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Luca De Fassi

Relatore: Prof. Cavaggioni

A. A. 2012/2013

Fenomenologia della sconfitta nella Roma repubblicana. L'età della guerra annibalica

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INDICE

Copertina……………………………………………………………………………..pp. 1

Introduzione……………………………………………………………………......pp. 1-2

Prima parte…………………………………………………………………………...pp. 3

Battaglia del Ticino………………………………………………………………..pp. 5-10

Battaglia del Trebbia………………………………………………..…………....pp. 11-16

Battaglia del Trasimeno…………………………………………..……………...pp. 17-23

Lucio Ostilio Mancino…………………………………………..………………..pp. 24-25

Battaglia di Canne……………………………………………..…………………pp. 26-36

Sconfitta di Capua ed episodi bellici coevi………………....……………………pp. 37-44

I battaglia di Erdonea……………………………………..……………………..pp. 45-46

Gli Scipioni in Spagna…………………………………..………………………..pp. 47-50

II battaglia di Erdonea………………………………..………………………….pp. 51-53

Agguato a Venosa……………………………………..………………………….pp. 54-55

Seconda parte………………………………………..……………………………...pp. 56

Responsabilità………………………………………..…………………………..pp. 57-77

-Considerazioni generali…………………………..………………………………...pp. 57

-Ferocia e temeritas………………………………..…………………………….pp. 57-69

-Astuzie dei Cartaginesi…………………………..……………………………...pp. 70-74

-Defezione dei mercenari………………………..……………………………….pp. 74-75

-Prodigia..........................………………………..……………………………….pp. 75-77

Bibliografia…………………………………......………………………………..pp. 78-79

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro si inserisce all'interno di un più vasto progetto di ricerca,

finalizzato a studiare il fenomeno della sconfitta militare nella realtà di Roma antica.

La disfatta non viene considerata nella sua dimensione tecnico-militare,

bensì sul piano storico, sociale e politico. Inoltre viene analizzata l'importanza del

momento della sconfitta (pur sottovalutato dai moderni), come elemento chiave

dell'ascesa di Roma. Più precisamente viene dato risalto alle modalità con le quali

l'insuccesso viene nelle fonti presentato, raccontato, spiegato e talvolta esorcizzato.

In questa prospettiva, il presente studio si è occupato di analizzare la

rappresentazione dell'evento-sconfitta nell'opera di uno degli autori più significativi del

panorama storiografico latino, lo storico Tito Livio. Per quanto riguarda la monumentale

opera liviana “Ab Urbe Condita”, purtroppo sopravvissuta solo parzialmente, si è presa in

considerazione la terza deca (Libri XXI-XXX), che narra gli eventi della II guerra punica.

Il conflitto annibalico, infatti, fu teatro per i Romani, di numerose e significative

battaglie perse.

Si è perciò proceduto ad individuare i casi delle disfatte attestati dalla fonte,

attraverso la lettura integrale del testo liviano (dei libri XXI-XXVII). Nel comporre tale

casistica si sono prese in considerazione anzitutto le sconfitte subite in battaglia campale,

ma anche gli episodi minori più importanti, che hanno avuto comunque una forte eco nel

mondo romano del tempo. Successivamente si è proceduto a realizzare delle schede, in

cui per ciascun caso, veniva precisata la collocazione cronologica, lo svolgimento dello

scontro, la tipologia della sconfitta con la relative perdite umane e la descrizione che lo

storico fornisce dei protagonisti di queste battaglie.

Sulla base di tale lavoro preliminare, l'elaborato finale è venuto

articolandosi in due distinte sezioni. Nella prima parte si sono esaminati i singoli episodi,

così come sono narrati dalla fonte, senza particolari commenti. Nella seconda parte è

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stata creata un'analisi dei temi più rilevanti emersi dalla precedente lettura. In particolare

si è posto l'accento alle cause e alle responsabilità che Tito Livio affibbia ad ogni

sconfitta. Tali responsabilità si dividono in quattro sezioni basilari: nella precipitazione

ed eccessiva foga del comandante (che Livio precisa tramite i due termini chiave ferocia

e temeritas), nelle insidiae tese da Annibale e dai suoi uomini, nello scarso affidamento

che si può fare sulle truppe mercenarie e nella spiegazione trascendentale, data da una

lunga lista di prodigia, che lo storico fornisce come ulteriore motivazione per queste

disfatte.

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PRIMA PARTE

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BATTAGLIA DEL TICINO

Nella sua opera, “Ab urbe condita”, Tito Livio dedica un ampio spazio alle

vicende che ruotano attorno alla seconda guerra punica. Lo storico descrive tra le altre

cose una decina di sconfitte (escludendo quelle minori) nette, che subisce l’esercito

romano contro i nemici Punici. La prima battaglia che analizzerò riguarda lo scontro, la

breve scaramuccia, che viene nettamente persa dai Romani nel presso del fiume Ticino.

Lo storico patavino non fissa una data precisa riguardo a questa disfatta, ma leggendo la

sua opera (soprattutto i passi precedenti alla battaglia in sé), si possono trovare una serie

di dati che permettono una sistemazione cronologica più sicura.

Livio ci dice come prima cosa, che l’esercito dei Cartaginesi si mise in marcia da

Cartagena all’inizio della primavera e cinque mesi e quindici giorni dopo la partenza,

Annibale e l’esercito erano già arrivati in Italia1. Inoltre lo storico ricorda che appena gli

Africani raggiunsero la cima delle Alpi, nel cielo stava ormai tramontando la

costellazione delle Pleiadi2. Inoltre, una volta che Annibale scese nella pianura padana,

rimase fermo a recuperare le forze per qualche giorno e riuscì contemporaneamente a

conquistare la capitale dei Taurini3. In base a questi dati, gli storici moderni tendono a

collocare lo scontro del Ticino verso la fine di settembre, inizio ottobre dell’anno 218

a.C.4

Come si giunge allo scontro:

Nella versione che propone Tito Livio riguardo alla disfatta romana sul Ticino,

vediamo come si soffermi molto su tutti quei dettagli che precedono la battaglia. Prima

dedica un ampio spazio alle mosse di Annibale per raggiungere l’Italia, descrivendole

precisamente da XXI.38.1 a XXI.46.2. Secondo lo storico, i Romani erano convinti che

Annibale volesse soltanto difendere i suoi possedimenti in Spagna, così il Senato inviò 1 Liv. XXI.38.12 Liv. XXI.35.63 Liv. XXI.39.4-54 G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, III-II, Firenze 1968, pp. 82-85 - G. BRIZZI, Storia di Roma, I: Dalle origini ad Azio, Bologna 1997, pag. 195

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nella penisola iberica Publio Cornelio Scipione, mentre il collega Tiberio Sempronio

Longo, venne mandato in Sicilia per organizzare lo sbarco in Africa. Nell’opera Ab Urbe

Condita, possiamo leggere come i due eserciti s’incontrino sul campo di battaglia. Il

console Scipione si affrettò a incontrare Annibale, che aveva appena traversato le Alpi,

per affrontarlo in battaglia e prendere l’iniziativa, dato che gli uomini del cartaginese

erano ancora stremati dal difficile percorso1.

Per attaccare più in fretta possibile i nemici, Publio ottenne da Manlio e da Atilio

una legione ciascuno, formata però da milizie fresche e demoralizzate dalle recenti

sconfitte2. Quando però giunse nei pressi di Piacenza, ormai Annibale aveva già

conquistato la città dei Taurini e si stava accattivando l’aiuto dei Galli.

A questo punto i due eserciti erano di fronte l’uno all’altro e già i due comandanti

ammiravano il rispettivo valore: anche il loro viaggio era quasi simile, Scipione dalla

Gallia raggiunse le Alpi via mare e via terra3, mentre Annibale le valicò direttamente.

Per quanto riguarda il numero dei soldati a disposizione di Annibale, Livio ci dice

di aver trovato un enorme disaccordo tra gli storici antichi. Alcuni parlano di un

grandissimo contingente, con 100.000 fanti e 20.000 cavalieri, altri di uno molto più

piccolo, con 20.000 fanti e 6.000 cavalieri. Livio si pone in una via di mezzo seguendo le

notizie di L. Cincio Alimento che afferma di essere stato prigioniero di Annibale e di aver

visto con i suoi occhi 80.000 fanti e 10.000 cavalieri (anche se in realtà aggiunge sia i

Galli, sia i Liguri). Sempre Alimento afferma di aver sentito dire da Annibale di aver

perduto dopo il Rodano circa 36.000 uomini, il che vorrebbe dire che gli uomini a

disposizione del cartaginese, nella pianura padana, erano circa 54.000 unità4.

La preparazione allo scontro:

1 Liv. XXI.39.32 Liv. XXI.25.1-14: i Boi si ribellarono perché i Romani in poco tempo fondarono nel loro territorio le colonie di Piacenza e di Cremona. I Romani superstiti si rifugiarono a Modena e furono presi sotto assedio dai Galli Boi: allora il pretore L. Manlio irato per questa ribellione, arrivò a Modena con delle schiere disordinate. Essendo una regione boschiva e non avendo Manlio perlustrato a dovere queste zone, cadde in un’imboscata e salvò a stento il suo esercito, perdendo molti soldati e alcune insegne.3 Pol. III.61.2: Scipione viaggio via mare da Marsiglia fino all’Etruria e poi via terra fino alle Alpi.4 Liv. XXI.38.1-6 Per quanto riguarda il numero di 20.000 fanti e 6.000 cavalieri, cfr. Pol. III.56.4: di questa cifra il cartaginese stesso rende una testimonianza personale nella celebre iscrizione commemorativa da lui stesso dedicata all’interno del santuario Lacinio, presso Crotone.

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Livio arriva a narrare il combattimento vero e proprio solo a XXI.46.3. Prima

dello scontro inserisce una lunga sequenza narrativa che comprende: l’elogio dei due

generali1, i metodi usati da entrambi per preparare i propri soldati alla battaglia2, le prime

manovre3 e una nuova descrizione dei differenti stati d’animo4. Dopo una lunghissima

preparazione psicologica allo scontro, vedremo come questo si sviluppi in pochissime

righe5.

Le parole di Scipione per incoraggiare i suoi soldati riguardarono il fatto che i suoi

uomini stavano combattendo contro un esercito già sconfitto in partenza (quello della

prima guerra punica) e che combatteva non per audacia, ma perché non aveva altra via di

fuga6. Infatti l’esercito romano secondo il console, stava per scontrarsi contro degli

schiavi e non doveva battersi per la salvezza, ma per mantenere intatto l’onore. Come se

non bastasse, Livio spiega che gli uomini di Annibale erano fiacchi e stanchi a causa

della lunga traversata e ben due terzi avevano perso la vita. Scipione inoltre è curioso di

testare la tanto famosa abilità dell’esercito nemico per vedere se effettivamente sono

cambiati o se sono rimasti ancora quelli della prima guerra punica. Secondo l’opinione

dello storico patavino, gli avversari dei Romani risultano essere degli ingrati perché

nonostante le buonissime condizioni di pace che la Repubblica aveva imposta a

Cartagine, essi gli si rivoltavano contro senza alcun indugio.

La versione liviana di questa battaglia, mostra un lato molto crudele di Annibale. Il

generale, infatti, usò un metodo totalmente diverso per preparare i suoi soldati: presentò

alle truppe dei giovani prigionieri catturati durante il tragitto sulle Alpi7, che aveva fatto

trattare molto duramente apposta per questa situazione. Fece vedere loro moltissimi

premi di ogni tipo, tra cui armi, armature e anche dei cavalli e disse che chi avesse voluto

ottenerli, avrebbe dovuto combattere in duello con un altro prigioniero. In questo modo il

vincitore avrebbe ottenuto il premio, mentre lo sconfitto sarebbe morto liberandosi però

delle sofferenze che stava passando. Annibale la pensava allo stesso modo per i suoi

1 Liv. XXI.39.7-92 Liv. XXI.40-41 e Liv. XXI.42-443 Liv. XXI.45.1 (manovre dei Romani) e Liv. XXI.45.2-4 (manovre puniche)4 Liv. XXI.45.4-9 e Liv. XXI.46.1-35 Precisamente in Liv. XXI.46.4-106 Liv. XXI.40.6-87 Liv. XXI.42.1

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soldati: se avessero vinto sarebbero diventati i più felici tra gli uomini, ma se fossero

morti combattendo sul campo di battaglia, si sarebbero liberati da ogni sofferenza.

D’altro canto se fossero fuggiti da codardi, avrebbero ricevuto ogni disgrazia possibile.

Annibale criticò anche la forza del generale avversario, visto che comunque lui era

comandante da tanto tempo e conosceva perfettamente i suoi uomini, Scipione invece era

console (quindi provvisto di due legioni) da appena sei mesi1.

Terminata la preparazione psicologica dei due eserciti, finalmente Livio descrive

le prime manovre che sono il prologo dello scontro2: i Romani per primi creano un ponte

sul fiume Ticino e pongono un baluardo per difenderlo3. Intanto Annibale manda

Maarbale con cinquecento cavalieri Numidi a devastare i campi degli alleati dei Romani,

cercando però di risparmiare il più possibile le popolazioni galliche4.

Terminata questa breve preparazione l’esercito romano si accampò a circa 5.000

passi da Victimuli5, dove si trovava quello cartaginese. La battaglia era ormai alle porte e

nuovamente Livio ci da una descrizione dei differenti stati d’animo. Annibale richiamò

Maarbale e i Numidi e ricordò ai suoi uomini le ricompense che avrebbero ottenuto

sconfiggendo i Romani: chi voleva poteva scegliere tra territori senza tasse in Italia,

Africa o Spagna, denaro oppure la cittadinanza cartaginese. Inoltre per dare veridicità a

queste promesse, immolò un agnello sacrificale sfracellandone la testa; dopo questo

sacrificio i soldati Cartaginesi non aspettavano altro che scendere in battaglia6.

Il patavino sembra già giustificare la sconfitta, poiché racconta come tra i Romani

serpeggiasse la paura perché si erano recentemente verificati dei terribili prodigia: un

lupo era entrato nell’accampamento, aveva ferito alcuni soldati ed era fuggito incolume,

poi uno sciame d’api si era collocato su di un albero sopra la tenda di Scipione7.

1 Per quanto riguarda il discorso di Annibale ai suoi uomini, cfr. Liv. XXI.43-442 Pol. III.65.1: Gli schieramenti secondo Polibio, si mossero in questo modo: dal lato rivolto alle Alpi, i Romani lo tenevano alla sinistra e i Cartaginesi alla loro destra. Il giorno successivo si accamparono, poiché gli esploratori dei due eserciti riferirono ai comandanti che i rispettivi eserciti erano nelle vicinanze; il giorno dopo avanzarono lungo la pianura desiderosi di incontrarsi e misurare le rispettive abilità.3 Liv. XXI.45.14 Liv. XXI.45.2-45 5.000 passi corrispondo circa a 7,4 km6 Liv. XXI.46.8: il giuramento di Annibale con l’agnello, molto vicino alla tradizione romana, potrebbe essere un’invenzione liviana e assomiglia molto al rito romano di Giove Lapide (DE SANCTIS, Storia dei Romani, pag. 87).7 Liv. XXI.46.1-2

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Il combattimento:

Lo svolgimento della battaglia nell’opera di Tito Livio è descritta molto più

brevemente rispetto allo spazio dedicato dallo storico alle premesse; la disfatta si

snocciola tutta quanta all’interno del capitolo 46.3-10.

In queste righe lo storico ci mostra che appena i due eserciti si avvicinarono, si

levò una nube di polvere e subito i soldati si disposero per combattere. Publio mandò

avanti frontalmente sia i frombolieri, sia la cavalleria gallica e poi tutte le altre unità,

mentre Annibale dispose in prima linea la cavalleria spagnola più resistente e alle due ali

tenne la cavalleria numidica come rinforzo e per accerchiare lo schieramento romano1.

Appena iniziò la battaglia, i lancieri non fecero neanche in tempo a scagliare le

loro armi che dovettero subito ritirarsi per non venire investiti dalla cavalleria romana2.

Intanto la battaglia cambiò natura perché dopo il primo assalto, la cavalleria dei

Cartaginesi scese da cavallo e ingaggiò una battaglia pedestre con i Romani. Subito dopo

la cavalleria numidica riuscì ad accerchiare con successo l’esercito di Scipione e a

travolgere i lancieri Romani che si erano appena ritirati; a questo punto anche il resto dei

soldati Romani, quelli posti sulla fronte, si vide accerchiato dai Numidi e fuggì

precipitosamente a Piacenza, guidato dal generale Publio ferito durante lo scontro, ma

salvato dal figlio, il futuro africano3. La prima battaglia contro Annibale mostrava

chiaramente la sua superiorità nella cavalleria e quindi Livio afferma quanto fosse poco

probabile sconfiggerlo nel territorio pianeggiante della valle padana4.

