetro scaldata cosparsa di limatura di piombo impastata con olio d'oliva (specchio di Swedemborg); a volte
occorre invece un complicato corredo di lamine d'oro e d'argento incise, un marchingegno elaboratissimo come lo «specchio cabalistico» (11), o, dopo l'800, il raffinato apparecchio costituito da due dischi metallici calibrati di rame e zinco (specchio galvanico) che avrebbe sfruttato la combinazione elettromagnetica per
stimolare il nervo ottico umano e sottoporlo all'influenza dei metalli. Bisogna infine ricordare fra gli specchi sofisticati - retaggio sembra di tradizioni arcaiche
- quelli a «strati magnetici vivi» racchiudenti nel loro interno, a seguito di accurata sigillazione, sostanze organiche quali sperma, saliva, sangue, mestruo, del cui impiego si è venuto a sapere solo in tempi relativamente recenti grazie
alla diffusione di testi appartenenti a reconditi sodalizi iniziatici (12).
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Stampa polare francese del 1680 circa, raffigurante episodi di catottromanzia e di
lecanomanzia legati al personaggio di Catherine Montvoisin, detta la Voisin,
chiromante, astrologa, fattucchiera dell'epoca di Luigi XIV. Tra i clienti della Voisin vi furono Madame de Montespan
(una delle favorite del re) e altri membri di corte. La pratica delle messe nere, in cui si diceva che fossero sgozzati dei bambini, fu fatale alla maga, che fu arsa sul rogo il 22
febbraio 1680.
Un oracolo che legge i pronostici in una coppa (vaso etrusco della seconda metà del V
sec. a. C.)
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I sette peccati capitali, scomparto della Superbia, di J. Bosch. La donna e lo specchio retto dal diavolo sono gli elementi centrali del dipinto.
Malgrado i menzionati collegamenti fra mezzo speculare e polarità femminile, non sarà inutile ricordare che presso certi
gruppi esoterici gli specchi «magici» sono sempre stati suddivisi in maschi e femmine; ) primi tanto potenti magneticamente da
riuscire a influenzare una persona a distanza o da materializzarne la presenza (ruolo attivo); i secondi, più piccoli, adatti a favorire la veggenza in genere e gli stati di estasi (ruolo
passivo) (13).
Quanto alle modalità di costruzione degli specchi stessi, bisogna dire subito che la loro finalità «magica. implica
necessariamente una serie di precauzioni, manipolazioni, cerimoniali altrettanto variati, come alterne, complicate e
talvolta contraddittorie sono le istruzioni e le formule contenute nella sterminata letteratura occulta.
Da questa congerie babelica di dati, emergono comunque alcune «costanti» che circoscrivono all'interno del loro confine
l'infinita fioritura delle varianti tecniche. Venuti in possesso degli ingredienti necessari, non ci si può accingere all'Opus specularis
senza i dovuti accorgimenti: le proporzioni delle componenti devono essere accuratamente rispettate, l'esecuzione richiede
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particolari tonalità di luce (14), precisi tempi astrologici, consacrazioni, purificazioni mediante fumigazioni o «lavaggi»
sigillazioni (modelli a strati o a serbatoio) e saldature con amalgame d'oro, argento, cera d'api. Vanno osservati altresì i
limiti dimensionali (non si possono superare determinate grandezze), le condizioni metereologiche (notti calme e serene)
(15), la temperatura ambientale (16), la conduttività elettroagnetica. Di solito la forma più adatta è quella ellittica o rotonda, su piano di rifrazione concavo, ma, prescindendo dalle
«pietre di visione», troviamo anche specchi convessi e piatti (17).
Particolare della stampa riprodotta sopra: la lecanomanzia "truccata" della voisin
Una volta messo a punto, lo specchio diventa uno strumento molto personale che il solo contatto di mani estranee, o maggiormente la manipolazione da parte di soggetti non qualificati, possono seriamente danneggiare. La specifica delicatezza dell'oggetto necessita anzi, secondo i testi più autorevoli, di un'accurata protezione dagli agenti esterni
(polvere, umidità, ecc.) per cui se ne consiglia oltre alla custodia nell'oscurità e in luogo inaccessibile, la fasciatura con drappi di
seta o velluto di colore scuro.
Passate in rassegna le varie tipologie di specchio «magico» nonché le modalità materiali di approntamento, si apre ora
all'indagine il campo sconfinato delle procedure applicative. È opportuno però effettuare prima una fondamentale distinzione.
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Sebbene metodi esecutivi e stadi iniziali di avanzamento si trovino spesso a somigliare quando non a coincidere, differenti si profilano gli scopi che muovono lo sperimentatore nell'uso di tali strumenti. Lo speculum è per la maggior parte degli individui un mezzo divinatorio, ma per un numero molto inferiore di altri, il
supporto di esercizi concentrativi che mirano a risultati assai più elevati di un semplice vaticinio azzeccato.
L'antichità classica o la tradizione giudaica, soltanto per rimanere in ambiti ben conosciuti, tramandano molteplici esempi di letture del futuro mediante questi schermi di
riverbero: Aristofane, Varrone, Pausania, Sparziano, Plinio, Giamblico, Apuleio, riferiscono vari episodi legati a tale abitudine oracolare, mentre nelle Sacre Scritture citazioni emblematiche si
trovano in Genesi (XLIV, 5) e in S. Paolo (I ai Corinzi, XIII, II, 12).
Sulla base del sostrato antico, di cui vengono sempre riecheggiati certi motivi portanti, le testimonianze a riguardo
aumentano per l'epoca medioevale, umanistico-rinascimentale, controriformistica, traversando indenni l'età dei «lumi» fino a
moltiplicarsi in quella fucina di fermenti occulti che fu l’ottocento romantico e il suo seguito decadente (18).
Dall'esame comparativo dei suddetti resoconti, raffrontato alle notizie testuali provenienti dall'oriente, affiorano anzitutto
concordanze significative, sulle metodologie aventi come tramite superfici lucido-brillanti: si tratti di liquidi, di cristalli o di
specchi, la visione paranormale per verificarsi richiede che il postulante non sia, per lo più, la stessa persona che vede
(prevede); occorre cioè un mediatore (medium) tra la fonte rivelatrice (divina, demoniaca, ecc:) e l'organo interrogante. Tale intermediario nella gran parte dei casi è un bambino, ovvero una
fanciulla vergine; nei rimanenti un ragazzo impubere o una donna incinta. Risulta evidente da ciò che requisito
fondamentale per l'esercizio di un simile ministero sia lo stato «originario» di purezza, estensibile dalle prime tre categorie anche alla quarta, attingente, seppur temporaneamente, alla
sfera del sacro (intangibilità della donna gravida presso le varie civiltà) (19).
L'innocenza del catalizzatore, comunque, non basta da sola a garantire la congruità del pronostico. Sia l'impetrante, che una terza figura spesso presente (colui che interpreta la «visione») devono ottemperare a prescrizioni tassative prima di essere
degni di «ricevere»: regime alimentare vegetariano preliminare, astensione dai rapporti sessuali (20), assenza di contatti
contaminanti (cadaveri, donne mestruanti, ecc.). Soddisfatti questi requisIti comincia l'esperienza effettiva, che nonostante
pittoresche varianti presenta nel complesso una medesima liturgia: ci si pone alle spalle del giovane medium («pupilla» lo
chiama il Kremmerz, «colomba» il conte di Cagliostro) fatto sedere di fronte alla matrice riflettente (21); gli si ordina di
fissarla attentamente stendendo nel contempo una mano sul
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suo capo o allungandole entrambe all'altezza dell'occipite di lui. Nello spazio di pochi istanti sul piano rifrangente dovrebbero manifestarsi delle nubi policrome, quindi i colori dello spettro
solare, infine la visione vera e propria.
Narciso, olio di François Lemoine (inizi XVIII sec.).
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Statuetta di antenata con occhi di specchio, proveniente dallo Zaire.
Secondo Ibn Kaldoun, poeta persiano del XIV sec" condiviso
peraltro dalla maggior parte degli occultisti moderni, l'apparizione non si produrrebbe nell'oggetto speculare, ma avrebbe da esso
soltanto «l'innesco»: «Alcuni credono che le immagini percepite con questo mezzo si formino alla
superficie dello specchio, ma sono in errore. L 'indovino fissa la
superficie fino a che i suoi occhi non la vedono più, e una specie di
nebbia si interpone fra essi e lo specchio. È sopra questo velo che
si disegnano le figure che egli desidera vedere, e ciò gli permette di rispondere
negativamente od affermativamente alle domande che gli vengono fatte. Egli allora descrive le sue percezioni così come le ha ricevute. Quando
l'indovino si trova in questo stato, non vede nello specchio ciò che
realmente vi sarebbe da vedere: e la percezione sua nasce dal suo intimo e non si trasmette agli
occhi ma bensì all'anima...» (22).
Se dall'ambito divinatorio passiamo alla sfera
autorealizzativa, constatiamo procedure similari nel servirsi degli specula, ma l' operatore
tende qui ad agire su se stesso distaccando il «corpo fluidico» e «fissando» il nucleo originario,
extra-cerebrale dell'Io.
Laddove cioè l'esercizio oracolare provoca frequentemente una
caduta nel mondo infraumano dei visionari ed espone quanto meno al rischio di informazioni fallaci
(quando non subentri un autentico invasamento}, l'arte magica che si avvale dello specchio per scopi di integrazione col sovrasensibile,
mantiene al soggetto un ruolo attivo, in cui la coscienza
ordinaria, lungi dal dissolversi o dipendere dalla medianità,
riafferma il suo ruolo di guida
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Allegoria della bellezza, di Giacomo Del Po (1680 corca)
malgrado e oltre l'universo allucinatorio proiettato nel mezzo riflettente. Tenuto fermo questo assunto, diviene accessoria la
scelta del materiale che dipende dalle preferenze personali
dell'occultista, fisse restando alcune caratteristiche
morfologiche dello strumento (23); mentre la presenza
medesima della «pupilla», piccola luce scagliata nella notte dalla volontà ferrea dell'iniziato, si
configura ormai come uno fra i tanti auxilia, utili ma non
indispensabili alla riuscita dell'impresa (24). Lo stadio
ulteriore vede - e qui la divaricazione progressiva con la prospettiva puramente mantica
risalta netta - l'eliminazione stessa dello speculum quale .sostegno»
operativo, essendo adesso l'esoterista capace di procedere da solo, sulla base della propria energia interiore: .Facilmente si potrà vedere il proprio corpo e
l'altrui (...) quasi come una massa d'un colore grigio cupo, qua e là
più intenso, circondato interamente da una leggera fascia
lievemente luminosa (...) ad un certo punto, ci si accorge che
anche la dualità è sorpassata; e un quid cosciente sta
contemplando se stesso, fuori da se stesso, senza confondersi né col corpo, né... con se stesso»
(25). Le fasi successive al grado descritto, delineando un itinerario magico «totale» che non poggia più sopra sussidi materiali (e che
dovrebbe concludersi, se rettamente diretto, con
l'identificazione del soggetto nella coscienza cosmica) esulano dal
nostro assunto, poiché lo specchio è a tal punto soltanto il lontano ricordo inerente una tappa del
cammino ampiamente superata. Ma la tematica speculare, per
essere almeno sommariamente illustrata, richiede l'esame di due ultime questioni fondamentali. La
prima riguarda gli eventuali 57
Rinaldo e lo specchio magico (1755 circa) part. da una tela di Giambattista Tiepolo
pericoli cui si espone chiunque faccia uso di apparati divinatorii, con particolare attenzione alle superfici riflettenti. La seconda
concerne la natura «ontologica» del fenomeno che mediante
queste ultime si produce. Quanto al primo argomento è opportuno dire subito che sebbene in molti
manuali per fattucchiere sia sostenuta l'innocuità di tali
apparecchi, ciò non risponde a verità sotto nessun aspetto. Se
infatti l'uso maldestro di cristalli e specchi può causare dal lato fisico
danni al sistema visivo a più o meno lunga scadenza, i guasti sul versante psichico possono essere
ancora maggiori, verificandosi spesso sindromi ansioso-
depressive culminanti in forti esaurimenti nervosi (26). Nel linguaggio occulto troviamo le espressioni «cadere in mano ai
demoni», essere preda degli «spiriti», cui risponde in Alchimia la locuzione «aver gli occhi cavati (o mangiati) dai corvi»; uno dei
primi sintomi d'allarme dovrebbe considerarsi il senso di
spossatezza mortale che si impossessa della persona appena questa abbia terminato la seduta:
le proiezioni incontrollate delle proprie costellazioni irrazionali aprirebbero infatti la psiche ad
un'estasi passiva, in cui i protagonisti della visione
verrebbero ad acquisire vita propria, mutuandola
«vampiricamente» dall'energia vitale dell'evocatore, divenuto così
«ossessionato», prima di diventare «posseduto» (27).
Secondo certi occultisti contemporanei, tutte le forme di chiaroveggenza attivate da sforzi isolati invece che attraverso un graduale percorso di crescita
iniziatica, hanno come risultato sviluppi morbosi. In particolare, dei quattro elementi presiedenti alla costituzione umana - fuoco,
aria, acqua, terra - gli esperimenti aventi per supporto oggetti
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riflettenti causerebbero, in caso di degenerazione, la menomazione irreversibile del principio igneo
(28). Di qui la serie di precauzioni e salvaguardie da adottare, alle quali già accennammo parlando delle fasi preliminari (29). Per
quanto attiene al secondo quesito, circa il carattere di «realtà»
rivestito dai fenomeni evidenziantisi in forza del mezzo
speculare, occorre avvertirne senza indugio la difficoltà (e
pluralità) di soluzione. Pur se si prescinde dalla definizione del
concetto di «realtà», oggi particolarmente controverso
anche in ambito scientifico, ci si accorge che il problema della
autenticità della «visione. ripropone sotto mentite spoglie
l'antico dilemma contrapponente in magia i «soggettivisti» agli
«oggettivisti», vale a dire coloro che attribuivano agli eventi preternaturali una esistenza
soggettiva e quelli che assegnavano loro una consistenza
oggettiva (30).
Quantunque una simile dicotomia non consenta risposte univoche soddisfacenti sul piano teorico, l'impasse potrebbe
venir superata dalla provocatoria risposta attribuita al Crowley: «Facendo certe cose, certe altre avvengono; il resto cosa
importa?». Ossia, nel nostro caso: se l'uso dello specchio rivela al postulante un accadimento futuro o una modalità esistenziale
altrimenti inconoscibili, quale differenza fa che a rivelarli sia un'entità proveniente da altri mondi, invece di un principio
latente relegato in una porzione normalmente inutilizzata dal cervello umano? L'importante è che la conoscenza in questo
modo acquisita venga opportunamente messa a frutto.
Lo scandaglio compiuto attraverso gli specula sembra offrire allo scrutatore un universo alieno dalle ordinarie coordinate
razionali: una dimensione dove si mischiano in cangiante gioco caleidoscopico ricordi e sogni, intuizioni telepatiche e
telestesiche, sussulti precognitivi e ricognizioni abbacinanti. Scrive J. Baltrusaitis: «Il pensiero platonico secondo il quale noi
conosciamo tutto pur ignorando di conoscerlo, fornirebbe la chiave di queste illuminazioni. Le conoscenze devono essere
scoperte dentro di noi come in un pozzo. E lo sguardo è reso più acuto dalla contemplazione di oggetti lucidi. (31). Ma Platone, lo
sanno tutti, oltreché filosofo era soprattutto poeta, un grande creatore di immagini testimone della sapienza integrale,
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risalente alle origini. Non ci si può aspettare da lui il completo svelamento del mistero; semmai una ri-velazione. Di fronte alla
civiltà odierna cinica e fragile al tempo stesso, gli specchi .magici. continuano a proporre al singolo un varco per il «mundus imaginalis» (32); seducenti, pericolosi, inquietanti, essi restano pur sempre impenetrabili a chi non sappia guardare la
vita con occhi «incantati».
La Geometria, olio di Francesco de' Rossi detto il Salviati. Il dipinto è un'allegoria della prudenza, rappresentata usualmente come una donna che si contempla allo specchio, il
quale - stando all'Iconologia di C. Ripa (Padova 1618) significa «la cognizione del prudente di non potere regolare le sue attioni, se i propri suoi difetti non conosce e corregge. e questo intendeva Socrate quando essortava i suoi scolari a riguardar se
medesimi ogni mattina nello specchio».
NOTE:
(1) Per una definizione semiologica della catottrica e degli specchi in generale si rimanda al
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breve ma denso articolo di U .Eco, Sugli specchi (in Sugli specchi e altri saggi, Ed. Bompiani, Milano 1985).
(2) La disamina articolata del nesso luna-donna è contenuta nel famoso saggio di J .Bachofen, Il Matriarcato, (Ed. Einaudi, Torino 1988) che vi riconobbe il secondo stadio di evoluzione delle civiltà dal matriarcato al patriarcato (cfr. anche P.Klossowski, Le dame romane, Ed.
Adelphi, Milano 1973).
(3) In ambito occulto, il ricorso a tecniche sessuali per finalità di contatto col trascendente (scuole tantriche, taoiste, O.T.O., Eulis, Brotherhood of Luxor, ecc.), tiene grandemente conto
di tali connotazioni, accantonando però qualunque coloritura morale che invece ritorna abbastanza manifesta presso numerose narrazioni mitologiche. I due aspetti tuttavia (esoterico
ed essoterico), lungi dall'escludersi a vicenda, si integrano piuttosto nel quadro di una superiore unità. Per un esempio illuminante di intersecazione dei due piani con estensione esplicativa al
duplice status inerente la donna, si veda il saggio di A.K.Coomaraswamy, La sposa laida, compreso ne Il grande brivido, Ed. Adelphi, Milano 1987.
(4) Emblematica in proposito la nota illustrazione del Der Ritter vom Turn (Augusta, 1498) inclusa dal De Givry nel suo Tesoro delle Scienze Occulte, (Ed. Sugar, Milano 1968, fig. 119)
dove una donna allo specchio, vede riflettersi al posto del suo volto le natiche del demonio, che volge il retro, alle spalle di lei
(5) Riguardo la classificazione sfavorevole di quest’ultima, si considerino anche i significati assegnati dalla tradizione all’omonimo XVIII arcano maggiore dei Tarocchi, che pur
interpretabili all’interno di un’economia più vasta, introducono nondimeno nella letteratura, ove compaia tale lama, un elemento ostile.
(6) Secondo l'insegnamento cinese, conditio sine qua non per la scelta della sostanza doveva essere anzitutto la cattiva conduttività elettrica.
(7) La sintesi più prosaica dei complicati equipaggiamenti di veggenza è fornita dalla sfera di cristallo, per mezzo della quale, secondo la consuetudine, il paragnosta predice il futuro. Quanto all'acqua destinata ai recipienti divinatorii, alcuni prescrivono che sia di sorgente,
purissima, altri piovana o raccolta sulle foglie (rugiada). Frequentemente si utilizzano inchiostri (neri o blu), olii, e differenti composti fluidi vegeto-minerali.
(8) Tale specchio (insieme ad un cristallo per veggenza nonché svariati ammennicoli magici) è attualmente custodito nel British Museum di Londra, che lo acquistò nell' ottobre del 1966 dopo che era passato fra le mani del romanziere Horace Walpole (per una storia dettagliata dell'oggetto si rimanda aH. Tait, The Devil's Looking-Glass: The Magical Speculum of Dr. John Dee in Horace Walpole: Writer, Politician and Connoisseur, Ed. W. Hunting Smith,
New Haven and London 1967).
(9) Il nostro elenco di materiali lucidi a scopo vaticinatorio, posto sotto il comune denominatore catottromantico, è frutto di una semplificazione. In realtà nel Rinascimento
furono coniati termini differenti per distinguere le varie specialità predittorie a seconda dello strumento adoperato: catottromanzia, lecanomanzia, gastromanzia, cristallomanzia,
onicomanzia, idromanzia. Un ampio esame di queste «arti», inserito in una panoramica attraverso i secoli del fenomeno «specchio» è contenuto nell'opera classica di J.Baltrusaitis, Lo
specchio: rivelazioni, inganni e science-fiction, Ed. Adelphi, Milano 1981, dotata di ricca bibliografia.
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(10) Cfr. Baltrusaitis, op. cjt. , p.190.
(11) Secondo le regole canoniche, doveva essere composto dei sette metalli planetari - oro, argento, ferro, mercurio, stagno, rame, piombo - trattati ognuno in corrispondenza
all'esaltazione del relativo pianeta (rispettivamente Sole, Luna, Matte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno). Sulle illustrazioni d'uso cfr. Baltrusaitis, op. cit., pp. 211-212.
(12) Una trattazione esauriente di quest'ultimo argomento è racchiusa nel volume di P. B. Randolph, Magia Sexualis, ed. Mediterranee, Roma, s.d., in cui vengono contemplati, alla luce
di metodologie molto singolari, svariati aspetti della «magia» degli specchi.
(13) Per una classificazione «sessuale» degli specchi, arricchita di ragguagli pratici, oltre al citato studio del Randolph, si veda l’opuscolo di P. Davidson, Gli specchi magici, ed. Phoenix,
Genova 1985, proveniente da ambienti iniziatici affini (Hermetic Brotherhood of Luxor) cui probabilmente l’autore di Magia Sexualis attinse.
(14) A parere del Randolph (op.cit., pp.139 sgg.) è preferibile una fonte d'illuminazione artificiale diversificata a seconda del tipo di specchio (gialla per i maschili); altri autori
individuano le condizioni migliori nel chiarore lunare, nelle luminosità azzurre o violette, ecc.. L'unica luce assolutamente da evitare è per opinione concorde quella del giorno; i raggi solari
infatti scaricherebbero irrimediabilmente la virtù «incantatoria» degli specula
(15) Analoghi requisiti saranno richiesti per le sedute di veggenza e concentrazione.
(16) L'acqua gelata ed il freddo atmosferico intenso neutralizzerebbero la potestas magica speculare non meno del calore; il Randolph stabilisce l'arco di sopportazione della temperatura
degli specchi «speciali» dai 68 ai 78 gradi Fahrenheit (op. cit. , p.149).
(17) Alcuni sodalizi esoterici moderni (cfr, Randolph, op. cit. , p. 127) individuano la struttura morfologica ideale del perimetro speculare, in quella risultante dalla sezione orizzontale di un cranio umano eseguita subito al di sotto delle orecchie. Effettivamente forse obbedendo a tale principio, esistono già nell'antichità esemplari di specchi rituali incassati in calotte craniche a
prescindere dalla superficie concava, convessa o piatta della base riflettente.
(18) Cfr. l'ampia messe di notizie attingenti alla storia, alla cronaca, alla letteratura, alla scienza, raccolte da Baltrusaitis. (op. cit. , particolarmente capp.3 e 8).
(19) L'opera di adolescenti allo stato prepuberale è prescrittiva in talune culture già al momento della raccolta della materia prima di cui consisterà il futuro specchio: così per lo specchio detto di «Batths» costituito da una specie di bitume estratto dalle masse roccioso-
vulcaniche delle Mahodeo Hills.
(20) Naturalmente non tengono conto di siffatta interdizione coloro che «caricano» gli specchi «magici» mediante pratiche sessuali (fra i moderni occultisti occidentali si rimanda agli scritti
di Crowley, Spare, Randolph, Boullan, de Guaita).
(21) Secondo il Sedir, dischi e specchi neri, consacrati a Saturno, richiedono mediatori maschi, mentre vasi, boccali ed altri recipienti riempiti d'acqua o altro liquido, in quanto
sottoposti all'influsso lunare (v. sopra) esigono soggetti femmina; diversamente, l'iniziato che persegue fini di autorealizzazione, può fare a meno di intermediari, usando direttamente
emisferi o globi metallici consacrati al sole (Les Miroirs Magiques, Paris 1895). Sul sistema di Cagliostro si veda L.Bell, Le Miroir de Cagliostro, Paris 1860
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(22) Cit. In R.Shirley, La visione ne/ cristallo (La magia segreta degli specchi) ed. Rebis, Viarggio 1983, pp. 28-29. L’autore aggiunge al paso citato di Kaldoun (da non con fondersi con io coevo filosofo arabo Ibn Khaldūn) la seguente osservazione: «L’analisi molto sottile delle esperienze di questa natura è dgna di essere notata, prima che alcun oggetto si renda
visibile sul cristallo o sullo specchio, un velo di nebbia biancastra ne intercetta la superficie, e soltanto quando questa svanisce le visioni si fanno apparenti». (ibid.)
(23) «... lo specchio: può essere di cristallo, ovvero in acciaio, rame, bronzo, concavo in ogni caso, così da raccogliere in un solo punto centrale la luce di una lampada situata in modo tale
che l'operatore non la veda e che tutto rimanga in una penombra ad eccezione del punto centrale». (Abraxa, Il Caduceo Ermetico e 1o Specchio, in R.Shirley, op. cit, , p.64; riportato con qualche variante nel testo, ma immutato nel titolo, in: Gruppo di Ur, Introduzione alla
Magia, Ed. Mediterranee, Roma 1971, vol.l, p.89).
(24) L'atteggiamento del «mago. che voglia servirsi di un medium per stabilire contatti con la dimensione trascendente, senza cadere in stati di passività subconscia, è chiaramente illustrato
dall'esoterista che scrive sotto lo pseudonimo di Abraxa: .Tu, in piedi, dietro, mentre si stabilisce la fissazione, realizza un senso di totale padronanza su di lei, un senso di avvolgerla
e di disporne interamente: comanda mentalmente il distacco della sua vita, inserisci la tua forza nel suo abbandono, a sostenerlo e spingerlo innanzi. Sopraggiunto lo stato di luce, invoca e
formula ciò che vuoi sapere, comanda che essa veda ( ...). È necessario che la "pupilla" realizzi quasi di non esistere più in se stessa, per la totale fede e compenetrazione nel senso della tua forza sostenente: dimodoché non opponga nessuna reazione, e nessuna manifestazione possa
terrorizzarla e così interrompere l'operazione.. {.Operazioni magiche a "due vasi"., in R.Shirley, op, cit., pp.84-85; riprodotto con alcune varianti ma titolo identico in Gruppo di Ur,
op. cit., voI. L p. 241).
(25) Luce, Opus Magicum - Gli Specchi, in lgnis, n. 8-9, Roma (1925); rist. Roma, Atanòr (1980), pp. 264-265, 267,
(26) A detti inconvenienti, come risaputo, vanno incontro quasi tutti i soggetti medianici e coloro che si dedicano alle arti divinatorie in genere.
(27) Il Kremmerz chiamava queste entità saprofitiche con l'appellativo di «simili nature» riteneva fossero generate da residui di passione o di desiderio sopravvissuti alla purificazione
del postulante ovvero del suo medium.
(28) Cfr. F.Bardon, Iniziazione all'Ermetica, Ed. Astrolabio, Roma 1978, p.203 sgg. Si veda anche dello stesso autore The Practice of Magical Evocation, Wuppertal (W. Germany,) D.
Ruggeberg, 1975.
(29) Oltre alle molteplici fumigazioni, consacrazioni, diete alimentari, ginnastiche, respirazioni, prescritte dalle varie scuole, molti testi allegano anche delle formule verbali che
sono autentiche giaculatorie atte a munire la coscienza del neofita di un solido appiglio psichico contro la marea montante delle immagini caotiche. Una vasta gamma di scelte in
proposito è offerta dal corredo di invocazioni legate ai cerimoniali dell'iniziazione pagana (III e IX logos del Rituale Mitriaco, inni ad Amon-Ra nel libro dei Morti egizio, ecc.). Un
bell'esempio di scongiuro occulto è reperibile in Abraxa, «Operazioni magiche a "due vasi"» (R.Shirley, op. cit., p.84; Gruppo di Ur, op.cit.,vol. I, p. 241 con varianti) di contro ad un pericoloso rito propedeutico alla visione nello specchio, posto Sotto l'egida della divinità lunare («Argentea Signora della notte»), incluso da M. Green nel suo The Gentle Arts of
Aquarian Magic Wellingborougb, Ed. Aquarian Press, Northamptonshire 1987, pp,125 sgg., 171 sgg.) Un modello tipico di orazione occulta da far precedere alla seduta catattomantrica è
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compreso nella racolta di A.m §E. Waite, The book of ceremonial magic, ed Citadel Press, New York 1961, pp. 318 e sgg..
(30) Quest'ultima tesi era sostenuta da magisti come il Dr. Dee dai cui diari si evince la completa sicurezza sull'oggettività extraumana delle entità evocate; la prima, condivisa dalla
maggior parte dei moderni occultisti, preferisce assimilare «angeli», «demoni», «spiriti guida», alle nozioni freudiane di complesso, o agli «archetipi» junghiani, identificando il «piano
astrale- esoterico con l'inconscio collettivo psicoanalitico.
(31) Op. cit., p.194.
(32) Il concetto di mundus imaginalis (che implica una netta distinzione fra immaginazione e fantasia) è piuttosto complesso. Rimandiamo per la sua definizione, da una parte all'Opera
Omnia di C.G.Jung (soprattutto ai lavori Psicologia e Alchimia, Le visioni di Zosimo, Mysterium Coniunctionis) dall'altra all'illuminante saggio di H.Corbin, L'immagine del
Tempio, Ed. Boringhieri, Torino 1983 e alla crestomazia del pensiero islamico persiano curata dal ID,edesimo autore nella II parte di Corpo Spirituale e Terra Celeste, Ed. Adelphi, Milano
1986.
Metafore alchemiche:
CENERENTOLA E LO ZOLFO
Giuseppe Sermonti - scrittore, saggista, già docente di genetica all'Università di Perugia.
Articolo pubblicato per la prima volta nella rivista Abstracta n° 35 (marzo 1989) pp. 58-67, e riprodotto per gentile concessione dell’autore che ne detiene i diritti. Riproduzione vietata con
qualsiasi mezzo.
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Danae (1544), olio di Tiziano. sulla fanciulla scende la pioggia d'oro nella quale si è trasformato Giove.
Cenerentola, che passa continuamente dal fuoco ardente nell’oscurità alla danza in abiti d’argento e d’oro, è una Kore-Persefone fiabesca, ed è l’elemento zolfo, che emerge dalla
sudicia e fetida pietra di miniera nella lucentezza del cristallo dorato.
L'ermeneutica alchemica delle fiabe di Giuseppe Sermonti venne esposta per la prima volta in tre successive pubblicazioni da tempo esaurite:
Fiabe di luna. Simboli lunari nella favola, nel mito, nella scienza (Rusconi, 1986), Fiabe del sottosuolo. Analisi chimica delle fiabe di Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Cenerentola (Rusconi, 1989), Fiabe
dei fiori (Rusconi, 1992). Il contenuto di queste tre pubblicazioni, ulteriormente rivisto ed accresciuto dall'autore, è ora raccolto in Fiabe
dei tre regni, per i tipi dell'editore La Finestra di Trento.
Il terzo personaggio di fiaba cui dedichiamo la nostra analisi è Cenerentola, un’orfanella grigia e sudicia cui non compete né la birichineria di Capopuccetto Rosso, né la castità di Biancaneve.
Essa passa dall’oscura segregazione di un sottoscala alla bellezza danzante in abiti meravigliosi. A differenza delle
fanciulle delle prime due fiabe, ella conosce le malìe dell’amore, i corteggiamenti e le fughe, i nascondimenti e le riapparizioni. Cenerentola è l’erede di Proserpina, ovvero di Kore-Persefone (1): costretta in sepoltura davanti al fuoco ma periodicamente
riportata alla luce e rivestita di primavera (2).
«Cominciarono i giorni tristi per la povera figliastra (raccontano i Grimm) (...) le tolsero i bei vestiti, le fecero indossare una vecchia palandrana
grigia, e le diedero un paio di zoccoli. – Guardate la principessa com’è agghindata ! – esclamarono ridendo e la condussero in cucina». Anche la
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Cenerentola di Perrault: «Quando aveva finto le faccende, andava a rifugiarsi in un cantuccio del focolare, e si metteva a sedere nella cenere». La segregazione non dura a lungo. Aiutata da un uccellino o una
fata, la fanciulla abbandona il sui nascondiglio e torna alla luce, espressa bei suoi abiti: «Allora l’uccello le gettò un abito d’oro e d’argento
e scarpette trapunte d’argento e di seta». Così nella fiaba dei Grimm.
Più regale l’abbigliamento descritto da Perrault: «I suoi abiti si mutarono in vestiti di broccato d’oro e d’argento, tutti ricamati con pietre preziose; (la fata) le diede poi un paio di scarpette di vetro che erano una
meraviglia, così vestita ella salì in carrozza...». Il passaggio dalla cenere alla veste dorata si ripete più volte, come nel mito di Proserpina
che passa un terzo di ogni anno agli Inferi e due terzi sotto il cielo. Il periodico morire e rinascere è la modalità dell’esistenza
delle due fanciulle, di Proserpina in un mondo arcaico e di Cenerentola in un palazzo della nostra era.
La vicenda della fanciulla Kore ha un tratto che la avvicina in modo particolare alla Cenerentola di Perrault. Kore sale su un
carro dorato trascinata da cavalli immortali. La bella di Perrault sale su una berlina “tutta dorata” portata da sei splendidi
cavalli. Kore va nel palazzo infernale e Cenerentola nel palazzo del re. Cenerentola si trova al ballo insieme alle due sorellastre e
ill principe reale non ha alcuna esitazione nello scegliere lei come sua ballerina. Anche Kore forma, nella danza sui campi fioriti, una triade con due sorellastre, Artemide e Atena. Tra le
tre vergini è lei che è scelta come sposa dal re degli Inferi. Soffermiamoci ora sul Narciso divelto
da Kore, che costituisce una
connessione forte tra il mito e la
fiaba.
Tra rose e crochi, violette, iris e giacinti, la dea
Gea aveva fatto spuntare una
splendida pianta di narciso, per
tentare la fanciulla dal volto di
bocciolo. Era una pianta
meravigliosa, dal profumo dolce e
intenso, e alla sua vista il cielo, la terra e l'acqua ridevano. Kore stese ambo le
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mani verso il fiore tentatore, come verso un tesoro. Improvvisamente
la terra si spalancò e sul campo Niseo
si aprì una voragine: Ne balzò fuori il terribile dio
degli Inferi che trascinò la
fanciulla riluttante e piangente sul
Suo carro verso il regno sotterraneo.
Il mito stabilisce l'archetipo di tutte
le infrazioni del perno vegetale, dell'albero della
vita, dell'axis mundi. È il peccato originale,
provocato dal tentatore, che
prende poi possesso del
peccatore. Tutti gli orchi, i mostri, i
diavoli che compaiono
attraverso il foro prodotto dalla
pianta divelta, dal fiore reciso o dal rametto staccato,
sono manifestazioni del dio degli Inferi. E
tutti i castelli incantati in cui la
fanciulla delle fiabe è trascinata
sono il regno pieno di ricchezze del sovrano Plutone.
Nella Cenerentola dei Grimm c'è un ramo spezzato a fornire la magia che condurrà la
In alto, gli uccellini aiutano Cenerentola nella cernita delle lenticchie (rielab. grafica dall'ill. di L. Richter e M.
von Schwind ai Marchen dei Grimm). Qui sopra Cenerentola innaffia il nocciolo da cui
riceverà gli abiti dorati (id.).
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fanciulla al Palazzo reale. Sulla pianta che nascerà dal
ramo, un uccellino bianco provvede ai
desideri della piccina.
Cenerentola incarica il padre di cogliere il ramo:
"Babbo, il primo rametto che vi urta il cappello sulla via del ritorno, coglietelo per
me».
Il rametto, e la piantina di
nocciolo che ne nasce, parrebbe piccola cosa di
fronte al narciso, tentatore di Kore, ma in altre fiabe, per vari aspetti appartenenti al
tipo di Cenerentola, la rottura che il
padre produce spezzando il ramo per incarico della
figlia ha il carattere fatale di un preludio infero.
Ne La Bella e la Bestia (3) incontriamo tre sorelle, le due maggiori piene di superbia, la minore più bella e più buona. Ella chiede al
padre di portarle una rosa, ma quando il bravuomo compie il gesto, la piccola infrazione produce l'effetto dello strappo di
Kore: nel fragore che ne nasce appare un personaggio che ha le fattezze di un dio degli Inferi:
«Nel mentre passava sotto un pergolato di rose, si ricordò che Bella gliene aveva chiesta una, e prese un ramo dove ve ne erano parecchie. A questo punto, udì un orribile fragore e vide venirsi incontro una Bestia così mostruosa ch 'egli
fu lì lì per svenire».
In seguito la Bella si sostituirà al padre nel palazzo della Bestia. La fanciulla è sottratta ad un padre dolorante e obbligata ad una dimora estranea e ad una compagnia mostruosa. Questo può configurare un ratto, al modo di quello perpetrato da Ade.
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La cernita delle pietre grezze da avviare ai forni (De re metallica di G. Agricola, 1556)
Solfare
Dove, negli altipiani della Sicilia centrale troviamo il luogo che può corrispondere all'ingresso dell'Inferno? Dove l'oscura
caverna al di là della quale è la tenebra, il fuoco, il demoniaco, ed altresì le ricchezze di Plutone?
Proprio intorno al lago di Pergusa, che è il luogo mitico del ratto di Proserpina (4), si aprono, da tempo 1mmemorabile,
bocche paurose che menano alle profondità della terra, grembo di dolore e di ricchezza: sono gli ingressi delle solfare. I picconieri
che nell'antichità vi si calavano a cercare i minerali solfiferi avevano la sensazione di calarsi in un inferno. Nelle gallerie
sotterranee regnava l'acre odore dello zolfo, fetore di diavolo, e si rintanava un fuoco infido, minaccioso, che in ogni istante poteva invadere i camminamenti e colmarli di gas venefico.
Le pareti e le volte delle gallerie delle miniere di zolfo appaiono, alla luce delle lampade, di un colore grigio pallido, cinerino. La massa amorfa della ganga calcarea rivela il suo
carico di zolfo nel minuscolo luccicare di microcristalli dorati. I picconieri abbattevano le pareti pietrose con monotoni colpi di piccone, ed il pietrame caduto a terra era trasferito in ampie
gerle sostenute a spalla dai 'carusi'. Le piccole creature, chinate e sofferenti, salivano in pietosi cortei, con gambette tremanti,
verso l'esterno attraverso lunghissimi camminamenti, sostenuti da rozzi gradini di legno.
Le pietre contenenti lo zolfo si raccoglievano in grandi mucchi 69
e poi si dava loro fuoco. Parte dello zolfo bruciava ed altra colava fuori dal mucchio e veniva raccolta in appositi recipienti. Così riporta Agricola il processo d'estrazione per colatura. «Ma hora
vengo a modi de l'abbruciare: e primieramente a quello che è comune a tutte le vene. .." e va avanti descrivendo come si prepari: «un 'aia quadra molto ben
grande e dinanzi aperta, sopra la quale s 'assettano insieme alcuni legni l'uno a canto l'altro: e sopra questi legni, degl'altri legni attraverso si pongano parimenti
l'uno a canto a l'altro: il perché alcuni de nostri chiamano grata, questa composizione di legni. ..a l 'bora sopra tai legni ammontati si pongano i pezzi ben
minuzzolati di qualunque specie di vene. In prima si mettano i grossi, di poi i mezzani, e finalmente i più piccoli e così questo ammontamento a poco a poco
alzandosi fa la forma di piramide. ..Ma se la pietra viva, o la cadmia, o altra vena partecipante di metallo, haverà più del dover del zolfo, o del bitume, ei bisogna di maniera abbruciarla, che niuna di queste cose si perda: perciò bisogna metter
sopra una piastra di ferro piena di buchi, e gittarvi su molti carboni, e così abbruciarla. Questa piastra bisogna che da tre muri sostenuta sia, due da le teste e il terso di dietro. Sotto questa piastra si accomodano alcune pentole nelle quali
è dell'acqua: nella quale acqua cala il vapore o bituminoso o sulfureo che sia. Cotal grassume sendo giallo mostra che è zolfo, ma se è bitume, egl 'è nero a guisa di pece... Detto grassume separato da la vena reca qualche utilità a le
persone, massime quando è sulfureo».
Il procedimento di colatura dello zolfo non è descritto separatamente, ma insieme quello del bitume, il primo
rivelandosi come liquido giallo ed il secondo come nero. In Sicilia il materiale solfifero estratto dai picconieri era trattato, sino al 1850, su piani inclinati che si chiamavano calcarelle, appunto
simiglianti all' «aia quadra molto ben grande» di Agricola. Queste erano fornaci circolari, di 1, 5-2 metri di diametro, poco profonde
col suolo inclinato. Il fondo era formato di ciotoli o pietrame minuto. La fornace si riempiva di minerale e al di sopra si faceva
un alto cumulo conico o a piramide totalmente scoperta. Compiuta la carica, all'imbrunire, il cumulo era acceso nel terzo superiore, e la calcarella era abbandonata a se stessa. Il mattino
seguente da un foro aperto nella parte bassa della fornace, chiamato morte, cominciava a colare lo zolfo. Verso sera. e
talvolta a notte avanzata, la fusione era terminata (5). Lo zolfo ricavato era poco più di un terzo del totale. Il resto si perdeva ardendo nell'atmosfera allo stato di anidride solforosa (S02).
Lo zolfo racchiuso, tetro e sgraziato, che aspira alla luce, corrisponde a tutti gli esseri pelosi e insudiciati che popolano le
fiabe, corrisponde alla Bestia che nasconde il cavaliere.
Esso è come la materia iniziale dell'alchimista, che: «Unisce alla nerezza un odore spiacevole, sporca le mani di coloro che la toccano e, molto
sgraziata, riunisce in tal modo tutto ciò che può dispiacere» (6).
A volte l'essere avvolto nell'oscura palandrana o nella sudicia pelle è una fanciulla. Massima ambiguità del simbolo che include
nella rappresentazione di tutto ciò che è forte, attivo, virile, la grazia delicata delle bimbe. Dunque, questa immacolata verginella, che siamo andati a pescare in una cucina nel
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sottosuolo di palazzo, questa oscura, dolcissima Cenerentola, corrisponde allo zolfo. Segregata dal mondo, nel racconto dei
Grimm, relegata in un sotterraneo, accanto al fuoco, tra la cenere, ella è come la roccia grezza, da nulla meglio
rappresentata che dallo zolfo di miniera. Rivestita di una palandrana grigia (Grimm) o da poveri abitucci (Perrault) ella si colloca nel tipo del giovane ricoperto dal pelo, piuttosto che in
quello della bella addormentata.
La bimba 'caruso'.
La bimbetta condannata all'oscurità sotterranea e al duro lavoro ricorda, oltre alla pietra solfurea trascinata
all'aperto, i malcapitati fanciulli che a questo trascinamento erano forzati: i 'carusi'. Il caruso era un
bimbetto, a volte di soli sei o sette anni (mai più di quattordici), il cui compito era quello di caricarsi sulle
spalle una gerla contenente decine di chili di roccia abbattuta dal picconiere e trasportarla, con gambette
incerte, all'esterno, attraverso lunghi ed oscuri camminamenti. Si alzava presto al mattino e ancora assonnato doveva iniziare il suo calvario che durava
ininterrottamente per dodici ore, ripetendo 16-20 volte la stessa strada. Terminata la fatica quotidiana spesso
restava nella miniera e allora: «aveva ancora da provvedere a prendere 1 'acqua potabile, spaccare la legna, accendere il fuoco,
preparare la minestra e sistemare al suo diretto superiore il giaciglio. ..» e non di rado doveva sopportare i maltrattamenti se
non la brutalità del picconiere (7). La docile Cenerentola viveva come un piccolo perseguitato
Caruso: «... dovette sgobbare da mane a sera, alzarsi prima di giorno, portar l'acqua, accendere il fuoco, cucinare e lavare. Per giunta le sorelle gliene
facevano di tutti i colori. La sera, dopo tante fatiche, non andava a letto, ma si coricava nella cenere, accanto al focolare».
Nessuna mansione domestica potrebbe giustificare un lavoro così gravoso. Cenerentola era un piccolo scaricatore di miniera.
Quando la pietra sulfurea era scaricata fuori della miniera, cominciava il lavoro degli 'sceglitori' che dovevano
distinguere .le parti buone dalle cattive e separatamente metterle in diversi vasi». A questa operazione erano spesso addette donne e bambini. I Grimm ci presentano un strana
incombenza affidata dalla matrigna a Cenerentola, che vuole andare al ballo: «... Ti ho versato nella cenere un piatto di lenticchie, se in
due ore le sceglierai tutte andrai anche tu».
La bambina deve operare una cernita per poter uscire di casa. Benché la matrigna non glielo abbia espressamente comandato e benché le lenticchie siano tutte eguali, la piccina fa una vera
selezione, aiutata dagli uccellini del cielo:
71
«Le buone nel pentolino\le cattive nel gozzino.\Pic, pic, pic, e raccolsero tutti i grani buoni nei piatti».
Ecco che la fanciulla grigia è diventata uno 'sceglitore' minerario.
I materiali selezionati sono a questo punto avviati ai forni.
Cenerentola seduta accanto alla cenere in un angolo del caminetto. Vicino, le sorellastre
(illustrazione popolare francese della fine del '700).
A sinistra: preparazione dell'aria quadra (la calcara siciliana) per la colatura dello zolfo o della pece (G. Agricola, De re metallica, 1556)
Sublimazione e struggimento
Ci avviamo adesso alla descrizione dei processi di separazione e purificazione dello zolfo. In essi distinguiamo due fasi. Nella
prima lo zolfo, per azione del fuoco, si distacca dalla ganga e si solleva sotto forma di vapore. Nella seconda si condensa e
gocciola e scola verso il basso come elemento nativo.
L'amore corrisponde, in termini chimici, alla combustione, alla sublimazione infuocata. Essa si verifica durante il ballo al
Castello, quando il Principe sceglie ed esalta la sua Ballerina; il Principe è il fuoco stesso: è colui che trae lo zolfo di fuori dalla
ganga, lo elegge, lo purifica:
«Il principe le venne incontro, la prese per mano e ballò con lei. E non volle ballare con nessun 'altra: non le lasciò mai la mano, e se un altro la invitava,
diceva: 'È la mia ballerina '». Cenerentola danzò fino a sera, poi volle andare a casa. Ma il principe disse: 'Vengo ad accompagnarti " perché voleva vedere da
dove venisse la bella fanciulla. Ma ella gli scappò e balzò nella colombaia».
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Strana fuga verso domestiche altitudini che denota il compimento della sublimazione. La seconda sera si ripete. la
stessa scena: «Là c'era un bell'albero alto da cui pendevano magnifiche pere; ella si arrampicò fra i rami svelta come uno scoiattolo e il principe non sapeva
dove fosse sparita». Ancora una volta la fanciulla sfugge verso l'alto, si solleva, si volatilizza.
Il terzo giorno la scena è diversa. Lo zolfo ha raggiunto la purezza, dopo due vaporizzazioni, e scola come cera fusa nel
fondo del forno per uscire dall'apertura inferiore. La fanciulla si precipita lungo la scala d'uscita. Ma ora non è più un vapore fuggevole, è una massa fusa, una sostanza densa che può
essere raccolta e catturata.
Sulla scala rimane una scarpina dorata. La scarpa perduta attesta il passaggio agli Inferi: della stessa Proserpina si narrava
che avesse perduta una scarpina fuggendo da Ade.
In termini mineralogici, una scarpina dorata o di cristallo può essere lo splendente cristallo di zolfo che emerge dalla miniera e
alla miniera consente di risalire, od anche il dorato schizzo sulfureo che sprizza dalla fessura della calcàra.
Grattula -Beddattula
La comparsa alla luce della
fanciulla-zolfo si trova
rappresentata, in metafore di
un più evidente segno
metallurgico, in una fiaba siciliana,
esalante un acre sentore di
zolfo e un profumo nuziale
di zagara.
Negli assolati altopiani della Sicilia centrale,
che hanno conosciuto i
piedini di Kore e le ruote del
carro di Ade, lo zolfo è estratto
in forni all'aperto, le
73
calcàre (nella forma più recente,
calcaroni). Si tratta, come
abbiamo detto, di piccole aie
pendenti, circondate da un muretto, sulle quali si
accumula una piramide di
pietre sulfuree. Nella parte bassa del muretto si lascia una
cavità, detta la morte, murata all'esterno. La
piramide pietrosa si accende, a
partire dall'alto, e al calore dello zolfo che arde altro zolfo si
fonde e, scorrendo tra i
sassi ammucchiati,
raggiunge l'aia pendente e va a accumularsi
nella cella della 'morte'. Quando
il minatore sente arrivare lo zolfo fuso
pratica un foro nel muretto (trabia) e lo
zolfo zampilla all'esterno, ove viene raccolto
in forme di legno (8).
In una variante siciliana di
Cenerentola, raccontata al
74
Pitrè dalla narratrice analfabeta
palermitana Agatuzza
Messia, calcara e zolfo fuso
fanno da sfondo alla vicenda (9).
Delle tre sorelle di un mercante, Ninetta, la più piccola è la più bella (ma non la più buona).II mercante parte per un viaggio ed è
preoccupato di lasciar le figlie sole.
«...E vossignoria si confonde? - gli disse la grande - Vossignoria faccia la provvista per tutto il tempo che avrà da stare lontano, faccia murare le
porte con noi dentro e ci vedremo quando piace a Dio».
Le tre sorelle scelgono così la reclusione tra le mura, come pietre sulfuree.
Al padre, le due sorelle maggiori commissionano abiti splendenti e la piccina un bel ramo di datteri in un vaso
d'argento. Questi datteri dànno il nome alla fiaba che appunto si chiama Gràttula- Beddàttula (Dàttero-Beldàttero).
In un intermezzo, che manca nella Cenerentola, Ninetta si cala in un pozzo dal fondo del quale accede ad un magnifico giardino «con ogni sorta di fiori, alberi e frutti. Là il Reuzzo del Portogallo la intravede e se ne innamora. Per ritrovarla organizza tre giorni di feste a palazzo invitando tutte le ragazze del reame. Ninetta dice di non voler andare, ma quando le sorelle sono uscite si
rivolge al suo ramo di datteri e ne ottiene uno splendido abito d'oro e
una carrozza con cui fila a palazzo. Il reuzzo la riconosce e la invita a ballare. Tra i due ballerini si svolge questo strano
dialogo-indovinello:
«Signura, comu stati?». «Comu 'mmernu».
«Comu vi chiamati?». «Cu lu nnomu». «Unn' abitati?».
«Nna la casa cu la porta». «Nna quali strata?»
«Nna la vanedda di lu pruvulazzu». «Chi siti curiusa! mi faciti mòriri». «Putiti cripari!».
Traduce Pitre: «Signora come state? -Come inverno. -Come vi chiamate? - Col nome - Dove abitate? -Nella casa colla porta - In quale via? - Nella via del polveraccio -Come siete strana! Mi fate
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morire! - (Per me) potete crepare! -.
Ninetta balla tutta la sera «fino a lasciare il reuzzo senza fiato, mentre lei era fresca come una rosa. Si va chiarendo il gioco
delle parti: mentre Ninetta resta imperturbabile come il muretto della calcara, il reuzzo si va fondendo come zolfo infocato. Ciò si
ripete per altre due sere:
«La terza sera, tutto come prima. Nina andò a palazzo così bella e splendente come non era mai stata. Il Reuzzo ballò con lei ancora a lungo, e si squagliava
d'amore come una candela».
«A guisa di cera disfatta», dice Agricola dello zolfo fondente.
Qui il re padre chiama Nina al suo cospetto e la rimprovera:
«Ma cosa ho mai fatto, Maestà?» «Hai fatto che mio figlio si consuma per te. Non credere di fuggire».
L'indomani il reuzzo e Ninetta si sposano nella cappella reale.
In questa fiaba manca la scarpetta perduta. Infatti la parte dello zolfo è passata al principe, che la ragazza fa fondere «si
squaglia d'amore come una candela» ) e scolare verso la Morte «Mi fate morire»).
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La pioggia d'oro
La fiaba di Cenerentola è affrescata su un
fondo grigio - cenere, dipinto e coperto di
pennellate d'oro, che delineano la figura
della più buona delle fanciulle. La pittura
aurea su fondo scuro, come in una delicata
icona bizantina, rappresenta l'uscita
dalla tenebra, la vittoria splendente del sole sulla caverna, del
cielo sugli inferi, dell'oro alchemico sulla
materia infame.
Cenerentola all'uscita dall'oscurità è coperta
di un «abito d'oro e d'argento» (Grimm) o di «vestiti di broccato
d'oro e d'argento» (Perrault). Nella favola
dei Grirnm oro e argento piovono
dall'alto, come luce, offerti da un uccellino e calanti da una pianta di
nocciolo. Grida Cenerentola:
«Piantina, scuotiti, scrollati d'oro e d'argento coprimi».
Come poteva una piantina piovere polvere d'oro, e convertire una
palandrana grigia in un principesco abito d'oro? Il rametto che il padre
aveva portato a Cenerentola, di ritorno dal suo viaggio era di nocciolo. La piccina lo aveva piantato presso la tomba della madre e lo aveva annaffiato di
lacrime: «il ramo
Il ratto di Proserpina, (part.) olio su rame di J. Heinz il vecchio (1564-1609)
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crebbe e divenne una bella pianta», pronta a
soddisfare i desideri della fanciulla virtuosa
e pia.
Reca il nocciolo fiori femminili in mazzetti di colore rosso vivo. I fiori maschili scendono, alla fine dell'inverno, come ghirlande di minuscole
corolle rosse, come penduli grappoli, che i
botanici chiamano 'amenti' o 'gattini'. Quando viene la
primavera, si verifica un fenomeno
meraviglioso (10). Gli innumerevoli fiorellini
schiudono le)oro piccole corolle e si liberano nell'aria
nuvole di giallo polline che scendono verso il
suolo: botanica pioggia d'oro che copre la
fanciulla scendendo dalla piantina scossa e
scrollata (11). Nella fiaba Gràttula-Beddàttula, l'alberello di nocciolo di
Cenerentola è sostituito da un ramo di datteri (gràttula). Il dattero produce un dolce liquido miele, dal colore ambrato, che
bene configura lo zolfo colante dal calcarone e la
pioggia d'oro. Nina si rivolge al suo ramo: «Gràttula-Beddàttula Sali su e vesti Nina. Fàlla più bella di com 'era prima»
La colatura del dattero è episodio centrale nella fiaba, che dal frutto della palma prende il nome. Il portento avviene col tramite
di fate e fate, portanti vesti e gioielli, e il risultato è che la fanciulla diventa «un pezzo d'oro» dalla testa ai piedi, come una
statuetta stampata e dorata.
Antica, divina e solenne è la pioggia d'oro che inonda il grembo della principessa Danae. La fanciulla, figlia del re di Argo, è stata rinchiusa dal padre in una cella sotterranea,
perché, segregata dal mondo, non possa concepire un bambino. La vergine sarà fecondata da una luce divina calante dall'alto, da
una pioggia d'oro schizzante attraverso il tetto della cella sotterranea. Ella raccoglie nella sua veste la pioggia d'oro e da
essa spunta Zeus, il padre degli dèi, con cui la vergine 78
concepisce un figlio quasi divino, Perseo. Tutte queste fiabe e leggende richiamano lo sgorgare dello zolfo fuso dalla cella della
Morte. In una fiaba tedesca, sempre nei Marchen dei Grimm, il riferimento si fa palese. Accanto allo zolfo cola dalla porta forata
la sua controparte oscura, il bitume. Come lo zolfo è dono e premio per lo zelo e la dolcezza, il bitume è castigo per la pigrizia e lo sgarbo. È la fiaba de La Signora Bolle in cui la
pioggia d'oro (o di pece) è il motivo centrale verso il quale tende la vicenda e con cui si conclude: «Una vedova aveva due figlie, l'una bella e laboriosa, l'altra brutta e pigra. Ma ella preferiva molto quest 'ultima,
perché era la sua figlia vera, e all'altra toccava tutto il lavoro, come alla Cenerentola di casa».
La prima «pioggia» che la bambina buona riceve, cade da un albero carico di mele, che le grida: « 'Ah, scuotimi, scuotimi! Noi mele
siamo tutte mature. Ella scosse l'albero e cadde una pioggia di mele».
E noi sappiamo che le mele mitiche sono pomi d'oro.
Giunta alla casa della signora Holle, il castello (o forno) di questa fiaba, la fanciulla riceve una strana richiesta:
«Devi soltanto badare a rifarmi bene il letto e a sprimacciarlo con cura, sì che le piume volino. Allora nevicherà sulla terra. Io sono la signora Holle» (12).
Soave, morbida e bianchissima questa è la seconda pioggia, di diafano oro bianco.
Dopo una lunga permanenza in casa della Signora Holle, la bambina comincia a sognare la sua casetta. La sua urgenza si
esprime come lo struggimento dello zolfo che spinge sulla porticina murata per uscire:
«Finalmente disse alla vecchia: 'Rimpiango la mia casa; e, benché qui stia bene, non posso più fermarmi, devo tornare dai miei».
La signora Holle disse: 'Mi piace che tu ti strugga di tornare a casa; e poiché mi hai servito così fedelmente, voglio riportarti su io stessa '. La prese per mano e
la condusse davanti a un portone, e mentre la fanciulla era là sotto, cadde una gran pioggia d'oro, e l'oro le rimase attaccato e la ricoprì tutta».
Siamo sulla porta murata del calcarone da cui spilla come cera disciolta lo zolfo fuso. Lo zolfo è la bambina stessa, che prima si strugge nel forno, poi diviene pioggia d'oro e, uscita
all'aperto, si converte in bimba d'oro:
«Il portone fu chiuso e la fanciulla si trovò sulla terra, non lontano dalla casa di sua madre; e quando entrò nel cortile, il gallo sul pozzo strillò: “Chicchirichì! La
nostra bimba d'oro è ancora qui”». Qui dobbiamo rammentare quanto dice Agricola a proposito del grassume che esce dal pietrame combusto:
«Cotal grassume sendo giallo mostra che è zolfo, ma se è bitume, egli è nero
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a guisa di pece».
Torniamo ora alla sorella cattiva della Cenerentola dorata. Anch' ella si reca alla casa della signora Holle:
«La signora Holle se ne stancò presto e la licenziò. La pigraccia era ben contenta e si aspettava la pioggia d’oro, la signora Holle condusse anche lei al portone, ma quando la
ragazza fu là sotto, invece dell’oro le si rovesciò addosso un gran paiolo di pece. “questo per i tuoi servizi”, disse la signora Holle, e chiuse il portone. allora la pigrona andò a casa, ma era tutta
coperta di pece; e il gallo nel pozzo al vederla gridò: “Chicchirichì! La nostra bimba sporca è ancora qui».
Note
(1) La latina Proserpina. Kore è la “fanciulla”, prima del ratto ad opera di Ade. .
(2) Di Cenerentola sono note 345 varianti (dal 1544 al 1892). qui riportiamo la versione dei fratelli Grimm e quella di Charles Perrault. dove non indicato i brani sono tratti dalla novella
dei Grimm.
(3) Si trova tra le fiabe dei Grimm ed in una versione italiana: Belinda e il mostro.
(4) La leggenda narra che Proserpina fu rapita sulle rive del lago di Pergusa (5 km. a sud di Enna).
(5) È probabile che nella calcàra non si abbia nessuna fusione diretta dello zolfo. Questo verrebbe prima trasformato in vapore (sublimazione) e poi condensato e liquefatto.
(6) E. Canseliet, L’alchimia, vol. 1, ed. mediterranee, Roma 1985, p. 64.
(7) P. Montini, Il minatore siciliano dal 1860 al 1960. Riv. Servizio Minerario, Dir. Gen. Miniere, Roma 1961.
(8) La massa fusa, che urge dietro al porta della caldàra e improvvisamente zampilla fuori per essere raccolta in una forma (gàvita), richiama l’esperienza sessuale maschile.
(9) È la favola di Gràttula-Beddàttula. Pitré. Studi di leggende popolari in Sicilia (1870-1915), Forni, Bologna.
(10) È primavera. Proserpina esce alla luce.
(11) Una “pioggia d’oro” minerale si ottiene dalla sfarinatura del solfuro di arsenico, od orpimento (auri pigmentum di Plinio), che deriva dall’esposizione alla luce nelle dorature delle
icone.
(12) «Perciò in Assia – annotano i Grimm – quando nevica si dice: “La signora Holle si rifà il letto”».
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DION FORTUNE: DALLA PSICOANALISI ALL'OCCULTISMO
Luciano Pirrrota - saggista
Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n° 15 (maggio 1987), pp. 24-23, riprodotto per gentile concessione dell’autore che ne detiene i diritti.
Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo.
Una celebre fotografia di Dion Fortune
In Dion Fortune sono sempre esistite in coesistenza due facce: la colloquiale scrittrice di pubblicazioni divulgative piena di prudenza nel guidare i suoi lettori nei primi passi sulla via
dell’occulto, la sciava il posto, nella vita interiore, alla ricercatrice inquieta sulle tracce di oscure tradizioni stregoniche immerse nella notte dei tempi. Uno dei suoi principi fondamentali fu: il sapere occulto non è terreno riservato solo ai grandi ingegni o ad individui eccezionali cui è destinato per elezione divina. tutti ne possono godere, ed è giusto che ne godano, nella misura in cui lo sviluppo
spirituale e la maturità intellettiva di ciascuno lo consentano.
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Se poche donne hanno occupato con autorevolezza qualche spazio nella storia della ricerca esoterica, ancor meno sono
rimaste in auge presso i posteri all'indomani della loro scomparsa. Vi sono però due eccezioni significative: Helena
Petrovna Blavatsky (1831-1891), la dinamica animatrice della Società Teosofica, e Dion Fortune (pseudonimo di Violet Mary
Firth, 1891-1946) l'eclettica studiosa di Misteri fondatrice anch'essa di una scuola mistico-magica, la meno nota
«Fraternity (poi Society) of the Inner Light». In realtà ciò che lega queste due donne dalla spiccata personalità, non è soltanto la sorprendente continuità cronologica delle loro vite terrene ma una profonda consonanza di idee scaturite da interessi comuni.
La Fortune fu per qualche tempo affiliata alla Società Teosofica e questo può spiegare certe enunciazioni di lei perfettamente in sintonia con la teorica di tale scuola; ma paiono esservi anche motivazioni più profonde che, pur nella diversità delle vicende
biografiche, portano la seconda a ripercorrere e spesso a delineare meglio quanto già sperimentato dalla prima.
Violet Mary Firth nasce a Llandudno, una località dello Yorkshire già teatro di insediamenti nordici. Nelle sue stesse vene scorre sangue norvegese riconoscibile nel fisico atletico
caratterizzato da quella tipica bellezza che contraddistingue le stirpi scandinave. Rimasta presto orfana, viene accolta presso
una famiglia rigidamente osservante della Scienza Cristiana i cui principi lasceranno un segno indelebile sul suo carattere.
Durante l'adolescenza si manifestano intanto doti medianiche e di sensitiva che fanno di lei una piccola celebrità del contado inducendola ad approfondire con lo studio quanto SI andava
evidenziando come predisposizione naturale. All'età di vent'anni circa, mentre lavora in un istituto privato d'istruzione, vive l'
esperienza traumatica che segna una vera e propria svolta nella sua vita: la datrice di lavoro, una certa signora Warden,
manipola le personalità dei suoi dipendenti mediante tecniche orientali oscillanti fra l'ipnosi e la magia nera. Anche
la giovane Violet viene obbligata dalla odiosa direttrice a compiere atti che le aborrono finche un giorno, espressa la
volontà di andarsene, si trova a subire da parte della donna un autentico attacco psichico che la ridurrà in penose condizioni psico-fisiche per ben tre anni. Sarà proprio questo evento ad
indurre l'inesperta ragazza di provincia a studiare sistematicamente l' origine di certi disturbi nervosi uniti a stati di
prostrazione, ambedue piuttosto diffusi nella casistica clinica delle malattie mentali.
Inizia così a frequentare i corsi di psicologia e psicoanalisi all'università di Londra fino a divenire, nel 1912, psicoterapeuta alla East London Clinic. L 'influsso di Freud, Jung e Adler si sposa durante questi anni ad un effettivo contatto con sodalizi occulti:
l'iscrizione alla Società Teosofica coincide con l'incontro dei primi «maestri» d'iniziazione, i misteriosi «]esus» e «Radoczi»,
mentre una filosofia sincretistica in cui confluiscono dà una parte le teorie freudiane sul sesso e quelle junghiane sull'inconscio
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collettivo, dall' altra gli assiomi reincarnazionistici della Blavatsky e le formule meditative orientali, comincia a prendere forma, aggregando un primo nucleo della più vasta concezione che costituirà la base d'insegnamento della futura Inner Light.
In realtà la vivace intelligenza della Firth, dietro l'apparente oscillazione fra polo psicoanalitico e polarità magica, mostra l'
insofferenza per gli angusti limiti delle due scuole: si rende conto che la spiegazione freud-junghiana con il suo ibrido naturalismo positivistico da cui emerge qua e là uno spiritualismo che fa di Dio stesso un archetipo, non è sufficiente a dare conto di certi
fenomeni più profondi esperiti dall'uomo.
Si accorge ugualmente altresì, pur accettando la visione teleologica della teosofia condita dalla zuccherosa immagine di
un mondo in perpetua evoluzione verso un traguardo finale raggiungibile indistintamente da tutti, delle incrostazioni che
affliggono l'universo esoterico, popolato da una folla sterminata di imbroglioni, di mitomani, di falsi sapienti.
Ella sente vivamente l' esigenza di unificare in una superiore sintesi ciò che di valido è stato raggiunto nei rispettivi campi, ma soprattutto anela ad una nuova collocazione della donna
nell'ambito esoterico, cristallizzato nella concezione occidentale che vede in essa il ricettacolo di forze passivo-caotiche se non
infero-demoniache.
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Emblema recante il motto "Deo non fortuna"; fu questo il "nome magico" attribuito alla giovane Violet Mary Firth e che poi, semplificato in Dion Fortune, divenne lo pseudonimo
che rese celebre l'occultista inglese.
La chiave di volta di tale ricerca sembra giungere nel 1919 dall'incontro con la filiazione diretta della famosa società
«Golden Dawn»: accolta nella sezione dell ' «Alpha et Omega» presieduta dall'occultista J. W. Brodie Innes, la Firth riceve il suo
nome magico «Deo Non Fortuna» che, semplificato, diverrà il suo costante pseudonimo. L'anno seguente passa direttamente sotto la direzione della vedova di Mac Gregor Mathers (1) che dopo la morte del marito rappresentava la più alta autorità in
ordine agli insegnamenti iniziatici impartiti dall'«Alba d'Oro». Il rapporto, rivelatosi tempestoso anche se estremamente
fecondo, culminerà nell'espulsione della Fortune dal gruppo e in un autentico duello magico fra le due donne (conclusosi peraltro
con esiti incerti) (2).
Uscita dalla gloriosa scuola ormai avviata ad un lento declino la tenace fanciulla, che aveva dato vita nel 1922 (prima dello
scontro con la rivale) alla "Fraternità della Luce Interiore"
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dedicherà al potenziamento della propria creatura, alternando alla collaborazione con riviste specializzate (fra cui la Occult
Review) l' attività di scrittrice a tempo pieno. Dalla sua penna uscirà così nel corso degli anni seguenti, fino alla morte, una
serie saggi, racconti, romanzi (in cui la casistica magica funge da denominatore comune) di valore diverso.
Due opere soprattutto si sollevano però al di sopra della restante produzione, assicurandole un posto di tutto riguardo
nella storia della tradizione occulta occidentale: il volume Psychic Self-Defence, uscito nel 1930, in cui l'autrice con ampie indicazioni
pratiche riporta una serie di esperienze occorsele nell'area dell’hinterland occultistico, e lo studio teorico The Mystical Qabalah
(del 1935), che pur essendo lontano dall’interpretazione ortodossa della filosofia esoterica dell’ebraismo, costituisce una
più lucide introduzioni all'impiego del sistema cabalistico adottato dalla «Golden Dawn».
Leggendo i libri della Fortune, sia il lettore ferrato in materia, che l’esordiente ai primi passi, hanno sensazione curiosa:
eccetto per "La Cabala Mistica", la facilità della scrittura:, il tono discorsivo, la banalità sensazionalistica con la quale certi fatti vengono riportati, danno l’impressione di avere a che fare una
delle tante espressioni di ciarpame magico pullulanti nel settore. Tale sensazione però si scontra continuamente ( specie in chi conosce bene i domini di certe discipline) con la constatazione della quantità di informazioni esatte fornite dalla studiosa in
merito alle questioni trattate.
È piuttosto difficile ad esempio, nonostante le conclamate affermazioni di aver detto molto più del consentito, trovare in un qualunque testo di magia ragguagli completi circa l'operatività dei rituali. Al massimo si concedono accenni, frammenti spesso interpolati da volute falsificazioni, senza peraltro menzionare le
debite salvaguardie da prendere prima di iniziare un cerimoniale occulto.
Nella maggior parte dei casi occorre notevole tempo e disponibilità di opere, uniti ad una congrua dimestichezza con la materia, per riuscire ad orientarsi in una congerie tanto caotica di dati. La Fortune invece conduce il discorso su toni colloquiali, quasi una massaia un po' svanita che spieghi ad un'amica come
confezionare il dolce domenicale divagando poi intorno ai problemi della famiglia o sull'ultima furfanteria compiuta dal gatto di casa; ma ecco poi, improvvisamente, condensarsi in
poche, semplici frasi, la spiegazione di un argomento complesso. Ciò che altri hanno esposto con termini altisonanti, fra mille
oscurità atte ad accrescere l' atmosfera di segreto, viene messo, per quanto sia possibile, alla portata di tutti; soprattutto
mediante consigli pratici: cosa fare in caso di attacco psichico, quali sono i segni attraverso cui riconoscerlo e i metodi di difesa,
quale la condotta migliore da adottare di fronte a episodi di infestazione, stregoneria, vampirismo (3). «Gli esercizi che
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vengono compiuti da un ginnasta allenato, sono interamente al di là delle finalità dell'uomo comune; nondimeno gli stessi
esercizi con i quali il ginnasta si allena, non portati però allo stesso estremo livello, rendono l'uomo comune forte e in forma
quando li pratica regolarmente» (4).
Con questa esemplificazione quasi puerile la Fortune esprime uno dei suoi principi fondamentali: il sapere occulto non è
terreno riservato solo a grandi ingegni o ad individui eccezionali cui è destinato per elezione divina. Tutti ne possono godere, ed è giusto che ne godano, nella misura in cui lo sviluppo spirituale
e la maturità intellettiva di ciascuno lo consentano.
Con altrettanta franchezza scevra da orpelli moralistici, che pur affliggono tanta produzione del genere, ella affronterà il tema della «magia nera» : «La tecnica della magia nera non
differisce in nulla da quella della magia bianca; applica gli stessi principi, usa i medesimi metodi; lo stesso addestramento è
necessario nella concentrazione; la differenza sta nell'atteggiamento dell' operatore, nel simbolismo impiegato, e
nei poteri contattati per tali motivi».
Certamente alcune sue affermazioni appaiono troppo rozze ai palati raffinati e il suo pensiero non è esente da contraddizioni.
Così quando afferma che l'uomo non viene cambiato dalla morte o che la personalità del singolo rimane inalterata allorché il corpo si disfa; o quando riaffiora il sostrato teosofico, che la
rende certa di un processo evolutivo spiritualizzante, alla fine del quale l'anima, libera dal ciclo delle reincarnazioni continuerebbe
la sua esistenza come essenza disincarnata con una mente umana.
In realtà è opportuno scindere le istruzioni operative che costellano i suoi testi, la cui efficacia è quasi sempre ottimale,
dalle elucubrazioni teoriche infarcite di considerazioni personali che spesso fanno loro da cornice.
Tali antinomie derivano per lo più dagli influssi discordanti subiti dalla scrittrice nel corso della vita: le massime rigoristiche della Scienza Cristiana, alla luce delle quali l'adolescente Violet
crebbe nella famiglia adottiva, potevano convivere solo a prezzo di gravi compromessi con il misticismo orientaleggiante della Società Teosofica, ed ancora più difficile diventava conciliare l'ammirazione che la Fortune nutrì durante tutta la vita per
Madame Blavatsky, con l'attrazione irresistibile, mista a riverente rispetto, per la figura sulfurea di Aleister Crowley,
anche lui transfuga dalla Golden Dawen (5).
Può accadere così che mentre in Psychic Self-Defence ella sostenga essere il sistema di Abramelin l'unico metodo valido «per invocare i demoni senza rimanerne invasati», (6), si trovi
poi a chiedere delucidazioni alla «Grande Bestia» (con cui tenne una fitta corrispondenza) circa le procedure evocative in un
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sacrificio cerimoniale di sangue.
La spiegazione più plausibile di certi aspetti antitetici, è che di questa donna straordinaria siano sempre esistite, in coesistenza,
due facce. La colloquiale scrittrice di pubblicazioni divulgative piena di prudenza nel guidare i suoi lettori nei primi passi sulla
via dell' occulto, lasciava il posto, nella vita interiore, alla ricercatrice inquieta sulle tracce di oscure tradizioni stregoniche
immerse nella notte dei tempi.
La profonda conoscenza delle tecniche di proiezione del «corpo astrale» (che ella chiamava «viaggio nella
visione dello spirito»), l'uso di simboli specifici quali tattwa e sub-tattwa per indurre una sorta di autoipnosi (7),
l'impiego del sesso magicamente controllato volto al risveglio della polarità femminile sotto l' aspetto
distruttivo dell'eros sabbatico, la avvicinano del resto alle più torbide propaggini del buddismo tantrico e ai
pericolosi esperimenti di Crowley.
D'altra parte, alcune teorie sulla funzionalità degli stati di shock conseguenti profonde delusioni al fine di provocare vortici
di energia attingenti al terreno dei territori inconsci, assomigliano troppo alle ipotesi di Austin Osman Spare in merito
ai cosiddetti «atavismi risorgenti», per non gettare una luce ancora più sinistra sul percorso di ricerca battuto da questa
studiosa sui generis (8).
Forse proprio durante un itinerario lungo tali sentieri liminali, si generò la causa della sua immatura scomparsa, avvenuta, in
circostanze poco chiare, e ancora più sorprendente per una donna sana e forte come lei, all'età di cinquantacinque anni.
NOTE:
(1) Un rapido profilo di quest’ultimo è tracciato nell’articolo di J. Sabellicus si Abstracta, n°4, aprile 1986, contenente anche degli utili ragguagli sulla “Golden Dawn”.
(2) Un resoconto dei motivi del disaccordo e delle modalità di combattimento fra le due magiste, unitamente ad altre notizie curiose, è contenuto nel saggio di F. king, Magia rituale,
Mediterranee, 1979, pp. 175-187; 195-198.
(3) Con quest'ultimo termine la Fortune non intende la suzione di sangue della vittima da parte dei vari epigoni del conte Dracula, bensì l'assorbimento di energia psichico-vitale compiuta da alcuni individui dotati di forte personalità consciamente o inconsciamente malevola, a spese di
altri più fragili emotivamente, che cadrebbero cosi preda di stati di spossamento fisico, prostrazione morale, esaurimento nervoso, fino a stadi irreversibili di patologia mentale.
(4) Il presente brano e il successivo sulla “magia nera” sono entrambi tratti da Applied Magic, una raccolta di saggi inedita in Italia, pubblicata da The Aquarian Press, Wellingborough,
Northamptonshire, 1981,pp. 5 e 50. La traduzione è di chi scrive.
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(5) È nota la particolare avversione dimostrata sempre da Crowley per la Blavatsky, che in più di un'occasione egli additò come la vera artefice dei delitti attribuiti al fantomatico “.Jack lo
Squartatore”. Per un esame sistematico della vita e l'opera del mago si rimanda alla biografia stesa dal suo esecutore letterario: J. Symmonds, La Grande Bestia, Mediterranee, 1972. Un
efficace compendio è fornito da J. Sabellicus in Abstracta n. 1, gennaio '86.
(6) Cfr. pag. 153 dell'edizione italiana. Del grimoire di Abramelin, uno dei manuali operativi più affidabili ben conosciuto da tutti i cultori di scienze occulte, sono disponibili in italiano due
edizioni: la prima, de1 1980, basata sulla collazione delle tre copie manoscritte ancora esistenti, introdotta e annotata da chi scrive per l'Ed. Atanor, col titolo La Magia Sacra di
Abramelin il Mago; la seconda, de1 1981, riproducente la trascrizione inglese effettuata da Mac Gregor Mathers dell'unica copia a sua conoscenza (Biblioteca dell' Arsenale di Parigi),
pubblicata dalle Ed. Mediterranee nel secondo volume di Magia della Cabala.
(7) Sull'impiego dei tattwa e sub-tattwa quali supporti per la concentrazione, si vedano S. L. Mac Gregor Mathers, Proiezione Astrale, Magia e Alchimia, Mediterranee, 1980, il nostro La
Scienza Alchemica 'attraverso' la Porta Ermetica di Roma in Atti e Memorie dell'Accademia di Storia dell'Arte Sanitaria, Roma, 1982, n. 3, pp. 145-152.
(8) Per la figura di A. O. Spare si rimanda al nostro articolo su Abstracta n. 6, giugno-luglio '86.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Le due maggiori opere di Dion Fortune sono state entrambe edite in italiano: La Cabala Mistica, Astrolabio, 1973; Difesa Psichica, Siad,
1978. Un'antologia contenente un suo racconto è stata pubblicata dalle Ed. Mediterranee: P. Haining, Maghi e Magia, 1977. In lingua inglese la
maggior parte dei saggi sono stati ripubblicati da The Aquarian Press. La stessa casa editrice ha annunciato la prossima uscita di una sua biografia contenente notizie inedite, dal titolo «Priestess, The Life and Magic of Dion Fortune» di Alan Richardson, che sulla scorta di nuovi dati ha
anticipato la data di nascita della magista al 6 dicembre 1890. Per quanto riguarda la saggistica in lingua italiana su di lei, a parte brevi cenni nelle varie Storie della Magia e nel citato testo di F. King, l'unico contributo
interessante è stato fornito da K. Grant, che le ha dedicato il decimo capitolo de Il Risveglio della Magia, Astrolabio; 1973.
Bianca come la neve
BIANCANEVE E I SETTE NANI: UNA FIABA D’ARGENTO
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Giuseppe Sermonti - scrittore, saggista, già docente di genetica all'Università di Perugia.
Articolo pubblicato per la prima volta in Abstracta n° 25 (Aprile 1988), pp. 70-77, riprodotto per gentile concessione dell'autore che ne detiene i diritti.
Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo.
Rovine dell'Eremo dei Sette Fratelli, sotto il massiccio omonimo (foto dell'autore)
Nella favola di Biancaneve è possibile riconoscere i procedimenti d’estrazione e purificazione dell’argento. E in essa le varie operazioni metallurgiche emergono come metafore. La bambina è figlia della neve e vive un’esistenza ultraterrena,
lunare, lontana. La sua bellezza incomparabile si può guardare solo nello specchio, come quella di una Gorgone.
L'ermeneutica alchemica delle fiabe di Giuseppe Sermonti venne esposta per la prima volta in tre successive pubblicazioni da tempo esaurite:
Fiabe di luna. Simboli lunari nella favola, nel mito, nella scienza (Rusconi, 1986), Fiabe del sottosuolo. Analisi chimica delle fiabe di Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Cenerentola (Rusconi, 1989), Fiabe
dei fiori (Rusconi, 1992). Il contenuto di queste tre pubblicazioni, ulteriormente rivisto ed accresciuto dall'autore, è ora raccolto in Fiabe
dei tre regni, in corso di stampa presso l'editore La Finestra di Trento.
L’estrazione e la lavorazione dei minerali è stata un’attività umana non meno importante della caccia e dell’agricoltura,
Presso le miniere sono nate città e civiltà e le grandi ere della storia umana hanno preso il nome dai minerali: età dell’oro, dell’argento, del bronzo, del ferro (Daniele, 2, 37-45). I metalli
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hanno resi ricchi, cupidi e potenti i popoli, hanno improntato religioni e filosofie, hanno promosso scienze, guerre e commerci. Fabbri, metallurgi e alchimisti hanno recato le loro esperienze e
il loro vocabolario nell’incantato crogiolo delle fiabe, e ve ne troviamo i segni abbondanti. In questo saggio mostreremo che
la fiaba di Biancaneve contiene in sé i procedimenti di estrazione e purificazione dell’argento e adotta le varie operazioni
metallurgiche come metafore. In saggi successivi mostreremo il rapporto di Cenerentola con lo zolfo, e di Cappuccetto Rosso con il mercurio. L’argento rappresenta la purezza assoluta e la sua
estrazione, nei forni a coppella, simboleggia la rivelazione della parola divina (1). Esso è conosciuto e lavorato da almeno
cinquemila anni. Si trova in natura in estesi giacimenti, incluso in formazioni rocciose entro cui mantiene spesso la sua condizione nativa, come vergine casta in poco raccomandabile compagnia.
La ganga che raccoglie l’argento è formata soprattutto di galena (solfuro di piombo). Sarà il piombo fuso a includere,
scomporre, disciogliere e disvelare l’argento.
Antichità della coppellazione:
Il procedimento di estrazione dell'argento si svolge in forni a riverbero entro una conca di marna o d'argilla, chiamata coppella. L'operazione si chiama coppellazione ed è antica di migliaia di anni (2) e per migliaia d’anni è stata ripetuta quasi identica, sino al
principio del nostro secolo. Nella ricostruzione storica la coppellazione è rivelata dalla comparsa contemporanea di
argento e piombo negli scavi archeologici. In Egitto argento e piombo si trovano insieme tra reperti di oltre 5.000 anni fa,
precedenti al periodo dinastico: in Mesopotamia appaiono nella stessa epoca nel periodo di Uruk III, e magnifici lavori in argento sono stati rinvenuti ad Ur e Lagash. Da tavolette cappadociane
risulta che Gudea, principe di Lagash, inviò spedizioni per acquistare piombo ed argento nelle “montagne dell’argento”
dell’Armenia (Anatolia). Mercanti mesopotamici avevano stabilito nel terzo millennio avanti Cristo colonie permanenti
nella terra degli Ittiti ove acquistavano argento greggio e affinato, piombo puro e in pani.
Il procedimento
La coppellazione è preceduta da una fusione delle pietre, soprattutto galene, contenenti l’argento nativo e i suoi metalli. Il
piombo fuso ha la proprietà di decomporre l'argentite (solfuro d'argento) e di sciogliere l'argento. Il piombo contenente
l'argento (piombo d'opera) si carica poi entro la coppella, collocata in un forno a riverbero.
La massa plumbea fonde formando un tetro minestrone, alla superficie del quale galleggiano oscure impurità, che sono
asportate con ampie cucchiaie di ferro. Nel magma fuso viene insufflata aria con appositi mantici. Ed ecco che il vile piombo si lascia coinvolgere dall'ossigeno gorgogliante e si trasforma in
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ossido di piombo o litargirio. Questo assume l'aspetto di una massa schiumosa e verdastra che tende a tracimare dalla
coppella, aiutata dal maestro metallurgo che la trascina con un palo a T. Il nobile argento schiva l'ossigeno e rimane
incontaminato, decantando lievemente sul fondo dove forma un deposito bianco, sepolto e compresso sotto la schiuma del
litargirio. Intanto il maestro ha praticato, sull'orlo della coppella, un incavo per facilitare il deflusso del piombo ossidato. Mentre parte del litargirio tracima, altra è assorbita dalla cenere e dal
fango battuti che coprono il fondo della coppella. Man mano che il bagno si abbassa il litargirio, che prima era verde, assume il suo colore naturale giallo (o rosso). Ridotto a uno strato sottile
esso si apre in anelli colorati detti gli occhi dell’argento ( «argento in fiore» ).
Quando l'ultima pellicola di litargirio scivola via, il bianco metallo appare con un improvviso splendore, che viene
chiamato il lampo dell'argento.
La regina interroga lo specchio (illustrazione alla fiaba di Biancaneve di L. Richter e di M.- von Schwind).
La descrizione di Agricola
Al principio del '500, la coppellazione è così descritta da Giorgio Agricola (3), che usa il termine «catino» in luogo di
coppella.
Agricola comincia col descrivere la preparazione della fornace «La cui fabbrica è stata di sassi quadri e di due mura di dentro, l'uno dei quali
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taglia l'altro per traverso: e è anco fatta di un cerchio tondo, e d'un coperchio. Il catino (coppella) si fa di polvere di terra e di cenere. Il cerchio dalla parte
dinnanzi si farà pendente, a fin che far si possa il canaletto per lo quale andrà giù la schiuma dell' argento» .
Dopo altre preparazioni) il maestro pesa il piombo argentifero; dispone il coperchio sul catino, poi vi monta sopra e, attraverso l'apertura del coperchio, dispone nel catino i pani di piombo che un garzone gli porge. Poi getta sul piombo un cesto
pieno di carboni.
“La mattina primieramente l'artefice, pigliando due pale di carboni accesi gli getta nel catino... Fatto questo, apre e alza le portelle de la machina che abbassa
i travicelli dei mantici, perchi ella si possa voltare: e così in spazio d'un' hora, il mescolato piombo si disfà. Hor, quando il piombo per lo spazio di due ore così
scaldato sia) a l'hora col palo uncinato il maestro lo va movendo, perché si scaldi meglio. ..A l'hora col rastrel senza denti per lo canaletto tira fuori una certa
scorsa del piombo mescolato con carboni, la qual genera il piombo nello scaldarsi. ..Dipoi col palo cava fuori la schiuma dell'argento, la quale si fa del
piombo. ..perciò più rettamente chiamerasi schiuma di Piombo che d'argento”.
Ed ecco l'operazione giungere al termine. Liberato dalla schiuma di piombo, l' argento appare nella sua bianchezza.
«Hor, quando l'argento haverà lo suo natural colore, a l'hora appariscono alcune lucenti macchie bianche, e quasi che alcuni colon.. In un batter d’occhio
poi diviene candido (4), incontanente il garzone manda giù le particciuole, a ciò serrato il canale, la ruota non giri, e i mantici si fermino.
Ma il maestro sopra l'argento getta alcuni vasi d’acqua perché si raffreddi. .. (5). “Cavato fuor del catino il pan dè l'argento lo mette sopra una pietra. ..a
l'hora con una spazzola fatta di fila d'ottone, e bagnata ne l'acqua, lo va nettando”.
Il pane d'argento, estratto dal forno e lavato, viene successivamente purgato entro un altro focolare. L'operazione si compie entro una teglia di terracotta, o «testo», che si riempie di
ossa polverizzate e cenere.