Annibale sul Ticino riuscì a prendere 600 prigionieri e dopo il suo successo riuscì

anche ad ottenere l’alleanza di tutti i Celti che stavano lì vicino e poté ottenere così altri

rifornimenti. Pochi giorni dopo a sei miglia da Piacenza5 si accampò aspettando che i

Romani uscissero per dargli battaglia6.

Intanto nell’accampamento romano a Piacenza si rivoltarono durante la notte i

soldati alleati Celti e duemila fanti e duecento cavalieri, uccise le poche sentinelle

1 Liv. XXI.46.3-62 Liv. XXI.46.63 Liv. XXI.46.6-104 Liv. XXI.47.15 Corrispondono circa a 8.880km6 Liv. XXI.47.8

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romane1, passarono ad Annibale che li girò alle rispettive città natali per poter così

indurre gli altri popoli ad allearsi con lui2. Livio ci mostra a questo punto la paura di

Scipione poiché temeva ormai che tutti i Galli sarebbero passati sotto il dominio del

cartaginese; inoltre anche per paura di combattere in luoghi pianeggianti, decise di

dirigersi verso il fiume Trebbia3.

BATTAGLIA DEL TREBBIA

1 Liv. XXI.48.1-22 Pol. III.67.1-5: diversamente da Livio, Polibio ci mostra l’enorme odio dei Celti i quali, nella sua versione dei fatti, massacrano molti soldati Romani durante la notte.3 Liv. XXI.48.1-4

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Dopo il breve scontro tra le due avanguardie nei pressi del Ticino, segue la prima

vera vittoria contro l’esercito romano, maturata dal generale Annibale. Tito Livio colloca

questa sconfitta nel pieno del periodo invernale del 218 a.C.1 Vediamo come subito dopo

la battaglia nei pressi del Ticino, l’esercito romano si diresse, su indicazione di Scipione,

verso il fiume Trebbia, per cercare posizioni più elevate che potessero ostacolare la

potenza della cavalleria nemica2.

Come si giunge allo scontro (spostamenti e casus belli):

Lo storico padovano ci presenta all’interno del capitolo cinquantadue della sua

opera, gli spostamenti dei due eserciti prima di affrontarsi sul campo. Annibale capì

subito le mosse di Scipione (cioè raggiungere territori montuosi per annientare facilmente

la forza della cavalleria numida) e non si fece ingannare. Si accampò nei pressi di

Clastidium e poiché aveva quasi finito viveri e approvvigionamenti, s’impadronì della

città, riserva romana di frumento. Il cartaginese riuscì a comprare il prefetto del presidio

Dasio di Brindisi per soli 400 nummi d’oro, senza ferire nessuno dei cittadini, mostrando

così di essere anche un generale clemente3.

A questo punto dell’opera Livio fa una breve digressione per presentarci il

prossimo generale, l’altro console Tiberio Sempronio Longo4.

Se nella precedente battaglia Livio ci mostra uno scontro tra pochi soldati, visto

più come una scaramuccia, qui vediamo opporsi ad Annibale ben due eserciti consolari.

Secondo lo storico, questo dispiegamento di forze era la chiara dimostrazione che o con

quei soldati si doveva difendere il dominio di Roma, oppure ormai ogni altra speranza era

perduta5.

Lo storico patavino insiste molto sul dissidio tra i due consoli, che si traduce anche

in due visioni strategiche totalmente diverse: Scipione, stanco e ferito, preferiva tirare la

battaglia per le lunghe, mentre il collega Sempronio era molto più fresco di forze e di

1 Liv. XXI.54.7 “erat forte brumae tempus et nivalis dies”2 Liv. XXI.48.43 Liv. XXI.48.8-94 Liv. XXI.49-51: Tiberio Sempronio era stanziato in Sicilia con una flotta e due legioni. Ottenne numerosi successi tra i quali riuscì anche a guadagnare l’alleanza di Siracusa.5 Liv. XXI.52.1

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coraggio e non tollerava alcun indugio1. Il casus belli di questa seconda battaglia

all’interno della pianura padana lo dobbiamo ricercare nel comportamento dei Galli:

infatti, questi, infedeli per fama, facevano il doppio gioco per piacere sia agli alleati

Romani, sia ai nemici Cartaginesi. Questo comportamento andava bene ai Romani, ma ad

Annibale assolutamente no, così mandò circa 2.000 fanti e 1.000 cavalieri a devastare le

loro terre2. Secondo Livio, i Galli chiesero subito l’aiuto di Roma e nuovamente qui

possiamo vedere le due differenti strategie dei consoli: da una parte Scipione non voleva

attaccare i razziatori Cartaginesi soprattutto perché riteneva i Celti troppo infedeli,

ricordando anche il recente attacco dei Boi3, mentre dall’altra il collega Sempronio era

convinto bisognasse mantenere saldi gli alleati e non aspettava altro che la guerra4.

Astuzie di Annibale:

Fin dalle prime battaglie, Livio ci mostra l’indole e l’abilità strategia del

comandante cartaginese. Le astuzie che compie Annibale prendono in contropiede i primi

generali Romani che si scontrano con lui. La battaglia sul fiume Trebbia è ricca di esempi

che ci fanno capire la geniale abilità del condottiero punico.

Mentre il collega temporeggiava, Sempronio decise di mandare tutta la cavalleria

con mille pedites, la maggior parte iaculatores, a difesa dei Galli. I Romani, avendo

assalito improvvisamente i Cartaginesi sparsi et incompositi, e carichi di bottino,

provocarono grande terrore e stragi, facendo fuggire i Cartaginesi fino ai loro

accampamenti. Qui i Romani, per quanto furono respinti da una moltitudine che si era

precipitata fuori, ripresero la battaglia con l’aiuto del console. Benché la battaglia si

svolgesse con alterna fortuna, il numero dei Cartaginesi uccisi era superiore a quello dei

Romani5. Livio ci descrive che questa vittoria, agli occhi di Sempronio motivò l’esercito

romano e lo stesso generale ormai diceva che l’animo dei suoi soldati era pronto per la

battaglia e secondo lui, nessuno, se non il collega malato (nella mente più che nel corpo),

1 Liv. XXI.52.1-32 Liv. XXI.52.5-63 Liv. XXI.48.1-24 Liv. XXI.52.85 Liv. XXI.52.9-11

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voleva aspettare1; sembrava arringare i suoi uomini e scontrarsi con il generale Scipione

come se fosse in una prope contionabundus. A breve sarebbero arrivati i comizi e

Sempronio non avrebbe potuto infliggere una sconfitta decisiva che sarebbe toccata al

suo successore2.

Pertanto Annibale era consapevole di cosa avrebbero dovuto fare i Romani per

sconfiggere il suo esercito, ma osava appena sperare in una mossa azzardata da parte dei

due consoli, soprattutto da Sempronio. Era ansioso di combattere per sfruttare il fatto che

le milizie repubblicane fossero ancora delle reclute e che il migliore dei due capitani

fosse fuori combattimento. Per questi motivi non vedeva l’ora di combattere e pronto a

provocare i Romani alla battaglia, si mise a cercare un luogo adatto per tendere

un’insidia3.

Lo storico patavino descrive quindi, l’abile stratagemma adottato da Annibale: il

generale trovò presto un piccolo corso d’acqua chiuso da entrambi i lati, con alte rive e

protetto da fitti rovi4. Subito dopo fece chiamare Magone, suo fratello, e gli fece scegliere

100 uomini tra fanti e cavalieri. Ciascuno di questi soldati doveva scegliere nell’esercito

altri nove uomini a testa, che potevano essere sia cavalieri, sia fanti. In totale ci furono

1.000 fanti e 1.000 cavalieri e questi erano gli uomini che dovevano celarsi nel ruscello

per tendere un’imboscata ai Romani e attaccarli alle spalle5.

La battaglia:

1 Liv. XXI.53.2-32 Liv. XXI.53.3-63 Liv. XXI.53.7-114 Liv. XXI.54.15 Liv. XXI.54.2-4

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Nell’opera Ab urbe condita, Possiamo dividere la narrazione della battaglia in tre

parti distinte: le prime fasi e la preparazione1, lo svolgimento2 e gli istanti subito dopo la

sua conclusione3.

Per quanto riguarda la preparazione allo scontro tra i due schieramenti, vediamo

come l’esercito di Annibale si fosse già rifocillato la notte stessa; i suoi soldati si erano

spalmati di olio e avevano acceso dei fuochi vicino all’accampamento per affrontare al

meglio il freddo pungente4.

All’alba poi i Numidi crearono scompigli nei pressi dell’accampamento romano e

riuscirono a provocarli con successo, poiché la cavalleria prima, 6.000 fanti e il resto

dell’esercito poi, passarono il fiume per inseguirli5. I soldati Romani non avevano

mangiato nulla e quando, per inseguire i Numidi in fuga, entrarono nell’acqua gelida (ci

troviamo infatti in inverno6), rischiarono l’assideramento e fecero fatica perfino tenere in

mano le armi7. Lo storico patavino sembra però difendere le colpe dell’esercito romano,

per salvaguardare l’onore dei soldati: la sconfitta avviene più che altro perché i soldati

lanciati all’attacco da Scipione erano molto stanchi e semi assiderati, per via

dell’attraversamento del fiume ghiacciato.

Il racconto dello svolgimento della battaglia secondo la visione liviana, è molto

più lungo rispetto al breve scontro sul Ticino: vediamo che Annibale collocò in prima

linea8 8.000 uomini tra frombolieri e fanteria leggera, più indietro quella pesante, alle ali i

10.000 cavalieri e ai lati gli elefanti che rimanevano9. Sempronio richiamò i cavalieri che

si erano lanciati all’attacco dei Numidi e li fece circondare dai fanti. Il console schierò

18.000 soldati Romani e 20.000 latini, con qualche milizia ausiliaria dei Galli Cenomani,

i soli rimasti fedeli alla repubblica romana10. I frombolieri iniziarono per primi, ma 1 Liv. XXI.55.12 Da Liv. XXI.55.2 fino a XXI.56.43 Da Liv. XXI.56.4 fino a XXI.57.144 Liv. XXI.55.15 Liv. XXI.54.6-76 Liv. XXI.54.77 Liv. XXI.54.8-98 Pol. III.72.8: a 1.480 metri di distanza dal suo accampamento.9 Liv. XXI.55.2 - DE SANCTIS, Storia dei Romani, pag. 29: Annibale al centro teneva i Galli, dove sarebbe venuto l’urto più forte dei fanti Romani e ai lati le milizie scese con lui in Italia, che voleva risparmiare, protette davanti dagli elefanti. Fu anche per la posizione dei Galli che in 10.000 poi riuscirono a sfondare lo schieramento e a raggiungere Piacenza.10 Liv. XXI.55.4

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vedendo che le legioni romane resistevano senza difficoltà, si spostarono alle ali assieme

alla cavalleria. In tal modo la cavalleria romana, stanca e in netta inferiorità numerica, fu

decimata subito dai 10.000 cavalieri Cartaginesi, dai frombolieri e dagli elefanti, che

portarono grande terrore ai cavalli1.

Quanto alla performance della fanteria, Livio dice che solo grazie al coraggio dei

fanti Romani la battaglia rimase in parità, ricordandoci nuovamente che le truppe di

Annibale erano fresche e ben nutrite, mentre i soldati consolari erano intorpiditi e stanchi

per il digiuno. Avrebbero resistito facilmente, nella versione dello storico, se avessero

dovuto combattere solo contro la fanteria pesante: tuttavia da una parte c’erano i

frombolieri delle Baleari che lanciavano frecce sui fianchi, dall’altra gli elefanti che

premevano frontalmente e quando sbucò dal ruscello Magone con i suoi uomini,

quest’ultimo provocò un’ondata di terror. Nonostante tutto, le truppe di fanteria rimasero

solide contro l’impeto degli elefanti, poiché dei velites, appostati proprio a tale scopo,

riuscirono a far fuggire gli animali.

A questo punto gli elefanti furono spinti contro l’ala sinistra dei Galli, i quali, non

avvezzi a combattere contro bestie del genere, fuggirono subito, fatto che portò il panico

nelle file dei Romani, rimasti da soli.2 In 10.000 uomini, circondati e senza possibilità di

ritornare all’accampamento a causa del fiume gelido, né di aiutare i compagni in

difficoltà, si aprirono la strada attraverso il contingente africano per raggiungere

Piacenza3. Il fiume impetuoso impedì ai Cartaginesi di inseguire i Romani in fuga e Tito

Livio cerca di smorzare in qualche modo la vittoria di Annibale: il freddo pungente fece

morire per le ferite molti dei soldati Africani, che a stento poterono rallegrarsi di questa

impresa.4

1 Liv. XXI.55.6-72 Per quanto riguarda lo svolgimento della battaglia, cfr. Pol. III.73-74: la cavalleria cartaginese sconfisse e mise in fuga quella romana, lasciando così i fianchi dello schieramento completamente scoperti. Ai lati incombevano i lancieri Cartaginesi e la cavalleria numidica, impedendo così alle ali romane di attaccare in fronte. Sebbene la battaglia potesse sembrare già persa a questo punto, la potenza della fanteria pesante era la chiave che ancora poteva tenere la battaglia in situazione di parità. A questo punto entrò in scena Magone: il fratello di Annibale uscì di colpo dal ruscello e mise in fuga anche le ali romane, infliggendo poi gravi perdite alla retroguardia repubblicana.3 Liv. XXI.56.44 Liv. XXI.56.6-7

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Gli altri sopravvissuti1 si diressero con il console Scipione a Piacenza ma visto che

vi si trovavano già altri 10.000 uomini, non potendo questa città sopportare troppi soldati,

vennero mandati a Cremona2.

Secondo lo storico patavino, questa sconfitta portò una grande paura a Roma e si

credeva già che Annibale avrebbe attaccato la città3: ormai infatti ben due eserciti

consolari erano stati sconfitti. Sempronio, salvo audacia magis quam consilio, tornò a

Roma a presiedere i comizi e infine ritornò ai quartieri d’inverno4. I nuovi consoli furono

Cneo Servilio Gemino e Caio Flaminio Nepote5.

BATTAGLIA DEL TRASIMENO

1 circa 10.0002 Liv. XXI.56.93 Liv. XXI.57.1-34 Pol. III.75.1-2: dopo la sconfitta Sempronio mandò degli ambasciatori a Roma a dire che il maltempo aveva rubato la vittoria ai suoi soldati; in un primo momento tutti i Romani ci cedettero, però poi scoprirono che i Cartaginesi avevano già occupato gli alloggiamenti dei Romani e che quasi tutti i Celti erano passati in mano al nemico.5 Liv. XXII.57.4

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Alla sconfitta occorsa presso il fiume Trebbia, segue quella, più grave ancora,

consumatasi lungo le rive del lago Trasimeno. Livio non specifica la data esatta dello

scontro, ma una serie di riferimenti –come l’allusione alla partenza di Annibale dai

quartieri invernali quando iam ver appetebat1 e l’assunzione del consolato da parte di

Cneo Servilio idibus Martiis2- portano a collocarlo a primavera inoltrata, inizio estate del

217 a.C. Il calendario romano in effetti indicava la data del 21 giugno3.

Antefatto della battaglia, i presagi:

Livio ci racconta che avvicinandosi la primavera del 217 a.C., Annibale decise di

spostarsi dai quartieri d’inverno, anche perché i Galli erano stanchi e minacciavano la

rivolta4. Intanto a Roma iniziò l’esercizio consolare Gneo Servilio, mentre nei confronti

di Gaio Flaminio si riversava l’odio dei senatori.

Già in precedenza Flaminio aveva ricevuto numerose ostilità sia per il consolato

che tentavano di toglierli, sia a causa del trionfo contro gli Insubri. Inoltre Livio ci spiega

che aveva anche appoggiato il tribuno Q. Claudio per far approvare una legge che

impediva ai senatori di possedere una nave con un carico maggiore di trecento anfore di

grano. Questo provvedimento causò odio tra i nobili, ma una larga approvazione nella

plebe. Come se non bastasse, il neo eletto console, prese gli auspici necessari alla sua

entrata in carica fuori dalle mura di Roma. Nuovamente si scagliò contro il costume

romano e causò ancora ira da parte dei senatori. Finalmente il comandante romano venne

richiamato nella capitale e subito Tito Livio ci presenta degli infausti presagi a lui

associati: mentre Flaminio celebrava il sacrificio, un vitellino sfuggì dalle mani dei

sacerdoti e bagnò di sangue tutti i presenti5.

A questo punto dell’opera, lo storico padovano elenca una lunga serie di prodigia

che augebant metum dei Romani nei confronti dei nemici Africani6. In Sicilia fecero

scintille le punte delle lance di alcuni soldati, in Sardegna prese fuoco il bastone di un

1 Liv. XXII.1.1 e Liv. XXI.58.22 Liv. XXII.1.4 “per idem tempus Cn. Servilius cos. Romae idibus Martiis magistratum iniit”3 Ov. Fasti VI.765-7684 Liv. XXII.2.1 e XXII.1.1-45 Liv. XXI.63.1-156 Liv. XXII.1.8 “augebant metum prodigia ex pluribus simul locis nuntiata”

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cavaliere che ispezionava le sentinelle, dei fuochi lampeggiarono sulle spiagge, due scudi

sudarono sangue, alcuni soldati furono colpiti da un fulmine, inoltre il cerchio del sole

sembrava più piccolo del solito. A Preneste caddero dal cielo dei sassi infiammati, ad

Arpi si videro in cielo degli scudi e il sole che lottava contro la luna, a Capena sorsero

due lune durante il giorno, a Cere le acque delle sorgenti fluirono miste a del sangue. Ad

Anzio furono mietute delle spighe insanguinate, a Faleri il cielo si aprì come una grande

spaccatura dalla quale uscì tantissima luce, a Roma invece le statue di Marte e dei lupi

avevano sudato, a Capua si vide un cielo fiammeggiante con la luna che tramontava tra la

pioggia. Avvennero anche prodigi minori che riguardavano il mondo animale: delle capre

si trasformarono in pecore, un gallo si trasformò in una gallina, e una gallina in gallo.

Si decise di espiare questi prodigi sia con animali adulti, sia con animali da latte e

per tre giorni bisognava compiere preghiere pubbliche in tutti gli altari. Inoltre i

decemviri decisero di consultare i libri sibillini: in seguito offrirono a Giove un fulmine

d’oro del peso di cinquanta libbre, a Giunone e a Minerva dei doni d’argento, a Giunone

Regina e a Giunone Sospita un sacrificio di animali adulti, mentre le matrone dovettero

raccogliere del denaro e donarlo a Giunone Regina compiendo anche un lettisternio, e per

finire le schiave liberate dovettero offrire del denaro a Feronia1.

Partenza di Annibale:

La rievocazione della vicenda del Trasimeno, si situa all’inizio del libro XXII

dell’opera Ab Urbe Condita e copre parecchi capitoli. Come di consueto, Livio dedica

ampio spazio agli avvenimenti che precedono la battaglia vera e propria. Nello specifico

egli focalizza l’attenzione, da un lato, nelle manovre e gli spostamenti di Annibale,

dall’altro, nelle azioni dei consoli (e in generale nella situazione a Roma).

Per quanto riguarda il generale cartaginese, Livio gli attribuisce la decisione di

muovere dai quartieri invernali e imputa questa decisione sia ai timori circa l’affidabilità

dei Galli, sia alla volontà di confrontarsi con l’esercito romano. Questo, sotto il comando

di Flaminio, era accampato nei pressi di Arezzo. Lo spostamento delle truppe puniche

1 Liv. XXII.1.8-20

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sono un’occasione per descrivere la difficile traversata delle paludi lungo il fiume Arno,

durante la quale Annibale stesso avrebbe perso l’uso di un occhio.

Quanto al “versante romano”, il discorso già iniziato nei capitoli conclusivi del

libro XXI1, Livio ferma l’attenzione in primo luogo nella figura del console C. Flaminio,

oggetto d’invidia da parte dei senatori perché, senza rispettare la prassi, aveva fatto in

modo di assumere la carica non a Roma bensì direttamente a Rimini, nella provincia che

gli era stata assegnata2. Tale scelta, ricondotta da Livio a motivazioni di ordine politico (e

cioè al tentativo di aggirare eventuali impedimenta escogitati dai suoi nemici –qui

identificati con i patres- per trattenerlo a Roma3), avrebbe suscitato aspre reazioni.

Secondo il Patavino, tale atteggiamento sarebbe stato interpretato (dai patres) come

elemento capace di pregiudicare la capacità auspicale del console.

Il mancato rispetto delle procedure nell’assunzione della carica, non è (secondo i

detrattori di Flaminio) una mera questione di forma, ma mette a repentaglio le

comunicazioni con gli dei, elemento fondamentale per la sopravvivenza della città. Ecco

perché Livio fa dire che, così facendo, non cum senatu modo sed iam cum dis

immortalibus C. Flaminium bellum gerere4.

Peraltro Livio – o, meglio, la tradizione che egli segue – pare privilegiare le

argomentazioni anti flaminie. Quantomeno connette all’ascesa al consolato del

personaggio, il verificarsi di numerosi e straordinari prodigia che per gli antichi, come

noto, segnalavano una rottura della pax deorum.5 Il primo sacrificio che compie Flaminio

per celebrare la propria entrata in carica, si rivela un disastro: la vittima sacrificale tenta

la fuga sporcando di sangue tutti i presenti6. Inoltre sul campo di battaglia capitano al

comandante romano numerosi altri presagi e per finire, quando Annibale cercherà il suo

corpo tra quello dei soldati uccisi, non troverà nulla7.

1 Liv. XXI.62-632 Liv. XXI.63.1-2; 5; 13. Per il termine invidia vedi Liv. XXII.1.53 Liv. XXI.63.1-5. Si noti che i timori a Flaminio trovano giustificazione alla luce dei precedenti certamina, che avevano contrapposto i patres e il console durante il tribunato e il primo consolato di quest’ultimo4 Vedi soprattutto Liv. XXI.63.6-10 e XXII.1.5-75 J. CHAMPEAUX, La religione dei romani, tr. it. di G. Zattoni Nesi, Bologna 2002, ed. orig. La religion romaine, Paris 1998, pp. 94-996 Liv. XXI.63.13-147 Liv. XXII.7.5

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Battaglia1:

Nell’opera di Livio, dopo una lunga introduzione alla battaglia sul Trasimeno,

finalmente lo storico ci mostra i due eserciti a confronto. In tutto il terzo capitolo del libro

XXII, vediamo che Annibale scoprì che il console si trovava presso Arezzo e dal

momento che quest’ultimo era l’unico ostacolo per la discesa del cartaginese in Italia,

egli decise di indagare e summa omnia cum cura inquirendo exsequebatur. Venne a

sapere così che Flaminio era molto baldanzoso per il precedente consolato, che non

rispettava né le leggi del Senato romano, né quelle degli dei2.

Annibale scoperta la temerarietà di Flaminio decise di provocarlo e iniziò a

devastare i campi nei pressi di Fiesole. Flaminio era impaziente, tutti quanti gli

consigliavano di non attaccare ancora battaglia, ma per il console era un disonore lasciare

tutta questa libertà ad Annibale: non appena uscì dal luogo di riunione, saltò sul suo

cavallo che stramazzò subito e lo fece ruzzolare per terra. Come se non bastasse, non si

riusciva a staccare l’insegna da terra, nonostante tutti gli sforzi che si stavano facendo. I

comandanti vicino a Flaminio presero una paura enorme, poiché questi avvenimenti

venne visto come una triste premonizione. Gli unici a non essere atterriti erano i suoi

soldati che apprezzavano la grande temerarietà del capitano che credeva soltanto in se

stesso e non si affidava agli dei3.

Tito Livio si sposta a questo punto sulle azioni che decide di compiere il

comandante cartaginese per sconfiggere facilmente i suoi nemici. Il luogo che Annibale

volle sfruttare per l’imminente battaglia era dove il lago Trasimeno si avvicinava ai monti

di Cortona: in mezzo c’era una via stretta per tendere le deceptae insidiae e all’uscita una

larga pianura con delle ripide colline ai lati. Il condottiero punico si accampò nella

pianura con le truppe africane e con gli Spagnoli, dietro le colline mise i frombolieri e la

1 Un’altra versione della battaglia sul Trasimeno la troviamo in Zon. 8.25: nei pressi di Arezzo Annibale fece qualche scaramuccia contro i romani, ritirandosi sempre, dando così l’idea di temere il nemico. Durante la notte si accampò e si mise a cercare un posto adatto per la battaglia, trovando la valle del Trasimeno. Flaminio con noncuranza entrò nel luogo scelto da Annibale e decise di accamparsi per la notte: verso mezzanotte, mentre i romani dormivano, i cartaginesi li circondarono e li uccisero quasi tutti. I romani circondati dal buio della notte e dalla nebbia, non riuscirono nemmeno a vedere i loro avversari. Il clamore e la confusione che colse i romani nel sonno era talmente grande che non sentirono nemmeno i terremoti che si verificarono in quel momento. Flaminio e gran parte dei suoi uomini persero la vita.2 Liv. XXII.3.1-43 Liv. XXII.3.6-14

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fanteria leggera e dispose la cavalleria allo sbocco del passo aspettando che i romani

entrassero per prenderli alle spalle.

Flaminio arrivò al lago Trasimeno1 senza nemmeno fare una ricognizione, entrò

nel passo e vide solo i nemici schierati nell’aperta pianura. Quando la maggior parte

dell’esercito romano entrò nel luogo dell’insidia, mentre la nebbia si addensava, Annibale

diede il segnale e per i soldati del console si scatenò subito l’inferno2.

Ancora una volta l’intrepido Flaminio sfidò gli dei, urlando ai suoi che era

possibile vincere il combattimento non pregando la divinità, ma solamente con le proprie

forze. Infatti il combattimento si riaccese soltanto quando i romani si accorsero che

l’unica via d’uscita era attraverso la propria spada, visto che i nemici si trovavano in ogni

luogo: anche l’ordinato schieramento romano si ruppe e ognuno ormai combatteva a

casaccio, solo per aver salva la vita3. La battaglia si animò talmente tanto che nessuno dei

combattenti, sia romani sia cartaginesi, si accorse del potente terremoto che fece crollare

molte città italiane, deviare il corso di alcuni fiumi e precipitare i monti4.

Il combattimento durò ben tre ore e il fulcro della battaglia era proprio attorno al

console Flaminio, che suo malgrado si distingueva per la lucente e ricca armatura, mentre

soccorreva i suoi uomini ovunque ne avessero bisogno5. Un guerriero insubro di nome

Ducario, si accorse del console romano, e pieno di odio per gli eterni nemici, si scagliò

contro Flaminio trafiggendolo. In questo momento gran parte dell’esercito comincio a

fuggire6.

In questo punto dell’opera Livio ci fornisce una descrizione macabra e drammatica

su come morirono gran parte dei soldati romani. Alcuni cercarono di fuggire su per i

dirupi, mentre uomini ed armi precipitavano gli uni sugli altri, alcuni ancora avanzarono

nelle paludi meno profonde finché l’acqua non arrivò al collo e altri invece presi dal

terrore più genuino scapparono a nuoto (di questi molti annegarono e quelli che tornarono 1 Pol. III.82.8: Flaminio, vista la sua abilità di demagogo, aveva ispirato nel popolo una fiducia così grande sulla battaglia imminente, che c'erano molte più persone che venivano con lo scopo di depredare, di quanti non fossero i soldati.2 Liv. XXII.4.1-63 Liv. XXII.5.1-64 Liv. XXII.5.85 Pol. III.84.4-5: la maggior parte dei romani venne fatta a pezzi e tradita dall’incoscienza del console che ancora stava decidendo quali provvedimenti prendere. Alcuni celti assalirono e uccisero Flaminio, incerto sul da farsi.6 Liv. XXII.6.1-5

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a riva a nuoto vennero uccisi senza pietà)1. Solamente 6.000 soldati delle prime linee

riuscirono a rifugiarsi su un’altura, da dove videro il massacro del proprio esercito e però,

inseguiti dai cartaginesi, si arresero alle parole di Maarbale che promise loro di non

ucciderli2.

Il bilancio della battaglia secondo Livio fu drammatico: 15.000 romani vennero

uccisi, 10.000 riuscirono a ritirarsi a Roma. Le perdite cartaginesi erano molto inferiori,

circa 2.500 morirono durante la battaglia, più quelli che persero la vita per le ferite (Livio

ci dice di essersi avvalso delle testimonianze di Q. Fabio Pittore, una fonte romana)3.

Dopo la battaglia:

Lo storico patavino nella sua versione dei fatti, ci mostra come a Roma il popolo

venne preso da un grande terrore4 e accorse in massa al foro subito dopo questa sconfitta.

Qui il pretore M. Pomponio disse ai cittadini che la repubblica romana era stata sconfitta

in una grande battaglia. Nonostante queste parole molto vaghe, già per la città giravano le

voci che il console con tutto l’esercito era stato drammaticamente sconfitto. A questo

punto nessuno sapeva più che cosa dovesse sperare o temere, alle porte della città si

accumulava una folla di persone che cercava notizie sui propri parenti5. I pretori tennero

per giorni il senato nella curia, per decidere come si doveva resistere ai cartaginesi6.

Tito Livio ci racconta anche di un’altra sconfitta, di minor entità, occorse alle

truppe romane. Sulla martoriata repubblica si abbatté infatti un’altra sciagura: 2.000

cavalieri capeggiati dal propretore C. Centennio7, mandati da Servilio al collega Flaminio

per ostacolare Annibale, vennero circondati dal comandante dei Cartaginesi. In realtà

questa sconfitta ebbe due esiti differenti; chi pensava fosse cosa da poco perché si

1 Liv. XXII.6.5-82 Pol. III.84.13.14: secondo la versione di Polibio, i soldati si ritirarono in un villaggio etrusco. Maarbale venne inviato contro di loro e dopo alcuni giorni d’assedio, questi si arresero alle sue parole.3 Liv. XXII.7.1-34 Pol. III.85.8-9: il disastro sembrò più grande della battaglia stessa. Da molto infatti i romani non erano abituati a una sconfitta ed era quasi impossibile sopportarla con dignità.5 Liv. XXII.7.6-106 Liv. XXII.7.147 Pol. III.86.3-6: Annibale però sapeva già tutto e mandò avanti Maarbale con gli arcieri e un po’ della cavalleria. Dei 4.000 cavalieri di Centennio, 2.000 vennero uccisi e il resto presi prigionieri. Dopo questa sconfitta, avvenuta tre giorni dopo la disfatta sul Trasimeno, anche il senato perse la proprio calma e la propria tranquillità.

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sommava alle precedenti sconfitte, chi invece riteneva che fosse qualcosa di più grande

perché andava a colpire una Roma già ferita a morte1.

Secondo lo storico, dopo questi drammatici eventi venne presa una decisione

straordinaria: visto che i consoli non erano presenti a Roma, il popolo stesso elesse come

dittatore2 Q. Fabio Massimo e come maestro della cavalleria M. Minucio Rufo. Il

dittatore venne incaricato dal senato di fortificare le mura e le torri di Roma, di disporre

ogni genere di difesa e di tagliare i ponti sui fiumi. A questo punto bisognava combattere

per la salvezza della patria e per i penati3.

LUCIO OSTILIO MANCINO

Lo storico Tito Livio colloca questa sconfitta tra le due più grandi disfatte romane

nella seconda guerra punica, tra la battaglia del Trasimeno e tra quella di Canne. Il

dittatore. Lo storico patavino cita molto brevemente questa sconfitta, che occupa pochi

paragrafi all’interno del quindicesimo capitolo del ventiduesimo libro4.

1 Liv. XXII.8.1-52 Pol. III.87.7-9: diversamente dal console che aveva 12 littori, il dittatore ne aveva 24; inoltre se i consoli dovevano ottenere l’autorizzazione del senato per molti provvedimenti, il dittatore no. Tutte le magistrature tranne il tribunato furono abolite. Marco Minucio Rufo fu eletto come maestro della cavalleria e come subordinato di Fabio, che sostituiva il dittatore quando questo non era presente.3 Liv. XXII.8.5-74 Liv. XXII.15.4-10

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Quinto Fabio Massimo, il temporeggiatore, aveva in mano le redini dell’esercito.

La guerra annibalica si stava spostando ormai verso il meridione della penisola e

precisamente nei pressi dell’attuale Campania, terra ricca e florida1.

Il comandante romano occupò il monte Callicula e la città di Casilino;

quest’ultima, tagliata dal fiume Volturno, divide l’ager Falerno dall’ager Campano.

Secondo la versione dei fatti che ci riporta Tito Livio, Massimo per studiare la posizione

dei nemici, inviò L. Ostilio Mancino assieme a 400 cavalieri alleati. Quest’ultimo però

era contrario all’atteggiamento del temporeggiatore e di gran lunga preferiva le parole del

maestro della cavalleria M. Minucio Rufo. Forse la colpa per la sconfitta imminente va

ricercato nel fatto che il giovane comandante preferiva fidarsi e ascoltare saepe ferociter

contionantem magistrum equitum2.