“ll purgator governa il fuoco e muove l'argento liquefatto con un istromento di ferro lungo nove piedi, e grosso un dito. ..Hor quando al maestro pare che
l'argento purgato sia, allora con una pala toglie via i carboni del testo: e poco do" po piglia dè l' acqua con un cucchiaio di rame ( e ). ..versandolo sopra l’argento, a poco a poco lo va spengendo. ..A l 'h ora, tolto il testo fuori del
focolare, con una pala o con una forca lo volta sottosopra, e in questo modo l'argento, in forma di una mezza palla cade in terra. ..e levatolo su di nuovo con una pala, lo mette nel vaso de l'acqua, dove ancora fa grande strepito, e suono.
... Raffreddato che è, con il martello lo batte, a fin che se la polvere gettata nel testo vi si fosse attaccata, ch’ella caschi giù. ... Purga eziandio l'argento, con una spazzola fatta di file d'ottone legate insieme, e bagnata sovente nell’acqua,
nettandolo.; la qual fatica di battere e nettare va rinnovando, finché sia
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purificato affatto.
"Di poi: mettelo sopra un trepiede, o una grata di ferro. ..A la fine il sovrastante, e governator delle cose del re, o del principe, o de signori, pone
l'argento sopra il tronco, e con lo scalpello ne taglia due pezzuoli, uno dalla parte di sotto, l'altro da quella di sopra, e al fuoco le pruova, per saper se benissimo
purgato sia l'argento,' o no, e a che pregio si debba vendere a mercatanti: fatto questo incontanente vi mette su il sigillo del re, o del principe, o de signori, e
appresso di sé tiene il conto del peso” .
La Fiaba
L'estrazione dell'argento dalla galena è di per se una trama
fiabesca. Un sepolto biancore giace sotterra in lunghe vene pietrose.
Raggiunte dai minatori, le vene sono picconate, abbattute, trascinate
faticosamente alla superficie nelle gerle dei portatori. Le pietre
spezzate sono deposte entro rozze scodelle che ricordano pentole di
streghe.
A lungo la massa plumbea bolle, e sotto la schiuma gorgogliante l'
argentea materia si distende come bella-addormentata nel suo letto.
La massa scura che la sovrasta, come masso che copra una bambina sepolta, come cumulo che copra la
luna, si sposta pian piano.
E improvvisamente, dopo aver aperto gli occhi, la bellezza velata si
svela con un lampo abbagliante.
Raccolta e lavata è disposta su un cataletto, in attesa di appartenere
ad un re.
La strega offre doni a Biancaneve (illustraz di L. Richter e di M.- von
Schwind)
La fiaba di Biancaneve è popolarmente nota nella versione dei fratelli Grimm (6). La versione cinematografica di Disney è una
divagazione macchiettistica, e non coglie alcun motivo importante della fiaba originale, che è tutta giocata sulla
bianchezza e la sua occultazione, ciò che m'ha permesso di includerla fra le Fiabe di Luna (7).
Il destino della dolce bianchezza è quello di essere ripetutamente occultata, ritrascinata nella nerezza, nel buio del
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sonno stregato.
Il compito è svolto nella fiaba da una matrigna “superba e prepotente”: ella non sopporta che la si superi in bellezza. Unita
alla bambina dalla consuetudine domestica, le è tuttavia estranea e non partecipe della sua natura.
È lei la operatrice delle trasmutazioni dell'argento. Benché sia perfida, è attraverso le sue manipolazioni che Biancaneve
raggiunge la purezza e le nozze.
La regina-matrigna dei Grimm è una cercatrice di affioramenti d'argento, e li ricerca in se stessa, guardandosi in uno specchio.
Quando la regina vede l'argento, quando scopre nel suo palazzo la bellezza di Biancaneve, subito le prepara la fine
dell'argento nativo, che è quella d'essere incluso e dissolto nella galena che lo contiene.
La matrigna (litargirio) cade al suolo di fronte a Biancaneve (illustraz. di L. Richter e di M.- von Schwind)
Il divoramento.
Il pietrame argentifero è fatto a pezzi, gettato in una grande coppa d'argilla, la coppella, e scaldato in un forno a riverbero. Nella poltiglia nerastra e bollente l'argento scompare disciolto,
digerito, divorato dal piombo fuso.
Il divoramento dell’eroina da parte della matrigna si incontra nella fiaba di Biancaneve e nelle sue varianti. Esso identifica
l'argento della fase iniziale del processo di estrazione e si presenta come uno strano cerimoniale cannibalesco, come una
ouverture macabra della fiaba del candore. In genere l'eroina viene risparmiata e il pranzo antropofago è riservato a un suo
sostituto. Nella favola Il Ginepro, dove Biancaneve è rappresentata da un fanciullino, il piccolo è fatto a pezzi, servito in tavola e
divorato, 94
Nella favola dei Grimm, il cacciatore mandato a uccidere la bambina nel bosco si lascia prendere da pietà, risparmia la
creatura, e uccide al suo posto un cinghialetto (8). Quand'egli porta il fegato e i polmoni dell'animale alla regina, ella celebra
un inopinato banchetto e divora gli organi che crede della reginetta, cucinati e salati.
«E siccome proprio allora arrivò di corsa un cinghialetto, lo sgozzò, gli tolse i polmoni e il fegato e li portò alla regina come prova. Il cuoco dovette salarli e cucinarli, e la perfida li mangiò credendo di mangiare i polmoni e il fegato di
Biancaneve» .
Troviamo la stessa macabra scena in una fiaba sorella di Biancaneve, La Bella addormentata nel bosco di Perrault. Qui la suocera
della reginetta vuol divorare la bambina Aurora e il bambino Sole, che la bella aveva messi al mondo, e poi la reginetta
stessa.
Quando il capocuoco va a uccidere Aurora «ella aveva quattro anni,. ridendo e saltando gli gettò le braccia al collo e gli chiese
uno zuccherino. Lui si mise a piangere, il coltello gli cadde di mano, e corse giù nel cortile a sgozzare un agnellino,
accompagnandolo con una salsa così buona, che la sua padrona gli dichiarò di non aver mangiato mai nulla di tanto squisito. {In
luogo del bambino e della mamma, le vengono poi serviti un caprettino e un cervo) che la Regina si mangiò per cena, e con lo stesso
appetito che se fosse stata sua nuora» .
Ne Il Ginepro, è il vero bambino che viene cannibalescamente divorato dalla matrigna: «Prese il bimbo e lo fece a pezzi, 1o mise nella pentola e 1o fece bollire nell'aceto. Marilena (la sorella), lì vicino, piangeva e
piangeva e le lacrime te cadevano tutte nella pentola e non c'era bisogno di sale. (Il figlio viene servito come) un piatto grande grande pieno di carne in
salsa agra», precisa immagine della coppella ove la ganga argentifera fonde nella massa verdastra della galena.
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Il Forno
Biancaneve va a addormentarsi in una modesta casina. Intorno a questa si stende un gran bosco selvaggio, pietroso e
spinoso. La bimba l'attraversa come una piccola Diana cacciatrice e ne rimane intatta.
Il forno per la purificazione dell'argento in coppella è una casetta piccina, circolare, con finestre minute e un tetto conico di ferro. Il muro attorno non è più alto di un metro e il diametro dell'impianto è circa un metro e mezzo. A volerla popolare di
inquilini si debbono immaginare piccoli nani ed una ragazza vi entrerebbe, distesa, appena appena.
Per Biancaneve è una soglia, al di là della quale sono sonni sempre più profondi, sino all'estremo sonno della morte. La
coppella, entro il forno, è un vero giaciglio per l'argento, il luogo in cui esso si distende e si riposa.
La fanciulla è avviata agli Inferi, dove giungono tutte le belle-addormentate, in un al-di-là desolato che le conserva intatte nel lungo riposo. Possono starvi mesi, anni, secoli, finche un Orfeo
fortunato non le riporti allo splendore del giorno.
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La schiumatura
Nella casetta dove giunge Biancaneve ci sono, su un
tavolo, sette scodelle colme di verdura, dalle quali
Biancaneve si serve, portando via solo un po' di contenuto
con un cucchiaino, come fanno i minatori che con un cucchiaio di ferro tolgono la
scoria galleggiante dalle coppelle ardenti.
Quest'operazione si trova in altri racconti, Nella fiaba sarda
di Melagranata, Maria compie pedantemente il procedimento del maestro metallurgo, quella «schiumatura» che costituisce
l'atto peculiare della preparazione dell'argento: «C'erano le pentole con la carne pronte per essere schiumate; ha
schiumato il brodo. ..» (9).
Il metallo
Il cuore della fiaba di Biancaneve è nell'idea di castità: una castità bianca, intoccabile, che è assenza di passioni, di colori, di
vita. La bambina è figlia della neve, di un paesaggio senza odore; senza colore e senza rumore, e vive un'esistenza
ultraterrena, lunare, lontana. Non conosce congiunzioni, se, non quella con la morte o con il sole. E collocata nell'assoluto e la sua
bellezza incomparabile si può guardare solo nello specchio, come quella di una Gorgone. Colore d'alba, virginale e infantile,
colore del nulla antecedente all'inizio.
A Biancaneve si addice il sonno, l'escludersi dalla realtà per andare ad esistere in un mondo inaccessibile, segreto, mentre il
corpo immobile, fresco, incorruttibile è serbato intatto per le lacrime degli abbandonati. Un dolore lungo, inconsolabile, senza speranza commenta il suo mantenersi immota sulla soglia della morte, senza mai attraversarla. La sua bara di vetro la separa
dalla vita, ma la conserva presente, come la reliquia di una santa.
Tutte queste qualità della fanciulla bianca-come-la-neve sono proprietà dell'argento, il bianco tra i metalli. Di natura nobilissima, l’argento è alieno alle combinazioni e alle
ossidazioni, e si conserva casto e nativo tra rocce vili, tra metalli più bassi, nei gorgoglii dell'aria nel forno.
Esso emerge puro dalla coppella in virtù della sua verginità. 97
Tra le pietre e nel forno è l'occultato, il nascosto, il profondo, il pudico. Solo dopo che è stato liberato da cento veli, scopre a sua bianchezza e lo fa con tale fulgore da far girare lo sguardo di chi
gli è attorno. L'argento è la bella-addormentata, la bianca giacente.
Il risveglio
Assistiamo ora al suo risveglio. Nella fucina del metallurgo, lo voglio ricordare, si succedono questi procedimenti. La schiuma di
piombo tracima e la poltiglia del piombo si va a solidificare sul pavimento, tra fiamme e fumo. Quando l'operazione è ormai
completa, si solleva fragorosamente il coperchio del forno, con i suoi tre cerchi di ferro. Nella coppella il litargirio, ridotto in uno
strato sottile, si
squarcia e si aprono “gli occhi dell'argento”. Improvvisamente l'ultimo velo scorre via e l'argento risplende con un biancore
abbagliante. E il “lampo dell'argento”.
La trasformazione è narrata, con verismo impressionante, nella fiaba Il Ginepro (10).
La madre, che ha ammazzato il fanciullo, siede a tavola con il padre e la sorella. Arriva uno stranissimo uccellino, che canta la
morte del piccino.
Al suo arrivo la mamma assassina grida e, come il litargirio scorre via dal bagno ardente e cade infuocato sul pavimento, così scorrono via gli abiti di dosso alla donna che brucia e poi
esce lei stessa di scena.
"No - disse la donna - io ho tanta paura: mi battono i denti e mi par d'avere del fuoco nelle vene" .E si strappò il corpetto e il resto. .. Si tappò le orecchie e chiuse gli occhi per non vedere e
non sentire, ma nelle orecchie aveva il fragore della tempesta e i suoi occhi (11) bruciavano e vedevano lampi... (12). "Mi par che tremi tutta la casa e che sia in fiamme" ...Ma la donna ebbe una
gran paura e piombò lunga distesa nella stanza, e la cuffia le cadde di testa. ..La donna. stramazzò, come fosse morta... saltò in piedi e i capelli le si rizzarono come fiamme: "Mi sembra che
debba crollare il mondo, uscirò anch'io: chissà che non stia meglio!". E quando oltrepassò la soglia, pac! l'uccello le buttò in
testa la macina, che ne fece poltiglia. .. fumo e fiamme si sprigionarono dal suolo e, quando tutto svanì, ecco il fratellino...”
Il litargirio arde, tracima e piomba al suolo come poltiglia, l'argento, con un lampo, si risveglia.
Il risveglio di Biancaneve è dolce e sereno: “Ella aprì gli occhi, sollevò il coperchio e si rizzò sulla bara. Era tornata in vita” .
La strega non è presente, ma quando la vede andare a nozze "riconobbe Biancaneve e impietrì dallo spavento e dall'orrore”…
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Particolare degli affreschi del santuario parmense della Madonna della Steccata. Le vergini sono raffigurate con
un'anfora sul capo.
La purgatura e il sigillo reale
Prima d'essere esposta nella bara di
vetro dove un principe si offrirà di
acquistarla, Biancaneve è
sottoposta alle ultime purificazioni da parte dei piccoli minatori.
Essi cercano dapprima di liberarla
dal veleno che la tiene addormentata e poi la preparano per
l’estrema deposizione sul letto
di morte.
La preparazione della salma di Biancaneve segue una procedura curiosa. La bambina è lavata con acqua e vino, pettinata e poi
disposta su un cataletto. Quindi è
collocata in una bara di cristallo e esposta
sul monte. Sulla bara, “misero sopra il suo nome, a lettere d'oro, e scrissero
che era figlia di re”.
Ricordiamo quel che abbiamo letto in Agricola: appena l'argento appare
nella sua bianchezza, il maestro «sopra
l'argento getta alcuni vasi d'acqua perché si
raffreddi. .. Altri sono che ci versano sopra della
cervosa perché diventi più bianco».
Dopo ulteriori purificazioni, un operaio noto come purgatore depone l'argento a terra, poi lo solleva con una pala e lo sfrega ripetutamente con una spazzola bagnata di acqua. Lo dispone poi in vista sopra un trepiede. Arriva il sovrastante e pone il blocco d'argento sopra un tronco, lo esamina, «stabilisce a che
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pregio si debba vendere ai mercatanti: fatto questo incontanente vi mette il sigilli del re. ..".
Pronta per il regale acquisto, la bianca fanciulla giace, come lingotto argenteo, in attesa delle uniche nozze che le si
confanno, lo sposalizio con l'oro.
Il luogo della fiaba
Benché le fiabe non abbiano, come la storia, un'epoca e un luogo, esse si depositano, come i miti, in alcune regioni propizie,
donde traggono alimento e vigore, in cui stabiliscono il loro paesaggio ideale.
Biancaneve ha il suo territorio d'elezione nel sud-est della Sardegna. In quella regione, nota come il Sarrabus, esistono giacimenti d'argento e fino all'inizio di questo secolo hanno
funzionato numerose miniere.
Dalla zona mineraria, guardando verso il sud, appare un massiccio montuoso chiamato il Sette Fratelli (13). Sono sette
picchi, di cui uno emerge sugli altri, col nome femminile di Sa Ceraxa (la cerussa?). Essi sembrano assistere da lassù al sonno della bella addormentata. Una leggenda locale (14) ricorda sei cavalieri che protessero una fanciulla, di una spanna più alta di
loro, prima d'esser trasformati in picchi montuosi.
Ai piedi del massiccio esistono ancora i ruderi di un piccolo eremo, chiamati il Convento dei Sette Fratelli {si tramanda che
sia stato costruito nel sec. XIV da sette cavalieri).
L'eremo si trova in una piccola radura circondata da un vasto bosco, che in epoche passate era frequentato da animali
selvaggi. In quel bosco immaginiamo una fanciulla bianca come neve (la "cerussa" è la biacca) correre impaurita verso la lontana
casetta dei sette nani (15).
Il massiccio dei Sette Fratelli visto da Ovest (foto
100
dell'autore).
Note
(1) Recitano i Salmi (147) “Le parole di Jahvé sono parole pure\ argento colato in coppella\ della ganga purgato sette volte”.
(2) J Forbes, Estrazione, fusione e leghe (3 Argento e Piombo) In Sroria della Tecnologia vol. 1 pag. 592-4
(3) Giorgio Agricola (George Bauer) L’arte de’ metalli (De re metallica, 1557) tradotto in lingua toscana (1563), Bottega d’Erasmo, Torino 1969, pp. 400 e sgg.
(4) Queste sono le fasi chiamate dai metallurgi “argento in fiore” (“occhi dell’argento”) e “lampo dell’argento”.
(5) “Altri sono che vi gettan sopra della cervosa (birra, altrove presumibilmente vino) perché divenga più bianco” (Agricola, ibidem).
(6) Grimm (1812-1822) Fiabe del focolare Einaudi, Torino 1956, n° 52, Biancaneve p. 228.E. Boklen riporta 82 varianti della fiaba riconducibili a 30 motivi (Schneewittchen Studien
Leipzig 1910-1915).
(7) G. Sermonti Fiabe di Luna, Simboli lunari nella fiaba, nel mito e nella scienza, Rusconi, Milano 1986.
(8) Nella “Biancaneve” russa (Lo specchio fatato in Afanasiev, Antiche fiabe russe, Einaudi, Torino 1953, pag. 54) è il fratello che ha il compito di uccidere la ragazza: “ …mi manda il
babbino con l’ordine di fare a pezzi il tuo bianco corpo, d’estrarre il cuore e di portarglielo…”.
(9) Il termine sardo è ispummare , vedi E. Delitala Fiabe e leggende nelle tradizioni popolari della Sardegna. La fiaba di Melagranata, DueD Editrice Mediterranea, Sassari 1985, p. 48.
(10) Grimm, cit. n°47, p. 199
(11) E’ la fase degli “occhi d’argento”.
(12) E’ la fase del “lampo dell’argento”.
(13) E’ riportato con la dizione Li sete Frateli nella più antica rappresentazione cartografica della Sardegna, di Rocco Cappellino (1577)
(14) A. Anedda La ballata dei “Sette Fratelli” Tip. Editrice Artigiana, Cagliari 1983
(15) Il Motivo di Biancaneve è frequente nella favolistica sarda, ed è svolto come una storia di una fanciulla serbata come intatta sorellina nella rude compagnia di uomini alla macchia.
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MICHAEL MAIER E L’ATALANTA FUGIENS di Stefania Quattrone, storico dell'arte.
Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n° 17 (Luglio-Agosto 1987), pp. 40-49, riprodotto per gentile
concessione dell'autrice, che ne detiene i diritti. Riproduzione vietata.
“Enigmatico” medico di derivazione paracelsana, Conte Palatino, alchimista, promotore di riforme, Maier fu uno tra i principali teorici della dottrina Rosa – Croce. La sua fama è indissolubilmente
legata ad uno dei più celebri libri di “emblemi” della storia, l’Atalanta Fugiens, opera apparentemente bizzarra nella quale la musica ed altri elementi “artistici” formano un tutt’uno
con l’esposizione ermetica.
Per analizzare l'enigmatica figura di Michael Maier e il significato dell' Atalanta Fugiens, il suo più singolare e fortunato libro, bisognerebbe prima inquadrare, sia pure brevemente, lo
sfondo culturale ermetico dell' epoca, espressione di quella tradizione del “pansofismo rinascimentale” - ossia di quella
ricerca di un «sapere enciclopedico» riguardante l'intera Realtà che faceva capo alla corte praghese di Rodolfo Il. E quanto
facciamo in un riquadro a parte, rimandando il lettore desideroso di ulteriori approfondimenti sull' ermetismo rinascimentale agli studi di F. Yates citati in bibliografia.
Michael Maier nasce nel 1568 a Rindsberg, nell'Holstein, da una famiglia di origine protestante o forse anche ebraica. Nel
corso della sua vita, comunque, Maier si dichiarerà profondamente cristiano. Dopo aver compiuto i suoi studi in
medicina, ne11596, si laurea a Basilea dove ancora circolano le teorie fIlosofiche del «mago-medico» Paracelso; nell'anno
102
successivo si laurea in filosofia a Rostock. Nell'anno 1608 viene chiamato dall'imperatore alchimista Rodolfo II (1) a Praga, per
ricoprire la carica di medico di Corte.
A questa dignità professionale se ne aggiungono in seguito delle altre; infatti la sua inclinazione intellettualistica e allo
stesso tempo «empirista», nonché il suo prediligere tutto ciò che è «arcano» ed «esoterico», stimolano notevolmente l'attenzione
di Rodolfo, appassionato fautore delle «scienze occulte», soprattutto negli ultimi anni di vita, tanto che Maier viene insignito del titolo di Conte palatino e nominato segretario
privato dell'imperatore. Durante i quattro anni precedenti la morte di Rodolfo Il , Maier ha modo di assorbire la singolare atmosfera della Corte, attraverso la quale nei tempi passati
transitarono famose personalità, come, ad esempio, John Dee, Tycho Brahe e Keplero. Benché quelle presenze non siano ormai
che un ricordo, l'ambiente della Corte rodolfina è ancora permeato dalle loro "teorie", essendo rimasto così idealmente
immutato.
Dopo la morte di Rodolfo II, Maier lascia Praga, intorno al 1612, per viaggiare attraverso l'Europa. Visita più volte l'Inghilterra, dove entra certamente in contatto con i più
importanti esponenti del "neoplatonismo" alchemico, tra i quali c'è il celebre filosofo rosacrociano Robert Fludd (2), autore di
quella Utriusque Cosmi Historia, o Storia dei due Mondi (del "Macrocosmo" e del Microcosmo") dove è espressa, e quindi
presentata con estrema chiarezza, la filosofia basata sul disegno armonico del "Cosmo" e le armonie corrispondenti nell'"Uomo".
La Utriusque Cosmi viene pubblicata con splendide immagini a Oppenheim dall'editore Jean Theodore de Bry nel 1617, 1618 e 1619. Nello stesso luogo e nello stesso periodo Maier pubblica il
De Circulo Physico Quadrato, opera che si avvicina indubbiamente alle concezioni fluddiane, nonché la famosa Atalanta Fugiens, importante libro di "emblemi" in cui l'alchimia spirituale è
realizzata in modo insolito. Tornato in Germania, Maier diventa medico di Corte di Maurizio d'Hesse, Langravio d' Assia,
entrando così in stretti rapporti con la cerchia dell'elettore palatino, profondamente legato al misticismo alchemico dei Rosa-Croce, dei quali Maier diventa indubbiamente uno dei
portavoce I ufficiali. Sorpreso a Magdeburgo dalla guerra dei Trent'anni, Maier scompare nel 1622 senza lasciare alcuna
traccia. La produzione letteraria di Maier oltre ad essere copiosa, secondo la nota tendenza "enciclopedica" del periodo, presenta scritti di notevole interesse, soprattutto per le profonde "teorie" di alto livello "filsofico-ermetico" in essi contenute, ed utili ai fini di una maggiore comprensione di quella "tradizione alchemica"
tipica e fondamentale espressione del "neo- platonismo" protestante dell'età barocca. Infatti, dal 1614 escono a Oppenheim, presso i de Bry, ed a Strasburgo, presso la
tipografia di Luca Jennis, strettamente collegata alla casa de Bry, le numerose opere di Maier, secondo un ritmo tale da avvalorare l'ipotesi che alcune siano risalenti ad un tempo precedente ed in
103
seguito pubblicate.
L'editore e stampatore "rosicruciano" Johannes Theodorus de Bry [1561-1623]
Alla Corte di Praga soggiornarono oltre al Maier, altri numerosi ed eccelsi alchimisti, fra i quali Ruland, Croll, Khunrath
(3) e Dee (4). La loro attenzione non era soltanto rivolta alla rigenerazione dei “metalli” mediante l' uso della «pietra
filosofale" bensì il loro interesse principale era la rinascita “morale” e “spirituale” dell'umanità. Così l'alchimia poteva
essere espressa con un “simbolo” o con un “segno” allusivo, anzi il messaggio mistico dell' alchimista poté essere svelato
interamente per mezzo di un simbolismo concreto, come si può vedere nelle opere di Michael Maier o nel Viridarium Chymicum di Daniel Stoltzius von Stolzenberg, tardo esponente della Praga
rodolfina. È importante sottolineare che tutta la mentalità occultistica, intesa nel suo senso più lato, appartiene senza
dubbio al concetto di «cosmologia" presente in Europa sul finire del Rinascimento.
Un'immagine di Enrico Khunrath (1560-1605)
L'età di Rodolfo accettava ancora l'esistenza di un «ordine globale", infatti l' “umanesimo” e l' “arte” che fiorirono a Corte
furono indubbiamente l'espressione, ossia la rivelazione, di 104
questo importante edificio «intellettuale" che quell'età aveva avuto in eredità dal passato. L' “enciclopedismo”, ossia quel
“sapere universale” caratteristica tipica della Corte di Praga al tempo di Rodolfo, svolse un ruolo fondamentale per il pensiero filosofico del “medico-alchimista” Michael Maier, certamente considerato, in base soprattutto ai suoi numerosi scritti, il più
“inventivo” ed il più “peculiare” degli alchimisti.
L'emblema XXXII dell'Atalanta Fugiens di M. Maier: " Come il corallo cresce sott'acqua e indurisce all'aria, così, è per la pietra". Sullo sfondo
chiari riferimenti alla città di Heidelberg.
La sua produzione letteraria presenta infatti opere di profondo interesse principalmente ai fini di una maggiore comprensione della «tradizione-alchemica" dell'era barocca. Così tutte le sue opere, a partire dalla prima Arcana Arcanissima, del 1614, fino alla
Septimana Philosophica o al Cantilenae intellectuales de Phoenice redivivo, entrambe del 1620, presentano una particolare forma di
«misticismo" per lo più a carattere "neoplatonico", espresso con immagini simboliche intese, alla maniera dei "Mitografi" del
Rinascimento (5), come una rilettura in chiave sia ermetica che alchemica del mito e della leggenda, favorendone i caratteri
"egizi". La stessa Atalanta Fugiens propone l'uso della "simbologia-alchemica" come sostegno di un “Movimento” sia religioso che spirituale derivante dal "neoplatonismo" ermetico, ossia una “nuova religione” segreta, simile indubbiamente a quella di
Giordano Bruno (6).
Quindi possiamo concludere questo viaggio "mentale", che ci ha condotto a ritroso nei secoli alla ricerca di peculiari eventi
storici, asserendo che la figura dell'"homo-faber" Michael Maier non costituisce un fenomeno isolato, ma bensì è l' erede
spirituale di una tradizione antichissima risalente agli Hieroglyphica di Horapollo (7). Infatti con l'Atalanta Fugiens, che come abbiamo
già detto va senza dubbio considerato uno dei più celebri libri di emblemi della storia, vera e propria raccolta di immagini
alchemiche e commenti filosofici, Maier si colloca in maniera molto 105
originale nel quadro dei “neoplatonici” postrinascimentali, distaccandosi decisamente, per il suo uso alchemico degli
emblemi per precisi fini filosofici alla maniera dei "geroglifici", dalla tradizione dell' “emblematica-pittografica" da lui stesso
criticata nella Premessa dell'Atalanta Fugiens (8).
Il Tempio della Musica di Robert Fludd. Si notino, tra i vari elementi che
costituiscono questo edificio "simbolico", i diversi riferimenti alla figura di Apollo ed
alla tradizione pitagorica; la parte terminale della torre più alta individua il
senso dell'udito ( da Utrisque cosmi historia di R. Fludd).
L’Atalanta Fugiens rappresenta un unicum nella storia dell' alchimia in
quanto si può considerare il solo testo noto dove le arti «grafiche», «poetiche» e «musicali» risultino
strettamente legate alla trattazione ermetica vera e propria. Tanta esplicazione «estetica» si connette così
sicuramente agli ideali filosofici rosacrociani, come abbiamo
inizialmente sottolineato, ossia di un'arte che da un lato sia
considerata come mezzo educativo e dall' altro richiami aspetti
«metafisici» ben precisi, il tutto pervaso dal mistero del
«magisterio-alchimistico» .
Non bisogna dimenticare che molti esponenti
dell'entourage di Rodolfo II si dedicarono a stabilire dei nessi tra “meccanica” e
“musica”. In questo periodo, infatti, ebbe grande valore
una compiuta “teoria metafisica” contenuta nel
Harmonces Mundi, opera pubblicata da Keplero nel
1619; questa “teoria” sulla “musica” fu ripresa in modo interessante dagli alchimisti, che la considerarono atta a
creare quell'atmosfera propizia occorrente per
operare le “trasmutazioni” dei metalli.
Maier, seguendo anche le “teorie” degli alchimisti medievali, che denominavano il loro “magisterio” Arte della Musica, divenne uno degli esempi più importanti di questa connessione musica-alchimia. Nella Atalanta Fugiens già il titolo sottolinea le valenze musicali del testo, anche se a prima vista esso non è che un
riferimento al mito di Atalanta, che qui riassumiamo brevemente. Atalanta, figlia di Scheneo, re di Sciro, aveva un' agilità così grande da essere imbattibile nella corsa. Restia a maritarsi alle insistenze del padre accettò di prendere come
sposo il pretendente che fosse riuscito a batterla in una gara di 106
corsa, ma ponendo come condizione che gli sconfitti fossero messi a morte.
Parecchi si cimentarono nell'impresa, fallendo, finche Ippomene riuscì a spuntarla grazie ad uno stratagemma
suggeritogli da Venere: durante la gara lasciò cadere in terra tre mele d'oro e Atalanta si fermò a raccoglierle, sciupando tanto
tempo prezioso da perdere la corsa. Il titolo della Atalanta Fugiens allude quindi alla storia di Atalanta che “fugge”, mito che per gli ermetisti aveva significato particolare (9), ma al tempo stesso è
un' allusione alla parte «musicale" del testo, basata su quella forma musicale chiamata appunto “fuga” (elaborazione
contrappuntistica di uno o più temi). Più precisamente Maier usa “canoni musicalì” a “tre voci” ricorrenti in cinquanta «fughe" che
accompagnano altrettanti emblemi; le une e gli altri costituiscono un insieme permeato di un complesso simbolismo.
Gli emblemi presenti nell' Atalanta Fugiens vanno considerati indubbiamente i più belli della "tradizione ermetica", e sono da attribuire quasi sicuramente al famoso Matthaus Merian (10),
abile incisore svizzero, genero del già ricordato de Bry. Infatti, le incisioni del Merian non solo si riconoscono per quella particolare
e caratteristica fluidità di segno che le differenziano notevolmente dalle altre di questo stesso periodo, ma anche
grazie agli evidenti riferimenti alla città di Heìdelberg, nonché al Palatinato. A questo proposito è bene ricordare che Merìan
aveva abilmente illustrato la città di Heidelberg nel celebre Hortus Palatinus di Salomon de Caus (11), nonché nell' Emblematum Ethico-
Politicorum Centuria di Zincgref (12).
Che si tratti di un libro di “Emblemi Chimici" riguardanti i segreti della “Natura” è annunciato già nel peculiarissimo frontespizio dell ' Atalanta Fugiens , dove appunto Maier scrive: Atalanta Fugiens, hoc est Emblèmata Nova ne Secretis
Naturae Chymica, Accommodata partim oculis et intellectui, figuris cupro incisis, adjectisque sententiis, Epigrammatis et notis, partim auribus et recreationi animi plus minus 50 Fugis Musicalibus trium Vocum, quarum duae ad unam simplicem melodiam distichis canendis peraptam, correspondeant, non absq,. singulari jucunditate videnda, legenda, meditanda,
intelligenda, dijudicanda, canenda et audienda (13).
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Il Monte Elicon come come sede delle nove Muse e delle Sette Arti Liberali.Si osservi il vecchio incoronato attorniato dalle Muse, che personificano l'ideale di
purezza ed armonia, nonché l'Albero della Vita e la doppia fontana, tipici elementi del simbolismo alchemico.
( dal Nicola D'Antonio Degli Agli, 1480, Bibl. Ap. Vat., cod. Urbinate Latino 899, foglio 110 verso)
Questo "Frontespizio è indubbiamente significativo e quindi tipico per le caratteristiche particolari che lo compongono, tanto
da risultare l'emblema per eccellenza di tutti gli emblemi contenuti nell' Atalanta Fugiens .
L"alchimia» e la “musica” sono protagoniste anche di un'altra opera di Maier: l' Examen Fucorum Pseudo - Chymicorum Dectorum,
pubblicata a Francoforte nel 1617. In questo scritto l'autore espone la sua particolare visione) in base alla quale la scienza alchemica è da considerarsi come un compendio di numerose
conoscenze che viene ad appoggiarsi, secondo le note concezioni classiche, a tutte le "Arti Liberali». Così l'aspetto “neoplatonico” del “discorso” di Maier è ribadito quando, appunto, l'autore dichiara che il “sapiente” alchimista non
soltanto deve essere profondamente edotto di tutte le arti) tra le quali la «musica" e la “scienza medica”, ma soprattutto deve
aver raggiunto quella perfezione interiore necessaria al compimento della sua “ars-regia”, Del resto queste concezioni
del pensiero rosacrociano, ossia lo studio dell'alchimia spirituale e del suo significato religioso, non solo trasparivano già nella famosa opera di John Dee Monas Hieroglyphica (1564), ma erano
anche presenti nelle “teorie” filosofiche di Lutero.
È infatti all'inizio di questo XVII secolo che l'influenza ermetica raggiunge il suo apice e l'attesa renovatio, di cui tanto parlano i “manifesti rosacrociani” della Fama e della Confessio, si propone
sostanzialmente di comporre una ricongiunzione degli aspetti sia
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“spirituali” che “scientifici” dell' umano operare, svelando così quella identità fondamentale tra interno), ed “esterno",
Quest'idea secondo la quale nell' alchimia confluisce il senso di tutto il lavoro umano, o meglio, che nella sua essenza l”ars-regia" sia un' esaltazione dell’ ”homo-faber”, è espressa in
maniera esemplare nell' Atalanta Fugiens, dove appunto Maier dice: «... Ricevi dunque in un solo libro quattro specie di cose:
composizioni allusive, poetiche, allegoriche,’ emblemi nel venereo rame incisi e di venerea grazia adorni,' verità chimiche secretissime che l'intelligenza tua sonderà,' infine musiche delle
più rare: fa buon uso di ciò che t'è qui dato. Se l'uso sarà più intellettuale che materiale, un dì ne trarrai maggior profitto, Ma
se primi opereranno i sensi, ricorda: passar dai sensi all'intelligenza non è facile come traversar una porta. Niente, dicesi, è nell'intelletto che non fu in un senso, e l'intelligenza umana nata a questa vita pare una tavola rasa su cui nulla fu ancora scritto, ma dove tutto può scriversi coi sensi, com’essi fossero uno stilo. E si dice pure volgarmente: Non si brama ciò
che si ignora. ...» (14).
Incisione d'epoca raffigurante Johann Valentin Andreae
Il sogno del «medico-umanista» Michael Maier di realizzare un mondo
«ideale» come quello descritto da Johann Valentin Andreae nella sua «utopistica» città di Christianopolis,
permea l' intera composizione dell' Atalanta Fugiens. Ma il concetto
maieriano di una conoscenza «tout-court», prendendo forma nel
momento in cui stava per nascere il moderno pensiero scientifico,
rappresentato da personalità quali Francis Bacon e Isaac Newton, era
perciò fatalmente destinato a dissolversi, anche se gradualmente.
E nonostante si cominci ad avvertire nell' Atalanta Fugiens la difficile situazione storica del momento, nelle sue pagine
troviamo gli ultimi echi di una atmosfera che conclude un ciclo «ideale» di pensiero filosofico: pochi anni dopo, infatti, la guerra
dei Trent'anni distruggerà ogni speranza di rinnovamento.
La «teoria» maieriana di una «utopia» intellettuale comprendente una totale perfezione «cosmica» rappresenta un caso unico nella storia dell'alchimia; ed è una teoria ancor oggi verificabile assecondando le intenzioni del «philosophus-alchimista»
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Michael Maier che sono quelle di condurre il lettore all'interno di una storia ad episodi, partendo dal «Frontespizio» dell'opera e
seguendo un percorso «ideale» fino al suo interno, dove appunto ogni singola figura contenuta negli emblemi, accompagnata da un «brano musicale», corrisponde ad uno scopo ben preciso: «parlare» un suo proprio codice segreto «simbolico-mitico-
ermetico» a chi vuole avventurarsi come noi, nella sua esplorazione.
Lo splendido frontespizio dell' Atalanta Fugiens
IL SOGNO ROSA - CROCE NELL’EUROPA DEL ‘600
Nell’Europa del XVI e XVII secolo la “tradizione ermetica” acquistò una notevole importanza ed influenza grazie al peculiare apporto di personaggi come John Dee, Heinrich Khunrat e Michael Maier, e, nonostante avesse convinti oppositori, tra i quali va ricordato il dotto Isaac Casaubon
(1559-1614) che fu il primo della sua epoca a mettere in dubbio la leggenda dell’autenticità e della venerabile antichità degli scritti attribuiti a Hermes Trismegisto.
In questo clima, nei primi anni del XBII secolo, si sviluppò la corrente filosofica del Rosa-Croce, originata, secondo la tradizione da due fondamentali nonché anonimi manifesti: la Fama
Fraternitas¸e la Confessio Fraternitas, pubblicati a Kassel per la prima volta rispettivamente nel 1614 e nel 1615.
Singolarmente legati alla tradizione alchemica, elemento basilare del neoplatonismo dell’età barocca, i Rosa-Croce hanno come portavoce ufficiale della loro “dottrina” Johann Valentin
Andreae. Il loro scopo è quello di promuovere un programma riformista, sollecitando anche la generosità nei confronti del prossimo ed il soccorso gratuito dei poveri.
Soprattutto i Rosa-Croce si servono dell’alchimia per accrescere la loro conoscenza e purezza interiore, usandola come “Ars-Regia” delle metamorfosi psichiche. Così il movimento rosacrociano,
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attribuendo un ruolo fondamentale all’Uomo nell’Universo, secondo le teorie neoplatoniche rinascimentali, che schiusero indubbiamente il cammino all’”Uomo”, ormai in grado di operare
mediante il suo sapere scientifico, promosse un vasto programma di ricerche e di riforme in campo scientifico e soprattutto medico.
Idealmente legato ai “manifesti rosacruciani” è un singolare romanzo scritto in tedesco e pubblicato a Strasburgo nel 1616 con il titolo Chymische Hochzeit, ovvero Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, opera ricca di simbolismo alchimistico, in cui il tema del “matrimonio” è usato come emblema di processi alchemici e che va attribuita indubbiamente a Johan Valentin
Andreae.
La pubblicazione dei due “manifesti rosacrociani” e quella del romanzo alchimistico le Nozze Chimiche suscitarono, a causa dei risvolti altamente riformisti presenti in essi, una diffusa
eccitazione culturale nell'Europa dell'epoca. Infatti la «riforma generale delle cose divine ed umane» auspicata dai Rosa-Croce, rappresentò senza dubbio un bisogno profondamente sentito e da tempo nascosto. Il sentimento rosacrociano, oltre a risentire delle non placate agitazioni delle lotte religiose, presenta anche i fervori di quel rinnovamento culturale e di pensiero che gli studi
neoplatonici, cabalistici ed ermetici avevano condotto dal tardo Rinascimento in poi. Questa bramata renovatio sembrava espressa nel tangibile simbolo del matrimonio della principessa
Elisabetta, figlia di Giacomo L con Federico V, elettore palatino del Reno, celebrato nell'anno 1613.
Attorno ai due sposi gravitava tutto il fervore antiasburgico, riaccesosi nei paesi tedeschi dopo la morte dell'imperatore Rodolfo II avvenuta nel 1612, che rappresentò un momento di crisi
nell'atmosfera tesa dell'Europa del periodo. Ma ombre oscure - come osserva F. Yates - incombevano sugli splendori di quelle nozze, e questi giovani innocenti, Federico ed Elisabetta, si
sarebbero trovati entro pochi anni nel centro del ciclone.
E infatti il breve ed illuminato regno della giovane coppia fu stroncato dalla guerra nata proprio per l'accettazione da parte di Federico del vacante trono di Boemia, e con esso si esaurirono gli effimeri
fasti del fervore rosacrociano. Priva di guida e confusa l'Europa precipitò nella guerra dei Trent'anni, provocata nel 1620 dagli effetti della battaglia della Montagna Bianca, nei dintorni di Praga nel corso della quale le forze di Federico furono completamente sgominate. La battaglia
rappresentò dunque un avvenimento decisivo nella storia europea, Praga fu devastata totalmente, la Chiesa boema del tutto soppressa; il castello di Heidelberg, ricco di singolari meraviglie «magico-
scientiliche», e l'Università di Heidelberg, importante centro della cultura protestante, subirono una trasformazione completa negli anni seguenti, Comunque, durante il suo breve regno Federico V favorì in ogni modo nel Palatinato i prodotti di quella nascente renovatio di pensiero inaugurata
dai due noti «manifesti rosacrociani», e senza dubbio alle sue “idee” si deve attribuire l'intensa attività dell'editore palatino Jean Theodore de Bry, che negli anni immediatamente precedenti allo
scoppio della terribile guerra dei Trent'anni pubblicò un ingente numero di peculiari testi in qualche modo connessi alle nuove «teorie».
Accanto a Valentin Andreae, Michael Maier e Robert Fludd sono da considerare anch'essi gli esponenti più importanti della filosofia rosacrociana, in quanto contribuirono notevolmente, con
una serie di opere, non solo a diffondere ulteriormente ma anche e soprattutto a sostenere il «mito» rosacrociano, che da quel momento cominciò ad assumere le caratteristiche di un vero e
proprio movimento culturale fondato su un ricco corpus di scritti.
S.Q.
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Note
(1) Sulla figura di Rodolfo II, considerato dall’intimo amico del pittore Spranger “il più grande mecenate delle arti esistente al mondo, nonché Imperatore Romano”, si veda l’opera di R.J
Evans Rodolfo II d’Asburgo. L’enigma di un imperatore, Bologna 1984
(2) Robert Fludd (1574-1673) nato nel villaggio di Bearstead, nel Kent, “medicinae doctor oxoniensis”, come lui stesso scrive nel frontespizio delle sue opere, è un importante filosofo
rosacrociano il cui atteggiamento si ricollega indubbiamente al pensiero neoplatonico ficiniano ed al Corpus Hermeticum. Nel 1592 entra nel John’s College di Oxford dove studia
arte ed in particolare teoria musicale, interessandosi contemporaneamente allo studio delle scienze occulte. Nelle sue opere, piene di riferimenti simbolici, sono spesso frequenti i richiami all’”armonia musicale”; in esse il misticismo ermetico ed i criteri cosmologici si uniscono a studi fonici per attuare quella “armonia delle sfere celesti” tanto amata dalla
tradizione neoplatonica.
(3) Enrico Khunrath (1560-1605) di Lipsia, “amante fedele della teosofia e dottore nell’una e l’altra medicina”, come egli stesso si nomina, così sapiente cabalista che profondo alchimista, pubblicò nel 1600 circa una mirabile sintesi della scienza occulta che intitolò Amphiteatrum Sapientiae Aeternae. Questa sintesi comprende due parti: una mistica, rivelava, attraverso
una interpretazione esoterica, le verità nascoste sotto le cattive traduzioni pubblicate fino ad allora nel Libro della Saggezza; l’altra, geroglifica, esponeva per mezzo di figure simboliche i
misteri dell’ascensione dell’anima sulla scala del sapere, ed insegnava la ricerca della “via”, le origini della vita, la sublime grandezza della verità ed anche la sua meravigliosa semplicità. Si veda E. Khunrath, Anfiteatro della Saggezza Eterna, a cura di Papus, Marc Haven e Stanislao
de Guata, Roma 1973.
(4) John Dee (1527-1608) per quanto noto come alchimista e occultista, fu anche u matematico di considerevole importanza, interessato a studi matematici di ogni genere ed alla utilizzazione della matematica nel campo delle scienze applicate. Egli stesso fu uno scienziato
pratico, un inventore; tra le sue attività in questo campo si ricorda la costruzione di un granchio volante per una rappresentazione teatrale studentesca.
(5) Tra i principali storici della tradizione litografica troviamo il cartaginese Marziano Capella, contemporaneo di Microbio, autore della famosa: De nuptiis Philologiae et Mercurii, opera
notevolmente diffusa durante l’età del Rinascimento per i suoi caratteri essenzialmente allegorici. Infatti si tratta di un racconto delle Nozze tra Filologia e Mercurio in chiave
allegorica, che sintetizza effettivamente molte delle conoscenze ermetiche e neoplatoniche del periodo, unite a spunti orfici ed al schemi pitagorici, con una fondamentale descrizione
figurativa degli Dei partecipanti al Convivio, nonché delle sette “Arti Liberali”. A questo proposito ricordiamo che, nell’ambito della letteratura dell’età dell’Umanesimo, intorno alla
prima metà del cinquecento, si inseriscono le singolari opere a sfondo mitologico di Lilio Gregorio, Girali, Natale Conti e Vincenzo Cartari.
(6) E’ importante sottolineare che l’emblema XLII contenuto nell’Atalanta Fugiens, e considerato indubbiamente uno dei più singolari, mostra un filosofo con la sua lanterna che
segue attentamente le orme lasciate dalla Natura.L’emblema, come osserva la Yates, ricorda in qualche modo la prefazione dedicata da
Giordano Bruno a Rodolfo II, durante il suoi soggiorno a Praga nel 1588, del suo Articuli adversos Mathematicos (F. A. Yates, Giordano Bruno e la Tradizione Ermetica pp. 340-343). Infatti ne ripete il tema preferito, cioè che si debbono studiare le vestigia e le orme lasciate
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dalla Natura evitandole contese delle sette religiose e volgendosi alla Natura, che grida ovunque per essere ascoltata. Maier, nonostante fosse un luterano devoto, potrebbe aver avuto qualche idea del genere quando, in quegli anni di feroci controversie religiose, alla
vigilia dello scoppio della guerra dei Trent’anni, chiarì i suoi atteggiamenti religiosi e filosofici attraverso il simbolismo alchimistico.
(7) Manoscritto greco recuperato dal religioso fiorentino Cristoforo del Buondelmonti, che conteneva la descrizione e l’interpretazione simbolica di circa duecento immagini tratte da
geroglifici e quindi destinato a costituire per lungo tempo l’opera basilare di confronto per lo studioso di questa particolare forma di linguaggio. A parte la notevole diffusione di copie
manoscritte, ne esistono un gran numero di edizioni a stampa risalenti ai primi decenni del Cinquecento. Si veda F. Sbordone, Hori Apollinis Niliaci, Napoli, 1940.
(8) M. Maier Atalanta Fugiens, Oppenheim 1617, si veda Praefatio ad Lectorem pp. 6 e seg.
(9) Vedi A. G. Pernety, Dizionario Mito-Ermetico, Genova 1979
(10) Matthaus Merian (1593-1650) incise numerose opere in questo periodo, tra le quali sicuramente, sebbene le incisioni non siano firmate, le stupende illustrazioni del singolare
testo enigmatico di Maier citato. Si veda Thieme-Becker, vol. XXIV, 1930, pp. 413-414.
(11) Alle dipendenze del principe Enrico, fratello della principessa Elisabetta, vi era Salomon De Caus, un protestante francese, architetto di giardini estremamente brillante e in genere
idraulico. Fra le opere pubblicate di S. De Caus ricordiamo Les raisons des forces mouvantes, Francoforte 1615. Ispirato da Vitruvio, questo libro contiene molti passi importanti
sull’idraulica e sulla meccanica.
(12) Il libro di emblemi di Zincgref, con gli emblemi del castello di Heidelberg e del suo Lene, fu pubblicato da De Bry a Oppenheim nel 1619, con una dedica all’elettore palatino in cui
Zincgref lo ringrazia per l’aiuto e la protezione accordatagli. Infatti gli “emblemi etico-politici” di Zincgref rappresentano una dichiarazione di sostegno morale e politico all’elettore palatino.
(13) “Atalanta Fugiens, ovvero Nuovi Emblemi Chimici sui Segreti della Natura, adatta in parte agli occhi e all’intelletto attraverso immagini incise su rame con annesse sentenze,
epigrammi e note, in parte al piacere dell’udito e alla ricreazione dell’animo attraverso circa 50 fughe musicali a tre voci, delle quali due corrispondono ad una semplice melodia adatta ad
accompagnare dei distici cantati, non senza un singolar diletto nel vedere, nel leggere, nel meditare, nel capire, nel giudicare, nel cantare, nell’ascoltare” (traduzione libera). Si osservi a questo proposito come Maier, sintetizzando in sette specifiche fasi il percorso “ermetico” che
“l’attento lettore” deve idealmente perseguire, si riferisce fin dal frontespizio dell’Atalanta Fugiens ai sette gradi del magistero alchimistico. Si noti inoltre come Maier in questo
frontespizio, così come in altre sue esposizioni, tende ad usare il termine di “scienza chimica” al posto di scienza “alchemica”.
(14) Cfr. M. Maier, Atalanta Fugiens, a cura di Bruno Cerchio, Roma 1984 p. 28.
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Fiabe e Metafore alchemiche
CAPPUCCETTO ROSSO O IL MERCURIO
Giuseppe Sermonti - scrittore, saggista, già docente di genetica all'Università di Perugia.
Cappuccetto Rosso nel bosco (ill. di L. Richter)Con l’inseparabile cappuccio e la sua borsa in mano, Cappuccetto Rosso salta nella fiaba come il dio Mercurio, messaggero e portatore di farmaci. Ella è anche l’elemento chimico mercurio nascosto nella pietra cinabrina, oppure discolo e scorrevole come argento vivo. L’alternanza cinabro-mercurio (HgS – Hg) rappresenta nell’alchimia cinese il passaggio
dalla morte alla vita, l’eterna resurrezione. (*)
L'ermeneutica alchemica delle fiabe di Giuseppe Sermonti venne esposta per la prima volta in tre successive pubblicazioni da tempo esaurite: Fiabe
di luna. Simboli lunari nella favola, nel mito, nella scienza (Rusconi, 1986), Fiabe del sottosuolo. Analisi chimica delle fiabe di Cappuccetto Rosso,
Biancaneve, Cenerentola (Rusconi, 1989), Fiabe dei fiori (Rusconi, 1992). Il contenuto di queste tre pubblicazioni, ulteriormente rivisto ed accresciuto dall'autore, è ora raccolto in Fiabe dei tre regni, in corso di stampa presso
114
l'editore La Finestra di Trento. Cappuccetto Rosso, la bimba della fiaba dei Grimm e di
Perrault, è un piccolo dio Mercurio aleggiate nei boschi di castagni e di querce. Messaggera tra la mamma e la nonna, con
il paniere contenente focaccia e vino (o burro), ella compie le mansioni del dio dai piedi alati, viandante, portatore di farmaci e
consolazioni, intermediario. Del romano Mercurio (o del greco Hermes, del germanico Odino – Wotan, dell’etrusco Turm) ha
alcuni attributi peculiari. Innanzi tutto quel suo cappuccio, da cui prende il nome. Mercurio è una divinità col cappello, il pètaso,
qualche volta accompagnato da una mantellina. Wotan è descritto con il volto coperto da u cappuccio. Il cappello-
cappuccio protegge il dio nei suoi viaggi e lo nasconde nelle sue furfanterie. Che quel copricapo fosse rosso è difficile stabilire,
ma rosso era il cappello dei Frigi, rossi i capelli di Mercurio, violetta la mantellina di un Mercurio rappresentato in un dipinto murale sul viale dell’Abbondanza a Pompei. Loge, il demone del fuoco compagno preferito di Wotan, indossava un cappuccio e una mantellina rossa. Di Mercurio, Cappuccetto rosso ha anche la borsa, con cui reca le “medicine” alla vecchiaia”. Con Wotan
la piccina condivide l’inquietante rapporto con un lupo. Rivelazioni essenziali di Mercurio (1) sono l’incontrare e il
trovare e la sua tendenza ad associarsi volentieri a qualcuno (amalgamarsi?), tendenza quest’ultima che rende Cappuccetto Rosso affabile, ma la conduce anche a fidarsi della compagnia
poco raccomandabile di un figuro incontrato per caso.
Il Mercurio Alchemico
L’equiparazione della bambina del bosco alle divinità mercuriali è un primo passo per giungere all’equiparazione
chimica di Cappuccetto Rosso al metallo liquido, il mercurio. Come il dio dai piedi alati, il mercurio è lo scorrevole, l’intermedio, il disceso dall’alto. Nella nostra esegesi
metallurgica, esso si candida subito a scivolare tra le paginette della fiaba della bambina messaggera e a fornirle il suo senso ermetico. Il mercurio è l’unico metallo liquido a temperatura
naturale, e di colore grigio lucente, volatile, solvente dell’oro e dell’argento. Ha peso atomico 200,61 e numero atomico 80; è
vicinissimo dunque all’oro che ha peso atomico 197,2 e numero atomico 79. Fino ad epoca recente si tentò di trasformare un
elemento nell’altro e non può escludersi che ciò sia avvenuto in minute proporzioni, Il suo simbolo è Hg, dal nome latino del
metallo Hydrargirium, che significa “argento liquido” o “argento vivo”. Il nome attuale gli fu dato dagli alchimisti nel VI secolo.
Essi adottarono il simbolo del pianeta Mercurio per indicare l’argento vivo, così connettendo il metallo fluido al pianeta dalla
rotazione più veloce e al dio alato. In alchimia il mercurio non designa solo il metallo grigio, ma un più generale principio umido e passivo, femminile, sottoposto al principio secco e
attivo, lo zolfo, come la donna soggiace all’uomo. Il mercurio dei cinesi (2) il shui yin, corrisponde al drago e agli umori del corpo, al
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sangue, al seme. L’alchimia cinese contrappone il mercurio non allo zolfo, ma al solfuro di mercurio (HgS), il cinabro, che è il
minerale rosso entro cui il mercurio è catturato, racchiuso in natura. Se si sottopone il cinabro ad arrostimento (calcinazione)
si libera mercurio, secondo la reazione:
Dalla polvere rossa del cinabro il mercurio riemerge come goccioline splendenti, a rappresentare la rigenerazione
attraverso la morte (la combustione).
Si ottiene il cinabro come polvere di un bellissimo rosso vivo. L’alternanza cinabro\mercurio è, per gli alchimisti cinesi, simbolo della morte e della rinascita, della perpetua rigenerazione, alla maniera della Fenice che rinasce dalle sue ceneri. Ma non si dà
vera morte, e il cinabro, per la sua capacità di rigenerare il mercurio, è simbolo di immortalità. Esso è rosso come il sangue, che sempre si rigenera nel corpo umano, e quindi può procurare
il ringiovanimento e l’immortalità. Pau Put’zu prescrive di «mescolare tre libbre di cinabro con una libbra di miele, far seccare tutto al sole e ricavarne pillole della grandezza di un grano di canapa: dieci di queste pillole,
prese nell’arco di un anno, fanno diventare neri i capelli bianchi e fanno rispuntare i denti caduti, e se si continua oltre l’anno si ottiene l’immortalità».
(3)
Dentro il corpo umano gli alchimisti cinesi individuavano, nelle parti più segrete del cervello e del ventre, i tan- t'ien o
«campi di cinabro» ove si preparava l'embrione dell'immortalità. Attraverso la meditazione si raggiunge uno «stato caotico» che
consente di penetrare nei «campi di cinabro», ovvero nella Montagna mitica K'ouen-louen, abitata da Immortali (4).
Il cinabro
Il cinabro è la forma quasi esclusiva nella quale si trova il mercurio in natura. Esso si presenta come concrezioni o
spalmature su altre rocce, di colore rosso intenso, variabile dal rosso cocciniglia al rosso bruno. È proprio per questo rosso
rifugio nella pietra cinabrina che il mercurio, il metallo del dio dal cappuccio, entra nella fiaba come Cappuccetto Rosso.
Da tempi antichissimi il cinabro, naturale o ottenuto dal mercurio solfurato, è usato come colorante vermiglio (vermiglione)
per la pittura ad olio o per tessuti, in virtù del suo fortissimo potere ricoprente.
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L 'estrazione industriale del mercurio dal cinabro è una pratica antichissima. È sicuro che gli Etruschi coltivassero le
miniere di cinabro del Monte Amiata, sull'antiappennino toscano, e ne traessero coloranti.
Il mercurio dagli alberi
Nel Medio Evo era invalso l'uso di far condensare i vapori di mercurio che salivano dal cinabro combusto sulle foglie fresche degli alberi a fogliame
largo (5). Questo procedimento si realizzava in grande all'aperto nei
boschi, o entro appositi locali a campana, nei quali erano posti il
combustibile, il cinabro e gli alberelli di condensazione.
Cosi descrive l' operazione Giorgio Agricola, in De re metallica (1550) (6):
«Altri sono che fanno una cammera in volta: lo spazzo de la
quale molto ben incrostato, inverso il mezzo fanno concavo, e accanto al grosso muro de la
cammera fan le fornaci. .. Sopra le fornaci ci metton le pentole, empiendole di vena pesta.. ..
Dipoi tra la volta e il pavimento metton degli alberi verdi, poi serran l'uscio e le finestrelle
chiudono Con occhi di vetro. ..dipoi dato fuoco à le
legne Cuocon la vena: la qual finalmente stilla fuori l'argento
vivo, il quale non potendo soffrire il caldo, e disideroso sendo del
freddo, se ne vola sopra le foglie de gl'alberi, che hanno virtù di rinfrescare. Il cocitore, finita
l'opra, spegne il fuoco, e raffreddato ogni cosa, apre 1 'uscio e le finestre e raccoglie
l'argento vivo, il quale per esser grave, per la maggior parte, da
se cade giù de gl'alberi, e in quella parte cavata del
pavimento se ne corre: ma se tutto da se non caschi, bisogna
scuotere gli alberi, e farlo cadere».
Il vapore mercuriale che ricade nei vasi viene posto in connessione con il simbolismo della Vergine in questa miniatura del Tractatus qui dictur
Thomae Aquinatis de alchimia (manoscr. del 1526 circa)
Metallica rugiada, materializzata da invisibili vapori, cadente dall'alto, scorrevole come acqua vivente, il mercurio è l'ambiguo
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tra i metalli, solido e liquido, soggetto e operatore universale dell'opera alchemica, e in ogni caso femmina, yin. Gli alchimisti
lo chiamavano aqua simplex, aqua maris, aqua permanens, ma anche aqua aggrediens, venenum, Draco, Serpens.
Velenoso nel corso dell'estrazione e delle manipolazioni, il mercurio metallico, attenuato in empiastri od unguenti e
sciroppi, ha continuato a mantenere un rispettabile posto nella farmacopea sino ai nostri giorni. Come «unguento cinereo» è
stato usato contro la lue e contro le affezioni di natura parassitaria della pelle.
«Draco mitigatus»
Di più larga adozione medicinale è il mercurio combinato al cloro: il cloruro mercuroso (Hgl Cl2), noto come calomelano.
Calomelano significa «bel nero» (gr.: kalòs, melas). È invece una polvere bianca, insolubile, blanda, tuttavia infida poiché dal suo
bel biancore può emergere il nero. Se lo si tratta con ammoniaca assume rapidamente una colorazione nera; lasciato alla luce
lentamente si altera e si ingrigisce, trasformandosi in sublimato corrosivo (Hg C12) e separando mercurio. Questa alterazione lo rende tossico ed è paventata nella farmacopea, che prescrive un
metodo per .controllarla.
Il calomelano fu introdotto in terapia nel '500 e per la sua mitezza lo si chiamò mercurius dulcis o draco mitigatus. La
denominazione di «drago ammansito» gli conferisce connotati mitici. Esso appare come un essere malvagio dall'aspetto mite, ed è infatti candido e dolce, ma può rendersi grigio e corrosivo. Esso è la seconda via attraverso cui il mercurio penetra nella
fiaba come bestia sorniona, come falso amico (7).
In terapia il calomelano era adottato frequentemente come purgante e come diuretico. Era anche usato come disinfettante
intestinale ed entrava in parecchie pomate impiegate nelle malattie della pelle. Sospeso nell'olio è stato proposto per
iniezioni intramuscolari contro la sifilide.
Esso forma, con il sublimato corrosivo, un'alternanza di mite e caustico, di buono e cattivo. Se si espone il calomelano alla luce
si liberano sublimato corrosivo e mercurio.
Il sublimato corrosivo è il responsabile di quasi tutti gli avvelenamenti da mercurio, volontari o accidentali. Produce
sulle mucose alterazioni gravi e dolorose, violenti dolori gastrici, dissenteria, paresi, tremori e infine la morte. Nell'avvelenamento
cronico causa stomatiti, caduta di denti, cachessia, nefrite.
Le leghe che il mercurio forma con vari metalli, ed in specie con l'oro e con l'argento si chiamano amalgame. Il termine, che sembra risalga al greco màlagma (da "malasso", rammollisco) è
stato usato da San Tommaso e esprime metaforicamente la 118
coesione, l'unione, la fusione.
«Ouverture» della fiaba
Possiamo ricapitolare le proprietà del mercurio ricordando che esso si amalgama con gli altri metalli, è usato nella cura dei malanni e nella purificazione dei metalli preziosi e si trova in natura in una forma quasi esclusiva: il rosso cinabro. Esso è
altresì l'unico metallo liquido, scorrevole, sfuggente.
La fiaba dei Grimm (8) inizia narrando di una cara ragazzina; «solo a vederla le volevan tutti bene» La generale amorevolezza già accenna ad amalgami mercuriali, ma il mercurio si fa avanti
più palese alla menzione dell'abbigliamento della piccina. La nonna le aveva donato «un cappuccetto di velluto rosso, e, poiché le donava tanto cb 'essa non volle più portare altro, la cbiamarono sempre
Cappuccetto Rosso.».
La piccolina è protetta e occultata nel suo cappuccio rosso, che la identifica come «mercurio» nella qualità di metallo
nascosto nella pietra vermiglia e solo in quella. Essa ricorda anche il Mercurio divino col suo immancabile pètaso sul capo.
Messaggero e ristoratore, come il dio e come il metallo, la bambina si rivela subito, allorché la mamma le dice: «Eccoti un
pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali alla nonna; è debole e malata e si ristorerà...».
Dama etrusca (part. da una tomba di Tarquinia); il cappuccio rosso, la giovane età, e l'atteggiamento generale fanno pensare ad una
"antenata" della favola dei fratelli Grimm.
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Le tre querce
Appena giunta nel bosco, Cappuccetto Rosso incontra il lupo che subito le chiede ove ella vada. La risposta della bambina è
un vero enigma. Alla domanda del lupo: «Wo wohnt deine Grossmutter?»-(dove abita la tua nonna?), Cappuccetto Rosso risponde «Unter den drei grossen Fichbäunen.» (sotto le tre grosse
querce), come se la nonna abitasse sotto gli alberi e precisa: «Da staht ihr Haus» (Là sta la sua casa). Poi aggiunge «Untern sind die
Nusshecken. (sotto sono i noccioli). Come possono i noccioli essere sotto. la casa? Questa strana descrizione della nonna sotto le
querce e sopra i noccioli acquista senso se si immagina la casa della nonna come la camera a volta per l'estrazione alchemica
del mercurio. Lì gli alberelli sono dentro la casetta; sotto gli alberelli sono le fascine (noccioli?), su cui è posta la pietra di cinabro (la nonna?) (9). La triplice quercia fornisce un altro
richiamo mercuriale. Il grande albero fronzuto rimanda all'albero gigante della mitologia nordica, al frassino di Wotan- Odino,
Yggdrasill. La triplicità del tronco si addice al germanico Mercurio, che era infatti rappresentato da tre persone: Odhinn, Vili e Vé. Per altro anche il metallo mercurio è uno e trino. «La nostra pietra. si legge nel Manuscriptum di P.G. Fabre - si presenta
trina ed una: trina perché in essa sono il sale, il mercurio e lo zolfo, una perché questa triade costituisce un oggetto omogeneo e affine... Esso contiene il simbolo
della divinità che è trina ed una».
Sul Monte Arniata, in Toscana (10), che da millenni è la sorgente mediterranea del mercurio, (insieme alle miniere di
Almaden, in Spagna), si narra una strana leggenda di fondazione. Vi si parla di un re longobardo, Rachis; questo è
informato da alcuni suoi legati che nella montagna toscana, in un albero bellissimo si vedeva uno splendidissimo fulgore, di cui si dice che salisse verso l'albero, vi restasse per tre ore e quindi «la luce risorta tornava alla terra». C'è poco dubbio che ciò che i legati riferirono a Rachis, che poi andò a constatare di persona,
era l'immagine splendente dell'estrazione del mercurio dal cinabro, che si praticava nel Medio-Evo sul Monte Amiata. I vapori di mercurio, salendo dalla pietra infocata alla base
dell'albero, si condensavano sulle fresche fronde, dove formavano goccioline d'argento. Queste, colpite dai raggi del
sole, emettevano un abbagliante fulgore, che Rachis interpretò come rivelazione della cristiana Trinità. Detto fulgore era infatti «or uno or trino», come Odino, come il mercurio e come il Dio
cristiano. Sul luogo del prodigio il re fece costruire una chiesa In onore del Salvatore Signore Nostro Gesù Cristo, e fufabbricato l'altare maggiore
ov'era l'albero in cui era stato veduto I'igneo fulgore...».
Quella chiesa è ancor oggi alla periferia di Abbazia San Salvatore, sul Monte Amjata, e presso l'altare si trova un affresco del Nasini (1652) rappresentante un albero con tre tronchi. Nelle
fronde unite appare in una gran luce il Cristo con una triplice falce. Di fronte all'albero si vedono in ammirazione, il Re a
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cavallo, con la moglie (Erminia), la figlia (Rotruda) e la sua corte.
Nella iconografia alchemica la luce stillante dall'alto come celeste rugiada è il mercurio, ed esso rappresenta la parola di
Dio. Fratellino e sorellina
In una nota fiaba dei Grimm la piccola nel bosco è sdoppiata. Le
metamorfosi della viaggiatrice (che è Odino-Mercurio) sono ripartite tra un
fratellino e una sorellina. L’albero, che come Yggdrasill presenta
un'ampia cavità, si incontra subito.
«La sera giunsero in un gran bosco ed erano così stanchi per il pianto, /a fame e il lungo
cammino, che si misero dentro un albero cavo e si addormentarono. La mattina dopo, quando
si svegliarono, il sole era già alto nel cielo e i suoi raggi penetravano ardenti nell'albero...
Strana dizione questa, che fa intravedere tra le chiome «l'igneo
fulgore» del re longobardo, e che si trova anche nella fiaba di
Cappuccetto Rosso: «Cappuccetto Rosso alzò gli occhi e ... vide i raggi del sole danzare
attraverso gli alberi...». I bambini proseguono nel loro cammino e
incontrano tre sorgenti. Sono tre le sorgenti a cui portano le radici del
frassino Yggdrasill. Ad una di queste sorgenti si recò Odino, e chiese di bere un sorso, ma l'ottenne solo al costo di subire una trasformazione.
Illustrazione di G. Doré per un'edizione francese del 1867 delle fiabe di Perrault.
Il fratellino ha sete, ma alla prima sorgente può bere solo trasformandosi in tigre, alla seconda deve trasformarsi in lupo,
alla terza cede alla sete e si trasforma in un capriolo. La trasformazione cui Odino è costretto per abbeverarsi alla
fonte consiste nella perdita di un occhio. Nella fiaba che stiamo commentando è la sorellastra dei due bambini che compare in
scena «con un occhio solo». Alla fanciulla trovata nel bosco, che nel contempo è diventata regina e madre, tocca un'altra sorte
che ci riporta d'improvviso in mezzo ai rituali infuocati dei boschi del mercurio.
Ella è trascinata in uno stanzino dove è sottoposta a combustione e sublimazione: «Ma nella stanza da bagno avevano acceso
un fuoco d’inferno, così che la bella giovane regina ne fu presto soffocata...». Ella diviene una silenziosa immagine di sogno, che appare tre
volte nella stanza oscurata del bambino, sinché, alla terza, richiamata dal re, torna in vita «fresca, rosea e sana». Lo
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stanzino infuocato corrisponde alla pancia del lupo.
Il Lupo
Sulla via che conduce alle tre querce, Cappuccetto Rosso ha incontrato il lupo. Il lupo è un'altra manifestazione del mercurio,
un altro tramite attraverso cui il metallo cangiante si affaccia nella fiaba. Ricordiamo per inciso che sino a tempi recenti il
Monte Amiata era noto e temuto per i suoi grossi lupi.
Il lupo della fiaba ha tutte le malizie ed insidie del cloruro mercurioso, che già conosciamo col nome di calomelano (il «bel
nero») come prodotto medicinale bianco e dolciastro.
In una favola dei Grimm, che possiamo considerare una variante di Cappuccetto Rosso, incontriamo un altro lupo
truccato. È la favola de Il lupo e i sette caprettini (i sette metalli?) (11). Il lupo cattivo, per non farsi riconoscere, mangia prima un
grosso pezzo di creta «e così s'addolcì la voce», poi s'imbianca la zampa di farina. Riuscirà a farsi aprire la porta e ad inghiottire i piccoli imprudenti. Dolce, bianco e infido come il calomelano.
Il nome alchemico del cloruro mercurioso era, come s'è detto, quello di draco mitigatus, dragone attenuato, mostro nascosto.
Questa è la natura del lupo delle fiabe, e precisamente anche quella del calomelano che, per azione degli agenti naturali, si trasforma in una mistura corrosiva grigio-nera, che contiene
sublimato corrosivo.
Da dolce e mite il lupo si trasforma in caustico e vorace, da bianca polvere in cenere spaventosa. Il mostro nascosto si svela,
esprimendo, di fronte all'innocenza della pietra naturale, le pericolose proprietà del mercurio officinale.
Il .dragone attenuato si informa sul percorso della bambina e sulla casa della nonna. Con voce suadente il lupo s'impegna poi ad indurre la bambina a perdere il tono sostenuto e contegnoso
e abbandonarsi a una dolce festosità dionisiaca.
«Vedi, Cappuccetto Rosso, quanti bei fiori? Perché non ti guardi intorno? Credo che non senti neppure come cantano dolcemente gli uccellini! Te ne vai
tutta contegnosa, come se andassi a scuola, ed è così allegro fuori nel bosco!».
La bambina si lascia sedurre, se ne va fuori del sentiero. e si perde in cerca di fiori.
Passaggio agli Inferi
Lo strappo del fiore è il momento della violazione originaria, l'apertura della via verso gli Inferi, che sono in agguato nelle
profondità del bosco. Anche Proserpina è intenta a cogliere fiori quando s'apre per lei la via dell'Ade. Qui pure c'è un Ade
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appostato: il lupo.
«Dal sentiero corse nel bosco in cerca di fiori. E quando ne aveva colto uno, credeva che più in là ce ne fosse uno più bello e ci correva e si addentrava sempre
più nel bosco.»
Da qui è tutto un precipitare verso l'antro infernale che s'apre con la bocca spalancata del lupo e si chiude con il suo ventre
ingordo:
Ma Cappuccetto Rosso aveva girato in cerca di fiori, e quando ne ebbe raccolti tanti che più non ne poteva portare, si ricordò della nonna e s
'incamminò.
Il lupo era intanto arrivato alla casetta della nonna. Dopo l'arrivo del lupo, la casetta nel bosco rappresenta un recesso
infero, la apertura del precipizio. Il lupo, con le sue fauci spalancate, va a farvi la parte della bocca della fornace, pronta ad accogliere le rosse pietre del cinabro. Prima egli inghiotte le
esaurite ossa della nonna, quindi si dispone ad attendere l'arrivo del bocconcino tenerello, della fresca rossa pietra cinabrina. Egli
compie il rituale dell'imbiancamento dell'aspetto e dell'addolcimento della voce, come nella fiaba dei Sette
Caprettini. All'arrivo della piccina, rivela via via la sua natura e infine spalanca la bocca spaventosa e inghiotte tutta intera
Cappuccetto Rosso.
Il ventre del lupo è una caverna nel folto bosco. Vi giace, nell'oscurità, una bella sepolta o addormentata in attesa di un
liberatore. Minerale racchiuso nella miniera, o pietra gettata nel forno; il cinabro attende di tornare scintillante mercurio.
Il salvatore appare nelle vesti di un cacciatore; la spada che trafigge la belva sono un paio di forbici affilate, che tagliano la pancia del lupo addormentato. La ricomparsa della bambina-
mercurio è annunciata da uno splendore, da una luce che emerge dall'oscurità.
«Dopo due tagli, vide brillare il cappuccetto rosso e dopo altri due la bambina saltò gridando: - Che paura che ho avuto! Com'era buio nel ventre del lupo!».
Luce che splende nelle tenebre, vita che si rigenera, Cappuccetto Rosso torna, come la Fenice, a rinascere dopo la
combustione.
Per Attilio Mordini «il senso più profondo della fiaba di Cappuccetto Rosso è quello del momentaneo sopravvento del male sul bene, simile al sopravvento di
Renris sugli asi nel crepuscolo degli dei per i germanici; e, nella versione dei fratelli Grimm, il cacciatore, che con la sua scure sventra il lupo, è anche figura
della redenzione finale e del trionfo del bene e dell'essere.» (12).
In realtà, è proprio attraverso il passaggio agli Inferi -o in altre 123
parole, il tragitto nel ventre- forno del lupo - che la bambina conquista la luce. Che la pancia del lupo sia forno per la Combustione delle pietre, come quello che si usa per la
sublimazione del cinabro, è attestato dall'operazione che la bambina salvata compie in chiusura della fiaba.
«E Cappuccetto Rosso corse a prendere dei pietroni, con cui riempirono la pancia del lupo».
La piccina apparecchia il ventre del lupo per quella operazione, dalla quale ella è appena sortita. Lo stesso fanno i
Sette Caprettini nella loro favoletta:
«Allora i sette caprettini trascinarono in gran fretta le pietre e ne cacciarono in quella pancia Quante ne poterono portare... »(13).
L'albero della giovinezza. Illustrazione dall'Atalanta Fugiens di M. Maier (Oppenheim 1617)
Ricaduta del mercurio
L'estrazione del mercurio nel forno, a partire dalla pietra di cinabro, si svolge in tre fasi. Alla combustione segue la
sublimazione, durante la quale il vapore di mercurio si solleva e raggiunge il tetto obliquo del forno. Lì si condensa e scivola lungo la pendenza, andando a cadere in apposito recipiente
ricolmo d'acqua. È uno sdrucciolìo che abbiamo già incontrato lungo i pendii delle Montagne di Vetro, uno scivolare di gocce condensate, che, quando le gocce sono di mercurio, scorrono
lungo i declivi della Montagna mitica K'ouen-Iouen.
Dopo la nota fiaba di Cappuccetto Rosso, i Grimm aggiungono una chiosa, nella quale è offerta un'altra versione della fine del
lupo. Qui il nostro orco, chiamato Testa Grigia, in una operazione 124
chimica che lascia pochi dubbi, sublima, si condensa e ricade, come fa il mercurio nel forno.
«...Testa Grigia gironzolò un po’ intorno alla casa e infine saltò sul tetto. ..Ma la nonna si accorse di quel che tramava. Davanti alla casa c'era un grosso trogolo di pietra, ed ella disse alla bambina: -Prendi il secchio, Cappuccetto Rosso, ieri ho cotto le salsicce, porta nel trogolo l'acqua dove han bollito. - Cappuccetto rosso
portò l' acqua, finche il grosso trogolo fu ben pieno. Allora il profumo delle salsicce salì alle narici del lupo, egli si mise a fiutare e a sbirciare in giù, e alla fine
allungò tanto il collo che non poté più trattenersi e cominciò a sdrucciolare: e sdrucciolò dal tetto proprio nel grosso trogolo e affogò». Proprio nella coda
della fiaba si verifica esplicitamente la sublimazione. È il lupo Testa Grigia che si solleva sul tetto, sdrucciola, sdrucciola e ricade da basso. Qui parrebbe aver luogo uno scambio delle
parti, perché il processo si addice specialmente al mercurio del Cinabro. Ma anche il Calomelano si ottiene per sublimazione,
riscaldando un miscuglio... (grigiastro) di quattro parti di sublimato corrosivo e tre parti di mercurio metallico.
Testa Grigia è un mercurio sublimato, opportuna chiosa alla fiaba e suo finale granguignolesco, giacche il terribile e sublime Mercurio precipita e muore nell'acqua di bollitura delle salsicce.
Particolare degli affreschi del santuario parmense della Madonna della Steccata. Le vergini sono raffigurate con
un'anfora sul capo.
«Per meglio divorarti!»
La combustione-consumazione di
Cappuccetto Rosso avvengono in
metafora. Il suo ingresso nel forno-
fuoco è rappresentato
dall'inghiottimento, in un sol boccone,
nelle fauci del Lupo.
«Che bocca spaventosa! - Per meglio divorarti - E
subito il lupo (. ..) ingoiò il povero Cappuccetto
Rosso».
La fine di Odino, del dio dal cappuccio, è
ben conosciuta. Siamo al crepuscolo
degli dèi, e sul mondo in
dissoluzione, Odino è divorato dal
grande lupo Fenzir, che lo inghiotte
125
nelle sue immense fauci.
È il terribile ragnarokkr, la fine del
mondo: « ...era di venti, era di lupi, prima che il mondo crolli «Il
lupo Fenzir avanzerà con le fauci spalancate, la
mascella superiore contro il cielo e quella
inferiore contro la terra; ma le spalancherebbe di
più se ci fosse posto. ..Odhim
cavalcherà verso la fonde di Mìmir al quale
chiederà consiglio per sé e la sua stirpe. Il frassino Yggdrasill si scuoterà e
nulla sarà senza terrore, né in cielo né in terra.
...il lupo ingoierà Odhim, e questa sarà la sua
morte». (14). Lo spirito nella bottiglia
La infocata metamorfosi del mercurio ha lasciato tracce in altre fiabe.
In una d'esse incontriamo un ragazzetto in giro per il bosco. Egli passa quando tutte le favole sono già passate, tutte le feste
concluse, tutti i fuochi spenti e il mercurio è rimasto come Lo spirito nella bottiglia. Il viandante nel bosco è uno studente universitario, ma ancora sbarazzino e allegro, come gli altri folletti del bosco. Incontra una
quercia secolare esotto la quercia trova la fiaschetta col mercurio. Questo gli si rivelerà per la sua potenza astuta e terribile, e mitigato, per le sue tradizionali
proprietà di molcere i metalli (tirar fuori l'argento dal ferro) e medicare i malanni. Lo studente va nel bosco con il padre a tagliar legna, «ed era allegro e
spedito». Quando il padre lo invita a riposare, risponde:
-«Riposatevi pure, babbo; io non sono stanco; andrò un po ' a zonzo per il bosco, in cerca di nidi».
-«Tu, farfallino, -disse il padre - dove vuoi bighellonare? (...)».
Ma il figlio andò nel bosco, mangiò il suo pane ed era tutto allegro, e guardava tra il verde dei rami, se mai potesse scoprire un nido. Così girellando,
arrivò a una quercia paurosa, che certo era vecchia di molti secoli, e le spanne di cinque uomini non l 'avrebbero potuta circondare ( ..) AlI 'improvviso gli parve di
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udire una voce. Ascoltò e sentì come un cupo grido: -«Fammi uscire, fammi uscire!» -Si guardò intorno; ma gli parve che la voce uscisse di sottoterra. Allora gridò: -«Dove sei?» - La voce rispose: -«Son qua sotto, fra le radici della quercia.
Fammi uscire, fammi uscire» -. Lo scolaro si mise a rimuovere la terra sotto I 'albero e a cercar tra le radici, finche, in una piccola cavità, scorse una bottiglia. La sollevò e la tenne controluce e vide un cosino a forma di rana, che saltellava su e giù. -«Fammi uscire, fammi uscire» -gridò di nuovo; e lo scolaro, che non
s'aspettava nulla di male, tolse il tappo dalla bottiglia. Subito ne uscì uno spirito, e si mise a crescere, e crebbe così in fretta, che in pochi istanti si rizzò davanti allo
scolaro, come un orrendo mostro, che arrivava a metà albero. (Lo spirito lo minaccia di rompergli il collo e grida:)
-«Credi forse che io sia stato rinchiuso tanto tempo per grazia? No, era per punizione. Io sono il potentissimo Mercurio; a chi mi libera devo rompergli il
collo. » -(Lo scolaro riesce a convincere lo spirito a rientrare nella bottiglia) ma appena fu dentro, lo scolaro rimise il tappo, gettò la bottiglia al suo antico posto fra le radici della quercia, e lo spirito fu gabbato. (Rinnovate preghiere e promesse dello spirito nella bottiglia finiscono per
convincere lo scolaro):
Tolse il tappo e lo spirito uscì come la prima volta, s 'ingrandì e diventò come un gigante- «adesso avrai il tuo premio!» -disse; porse allo scolaro uno straccetto grande come un cerotto e disse: -«Se con un capo tocchi una ferita, la risani e se
con l'altro tocchi ferro e acciaio, lo tramuti in argento».
Lo studente sperimenta le virtù mercuriali. Passa un capo del cerotto sull'ascia d'acciaio e la tramuta in argento. Ne cava
quattrocento scudi. Trecento ne dà al padre e col resto del denaro, tornò all'Università e continuò a studiare; e siccome col cerotto poteva risanare tutte le ferite, diventò il dottore più famoso in tutto il mondo. La storia dello studente si svolge tra i boschi in qualche località dove si trovano
miniere di mercurio, e dove si praticava, nei secoli addietro, quando l'antica quercia era ancora giovane e fronzuta,
l'estrazione del mercurio sotto gli alberi, come ai tempi dei Longobardi.
Rotruda
In margine alla leggenda del Re Rachis, si narra che la moglie del re, Erminia, si sarebbe fatta anch' essa monaca, costruendo
un modesto oratorio, non lontano dal monastero, che fu chiamato l'Ermeta. Il mercurio (Ermes) domina tutta la storia.
Questa contrada è ricca ancor oggi di cinabro e fu fra quelle che alla fine del secolo XIX per prime furono acquistate per
l'esplorazione del sottosuolo alla ricerca del mercurio. Anche la figlia di Erminia, Rotruda, vestì l'abito dimesso della monachina e le due condussero la vita con santa cautela e regolare distinzione». Rotruda (o Rotrudis) viene dall'antico germanico Hrodtrud, col valore di roth-traut, la «rossa Amata» (15). Trud (Traut, Traude) può avere
anche il significato di fanciulla, di vergine (Thrud, come in Gertrude). E allora Rotruda avrebbe il preciso valore di «Vergine rossa», di «Bambina in rosso». Cappuccetto Rosso era forse lei,
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la figlia del Re Rachis.
Mi sia concesso allora di immaginarla, con il suo cappuccio di monachina, recante il cestino con le offerte per la S. Messa. Ella
è avviata lungo il sentiero dei castagneti sul Monte Amiata, verso le tre grosse querce mercuriali.
Distillazione del mercurio (De re metallica, di G. Agricola, 1556)
(*) Prima pubblicazione in Abstracta n°34 (Febbraio 1989) riprodotto per gentile concessione dell'autore.
NOTE
(1) C. Kereny, Miti e misteri (cfr. “Hermes, la guida delle anime”, pp. 47-134. ed. Einaudi, Torino 1950.
(2) M. Eliade, Arti del metallo e alchimia (cfr. 11, “L’alchimia cinese”, pp. 57-112) ed. Boringhieri, Torino 1980.
(3) Cit in W. A. Martin, The love of Cothay, New York e Chicago 1901, p. 60.
(4) M. Eliade, op. cit.
(5) V. Spirek, Metallurgia del mercurio, ed Cassone, Torino 1906
(6) G. Agricola (Georg Bauer) L’arte dei metalli, tradotto in lingua toscana (1563), ed Bottega d’Erasmo, Torino 1969, p. 372.
(7) Wotan, come guida di Sigmund, aveva assunto il nome (wolfe) e l’aspetto del lupo.
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(8) Grimm, Le fiabe del focolare, ed. Einaudi, Torino, 1951, pp.120 sgg.. Ci atterremo a questa versione della fiaba.
(9) Le tre querce, vicino ad una sorgente, si incontrano in altre fiabe, come la guardiana della fonte. (Grimm cit).
(10) Cfr. G. Volpini, Abbadia S. Salvatore, storia del monastero e del paese. Ed. Paoline, ranno VII n° II, Aprile-Giugno 2003 1966, p. 95.
(11) Il capro è la mitica preda del lupo.
(12) A. Mordini, Dal mito al materialismo, Ed. Il Campo, Firenze 1966.
(13) Anche Zeus è sostituito, nella pancia di Crono, da un pietrone.
(14) Edda di Snorri, ed. Rusconi, Milano 1975, pp. 148-150.
(15) E. Fraenkel, Indogermanische Eigenammen als Spigel der Kultur geschichte, Heidelbeerg 1922.
IL LINGUAGGIO SEGRETO DEGLI ALCHIMISTI di Andrea De Pascalis
Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n°1 (gennaio 1986), pp. 14-21, riprodotto per gentile concessione dell 'autore, che ne detiene i diritti. Riproduzione vietata con
qualsiasi mezzo.
Leggere per la prima volta un libro di alchimia e cercare di cogliervi un senso preciso è un'esperienza frustrante: enigmi,
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contraddizioni, allegorie, simboli, interruzioni e reticenze improvvise suscitano in chi legge l'impressione di essere vittima
di una beffa straordinaria. Ne potrebbe essere altrimenti di fronte ad una ricetta che inizia così: "Per estrarre l'anima
dell'asino in venti giorni: prendi un asino o un'asina, battili fortemente finche non venga più fuori alcuna feccia, poi prendi
la metà di un sapiente milite armato e mescola nella pila...". Oppure: "Prendi di qualcosa di ignoto la quantità che tu
vorrai. ..". Nella celebre Turba philosophorun alcuni brani sono scritti in questo stile irritante:
" Voi parlate assai oscuramente e troppo. Ma io voglio indicare completamente la Materia, senza tanti discorsi oscuri. lo
ve lo ordino, o Figli della Dottrina: congelate l'Argento vivo. Di più cose, fatene due, tre, e di tre una. Una con tre è quattro. 4,
3, 2, 1, da 4 a 3 vi è 1, da 3 a 4vi è 1, dunque le 1,3 e 4. Da 3 a 1 vi è 2, da 2 a 3vi è l’1, da 3 a 2 vi è 1. 1, 2 e 3 e 1, 2 di 2 e1, 1. Da l a 2,1, dunque 1. Vi ho detto tutto". Gli alchimisti ci hanno lasciato molte migliaia di libri. È evidente che essi amavano
scrivere e desideravano essere letti, ma preferivano non essere capiti. Questo perché l'alchimia è Arte Sacra, è il Segreto dei Segreti, e come tale va protetta dai curiosi, dagli indegni, dai non iniziati. "Povero stolto - ammonisce apertamente Artefio
rivolto al suo lettore - saresti davvero così ingenuo da illuderti che ti sveliamo, apertamente e chiaramente, il più grande e il
più importante dei segreti? Davvero così ingenuo da prendere le nostre parole alla lettera? In buona fede ti dico che chiunque
pretenda di spiegare secondo il senso più comune e letterale ciò che gli altri filosofi hanno scritto, si troverà ben presto smarrito in un labirinto da cui non riuscirà mai più a liberarsi. .." .Per lo scrittore di alchimia l'impegno è esporre tacendo, senza mai
oltrepassare i limiti oltre i quali la spiegazione diverrebbe delazione. Fulcanelli, alchimista francese del XX secolo,
confessa: "Talvolta davanti all'impossibilità nella quale ci troviamo, di spingerci più in là senza violare il nostro
giuramento, abbiamo preferito mantenere il silenzio" .