Se all’inizio Mancino cercò soltanto di individuare la posizione dei nemici, alla

fine, fattosi prendere troppo la mano, iniziò a uccidere qualche numida vagante. Subito

dopo, lo storico patavino sembra sottolineare l’esito delle azioni intraprese da chi agisce

senza pensare e facendosi vincere dal desiderio: dopo aver attaccato molti Numidi,

Mancino e i suoi uomini si fanno attirare verso l’accampamento nemico3.

Il comandante Cartalone, al momento, secondo Livio, generale supremo della

cavalleria, esce fuori con i suoi uomini e insegue i Romani per cinque miglia. Per il

comandante romano la disfatta ormai era certa e la fuga, infatti, era impossibile. Affrontò

Cartalone e perse la vita assieme ai suoi uomini. Lo storico patavino afferma che in pochi

scamparono dalla morte4.

1 Liv. XXII.15.2-32 Liv. XXII.15.4-53 Liv. XXII.15.5-84 Liv. XXII.15.8-10

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BATTAGLIA DI CANNE

L’anno successivo alla disfatta del Trasimeno, prima, e di L. Mancino, poi, si

colloca la celebre e più grande sconfitta romana contro Annibale: la battaglia nei pressi di

Canne. Lo storico patavino non ci fornisce una data esatta di quando avvenne lo scontro,

ma un riferimento al desiderio di Annibale di scendere verso regioni più calde e

favorevoli alla maturazione delle messi1, ci fa capire che la battaglia si svolse verso la

fine della primavera, inizio estate, del 216 a.C.

1 Liv. XXII.43.5

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Situazione politica a Roma:

Livio inserisce il resoconto della sconfitta all’interno di una stridente situazione

politica nella città di Roma. Secondo lo storico, il clima politico in città nell’anno 216

a.C. era molto agitato. I comizi per l’elezione dei consoli di quell’anno, avrebbero

suscitato infatti magnum certamen patrum ac plebis1. Il popolo tentava di far eleggere il

plebeo Caio Terenzio Varrone con tutte le forze, poiché con le arti demagogiche si era

conquistato il favore del volgo e soprattutto perché costantemente offendeva i patrizi.

Il tribuno Q. Bebio Erennio era sulla stessa linea d’onda dell’homo novus: riteneva

in primo luogo che il Senato e gli auguri erano colpevoli di aver manovrato i comizi.

Inoltre accusava i nobiles di aver portato a forza Annibale in Italia e loro stessi, sebbene

fosse possibile terminare il conflitto facilmente, preferivano trascinarlo per le lunghe con

l’inganno, una sorta di foedus inter omnes nobiles. Infine era certo che la seconda guerra

punica sarebbe finita soltanto con l’elezione di un console plebeo, di un homo novus

come Varrone2.

Tra i vari candidati illustri, patrizi e plebei nobilium familiarum, viene così eletto

Varrone: per questo motivo i patres sollecitano la professio di Lucio Emilio Paolo.

Quest’ultimo, nonostante rifiutasse poiché consapevole di essere avverso alla plebe, alla

fine accettò la carica3. Secondo Tito Livio, Paolo appariva più un antagonista, magis

adversandum quam collega e inoltre lo storico sottolinea che quell’anno furono eletti

solamente magistrati di grande esperienza, tranne proprio il console plebeo4.

Lo storico padovano narra le vicende precedenti alla battaglia di Canne5

premettendo, com’è solito fare per una sconfitta imminente, una serie innumerevole di

prodigia e il clima di terror che questi causano alla popolazione. Vediamo che a Roma,

1 Liv. XXII.34.1-22 Liv. XXII.34.2-83 Liv. XXII.35.34 Liv. XXII.35.75 Gli eserciti furono notevolmente aumentati e Livio ci fornisce diverse versioni a riguardo: c’era chi sosteneva che furono aggiunte 10.000 reclute, altri, quattro nuove legioni. Inoltre le legioni furono aumentate a 5.000 fanti e 300 cavalieri e gli alleati dovevano fornire lo stesso numero di fanti e il doppio di cavalieri (in totale 10.900 uomini). Alcuni storici affermano che in campo ci furono ben 87.200 soldati Romani. Anche Polibio è stupito dal gran numero di truppe schierate dalla Repubblica e si tratta di ben otto legioni, testimonianza ritenuta più verosimile dallo storico padovano.

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nell’Aventino e in Ariccia, nello stesso momento cadde una pioggia di pietre, nel

territorio sabino le statue degli dei stillarono molto sangue, a Cere sgorgò acqua da una

fonte calda (ed era un fatto spaventoso perché accadeva spesso) e nella via fornicata, nei

pressi del Campo Marzio, alcuni uomini caddero colpiti da un fulmine1.

Visto l’esito delle precedenti battaglie, quod nunquam antea factum erat, venne

stabilito che giurassero insieme e individualmente tutti i soldati. Livio afferma che prima

di quel giorno, i Romani avevano conosciuto soltanto un tipo di giuramento, quello

collettivo. I soldati promisero di adunarsi soltanto dietro ordine del console e di non

allontanarsi, né di abbandonare la battaglia per fuga o per paura e venne regolato da una

legge solenne2.

Prima della partenza i consoli tennero dei discorsi diversi al proprio esercito:

Varrone ne fece molti e molto violenti, ricordando che la guerra era stata portata in Italia

dai nobili e che sarebbe continuata se avessero comandato ancora uomini come Q. Fabio

Massimo, mentre lui avrebbe terminato la guerra andando incontro al nemico3. Paolo

invece parlò una volta sola e il suo fu un discorso più veritiero che gradito al popolo:

espresse molta meraviglia nei confronti del collega, poiché sembrava strano che un dux,

senza conoscere il proprio esercito e quello nemico, la posizione dei luoghi e la natura

della regione, già sapesse prevedere il giorno esatto della disfatta di Annibale4.

A questo punto Tito Livio inserisce un lungo botta e risposta tra il console Paolo e

l’ex dittatore Massimo, che comincia nel passo XXII.38.8 fino a XXII.40.5. Alle parole

del nuovo console segue una pronta risposta di Massimo: se Paolo avesse avuto un

collega del suo stesso carattere, allora parlare sarebbe stato inutile, ma vista l’indole di

Varrone, questo discorso era necessario. Nell’occasione lo storico patavino fa intervenire

anche il dittatore e tramite le sue parole afferma che la ferocia dell’homo novus può

essere anche più pericolosa dello stesso generale cartaginese.

Il console Varrone è il tipo di generale che Annibale spera di affrontare in battaglia

per avere una facile vittoria, quindi Paolo avrebbe dovuto opporsi a entrambi. Sempre

1 Liv. XXII.36.6-92 Liv. XXII.38.1-53 Liv. XXII.38.6-84 Liv. XXII.38.8-10

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secondo l’ex dittatore, sarebbe stato meglio che i cittadini disprezzassero l’operato di

Paolo, ma che il comandante punico lo temesse. Paolo però gli rispose senza troppo

ottimismo, quasi ormai fosse rassegnato a una sconfitta. Lo storico patavino ci mostra i

due nuovi comandanti della repubblica che si separano: Paolo è accompagnato dai

senatori più autorevoli, Varrone da una folla imponente priva di personalità di valore.

Come si giunge allo scontro:

Secondo quanto riporta Tito Livio, le modalità con cui i due eserciti s’incontrano

per dar vita a una delle più celebri sconfitte romane, sono piuttosto lunghe e macchinose;

la descrizione di tali modalità la ritroviamo dal capitolo quarantuno al capitolo

quarantaquattro, del ventiduesimo libro. Vediamo che in queste righe, i nuovi consoli

stabilirono due accampamenti: uno più piccolo vicino ad Annibale, e quello più lontano

con i combattenti migliori1.

Annibale scoprì che l’esercito romano si era raddoppiato, visto che questa volta lo

minacciavano entrambi i consoli, e come se non bastasse, il frumento stava per finire e i

suoi soldati minacciavano di disertare. Tuttavia si rallegrava molto per questo motivo

perché era sicuro di poter trarre vantaggio dall’arrivo dei consoli e aspettava solo il

momento più opportuno2. Il caso diede inoltre un’occasione all’avventatezza e all’indole

precipitosa del console plebeo, poiché, dando la caccia a dei Cartaginesi che depredavano

i campi, ne nacque una scaramuccia nella quale i Cartaginesi ebbero la peggio (secondo

Tito Livio morirono in 1.700, mentre tra Romani e alleati caddero soltanto un centinaio

di unità). Fortunatamente dato che il comando tra i consoli era distribuito a giorni alterni,

Paolo riuscì a tenere fermi i suoi soldati dall’intraprendere un’azione avventata, mentre

Varrone gridava che in tal modo stavano facendo fuggire i nemici, proprio quando

potevano sconfiggerli definitivamente3.

Per quanto riguarda l’opinione dello storico patavino, Annibale non si rammaricò

della sconfitta, anzi, decise subito di mettere in difficoltà l’esercito romano con le prime

1 Liv. XXII.40.5-7 Dei consoli dell’anno precedente venne mandato a Roma a causa dell’età, M. Atilio Regolo (il sostituto del defunto Flaminio), mentre misero a capo del distaccamento romano minore C. Servilio Gemino.2 Liv. XXII.40.7-93 Liv. XXII.41.1-4

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insidie, sia per sfruttare la temerarietà del console Varrone, sia perché due terzi dei

soldati Romani erano reclute inesperte. Abbandonò gli accampamenti lasciando

all’interno ogni cosa e si nascose dietro i monti, per assalire poi il nemico intento a

saccheggiare1.

Tito Livio si sofferma molto sulla natura di Varrone, homo novus dotato di ferocia

e temeritas, che arringa spesso i suoi uomini, in contrasto con quella di Paolo,

personaggio dipinto meno come demagogo e più come prudente condottiero. I Romani

meravigliati pensarono subito che Annibale fosse fuggito; se da una parte Varrone e i

soldati volevano andare a saccheggiare l’accampamento, Paolo dall’altra predicava

prudenza. Il console patrizio però disse al collega che i polli non gli avevano dato dei

buoni presagi così, Varrone, decise di fermarsi per paura di quello che era successo a

Flaminio, il console del Trasimeno, irrispettoso dei presagi divini. Mentre i soldati

infervorati non volevano più obbedire al console plebeo, due schiavi, che erano stati fatti

prigionieri dai Numidi, informarono il console che Annibale era appostato nelle vicinanze

del campo sguarnito, pronto a tendere un agguato ai Romani. Questo intervento secondo

Tito Livio restituì l’autorità ai consoli perché il desiderio di popolarità di uno dei due

aveva con la sua indulgentia annullato questa stessa autorità presso i soldati2.

Visto l’esito sfortunato dell’insidia, Annibale era obbligato a trovare altre

soluzioni, dato che tutti i suoi uomini protestavano sia per il cibo, sia per la paga

mancata. Il comandante decise di scendere verso l’Apulia più calda e accogliente, piena

di messi e probabilmente più sicura per i suoi soldati (riteneva che più si allontanava

dalle regioni del nord, meno probabile era che i suoi nuovi alleati lasciassero l’esercito)3.

Varrone con l’esercito, con l’approvazione di molti ma contro il parere di Servilio e

Paolo, seguì i Cartaginesi immediatamente perché non voleva lasciarsi scappare

l’occasione di affrontarli. Annibale pose gli accampamenti nei pressi di Canne, contro il

vento di scirocco, e in futuro questa fu una circostanza molto favorevole: quando si

1 Liv. XXII.41.7-92 Liv. XXII.42.1-123 Liv. XXII.43.5

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dovette ordinare lo schieramento di battaglia, il vento avrebbe soffiato alle loro spalle,

mentre i Romani sarebbero stati accecati dal polverone1.

Tito Livio ci spiega che Annibale decise di occupare Canne dove i Romani

tenevano le riserve di grano; questa conquista turbò gli animi dei Romani sia perché ora

erano in difficoltà per i rifornimenti, sia perché il colle di Canne era in una posizione

vantaggiosa. Visto che non potevano evitare lo scontro qualora si fossero avvicinati alla

piccola città, i consoli inviarono messaggeri a Roma per decidere sul da farsi: il Senato

deliberò affinché si muovesse battaglia contro l’esercito di Annibale2.

I consoli Romani fortificarono in aperta pianura due accampamenti nei pressi del

fiume Aufido per rifornirsi facilmente d’acqua3. Il giorno seguente i consoli si

accamparono a cinquanta stadi di distanza dal nemico. Fece accampare due terzi

dell’esercito a sinistra del fiume Aufido e l’altro terzo a destra del fiume, a dieci stadi di

distanza4. Annibale tentò di provocare gli avversari con delle scaramucce per invitarli in

battaglia campale, vista l’ottima natura del luogo in cui si trovavano, ma all’avventatezza

di Varrone si opponeva la prudenza di Paolo.

Battaglia5:

La narrazione liviana della disfatta di Canne occupa ben cinque capitoli del

ventiduesimo libro e si apre con il capitolo quarantacinque. In questo punto dell’opera, lo

storico ci mostra i consoli indaffarati a discutere sulla migliore strategia da attuare,

mentre il comandante cartaginese mandava i Numidi ad attaccare i Romani che si

rifornivano d’acqua, arrivando quasi fino alle porte dell’accampamento. I Romani non

attaccarono battaglia solo perché il comando era nelle mani di Paolo6.

Arrabbiato per l’affronto subito, Varrone, il giorno in cui gli spettava il comando,

schierò le truppe per il combattimento7. Emilio Paolo sul fianco destro, vicino al fiume,

1 Liv. XXII.43.8-112 Pol. III.1073 Liv. XXII.44.1-24 Pol. III.110: la distanza da Annibale era di circa 9.250 metri (Pol. III.110.1), mentre i due accampamenti erano circa a 1.850 metri di distanza l’uno dall’altro (Pol. III.110.10).5 Liv. XXII.45-496 Liv. XXII.45.1-47 Liv. XXII.45.5 secondo Pol. III.113.1-5: Gneo Servilio schierò le truppe. Creò manipoli più fitti del solito e molto più profondi che larghi. All’ala destra pose la cavalleria romana e in quella sinistra la cavalleria alleata. Al centro

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mise i cavalieri Romani, a sinistra la cavalleria alleata e al centro i fanti. I comandanti

dello schieramento erano così divisi: Varrone nell’ala sinistra, Paolo in quella destra e

Servilio, console dell’anno precedente, al centro. Visto lo scarso numero dei cavalieri a

disposizione dell’esercito romano, i consoli stessi assunsero il comando delle due ali1.

Annibale dispose l’esercito in questo modo: a sinistra la cavalleria gallica e

spagnola, a destra la cavalleria numidica e al centro i fanti. Secondo quanto riporta Tito

Livio, si schierarono in totale 40.000 fanti e 10.000 cavalieri, comandati da Asdrubale

nell’ala sinistra, Maarbale2 in quella destra e al centro Annibale con il fratello Magone3.

Sebbene la posizione del sole non desse fastidio a nessuno dei due schieramenti, il vento

comunque soffiava la polvere in faccia ai Romani4.

A questo punto dell’opera, Livio inizia a narrarci la battaglia drammaticamente:

contro l’ala destra romana si scontrò la cavalleria gallica e spagnola, senza rispettare le

tattiche perché non c’era spazio per le evoluzioni e diventò subito in battaglia pedestre;

presto i cavalieri Romani furono totalmente sconfitti5. La formazione della fanteria

cartaginese era disposta a mezzaluna, con un nucleo di fanti più allungati verso il centro

dello schieramento romano: in questo modo i fanti Romani al centro si scontrarono

contro un cuneo di nemici, ricacciandoli indietro. In questo modo i soldati della

Repubblica vennero presi in mezzo allo schieramento e si trovarono circondati dai fanti

libici, freschi e armati pesantemente, che presto ebbero la meglio6.

Nell’ala sinistra, dove combatteva la cavalleria degli alleati, Livio ci descrive

subito un atto di fraude tipico dei Cartaginesi: 500 Numidi gettarono ai piedi dei Romani

lance e scudi e fecero finta di entrare nell’esercito come disertori. Quando tutti erano

impegnati in battaglia, aggredirono i Romani alle spalle. Considerato che l’ala destra

romana era stata quasi annientata e la fanteria al centro stava per perdere, Asdrubale

la fanteria romana ed alleata. In totale combattevano 80.000 fanti e 6.000 cavalieri (anche se ricordiamo, dalle stime di Polibio dobbiamo togliere 10.000 uomini che rimasero nell’accampamento maggiore).1 Liv. XXII.45.6-8: Al centro dello schieramento probabilmente si trovava con Servilio anche l’ex maestro della cavalleria, Minucio Rufo.2 Pol. III.114.7: non era Maarbale ma Annone a controllare quello schieramento.3 Liv. XXII.46.1-84 Liv. XXII.46.95 Liv. XXII.47.1-36 Liv. XXII.47.4-10

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richiamò i Numidi e li mandò ad inseguire i fuggitivi. Alla fanteria africana aggiunse la

cavalleria gallica e spagnola1.