Di quale giuramento parli, possiamo forse intuirlo da un antico manoscritto conservato a Venezia, che riporta una formula nella quale l’alchimista si impegna, in nome della
Trinità, a non rivelare i principi essenziali della dottrina, pena terribili castighi divini.
Pur badando a non oltrepassare mai il limite della delazione, gli autori di alchimia sono più o meno aperti alle confidenze e in rapporto a ciò meritano la definizione di invidiosi o caritatevoli, avari o prodighi. Invidioso o avaro è colui che si adopera con
ogni mezzo per trascinare chi legge su una falsa pista; caritatevole o prodigo è chi fornisce magari poche spiegazioni, ma sempre veritiere.. Purtroppo una precisa suddivisione nelle
due categorie non è possibile. Autori che sono invidiosi per pagine e pagine, possono diventare caritatevoli su qualche
passaggio specifico delle operazioni, e, viceversa, autori caritatevoli possono nascondere in mezzo a molte cose esatte
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una sola menzogna, sufficiente però a stravolgere il significato di ogni cosa.
Non è raro che un trattato di alchimia si apra promettendo di voler rivelare ogni informazione necessaria con la massima
sincerità e chiarezza. Così il Rosarium Philosophorum di Arnaldo da Villanova: " Questo libro si chiama Rosario, perché è una cosa fatta breve, tolta dai libri dei Filosofi, nel quale non è alcuna
cosa occulta, nissuna fuori di via, nissuna diminuita; ma in esso si contiene tutto quello che è necessario al compimento
dell'opera nostra". Nonostante il tono accorato, l’affermazione è invidiosa al massimo, perché nessun trattato alchemico,
compreso il Rosarium di Villanova, è costruito in modo da potersi dire completo, nessuno contiene l’intero complesso delle
conoscenze indispensabili er portare a buon fine la Grande Opera. Nel migliore dei casi l’esposizione è particolareggiata su
alcune fasi dei procedimenti e molto disinvolta su altre; più spesso interi passaggi vengono taciuti; quasi sempre si usa la
tecnica di alterare l'ordine cronologico delle singole operazioni: apparentemente il discorso è logico e continuo, in realtà si
compie con continui balzi avanti e indietro.
A completare lo smembramento, anche all’interno di uno stesso testo, identiche materie ed operazioni sono chiamate con
nomi diversi, e cose diverse vengono definite con termini identici. Un antico Filosofo avverte: "State attenti, o ricercatori di
questa scienza, che gli invidiosi smembrarono l’arcano in parecchi pezzi; e trattarono di parecchie acque, succhi, corpi,
pietre, spiriti in modo che devastarono quest’arte preziosa con la moltiplicazione di tutti i nomi…". E Geber scrive: "tengo a
dichiarare che, in questa mia Summa non ho voluto insegnare la nostra scienza in modo continuato, a l’ho disseminata qua e là
nei diversi capitoli….".
Oltre allo smembramento, i mezzi usati per nascondere o velare la verità sono molti. Tra i più complessi, ma meno
frequenti, è la crittografia, che consiste nello scrivere singole parole o intere frasi secondo una chiave particolare, talvolta in
base ad un alfabeto costruito appositamente per l'occasione con segni ermetici, segni di fantasia, lettere e cifre mischiate. Un
bell'esempio di crittografia è nel Codice De Oldanis, del XV secolo, dove alcuni passi sono scritti secondo un alfabeto di venticinque segni: ventidue corrispondono alle ventuno lettere latine (la r è
rappresentata da due segni diversi), tre non hanno alcun significato e sono usati in principio, in fine o in mezzo alla parola per aumentare le difficoltà del lettore. Autori meno avari usano
forme più semplici, limitandosi a scrivere nomi alla rovescia, mischiando alla grafia delle parole lettere inutili, mettendo in atto abbreviazioni drastiche, come ad esempio aroph per aroma
philosophorum. Certamente molto invidiosi erano invece coloro che sottraevano alla completezza del testo intere parole per
sostituirle con altre prive di senso.
131
Nel De secretis operibus artis et naturae di Ruggero Bacone c'è un passo, sulla cui autenticità non tutti sono però d'accordo,
che nasconde in anagramma la ricetta fondamentale per la fabbricazione della polvere da sparo (nitrato di potassio, carbone di legna, zolfo). Il brano suona così: "Sed tamen salis petrae luru
vopo vir can utri et sulphuris; et sic facies tonitrum et coruscationem si scias artificium". Anagrammando le parole senza senso, luru vopo vir canutri, si ottiene R.VII PART: V .NOV.:
CORUL. V:, abbreviazione di "recipe VII partes, V novellae coruli V".
L'intera frase suona allora così: "Ma tuttavia prendi sette parti di salpetra, cinque parti di nocciolo giovane, cinque di zolfo; e così, se conosci
l'artificio, farai tuono e lampo".
A Fulcanelli, mai altrettanto caritatevole, si devono ampie spiegazioni sulla cabala fonetica, in base alla quale per
comprendere il significato di una parola occorre tener conto del suono dell'insieme di lettere e non dell'ortografia, che ne
costituisce il velo. La cabala fonetica spiegherebbe. ad esempio. perché gli alchimisti facessero spesso riferimento alla leggenda
di S. Cristoforo, il gigante che trasportò sulle spalle il Cristo fanciullo attraverso un fiumein piena. Secondo l'etimologia greca
"Cristoforo" significa "colui che porta il Cristo", ma in alchimia, per assonanza fonetica, diviene "Crisoforo", cioè "colui che porta
l'oro". "Si tratta - afferma Fulcanelli - del geroglifico dello zolfo solare o dell'oro nascente (Gesù), innalzato sulle onde mercuriali e poi portato dall'energia propria di questo Mercurio, al grado di
potenza posseduta dall'Elisir". In altre occasioni il ricorso alla cabala fonetica porta Fulcanelli a speculazioni ancora più ardite. Se la logica a volte è carente e la forzatura è palese, chi legge deve comprendere che non è importante il rigore filologico del
ragionamento, quanto ciò che il Filosofo cerca di dire tra le righe cogliendo a pretesto la Cabala fonetica.
Ne Il mistero delle cattedrali il solito Fulcanelli svela anche un perfido caso di enigma alchimistico inciso su un muro. Nella
cappella di Palazzo Lallemant, a Bourges, in una nicchia del XVI secolo c'è la scritta "RE- RE, RER" , ripetuta tre volte. Sul
frontone vi sono tre granate ignee. Secondo Fulcanelli la chiave è nell'indicazione di ripetere tre volte un medesimo
procedimento, la calcinazione dello zolfo filosofale (indicato dalle granate ignee). Quanto alle parole misteriose, spiega: "RE,
ablativo latino di res, significa la cosa, considerata per quel che riguarda la materia che la compone; poiché la parola RERE e l'accostamento di RE, una cosa, e RE, un 'altra cosa, tradurremo
l’espressione due cose in una, oppure una cosa duplice; così RERE sarà l'equivalente di REBIS". Purtroppo, dopo aver dato qualche
ulteriore chiarimento sul Rebis, Fulcanelli si fa avaro e conclude di non poter essere altrettanto esplicito nella spiegazione
dell'altra parola, RER. Tuttavia, poiché R è la metà di RE, RER equivale ad una materia (RE) più la metà di un'altra o della sua
propria (R).
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Gli alchimisti fanno un uso larghissimo di simboli, giustificato come sempre dalla necessità di nascondere almeno
parzialmente la dottrina: "Così anco i Filosofi chimici - si dice nel Dell'imprese - ascondono gran magisteri sotto le aquile, i dragoni,
le lacrime, il latte di vergine, luna, sole, matrimonio, monte, risuscitare, spirito, anima e cose simili. Questo si è fatto perché
non si conveniva che cose nobili si intendessero da tutti gli sciocchi, perché sarieno state disprezzate e derise, et la filosofia
stimata pazzia...".
Molti simboli attingono al mondo animale, costituendo un folto bestiario di cui fanno parte sia esseri mitici, come Il fenice o
l'unicorno, sia reali.
L 'astrologia contribuisce in modo fondamentale ad alimentare il patrimonio del simbolismo ermetico. Il rapporto pianeti = divinità = metalli risale alla più alta antichità ed è
entrato nell'alchimia con le corrispondenze divenute poi consuete: Sole (Apollo) = oro; Luna (Diana) = argento; Mercurio = mercurio o argento vivo; Venere = rame; Marte = ferro; Giove
= stagno; Saturno = piombo. I dodici segni zodiacali trovano precise corrispondenze in altrettante fasi della Grande Opera i soprattutto con i periodi dei l'anno in cui esse vanno svolte: "Lo zodiaco dei Filosofi - scrive l'abate Pernety - non è la stesso che lo zodiaco celeste benché il primo abbia un grande rapporto con il secondo. I segni dei Filosofi sono le operazioni dell'Opera che
bisogna percorrere per giungere al loro autunno, ultima stagione del loro anno, perchè essa è quella durante la quale i Filosofi
raccolgono i frutti del loro lavoro".
Tra gli altri simboli di diversa natura, a ricorrere con grande 133
frequenza sono poche decine.
Nell'ambito del simbolismo si collocano anche le illustrazioni, che quasi mai hanno valore puramente ornamentale. Costruite piuttosto come vere e proprie appendici ai testi, utilizzano ogni genere di simboli e nell'insieme si leggono un po' come rebus.
Esiste, anzi, un libro di alchimia costituito unicamente da immagini, il "Mutus liber", che descrive la realizzazione della
Grande Opera in quindici tavole. Vi sono rappresentati un uomo e una donna che lavorano sia all'interno di un laboratorio,
davanti all'athanor (forno a forma di torre), sia all'aperto, nei campi, per raccogliervi preziosi influssi cosmici. Nel corso dei
secoli molti autori hanno tentato di interpretare il Mutus liber, ma le loro spiegazioni sono spesso così fortemente contrastanti da
non poter essere considerate definitive.
Elementi, corpi ed operazioni sono rappresentati con segni convenzionali. Sulla 1oro origine sappiamo molto poco, ma
sembra fossero sconosciuti agli albori dell'alchimia latina per entrare poi nell'uso corrente dalla metà del XV secolo. Dopo il loro primo apparire i segni alchemici diventarono via via più
complessi e numerosi, senza però costituire un ulteriore elemento di enigmaticità, poiché le tabelle che costituivano i
significati corrispondenti erano di uso comune. Nel ‘700 l’elenco dei segni era così nutrito che le tavole della Encyclopedie di
Diderot e d' Alembert ne comprendevano circa cinquecento.Ben altro acume gli
alchimisti hanno usato per rivisitare la mitologia e la storia sacra, allo scopo di
farne rappresentazioni allegoriche della Grande Opera. La vicenda biblica del profeta Elia, rapito in cielo su un carro di fuoco,
è usata nei libri di alchimia come raffigurazione
dell'alchimista che ha realizzato il lavoro,
ottenendo la trasmutazione di se
stesso. Anche la creazione di Adamo è assimilata all'opera alchemica,
poiché come Dio trasse Adamo dal fango, così
l'alchimista trae la Pietra Filosofale da una materia
iniziale vile. Il parallelo Cristo nato dalla Vergine
Maria = Lapis (pietra Filosofale) nato dall'Acqua
134
Mercuriale trova spazio già nella prima alchimia
latina e conduce ad interpretare tutto il
mistero cristiano in chiave ermetica.
Il capolavoro di questo filone è l'Aurora consurgens, scritta agli inizi del '300, in cui le Sacre Scritture divengono il pretesto per
una lunga esposizione di parabole che in realtà hanno significato alchemico. Del 1617 è il Symbola aureae mensae, che illustra
l'alchimia come Messa: il sacerdote che officia davanti all'altare è l'alchimista che lavora davanti all'athanor; la Pietra Filosofale è come l'ostia, fonte di grazia e di vita eterna; l'elisir ottenuto con la Grande Opera è come il vino eucaristico; la trasmutazione del
metallo vile in oro avviene nello stesso modo in cui l'ostia si trasforma nel corpo di Cristo.
Con l'identico processo si ricorre alla mitologia greca. Teseo che lotta nel labirinto di Cnosso è l'alchimista che combatte tra le difficoltà della Grande Opera, difficoltà dalle quali si esce solo
possedendo il filo d'Arianna, ossia la necessaria conoscenza segreta che fornisce la chiave del lavoro da svolgere; Dedalo ed
Icaro, che nel mito evadono dal labirinto usando ali di cera, rappresentano le materie volatili. Ma il culmine dell'attenzione
mostrata dagli alchimisti per i miti greci è raggiunta nell'interpretazione delle vicende di Giasone e del Vello d'oro. Il
Vello d'oro, il cui possesso dà l'abbondanza, è la Pietra Filosofale; Giasone che parte sulla nave Argo è l'alchimista che intraprende la via umida; le fatiche dell'eroe sono altrettante allegorie delle
operazioni da compiere per arrivare al perfezionamento dell'Opera. Per spiegare questo ed altri miti alla luce
dell'alchimia, l'abate Pernety (1716-1801) scrisse Le Favole greche ed egiziane svelate. Lo stesso autore, nell'intento di facilitare la
comprensione dei trattati di alchimia, compilò anche il Dizionario mito-ermetico, che a sua volta non è un modello di chiarezza, poiche attribuisce a molte voci significati troppo generici o
troppo oscuri.
A volte l'allegoria percorre l'intero testo e non soltanto alcuni brani. Il Libro delle figure gerogljfiche, scritto agli inizi del XV secolo con la firma dello
scrivano parigino Nicolas Flamel, nasconde, sotto la forma di autobiografia reale e documentata, il resoconto del cammino mistico dell'autore. Nel nucleo centrale
della narrazione Flamel ricorda come un giorno sia entrato in possesso di un manoscritto di alchimia molto vecchio, largo e dorato, composto da tre gruppi di
sette fogli .ciascuno. Dopo averne studiato invano il contenuto per molti anni, egli si era deciso ad andare in pellegrinaggio a S. Giacomo di Compostela, in Spagna, per chiedere la grazia di una giusta interpretazione. Adempiuto al voto, sulla via
del ritorno aveva incontrato un mercante bolognese ed un ebreo convertito, Mastro Canches.
135
In compagnia di quest'ultimo Flamel aveva
concluso, via mare, il viaggio verso la Francia,
ma al momento dello sbarco l'amico ebreo era morto, non senza aver
prima rivelato il significato dello strano
libro. Dopo altri tre anni di studio e di lavoro, Flamel era riuscito finalmente ad
ottenere la sua prima trasmutazione. Per molto tempo si è discusso se lo scrivano Nicolas Flamel,
realmente esistito a Parigi tra la fine del '300 e gli inizi del' 400, sia stato
davvero un alchimista e se davvero sia da
considerare l'autore del Libro delle figure gerogljfiche. Per i seguaci dell'alchimia la questione è irrilevante,
ciò che conta è il significato riposto. Il
manoscritto vecchio, largo e dorato simboleggia un sapere antico, di vasta
dottrina, che ha per oggetto i metalli.
I ventuno fogli sono le sette operazioni dell’alchimia, da ripetersi tre volte. Il pellegrinaggio a Compostela è l’allegoria
della strada da seguire per giungere all’illuminazione, da ottenersi con la fede e la devozione. Nel terzetto Flamel -
mercante bolognese – Mastro Canches è la dissoluzione della materia prima.. Analogamente, anche altri elementi della
biografia possono essere colti allegoricamente.
Nella storia della letteratura alchemica il moltiplicarsi degli strumenti di occultamento dei contenuti cammina di pari passo con il proliferare degli scritti. Non è un caso se si considera che i libri di alchimia si sono fatti più frequenti via
via che la trasmissione orale della dottrina, da maestro a discepolo, diventava sempre più rara. E’ da supporre che nel momento in cui l’insegnamento e il
contatto personale iniziarono ad essere un’eccezione, i maestri abbiano sentito la necessità di affidare alla scrittura il proprio sapere, premurandosi però di
nasconderne le chiavi. Il lettore poco saggio o frettoloso avrebbe così intravisto soltanto le meraviglie del giardino alchemico.
136
Ogni sapere sarebbe stato riservato al lettore capace di meritarlo con un paziente,
quotidiano lavoro di meditazione ispirato a quel
motto dell’alchimia che raccomanda: "Prega, leggi, leggi, leggi, rileggi, lavora e
troverai". In realtà la difficoltà di accesso no serve
soltanto a tener lontano i curiosi e gli indegni; è anche
lo strumento idoneo a trasformare i meccanismi
mentali del lettore, rompendo il suo ordine
logico e risvegliando in lui regioni di coscienza oscurate, le uniche a
consentirgli di comprendere l’essenza della Grande Opera.
La rottura del piano razionale come mezzo indispensabile per poter accedere allo stato di risveglio, di illuminazione, in cui tutto
acquista un senso, è lo stesso perseguito dallo Zen e da altre dottrine esoteriche. Il cifrario più difficile da sormontare non è dunque quello esterno al testo, che – quando è presente – può essere ricostruito con qualche sforzo. Il vero cifrario, che rende impenetrabili i testi, è quello non convenzionale che proviene
naturalmente dalla realtà che cela. Come scrive Butor: "E’ dunque vano indagare quale aspetto del simbolismo sia
destinato a sviare. Tutto svia e rivela in pari tempo.".
GLOSSARIO
Albedo e nigredo: due fasi della Grande Opera.
Elisir: insieme alla Pietra Filosofale, è un prodotto fmale della Grande Opera. Gli si attribuisce il potere di rinnovare le energie
vitali.
Ermetismo: insieme delle dottrine attribuite ad Hermes Trismegisto, mitico inventore dell'alchimia.
Filosofo: alchimista.
Fisso: ciò che non si sublima o non evapora.
Grande Opera: l'insieme delle operazioni che deve compiere l'alchimista per pervenire al successo.
Pietra Filosofale: insieme all'Elisir, è un prodotto finale della Grande Opera. Gli si attribuisce il potere di trasmutare le
137
sostanze.
Rebis: corpo che, pur essendo unico, è composto contemporaneamente di maschio e femmina o comunque di due
cose opposte.
Sale, Zolfo e Mercurio: i tre principi che, secondo l'alchimia, combinandosi in modo diverso, formano le diverse sostanze. Non coincidono con ciò che noi chiamiamo comunemente sale, zolfo
e mercurio.
Trasmutazione: è 1o scopo ultimo dell'alchimia. Va intesa in un doppio senso: come possibilità dell'operatore di ottenere a piacimento il mutamento di una sostanza in un'altra; come
possibilità per l'operatore di ottenere una trasformazione di se stesso sul piano spirituale.
Via secca e via umida: i due modi in cui può essere compiuta la Grande Opera. La via secca è breve e pericolosa, la via umida
più lunga e sicura.
Volatile: ciò che si sublima o evapora per azione del fuoco.
IL PARMIGIANINO E L'ALCHIMIA di Andrea De Pascalis - giornalista, saggista
Autoritratto in specchio convesso (1524 circa)
Intorno ai rapporti di Francesco Mazzola detto il Parmigianino (1503\1540) con 138
la scienza alchemica, desunti da attendibili fonti storiche e per lungo tempo dimenticati, da alcuni anni si è molto detto e scritto. Il breve saggio di Andrea De Pascalis vuole riassumere i punti principali a favore e contro l’ipotesi di
un’interpretazione alchemica delle opere del Parmigianino1. Le fonti
Ne Le Vite, edizione del 1550, Vasari attribuisce al Parmigianino un interesse così forte e dissennato per l’alchimia
da averlo condotto alla rovina:
“Ma il cervello, che aveva a continovi ghiribizzi di strane fantasie, lo tirava fuor de l’arte: potendo egli guadagnare quello oro, che egli stesso avrebbe voluto: con quello che la natura nel
dipignere, e’l suo genio gli avevano insegnato. Et volse con quello, che non potè mai imparare, perdere la spesa e il tempo,
et farsi danno alla propria vita. Et questo fu ch’egli stillando cercava l’archimia dell’oro, et non si accorgeva lo stolto, ch’aveva l’archimia nel far le figure; le quali con pochi
imbratamenti di colori, senza spesa, traggono de le borse altrui le centinaia de gli scudi. Ma egli in questa cosa invanito, et
perdutovi il cervello, sempre fu povero; e tal cosa gli fe’ perdere tempo grandissimo, et odiarlo da infiniti, che più per il suo
danno, che per il loro bisogno, di ciò si dolevano...”
L’interesse del Parmigianino per l’alchimia è collocato da Vasari in un’epoca ben precisa della vita del pittore, quella più estrema: “Poi si tolse a fare alla Madonna della Steccata una
opera grandissima a fresco...In questo tempo si diede all’alchimia, et pensando in breve arricchirne, tentava di
congelare il Mercurio...”. Il lavoro alchemico avrebbe provocato il dissesto economico e la rovina mentale dell’artista, che sempre
più trascurava i pennelli per dedicarsi alle manipolazioni alchemiche: “Perché tenendo egli di molti fornelli et spese, non
poteva riscuotere tanto dell’opera, quanto in tal cosa consumava. La qual pazzia fu cagione, ch’egli lasciato per
dilettazione di tal novella, la utilità e il nome dell’arte propria, per la finta et vana, in malissimo disordine della vita e
dell’animo si condusse”.
Presto l’interesse per l’alchimia divenne così esclusivo da impedire di concludere il lavoro alla Steccata, incorrendo nelle ire dei committenti, che si rivolsero alla giustizia: “Là onde egli non potendo resistere, una notte si partì di Parma; et con alcuni
suoi amici si fuggì a San Secondo; et quivi incognito dimorò molti mesi, di continuo alla alchimia attendendo. Et perciò aveva preso aria di mezzo stolto; et già la barba e i capelli cresciutigli, aveva più viso d’uomo salvatico, che di persona gentile come
egli era”.
Sempre secondo la testimonianza di Vasari, l’alchimia fu indirettamente la causa della morte dell’artista, poiché,
essendosi il Parmigianino riavvicinato a Parma, i committenti lo fecero imprigionare, costringendolo alla promessa di dar fine all’opera. “Ma fu tanto lo sdegno che di tal cattura prese, che
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accorandosi di dolore, dopo alcuni mesi si morì d’anni XXXI...”.
L’edizione 1568 de Le Vite tratteggia in modo più dettagliato le condizioni del Parmigianino alle prese con la febbre per
l’alchimia: “Intanto cominciò Francesco a dismettere l’opera della Steccata, o almeno a fare tanto adagio, che si conosceva
che v’andava di male gambe; e questo avveniva, perché avendo cominciato a studiare le cose dell’alchimia, aveva tralasciato del
tutto le cose della pittura, pensando di dover tosto arricchire, congelando mercurio;...e non avendo altra entrata, e pur
bisognandogli anco vivere, si veniva così consumando con questi suoi fornelli a poco a poco...”.
In questa versione de Le Vite il Parmigianino, abbandonata la Steccata dopo la lite con i committenti, fuggì a Casal Maggiore “dove uscitogli alquanto di capo l’alchimie, fece per la chiesa di Santo Stefano, in una tavola la nostra Donna in aria, e da basso
San Giovanbattista e Santo Stefano...”. Fu una breve tregua, poiché “Francesco, finalmente, avendo per sempre l’animo a
quella sua alchimia, come gli altri che le impazzano dietro una volta, ed essendo di delicato e gentile, fatto con la barba e
chiome lunghe e malconce, quasi un uomo salvatico ed un altro da quello che era stato, fu assalito, essendo mal condotto e fatto
malinconico e strano, da una febbre grave e da un flusso crudele, che lo fecero in pochi giorni passare a miglior vita...”. A
condurre l’artista alla tomba non sarebbe stato dunque il dispiacere per l’essere stato condotto in prigione, ma una
malattia caratterizzata da malinconia e febbre.
2. La fine del Parmigianino: testimonianza storica o stereotipo letterario?
La testimonianza del Vasari non è accettata da tutti. D’altro canto, la tradizione del Parmigianino alchimista tramandataci da Vasari non non era unanime, se appena sette anni dopo la prima edizione de Le Vite, in Dialogo della pittura intitolato l’Aretino (Venezia 1557) L. Dolce scriveva che “Il Parmigianino fu incolpato a torto
ch’egli attendesse all’alchimia...”. M. Fagiolo Dell’Arco e altri autori prima di lui (1) rifiutano la versione del Dolce ritenendo
che essa nascesse da un atteggiamento moralistico: a loro avviso, L. Dolce condivideva l’opinione di quanti nel suo tempo
consideravano l’alchimia un’arte eticamente riprovevole, e smentiva di proposito la fama alchimistica del Parmigianino per
non screditare la figura dell’artista.
E’ anche vero che la versione di Vasari è avvalorata da un’altra attendibile fonte quasi coeva, Edoari da Herba, che
ricorda il Parmigianino come “peritissimo alchimista”.
Se consideriamo l’effettiva posizione dell’alchimia nella società europea del XVI secolo, troviamo che le motivazioni addotte per rifiutare la testimonianza di L. Dolce sono labili.
L’alchimia non fu mai considerata arte eticamente illecita, salvo 140
nei casi in cui essa fu piegata alla falsificazione dei metalli a scopo di lucro. Nel XIV e XV secolo la questione della liceità dell’alchimia era stata ampiamente soppesata da teologi e
giuristi: i primi tendevano a ritenere l’alchimia una scienza falsa ma non magica o diabolica (tale era la posizione espressa, ad
esempio, nel 1486-1487 nel manuale inquisitoriale Malleus Maleficarum di H. Institor e J. Sprenger); i secondi si schierano
pressoché unanimemente per la liceità dell’alchimia, al punto che sul finire del XV secolo Hyeronimus de Zanetinis prendeva
atto dell’esistenza di una tradizione giuridica di due secoli a favore dell’alchimia (2) .
D’altro canto, per gli stessi motivi la testimonianza del Vasari sull’interesse del Parmigianino per l’alchimia non può essere rifiutata a priori. I rapporti tra pittura e alchimia nel XV/XVI secolo sono stati ormai ampiamente dimostrati (3) . Pittori
alchimisti furono van Eyck e Beccafumi. E di Cosimo Rosselli (1439-1507) lo stesso Vasari scrive che “La sua passione per l’alchimia fu causa...che lo condusse ad un’estrema povertà”.
Semmai questa seconda testimonianza del Vasari, riferita a Rosselli e anch’essa centrata sull’interesse per l’alchimia come fattore che conduce l’artista alla rovina, dovrebbe costringerci a chiederci quanto siano attendibili i dettagli vasariani sulla fine del Parmigianino. Dai brani sopra citati, dal loro tono, appare chiaro che Vasari ritiene l’alchimia una scienza illusoria. Nella cultura europea del Medioevo e del Rinascimento l’alchimia fu accolta con sentimenti contrastanti (4). Se da un lato l’alchimia fa studiata o praticata anche da principi e re, dall’altro essa non
riuscì a entrare nelle università, dove pure era accolta e insegnata l’astrologia. Come si già detto, i teologi tendevano a
considerare l’alchimia una falsa scienza, in ciò seguendo il giudizio di Tommaso d’Aquino, per il quale l’alchimia era una
scienza teoricamente possibile ma i cui procedimenti di imitazione della natura molto difficilmente potevano essere
realizzati in laboratorio.(5)
Sulla liceità dell’alchimia non disputavano solo teologi e giuristi. Anche eruditi e uomini di scienza polemizzavano spesso
se l’alchimia fosse scienza vera o falsa, e su questo problema scrissero dei trattati. Il più noto di questi testi era la Pretiosa
margarita novella, opera scritta nel 1330 circa dal medico lombardo Pietro Bono e ancora molto nota all’epoca del Parmigianino,
tanto da essere stampata a Venezia nel 1546. (6) E nel 1544 fu scritto a Firenze Questione sull’alchimia di Benedetto Varchi, che
discettava se l’alchimia fosse “vera e lodevole, o falsa e biasimevole”. (7)
I dubbi sull’alchimia erano stati accolti da figure di spicco della cultura europea del XIV-XVI secolo, ispirando un modello
letterario che raffigurava l’aspirante alchimista come un disgraziato che va incontro alla rovina personale e sociale.
141
Nel De remediis utriusque fortunae, del 1366 circa, Francesco Petrarca scriveva: “Individui ricchissimi si consumano per tale
futilità. E mentre si sforzano di diventare più ricchi, dedicandosi a questa brutta faccenda, gettano via malamente le ricchezze
guadagnate bene. E infine, avendo speso così i loro averi, viene loro a mancare perfino quanto è necessario ai più elementari
bisogni. Alcuni, evitando la conversazione degli altri cittadini, se ne stanno in disparte, angosciati e addolorati, avendo preso
l'abitudine di non pensare ad altro che ai mantici, alle pinze e ai carboni, e di non frequentare altri che non appartengano alla stessa eretica consorteria; e quasi diventano uomini selvatici. Alcuni, avendo smarrito dapprima la luce della ragione, hanno
poi perso anche la luce degli occhi in questo esercizio». (8)
Per Petrarca la pratica dell'Arte conduce al disordine della vita individuale e familiare. Egli così avverte l’aspirante alchimista: «La tua casa si riempirà di ospiti strani e di apparecchi bizzarri. Si riempirà di mangioni e di beoni... di bugiardi, di impostori e di soffiatori... In ogni angolo della casa vi saranno bacinelle, fiale e
bocce piene di acqua fetida, di erbe sconosciute, di strani sali, solfo, alambicchi e fornelli....Vi saranno affanni inutili, stoltizia, squallore del viso e caliggine degli occhi... Condurrai la tua vita con vergogna e con biasimo, lavorando di notte, nascondendoti
come i ladri». (9)
Anche per Geoffrey Chaucer - ne il Racconto del famiglio del canonico, uno del Canterbury Tales, 1388 - l'alchimia è una
«dannata» e «balorda scienza sfuggente», che riduce sul lastrico coloro che la perseguono, e gli alchimisti vi sono descritti come individui che ovunque si rechino possono essere riconosciuti per l'odore di zolfo che emanano e per il loro aspetto male in arnese.
Lo stereotipo letterario dell'alchimista folle si rinforzò nei decenni a cavallo tra XV e XVI secolo. Nel 1494 fu pubblicato a Basilea il poema satirico-didascalico Narrenschiff (Nave dei folli) di
Sebastian Brant, che metteva alla berlina anche quanti desideravano arricchirsi con «la brutta menzogna dell'alchimia», riuscendo soltanto a ridurre in polvere e cenere le loro ricchezze. Nell'Elogio della follia (1511) di Erasmo da Rotterdam gli alchimisti
sono: «Coloro che con nuove e misteriose arti cercano di trasformare la specie naturale delle cose e vanno a caccia per terra e per mare di una misteriosa quintessenza. Questa dolce
speranza li domina tanto che non retrocedono davanti ad alcuna fatica né spesa, e con meravigliosa inventiva escogitano ogni volta qualcos'altro, e, se s'ingannano, godono persino della delusione, finché, sfumato tutto il loro avere, non hanno più
neanche il necessario per costruirsi una stufetta». (10)
D’altro canto, queste raffigurazioni letterarie dell’alchimista corrispondevano ad una realtà precisa. Nel De secretissimo
philosophico opere chemico, attribuito all’alchimista tedesco Bernardo di Treves e certamente scritto nella seconda metà del XV secolo
(11), l’autore descrive la vicenda della propria ricerca 142
alchimistica come un ininterrotto dilapidare per decenni le sostanze di famiglia in inutili esperimenti. Il presunto Bernardo di
Treves descrive l’alchimia dell’epoca come una specie di follia collettiva che aveva investito l’Europa: “Ho visto molti uomini,
anzi infiniti, che si affaticavano in queste amalgamazioni e nelle moltiplicazioni al bianco e al rosso, con tutte le materie
immaginabili...”. (12)
Ad un certo punto la vergogna del fallimento è tale che: “Per la qualcosa, non potendo quasi né bere né mangiare, diventai così magro che tutti
pensavano fossi stato intossicato da qualche veleno...”. (13)
Parmigianino apparteneva realmente alla schiera degli “infiniti” che “congelavano il mercurio” fino all’autodistruzione fisica o il Vasari volle soltanto rappresentare la morte dell’artista - in realtà dovuta a qualche
malanno ignoto - secondo lo stereotipo letterario sull’alchimia così in voga nel suo tempo? Alla luce degli elementi disponibili, entrambe le ipotesi
sembrano possibili.
La Madonna dal collo lungo (1534)
3. Alchimia e ermetismo nella cultura europea (XII-XVI sec.)
In che cosa consisteva la ricerca alchemica all’epoca del Parmigianino?
143
L’alchimia era arrivata in Europa alla metà del XII secolo, con le traduzioni in latino effettuate sui testi arabi, in Spagna. Prima
di quest’epoca erano giunti in Europa da Bisanzio solo pochi trattati ellenistici sulle tinture dei metalli. E infatti nella prefazione
alla propria traduzione in latino del testo arabo poi noto come Libro di re Khalid, effettuata nel 1144, Roberto di Chester scriveva:
“Cosa sia l’alchimia, e quale sia la sua composizione, che la latinità non ha ancora conosciuto, lo spiegherò in questo libro”.
(14)
L’alchimia araba era a sua volta l’erede dell’alchimia ellenistica, fiorita in Egitto nei primi secoli della nostra era. La
questione delle origini dell’alchimia è complessa, e la discussione delle diverse ipotesi esula da questa sede. E’ appena
necessario sapere che l’alchimia nacque dall’incontro in Egitto tra tecniche artigianali di lavorazione e di falsificazione dei
metalli, speculazioni magico mistiche orientali (persiane e forse ebraiche) e la gnosi ermetica. Già nelle prime opere di alchimia a
noi note (trattati di Zosimo di Panopolis, il Libro di Comario, etc. (15)) la ricerca della trasmutazione dei metalli vili in oro si sovrappone e si confonde con quella della rigenerazione
spirituale dell’operatore. Come il metallo vile viene fatto morire nel crogiolo perché possa rinascere purificato come metallo
perfetto e immortale (l’oro), così - su un diverso piano - l’alchimista persegue un processo di morte e purificazione spirituali per riconquistare la perfezione dell’uomo edenico.
Nell’ellenistico Il libro di Comario mezzo di tale duplice trasformazione è un pharmakon di vita che si ottiene con il lavoro
alchemico.
Se l’alchimia (o Arte sacra, come la chiamavano gli alchimisti ellenistici) era certamente ispirata dalla gnosi ermetica, è
altrettanto certo che tra i testi ermetici propriamente detti (posti cioè sotto il nome di Hermes Trismegisto) a noi noti esistono libri di magia e di astrologia, ma non un solo testo di alchimia. Anche se Hermes viene indicato come padre dell’Arte sacra dallo stesso
Zosimo, ermetismo e Arte sacra non sono sinonimi.
Dall’Egitto ellenistico l’alchimia si attestò in Siria, dove probabilmente si arricchì di elementi dottrinari provenienti
dall’estremo Oriente, e da lì fu assorbita dalla cultura araba. Anche tra gli arabi l’alchimia fu un insieme inestricabile nella cui letteratura i segreti sulla lavorazione dei metalli si mischiano a
quelli che dovrebbero consentire all’alchimista di riconquistare la perfezione primordiale. (16)
Per qualche tempo l’alchimia latina conobbe soltanto le traduzioni dei testi arabi, come le opere di Jabir, la Tavola smeraldina, la Turba dei Filosofi, etc. Agli inizi del XIII secolo
apparvero i primi testi originali di alchimia latina, compresi alcuni trattati presentati come traduzioni di libri di Jabir (latinizzato Geber) ma in realtà scritti da un europeo.
144
All’epoca del Parmigianino i testi di riferimento erano costituiti dalle traduzioni dall’arabo sopra citate, dai libri del falso Geber,
dalle opere di Arnaldo di Villanova, dello pseudo Raimondo Lullo, di Giovanni di Rupescissa, di Bernardo di Treves.
Nei trattati di alchimia latina sono prevalenti ( o forse sono più evidenti) gli aspetti tecnici legati alla lavorazione dei metalli rispetto alle pretese magico-mistiche, anche se ad una più
profonda lettura alcuni di essi sono interpretabili anche come tecniche di manipolazioni delle energie psicofisiche, in linea con
le pretese di parte dell’alchimia cinese, ellenistica ed araba.
Capisaldi teorici della prima alchimia latina sono: l’unità della materia; i due princìpi (Solfo e Argento vivo); la teoria
dell’evoluzione dei metalli (che nella miniera si trasformano da imperfetti a perfetti grazie agli influssi delle forze naturali, per cui l’alchimista non fa altro che riprodurre in laboratorio, con ritmo accelerato, l’opera della natura); la suddivisione delle
operazioni in sette o più fasi (caratterizzate da cambiamenti di colore della materia lavorata, di cui le principali sono nigredo, albedo e rubedo); la fabbricazione della Pietra filosofale e/o
dell’Elisir al rosso come obiettivo finale della ricerca.
Questo sistema rimase pressoché immutato fino a Paracelso (1493 o 1494-1541), che spostò l’accento dell’alchimia sugli
aspetti naturalistici e medici, facendo dell’alchimia una scienza finalizzata non più alla fabbricazione dell’oro ma alla
preparazione di medicine per curare i malati. (17) Da un punto di vista tecnico Paracelso non fu un innovatore, poiché riprese idee e scoperte di Villanova, Rupescissa, lo pesudo Lullo. Fu soltanto
con Paracelso però che i due principi costitutivi della materia (Solfo e Mercurio o Argento Vivo) divennero tre (i tria prima) con
l’aggiunta del Sale (principio “neutro”) ai primi due. I libri di Paracelso divennero noti dopo la sua morte. Ne consegue, ad
esempio, che il Parmigianino non poteva conoscerli e che l’alchimia cui si dedicò era quella pre-paracelsiana, basata su
due soli principi costitutivi della materia.
L’epoca di Parmigianino, invece, fu quella della riscoperta della filosofia ermetica che fece seguito alla traduzione in latino
(dal greco) - da parte di Marsilio Ficino - del Corpus Hermeticum, raccolta di 17 trattati attribuiti al mitico Hermes Trismegisto
importata nella Firenze di Cosimo dei Medici nel 1460 dall’impero di Bisanzio.
Fino ad allora si era attribuita ad Hermes grande fama, ritenendolo un sapiente realmente vissuto in tempi remoti, il quale secondo l’interpretazione di Lattanzio (III-IV secolo) aveva addirittura profetizzato l’avvento del Cristo. Nel contempo
tra gli scritti ermetici si conosceva solo il Pimandro e qualche frammento. La traduzione del corpus fece diventare l’ermetismo una filosofia alla moda nel
mondo rinascimentale. Influenzata dall’ermetismo nacque una magia rinascimentale dotta, che soppiantò la vecchia magia diabolica e popolare dei
grimori. In questo spirito erano nate la qabbalah cristiana di Pico della Mirandola
145
(1463-1494) e la occulta philosophia di Cornelio Agrippa (1486-1535). Imbevuto di ermetismo, neoplatonismo e qabbalah (oltre che della “vecchia” astrologia), il mago rinascimentale divenne un sapiente che mirava alla conoscenza suprema,
usando strumenti come la meditazione sui simboli e le speculazioni sui numeri e le lettere dell’alfabeto. (18)
Scrivendo dello xilografo Ugo da Carpi, il Vasari afferma: “Non sarebbe troppo lodare l’invenzione dell’incisione con
acquaforte....Francesco Mazzuoli incide così una piccola folla di graziosi soggetti....”. (32) L’uso dell’acquaforte, la cui
preparazione presupponeva conoscenze “chimiche”, era certamente una novità all’epoca del Parmigianino. Egli la
apprese realmente da Ugo da Carpi, come sostiene Vasari?
L’argomento è stato approfondito da Van Lennep, che ha dimostrato che la tecnica di incisione con acquaforte è nata in Germania all’inizio del 1500 e di lì è stata importata in Italia da
Marc’Antonio Raimondi, di cui si conserva una stampa di ispirazione alchemica, che raffigura tre personaggi accanto a un
alambicco. (33)
Raimondi avrebbe rivelato il procedimento al Parmigianino e alla sua cerchia, che ne fece uso a partire dal 1530, data che
coincide con quella indicata dal Vasari come inizio dell’avventura alchemica del Parmigianino. Lo stesso Van Lennep ha
minuziosamente illustrato l’apporto dato dagli alchimisti alla scoperta e alla messa a punto delle tecniche chimiche poi
impiegate per la preparazione dell’acido nitrico e successivamente dell’ aqua fortis.
E’ possibile perciò che abbia ragione il Van Lennep nell’ipotizzare che fu proprio la manipolazione degli acidi e delle
altre sostanze chimiche impiegate per le incisioni a volgere l’attenzione del Parmigianino verso l’alchimia. Ma come
sottolineato in precedenza, bisogna considerare quanto fosse forte all’epoca l’interesse per l’alchimia, scienza alla moda. Per
cui potrebbe essere plausibile anche il contrario: e cioè che l’abilità del Parmigianino nella tecnica dell’acquaforte sia stata
non la causa ma l’effetto delle sue conoscenze alchemiche.
Note
(1) M. Fagiolo Dell’Arco, Il Parmigianino. Un saggio sull’ermetismo nel Cinquecento, Roma 1970, p.102-103.
(2) A. De Pascalis, L’Arte dorata, Roma 1995, pp. 172-173.
(3) J. Van Lennep, Art et alchimie, Bruxelles 1971, e soprattutto il più recente J. Van Lennep, Alchimie, Bruxelles 1984.
(4) A. De Pascalis, op. cit., pp. 169-175
(5) Ibid., p. 62
(6) Vedi introduzione note di C. Crisciani alla Preziosa margarita novella, Firenze 1976
(7) B. Varchi, Questione sull’alchimia, Firenze 1827, XXII e XXIII.
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(8) A. De Pascalis, op. cit., p. 176
(9) Ibidem pag. 399
(10) E. da Rotterdam, Elogio della follia, a cura di N. Petruzzellis, Milano 1966, p. 78.
(11) L. Thorndike, A History of magic and experimental science, 1923-34, Vol. III, p. 176-190.
(12) La parte saliente di quest’opera di Bernardo di Treves è tradotta in: A De Pascalis, op. cit., pp. 114-117
(13) Ib.
(14) J.J. Manget, Bibliotheca Chemica Curiosa, Ginevra 1702, Tomo I, p. 507.
(15) J. Lindsay, Le origini dell’alchimia nell’Egitto greco-romano, Roma 1984. M. Berthelot, Collection des anciens alchimistes grecs, Parigi 1888
(16) H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Milano 1991, pp. 143 ss
(17) W. Pagel, Paracelso, Milano 1989, pp. 209 ss.