Paolo si accorse che la battaglia sarebbe stata decisa dalle forze di fanteria, così,

nonostante una ferita, si gettò in mezzo alla mischia con i suoi uomini. I cavalieri Romani

e il console stesso, avevano deciso di abbandonare il cavallo poiché la stanchezza era tale

da impedire loro di tenere in mano le redini dell’animale2. Per Annibale, vedere tutti i

soldati appiedati, fu un chiaro segnale che ormai la battaglia era vinta: i Romani

preferivano morire sul posto piuttosto che cercare una fuga disperata3. Livio ci mostra

una scena drammatica, quando il tribuno dei soldati Lentulo vide sopra un sasso Paolo

ricoperto di sangue: nonostante le richieste del tribuno, il console rifiutò di salvarsi con

lui a cavallo poiché preferiva morire con i suoi soldati4. A questo punto iniziò una ritirata

disordinata: in 7.000 si rifugiarono nell’accampamento minore (di questi soltanto 600

fuggirono in quello maggiore), 10.000 in quello maggiore e 2.000 a Canne. Per caso si

salvò lo stesso Varrone con cinquanta cavalieri nella città di Venosa5.

Lo storico patavino ci dice che in totale furono uccisi tra le file romane, 45.500

fanti, 2.700 cavalieri e i prigionieri della battaglia furono 3.000 fanti e 1.500 cavalieri6.

La sconfitta nonostante tutto fu, secondo Livio, meno grave del previsto, perché l’esercito

di Annibale non discese verso Roma7.

Subito dopo la disfatta:

Dopo la vittoria Maarbale era convinto della necessità di marciare su Roma e

sconfiggerla definitivamente, ma ad Annibale questa idea sembrava troppo bella per

poterla concepire, così rispose al generale che aveva ancora bisogno di tempo. La risposta

di Maarbale tramite le parole di Livio, fu la famosa frase: “Non omnia nimirum eidem di

dedere. Vincere scis, Hannibal; victoria uti nescis”. Maarbale avrebbe pure inviato per

1 Liv. XXII.48.1-62 Liv. XXII.49.1-33 Liv. XXII.49.3-54 Liv. XXII.49.6-125 Liv. XXII.49.13-156 Liv. XXII.49.15 inoltre cfr. Pol. III.117.2-4: Dei 6.000 cavalieri, circa settanta si rifugiarono a Venosa, altri 300 scapparono nelle città vicine. Dei 10.000 fanti che non avevano partecipato al combattimento, 7.000 furono catturati e 3.000 riuscirono a fuggire. Dei 70.000 sul campo di battaglia, tutti quanti persero la vita.7 Liv. XXII.50.1-2

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prima la cavalleria numidica in modo tale che i Romani sapessero subito dell’arrivo del

comandante cartaginese.

Il giorno seguente alla battaglia di Canne, lo storico riporta che il comandante

punico assalì l’accampamento minore e si arresero tutti e 6.400. Invece 4.000 fanti e 200

cavalieri scapparono dall’accampamento maggiore a Canosa e i restanti uomini furono

fatti prigionieri. I soldati che morirono nello schieramento cartaginese furono soltanto

8.000 uomini1.

A Canosa si trovavano solo quattro tribuni militari sopravvissuti: quello della

prima legione, Fabio Massimo (figlio del dittatore eletto dopo la disfatta sul Trasimeno),

quelli della seconda Gaio Publicio Bibulo e Publio Cornelio Scipione (il futuro africano)

e Appio Claudio Pulcro della terza. Questi diedero il comando a Scipione e Appio

Claudio2. Contemporaneamente alla disfatta, giunse a Roma la notizia che l’urbe era

condannata e alcuni giovani nobili, capeggiati da Cecilio Metello, pensarono di

abbandonare l’Italia con le navi3. Scipione, informato di ciò, corse dal nobile con la spada

in pugno e promise che non avrebbe mai abbandonato e la repubblica e che mai avrebbe

tollerato che qualcuno volesse abbandonarla. Impauriti e sconvolti da questa promessa,

giurarono tutti quanti di non abbandonare Roma4.

A Venosa raggiunsero Varrone circa 4.500 soldati e quando Appio Claudio e

Scipione seppero che uno dei due consoli era ancora vivo, s’incontrarono a Canosa per

unire gli eserciti5. A Roma invece, era stata portata la notizia che tutto l’esercito assieme

ai suoi generali era stato interamente distrutto: mai si era verificata una disfatta simile.

Ormai l’Apulia, il Sannio e quasi tutta l’Italia appartenevano ad Annibale6.

Nella versione che ci fornisce Tito Livio, a Roma i senatori erano atterriti e non

riuscivano a prendere alcuna decisione. In ogni casa si piangeva disperati. L’ex dittatore

Fabio Massimo era convinto che non tutto fosse perduto e mandò cavalieri armati alla

leggera per interrogare tutti i dispersi o i fuggitivi per conoscere le sorti dell’esercito e le

1 Pol. III.117.6: Annibale perse solamente 4.000 celti, 1.500 tra iberi e libici e 200 cavalieri.2 Liv. XXII.53.1-43 Liv. XXII.53.5-64 Liv. XXII.53.9-135 Liv. XXII.54.1-2; 54.5-66 Liv. XXII.54.7-10

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intenzioni di Annibale. Intanto i senatori avrebbero dovuto interrompere le agitazioni dei

cittadini e imporre il silenzio in città1. Le notizie degli informatori di Fabio non furono

troppo felici, i sopravvissuti non erano più di 10.000: per la prima volta il Senato dovette

imporre un limite al lutto (massimo trenta giorni) visto che ognuno piangeva e nessuno

andava più alle feste per le divinità2.

Lo storico precisa inoltre che i senatori furono spaventati anche da alcuni prodigi:

due vestali caddero in peccato carnale e una fu sepolta viva com’era costume, l’altra

invece si tolse la vita. Chi aveva consumato il peccato assieme a loro era stato ucciso a

frustate. Furono consultati i libri sibillini e Quinto Fabio Pittore venne mandato a Delfi a

consultare l’oracolo3. Intanto a Roma furono fatti sacrifici inconsueti: una coppia di galli

e di greci furono sepolti vivi nel Foro Boario4. Marco Claudio Marcello mandò a difesa di

Roma 1.500 soldati dalla flotta navale; egli stesso con una legione di soldati della marina,

si diresse a Canosa5. Il Senato nominò dittatore Marco Giunio Pera e come maestro della

cavalleria Tiberio Sempronio Gracco. I due generali ordinata la leva, arruolarono i più

giovani dai diciassette anni in su e formarono quattro legioni di fanti e 1.000 nuovi

cavalieri, assieme a quelli prelevati dalle città alleate. In ogni caso non erano sufficienti

queste truppe così si deliberò per un’altra forma di reclutamento: 8.000 schiavi furono

affrancati dallo stato e entrarono a far parte dell’esercito romano6.

Nella sua opera, Livio descrive che Annibale, per trattare sul prezzo dei

prigionieri, inviò a Roma Cartalone, nobile cartaginese, incaricato anche di portare le

eventuali condizioni di pace se ce ne fosse stato bisogno. In realtà il dittatore Pera non gli

diede nemmeno l’occasione di entrare in città, Roma non si sarebbe mai abbassata ad

accettare delle condizioni di pace dallo stato cartaginese, i cui abitanti venivano quasi

paragonati a degli schiavi7.

Nell’opinione del patavino, a questo punto della guerra punica, la fedeltà degli

alleati cominciò a vacillare: al nemico passarono i Campani, gli Atellani, i Calatini, gli

1 Liv. XXII.55.4-82 Liv. XXII.56.1-53 Liv. XXII.57.2-64 Liv. XXII.57.65 Liv. XXII.57.7-86 Liv. XXII.57.9-127 Liv. XXII.58

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Irpini, una parte dell’Apulia, i Sanniti, i Bruzzi, i Lucani, il litorale greco, i Tarentini, la

città di Metaponto, Crotone, Locri e i Galli Cisalpini1. Roma fu talmente magnanima che

quando il console Varrone tornò da una sconfitta così grande, della quale era il maggiore

responsabile, ricevette gratitudine poiché non aveva disperato della Repubblica2.

Nel frattempo Magone, figlio di Amilcare, si diresse a Cartagine per riportare le

notizie delle sorprendenti vittorie: disse che più di 200.000 Romani erano stati uccisi e

50.000 presi prigionieri3. Ora era necessario inviare rinforzi ad Annibale e furono inviati

rinforzi in denaro, 4.000 Numidi e quaranta elefanti. In Spagna fu inviato un dittatore ad

assoldare 20.000 fanti e 4.000 cavalieri. I provvedimenti da Cartagine furono fatti con

molta lentezza e i Romani si affrettarono a disporre le difese4. I soldati appena reclutati a

Roma erano ancora troppo pochi, così il dittatore Pera decise di liberare anche i

prigionieri, armando così altri 6.000 uomini5.

Questa vittoria secondo Livio, portò ad Annibale un beneficio imprevisto, poiché

in seguito alla disfatta di Canne, il cartaginese strinse, l’anno successivo, una nuova

alleanza con Filippo di Macedonia6.

1 Liv. XXII.61.11-132 Liv. XXII.61.14-153 Liv. XXIII.11.7-94 Liv. XXIII.13.7-8; 14.1-25 Liv. XXIII.14.3-46 Liv. XXIII.33

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SCONFITTA DI CAPUA E EPISODI BELLICI COEVI

Dopo la celebra disfatta di Canne, seguì tra Roma e Cartagine un lungo periodo

privo di grandi battaglie decisive. Nella repubblica predominava la tattica della cunctatio

e il generale Annibale, secondo la tradizione che segue Tito Livio, si era abbandonato

totalmente agli ozi di Capua, città conquistata dal cartaginese.

Nel riportare gli eventi dell’anno 212 a.C., all’interno del libro XXV della sua

opera, Livio fa menzione di diversi episodi bellici sfavorevoli ai Romani e più

precisamente cita l’insuccesso del presidio romano a Taranto (che però riesce a resistere),

la sconfitta di M. Atinio, comandante del presidio romano a Turi, la morte del proconsole

Ti. S. Gracco in Lucania, la rottura annibalica dell’assedio di Capua e per finire la disfatta

delle truppe di Centenio Penula.

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Prodigia a Roma:

All’inizio del venticinquesimo libro, Tito Livio ci mostra l’invasione a Roma dei

culti orientali. Vediamo che un’ondata di superstizione invade la città e sono religioni

provenienti dall’esterno, in quanto né gli uomini né gli dei sembravano più gli stessi. I

culti religiosi praticati con meticolosità quasi esagerata, iniziano a cadere sia tra le mura

domestiche, sia in pubblico. Ormai si vedevano dappertutto sacerdoti sacrificatori e

indovini1. Per porre un freno a questi culti indesiderati, il Senato incaricò il pretore Marco

Emilio di liberare il popolo. Egli ordinò che chiunque avesse libri non consoni ai culti

degli dei Romani, li portasse a lui entro marzo, in modo tale che nessuno li potesse più

praticare2.

Intanto si avvicinavano le idi di Marzo e le elezioni consolari erano prossime. Per

non distogliere dalla guerra entrambi i consoli, il Senato ordinò a Tiberio di nominare un

dittatore. Tiberio scelse Caio Claudio Centone, che elesse Quinto Fulvio Flacco come

maestro della cavalleria, per indire i comizi. Come consoli furono scelti Quinto Fulvio

Flacco per la terza volta e Appio Claudio Pulcro; fatto ciò il dittatore subito abbandonò la

carica3. Mentre i consoli avevano il compito di continuare la guerra nel Sannio contro

Annibale, Tiberio Sempronio Gracco, proconsole, continuò a comandare gli eserciti e ad

amministrare la Lucania4.

Furono segnalati anche numerosi prodigi: sul monte Albano per due giorni

piovvero continuamente pietre. Fulmini caddero da ogni parte e sconquassarono anche le

mura di Cuma. A Reate si vide volteggiare nel cielo un grande masso e il sole aveva il

colore rosso come il sangue5.

Defezione di Taranto:

La sfortunata perdita della città bassa di Taranto, non ha una collocazione storica

precisa in Tito Livio, ma possiamo facilmente situarla verso la fine del periodo invernale

(visto che Annibale fingeva di essere ammalato, unica spiegazione del suo rimanere così

1 Liv. XXV.1.6-82 Liv. XXV.1.11-123 Liv. XXV.2.3-54 Liv. XXV.3.3 (spostamenti dei consoli) e Liv. XXV.3.5-6 (movimenti di Ti. S. Gracco)5 Liv. XXV.7.7-9

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a lungo nei quartieri invernali1) e prima del 27 Aprile del calendario romano, data in cui i

consoli uscirono da Roma2.

Nella versione del patavino, vediamo che il tarentino Filea era a Roma e fingeva di

fare l’ambasciatore. Era intollerante della strategia che premiava la cunctatio e appena

riuscì a comunicare con gli ostaggi di Taranto e di Turi, li fece fuggire. Si diffuse subito

la notizia della fuga e in breve tempo i fuggitivi furono catturati tutti e massacrati3.

In seguito a queste uccisioni, Livio ci racconta che alcuni Tarentini si ribellarono,

tra i quali spiccavano Nicone e Filemeno. Questi ultimi andarono da Annibale e fecero un

accordo: gli abitanti della città avrebbero conservato le proprie leggi e non avrebbero

versato tributi ai Cartaginesi, in cambio avrebbero permesso l’ingresso di un presidio e

avrebbero lasciato totale libertà agli Africani nel predare le case romane4.

Il condottiero punico scelse 10.000 agilissimi fanti e cavalieri, mandò 800 Numidi

a razziare i campi vicini e si accampò a quindici miglia da Taranto. Appena giunse la

notizia di queste devastazioni, il prefetto romano fece uscire solo una parte della

cavalleria; egli era infatti completamente ignaro delle intenzioni di Annibale. Nel cuore

della notte, Nicone e Filemeno uccisero le sentinelle di guardia alle porte della città e

fecero entrare i Cartaginesi in città. Grazie all’aiuto di alcune guide, riuscirono a uccidere

tutti i Romani, risparmiando la vita ai Tarentini5.

Nella descrizione liviana, vediamo che a Taranto regnava il caos; i Romani erano

convinti della ribellione degli alleati, mentre i Tarentini erano convinti di essere sotto

attacco da parte dell’esercito romano (inoltre Annibale riuscì a ingannare i nemici, poiché

dalla parte del teatro, quindi dalla parte greca, qualcuno suonava una tromba romana).

Alla luce del giorno, fu chiaro ciò che accadde durante la notte e i superstiti Romani si

erano rifugiati nella rocca6. I Romani riuscirono contro ogni speranza a conservare il

dominio dell’acropoli e Annibale provò prima ad assalirla, anche con le macchine da

guerra e senza ottenere un esito favorevole, abbandonò l’impresa7.

1 Liv. XXV.8.12-132 Liv. XXV.12.13 Liv. XXV.7.11-144 Liv. XXV.8.1-95 Liv. XXV.9.1-176 Liv. XXV.10.1-67 Liv. XXV.11.9-11

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Sconfitta di M. Atinio:

Secondo l’opinione di Tito Livio, l’esito dell’uccisione degli ostaggi, già

precedentemente raccontata, si sentì profondamente anche nella città di Turi. Gli abitanti,

infatti, scelsero di abbandonare l’alleanza romana1.

Lo storico ci descrive nella sua opera, che Marco Atinio occupava Turi con un

piccolo presidio. Inoltre i cittadini pensavano fosse facile provocarlo non per la fiducia

che aveva nei suoi soldati, ma perché contava molto sui giovani di Turi che aveva

armato. Dal lato opposto, Annone andò verso la città con la fanteria mentre Magone con i

cavalli, protetto da alture, si nascose per tendere insidiae. L’ignaro Atinio combatteva

solo contro i fanti, mentre i giovani di Turi restavano fermi a guardare. Annone a poco a

poco riuscì ad attirare il prefetto romano nel luogo in cui si celava la cavalleria2.

Nella descrizione dei fatti che ci fornisce Livio, vediamo che appena i Romani

erano abbastanza vicini, i cavalieri nemici sbucarono fuori all’improvviso e quelli di Turi

scapparono gridando ai Romani che non potevano più entrare in città; rischiavano infatti,

di confondersi con i Cartaginesi. L’unico che si salvò dal massacro fu Atinio con alcuni

dei suoi soldati: i cittadini di Turi avevano deciso di risparmiarlo per il suo modo

benevolo di governare la città3.