(18) F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1969
(19) Ib.
(20) M. Fagiolo dell’Arco, op.cit., p. 40-41
(21) J. Van Lennep, op. cit., p. 298
(22) C. Mutti, Pittura e alchimia, Padova 1978, p. 13.
(23) M. Fagiolo dell’Arco, op. cit., p. 38
(24) B. Obrist, Les débuts de l’imagerie alchimique (XV -XVI siècles), Parigi 1982
(25) G. Carbonelli, Sulle fonti storiche della chimica e dell’alchimia in Italia, Roma 1925.
(26) J. D. Mylius, Philosophia reformata, Francoforte 1622, ill. II. L’illustrazione è riprodotta anche in C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Roma 1950, p. 252
(27) Per i problemi di datazione di questo testo, vedi A. De Pascalis, op. cit., pp.108 ss.
(28) Vedi: G. Testi, Dizionario di alchimia e di chimica antiquaria, Roma 1950
(29) J. Lindsay, op. cit., pp.287-309.
(30) ibid.
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(31) J. Van Lennep, op. cit., p.299
(32) G. Vasari, op. cit., p. ???
(33) J. Van Lennep, op. cit., p. 299
Alchimia ed ermetismo: I fondamenti teorici della filosofia ermetica / 1
L'ANIMA DEL MONDO di Paolo Lucarelli (saggista)
Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n° 10 (dicembre 1986), pp. 12-21, riprodotto per gentile concessione dell'autore, che ne detiene i diritti.
Riproduzione vietata.
La storia ed i principi teorici dell’alchimia spiegati e commentati da Paolo Lucarelli, insigne studioso di ermetismo, per molti anni allievo del maestro Eugéne Canseliet. In questo primo intervento l'autore ci
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introduce al concetto di Anima Mundi, uno dei concetti cardine dell'alchimia e della filosofia ermetica.
Uno dei primi manuali di chimica in senso moderno, apparso verso la fine del XVII secolo, inizia con una affermazione che
incuriosisce e fa riflettere. Essa testimonia di un clima intellettuale di cui non si può non tener conto, se si vuole
comprendere lo spirito che animava lo studioso del passato, fosse o no un filosofo ermetico. E’ il "Corso di Chimica del Signor Nicolo’ Lemery ch’insegna il modo di far l’Operationi che sono usuali nella
Medicina con Metodo facilissimo et Ragionamenti sopra ciascuna Operatione". Lo leggiamo nella traduzione dall’originale francese di Nathan
Lacy di Londra, Medico Fisico, pubblicata in Bologna , per Giulio Borzaghi, 1700 con Licenza de’ Superiori (1). A pagina 2, il
capitolo "De Principij della Chimica" insegna: " Il primo principio che si può’ ammettere per la compositione de Misti e’ uno spirito universale che
essendo sparso da per tutto, produce diverse cose secondo le diverse Matrici overo Pori della Terra ne quali si trova rinchiuso: Ma essendo questo principio alquanto metafisico, e non soggiacendo à sensi, è bene di stabilirne de sensibili,
e per questa ragione addurrò quelli che communemente sono in uso".
Il concetto è antico. Viene chiaramente e diffusamente studiato per la prima volta in Occidente nel Timeo da Platone, e
si trasmette per una linea ininterrotta lungo tutti i secoli che separano il filosofo greco dallo spagirista francese.
Sarà forse il caso di ricordare qui che per uno di quei fatti che sembrano prova di una qualche partecipazione provvidenziale, il
dialogo platonico fu l’unico a conservarsi nella latinità medioevale, seppure nella traduzione di Calcidio, cosicchè la sua
dottrina non fu mai persa. Così poco lo fu, anzi, che in quel XII secolo che vide la rinascita in Europa, o il ritorno se si preferisce, dell’antica alchimia, la nozione di Anima del Mondo o di Spirito Universale, era normale sostegno di ragionamento non solo del filosofo, ma anche, e specialmente del teologo. A Chartres dove,
a fianco della Cattedrale di pietra, si continuava a studiare l’Ermetismo, ancora nell’unico testo sopravvissuto, per caso
proprio il più completo e il più utile, il "Sermo Perfectus" come fu chiamato quello che ora è noto come l’Asclepio di Ermete
Trismegisto, Guglielmo di Conches nelle sue glosse "In Timeum" scriveva: "Anima mundi est naturalis vigor rerum quo quedam res habent tantum moveri, quedam crescere, quedam sentire, quedam discernere". (2)
"L’Anima del Mondo è un’energia naturale delle cose per cui alcune hanno soltanto la capacità di muoversi, altre di crescere,
altre di percepire attraverso i sensi, altre di giudicare"
Il nostro teologo, chierico e professore, in realtà rischiò di andare davvero oltre i limiti consentiti quando, commentando
Boezio, osò precisare la teoria ermetica in tutta la sua crudezza.
"Sed quit sit ille vigor queritur. Sed, ut mihi videtur, ille vigor naturalis est Spiritus Sanctus, id est divina et benigna concordia que est id a quo omnia
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habent esse, moveri, crescere, sentire, vivere, discernere".
"Ma ci si chiede cosa sia quell’energia. Ma, come mi sembra, quell’energia naturale è lo Spirito Santo, cioè una divina e
benigna armonia che è ciò da cui tutte le cose hanno l’essere, il muoversi, il crescere, il sentire, il vivere, il giudicare". (3)
Completandola infine con questa affermazione, di estremo valore per l’esatta comprensione degli scopi dell’Opera
alchemica:
"Quedam enim corpora vegetat et facit crescere ut herbas et arbores: quedam facit sentire, ut bruta animalia; quedam facit discernere, ut homines, una et eadem manes anima; sed non in omnibus exercet eandem potentiam, et hoc
tarditate et natura corporum faciente".
"Infatti alcuni corpi li vivifica e fa crescere, come le erbe e gli alberi: alcuni li fa percepire attraverso i sensi, come gli animali
bruti; alcuni li fa emettere giudizi, come gli uomini, una e la stessa permanendo l’anima; ma non si sviluppa il medesimo
potere in tutti, ciò a causa dell’inerzia e della natura dei corpi.".
Proprio questo hanno sempre sostenuto i filosofi ermetici. Essi dicono che alla base di tutta la Creazione sta uno Spirito,
creatore e rettore del mondo "che è diffuso nelle opere della natura come per una continua infusione, e che muove ogni universale e ogni particolare
secondo il suo genere, per mezzo di un atto segreto e perenne". La frase è del D’Espagnet, (4) ma potrebbe essere stata scritta da qualunque
altro alchimista. Così il Nuysement, che si è più diffuso su questo punto della dottrina, scrive che è "lo spirito universale che dà vita e movimento a tutte le membra di questo grande corpo (cioè il Mondo) . Spirito
generale nel quale stanno occultamente racchiuse le vive semenze dei tre generi: dal quale sono prodotte tutte le cose del mondo: per mezzo del quale esse
crescono, persistono e si moltiplicano, e in cui esse si debbono tutte ridurre, quando avranno raggiunto il limite che ha loro fissato la Natura.". (5)
Concludiamo le nostre citazioni con il Cosmopolita, che nell’Epilogus seu Conclusio del suo Novum Lumen Chemicum ex Naturae
Fonte et manuali Experientia depromptum "Nuova Luce Chimica estratta dalla fonte della Natura e dalla esperienza manuale", riassume
tutto l’arcano con questa breve frase che è già anche un suggerimento operativo: "….este enum in aere occultus vitae cibus, quem nos rorem de nocte, de die aquam vocamus rarefactam, cujus spiritis invisibilis
congelatus melior est quam terra universa". " …Infatti nell’acqua sta l’occulto cibo della vita, che noi chiamiamo di notte rugiada, di
giorno acqua rarefatta, il cui spirito invisibile congelato è migliore della terra intera…". (6)
Come si vede, non si fa gran mistero dell’assunto teorico fondamentale di tutta la filosofia ermetica, e non vi è bisogno di
scomodare astruse concezioni psicoanalitiche o complicati esoterismi tibetani, per chiarire una volta per tutte lo scopo e il metodo dell’antica alchimia. Per parafrasare il grande adepto
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scozzese, ripeteremo anche noi che tutta l’opera è riassumibile in poche parole: se esiste uno Spirito Universale, base
intelligente e fondamento vitale di tutta la manifestazione universale, posto che esso non solo anima tutti i corpi, ma che questi plòersistono tanto più incorrotti nel loro stato quanto più ne sono colmi, allora, per dirla col Nuysement: " Un grain de cet esprit, de celeste origine, pris seul, fais plus d’effects Qu’n pot de medecine", "un grano di questo spirito d’origine celeste, preso da solo, ha
più efficacia di un vaso di medicina". (7)
La corporificazione di questo Spirito è da sempre lo scopo
ultimo delle fatiche alchemiche. Il risultato, convenientemente preparato, ha tradizionalmente
il nome di Pietra Filosofale.
L’insieme delle operazioni necessarie per giungervi, si chiama Grande Opera.
Ci domandiamo se non ci siamo resi responsabili di una divulgazione colpevole.
Veramente non lo crediamo.
Ciò che abbiamo appena enunciato con tanta chiarezza era così noto ed evidente ancora pochi secoli fa, come pensiamo di
avere dimostrato, che soltanto la pigrizia o la distrazione dei nostri contemporanei può averlo cancellato così totalmente dalla
nostra cultura, da farlo apparire come un oscuro segreto esoterico.
Piuttosto ci scusiamo per l’estrema semplificazione cui ci siamo adattatati per economia di discorso. In effetti avremmo dovuto distinguere più precisamente tra Anima del Mondo e
Spirito Universale, questo essendo in un certo senso il sostegno di quella. D’altronde per chi vorrà approfondire i testi sono
numerosi, ed alcuni li abbiamo indicati qui.
Quello che ci premeva era spiegare, come si è detto, lo scopo della ricerca alchemica. Scopo che evidentemente non può
essere raggiunto se non attirando in qualche modo lo Spirito all’interno di un contenitore capace di raccoglierlo e non
lasciarselo sfuggire. Un vaso, cioè, che sia chiuso ermeticamente.
Dobbiamo veramente ricordare, a questo punto, e dopo quello che abbiamo detto, che questa ricerca, questa "Quête" del
Santo Graal, ha ispirato le più belle leggende della poesia medioevale? E che di questo Vaso si parla nelle più antiche
mitologie, tant’è che lo ritroviamo, contenitore e prigione del Dio del vento e delle tempeste sin presso gli Ittiti? (8)
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Comunque sia, la ricerca di questa materia è il primo problema e il primo vero segreto, che si pone all’alchimista operativo. Leggiamo cosa ci dice in proposito il sieur Gosset,
Medico, nelle sue Revelations Cabalistiques: "…L’esprit universel est de sa nature très subtil & invisible, & jamais il ne peut paroitre à nos yeux, qu’il ne s’envelope de quelche matiere visible plus grossiere, & de cette matiere plus
prochaine, capable de lui servir d’ecorce, sont les corps subtils, aqueux, salineux, sulphureux" . "Lo spirito universale è per sua natura
sottilissimo ed invisibile, e non può mai apparire ai nostri occhi, se non che si ricopra di una qualche materia visibile più
grossolana, e questa materia più prossima, capace di servirgli da scorza, sono i corpi sottili, acquosi, salini, sulfurei…." (9)
A cosa si riferisce dunque l’esercizio allegorico cui si dedica la coppia filosofale nella 4a tavola del Libro Muto – Mutus Liber (10) - così parlante nella sua splendida semplicità? I nostri due artisti stanno proprio raccogliendo pazientemente nell’epoca propizia,
quello spirito che discende con un fascio irresistibile da un a zona centrale del cielo, posta tra il sole e la luna, perché infatti:
…Ejus pater est Sol, mater Luna
"suo padre è il Sole, sua madre la Luna" come insegna la Tavola di Smeraldo.
Limojon de Saint-Didier, con più precisione dal punto di vista sperimentale, lo chiama "oro astrale", distinguendolo dagli altri
due che esistono in natura, e che sono quello elementare e quello metallico:
"Il primo è un oro astrale il cui centro è nel Sole, che per mezzo dei suoi raggi lo comunica insieme alla sua luce a tutti gli astri che gli sono inferiori. E’ una sostanza ignea e una continua emanazione di corpuscoli solari, che, grazie al movimento del
sole e degli astri, essendo in un perpetuo flusso e riflusso , riempiono tutto l’universo; tutto ne è penetrato nella distesa dei
cieli sulla terra e nelle sue viscere, noi respiriamo continuamente questo oro astrale, queste particelle solari penetrano nei nostri corpi e ne esalano senza posa". (11)
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Ancora un a volta nulla di nuovo: già gli stoici avevano collegato l’anima del mondo
con il sole, e in occidente Scoto Eriugena ne aveva
accennato chiamandola solis filiam – figlia del sole - .
Vale però la pena di ricordare che Guglielmo di Conches
critica questa teoria, ponendone il centro in
medietate: "non in sole, ut quidam dicunt, quia idem Plato dicit
solem non esse medium, sed post lunam positum" – nel mezzo: non nel sole, come alcuni dicono, perché lo stesso
Platone dice che il sole non è mediano, ma posto dopo la
luna – e in realtà concordiamo con lui, così come la stessa tavola del
Libro Muto ci dimostra, ma riconosciamo anche che non
vi è contraddizione con l’insegnamento di Limojon.
Per tornare al tema che stavamo trattando, vediamo dunque che il primo problema operativo che l’alchimista deve affrontare,
non può che essere quello di trovare o costruire un corpo attrattivo, un magnete che sia in grado di attirare e corporificare lo Spirito. Per un gioco verbale molto trasparente questo corpo
fu chiamato Magnesia nella tradizione occidentale, in greco magnhsia, termine tecnico che si ritrova solo nei testi di
alchimia, e che non va evidentemente confuso col carbonato di magnesia, cui fu attribuito solo nel XIX secolo.
Diventa allora molto chiaro, anche se di difficile attuazione, il suggerimento dell’Undicesimo Discorso, Sermo Undecimus, della
Turba dei Filosofi, Turba Philosophorum:
…argentum vivum acipite, & in corpore magnesiae coagulate
"prendete l’argento vivo, e coagulatelo nel corpo della magnesia". (12)
Dove si vede che lo Spirito Universale è chiamato Argento Vivo, o Mercurio, con un simbolismo che si riferisce tra l’altro al
ruolo sostenuto da questo dio nella mitologia antica. (13)
Nel XVII e XVIII secolo il dibattito su quello che avrebbe potuto essere il "magnete" migliore, occupò a lungo gli studiosi. Non vi
è personaggio del mondo intellettuale dell’epoca che non sia intervenuto nella discussione. Dato che un assunto che allora
153
sembrava ovvio, era che "il simile è attratto dal simile", il corpo che ricevette il maggior numero di consensi fu senza dubbio il
salnitro, non appena i chimici scoprirono la sua estrema diffusione in natura. Uno dei più accesi sostenitori di questa tesi fu il Glauber. Nel terzo capitolo della prima parte della Prosperitas Germaniae…, afferma: Superest ut confirmemus, quod nitrum non modo in
Vegetabilium, et Animalium subjectis copiosissime lateat, sed etiam ex lapidibus, scopulis rupibus, montiumque cavernis, ac in plurimis aliis locis ex plano campo
effodiatur et paretur….
"Ci resta da confermare che il nitro non solo si cela abbondantissimo nei soggetti dei Vegetali e degli Animali, ma si
ricava e appare anche dalle pietre, rocce, rupi, caverne dei monti e in molti altri luoghi della pianura.". (14)
Il Glauber ne traeva una conclusione che ci sembra un po’ troppo spagirica, ma che era senza dubbio influenzata dalla
constatazione che il salnitro si forma spontaneamente nei luoghi umidi e oscuri come s e fosse unna coagulazione spontanea
dell’aria. Vale comunque la pena di leggerla.
….Siquidem hactenus intelleximus ab omnibus rebus, herbis nimirum, lignis, quadrupedibus et reptilibus animalibus, avibus in aere et piscibus in aquis, imo
ab ipsis elementis terra, acqua, aere et igne, nitrum sive Salempetrae suppleditari, consequens est ut sit Spiritus ille Universalis tam decantatus, sine
quo nihil nec vivere nec esse potest.
"Se dunque sin qui abbiamo compreso che il nitro o Salnitro abbonda in tutte le cose, nelle erbe certo, negli alberi, negli
animali, nell’aria e nei pesci nelle acque, anzi negli stessi elementi terra, acqua, aria e fuoco, ne consegue che sia quello
spirito Universale tanto decantato senza il quale nulla può vivere o essere"
Più corrette filosoficamente, seppure ancora ferme ad un punto di vista strettamente spagirico, le considerazioni del
Grimaldy che nota:
"Il sal Nitro è un magnete che attira senza posa un sale simile dall’aria, che lo rende fecondo e vivificante….. Questa unione del superiore e dell’inferiore non è una fantasia. ….Ammettendo che tutto ciò che i filosofi dicono di sublime nei riguardi del Nitro sia
vero, bisogna nel contempo ammettere che essi intendono parlare di un Nitro Aereo, che è attirato come sale più bianco
della neve per la forza dei raggi del sole e della luna da un magnete che attira lo spirito invisibile; quella è la magnesia dei filosofi. E l’agente con cui si compongono il loro dissolvente, o mercurio filosofico, che apre il misto sino nel suo centro". (15)
Un confronto don un passo di un autentico adepto dimostra quanto fosse vicino il Grimaldyalla dottrina corretta:
"…Ma quando (l’oro dei saggi) perfettamente calcinato ed 154
esaltato sino alla purezza ed alla bianchezza della neve ha acquisito grazie al magistero una simpatia naturale con l’oro
astrale, di cui è diventato visibilmente il vero magnete, egli attira e concentra i se stesso una così grande quantità di oro astrale e di particelle solari, che riceve dall’emanazione continua che se
ne fa dal centro del Sole e della Luna, che si trova nella disposizione prossima ad essere l’oro vivente dei Filosofi…". (16)
Si sperimentò comunque con vari altri sali, alcuni dei quali sono poi finiti nella farmacopea normale e vi si trovano ancora.
Non dobbiamo qui dimenticare il grande rivale del salnitro, il Tartaro di vino, anzi il cosiddetto sale fisso che se ne estraeva
per calcinazione e lisciviazione (da non confondere con il cremore di tartaro). Questo sale aveva dalla sua due argomenti interessanti. In primo luogo esso derivava dal vino, e dunque da
una bevanda considerata una forma di quintessenza solare naturale. In secondo luogo esso aveva la proprietà di dissolversi
naturalmente in olio, detto "olio di tartaro per deliquio", se lasciato in vaso aperto in luoghi umidi. Il che pareva dimostrare
una potenza di attrazione dall’aria (ricordiamo, per una annotazione un po’ frivola, che quest’olio era usato per lo più a
formare cosmetici che rendessero bella la pelle delle dame).
Di tutti questi tentativi racconta Filalete in un capitolo che nei suoi commenti suggerisce l’unica via che conduca correttamente
al vero magnete, e in cui tra l’altro dice che alla fine i Filosofi:
….salia cuncta repudiarunt, UNO SALE excepto, qui est Salium Ens primum, qui quodvis metallum dissolvit, eademque opera mercurium coagulat; at hoc non
nisi via violenta"
"…ripudiarono tutti i sali, eccettuato UN SOLO SALE che è il primo Ente di tutti i sali, che dissolve qualsiasi metallo, e nelle
medesima operazione coagula il Mercurio; ma ciò non se non per una via violenta". (17)
Più originale, l’Orthelius, nel suo commento al testo del Cosmopolita, ci insegna un metodo nuovo. E’ nel quinto capitolo,
intitolato "Dell’attrazione dell’acqua aerea…". Si tratta di un curioso strumento di cui si dà il disegno, che posto ad una finestra, di
notte, attira lo spirito e lo coagula grazie ad una notevole differenza di temperatura creata tra la cima ed il fondo, e lo fa
defluire in un vaso sottostante, dove giunge sotto forma di acqua freddissima. (18)
Il misterioso alchimista però non dà evidentemente tutti i particolari dello strumento, peraltro interessante. I curiosi potranno trovare delle aggiunte utili nel
testo postumo del Grimaldy, che descrive qualcosa di analogo in un capitolo intitolato "Preparazione della terra vitriolica o del magnete astrale", dove
l’autore afferma tra l’altro che "…dopo un certo tempo si avranno più di due pinte di spirito universale…". (19)
155
Non possiamo terminare questo studio, senza ricordare l’uomo che per primo portò nella scienza profana il concetto, sino a quel momento solo ermetico, dell’azione a distanza.
Stiamo evidente mente parlando di Isaac Newton, di cui probabilmente non è noto che si dedicò per la maggior parte
della vita allo studio ed alla pratica alchemica. Anzi, la mole degli scritti e diari di laboratorio alchemici del grande scienziato non lasciano dubbi sul fatto che fu proprio l’alchimia ad occupare la
parte più importante del suo tempo e delle sue energie. (20)
Questi manoscritti sono stati salvati da John Mainard Keynes. Anche il grande economista aveva degli interessi meno noti. Essi attendono ancora uno studio completo che ci faccia pienamente comprendere ciò che si nasconde dietro alcune grandi intuizioni newtoniane. A questo proposito ricordiamo qui un'affermazione
del Keynes che ci trova affatto concordi:
"Newton non era il primo del secolo della Ragione, era l’ultimo del secolo dei Maghi, l’ultimo dei Babilonesi e dei Sumeri,
l’ultimo grande spirito che penetrava il mondo del visibile e dello spirito con gli stessi occhi di coloro che incominciarono a
edificare il nostro patrimonio intellettuale un po’ meno di 10.000 anni fa". (21)
La ricerca alchemica di Newton, per quello che Abbiamo potuto veder delle sue note, lo condusse su di una strada diversa
da quelle che abbiamo descritto sin qui. Egli aveva visto nel regolo di antimonio marziale, come si chiamava allora il metallo
ottenuto dalla reazione tra il ferro e il solfuro di antimonio naturale, o stibina, qualcosa che lo aveva profondamente
impressionato. In effetti il regolo, se ottenuto correttamente, nel solidificarsi crea in superficie una figura stellata formata da unna
serie di linee convergenti verso un punto centrale. Egli ne dedusse che si trattava di un fenomeno attrattivo naturale.
Abbiamo in proposito un passo del testo del Cosmopolita con una nota manoscritta di Newton, che vale la pena di leggere per
intero.156
Precede la citazione, tratta dal nono capitolo del Novum Lumen:
"Est & aliud chalybs, aui assimilatu huic, per se à natura creatus, qui scit ex radiis solis (mirabili vi & virtute) elicere illud quod tot homines quaesiverunt, &
operis nostri principium est".
Cui segue la nota di Newton:
Iste aliud (& proprie dictus) Chalibis est antimonium nam per se creatura (sine arte) creatur & est operis principium; nec plura sunt quam duo principia,
Plumbum et Antimonium
Li traduciamo nell’ordine:
"Vi è anche un altro acciaio che si assimila a questo, creato per sé dalla natura, che sa estrarre dai raggi del Sole, con
mirabile forza e virtù) ciò che tanti uomini cercarono, e che è il principio della nostra opera".
"Quest’altro acciaio (così giustamente chiamato) è l’antimonio; infatti è creato naturalmente da se stesso (senza
artificio) ed è l’inizio dell’opera; e non vi sono più che due principi, il Piombo e l’Antimonio".
Che il teorico dell’attrazione universale "a distanza" abbia tratto proprio dai suoi studi ed esperimenti alchemici tanto da
rivoluzionare la scienza profana, è un dubbio che a questo punto spero appaia ragionevole. Sembrerebbe che sia bastato u leggero vento di saggezza spirante dagli antichi templi di
Heliopolis, perché l’uomo si inorgoglisse potente sulla natura. La conclusione è certamente tale da indurci ancora e sempre alla
massima prudenza. Fu nel giorno che gli ortodossi dedicano alla Metamorfosi, nel 1945, che l’uomo si è illuso di avere compiuto davanti al mondo la Grande Opera, recitando, blasfemo, versetti
sacri della più antica tradizione. Ma questo risultato era stato ottenuto
PER ARTEM DIABOLICAM
Note:
(1) E’ migliore l’edizione francese del 1757 per le utilissime note aggiunte da Baron, Dottore in Medicina dell’Accademia Reale.
(2) Questa e le altre citazioni delle opere di Guglielmo sono tratte da T Gregory Anima Mundi Sansoni, Firenze 1955. La traduzione, come le altre che seguono,
sono dell’autore dell’articolo.
(3) Guglielmo di Conches non fu l’unico ad identificare l’Anima del Mondo con lo Spirito Santo. Il più illustre sostenitore di questa dottrina sembrerebbe sia stato Abelardo. Contro questa tesi si ersero Guglielmo di Saint-Thierry e Bernardo di
Clairvaux. Abelardo fu infine condannato nel concilio di Sens per 19 proposizioni 157
giudicate eretiche: la terza era: Quod Spiritus Sanctus sit Anima Mundi.
(4) Jean D’Espagnet "…Enchiridion scilicet Physicae restitutae, in quo Verus Naturae concentus exponitur plurimique antiquae Philosophiae errores per
canones & certas demonstrationes dilucidé aperiuntur…." In J. Jacobi Mangeti Biblioteca Chemica curiosa seu Rerum ad Alchemiam pertinentium
Thesaurus…..Genevae MDCCII, libri III, sect. III, subsect IIII. Il nome dell’autore è celato nell’anagramma "Spes mea est in agno".
(5) Clovis Hesteau de Nuysement Les vision hermetiques et autres poèmes alchimiques suivis des Traictez du vrai sel secret des Philosophes et de l’Esprit General du monde. Texte annoté
et presenté par Silvain Matton, Paris 1974.
(6) Novum Lumen Chemicum ex Naturae Fonte et manuali Experientia depromptum Cui Accessit Tractatus De Sulphure,
Auctoris anagramma Divi Leschi Genus Amo. In Musaeum Hermeticum Reformatum et Amplificatum. Francofurti, apud
Hermannum à Sande MDCLXXVII, PAG 545. Il motto nasconde il nome Michael Sendivogius, ma il testo del Novum Lumen è senza dubbio da attribuirsi al maestro di questi. L’Adepto
Cosmopolita, identificato con lo scozzese Alexander Sethon. In effetti, come nota E. Canseliet, l’anagramma si riferisce al
secondo trattato.
(7) Nuysement, Op.cit.. Poeme Philosophique de la verite de la Phisique Mineralle, vv. 237-38
(8) Margarete Riemschneider Miti pagani e miti cristiani, Rusconi edit. Milano 1973
(9) Revelations Cabalitiques d’une Medecine Universelle tirée du Vin. Avec une manière d’extraire le sel de rosée. Et une
dissertation sur les Lampes sepulchrales. Par le Sieur Gosset, Medecin. A Amiens . Aux dépens de l’Auteur. Avec Privilege du
Roi MDCCXXV
(10) L’Alchimie et son Livre Muet (Mutus Liber). Reimpression integrale de l’edition originale de la Rochelle 1677. Introduction
et commentaires par Eugéne Canseliet F.C.H. disciple de Fulcanelli. Editions Suger 1986.
(11) Limojon de Saint-Didier Le Triomphe Hermetique, Introduction et notes d’Eugene Canseliet. Denoel, Paris 1971
pag. 164
(12) Turba Philosophorum ex antiquo manuscripto codice excerpta, qualis nulla hactenus visa est editio in Theatrum
Chemicum, Volumen Quintum, Argentorati M.DC L.X.
(13) Vedi per esempio l’Epoistola LV et ultima dell’ Apographum hactenus ineditarum M. Sendivogii, seu I.I.D.I.
Cosmopolitae vulgo dicti in B. B. C. lib. III, sect. II, subesct. XI, da 158
dove estraiamo questo passo molto chiaro: Secundum homonimiam noster spiritus universalis antequam in magnesia nostra quam subjectum ipsius vocamus, receptus sito vocatur
Mercurius Philosophorum… " Per omonimia il nostro spirito universale, prima di essere stato raccolto nella nostra magnesia, che chiamiamo suo soggetto, si chiama Mercurio dei Filosofi….".
(14) Prosperitas Germaniae, pars prima in quâm de vini, frumenti et lignii concentratione, eorundemque utiliore quam
hactenus usu agitur….Germanice in lucem edita a Johanne Rudolpho Galubero et a philochimico quodam latinitate donata.
Amstelodami apud Johannem Janssonium. M.DC..LVI cum privilegio
(15) Oeuvres Posthumes de M. de Grimaldy, premier medecin du Roy de Sardaigne, & chef de l’Université de Medecine de Chambery….a Paris chez Durand, rue Sant Jaques au Grifon
M.DC.XLV Avec approbation & privilege du Roi
(16) Limojon. Op cit. pag. 166
(17) Introitus apertus ad Occlusum Regio Palatium, Authore Anonimo Philaleta Phiosopho. Cap. XI "De inventione perfecti
Magisterii" in B. C. C. lib III, Sect. III, subsect IV.
(18) Orthelius Commentator in Novum Lumen Chymicum Michaelis Sendivogi Poloni, XII figuris in Germania repertis illustratum. Et anno 1624 in gratiam geminorum Hermetis
Filiorum publicis iuris factum. Num verò ex Germanica lingua in Latinam translatum in B.B. C. Lib. III Sect. II, Subsect. XI . Lo
strumento di cui si parla è rappresentato nella figura sexta e il suo uso nella figura quinta.
(19) Grimaldy, op. cit. pag. 218
(20) Per un approfondimento di quanto segue vedi: B. J Teeter Dobbs Les fondaments del l’Alchimie de Newton. Guy Tredaniel Edition de la Maisnie, Paris 1981 da cui abbiamo tratto la nota al
brano del Cosmopolita.
(21) John Mynard Keynes: Newton the man in "The Royal Society Newton Tercentenary Celebrations", 1946 Cambridge
University Press.
Alchimia ed Ermetismo: I fondamenti teorici della filosofia ermetica / 2
159
IL METODOdi Paolo Lucarelli (saggista)
Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n° 15 (maggio 1987), pp. 18-23, riprodotto per gentile concessione dell'autore, che è proprietario dei diritti.
Riproduzione vietata.
La storia ed i principi teorici dell’alchimia spiegati e commentati da Paolo Lucarelli, insigne studioso di ermetismo, per molti anni allievo del maestro Eugéne Canseliet. In questo
secondo intervento l’autore parla del metodo dell’alchimia e della figura dell’alchimista, evidenziandone caratteristiche fondamentali e presupposti necessari.
L'alchimista e il suo laboratorio, olio di Thomas Wyck (1616-1677). L'evidente disordine del laboratorio tende a caratterizzare l'alchimista come uno studioso un pò pasticcione,
secondo un modello "scettico" già caro a Bruegel. In questo dipinto sono tuttavia presenti i due elementi che caratterizzano le fatiche dell'Arte alchemica: lo studio (i libri) e la
pratica (il fornello e gli altri attrezzi Saremo accusati di evidente contraddizione, ma dobbiamo
riconoscere che i Filosofi Ermetici non amano indulgere alla speculazione filosofica. Né manifestano inclinazione alcuna per
le teorie metafisiche.
Si usa oggi parlare di alchimia avendo letto qualche libro che ne tratta, mentre sembra vi sia una curiosa reticenza a studiare i
testi stessi dell’Ermetismo. Se qualcuno però avesse avuto, o avesse per il futuro, la pazienza e l’onestà di sfogliare almeno in piccola parte l’enorme patrimonio di scritti che gli antichi Maestri hanno lasciato, non potrebbe non notare come il fine sia sempre
ed unicamente stato quello di predisporre dei “Manuali di istruzione” per operare. L’Alchimista intende preparare la “Pietra
filosofale”. Egli sa che l’ottenimento del donum dei, del Dono di Dio, apre la porta, tra l’altro ad una completa e perfetta
conoscenza del mondo e delle sue leggi naturali. Egli sa che la Pietra completerà i doni tradizionali dei Re Magi, aggiungendo inevitabilmente all’oro della ricchezza materiale ed alla Mirra
dell’immortalità fisica, l’Incenso della sapienza innata. Dunque perché perdere tempo ed energie nell’immaginare ipotesi sterili
160
ed inutili sempre un po’ patetiche e meschine?
Un anonimo Adepto esorta: “Lapidem Philoosophorum intelligere curae sit vobis & fundamentum sanitatis vestrae, thesaurus divitiarum, notitiae
verae naturalis sapientiae, & certam naturae cognitionem eodem tempore adepti eris”.
“La vostra preoccupazione sia quella di capire la Pietra dei Filosofi, e nel contempo otterrete il fondamento della vostra salute, il deposito delle ricchezze, la nozione della vera sapienza naturale e la conoscenza certa della natura" (1). Definire dunque l'Ermetismo una Gnosi, come qualcuno ha fatto,
è un errore grossolano, a meno di non chiarire cosa si intenda (2)
Lo sapevano i Filosofi di Alessandria che non ebbero mai se non aspre polemiche con gli gnostici loro contemporanei.
In realtà il contrasto non consiste, come ancora qualcuno dice, nell'opporre una visione ottimista del mondo a chi vi scorga
gli effetti di un demiurgo malvagio: l'Ermetico non ha alcuna visione del mondo.
La vera differenza è più profonda e più radicale.
L’alchimista non ritiene che esista un Conoscenza Salvifica.
Egli sa che la Salvezza, se proprio vogliamo servirci di questo termine abusato, proviene dalla materia, solo dalla materia. A
questa chiede l'unico aiuto, nei limiti in cui gli è concesso ottenerlo, nel momento e nel modo misteriosissimo in cui lo
potrà ottenere.
Il Re alchemico
161
Dice Pao-p'u-tzù, il grande alchimista cinese: ,'. .. per ottenere lunga vita (l'immortalità) è assolutamente necessario ingerire della medicina. ..'.
(3)
Il resto, aggiungiamo noi, è inessenziale.
Si è detto giustamente che questa strana forma di gnosi “ ...non si formula, si realizza: si tratta evidentemente di un 'Opera, e non di una
dialettica filosofica. ..”, (4) . Distingue Pao-p'u-tzù: “Uno hsien è un saggio che trova il tao mentre in genere un saggio ( shing) è uno che ha un certo
potere nel mondo. Uno 'hsien' è nato per essere 'hsien' e un saggio è nato per essere saggio” (5) .
Per lo stesso motivo l'alchimista è ben poco interessato a tutte quelle pratiche, mentali, spirituali o fisiche, che varie
tradizioni ci propongono, dall'India alla tundra siberiana, per perfezionare il piccolo uomo che siamo, e condurlo a più o meno
elevati “stati di perfezione”.
Vogliamo essere molto chiari, e ci sforzeremo di farlo con un esempio. Un bruco che voglia e possa diventare grillo, non è in alcun modo curioso di ciò che pensano i bruchi, e men che mai aspira a diventare un bruco perfetto e meraviglioso, un bruco
'saggio', o 'guru', o 'metafisico' o 'santo' o comunque lo si voglia chiamare.
In realtà, l'unico suo obiettivo è smettere di essere bruco, e diventare grillo. Questo gli riuscirà a condizione di esservi
destinato, e di fare certe cose nel modo e nel momento giusto, Quanto a chi è già diventato “grillo”, o è sulla strada buona per arrivarvi, questi trasmetterà “istruzioni precise” sulle modalità operative, ma non si vede perché dovrebbe sprecare il proprio
tempo, e quello di chi legge, per inutili rivelazioni.
Non avere ben chiaro questo obiettivo, conduce inevitabilmente ad uno stravolgimento nella comprensione degli insegnamenti ermetici. E questo un atteggiarsi della mente, un
modo di vedere, una struttura di categorie nuove, di agile duttilità, che deve necessariamente modellare lo spirito di chi si
proponga questa ricerca.
Si è detto, giustamente, che per i più la storia del seme di, grano che muore nella terra per fruttificare è una raffigurazione di Cristo. Sorridendo il curioso alchimista legge, nella vicenda di Cristo, la rappresentazione allegorica delle avventure del seme
di grano. (6)
Chi non incominci a “vedere” in questo senso, come direbbe Artefio, “non è della nostra setta”.
Se dunque troveremo nei testi classici di Adepti indiscussi e consacrati dalla tradizione dei passi, o dei lunghi capitoli,
dedicati a speculazioni metafisiche, descrizioni cosmologiche o 162
cosmogoniche, allegorie mistiche, divagazioni curiose o fiabesche, dobbiamo dare per certo che o sono di nessun valore,
interpolati proprio per ingannare il profano, o piuttosto, ed è il caso più comune, descrizioni tecniche di operazioni di laboratorio, istruzioni sui punti più segreti dell' Arte.
Urtiamo qui contro il metodo stesso dell'insegnamento e del simbolismo alchemico, che vuole essere il più concreto possibile,
mentre negli ultimi secoli gli uomini sembra siano diventati preda di una curiosa smania di astrattezza che li rende incapaci
di apprezzare le 'cose' della materia. Perso nel magma pericoloso e ribollente del mentale. L'uomo contemporaneo si è staccato progressivamente dalla Natura, ed ha ridotto il proprio spazio fisico ad una corporeità ludica e sessuale che deforma le
sue facoltà percettive.
Lo 'stile' alchemico richiama piuttosto quella antica concreta lingua delle origini, di cui pare solo la Cina abbia in qualche
modo conservato lo spirito.
Traduciamo qui dei passi di un eminente sinologo, che possono adattarsi a qualsiasi autentico autore ermetico (7)
Leggendo si sostituisca opportunamente “alchimia” o “alchimista” a “cinese”:
"La parola, in cinese, è ben altro da un segno che serva a
notare un concetto. Non corrisponde ad una nozione di cui si voglia fissare, nel modo
più definito possibile, il grado di astrazione e di generalità, Esso
evoca, facendo dapprima apparire la più attiva tra quelle,
un complesso indefinito di immagini particolari '.
"Il Cinese, quando si esprime, sembra preoccupato di essere
efficace, più che non obbedire a dei bisogni di ordine
strettamente intellettuale”.
"Il pensiero si propaga (piuttosto che trasmettersi)
dall'autore al lettore ( diciamo piuttosto dal maestro al
discepolo; diciamo meglio: dal capo al fedele) senza che si risparmi a quest’ ultimo la minima economia di sforzi,
senza, d'altra parte, lasciargli la
Ritratto fantastico di Nicolas Flamel al lavoro nel suo
laboratorio (litografia del XIX sec.). Tra tutti i personaggi
proposti dalla storia dell'alchimia, Flamel è stato probabilmente
quello che ha goduto maggiore popolarità: la sua vicenda, così
come viene narrata dalla tradizione, è un inestricabile miscuglio di fatti storici ed
163
minima facilità d'evasione. Non è chiamato ad accettare le
idee, nel loro dettaglio e nel loro sistema, dopo essere stato
ammesso a controllarle analiticamente. Dominato da una suggestione globale, si
trova 'catturato' di colpo da un intero sistema di nozioni”.
elementi fantastici che nell'insieme esercita un indiscutibile fascino.
"Il primo obiettivo. ... è quello di far scivolare in un cumulo di formule ricche di sollecitazioni neutre e pressanti una locuzione
o un verbo agente, di cui l'uomo comune non merita di indovinare la forza precisa e i sottintesi. ..lo scrittore, i suoi esegeti e i suoi editori se possono consentire a segnalare le
parole attive e le locuzioni dominanti, si vieteranno di indicare i movimenti di dettaglio e le articolazioni segrete del pensiero.
Questo, nella sua piena ricchezza, sarà comunicato a quel solo lettore che, se il suo spirito si risveglia al segnale potente e
furtivo che una formula o un verbo gli avranno fatto intendere, potrà, con uno sforzo comparabile a quello di un adepto che cerca l'iniziazione, penetrare l'essenza ritmica della frase”.
Daremo un esempio su una pagina di Fulcanelli, che traduciamo mantenendo i corsivi dell'originale:
«ARIANE (Arianna) è una forma di AIRAGNE (ragno) per metatesi della i. In spagnolo ñ si pronuncia 'gn'; aracne (ragno)
si può dunque leggere arahni, arahni, arahgne. La nostra anima
non è forse il ragno che tesse il nostro stesso corpo? Ma questa parola richiama anche altre forme. Il verbo airo significa prendere, impadronirsi, allettare, attirare; da cui airhn, ciò che prende,
si impadronisce, attira.
Dunque airen è il magnete, la virtù racchiusa nel corpo che i Saggi chiamano la loro magnesia. Proseguiamo. In provenzale chiamano il ferro aran e iran, a seconda dei diversi dialetti. È l' Hiram massonico, l'Ariete divino, l'architetto del Tempio di Salomone.
Il ragno, presso i felibri, è detto aragno e iragno, airagno; in piccardo arègni. Accostate tutto ciò al greco Sideros, ferro e
magnete; Questa parola ha entrambi i sensi. Non è tutto. Il verbo aruw esprime il levarsi di un astro che nasce dal mare: da cui aruan ( aryan ) , l' astro che nasce dal mare, si leva, dove ariane è dunque l'Oriente per permutazione vocalica. Per di più aruo possiede anche il senso di attirare; dunque aruan è anche il
magnete. Se ora noi accostiamo Sideros, che ha dato il latino sidus, sideris, stella, riconosceremo il nostro aran, iran, airan provenzale,
l'aruan greco, il sollevante' (8)
Qui le parole 'attive' sono: anima, magnete, ferro, stella, sole, cui va aggiunta “rete da pesca” suggerita dalla tela di ragno.
Si è descritta l'estrazione del solfo dalla sua prigione, lo 164
strumento necessario, il fenomeno che
assicura della buona riuscita dell'operazione, il risultato finale.
Non vorremmo, a questo punto, aver dato l'impressione che non si richieda all'artista alcuna qualità.
Certamente gli autori, da Geber al Cosmopolita, sono troppo chiari perché possano sussistere dubbi sulla necessità di certe
condizioni.
La prima è detta molto semplicemente da Pao-p’u-tzu: “…dunque diventare hsien dipende dal destino…” (9)
Geber si dilunga sugli “impedimenti” più comuni. Vale la pena di citare i più importanti. Vi sono quelli da parte del Corpo “ex
parte Corporis”.
“Dicimus igitur, queo si no habuerit sua completa organa, noin poterit ad huius operis complementum pervenire, velut si coecus fuerit, vel in extremis
detruncatus…” (10) .
“Diciamo dunque che se non avrà organi completi, non potrà giungere al compimento di quest’opera, o se sarà cieco o tronco
delle estremità….”
Più numerosi quelli da parte dell’Anima, “ex parte Animae”.
“Dicimus igitur, quod qui non habuerit ingenium naturale, & animam persctrutantem subtiliter principia naturalia, & naturae fondamenta….non
inveniet hujus scientiae preciosissimae veram radicem….Etiam multi invenimus, animam habere facilem opinantem fantasiam quamlibet. Sed quod credunt verum invenisse, fantasticum est totum, rationi devium, & errore plenum, & remotum a
principiis naturalibus, quondam eorum cerebrum, multuis repletum fumositatibus, non potest recidere veram rerum naturalium intentionem….Et sunt alii servi pecuniae, qui desiderantes hanc scientiam, mirabilem ipsam affirmant veram, sed ipsa dispendia interponere timent. Ideoque licet ipsam affirmet, &
secundum rationem ipsam investigent, tamen ad operis experientiam non perveniunt, propter pecuniae avaritiam. Ad hos igitur non pervenit scientia
nostra” . (11)
“Diciamo pertanto che se non avrà ingegno naturale e una mente che scruti sottilmente i principi naturali e i fondamenti
della natura…non troverà la vera radice di questa preziosissima scienza…Inoltre ne abbiamo trovati molti che hanno una mente che crede facilmente a qualsiasi fantasia. Ma il vero che credono di aver trovato è affatto fantastico, aberrante, pieno di errore e
lontanissimo dai principi naturali, poiché il loro cervello, colmo di molte fumosità, non può accogliere il vero intento delle cose naturali…. Altri ancora sono schiavi del denaro: desiderano
questa scienza, affermano che essa è meravigliosa e vera, ma temono le spese. Pertanto, sebbene ne siano convinti, e la
indaghino correttamente, tuttavia non giungono all’esperienza dell’opera per avarizia di denaro…Pertanto a questi non giunge
165
la nostra scienza”.