Morte di Tiberio Sempronio Gracco:

Per motivi religiosi i due consoli del 212 a.C. rimasero a Roma fino al 27 Aprile 4:

si diffusero nuove superstizioni per via delle profezie dell’augure Marcio. La prima di

queste prediceva la disfatta romana a Canne e dal momento che era accaduto proprio

quanto indicato dal vaticinio, anche la seconda venne presa per vera. Quest’ultima diceva

che se si fossero consacrati dei ludi ad Apollo secondo le giuste modalità, si sarebbe

automaticamente vinta la guerra5.

1 Liv. XXV.15.5-72 Liv. XXV.15.9-133 Liv. XXV.15.13-164 Liv. XXV.12.15 Liv. XXV.12.2-15

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Nel caso del combattimento che ha visto perdere la vita di Tiberio Sempronio,

Livio non precisa la data esatta di questa vicenda, ma scrive che la sua morte avvenne

sicuramente dopo il 27 Aprile del calendario romano, ma prima del tentato assedio

romano alla città di Capua.

I consoli si mossero verso Capua per conquistarla1 e per evitare di lasciare

Benevento indifesa, ma anche per fornirla di un minimo di soldati che potessero

competere contro la cavalleria di Annibale, fu ordinato a Tiberio di dirigersi qui con un

solo reparto di cavalieri e uno di fanti armati alla leggera2.

Lo storico patavino descrive un presagio infausto che capitò al proconsole: fatti i

sacrifici necessari prima della partenza, dal nulla spuntarono due serpenti che riuscirono a

divorare il fegato dell’animale sacrificato e poi scomparvero. Gli aruspici consigliarono

di ripetere il sacrificio ma questo prodigio capitò altre due volte. Gli aruspici spiegarono

che fosse una premonizione riguardante il comandante stesso: egli avrebbe dovuto

guardarsi dagli uomini cui chiedeva consigli, che in realtà tramavano in segreto contro di

lui3.

Livio aggiunge tuttavia che, nonostante tali avvertimenti, nessuna providentia fu

in grado di allontanare da lui il fatum imminens. E in effetti, secondo questa versione,

Gracco morì per mano di un suo alleato. Flavo Lucano, capo dei lucani e alleato di Roma,

a un certo punto cambiò schieramento e decise di allearsi con Annibale. Non ritenne

sufficiente né passare al nemico, né far rivoltare tutti i Lucani, se non alla condizione di

sancire il nuovo patto con il sangue del comandante romano. Andò a parlare di nascosto

con Magone e ottenne la promessa che, se gli avesse consegnato Tiberio, avrebbe

accettato l’alleanza con i Lucani, senza modificare le loro leggi4.

Secondo Livio, Flavo condusse il cartaginese in un luogo atto a nascondere

agguati, assicurando che lì avrebbe attirato Gracco. Magone avrebbe dovuto celare fanti e

cavalieri armati in quel nascondiglio e attendere il momento opportuno5.

1 Liv. XXV.15.12 Liv. XXV.15.203 Liv. XXV.16.1-54 Liv. XXV.16.5-85 Liv. XXV.16.8-9

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Il capo lucano spiegò a Tiberio che aveva intenzione di compiere una grandissima

impresa ed era necessaria la sua presenza: Flavo infatti aveva convinto tutte le

popolazioni lucane a tornare sotto l’alleanza romana, poiché la repubblica, dopo Canne,

riacquistava una potenza maggiore giorno dopo giorno. L’unica richiesta dei capi di

queste popolazioni era che Gracco in persona li rassicurasse spiegando che sarebbe

rimasto egli stesso fedele a questo patto. Flavo fissò un incontro in un luogo nascosto ma

visibile a tutti, nei pressi dell’accampamento. Il generale romano purtroppo non poteva

più sottrarsi al fato e decise di fidarsi: andò al luogo stabilito con i littori e pochi

cavalieri, ma cadde in pieno nell’agguato. I Cartaginesi spuntarono da ogni parte lo stesso

Flavo si unì a loro per evitare che ci fossero dubbi sul da che parte stesse1.

Tito Livio ci mostra il grande valore del comandante romano, poiché scese subito

da cavallo e proteggendosi con il solo mantello si gettò contro i nemici, seguito dai suoi

uomini. La battaglia fu molto più feroce del previsto, ma alla fine furono uccisi tutti i

cavalieri; soltanto Gracco rimaneva in piedi. I Cartaginesi si sforzavano di catturarlo

senza ucciderlo, ma dato che uccideva troppi uomini, non si poté più risparmiarlo2. Gran

parte dell’esercito di Tiberio si sfaldò come se, a causa della morte del comandante, tutti

fossero stati congedati3.

Tito Livio a questo punto dell’opera, riporta tutte le versioni che proponevano gli

storici del suo tempo attorno alla morte del comandante romano. Alcuni sostenevano che

Gracco fosse andato a fare un bagno e che i nemici in agguato lo avessero ucciso nudo,

mentre si difendeva a colpi di pietra4. Altri invece dicevano che per espiare gli sfortunati

prodigi, si diresse 500 passi fuori dal campo e per puro caso i Numidi lo uccisero5.

Anche riguardo ai funerali ci riporta due versioni differenti: la prima, più diffusa,

descrive Annibale che celebrava le esequie davanti alla pira di Gracco, mentre l’esercito

in armi danzava e sfilava6. La seconda, che seguiva il racconto di quanti dicevano fosse

stato ucciso mentre faceva il bagno, racconta che la testa del generale romano viene

1 Liv. XXV.16.9-162 Liv. XXV.16.17-23 - G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, pag. 325: Ti. S. Gracco morì in primavera.3 Liv. XXV.20.44 Liv. XXV.17.1-35 Liv. XXV.17.36 Liv. XXV.17.4-6

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portata ad Annibale, che incarica Cartalone di portarla al campo romano. Qui il questore

Cneo Cornelio celebra le onoranze funebri1.

Vittoria di Annibale a Capua:

Per quanto riguarda la rottura dell’assedio a Capua, attuata con successo da

Annibale, sappiamo che Livio la colloca verso la fine di Maggio o i primi di Giugno del

212 a. C., visto che il grano ancora non era ancora maturato2.

Livio come antefatto narra la prima sconfitta in territorio campano, che riguardava

una sortita dei campani con l’aiuto della cavalleria di Magone. I consoli, mentre si

davano ai saccheggi, richiamarono in fretta i soldati, li disposero per la battaglia, ma

furono sparpagliati e morirono più di 1500 uomini. Questo combattimento, secondo lo

storico patavino, venne condotto dai consoli in modo incaute atque inconsulte3. Il

carattere rissoso dei due generali viene ricordato da Livio anche poche righe prima,

quando scrive che entrambi volevano distruggere Capua per rendere famoso il loro

consolato4.

I consoli tentarono nuovamente di bloccare l’assedio intorno alla città e vennero

raggiunti subito anche dal comandante cartaginese, certo di sconfiggere i tanto odiati

Romani, visto che i capuani da soli avevano sbaragliato di recente le truppe consolari5.

Nella versione del patavino, i Cartaginesi iniziarono il combattimento, mettendo a

dura prova i Romani con il lancio dei dardi e dagli assalti della cavalleria. Subito dopo

anche la cavalleria romana si gettò nella mischia e si accese una violenta battaglia

equestre. In lontananza però apparve l’esercito di Sempronio, ora comandato da Cneo

Cornelio, ma entrambe le parti temettero l’arrivo di ulteriori nemici6.

A quel punto, per allontanare Annibale da Capua, i consoli decisero di dividersi:

Fulvio andò a Cuma, mentre Appio Claudio si diresse in Lucania. Dopo aver esitato un

1 Liv. XXV.17.6-72 Liv. XXV.19.3-4 - L. PARETI, Storia di Roma, II, Torino 1952, pp. 392-3953 Liv. XXV.18.1-24 Liv. XXV.15.18-195 Liv. XXV.19.1-26 Liv. XXV.19.3-5

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po’, Annibale alla fine decise di seguire Claudio, il quale riesce a farsi inseguire fino a

Capua, com’era intenzione del console (o almeno così afferma Livio)1.

Sconfitta dell’esercito di Penula:

Nella versione dei fatti che ci propone Livio, la disfatta dell’esercito di Penula non

ha una datazione precisa, ma si può situare pochi giorni dopo il fallito assedio a Capua.

In Lucania, secondo il patavino, il condottiero punico trovò un’altra occasione per

sconfiggere i Romani in battaglia. Tra i centurioni del primo manipolo di triarii, c’era un

certo Marco Centenio Penula, famoso per il coraggio, il valore e la forza fisica. Appena

terminò il servizio militare obbligatorio, venne introdotto da Publio Cornelio Silla

all’interno del Senato, per chiedere di disporre di 5.000 soldati. Egli infatti spiegava come

fosse pratico del nemico e della natura dei luoghi e inoltre avrebbe utilizzato contro il

cartaginese le sue stesse armi2.

Livio obietta però che è totalmente impossibile che un soldato semplice possa

ragionare da un giorno all’altro come se fosse un comandante, però il Senato gli diede

ragione e lo rifornì di ben 4.000 soldati Romani e 4.000 alleati. Durante la sua marcia,

Penula riuscì ad aggregare altri 8.000 volontario e giunse così di fronte all’esercito di

Annibale. L’esito dello scontro però era già segnato in partenza in quanto si scontravano

un comandante abituato a vincere, contro uno provvisto di un esercito nuovo, disordinato

e armato solo per metà. Nessuno dei due schieramenti voleva sottrarsi allo scontro e al

contrario si combatté per più di due ore nonostante l’enorme differenza di livello tra

Romani e Cartaginesi3.

Penula si accorse di questo enorme divario e sia per il suo grande valore, sia per la

paura dell’onta che avrebbe ricevuto se fosse scappato da una disfatta causata dalla sua

avventatezza, cadde nel mezzo della mischia e il suo esercito fu fatto a pezzi; soltanto

1.000 uomini si salvarono4.

1 Liv. XXV.19.6-82 Liv. XXV.19.8-123 Liv. XXV.19.12-154 Liv. XXV.19.16-17

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I BATTAGLIA DI ERDONEA

Poco dopo la disfatta di Penula, Livio ci mostra come i consoli ricominciarono ad

assediare Capua con grande violenza, per conquistarla definitivamente1. Nella sua opera,

lo storico ci descrive come Annibale che non voleva abbandonare questa città, né

tantomeno lasciarla ai romani, e considerata la temerarietà del generale romano che aveva

appena sconfitto, voleva assolutamente ottenere un’altra vittoria contro un altro generale

romano nelle vicinanze. Dall’Apulia arrivarono dei messaggeri per informarlo che il

pretore Cneo Fulvio aveva assalito energicamente alcune città e poi, rallegrandosi troppo

per il successo acquisito, si era abbandonato assieme alle truppe a ozi e trascuratezza,

tralasciando qualsiasi forma di disciplina. Poiché Annibale aveva già sperimentato in che

1 Liv. XXV.20.1

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condizioni versasse un esercito comandato da un capo veramente inetto, si diresse verso

l’Apulia1.

Nel resoconto liviano, le due legioni romane comandate da Fulvio, si trovavano

nei pressi di Erdonea. Appena arrivò la notizia che Annibale si stava avvicinando, mancò

poco che i soldati romani strapparono le insegne per uscire in campo da soli. L’unica cosa

che trattenne le truppe fu che avrebbero benissimo potuto fare una mossa del genere,

quando l'avessero voluto. Dato che il comandante cartaginese aveva saputo di questo

tumulto tra i suoi nemici e che la maggior parte dei soldati romani minacciava Fulvio

stesso per attaccare la battaglia, ebbe la certezza che si presentava per lui la miglior

situazione possibile2.

Lo storico ci spiega che per tendere un agguato, Annibale decise di nascondere

3.000 fanti leggeri nelle fattorie e nelle aree boschive e ordinò loro che quando avesse

dato il segnale, sarebbero dovuti uscire tutti quanti. Per evitare il più possibile che ci

fossero dei superstiti, ordinò a Magone di bloccare con circa 2.000 cavalieri ogni

possibile via di fuga3. Compiuti durante la notte questi preparativi, all’alba del giorno

successivo il comandante punico schierò l’esercito e Fulvio, più che dalla speranza di

poter sconfiggere il cartaginese, quanto dal comportamento dei suoi uomini, tentò di

disporre anche lui l’esercito. I suoi uomini, però, si dispongono secondo il loro desiderio

e abbandonavano la posizione per paura del nemico4.

Secondo il patavino, la prima legione e l’ala sinistra si disposero in prima linea e

nonostante i tribuni protestassero contro un simile schieramento, i soldati non ascoltarono

nessun suggerimento5. Erano totalmente impreparati al combattimento a tal punto che

non riuscirono a sostenere nemmeno il grido di battaglia dei nemici. Il comandante

romano, stolto e avventato come Centenio Penula, era però privo del suo famoso

coraggio e quando si accorse che la battaglia volgeva al peggio e che i suoi uomini non

ragionavano più, prese un cavallo e fuggì con altri 200 cavalieri. Il resto dell’esercito,

1 Liv. XXV.20.5-72 Liv. XXV.21.1-33 Liv. XXV.21.3-44 Liv. XXV.21.4-65 B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, Paris 2006, pag. 283: la qualità delle relazioni tra la truppa e il comandante, in questo periodo dell’opera liviana è determinante per quanto riguarda l’esito del combattimento.

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accerchiato alle spalle e alle ali, fu annientato e si salvarono soltanto circa 2.000 uomini.

Poco dopo i Cartaginesi conquistarono gli accampamenti romani1.

Livio scrive nella sua opera, che quando giunsero a Roma le notizie di tutte queste

sconfitte, nacque una grandissima paura per tutti i cittadini. In realtà i consoli, che

avevano il comando di operazioni militari molto più importanti, avevano ottenuto

imprese molto più felici. Il Senato mandò degli ambasciatori ai due consoli per

raccogliere con cura i resti dei due eserciti, evitando così che si schierassero per

disperazione con il comandante cartaginese; inoltre avevano anche il compito di

recuperare i disertori del defunto esercito del defunto Tiberio. Questo incarico fu affidato

a Publio Cornelio che doveva anche fare la leva militare. Ogni provvedimento a Roma

venne fatto con la massima diligenza possibile2.

GLI SCIPIONI IN SPAGNA

Lo storico patavino ci racconta che mentre nel 212 a.C. avvenivano tutti gli scontri

riportati nelle pagine precedenti (ovvero le battaglie coeve all’assedio fallito presso

Capua e la disfatta di Erdonea), nella stessa estate in Spagna terminava il lunghissimo

comando dei due Scipioni, Publio e Gneo. Livio però commette un chiaro errore

cronologico, voluto però dalla simmetria della sua opera. Quest’anno rappresenta l’esatta

metà della seconda guerra punica; la data di questi scontri nella penisola iberica è da

collocarsi nel 211 a. C3.

Premesse:

Nella penisola iberica, gli eserciti di Publio e Gneo Scipione finalmente si

ricongiunsero. Fino a quel momento i Romani combattevano soltanto per impedire ad

Asdrubale di arrivare in Italia, ma ora era il momento di prendere l’iniziativa. Gli 1 Liv. XXV.21.6-102 Liv. XXV.22.1-43 C. BRUUN, The Roman middle republic politics religion, and historiography c. 400-133 B.C. : papers from a conference at the Institutum Romanum Finlandiae, September 11-12, 1998, in RONALD T. RIDLEY (ed.), Livy and the hannibalic war, Roma 2000, pp. 13-40

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Scipioni erano convinti della loro vittoria, in quanto i 20.000 Celtiberi armati l’inverno

precedente, sarebbero stati degli ottimi rinforzi1.

I Cartaginesi erano divisi invece in tre eserciti. A cinque giorni di distanza c’era

quello di Asdrubale, figlio di Gisgone, e quello di Magone; molto più vicino invece c’era

l’esercito di Asdrubale figlio di Amilcare, comandante che si trovava in Spagna da più

tempo e che risiedeva nella città di Amtorgi2.

L’idea dei Romani era di eliminare quest’ultimo condottiero punico per primo, ma

erano preoccupati che gli altri due comandanti avversari tirassero la guerra per le lunghe

ritirandosi sui monti. Così la migliore soluzione era proprio quella di dividere in due gli

eserciti: Publio Cornelio doveva combattere contro Magone e Asdrubale, tenendo due

terzi dei soldati romani e le truppe alleate, Gneo contro Asdrubale Barca, con il terzo

rimanente e le unità di Celtiberi. Arrivati ad Amtorgi, i due fratelli si divisero3.