L'aspetto mistico dell'alchimia: l'alchimista nelle vesti di sacerdote
orientale trionfa sul drago (la materia) e regge nella mano destra tre rose
(simbolo della raggiunta perfezione). L'illustrazione è tratta dallo Zoroaster, manoscritto ermetico del XVII secolo.
Non ci si stupisca dell’accenno al danaro.
Secondo la tradizione solo gli ignoranti o presuntuosi possono pensare che
l’alchimia sia praticabile dai poveri. Non si richiede certo una ricchezza spropositata, ma i materiali, il laboratorio, gli anni di studio, i testi, tutto ciò comporta una ragionevole
agiatezza.
Infatti dice Geber, parlando degli impedimenti che
sopraggiungono fortuitamente “fortuito casu
supervenientibus”.
“Vidimus ergo quondam astutos et ingeniosos, minime ignorantes opera
naturae, & ipsam…sequentes principiis…Hi tamen ultima
paupertate depressi, ex dispensatione indigentia, hoc tam
escellentissimum magisterium coguntur postponere.” (12) .
“Abbiamo poi visto alcuni abili ed ingegnosi, che non ignoravano l’opera della natura, e la seguivano…nei principi…
Questi tuttavia, ridotti in estrema povertà, per mancanza di denaro, sono costretti a rinunciare a tanto eccellentissimo
magistero”
Non necessita alla via alchemica alcuna pratica di vita ascetico-monastica, né altre regole o ritmi, se non quelli dettati
dal laboratorio. Molti Adepti ebbero vita pubblica intensa e fortunata, altri preferirono una sorte oscura e misteriosa.
Qui vale quanto dice Pao-p’u-tzu:
“La ricerca dell’immortalità non è complicata. Basta fare alcune cose, l’unico problema è che (quasi sempre) la volontà non è ferma e la fede non è confermata. Perché mai trascurare gli interessi umani? Il vero competente riesce senza difficoltà a
occuparsi degli affari e della immortalità. Mentre in provato osserva rigorosamente la via dello “yang shêng”, pubblicamente
è impegnato negli affari mondani. In tal modo raggiunge una grande perfezione, perché è tenuto a controllarsi…. Una tale persona è eccellente. Se si riconosce viceversa di non avere
forze sufficienti per dedicarsi alle cose del mondo e all’immortalità, si tralasciano quelle e ci si dedica al tao tè (la via
166
della verità); chi fa così ha un grado di eccellenza minore”.
Cosmopolita aggiunge preziosi consigli nell’atteggiarsi morale, che non vanno trascurati:
“SCRUTATORES Naturae tales esse debent quelis est ipsa Natura, veraces, simplices, patientes, constantes &c. & quod maximum, pii, Deum timentes,
proximo non nocentes… (13)
“…Gli INDAGATORI della Natura devono essere tali quale è la stessa natura, veritieri, semplici, pazienti, costanti, etc.; e
specialmente, pii, timorosi di Dio, che non nuociano al prossimo…”.
La Natura, che richiama qui Cosmopolita e prima Geber e gli altri, questa Natura non è, è bene sottolinearlo, quella smorta
figura tra il bucolico e l’evasione estiva di un “club” marino, che si immagina l’uomo contemporaneo, vittima dei suoi stessi
incubi.
La cantava nel XII secolo, con note ancora robuste e pregnanti, Alano di Lilla nel De Planctu Naturae, il Lamento della
Natura.
O dei proles, genitrixque rerum,Vinculum mundi, stabilisque nexus,Gemma terrenis, speculum caducis
Lucifer orbis.
Pax, amor, virus, regimen, potestas,Ordo, lex finis, via, dux, origo,
Vita, lux, splendor, species, figura,Regula mundi.
O prole di Dio, genitrice delle cose,Legame del mondo, stabile nesso,
Gemma ai terreni, specchio ai mortali,Lucifero agli orbi
Pace, amore, virtù, regime, possanza,Ordine, legge, fine, via, duce, origine,Vita, luce, splendore, specie, figura,
Regola del mondo.
Spiegava Ermanno di Corinzia: “(Naturam) eodem nomine vocare possumus, quo Plato significans mundi animam vocat”, “Possiamo chiamare (la Natura) col medesimo nome che Platone
chiaramente attribuisce all’anima del mondo”.
Si capisce dunque che il suggerimento degli Adepti di “seguire la Natura” non sia né teorico né astratto. Il consiglio però prevede, per una effettiva attuazione, un incontro e una
manifestazione. Soltanto dopo che la Diana nuda e splendente si 167
sia palesata in tutta la sua deliziosa venustà all’Artista meravigliato, questi potrà “bruciare i libri” per seguire la Maestra
infallibile, destinata da sempre a guidarlo sulla Via.
Allora, vero cavaliere errante, immerso nell’unica autentica “questa”, avendo ucciso e decapitato il drago, avendo conquistato la terribile benevolenza della
“Dame sans mercy”, egli dovrà sottostare alla condizione più alta e più importante: mantenersi, in tutta umiltà, sempre e costantemente fedele d’amore.
Due simboli tipici dell'alchimia: il "globo crucifero" e il serpente crocifisso riuniti in un'unica immagine tratta dallo Zoroaster, un manoscritto ermetico del XVII secolo
Note:
(1) Lux Obnubilata Suaptè Natura Refulgens, cera de Lapide Philosophico Theorica, metro italico descripta, et ab auctore Innominato Commenti gratia ampliata. Venetiis MDCLXVI, apud Alexandrum Zatta, Superiorum Permissu &
Privil. Proemium
(2) Vedi ad es. Festigière: La révélation d'Hermes Trismégiste, Les Belles Lettres, Paris 1981. Testo affatto insopportabile nella sua
deformante presunzione cattolica, tuttavia ricco di notizie utili. Più corretto, pur in estrema sintesi, quanto scritto in H. C. Puech Storia
delle religioni , tomo secondo, Laterza 1977.
(3) Pao-P'u-tzù: Nei P'ien, I capitoli delle interiorità in Conoscenza Religiosa , 1976, n°3
(4) R. A. Schwaller De Lubicz, Le miracle Egiptien, Flammarion 1963
(5) Op. cit. Noi tradurremo semplicemente "hsien" con
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"adepto"
(6) Michel Butor, Révue Critique, Ottobre 1953, citato in Claude D'Igé, Nouvelle Assembée des Philosophes Chymiques,
Dervy livres 1972
(7) Marcel Granet, La pensée chinoise , Albin Michel, Paris 1968
(8) Fulcanelli, Le Mystère des Cathédrales et l'interprétation ésotérique des symboles hermétiques du Gran Oeuvre, A Paris,
chez J.J. Pauvert 1964, pag. 63
(9) Op. Cit.
(10) Gebri regis arabum Philosophi perspicacissimi SUMMA PERFECTIONIS MAGISTERII IN SUA NATURA, ex bibliothecae
Vaticanae exemplari undecumque emendatissimo edita cum vera genuinaque delineatione vasorum & Fornacum. In J. J.
Mangeti, Bibliotheca Chemica Curiosa, Tomus Primus, lib. II, sect. II, subsect IV, Liber primus, cap. II
(11) Ibid. cap. III
(12) Ibid. cap. IV
(13) Novum Lumen Chemicum e Naturae Fonte et Manuali Experientia depromptum, cui accessit Tractatus de Sulphure,
Auctoris Anagramma DIVI LESCHI GENUS AMO: tractatus primus. In Musaeum Hermeticum Reformatum et
Amplificatum...continens Tractatus Chimicos XXI, Francofurti, apud Hermannum à Sande, MDCLXXVIII
LA PIETRA, IL BELZUAR E LA POLVERE: QUALCHE STORIA ITALIANA DI ALCHIMISTI, PRINCIPI E TRUFFATORI NELL’ITALIA DEL XVII SECOLO.
Massimo Marra - saggista
169
Joseph Wright of Derby (1734-97), L'Alchimista scopre il fosforo cercando la Pietra Filosofale.Il sogno della trasmutazione del piombo in oro attraverso la pietra filosofale, la
guarigione da tutte le malattie per mezzo dell’elisir di lunga vita, non furono sempre le metafore simboliche del raggiungimento della realizzazione spirituale promessa dall’alchimia, ma costituirono spesso terreno fertile per le attività di
speculatori, ciarlatani ed imbroglioni. Le vittime di questi raggiri, al contrario di quanto si pensa abitualmente, non erano solo villani incolti o sempliciotti, ma
talvolta anche principi, potenti e persone di cultura. I truffatori, dal canto loro, erano spesso personaggi dotati di fantasia, cultura ed abilità fuori dal comune.
(*)Non era certamente uno sprovveduto il principe Federico
Cesi.
A diciotto anni, con un pugno di compagni (lo Stelluti, l’Ecchio ed il Del Filiis) fonda l’Accademia dei Lincei, progetto di
incredibile ricchezza culturale che lo accompagnerà, pur tra tragedie personali e difficoltà di ogni sorta, per tutta la vita. In corrispondenza ed amicizia con le maggiori menti del tempo
(Della Porta, Campanella, Galilei, Imperato, Stigliola, Colonna, Schreck e molti altri) sotto l’ala del Cesi si svilupperà una delle più interessanti avventure intellettuali della storia occidentale.
Che il principe fosse assai diffidente per le misteriose abilità alchimistiche di una sempre nutrita schiera di presunti maestri
170
dell’Arte ed imbroglioni di ogni risma, non vi è il minimo dubbio. Del resto, che egli fosse in grado di difendersi dall’abilità di
cialtroni di ogni risma, lo si può dedurre anche solo a partire dai suoi intensi contatti con intellettuali come quelli citati (e, particolarmente, con il gruppo dei napoletani, Della Porta,
Imperato e Stigliola, tutti studiosi di alchimia). Né, d’altro canto, nei lincei romani mancava un non trascurabile interesse per la
misteriosa scienza delle trasmutazioni.
Da Napoli, Fabio Colonna, in una lettera del 1628, non si esimeva dal mettere in guardia l’amico linceo Stelluti intorno ad
una esperienza di trasmutazione avvenuta in presenza di Giovanni Faber, ed in cui, più che miracoli alchemici, egli
sospettava che vi avesse parte gioco de mano. E della sensibilità del Faber per gli studi alchemici abbiamo una testimonianza datata oltre tre anni prima (22 Marzo 1625) in una lettera di
invito del naturalista romano al Principe Cesi: “…se domani doppo pranzo torna commodo a V.Ecc.za potremo andare a vedere il fumo philosophico
che hanno messo su questi giovani; dove fu hieri sera anche Mgr. Ciampoli nostro con molti altri gentilhuomini, et io già diverse volte vi ho condotto il fiore
d’alchimisti di Roma…”.
Ma già tredici anni prima (in una missiva datata 16 Dicembre 1612) il Della Porta si peritava di informare il Cesi intorno a studi
analoghi: “…Sto occupato né magiori affari che fusse mai. Qui in Napoli si lavora in più luoghi il lapis, e già in poco tempo s’è arrivato a far una sopra
cinque in pochi giorni, et io ne sono quasi consapevole del tutto; so, questo può colmarmi di felicità per esser gionto a tanta altezza di secreti che spero non vi
giongerà alcuno….”
Pur essendo dunque ben presente tra i Lincei l’interesse per la pietra filosofale, il Cesi, tuttavia, se si mostrava assai
interessato ed aperto intorno all’alchimia spagirica e distillatoria, per quanto riguardava la trasmutazione metallica doveva essere
molto attento nel filtrare informazioni e dimostrazioni provenienti da fonti a lui non ben conosciute. Di tale diffidenza, abbiamo testimonianza in una lettera del Winther, medico del principe, che, ospite nel palazzo di Acquasparta, il 27 Aprile
1624 scriveva al Faber: “….Circa la Chymica, intendo dal vecchio che il Sig. Principe non vuol sentir cosa de metalli o transmutationi, ma solamente
d’acque ordinarie, che in Germania sanno fare ancora le donnicciuole vecchiarelle; onde non so cosa che potrei veder di particolare…”.
Forse, il Cesi, in merito alle presunte trasmutazioni di cui si sentiva da più parti, aveva, come molti suoi contemporanei, in
mente ancora viva la storia dell’avventuriero cipriota Marco Bragadin.
Marco Mamugnà (era questo il vero nome del Bragadin) era arrivato a Venezia con la sua famiglia in una data imprecisata tra il 1545 ed il 1551, dopo la caduta di Cipro nelle mani dei turchi. Assunse il cognome Bragadin in onore dell’eroe della
repubblica Veneziana che aveva vittoriosamente guidato la città 171
contro gli odiati invasori turchi. Giovane, lo incontriamo al seguito di un Girolamo Scotto, abile prestigiatore e chiromante,
non scevro da interessi alchemici, da cui il Bragadin, probabilmente, apprende non poco.
Nel 1574, lascia Venezia ed approda a Firenze, dove incontra i favori di Bianca Capello, discendente di una ricca ed autorevole famiglia. Bianca Capello, che sarà più tardi moglie di Cosimo De
Medici, introduce il nostro avventuriero alla corte papale di Roma, mentre il Bragadin indossa l’abito cappuccino. Grazie alla Capello, il nostro alchimista conosce il cardinale Giulio Santori che lo presenta al papa Gregorio XII. Alla corte papale, dunque
pare il Bragadin abbia iniziato la sua attività di alchimista truffaldino, e sono proprio i due summenzionati prelati ad essere
vittime del suo ingegno.
Fuggito dal convento, intorno al 1585 abbandona l’Italia, e viaggia per Francia, Inghilterra e Fiandre, in una rocambolesca
sequenza di truffe alchemiche che coinvolgeranno ricchi e potenti ingenui, e che gli frutteranno ingenti somme di denaro.
Ritornato in Italia nel 1588, si stabilisce sul lago d’Iseo, ma viene ben presto raggiunto dagli emissari dell’Inquisizione che
vogliono catturarlo come ex-cappuccino fuggitivo. Salvatosi con una fuga notturna dalla finestra inizia un peregrinazione in vari
centri Italiani, circondato da una piccola corte che lo segue ovunque. Inizia la serie di dimostrazioni pubbliche (in genere davanti a ristrette cerchie di testimoni) con cui la sua fama si
accresce progressivamente fino a giungere alle orecchie dell’attento governo veneziano. Nel novembre 1589,
ufficialmente invitato dal governo della città, il Bragadin arriva a Venezia e si stabilisce nel bellissimo palazzo Dandolo messo a
disposizione dal Consiglio della Città.
Lo splendore e l’ostentazione di ori e danaro colpiscono la fantasia popolare, mentre la sua fama di alchimista in possesso
del segreto della trasmutazione e della medicina universale, attraversa l’Europa.
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Ritratto di Federico Cesi custodito presso l’Accademia dei Lincei a Roma (Palazzo Corsini).
Il bravo Mamugnà, garantisce i suoi servigi alla Serenissima, e, dimostrando buona volontà deposita la formula del suo oro, insieme ai campioni della sua polvere di proiezione, nella zecca
veneziana.
La zecca analizza i campioni d’oro provenienti dalle sue pubbliche trasmutazioni, e l’esito delle ripetute analisi è positivo. Quando il Governo veneziano chiede di stringere i tempi, però, il Bragadin temporeggia, e, a un certo punto, pressato dai debitori e osteggiato da una pubblica opinione che nota la progressiva
diminuzione del fasto e della magnificenza fino ad allora ostentati, il Bragadin si dà alla fuga, prima a Codevigo, presso i Cornaro, suoi amici e sostenitori, poi a Padova, e di lì, dopo aver
congedato il suo seguito, a Bassano ed Innsbruck, fino alla Baviera, dove il suo arrivo era stato evidentemente preparato
dall’agente veneziano del duca Guglielmo V di Baviera.
Qui, accolto con tutti gli onori, riprende il già sperimentato copione veneziano, ricominciando la fastosa ostentazione e le ingenti spese in costose attrezzature ed apparecchi alchemici. La sua corte si ricompone, e viene anche raggiunto dalla sua
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amante Laura Canova. Il tutto, naturalmente, a spese del duca Guglielmo. Già a Venezia egli aveva tentato, attraverso le sue
amicizie, di ottenere la dispensa dai voti per sposare la Canova, ora, forte della sua nuova posizione, riprende le trattative anche
dalla Baviera.
Ma le voci delle sue rocambolesche avventure non tardano ad arrivare all’orecchio del duca Guglielmo, e, sicuramente, ad
insidiare la sua posizione non dovettero mancare i nemici sia tra la nobiltà che tra il clero zelante e ben informato.
In tal modo, nel 1591, il Bragadin viene arrestato con l’accusa di truffa, nell’indifferenza totale del Duca Guglielmo,
probabilmente in virtù di sapienti macchinazioni dei gesuiti.
Il furbo alchimista truffatore rende una completa ed assoluta confessione, ed evita in questo modo la tortura: non sa’ nulla di come si possa fabbricare l’oro, tutte le sue dimostrazioni sono
truffe e giochi di mano di cui è pronto ad assumersi tutta la responsabilità.
Ma l’astuta mossa del pentimento e della confessione non lo salva dalla condanna, per intercessione del duca commutata
dalla forca ad una più pietosa decapitazione, eseguita pubblicamente a Monaco il 26 aprile 1591, davanti ad una
grande folla di curiosi.
La stella dell’abile truffatore si inabissava così nell’ignominia della morte per decapitazione, ma la scia e la eco delle sue
gesta rimasero a lungo nella memoria popolare e nell’immaginario dei contemporanei.
Che fosse per la memoria delle truffe del Bragadin, o per una più articolata e motivata personale sfiducia nelle macchinazioni
di soffiatori ed imbroglioni, comunque, il colto principe Cesi, interessato fortemente all’alchimia spagirica, era, come abbiamo
visto nella lettera del Winther, assai diffidente verso gli adepti dell’alchimia trasmutatoria.
Particolare valore assume, a questo punto, l’interessamento, testimoniato da alcune lettere del suo carteggio, per le dubbie macchinazioni di un misterioso alchimista di stanza a Pozzuoli,
vicino Napoli, città in cui il Cesi aveva alcuni tra i suoi più stimati lincei.
Si tratta di un misterioso prete, Giovanni Giacomo di Costanzo, del cui carteggio con il Principe Cesi ci rimangono
poche lettere autografe, essendosi del tutto smarrite le risposte del Cesi. Del prete non sappiamo nulla. La sua unica traccia
storica è appunto costituita dal carteggio con il Cesi. Carteggio, che, sicuramente, non doveva essere ignorato da altri lincei, che funsero anzi talvolta da intermediari e messaggeri per le lettere
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del principe (1).
Il primo contatto di cui abbiamo notizia risale al 14 settembre 1625, data in cui è redatta la prima delle lettere dallo stile
linguistico arruffato ed approssimativo del Di Costanzo.
“…Fra i miei penitenti – ci racconta il Di Costanzo (2) – n’ho avuti un greco cognato del nostro Vescovo, valentisimo huomo, espert’in molte scienze,
stimato da molti Principi, espertissimo nell’arte chimica…”. Il valente alchimista, secondo quanto raccontato nella missiva, stringe una
profonda amicizia con il Di Costanzo, e gli rivela tutti i suoi segreti alchemici. Anzi, il Di Costanzo viene ammesso alla
pratica nel laboratorio dell’alchimista, e diviene il suo aiutante fidato, pur fingendo di dileggiarne la scienza (che, pare, era la stessa che il padre del sacerdote aveva per anni perseguito).
“…Di lì a certi dì – continua il Di Costanzo - venne da me costui molto sdegnato, pregandomi l’havess’agiutato con il Sig. Duca di Madaluni, perché detto Duca havea fatto scalar la camera sua, et havea fatt’intrar un creato (3) per la finestra, et l’havea fatto levar tutti li suoi scriti de’ secreti. Fui dal Sig. Duca, et di bel modo andai descrivendo il termine usato; insomma dopo molti
successi, mi disse serìa andato in Napoli et haveria fatta diligenza ritrovar quelli scritti; andò et fe diligenza, et mi scrisse per un corriero che m’haveria mandati
tutti li scritti…”.
Ma il recupero degli scritti dell’alchimista, trafugati dal Duca di Maddaloni, non conclude la nostra storia.
Infatti, l’attonito Di Costanzo continua “…Credea haver fatto cosa gratissima all’amico con darli questa nuova, et lui più si sdegnò, et piangea
dirottamente; cercai saper la causa di questo suo rammarico, et con gran forza mi disse che quella sua operatione l’era andata prospera et havea fatt’il lapis, qual havea conservato per far la multiplicatione, et quel creato con rubbar li
scritti non han conosciuta quella materia, et non sapea se l’havessero buttata o pigliata; ve ne restorno da 4 acini.
Al bravo prete, la rivelazione dovette sembrar ghiotta!
Continuando il suo racconto al Cesi, il Di Costanzo riporta: “…Io volsi veder la proiectione, et un acino di quelli ridusse mez’onzia di Mercurio volgare in oro finissimo: il mercurio fu comprato da me, et la proiectione la feci con le proprie mani miei, lo feci una volta io solo, un’altra volta con il Vescovo; et infine la cartolina dove stava involta la materia, perché stava macchiata da
quella, indusse poco meno d’una quarta di Mercurio in oro; et questo fu in presenza del Sig. Vicario di Pozzuoli suo figlio. Questo secreto è in mio podere, il portai in Roma per farlo veder a V. E. s’era a suo gusto, m’accorsi poi che V.
E. volea uscir da casa,; non mi parve tempo infastidirla…”.
Naturalmente, l’esaurimento delle scorte di Mercurio di Saturno, rende al momento impossibile il ripetersi
dell’esperienza innanzi al Cesi. Purtuttavia, il prete assicura che “…ho tenuto pensier di ritrovar detto Mercurio di Saturno qui in Napoli; et con il Mercurio et il Secreto venir a baciar li piedi a V. E.; ma fin ad oggi non l’ho
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possuto haver, con haver fatta tutta la diligenza possibile; né lascio farla…L’amico che mi donò detto secreto, cava Mercurio d’ogni sorta di metallo…”. Se il Cesi conosce qualcuno in grado di fornirgli il mercurio, il Di Costanzo è pronto ad eseguire la proiezione davanti al principe.
Il misterioso alchimista di origine greca, a quanto pare, per rifornirsi di materie prime, per il momento è a Lecce, ma presto
dovrebbe rientrare in quel di Napoli. Del resto, come si evince da un allegato alla lettera oggi disperso, opera, stando al prete, di
un valente lettor d’astronomia, anche quest’ultimo misterioso personaggio pareva essere entrato, per il passato, in possesso
della pietra meravigliosa.
Di pietre filosofali, in quel periodo, a Napoli, dovevano girarne in discreta quantità….
Nelle missive successive (una del novembre 1625 ed una del marzo 1626) non vi sono nuove mirabolanti descrizioni e
racconti, se si eccettua la trasmissione di un ulteriore secreto del Cinabrio mediante il quale produrre purissimo Argento. Questo
Argento, sarebbe potuto essere convertito a sua volta in oro, ma l’alchimista greco aveva premura di partire, e l’operazione fu
così rimandata.
Risale al 15 maggio 1626 l’ultima missiva del Di Costanzo, che narra del rientro a Napoli del misterioso adepto, degli
allettamenti della nobiltà napoletana al fine di scoprire il mistero della pietra, dei netti rifiuti dell’alchimista che inficiano anche i rapporti con il parente vescovo. Il Di Costanzo però rassicura
Cesi che l’opera verrà messa in essere a breve, ed il principe ne sarà prontamente informato e potrà assistervi.
A partire da tale data, non sappiamo più nulla di questa misteriosa proiectione napoletana dell’adepto greco, né degli
ulteriori sviluppi dei rapporti tra il Cesi, il misterioso alchimista greco ed il prete-alchimista Di Costanzo. Non è però difficile
immaginare una repentina ed inaspettata scomparsa del misterioso adepto greco, colorita magari da un adeguato alone
di mistero, che avrebbe sortito il sicuro effetto, in qualsiasi ipotesi, di trarre d’impaccio il prete e rassegnare il principe.
Ma se, come abbiamo visto, nell’Italia seicentesca, il sogno dell’oro ottenuto per via filosofale attirava avventurieri greci,
preti e principi, doveva essere ben chiaro che l’alchimia e le sue applicazioni offrivano possibilità praticamente illimitate per il reperimento di oro volgare, quello facilmente ottenibile con la truffa, il raggiro e l’imbonimento. Senza, magari, i rischi e le
difficoltà derivanti dall’interessamento eccessivo e malevolo dei potenti, dall’infinito rimando e posposizione di complicate
dimostrazioni sperimentali e pubbliche dimostrazioni, contatti con sospettosi studiosi ed interminabili disquisizioni teoriche. A questo fine, indubbiamente, il mercato mutevole e virtualmente infinito degli elixir vitae reperibili nelle spezierie, doveva essere
assai interessante e gravido di stimolanti aspettative.176
Mentre infatti il Di Costanzo organizzava le sue
trasmutazioni e tentava di irretire lo spirito inquieto e curioso del Cesi e, con ogni probabilità, dei suoi celebri lincei napoletani, una figura altrettanto interessante si
affacciava sulla scena scientifico-alchemica della città, riscuotendo, stando alle tracce oggi in nostro
possesso, un discreto successo pubblico.
Girolamo Chiaramonte, siciliano cittadino della nobile
città di Lentini, non aveva ereditato l’abilità retorica di quel Gorgia che tanti secoli prima aveva dato lustro alla sua città natale, ma aveva
indubitabilmente tratto dalla lettura del Gorgia platonico
preziose indicazioni sul valore inestimabile della doxa,
l’opinione, e sul ruolo fondamentale della retorica (4) – che qui si colora, come vedremo, dell’arte preziosa e
mirabile dell’imbonitore o, forse, più correttamente, del
pubblicitario ante litteram – quale radice e scaturigine
dell’opinione salda ma priva di qualunque fondamento
scientifico.
L’intuizione fondamentale del Chiaramonte, in effetti - ed in
questo non abbiamo dubbi nel definire il nostro
assolutamente geniale - è il valore della pubblicità
sistematica sapientemente unita al senso del coup-de-
theatre da consumato imbonitore, in cui abilità e fortuna contribuiscono in
egual misura alla riuscita del progetto.
Il frontespizio dell'edizione genovese di un'opera del Chiaramonte.
Ma andiamo avanti con ordine.
177
Non abbiamo grandi notizie sul Chiaramonte, sul suo casato e sulle sue origini. Manca una ricostruzione storico-archivistica che ci delucidi sui suoi passi giovanili, sulla formazione etc.. E’ certo però che il patronimico Chiaramonte è uno dei più diffusi della
Sicilia, ancora oggi, e che non manca di nobiltà e di storia. Basti pensare a quei Chiaramonte - pare, di origine normanna, e discendenti di Carlo Magno - che tra la fine del XIII secolo e quella del XIV, ressero le sorti di ingenti possedimenti che
andavano dalla Contea di Modica e Ragusa, fino a vasti terreni della Marca Anconitana. A partire da Manfredi I Chiaramonte, il
potere del casato si consolida ininterrottamente per tutto il corso del XIV secolo, tanto che quel periodo di storia siciliana viene
talvolta ricordato come “periodo chiaramontano”, e che perfino una variante dell’architettura normanna reperibile in varie città della Sicilia ha talvolta preso il nome di “stile chiaramontano” (ad es. il Palazzo Chiaramonte Steri di Palermo). La fortuna dei
Chiaramonte termina bruscamente nel 1392, con Andrea Chiaramonte, condannato a morte e decapitato per aver
capeggiato una coalizione antiaragonese. I Chiaramonte, a partire da tale episodio, vengono privati di tutti i possedimenti e
poteri.
Non sappiamo se il nostro Girolamo, alchimista emerito – a suo dire – e guaritore di sofferenti, fosse o meno imparentato con tale illustre casato feudale. Fatto sta che la sua dichiarata
città di provenienza, Lentini, fu proprio la roccaforte e possedimento privilegiato di Manfredi di Chiaramonte.
Abbiamo però, in compenso, notizie abbastanza particolareggiate – notizie che Girolamo stesso ci fornisce nelle sue opere - della sua ascesa e fioritura di guaritore itinerante,
dispensatore della sua miracolosa panacea o elixir vitae.
Per avvicinare il prodigioso elisir ridotto in polvere o Belzuar minerale (5), ci sono utili due opere: Il Trattato di Girolamo Chiaramonte siciliano di Leontini vero autore et inventore delle poveri bianca et cinerica dette
elixir Vite (Genova, per Gioseppe Pavoni 1628) (6) ed un compendio di quest’opera, uscito a Napoli nel 1633 per i tipi di Roncagliolo, col titolo di Compendio di Gieronimo Chiaramonte siciliano
della fecondissima città di Leontini, del suo elixir vitae ridotto in polvere cinerita e belzuar minerale cavato dal detto elixir. La prima opera, assai più
voluminosa, è dedicata a Lorenzo de Medici, mentre la seconda, napoletana, è dedicata al principe Tiberio Carafa, discendente di
una delle più potenti famiglie del Viceregno.
Proprio il Compendio, una versione riassunta del voluminoso Trattato, è forse una buona guida per comprendere rapidamente le stupefacenti e mirabolanti proprietà della polvere citrina di
Chiaramonte. E’, infatti, a detta dello stesso scopritore, quest’ultima ad essere sommamente più efficace è potente,
nonostante anche la bianca abbia ampie ed importanti facoltà curative. Nella tavola anteposta al testo del 1633, il Metodo
universale delli mali che guarisce la polvere cinerita, seu elixir vitae di Girolamo
178
Chiaramonte, et in quanto tempo, e di quelli mali che giova et non sana, infatti, apprendiamo che, per quanto riguarda le donne, la polvere miracolosa favorisce la fertilità, previene l’aborto, elimina le
difficoltà di parto, induce la secondazione, l’espulsione dei feti abortivi, l’inappetenza e la nausea delle gravide. Ma queste, che casualmente abbiamo elencati per prime, sono solo applicazioni trascurabili in rapporto alla gran massa di malanni che, grazie
alla polvere citrina, si possono avviare a sicura e fausta risoluzione. La polvere risolve l’emicrania, guarisce ogni febbre, risolve l’itterizia, i tumori di vario genere, il mal di canna, lo sputo di
sangue, i dolori di stomaco, le coliche, l’incontinenza, la stitichezza, le ventosità, le calcolosi (arenelle o pietre nelle rene), l’ardor d’orina, i dolori d’ogni genere e, cosa da non sottovalutare dati i tempi, guarisce
il terribile “mal francese con dragoncelli (7), tarole et piaghe in qualsivoglia parte della vita”.
Ma non pensi, il lettore sospettoso, ad ingiustificato entusiasmo per le virtù terapeutiche dello stupefacente
polifarmaco. Chiaramonte è uno studioso equilibrato, e sa che vi sono malattie inguaribili, di fronte a cui la scienza medica non
può nulla. In questi casi, naturalmente, il puro elixir, per quanto mirifico e possente nella sua virtù terapeutica, non può
assicurare la guarigione assoluta e completa. Così Chiaramonte precisa che: “quelle persone che patiscono di questi mali incurabili, come
sono tisici, ethici, hidropici, malcaduco, hasma, paralitici, frenetici podagrosi et chiragrosi, che ancorché habbiano pigliato la mia polvere per due o tre mesi continui, non l’ho visto mai guarire, ma giovatali...”. I dolori, comunque,
diminuiscono, la flussione è ritardata, le giunture malate fortificate, e “tenevoli lo corpo ad obedienza”.
Ogni patologia ha la sua posologia, il suo modo d’uso, la sua via di somministrazione, i suoi complementi terapeutici.
Per la retenzione de mestrui femminile, ad esempio “...piglierà l’inferma una presa della polvere per sette giorni la mattina con brodo di ceci
rossi ove siano cotti un poco di puleggio et pimpinella, con un pochetto di cannella, et la sera con vino bianco, et doppo li sette giorni lasciando il brodo
sopradetto seguirà con vino bianco sera et mattina per lo spatio di trenta giorni, che ci verrà la purga et guarirà...” (Compendio, pag. 92).
Per problemi emorroidari (“sono alcuni che quando fanno il servitio del corpo li esce fora l’istentino con sangue, ò marcia ò acqua viscosa et altri mali
effetti....”) invece, oltre ad assumere per 50 gg. la polvere mattino e sera in vino annacquato, il paziente dovrà effettuare
localmente delle bagnature con un asciugamano ben imbevuto di “...Latte fresco calbiato con una mezza presa della mia polvere”. (Comp.
pgg. 87-88)
Del resto, la povere viene presentata in diverse forme farmaceutiche. A richiesta, essa infatti diviene un impiastro che
il Chiaramonte commercializza già pronto.
Gli affetti dalle piaghe purulente del Mal Francese “verranno o
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manderanno da me che li darò l’empiastro fatto della detta polvere et il modo di guarire li dragoncelli con detto empiastro, senza farsi ammollamenti né aprirli
con ferri, né oprarci... perché detto empiastro ha la facultà di concuocere et mollificare et tirar fuori et aprire, et tenerlo aperto da sé, et siccarlo senza altro
artificio di Chirurgo...”. (Comp. pag. 83)
Nel contagioso mal di canna, che colpisce il regno di Napoli periodicamente, il Chiaramonte ha osservato che “...in detto morbo non cavar sangue né toccar le fauci con spirito di vetriolo o d’altri corrosivi, ma
solo con darli di sei in sei hore una presa del mio Elixir in acqua d’orzo, et gargarismi spessi di detta acqua ove ci sono due prese di detta polvere dissolute, et quando si vede la bianchezza ò altro nelle fauci dell’infermo, ci fò tirare ogni
tre hore soffiando con un cannoletto la mia polvere, che subito si attacca sopra la materia putrida et la concuoce, et la va cacciando per sputo o per altra
strada....et per purgarlo se li fa un servitiale commune con due prese di polvere et 3 oncie di Rodonel (8) dentro ogni sera... “ (Comp. pag.76).
Non sappiamo esattamente quanti e quali fossero i risultati terapeutici del servitiale a base dell’elixir, ma possiamo senza
grandi sforzi immaginare mirabilia....
Nello sputo di sangue, invece, la povere si prenderà sciolta in acqua di portulaca o brodo, la mattina avanti pranzo, e la sera doppo cena,
in ragione di una presa per somministrazione. In più diverse volte al giorno “...si piglieranno due prese di detta polvere con tanto
zucchero pistato, et mischiati insieme di quando in quando l’infermo ne pigliarà un cucchiarino, et tenendolo in bocca che si solverà, ... in 20 o 30 giorni al più
ricupererà la salute...” (Comp. pag 77).
Naturalmente, l’equilibrato e sobrio Chiaramonte non ha intenzione di esaltare più del dovuto la sua opera. In realtà, probabilmente, esiste un farmaco che potrebbe possedere
qualità superiori a quelle del suo belzuar minerale o polvere: è il Lapis Philosophorum degli alchimisti, la pietra della trasmutazione
degli elementi vili in oro lucente, la panacea divina che sana ogni male e guarisce ogni piaga. In realtà, tuttavia, “... ogni principe non
può in rerum natura trovare miglior medicamento né più nobil medicina di questo mio Bezuar, né si può hoggi più sperare nel Lapis, che senza dubbio
avanzeria questo mio Bezuar, poiché o non si trova, o chi lo fa non lo palesa ad altri ...”.
Il belzuar, in sostanza, vince la partita per l’irreperibilità del Lapis.
Si sa, il successo di un prodotto è sempre legato alla capillarità della distribuzione.....
Naturalmente il richiamo al lapis degli alchimisti non è causale. Anche la polvere del Chiaramonte si basa sui principi ermetici ed alchimistici del lapis, “...tanto più che questo mio Bezuar è ramo del Lapis et l’esperienza lo mostra chiaro, né a me è lecito dir più....”.
Il lettore si interrogherà, ovviamente, sulla composizione di 180
una tale panacea, così misteriosamente imparentata con la segretissima pietra di proiezione dei filosofi ermetici.
Sfortunatamente, sulla faccenda della composizione del polifarmaco, il Chiaramonte è abbottonatissimo.
Il quarto capitolo del Trattato si diffonde profusamente sulla “qualità dell’ingredienti che costituiscono il mio elixir e degl’effetti mirabili che derivano naturalmente da quelli...”, ma le notizie che possiamo trarre
da queste pagine, al riguardo delle sostanze coinvolte nella preparazione, sono almeno generiche e fumose.
Quattro, a quanto pare, sono gli ingredienti fondamentali.
Il primo “...ha in sé quasi le qualità celesti, e che per la nostra vita non si può consigliar cosa meglio che le qualità di questo minerale (quali per l’invidia i
dotti antichi l’hanno occultate, come dice Arnaldo) poiché con la sottigliezza della sua sustanza, le fibbre delle parti solide de’ nostri corpi può profondamente penetrare, e per tutto il corpo sporgersi,e con la sincerità del suo temperamento può svegliare il calor naturale e mantenerlo, e con la propria densità e tenacità può rendere l’humido radicale più sodo e forte.... e di più col suo calore quasi
celeste può corroborare tutte le virtù... et i Principij di quelli come è il fegato, il cerebro e specialmente il cuore, fondamento della nostra vita....”. Questo
ingrediente misterioso “...dissolve le superfluità del sangue con la sua gravezza, le fa cascare abbasso e la sostanza di quello col suo splendore illustra, et
havendo dal sole la purità e candidezza, e da Giove il temperamento, genera spiriti Solari e Gioviali, quali mischiati col sangue....rinovano l’habito della
carne”. (Trattato pagg. 17-18)
Il secondo ingrediente è invece di temperamento freddo e secco. Agisce contro l’imputridimento, ed è anche rimedio,
dunque, “...alla palpitatione del cuore causata ò per la grassezza o torbidezza di spiriti, ò per vapor venenosi che offendono la virtù vitale e l’istesso cuore... “.
Il terzo ingrediente è caldo e secco, e, preso per bocca, “... ha virtù di incidere et estenuare gl’humori crassi, viscosi, più gagliardamente che non fa il sale...”. Con la sua sottigliezza libera vasi e meati dalle
viscosità superflue, “...così parimente le viscere ostrutte libera, et espurga gli humori pituitosi e crassi del torace e pulmone....”, ma agisce
beneficamente anche sull’udito, sui nervi, sulle verminosi, “resiste al morzo de’ cani (!) et al sangue taurino”, stimola la diuresi e cura la
sterilità.
Il quarto ingrediente è anch’esso caldo e secco, e, manco a dirlo, presenta un ventaglio di applicazioni terapeutiche anche più vasto dei precedenti, agendo senza fallo in una quantità di
stati patologici diversi che vanno dai “vermi grassi” (9) ai calcoli ed all’epistassi nasale, dalla lebbra fino all’azione di antidoto per
l’avvelenamento da funghi.
Il temperamento in prevalenza secco degli ingredienti, viene temperato dall’infusione di “...un’acqua la quale ha virtù di scaldare et
humettare, e per consequenza di operare né corpi nostri riscaldando et
181
humettando...”.
Brueghel il Vecchio (1525-1569), Un alchimista al lavoro
Tanti effetti terapeutici apparentemente diversi e contrari, si rende ben conto Chiaramonte, possono facilmente indurre in
dubbio e confusione il lettore. La risposta a tali dubbi, tuttavia, è semplice. Le diverse e contrarie virtù curative dei vari farmaci costituenti la formula dell’elixir, non si annullano tra loro, né si
contrappongono in alcun modo. Un tale fenomeno di neutralizzazione reciproca potrebbe “... esser vero delle qualità attuali,
ma non già delle potenziali....”. Inoltre è da considerare che nel composto una nuov virtù unificante si sovrappone a quelle dei
singoli farmaci. Tale vis unificante, che è data dalla sommatoria delle singole virtù terapeutiche, ne conserva in potenza tutte le proprietà terapeutiche. Ed è la guida infallibile della natura che
coordina sinergicamente le sole potenzialità curative utili, portandole all’atto. (10)
Per il resto, per quanto riguarda l’elixir, poche sono le notizie offerte alla curiosità del lettore. Si sa che il prodotto non è
nocivo, che è composto di minerali “…ma preparati et purgati..” in modo da non nuocere. D’altro canto, per chi volesse
approfondire, il Chiaramonte, nel Compendio, non manca di tendere la mano : “…Et perché dicono alcuni che questo medicamento è
terra semplice, ò pietra, et che non consta di preparatione et compositione alcuna, io per chiarezza di ogni uno, offero ad ogni Signore, ò altro che vorrà chiarirsene, di dimostrargli in atto tutti li quattro ingredienti separati, con la terra ed acqua sua… Ma avvertasi ch’io per questa demonstrazione ne voglio premio grande, perché si palesa e si vede apertamente tutto il magistero, et
manipulatione del mio secreto…”. (Comp. pag. 14)
Ben al di là dell’arte truffaldina ma ingenua dell’imbonitore di folle da piazza, che ammannisce le proprie mercanzie al
popolino, ed a questo, notoriamente di “bocca buona”, affida prudentemente le proprie fortune, la carriera del Chiaramonte è
costellata di successi eclatanti, in cui abilmente – e, bisogna dire, coraggiosamente - il nostro coinvolge le istituzioni mediche e
182
scientifiche, e che rimangono attestati da personaggi illustri ed al di sopra di ogni sospetto.
Chiaramonte rischia, e, a quel che ci è dato sapere, vince.
Cerchiamo dunque di seguire, sommariamente, la carriera che Girolamo stesso, nel riportare dichiarazioni autografe di guarigioni ed attestazioni di protomedici e fisici pubblici,
unitamente alle autorizzazioni alla dispensazione ed alla vendita ottenute nei diversi reami, si preoccupa di tratteggiare passo per
passo nelle sue opere.
L’avventura comincia a Messina nel 1618, dove lo spagirista ottiene dal protomedico l’autorizzazione a medicare con la sua polvere, ottenendo successi, a quanto pare, mirabolanti. Viene
dunque autorizzato alla dispensazione pubblica del suo preparato, e la sua fama comincia, lentamente a diffondersi. In
seguito”…residente in Messina, fui pregato di venire in Napoli per la salute di Fra Giulio De Falco, in quel tempo recevitore di Malta in detto Regno…”. Il De Falco guarisce in breve tempo. La cura del Chiaramonte, accolto,
pare, a braccia aperte, dall’Ordine di Malta di Napoli, suscita dunque un certo scalpore, al punto che, nel 1619, la Gran Corte della Vicaria, su richiesta dello stesso Chiaramonte, istituisce un
pubblico processo per raccogliere testimonianze sull’efficacia dell’Elixir. Testimoniano, a decine, i cavalieri di Malta, guariti da
ogni sorta di malanni, insieme a molti gentiluomini napoletani (in tutto una quarantina di testimonianze). Dopo tale trionfo la
polvere viene pubblicamente usata, con l’autorizzazione delle autorità competenti, nell’ospedale dell’Annunziata su differenti gravi patologie (2 morti su 15 trattamenti: un record rilevante
per gli elixir del tempo…).
Espugnata, per così dire, Napoli, al Chiaramonte non rimane che lavorare fattivamente all’esportazione del suo polifarmaco.
E, particolarmente vicino ed in ottimi rapporti con la corte napoletana, è, tradizionalmente, il Granducato di Toscana. (11)
Il nostro eroe arriva in Firenze nel 1620. Anche qui si ripetono esperienze pubbliche, all’ospedale di Firenze, non dissimili da quelle già avvenute all’ospedale dell’Annunziata di Napoli, che
segnano un discreto successo pubblico della polvere. Qui il metodo del Chiaramonte viene messo a confronto con quello dei medici dell’Ospedale di S. Maria la Nova. Per ordine di Cosimo, di
16 ammalati, otto vengono curati dal Chiaramonte ed otto dai medici dell’ospedale. Gli otto pazienti del siciliano sono affetti da diversi tipi di febri ed hanno un’età compresa tra i 14 ed i 61 anni.
Sei, con un periodo di assunzione della polvere che va da 15 a 45 giorni, guariscono. Due, ribelli ad ogni cura, muoiono. Avendo
riguardo ad un tale eccezionale risultato, il lettore non stupirà certo nel venire a sapere che, degli otto, pazienti curati secondo il metodo tradizionale dei medici fiorentini, solo tre riuscirono a sopravvivere, essendo gli altri cinque passati repentinamente a
miglior vita nel giro di poche settimane.183
L’obiezione (scontata!) dei medici fiorentini fu che, in precedenza, agli ammalati guariti dal Chiaramonte, erano stati per lungo tempo somministrate le
loro terapie, per cui non si poteva esser sicuri che le guarigioni in questione fossero effettivamente opera della polvere citrina del concorrente siciliano.
Frontespizio interno dell'opera del Chiaramonte, che annuncia i capitoli di confutazione degli scritti del
Giraldini.
Ma il Chiaramonte non demorde. Richiede
direttamente a Cosimo un’altro lotto di malati nuovi
di zecca, vergini di ogni intervento e terapia, e li
ottiene. Sono sette, tutti di età compresa tra i 14 ed i 30 anni, afflitti da febbri varie, e
tutti, affidati al solo elixir, guariscono in poche
settimane.
Poco dopo, Cosimo, da tempo malato, manda a chiamare il Chiaramonte. Questi viene
però prontamente ed efficacemente osteggiato dai medici del principe, che non
vogliono affidare il loro illustre paziente ad un medico
straniero, sulla cui preparazione e sui cui metodi nessuno sa nulla. La polvere misteriosa può anche esser nociva, ed il principe non
deve affidarsi a mani estranee. Cosimo, dunque,
non si affida al Chiaramonte, che non può non annotare nel
suo Compendio, che di lì a poco, il principe “...con queste
opinioni, morì...”.
Dal punto di vista di Girolamo, ben più accorto è invece Lorenzo, il fratello di Cosimo, che, angustiato “di
febre maligna con petecchie”, ignorando i medici di corte del Granducato, si affida al
portentoso belzuar del siciliano, guarendo nel volgere di poco tempo.
Segue invece l’esempio di Cosimo il duca di Montalto, al cui capezzale Chiaramonte viene chiamato dal viceré di Napoli, il duca d’Alcala. Anche in questo caso, la ferma opposizione dei medici e la decisione dell’infermo di non affidarsi alla polvere
184
miracolosa, sortiscono l’ineluttabile e mortale epilogo.
Tiberio Carafa (cui è, del resto, dedicato il Compendio), invece, “...havendo havuta un’infermità gravissima, debile et attra bile, con febre
grande, lasciata l’opinione de’ medici...” (12) sensatamente si affida all’elixir, guarendo prontamente e divenendo consumatore
abituale ed affezionato della polvere citrina, ottima, manco a dirlo, anche come preventivo e conservativo.
Sulla scorta dei successi e delle amicizie ottenute in Toscana, il Chiaramonte nel 1622 è a Modena, chiamato dagli Este. Anche
qui la polvere produce i suoi portenti, e tra le altre cose, approfittando di uno dei pochi deceduti nonostante la
somministrazione del suo farmaco, il Chiaramonte ottiene dalle autorità l’autorizzazione per un’autopsia pubblica, nella quale dimostra che la polvere citrina non rimane nelle interiora dei
pazienti.
Nel 1623 è a Ferrara e poi a Milano. Lo spagirista riporta, nei suoi libri, per ognuna di queste tappe, tutte le autorizzazioni ed i
decreti ottenuti da principi e dalle autorità scientifiche del tempo.
L’apoteosi, probabilmente, si ha nel 1625, a Genova. Il teatro dell’azione è l’Ospedale della Chiesa della Santissima
Annunziata. Qui, grazie all’interessamento del protofisico Carlo Pannicelli, vengono consegnati al Chiaramonte 20 malati gravi,
di cui solo due, nonostante la polvere, muoiono. Visto l’incoraggiante risultato “...ordinorno di nuovo che me fossero consegnati altri 16, delle quali 15 guarirno et uno si morse.... Onde ammirati li detto Signori del detto Magistrato fecero decreto che in detto ospitale me si consegnassero 25
letti con 25 ammalati, et mancando, o per salute, o per morte, che di nuovo si riempiono alla cura di Girolamo Chiaramonte siciliano, sempre con l’osservanza
del sopradetto Pannicelli....”.
Nel corso di una permanenza di vari mesi, Chiaramonte cura con successo ben 170 ammalati, e, naturalmente, a questo
punto, a proposito di questa esperienza, riporta la relazione del Protettore dell’ospedale, Nicolò Zoagli. Le osservazioni del Pannicelli, invece, riempiono decine e decine di pagine del
Trattato, e costituiscono ulteriore attestazione di efficacia ed affidabilità della polvere.
Tuttavia assieme alla popolarità, ecco farsi avanti gli onnipresenti imitatori ed usurpatori, che vorrebbero togliere a
Chiaramonte i meriti, la gloria ed i guadagni della polvere misteriosa.
Così, il nostro, alla fine del Compendio¸ mette in guardia dalle imitazioni: “…sappia che questa mia polvere è di colore cinerito…si dà in una cartoccia chiusa et sigillata con arme di un braccio armato che tiene una testa di saracino per li capelli, et le lettere intorno che dicono Girolamo Chiaramonte…et perché tutte le sopraddette cose si possono contrafare, per sicurtà di ognuno ho eletto un loco preciso in Napoli…ove tengo casa aperta per quelle persone
185
che si vorranno servire…Poiché in molte parti vi sono state alcune persone che sotto mio nome hanno dispensato alcune loro polvere con poca salute del
prossimo, come fu Pier Francesco Gilardini Bolognese in Firenze, allo quale furono consegnati 6 ammalati dell’Ospitale di S. Maria la Nova et con il suo medicamento ne morsero 4 et le altre due ci furono levati per non farli anco
morire, et in Modona un mio servo, Ventura da Ventura, il quale pubblicando havermi rubbato il secreto, dava certa terra sulforea con la quale fece danno a
diverse persone, et Antonio Bianchi allo quale portai meco in Firenze, et doppo si volle fare autore di questo secreto, et fu forzato fuggire…”. (Comp pag. 97)
Il Bianchi, che aveva anche assistito il Chiaramonte nelle sue esperienze fiorentine, aveva presentato a Lorenzo di Toscana un
memoriale in cui rivendicava la paternità della polvere bianca descritta dal Chiaramonte. Questa polvere, peraltro, secondo il
Bianchi sarebbe stata assai superiore alla citrina.
Ma il presunto autore della formula della polvere bianca, viene prontamente e veementemente sbugiardato dal Chiaramonte, che definisce il Bianchi “poco ricordevole della sanità ricevuta dalla mia
polvere....men riconoscitore de’ benefici et alimenti da me per molti anni somministratili...”. Il Bianchi fu paziente irriconoscente, ed il
Chiaramonte non manca di pubblicare la sua dichiarazione autografa in cui il concorrente riconosceva di esser stato sanato
dall’elixir del siciliano.
La confutazione delle opinioni del Bianchi occupa decine di pagine del Trattato, ed è precisa, puntuale e meticolosa. Il
Chiaramonte contesta punto per punto, passo per passo la fondatezza scientifica e la credibilità del libello dell’avversario. Il Bianchi è un incompetente, non conosce la letteratura medica
classica, e non potrebbe essere scopritore di alcunché, sprovvisto com’è di ogni fondata conoscenza medica. Le esperienze e la teoria stessa, correttamente interpretata, dimostrano che la polvere rossa è superiore alla bianca.
Trattamento analogo, forse ancor più sistematico e attento, è riservato al Giraldini, bolognese anch’egli sedicente scopritore
dell’elixir
Gli attacchi del Chiaramonte si servono con attenzione di tutte le fonti più autorevoli della scienza medica antica e moderna: Galeno, Dioscoride, Razi, Serapione, Avicenna, Rabbi Moyse,
Pietro d’Abano, Mattioli, Garzia dell’Orto.
Il Giraldini vuol vendere la sua dannosa pietra solo per far soldi in modo poco lecito “... come sogliono fare gli Giudei; qual costume
il Giraldini, per essere Giudeo fatto Christiano, non se l’ha dimenticato...”.
Assai meno spazio e attenzione sono dedicati al servo, Ventura de Ventura, turco convertito e cristianizzato, ed alla sua
truffa mal riuscita, evidentemente non in grado di insidiare i privilegi e le licenze di vendita ottenute dalle varie corti.
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Ma l’opposizione contro i suoi concorrenti ed imitatori, in fondo, non è che elemento secondario della polemica
chiaramontiana. La vera battaglia è contro i medici e gli speziali che ostacolano il completo ed assoluto trionfo della sua polvere.
Nelle opere divulgative, egli risponde alle critiche dei medici, citando ad ogni piè sospinto Galeno e Dioscoride, arricchisce l’esposizione dell’impianto medico-astrologico di derivazione
ermetica. Questo, però, non dovette bastare ad assicurare al suo elixir fama immortale. A qualche decennio di distanza, il Teatro del Donzelli (13) , non conserva traccia della miracolosa polvere
cinerita & belzuar minerale dell’intraprendente siciliano (14).
Il segreto, così attentamente custodito dal Chiaramonte, tuttavia, con ogni probabilità non andò perso. Nell’ultima pagina
del Compendio, infatti, Girolamo annota: “... Io ho palesato questo secreto a mio fratello per nome Vito che sta meco, et di più ho fatto due lettere le
quali tengo sigillate per due Principi miei Signori, dentro le quali ci ho scritto questo secreto, acciò nella mia morte non si perda un tanto medicamento per la
salute del prossimo...”.
Dunque, altre dovettero essere le ragioni della progressiva scomparsa del medicamento di Chiaramonte. (15) Pian piano, inesorabilmente, il medicamento, ormai popolare nelle corti di tutta la penisola, osteggiato dalla medicina ufficiale, ma diffuso
al punto da provocare dispute di paternità, imitazioni fraudolente e “punti vendita” autorizzati, dovette mostrare i suoi limiti. La
panacea universale, priva della faconda abilità pubblicitaria del suo ideatore, dovette perdere molto del suo incanto, per
scomparire rapidamente dalla memoria di consumatori, medici e speziali. Le farmacopee non nomineranno mai il Chiaramonte. La
sua prodigiosa polvere si perderà per sempre nell’infinito labirinto del tempo, il deposito immenso entro cui giacciono
dimenticati, o appena ricordati, come tra le nebbie del sogno, tutti gli altri elisir miracolosi, tutte le polveri di proiezione e le
pietre filosofali, gli anelli incantati, le fontane fatate, le magie e i giochi di mano, le truffe ben riuscite ed i mirabolanti ed artistici raggiri di tutti i tempi e di tutte le latitudini. Dove lo sfortunato Bragadin, il prete Di Costanzo col suo misterioso greco, e l’abile guaritore di Lentini, continuano i loro giochi ed i loro maneggi -
senza più principi e clienti altolocati da truffare – insieme all’eterno e sconfinato esercito dei maghi, dei saltimbanchi, dei
ciurmatori, dei folli, dei filosofi e dei poeti.
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Due dei quattro mori scolpiti sulla Porta Nuova di Palermo (edificata nel 1584). Il motivo dei mori, più o meno in catene, divenne tra XVI e XVII
secolo motivo ornamentale assai diffuso nell’area siciliana. Anche il Chiaramonte utilizzò la Testa di moro per il proprio “logo”. (foto
dell'autore)
(*) Articolo pubblicato per la prima volta su "Anthropos & Iatria: rivista italiana di Studi e Ricerche sulle Medicine antropologiche e di storia delle medicine", Anno VII numero II (Aprile - Giugno
2003)
Note
(1) Ad esempio nel caso della lettera di Fabio Colonna a Federico Cesi, in quel momento a Roma, datata Napoli, 8 maggio 1626, in cui il Colonna scrive: “La lettera diretta al Sig. D.
Giov. Giacomo Di Costanzo, l’ho dato ricapito li sia data”. Non sappiamo quanto dell’esperienza con il Di Costanzo sia da porsi in relazione con la diffidenza espressa dal
Colonna nella citata lettera al Faber del 1628.
(2) Lettera del 14 settembre 1625. Cfr. Il carteggio linceo cit. pag. 1062.
(3) Famiglio, uomo di fiducia.
(4) “... So. Orsù, dunque, esaminiamo ancora questo. C’è qualche cosa che chiami sapere? Gor. Sicuro. So. E qualche cosa che chiami credere? Gor. Certo. So. E paiono a te lo stesso, il sapere e il credere, la scienza e la credenza, o cose diverse? Gor. Diverse a parer mio, Socrate. So. Difatti hai ragione; e lo intenderai di qui; che se qualcuno ti chiedesse: - Ammetti, Gorgia,
che ci sia una credenza falsa ed una vera? -, tu, com’io suppongo, risponderesti di si. Gor. Certo. So. E che? c’è forse una scienza falsa ed una vera? Gor. Per nulla. So. Sicché è
manifesto che – sapere e credere – non sono la stressa cosa. Gor. E’ vero. So. Eppure una persuasione c’è così in quelli che sanno come in quelli che credono? Gor. Certo. So. E vuoi che si pongano due specie di persuasione, l’una che ci dà la credenza senza il sapere, l’altra che ci
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dà la scineza? Gor. Sicuro. So. Ora, la retorica quale delle due persuasioni produce e nei tribunali e nella altre adunanze sul giusto e sull’ingiusto? quella da cui nasce il credere senza il sapere, o quella da cui nasce il sapere? Gor. E’ evidente, Socrate: quella da cui nasce il credere. So. Sicché la retorica, pare, è artefice d’una persuasione, atta a farci credere, ma non ad istruirci sul giusto e sull’ingiusto. ...”. (Platone, Gorgia, trad di Emidio Martini da Tutte le opere, a cura
di Giovanni Pugliese Carratelli, Osteria Grande (BO) 1988
(5) Il Belzuar o Bezoar era una pietra formata dal calcolo biliare di alcuni mammiferi, in particolare capre e cervi. A questa pietra, a seconda della provenienza, della forma, della
dimensione e del colore, si attribuivano proprietà terapeutiche differenti, che spaziavano, dalla semplice cura delle verminosi e delle dissenterie, fino alle patologie cardiache, all’epilessia ed
all’itterizia. Il più prezioso era considerato quello proveniente dall’oriente. Nella pratica comune, comunque, il vocabolo passò ben presto ad indicare una quantità di carbonati e di allumi, e, più in generale, qualunque preparazione che assumesse una forma solida simile a
quella del Bezoar, o anche le sue proprietà terapeutiche. Scrive Garzia dell’Orto, nel Dell’Historia de i semplici aromati (Venetia 1606): “La pietra Bezaar ha molti nomi...E certo
ragionevolmente ha tal nome poi che è così signora questa pietra de i veleni, che gli estingue et ammazza e distrugge... E di qui viene che tutte le cose che sono contra veleno, ò contra cose
velenose, chiamano bezaartiche per eccellenza...” (pag. 341). Il belzuar minerale del Chiaramonte è dunque una di queste preparazioni bezaartiche, che pretendeva di allargare e
perfezionare l’azione classica del belzuar animale.
(6) Si tratta, probabilmente, di una raccolta organizzata di opuscoli già usciti isolatamente in precedenza, in corrispondenza delle peregrinazioni del Chiaramonte per le corti italiane. Vinci
Verginelli, nella sua Bibliotheca Hermetica, catalogo alquanto ragionato della raccolta Verginelli – Rota di antichi testi ermetici. Roma 1986 Nardini, a pag. 104 recensisce un
Trattato dell’ammirabile facoltà et effetti della polvere o Elixir Vitae di Girolamo Chiaramonte siciliano....raccolto ad universal benefitio da D. Gias. Ant. Bianchi....dedicato al Serenissimo
Cosimo II Medici, Granduca di Toscana. In Firenze, Appresso Zanobi Pignoni 1620. Riportiamo uno stralcio dalla breve recensione che Verginelli dedica al libro: “…Il libro lascia perplessi. Si può affermare che le sole prime sette pagine trattano oscuramente della natura e della confezione dell’elixir vitae, adoprando il linguaggio criptico e la terminologia gergale
comune a quasi tutti i trattati alchimici. Tutta la rimanente parte del libro riporta o relazioni o dichiarazioni, in gran parte sottofirmate, di persone e personaggi che attestano l’avvenuta
guarigione per l’avvenuta assunzione del suddetto elixir vitae. Dinanzi si diceva che si rimane perplessi. E’ certo però che ai suoi tempi molto stimato doveva essere questo Chiaramonte, e
la spontaneità e la precisione di questi attestati inducono a pensare....”
(7) Dragoncelli venivano chiamate le caratteristiche tumefazioni piagate che insorgono in una determinata fase del decorso della sifilide.
(8) Si tratta, probabilmente, del Rodoleon,o rodostoma ovvero preparazioni di Acqua di rose o olio rosato.
(9) Sono, probabilmente, i vermi tondi.
(10) “.... Quando adunque questo medicamenteo composto, com’è la mia polvere, sarà dato a qualcheduno, le virtù che erano in potenza si dedurranno in atto... Perciò ognuna di loro
imprimerà le sue qualità nel nostro corpo, et allhora si desta la natura sagacissima con tutta la sua prudenza, che non erra, ma governa e digerisce non solo quelle cose che si giudicavano
fra loro contrarie, et avicenda fa che una aiuta l’altra, perché quello che ha virtù di assottigliare precede e va innanzi, e apre la via.... e mena seco quelle che han virtù di
astringere, facendole penetrare più profondamente; che peraltro sola e da se stessa, forsi si saria serrata la strada e non saria potuta arrivare alle parti profonde et affette dove faceva di
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bisogno....” (Trattato, pag. 26)
(11) Si ricordi, a tal proposito, il matrimonio di Eleonora da Toledo, figlia del viceré Pedro da Toledo, con Cosimo I de Medici. Un intenso e duraturo rapporto politico, tra XVI e XVII
secolo, unisce i due regni. Non è un caso che, al capezzale del duca di Montalto, come vedremo in seguito, il Chiaramonte fosse chiamato dal Viceré D’Alcala. Conquistare fama e notorietà nel Granducato di Toscana, inoltre, era importante poiché alla corte medicea era ancora viva una fiorente tradizione di studi alchemici e naturalistici, che coinvolsero, tra gli altri, anche
esponenti della dinastia medicea. Caterina Sforza (la madre di Giovanni dalle Bande Nere) ci ha lasciato un rilevante liber secretorum, oggi alla Nazionale di Firenze, a sua firma (un
manoscritto copiato nel 1525 dal conte Lucantonio Cuppano da Montefalco, uno dei capitani di Giovanni, dal titolo Experimenti de la Ex.ma S.a Caterina da Furlì, madre de lo inlux.mo
Signor Giovanni De Medici: In nome de Dio in questo libro se noteranno alcuni experimenti caciati da lo originale de la inlux.ma Caterina da Furlì, matre de lo inlux.mo S.re Joanni De Medici mio S.re et patrone). Anche di Cosimo I e di suo figlio Francesco ci rimangono studi e testimonianze manoscritte. In particolare, di Cosimo, ci rimane un lavoro, compilato dal suo
segretario Bartolomeo Concino tra il 1561 ed il 1565, conservato presso la biblioteca Nazionale di Firenze. La corte medicea, con la fonderia ed il Giardino de’ Semplici fondato da Cosimo,
entro cui si formarono naturalisti come Ghini e Maranta, era tradizionalmente residenza e meta di studiosi, semplicisti, speziali, medici e alchimisti. Per il Chiaramonte era dunque una piazza
importante da conquistare alla causa del suo elixir..
(12) L’intera trattazione ed attività di Chiaramonte, si esplica all’interno di una generale disistima dei medici. I pazienti che li ignorano, sopravvivono, quelli che li ascoltano muoiono,
Ancora, le dimostrazioni negli ospedali pubblici, ed in particolar modo quella di Firenze, pongono la cura del siciliano in diretto confronto e contrapposizione con i metodi della
medicina ufficiale. Pure, prudentemente, nel Compendio si può trovare un’attestazione di fiducia nei medici e negli speziali, che se non può, naturalmente, risultare sincera, attesta
senz’altro la grande prudenza del Chiaramonte nel non voler provocare apertamente, e più del necessario, le ire di classi potenti e protette. Chiaramonte, a pag. 66 infatti scrive; “...Oh mi
dirà quel medico, dunque noi ch’abbiamo tanto speso in studiar e dottorarci, andaremo con li Spetiali a spasso? perché questa vostra polvere è Medico et medicina universale. S’inganna chi dice questo, poiché sempre, (dove si può havere) il Medico è necessario: primo, per la regola del vivere, secondo per l’osservanza delli sintomi, et ultimo per governo del tutto, dando ragione all’infermo d’ogni effetto, tanto buono quanto malo. Et è quasi accorto
nocchiero che guida la nave portata da vento prospero in sicuro porto. Vogliamo anco le cose di Spetiarie, si come nel seguente Metodo diremo, servendo per vehicoli più facili alla mia
polvere, ch’io con l’osservanza di tanti anni ho accortamente avvertito... che se uno con solo il mio Elixir ha da guarire in 10 dì, con l’osservanza del medico et medicamenti adiuvanti
guarirà in 4 o 5... “.
(13) G. Donzelli, Teatro Farmaceutico Dogmatico e Spargirico (Napoli 1667, ristampato per ben 22 volte fino al 1763), fu uno dei testi più autorevoli e diffusi della scienza spagirico-
farmaceutica a cavallo tra XVII e XVIII secolo.
(14) Tuttavia, Scipione Severino, alchimista napoletano della seconda metà del ‘600, nel suo Filosofia, Alchimia seù scienza vigorativa dell’anima aurea (1695) riprende in un passo la
polemica sulla controversa polvere di Chiaramonte, rincarando la dose su medici e speziali: “…non parlo delle panacee del vetriolo, dell’antimonio, del solfo, della polvere di Chiaromonte di
Sicilia, & dell’oro distillato; non piace alli medici la loro prattica, perché essi con li spetiali non guadagnarebbono. Né il consultare a portare le pietre antipatiche ad ogn’infirmità li
piace. Abonda il paese nostro di piante per ogn’infirmità, & recorrono alle cose dell’India…” (pag. 102). Dunque, la polvere di Chiaramonte, almeno nella memoria dei critici della medicina
ufficiale, alla fine del XVII secolo era ancora viva.
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(15) L’ultima traccia bibliografica del Chiaramonte è l’”Osservationi e breve discorso del contagioso Mal di Canna di Girolamo Chiaramonte della città di Leontini” (Napoli,
Roncagliolo 1637), un opuscolo di poche pagine che sembra rispondere alle preoccupazioni suscitate dall’ennesima epidemia di affezioni respiratorie che aveva colpito Napoli, ormai
patria adottiva dell’intraprendente siciliano. La cura proposta e pubblicizzata è il solito Elixir, in alternativa ai salassi proposti da alcuni medici, ed ai preparati della medicina tradizionale.
I fondamenti teorici della filosofia ermetica (3):
LA COSMOLOGIAdi Paolo Lucarelli (saggista)
Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n° 19 (ottobre 1987), pp. 20-25, riprodotto per la gentile concessione dell'autore, che è proprietario dei diritti.
Riproduzione vietata.
Nella prosecuzione della sua esposizione dei principi teorici dell’alchimia, Paolo Lucarelli dedica il suo terzo intervento alla cosmologia. L’opera alchemica, infatti, pretendendo di ripetere sul piano
microcosmico la Creazione Macrocosmica, presuppone, o piuttosto genera, un insegnamento cosmogonico. L’autore, allievo di Eugéne Canseliet, inquadra la teorizzazione alchemica della Creazione e dei principi
che regolano l’universo.
L'uomo (al centro) e le corrispondenze con i quattro elementi ( G. Welling, Opus)
191
I Filosofi hanno troppo insistito sull'importanza del regno minerale e metallico per gli scopi della Grande Opera, perché possano sussistere ragionevoli dubbi su dove ci si debba volgere per la preparazione della
Pietra Filosofale. Sappiamo bene che molti preferiscono leggere allegoricamente , certe affermazioni, interpretando le parole degli Adepti secondo una supposta Alchimia spirituale o adattandole a certe teorie di
origine esotica o altro ancora. Non discuteremo queste convinzioni, seguendo in questo il Cosmopolita che ricorda:
"…ma se qualcuno non presta fede ( agli antichissimi Filosofi ) allora abbiamo imparato che non si deve parlare con chi nega i princìpi…" (1)
Per non appesantire troppo il nostro discorso, e per economia di spazio rinunceremo ora a fornire l'originale dei brani citati, sperando tuttavia che qualcuno si senta sollecitato a leggere i testi. In Alchimia la traduzione è
spesso fallace: ci si dimentica che si ha a che fare con trattati tecnici, e che un'inversione o una modifica, un abbellimento, possono stravolgere il senso
o gettare lo studioso nella più angosciosa perplessità.
“…Ecco dunque perché - scriveva Canseliet – non ci si deve sorprendere né spazientire se per lo più abbiamo fornito il latino delle citazioni prese dai numerosi trattati che non furono mai tradotti…o che lo furono in maniera
imperfetta…” (2)
Per tornare al nostro argomento incominceremo col notare una interessante scoperta di un egittologo che, studiando i resti del tempio di
Luxor, trovò una cosmogonia rappresentata nella pietra. Ne trasse informazioni preziose, tra cui la seguente:
“…Contrariamente a ciò che si potrebbe logicamente credere non è il regno minerale a situarsi sul fondo della scala sui registri delle pareti del
tempio che spiegano le fasi del divenire. In quanto prima forma corporale il regno minerale o metallico è il più prossimo all'origine, il più prossimo allo spirito che anima tutto. È situato sul più alto registro delle tavole, perché è
ciò che è creato e non procreato. I personaggi di questo registro più alto che simboleggiano i principi non procreati, sono rappresentati senza
ombelico. Sarà il registro più basso a mostrare l'Uomo Regale, colui che è il simbolo dello scopo finale della creazione. Tra i due si pone il registro dei
numeri puri, corrispondente al regno vegetale, poi quello delle combinazioni e della geometria dei Numeri, cioè l’animale...”. (3)
Millenni più tardi, un dotto farmacologo di scuola paracelsica insegnava:
“ ...Le Energie sono più forti e più radicali nei minerali che nei restanti (corpi) ...perche' sono più vicini alla prima origine, perciò (le) sono anche
più uniti e per conseguenza più forti. ..Così sono i Sali, i Metalli e simili. .." . (4)
Se dunque, come insegnava Geber, il fine è quello di «corporificare gli spiriti», sarà corretto rivolgersi a quei corpi che per la loro semplicità, sono più vicini all'origine delle cose. Può stupire, certo, che lo Spirito richieda per un'azione efficace un corpo che lo accolga e lo specifichi; ma che la materia sia il sostegno necessario di qualunque manifestazione spirituale nel nostro Universo dovrebbe essere ovvio per il cattolico che ha visto confluire nella
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sua liturgia i brandelli dell'antica Filosofia. Ricorda, un teologo contemporaneo:
"Nei sette sacramenti. ..degli elementi materiali sono utilizzati a veicoli privilegiati della grazia: per mezzo di essi quindi la virtù santificante di
Cristo si estende a tutta la Natura. ...È evidente l’importanza che il corpo ha nella dottrina biblica. La salvezza cristiana è sempre presentata come una
salvezza che si attua attraverso il corpo (Tertulliano: caro salutis est cardo)” . (5)
Va chiarito ora che in Ermetismo il confine che separa spirito e materia si sfuma sino alla più totale impercettibilità. Il serpente che si mangia la coda, l’Uroboros, è simbolo di questa sostanziale indistinzione, e non di una banale
unità della materia che nessuno ha mai posto in discussione.
Ci rendiamo conto che stiamo ragionando su fondamenta equivoche. L'uomo contemporaneo legge nella famosa equazione di Einstein
un'equivalenza tra massa ed energia, e traduce massa con materia, quando non vede nella parola “energia” un non so che di intangibile e
quindi di spirituale che sembrerebbe ricondursi a quanto stiamo esponendo.,
In realtà la scienza contemporanea non ha, per definizione, alcuna idea di 'materia' tra i suoi strumenti concettuali, né, evidentemente, di 'spirito'.
Diciamo questo perché sia ben chiaro che la materia di cui si parla in Alchimia è quella che possiamo
definire classica, ed anche perché non si confondano superficialmente due mondi, due “paradigmi”, come direbbe Kuhn, che sono del tutto
“incommensurabili” . (6)
Se è vero che l'Alchimia è anche, come ricorda Fulcanelli, una scienza
nel senso moderno della parola, i suoi princìpi, i suoi strumenti
concettuali e sperimentali, i suoi obiettiyi, sono profondamente diversi
da quelli della chimica e fisica contemporanee.
Tra queste due strade parallele, di cui una non ha altro fine se non l'asservimento brutale e violento
della Natura, non esiste alcun punto d'incontro, alcun sistema comune di
riferimento. Sostenere come si fa normalmente, che l'alchimia abbia generato, sia pure parzialmente, la
scienza moderna, vuol dire accusare l'Arte Sacra di una procreazione mostruosa di cui essa è affatto
L'Ouroboros che si mangia la coda, con alcuni dei principali animali del bestiario simbolico
dell'alchimia.
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innocente ed irresponsabile. Un'opera che si vuole ripeta in piccolo la Creazione Macrocosmica, presuppone, o piuttosto genera, un insegnamento cosmogonico.
In realtà, proprio per questo motivo di stretta analogia, i Filosofi furono a lungo restii a mettere per iscritto una teoria completa e coerente.
Dall'antichità solo la Kòrh kòsmou, nel Corpus Hermeticum, ci resta con una descrizione dettagliata, seppure parziale, della Genesi Universale, che si
restringe volontariamente alla creazione delle anime individuali. Il rapporto è così evidente con quella che fu poi chiamata Seconda Opera per la
produzione del cosiddetto Mercurio Filosofico, che persino studiosi profani l 'hanno constatato. (7)
Si deve dunque arrivare al XVII secolo perché Cosmopolita prima e Sendivogio poi, divulghino una teorizzazione più soddisfacente che
riassume gli insegnamenti sparpagliati qua e là nei trattati più antichi. Sendivogio vede (8) la Creazione distinta in due grandi processi successivi
che corrispondono a fasi alternanti di soluzione e coagulazione.
La prima parte dall'acqua primordiale generata dal nulla. Di questo primo movimento tuttavia non può essere detto alcunché, ed è ignoto al Filosofo che lo dà per avvenuto fuori da ogni categoria. Di più, solo dopo quest'atto primigenio esiste il tempo, e guida l'avvenimento, anch'esso
sorto nello stesso atto. Quest'acqua di cui si parla, comprende in se tutte le qualità universali, e quindi il calore, la freddezza, la secchezza e l'umidità.
Si distingue in corpo, anima "e medio tra i due”. Li chiama hyle, archeo ed azoth.
Per un atto di separazione, che è detto più propriamente distillazione, sorgono da quest'acqua i quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco.
Questi, quintessenziati, danno origine ai cieli ed agli astri che li adornano.
L'Ouroboros in un manoscritto di alchimia araba
Si conclude così il primo movimento, espansivo e separativo, e incomincia
quello compositivo che da coppie di elementi produce i tre principi. Terra ed acqua danno mercurio; acqua ed
aria, sale,' aria e fuoco, solfo. Poi questi, ancora accoppiati, generano lo sperma coagulativo, solfo vivo, ed il
menstruo digestivo, mercurio vivo. Infine, dall'ultima congiunzione di questi, ancora per generazione,
nasce l'ultimo principio principiato, Materia Prossima del Cosmo. Questa, che
è Spirito Universale, Ermafrodito, vera Madre di tutte le cose, genera,
senza altri accoppiamenti, i "diecimila esseri" .
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I Filosofi Ermetici osano contare Platone tra gli Adepti, e chiamano Solfo il “medesimo”, e Mercurio l’ “altro”, leggere anche nel Timeo l'alchemica
generazione dell'anima del mondo:
“ …Dell'essere indivisibile e che è sempre nello stesso modo, e di quello divisibile che si genera nei corpi, di tutte e due forò mescolandole insieme,
una terza specie di essenza intermedia, che partecipa della natura del medesimo e di quella dell'altro, e così le stabilì nel mezzo di quella
indivisibile e di quella divisibile per i corpi. E presele tutte e tre, le mescolò in una sola specie, congiungendo a forza col medesimo la natura dell'altro che ricusava di mescolarsi. E mescolando queste due nature coll’essenza e di tre fatto di nuovo un solo intero, divise questo in quante parti conveniva,
ciascuna delle quali era mescolata del medesimo, dell'altro e dell'essenza...”. (9)
Queste cose deve ripetere l'Artista, scimmia di Dio, nel suo laboratorio. Riassume tutta l'Opera nella Turba francese il Vicario:
"Di più cose fate due, tre, e tre uno…." . (10)
Appare dunque che il Sale non è un principio autonomo, ma il risultato di una mediazione tra gli altri due. Lo insegna Fulcanelli in una chiarissima pagina (11), lo diceva quel “gentiluomo di Chartres" che lo precedette nell'esegesi ermetica della Chiesa Cattedrale di Parigi, immaginata "ìl mercoledì 20 maggio 1640, vigilia della gloriosa Ascensione dì Nostro
Salvatore Gesù Cristo, dopo aver pregato Dìo e la sua Santissima Madre Vergine”:
"ìl sale (legame di Anima e Spirito) è I’effetto della loro unione e del loro mutuo amore, ed è un corpo spirituale che ce li cela e li avvolge nel suo seno come non facendo più che una sola cosa dei tre,' ciò che le persone
impregnate dì pregiudizi non intenderanno e non capiranno…”. (12)
In effetti, proprio per questo, i Filosofi più antichi non pongono il Sale tra i principi alchemici, pur non trascurandone l’importanza.
E’ soltanto con Paracelso, o con Basilio Valentino se si preferisce considerarlo antecedente, che esso compare come terzo attore a pari
diritto nell'Opera. Il che può in generare una terribile confusione quando si voglia passare ad una fase operativa.
Solfo e Mercurio dunque, non quelli comuni e volgari, ma i due grandi archetipi, sono alla base di tutta la Manifestazione Universale, e quindi
anche di quell'opera microcosmica di cui l'Alchimista operativo è Demiurgo. Dal penetrarli dipende innanzitutto la comprensione dei testi ermetici.
Ricorda Ippolito che il caldeo Zarata disse a Pitagora come “due siano fin dal principio le cause delle cose che sono, il padre e la madre: e che il
padre è la luce, la madre le tenebre, e che della luce son parti il caldo, il secco, il leggero, il veloce; della tenebra il freddo, l'umido, il pesante, il
lento; e che da questi, femmina e maschio, è composto tutto il cosmo”. (13)
Del Solfo dunque diremo che è calore e secchezza. Nutrimento del calore 195
nativo di tutte le cose, di queste contiene e riceve 'odori e tinture'.
Sede dell'umido, invece, il Mercurio, nutre in tutte le cose l'umido radicale.
Il primo riceve e distribuisce impressioni ed influenze calde ed ignee, il secondo è soggetto a quelle umide e fredde e le rinvia alle altre parti dei
corpi. .
Gli antichi chiamavano anche “limite” (pέras) il primo, illimitato (apeiron) il secondo. Limite è ciò che dà la forma e quindi, alchemicamente, fissa,
cosicché nell'evolversi degli eventi li ordina escludendo il cieco e folle caso.
L 'illimitato, dissolvente, riconduce alla materia prima, informe e disorganizzata, premessa di qualunque opera di perfezionamento ed
evoluzione. (14)
Dei numeri saranno il dispari e il pari, 3 e 2 innanzitutto, che danno per congiunzione 5, per moltiplicazione 6; qui però non si deve eccedere in
rigidezza, perché 5 è vitriolico e mercuriale, 6 segna la stessa Pietra ed è quindi sulfureo.
Di entrambi, a coppie, un trattato ancora attribuito a Sendivogio (15) dà una lista di sinonimi, utili per lo studioso. A questi premettiamo i simboli
grafici ormai consacrati dall'uso in Occidente:
La cosmologia alchemica di ispirazione rosicruciana. Illustrazione tratta da Janitor Pansophus, Musaeun Hermeticum, 1677
il volatile il fisso
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l’argento vivo il solfo
il superiore l’inferiore
l'acqua la terra
la donna l’uomo
la Regina il Re
la donna bianca il servitore
la sorella Il fratello
Beya Gabrico
il solfo volatile il solfo fisso
l' avvoltoio il rospo
il vivo il morto
l'acqua di vita il nero più nero del nero
il freddo umido il caldo secco
l'anima o spirito il corpo
la coda del drago il drago che si divora la coda
il Cielo la Terra il suo sudore, la sua cenere
l'aceto asperrimo il rame o il solfo
il fumo bianco il fumo nero
le nubi nere I corpi che escono da queste nubi
Il Mercurio, tuttavia, da cui il nome stesso dell'arte Ermetica, resta l'Enigma più difficile da risolvere, ed il primo da affrontare. Senza che ci si
immagini vanamente, lo abbiamo già detto e lo ripetiamo, che si possa tradurre mai in alchimia un termine in un altro univoco comune.
In realtà diversi enti hanno diritto ad essere chiamati 'Mercurio' in ermetismo, seppure per vari motivi.
Un anonimo e prestigioso Adepto ne indica Quattro.
Il primo, e il più importante, è il Mercurio dei corpi. Sullo studio di questo si fonda tutta l'Alchimia.
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Il secondo è il Mercurio di natura, bagno dei sapienti, vaso dei Filosofi, vera acqua filosofica.
Il terzo è il Mercurio dei Filosofi, così detto perché solo sapienti Artisti lo posseggono, e non si vende né si compra, ma si trova solo nei laboratori
ermetici: sfera di Saturno, vera Diana, sale dei metalli. Dall'acquisizione di questo, nei trattati più antichi, si dava l'inizio dell'Opera.
Ultimo è detto il Mercurio comune, non certo il metallo volgare, ma l'aria filosofica, fuoco occulto e segreto, quello in cui consiste la vera sostanza
metallifera.
Dice l'Adepto: “Se, o lettore, avrai compreso questi quattro Mercuri, allora ti si spalancherà la porta. ..” (16)
Del terzo diremo, per una miglior comprensione, che dai moderni, Fulcanelli in particolare, è detto Mercurio Filosofico. Di questo parla
l'apoftegma famoso, che lo dà sottoposto a cottura, come solo necessario per concludere l'Opera, e che qui ripetiamo a buon auspicio dell'eventuale,
fortunato lettore:
Ignis et Azoth tibi sufficiunt
Note:
(1) Novum Lumen, op. cit, tractatus XII
(2) Eugène Canseliet, F.C.H. L’Alchimia spiegata sui suoi testi classici Ed. Mediterranee Roma 1985
(3) R. A. Schwaller De Lubicz, op. cit.
(4) Pharmacopoeia Medico – Chymica sive Thesaurus Pharmacologicus…atque insuper Principia Phisicae Hermetico-Hippocraticae…Autore Joanne Schrôdero , emendatum…notisque
auctum à Joanne Ludovico Witzelio… Francofurti 1677
(5) Gabriele Panteghini Il mondo materiale nel piano della salvezza, Ed. Paoline, Roma 1968
(6) Vedi Thomas S. Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1978
(7) Vedi ad es. A. J. Festugiére Hermetisme et Mystique païenne Paris 1967, pag. 230 e segg.. La óó, o “pupilla del mondo” si trova nel IV volume del Corpus Hermeticum edito da Les
Belles Lettres Paris, 1972.
(8) Apographum Epistolarum hactenus ineditarum M. Sendivogli, seu I.I.D.I. Cosmopolitae vulgo dicti. In Bilbl. Chem. Curiosa op. cit. , lib. III sect. II subsect. XI. Non metteremo qui in discussione l’attribuzione di queste lettere. Per parte nostra abbiamo buoni motivi per ritenerle autentica opera
dell’allievo di Cosmopolita.
(9) Timeo , VIII in Platone Opera Omnia vol. 2, Laterza, Bari, 1967. Per un ‘informazione più ampia su Platoine filosofo ermetico vedi, Alchemical texts bearing the name of Plato, by D. W. Singer,
in Ambix, The journal of the Society for the study of Alchemy and Early Chemistry December 1946,
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vol. II, n.3, 4. Per un esempio vedi Platonis libri Quartorum, seu stellici, cum commento Hebuhabes Hamed, explicati ab Hestole: è manu exaratis codicibus desumpti nunc primum typis donati. Si trova
in Theatrumm Chemicum, Praecipuos selectorum auctorum tractatus de chemiae et lapidis philosophici antiquitate, veritate, jure, prestantia & operationibus continens… Volumen Quintum.
Argentorati. Sumptibus Heredum Zetneri, M.DC.LX
(10) La Tourbe des Philosophes ou l’assemblée des disciples de Pytagoras appellée le code de verité, in Divers Traitéz de la Philosphie Naturelle….A Paris, chez Jean d’Houry…M.DC.LXXII.
(11) Demeures Philosphales, op. cit., I volume pag. 262
(12) Expication trés curieuse des enigmes et figures Hiérogliphiques Physiques, qui sont au grand portail de l’Eglise Cathedrale et Métropolitaine de Notre-Dame de Paris, par le Sieur Esprit
Gobineau de Montluisant, Gentilhomme Chartrain, Ami de la Philosophie Naturelle et Alchimique, in Trois Ancien Traitées d’Alchimie, calligraphie et pròlegomènes d’Eugène Canseliet, F.C.H., J. J.
Pauvert, Paris 1975
(13) Citato da P. Zellini, Breve storia dell’infinito, Adelphi, Milano 1980
(14) Vedi in P. Zellini, op. cit. per un primo approfondimento.
(15) Traité du Sel. Troisième Principe des choses monérales. De noveau mis en lumière. Texte de l’edition francaise de 1691. Introduction et notes par Bernard Roger. Paris 1976
(16) Lux obnubilata suaptè Natura refulgens, vera de Lapide Philosophico Theorica, metro italico descripta et ab Auctore Innominato Commenti Gratia ampliata. Venetiis, MDCLXVI, Apud
Aexandrum Zatta, Superiorum Permissu & Privil.
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