Nella ricostruzione dei fatti offerta dal Patavino, Asdrubale Barca, visto il numero

esiguo dei Romani, che speravano fin troppo nei Celtiberi, era convinto di poter sfruttare

l’occasione. Essendo un abilissimo truffatore, riuscì a patteggiare con i capi barbari e

grazie ad un pagamento, riuscì a farli defezionare. Tale azione non sembrava così

negativa ai Celtiberi: infatti, non dovevano rivolgere le armi contro i Romani, ma

semplicemente dovevano rinunciare a combattere (e tra l’altro il compenso offerto

sarebbe stato anche più che sufficiente per indurli a combattere)4. Tito Livio saggiamente

ricorda che qualsiasi generale dovrebbe stare attento ad una cosa del genere, poiché è

impossibile fare un affidamento nelle truppe mercenarie, al punto che queste diventino in

numero maggiore del resto dell’esercito. Gneo a questo punto era in netta inferiorità

numerica e non poteva nemmeno congiungersi con il fratello: decise così di ritirarsi

tentando di non andare in aperta pianura, visto che i Cartaginesi lo stavano ormai

incalzando5.

Morte di Publio Cornelio Scipione:

1 Liv. XXV.32.1-42 Liv. XXV.32.4-63 Liv. XXV.32.6-104 Liv. XXV.33.1-55 Liv. XXV.33.6-9

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Dall’altra parte, Publio era spaventato perché Massinissa si era appena alleato con

i cartaginesi. Per tutto l’arco della giornata assaliva con i suoi Numidi i soldati romani e

impediva loro di essere tranquillo anche per un solo minuto1. Contemporaneamente

sembrava che fosse in arrivo anche Indibile con 7.500 Suessetani2.

Nonostante la calma e la prudenza che caratterizzavano Scipione, secondo Livio il

generale dovette prendere una decisione estrema a causa della necessità: attaccare

Indibile a prescindere dal luogo. Così di notte il comandante romano iniziò una battaglia

cruenta contro i nemici in marcia3; proprio però quando Publio era in vantaggio, spuntò

all’improvviso Massinissa con i Numidi, mettendo terrore all’esercito. Come se non

bastasse, si avvicinò anche l’esercito dei Cartaginesi che li incalzava a piedi: i Romani si

trovavano accerchiati in una battaglia senza speranze4. Il comandante della Repubblica

incitava i suoi uomini e si esponeva dove il pericolo era maggiore, ma in questo modo

una lancia lo trafisse uccidendolo sul colpo. L’esercito di Scipione, atterrito dalla morte

del comandante, fuggì disordinatamente e morirono più uomini durante la fuga che nella

battaglia. Grazie alla notte fonda alcuni dei romani riuscirono comunque a salvarsi dalla

carneficina5.

Dopo questa fortunata occasione, i comandanti africani volevano ottenere una

vittoria decisiva e decisero di unire insieme i tre eserciti.

Morte di Gneo Cornelio Scipione:

Gneo Cornelio ancora non era a conoscenza della disfatta subita dal fratello, ma,

appena vide che l’esercito nemico si era notevolmente ingrossato, dedusse da solo l’esito

dello scontro6. Pieno di timore decise di ritirarsi la notte stessa e riuscì anche a percorrere

molta strada. La cavalleria dei Numidi però era di gran lunga più veloce e li raggiunse,

obbligando Scipione a fermarsi; il comandante romano continuava ad incitare i suoi

affinché combattessero e marciassero, per evitare anche l’arrivo dei fanti nemici7.

1 Liv. XXV.33.1-32 Liv. XXV.34.63 Liv. XXV.34.7-94 Liv. XXV.34.9-105 Liv. XXV.34.10-146 Liv. XXV.35.47 Liv. XXV.35.7-9

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Così facendo procedeva troppo lentamente e decise di ritirarsi con i suoi uomini

sopra un’altura. Questo luogo non era assolutamente privo di pericoli; nel mezzo mise i

bagagli e i cavalieri, circondati dai fanti. Nonostante all’inizio riuscissero a tenere bene la

posizione, all’arrivo dei tre eserciti cartaginesi, privi di fortificazione, sarebbero ben

presto crollati. A causa della natura arida del suolo, i Romani ammucchiarono ai lati i

basti degli asini e tutti i bagagli1. Questo stratagemma, inizialmente impaurì gli africani

che pensavano si trattasse di un prodigio, ma poco dopo essi presero coraggio e irruppero

in queste fortificazioni improvvisate, causando la fuga dei soldati romani. Molti

riuscirono a dileguarsi nelle selve circostanti, trovando rifugio negli alloggiamenti di

Scipione, tenuti dal luogotenente Tiberio Fonteio2. Tito Livio, per quanto riguarda la

morte del comandante romano, ci presenta due versioni diverse: alcuni affermano che sia

stato ucciso al primo assalto nemico, altri che, dopo essersi rifugiato in una torre lì vicina,

questa venne presto incendiata3.

Publio Cornelio e Gneo Scipione morirono otto anni dopo il loro arrivo in Spagna e Gneo

perse la vita dodici giorni dopo il fratello: la costernazione per la loro scomparsa era

grande a Roma, ma soprattutto nella stessa penisola iberica4.

1 Liv. XXV.36.1-72 Liv. XXV.36.8-133 Liv. XXV.36.13-144 Liv. XXV.36.14

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II BATTAGLIA DI ERDONEA

Nell’opera di Tito Livio, dal 212 a.C. in poi, le sconfitte che subiscono i Romani

calano drasticamente nel numero. Dopo il disastro spagnolo degli Scipioni, le uniche

disfatte citate dallo storico riguardano la seguente, avvenuta ancora presso Erdonea e un

ultimo vittorioso agguato ai danni del console Marcello a Venosa. Se quest’ultimo è

descritto da Livio come un semplice agguato, alcuni moderni affermano che la seconda

battaglia di Erdonea sia in realtà una duplicazione della prima descritta nel 212 a.C.

Tornando nel XVI libro dell’opera “Ab Urbe Condita”, vediamo come questa

disfatta in Apulia si apra con la descrizione della situazione politica a Roma. I consoli

eletti nel 210 a.C. furono Marco Claudio Marcello e Marco Valerio Levino (entrambi

però assenti)1. Il popolo li criticava poiché erano troppo irrequieti e bellicosi; durante la

pace potevano creare la guerra e non tolleravano minimamente che i cittadini stessero a

riposo2. A Gneo Fulvio Centumalo, console del 211 a. C., venne prorogato il comando

come proconsole in Apulia3.

1 Liv. XXVI.22.132 Liv. XXVI.26.113 Liv. XXVI.28.9

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Nel presentare i fatti di quell’anno, Livio osserva che, nella seconda guerra punica,

non ci fu un altro momento in cui Cartagine e Roma, dopo tutte queste vicende, si

trovavano in dubbio tra una speranza di vittoria e timore di sconfitta. Per quando riguarda

l'andamento nelle provinciae, a causa della situazione in Spagna c’erano profonda

tristezza e delusione, mentre le azioni vittoriose intraprese in Sicilia, portavano una

grandissima felicità. In Italia invece la perdita di Taranto aveva portato molto dolore alla

repubblica, ma aver conservato la città alta era motivo di grande soddisfazione. Inoltre il

terrore subito dai cittadini per via dell’assedio di Annibale a Roma, era stato subito

cancellato dalla conquista di Capua. Grazie alla fortuna equilibratrice sembrava che da

entrambe le parti la guerra dovesse ancora cominciare1.

Da parte cartaginese, Annibale era angosciato dalla perdita di Capua, che gli aveva

allontanato l’alleanza di molte popolazioni italiche. Piuttosto che lasciare indifese le città

che si sottraevano alla sua alleanza, a causa del suo animo incline alla crudeltà, le

saccheggiava e le incendiava2.

Il proconsole Cneo Fulvio sperava totalmente di riconquistare Erdonea, e ne era

così convinto che pose i suoi accampamenti in un luogo né sicuro, né provvisto di

guarnigioni. Questa speranza aumentava anche la temerarietà del proconsole, convinto

che la fedeltà di Erdonea potesse mancare dopo che Annibale, persa Salapia, aveva

abbandonato quei luoghi3. Queste informazioni preoccupavano il comandante punico

perché temeva di perdere le sue alleanze ma Annibale al contrario sperava anche di

condurre un attacco a sorpresa. Per questo motivo si diresse in questa città per precedere

la notizia del suo arrivo e, per spaventare ancora di più il generale romano, arrivò in

ordine di battaglia4.

Fulvio, che Livio ci descrive ardimentoso come Annibale, ma meno prudente e

con meno truppe, condusse velocemente nel campo di battaglia i suoi soldati e subito

iniziò lo scontro. La quinta legione e l’ala sinistra iniziarono valorosamente il

1 Liv. XXVI.37.1-92 Liv. XXVI.38.1-53 Liv. XXVII.1.4-64 Liv. XXVII.1.6-7

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combattimento contro i fanti Africani, ma contemporaneamente Annibale ordinava ai

suoi cavalieri di circondare gli accampamenti e i Romani stessi1.

Durante lo scontro Annibale rinfacciava a Gneo Fulvio l’omonimia con il pretore

sconfitto nello stesso luogo due anni prima, affermando che l’esito dello scontro sarebbe

stato identico. Le schiere romane lottavano con valore, ma quando arrivò la cavalleria

cartaginese alle loro spalle, vennero travolte entrambe le legioni. Alcuni Romani si

salvarono, ma molti altri, tra cui lo stesso Gneo Fulvio, persero la vita. Tito Livio afferma

che per alcuni storici i caduti furono circa 13.000, mentre per altri non furono più di

7.000. Questa grande vittoria rinnovò la leggenda legata all’invincibilità annibalica2,

tuttavia il comandante punico dovette abbandonare tutto quanto, bruciando la cittadina

Apula3.

1 Liv. XXVII.1.7-92 L. PARETI, Storia di Roma, pag. 423: dopo Canne è la vittoria migliore del comandante punico.3 Liv. XXVII.1.9-14

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AGGUATO A VENOSA

L’ultima disfatta che subiscono i Romani contro l’esercito di Annibale è un

semplice agguato teso nei pressi di Venosa. In realtà Livio ci mostra che ebbe una

ripercussione molto forte nei cittadini di Roma, poiché la vittima principale di questa

insidia fu il console Claudio Marcello. Lo storico in realtà non ci fornisce la data esatta

dell’agguato, ma possiamo collocarla poco dopo l’ultima battaglia di Erdonea, quindi

nell’estate dell’anno 208 a.C.

I consoli eletti in quest’anno furono Tito Quinzio Crispino (per la prima volta) e

Marco Claudio Marcello (per la quinta)1. Marcello era preso da alcuni turbamenti

religiosi: durante la guerra gallica, a Clastidium, aveva promesso in voto un tempio

all’Honor e alla virtus ma questa consacrazione era ostacolata dai pontefici, che

affermavano che unam cellam secondo le regole non poteva essere dedicato

contemporaneamente a due divinità. Se su di esso fosse avvenuto qualche prodigia,

sarebbe stato difficile il rito espiatorio, poiché non si sarebbe potuto sapere a quale dei

due dei si dovesse offrire il sacrificio; non si poteva, infatti, immolare una sola vittima a

due divinità nello stesso tempo. Così accanto al tempio dell’Honor, se ne costruì

1 Liv. XXVII.22.1

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velocemente un altro alla Virtus. Tuttavia non aveva più tempo per consacrarli poiché

dovette partire per raggiungere l’esercito, che l’anno prima aveva comandato a Venosa1.

Mentre Annibale si muoveva verso il capo Lacinio, Marcello e Crispino unirono

gli eserciti nei pressi di Venosa. A causa della loro grande audacia, cercavano di

combattere quasi ogni giorno, certi che sarebbero riusciti a sgominare definitivamente il

comandante cartaginese, unendo ben due eserciti consolari2.

In passato Annibale era riuscito sia a vincere, sia a perdere contro Marcello e

questa volta non sapeva che sorte gli sarebbe toccata. Come se non bastasse il numero

delle sue truppe era notevolmente inferiore di fronte a due eserciti consolari, così cercò

un luogo adatto per le insidie3. Tra Romani e Cartaginesi c’era un colle boscoso che

nessuno aveva occupato, che Annibale riteneva adatto per il suo piano: la notte stessa ci

nascose dei Numidi. Contemporaneamente i Romani volevano conquistare quest’altura

proprio per evitare che Annibale tendesse loro delle imboscate4. Marcello decise di

andare a controllare di persona, assieme al collega e ad altri 220 cavalieri. Tito Livio

afferma che alcuni dicevano che in quello stesso giorno, Marco Claudio Marcello aveva

immolato delle vittime: tutte le loro viscere erano deformate e questo non era certo un

presagio favorevole5.

Appena i Romani arrivarono nei pressi dell’altura, furono subito avvistati da una

vedetta numida che diede ai compagni il segnale di uscire allo scoperto e attaccare gli

intrepidi che vi si erano avventurati. I consoli e i cavalieri non avevano via d’uscita

poiché da ogni parte erano circondati: in realtà avrebbero allungato la lotta se gli

Etruschi, con la loro fuga, non avessero vanificato le speranze dei compagni romani.

Marcello venne trafitto da una lancia e perse la vita, mentre l’altro console, ferito da due

dardi riuscì a fuggire. 43 cavalieri vennero uccisi e diciotto furono presi prigionieri6.

1 Liv. XXVII.25.7-102 Liv. XXVII.25.12-143 Liv. XXVII.26.1-34 Liv. XXVII.26.7-105 Liv. XXVII.26.11-146 Liv. XXVII.27.1-10 cfr. Pol X.32.1-5: i consoli volevano esaminare il colle e presero con loro due squadroni di cavalieri e 30 veliti e con i littori, avanzarono per ispezionare il luogo. I numidi per caso si erano ritirati sotto il colle e nel primo scontro uccisero Claudio.

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Famoso per la sua grande abilità bellica, Marcello ricevette l’onore della sepoltura da

Annibale stesso7.

SECONDA PARTE

7 Liv. XXVII.28.1-2

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RESPONSABILITÀ

Considerazioni generali:

Lo storico Tito Livio enuncia almeno dieci sconfitte che subisce l’esercito romano,

ad opera dei soldati Cartaginesi guidati da Annibale. Di queste disfatte, la gran parte

suggerisce una linea interpretativa che assegna un ruolo preponderante al comandante

romano, la cui natura è solitamente associato all’aggettivo ferox o temerarius. È il caso

dello scontro presso il fiume Trebbia, presso il Trasimeno, a Canne, in Lucania ai danni

di Centenio Penula, a Erdonea –sia nel 212, sia nel 210- e nei pressi di Venosa.

L’atteggiamento del comandante che ci descrive Livio in queste situazioni, è

spesso baldanzoso ed euforico; in questo modo, tentando di attaccare battaglia a tutti i

costi, diventerà una sorta di alleato per Annibale, il quale sfruttando abilmente la

situazione, riuscirà a vincere facilmente sul campo.

Se da una parte lo storico patavino gira le responsabilità al metodo del dux di

condurre l’esercito, dall’altra mostra anche gli stratagemmi vittoriosi del comandante

cartaginese. Gli Africani infatti, grazie al genio di Annibale, sembra che riescano ad

imbrogliare gli odiati nemici in ogni situazione. Le insidiae annibaliche, si trovano in

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tutte le sconfitte subite dai Romani e grazie agli stratagemmi i Cartaginesi riusciranno

sempre – secondo Tito Livio – a sottrarre la vittoria alla repubblica romana.

In una sola sconfitta che ho analizzato, la colpa della disfatta è causata da un altro

fattore: si tratta delle truppe mercenarie assoldate dagli Scipioni in Spagna. Come

afferma lo stesso storico patavino, fare troppo affidamento su queste unità, è pericoloso e

spesso c’è il rischio di perderne il controllo (come poi vediamo, succederà in questo

frangente).

Ferocia e temeritas:

Sono due termini che compaiono costantemente nelle azioni dei personaggi

negativi nell’opera di Tito Livio. In latino sono ambivalenti e la traduzione non va fornita

in maniera affrettata. Secondo lo storico patavino, la temeritas va a indicare una

decisione presa senza considerare le conseguenze, una decisione imprudente e

sconsiderata che spesso (seppur non sempre) conduce a un esito negativo in battaglia.

Agire temerariamente significa agire alla cieca, affidandosi al caso ed evitando di agire

secondo consilium o prudentia1. La ferocia, così come l’audacia, invece può più

facilmente garantire la vittoria in battaglia, ma è troppo pericolosa e fuori controllo:

l’eroe stesso deve stare attento a non farne troppo uso. Durante la pace significa per lo

più impudenza e violenza criminale, ma in guerra è simile al coraggio o alla virtù:

quando, però viene associata da Livio alla temeritas, oppure quando essa porta alla

temerarietà, diventa sempre un elemento negativo. La ferocia spesso si accompagna con

un proliferare eccessivo della parola, con discorsi ossessionati e frenetici2.

Per quanto riguarda le caratteristiche dei generali sconfitti durante la seconda

guerra punica, vediamo che complessivamente il termine ferocia, sotto varie forme, è

presente otto volte: quattro con Sempronio, due con Flaminio, una con Varrone e una con

Flaminio. La temeritas compare più spesso, ben dodici volte: una con Sempronio, una

con Flaminio, quattro con Varrone, due con Centenio, due con Fulvio Flacco e una con

Scipione. Questi tratti distintivi peraltro non riguardano soltanto i generali; anche

l’esercito romano si macchia di questi tratti negativi in due circostanze. A Canne 1 E. FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis, IV, Padova 1965, pag. 6782 A. JOHNER, Le violence chez Tite-Live, Strasbourg 1996, pp. 54-57

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l’esercito è temerarius e ferox e per di più si avvertono le tracce di una seditio militaris,

mentre, durante la prima battaglia di Erdonea, i soldati sembrano decidere al posto del

dux e Livio ce li descrive con il termine ferocia in tre casi, con temeritas una volta

soltanto.

Secondo Ridley1, Tiberio Sempronio Longo viene dipinto in maniera meno

competente rispetto al collega Scipione, ma pare essere veramente abile in battaglia

nonostante le truppe poco allenate di cui dispone. Livio lo descrive subito come dotato di

un recentis animi alter eoque ferocios2: per questo motivo il console va subito ad assalire,

con successo, i cartaginesi che attaccavano i Galli e questa vittoria parve maior iustiorque

solamente ipse consul3 e di conseguenza anche l’animo dei soldati si era riconfortato.

Sempronio comanda le sue truppe senza però interessarsi al bene della Repubblica, ma a

un suo trionfo, poiché ormai tempus propinquum comitiorum4.

Annibale era convinto che sarebbe riuscito a sconfiggere più facilmente i romani

se uno dei due consoli si fosse comportato temere atque improvide5: era fiducioso perché

conosceva l’indole ferox di uno dei due consoli, la quale era diventata ferociusque6 dopo

il piccolo scontro vittorioso contro i numidi.

Il console manda all’attacco la cavalleria, la parte dell’esercito di cui è più ferox

(che in questo caso significa orgoglioso), e poco dopo, avidus certaminis7, manda anche

il resto dei suoi soldati a prendere parte allo scontro. Purtroppo i suoi uomini

attraverseranno il fiume gelido e perderanno tutte le forze: per questo motivo, secondo

Livio, Sempronio perderà la battaglia

Possiamo vedere come in tutta la premessa della battaglia sul Trebbia, ci sia una

chiara opposizione tra gli atteggiamenti dei due consoli. Tiberio Sempronio Longo è un

console offensivo e spregiudicato, mentre Publio Cornelio Scipione è molto più prudente

ed è il precursore della tattica vincente di Quinto Fabio Massimo, il temporeggiatore. Lo

storico patavino contrappone anche un gioco di opposizioni politiche: da un lato il

1 ROLAND T. RIDLEY, Livy and the hannibalic war, pp. 13-402 Liv. XXI.52.2-33 Liv. XXI.53.14 Liv. XXI.53.65 Liv. XXI.53.76 Liv. XXI.53.87 Liv. XXI.54.6-7

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generale arrivista, Sempronio, animato dal desiderio di ottenere ogni gloria grazie ad una

vittoria decisiva sul nemico e dall’altro Scipione, un vero e proprio comandante

responsabile. Il padre del futuro Africano sottolinea la necessità di analizzare al meglio la

situazione prima di entrare in azione, intende rispettare alla lettera i doveri verso lo Stato

e sembra anche avere a cuore l’interesse pubblico.

Tiberio d’altro canto adotta una linea di condotta demagogica che ci mostra

benissimo quale sarà il futuro comportamento dei populares, visto che questo termine

ancora non era stato coniato. Le parole attribuite a questo generale quando cerca di

imporre le proprie opinioni al collega, hanno tonalità popolari (tonalità appunto causate

dalla naturale ferocia) e, come ci dice lo stesso Livio, si è comportato proprio come se

fosse all’interno di un’arringa popolare, in una contio, prope contionabundus1.

Nell’opera liviana la discordia è un elemento molto importante prevede

chiaramente l’esito delle prime quattro sconfitte romane in Italia. Potrebbe essere che i

romani stiano pagando il loro mancamento nei confronti del tempio della Concordia

votato da L. Manlio Vulsone nel 219 a. C. (notiamo come Livio affermi che il tempio sia

stato costruito invece solo dopo Canne, l’ultima grande sconfitta causata dalla discordia).

Se per Polibio la concordia o la discordia sono soltanto fatti oggettivi, per Livio

diventeranno degli elementi chiave, qualcosa che inevitabilmente porterà alla vittoria o al

fallimento2.

Per quanto riguarda il condottiero che si muove nella disfatta del Trasimeno, e

cioè Gaio Flaminio, anche lui è definito attraverso i termini chiave ferocia (nella forma

aggettivale ferox) e temeritas, che tuttavia nel suo caso si rivestono in parte di valenze

precipue. Il suo atteggiamento ferox, tradotto come fiero e baldanzoso, denota un modo

di affrontare le cose di petto, con energia e coraggio, una sorta di attivismo fiero. Nel

caso specifico, infatti, il comandante è ferox ab consulato priore3: sono le esperienze

precedenti che lo rendono così.

Se si considera che il suo consolato è caratterizzato a un tempo da successi (vedi

quello ottenuto contro gli Insubri) e da polemiche (tentativo da parte dei senatori di

1 B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pp. 256-2572 B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pag. 2663 Liv. XXII.3.4

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ostacolarne il trionfo), si evince che quest’atteggiamento fiero derivi sia da una certa

consapevolezza di sé, sia da una certa volontà di dimostrare ciò che si vuole ottenere.

Anche nella vicenda del Trasimeno, il comportamento del console è all’origine

della débâcle, tant’è vero che i consulis consilia atque animum sono il primo dato che

Annibale si premura di conoscere summa omnia cum cura inquisendo1 e che, nella stessa

ottica, Annibale si dà da fare perché il comandante cedesse2 ancor più ai suoi vitia3.

Alla ferocia Livio affianca anche altri aggettivi connaturati alla personalità e

all’atteggiamento di Flaminio. La fierezza del console si accompagna infatti da un lato a

una mancanza di rispetto verso le leggi, la maiestas4 del Senato e gli dei e dall’altro a una

propensione alla temeritas, alla temerarietà (comportamento audace, che privilegia il

coraggio al calcolo e che può sconfinare nella sconsideratezza), caratteristica collegata

alla sua indole, ma altresì accresciuta dai successi ottenuti nelle imprese civili e militari.

In altre parole il suo essere ferox non trova adeguato contrappeso, non trova quelli

che dovrebbero essere i suoi limiti naturali, nel rispetto verso le autorità superiori e

nell’osservanza di criteri razionali nel procedere. Nel caso di Flaminio, particolare

rilevanza riveste il tema religioso, della neglegentia auspiciorum e, in generale di una

mancanza di rispetto verso gli dei, che è anche mancanza di rispetto verso le istituzioni.

Tale tema nella parte relativa all’ascesa di Flaminio5 è dominante; nella narrazione della

sconfitta, inizialmente costituisce, insieme con la temeritas, una delle cause

dell’insuccesso. In seguito, nelle parole attribuite al dittatore Massimo, diviene elemento

unico ed esclusivo.

A un tale modo di essere non può che corrispondere, naturalmente, un conseguente

modo di agire. Infatti Livio conclude che satis apparebat (il punto di vista assunto è

quello di Annibale) che Flaminio avrebbe agito con audacia precipitosa (ferociter ac

praepropere) e senza consultare né gli dei né gli uomini6. Così fu in effetti. Di fronte alle

1 Liv. XXII.3.22 Liv. XXII.3.9 e Liv. XXII.4.1; iram3 Liv. XXII.3.5-7; 4.14 Liv. XXII.3.4 legum aut patrum maiestatis sed ne deorum quidem satis5 Liv. XXI.636 Liv. XXII.3.5

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deliberate provocazioni di Annibale, le interpreta come un dedecus insopportabile7, che

obbliga a un’immediata risposta.

Il suggerimento degli ufficiali di attendere l’arrivo del collega (trattenutosi a Roma

per terminare la celebrazione degli auspici e per fare le leve1) e di affrontare Annibale

communi animo consilioque (nel frattempo limitandosi a circoscrivere la effusa

praedandi licentia del nemico), non solo non viene ascoltato, ma provoca la sua irosa

reazione (parole e gesti stizziti, johner?). Livio nota peraltro che il comportamento del

console (ferox2) è condiviso e apprezzato dai soldati. La precipitosità di Flaminio, oltre

che nella decisione di affrontare immantinente il nemico senza attendere Servilio, si

estrinseca anche nel fatto di procedere inexplorato esponendosi così alle deceptae

insidiae.

Diversamente da quanto avviene per altre figure, peraltro nel momento della

battaglia, Livio riscatta in parte l’immagine negativa di Flaminio. Egli lo mostra fin da

subito affrontare impavidus la terribile situazione creata dallo stratagemma di Annibale3.

Invero, dicendo che in quel terribile frangente il console invitava i soldati ad affidarsi non

alle preghiere agli dei ma solo a vis ac virtus4, il patavino ribadisce la tesi dell’empietà

flaminiana. Riconosce, però, al personaggio, un atteggiamento valoroso che appartiene di

diritto al codice bellico romano.

Rifacendosi alle osservazioni di Mineo, possiamo notare come il tema della grande

discordia, tema presente a Roma in quel periodo, si sviluppi distintamente all’interno

della disfatta sul Trasimeno, ruotando attorno alla complessa figura di Gaio Flaminio.

Tito Livio oltre a assegnare la responsabilità della sconfitta al console, punta il dito verso

qualcosa di più grande: si tratta della discordia collettiva della città. Secondo lo storico,

Roma non riusciva in quel periodo a far tacere i disordini politici e probabilmente questa

versione dei fatti che ci fornisce, faceva da specchio alla società in cui viveva Tito Livio.

Stando alla descrizione dello storico, ognuno preferiva scegliere i generali non per un

bene comune, ma per evitare che qualche fazione più forte prendesse il sopravvento; i

7 Liv. XXII.3.71 Liv. XXIII.2.12 Liv. XXII.3.73 Liv. XXII.5.14 Liv. XXII.5.2

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modi in cui un generale conduceva la battaglia, erano direttamente collegati allo

schieramento da cui venivano eletti (quindi, dai futuri populares provenivano consoli con

un atteggiamento bellico offensivo - impulsivo, mentre dai patres, consoli fedeli al

temporeggiamento)1.

La tesi per cui questo console era stato veramente il populares che ci presenta la

storiografia antica ormai è stata demolita; se Polibio ci mostra il console come un

demagogo arrivista e incapace in guerra2, Livio colloca il suo comportamento in una

prospettiva storica. Spesso descrive nei minimi dettagli le sue avventure politiche e la

brillante carriera: oltre al successo contro i Galli era famoso per altri motivi, tra cui anche

l’inizio dei lavori di costruzione della via Flaminia che collegava Roma all’Italia

settentrionale (era censore in questo periodo)3.

In ambito politico si distinse soprattutto per le modalità con cui, un paio d’anni

prima della battaglia sul Trasimeno, aveva sostenuto il plebiscitum di Quinto Claudio: era

detestato dai patrizi proprio per la legge che il tribuno Claudio, aiutato appunto dal solo

Flaminio, aveva presentato contro il Senato. Con questo provvedimento nessun senatore

poteva tenere una nave con un carico maggiore di 300 anfore di grano, poiché il

commercio era ritenuto indecoroso4. Sebbene possa sembrare un chiaro attacco al Senato,

in realtà si tratta di una misura atta a preservarne l’autorità morale5.

La carriera di Flaminio è stata inserita in un contesto di lutti politici dove i suoi

avversari non volevano certo risparmiarlo. I suoi rivali avevano tentato di fermarlo

annullandone l’elezione per vizio di forma e Il Senato stesso gli aveva inviato una lettera

di sollecito a tal proposito che lui non aveva nemmeno considerato (per questo i patrizi,

carichi di rancore, iniziarono a dire che il console non era solo contro di loro, ma anche

contro gli dei stessi6).

1 B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pp. 262-2692 Pol. III.81.1-12: era un demagogo abile, ma incapace di fare operazioni di guerra. Viltà e debolezza sono caratteristiche pessime per chiunque, ma se a possederle era proprio il generale di un esercito, allora l’esito del combattimento era già segnato. Temerarietà e stoltezza potevano diventare un vantaggio per il nemico, ma un pericolo per gli amici. Chi possiede questi difetti è maggiormente esposto alle insidie.3 B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pag. 2624 Liv. XXI.63.3-45 F. CASSOLA, I gruppi politici romani del III sec. a.C., Trieste 1962, pag. 1126 Liv. XXI.63.6-7

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Forse ancora più evidente e insistita che nel caso di Flaminio, è la dimensione

politica che circonda la disfatta di Canne. I consoli romani che avevano il comando

dell’esercito in questa grande battaglia, furono l’homo novus Caio Terenzio Varrone e il

console Lucio Emilio Paolo; ferocia contro cunctatio1. Lucio Emilio Paolo è lo specchio

evidente di questa situazione politica, poiché era stato scelto dai patres come se fosse

magis adversandum quam collega2.

L’elezione al consolato di Varrone, infatti, è presentata da Livio come

un’occasione di scontri tra patrizi e plebei e aveva permesso al tribuno della plebe Quinto

Bebio Erennio, parente di Varrone, di denunciare la strategia della cunctatio, concepita

secondo lui per indebolire il popolo3. Dall’altra parte Paolo rifiutò a lungo la proposta di

consolato poiché la plebe era arrabbiata con lui4. La sua strategia seguiva i saggi consigli

del Senato e del maestro, il temporeggiatore Fabio Massimo5.

La situazione politica che divideva Roma, questo clima di discordia, viene

associato da Livio anche nei contrasti che si creano tra i due consoli. Subito dopo la loro

entrata in carica, infatti, pronunciarono dei discorsi: Varrone esclamava ovunque che la

guerra era giunta in Italia a causa dei nobili e che essa avrebbe potuto portare in rovina

Roma stessa, se solo ci fossero stati ancora comandanti come il vecchio dittatore (e cioè

comandanti fedeli alla strategia della cunctatio, comandanti scelti tra i patres, come lo

stesso Paolo). Varrone stesso, invece, avrebbe vinto la guerra il giorno stesso in cui

avesse incontrato il nemico6.

Nel suo discorso Paolo scelse di non criticare troppo il collega, esprimendo

soltanto meraviglia per l’homo novus, il quale, poco esperto dell’arte della guerra, già

sembrava in grado di sconfiggere un tale nemico in battaglia. A queste parole, Livio fa

intervenire Fabio Massimo che rispose affermando che probabilmente Paolo avrebbe

dovuto combattere con due avversari contemporaneamente: Annibale da una parte e il

collega dall’altra. Il dittatore continuò ricordandogli del comportamento di Flaminio,

1 Gli altri generali principali impegnati qui erano Gneo Servilio Gemino e probabilmente Marco Minucio Rufo (tra l’altro anch’essi accetti l’uno al Senato, l’altro al popolo).2 Liv. XXII.35.43 B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pag. 269 - Liv. XXII.344 Liv. XXII.35.3-45 B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pag. 2676 Liv. XXII.38.6-8

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impazzito quando ricevette l’esercito, mentre Varrone era già uscito di senno ancor prima

di riceverlo. L’unica tattica vincente per sconfiggere il comandante punico era proprio

quella di Massimo: Annibale stava già perdendo molti soldati a causa della fame e i

rinforzi faticavano a raggiungerlo. La risposta di Paolo però lasciò intendere che la

disfatta era già segnata in partenza1.

Varrone riesce a far scoppiare tumulti nella città: le sue arringhe hanno trasformato

Roma in una turba instabile e stupida e lo stesso Senato, garante della saggezza e della

ragione, riceverà con molta poca grazia il discorso di Fabio2. Quando i due consoli si

mossero, la città stessa era divisa. I senatori scortavano Paolo, mentre il popolo scortava

Varrone: tra i plebei non c’era nessun personaggio prestigioso3.

Questo clima di discordia tra i due consoli si vede molto spesso, anche durante la

guida dell’esercito prima di scontrarsi con Annibale a Canne: in primo luogo si nota

facilmente quando Varrone vuole attaccare a tutti i costi l’accampamento sguarnito dei

Cartaginesi e Paolo che, convinto delle proprie sensazioni e dei presagi, gli si oppone. In

secondo luogo quando Paolo, che in quel giorno aveva il comando dell’esercito, scelse di

non attaccare gli Africani; scontrandosi con i desideri di Varrone, quest’ultimo fece

iniziare una feroce discussione.

Pieno di foga demagogica e nihil consulto collega4, Varrone alla fine schiera le

truppe per la battaglia: questa cecità sarà la causa che farà precipitare Roma nella triste

disfatta di Canne5. In realtà, come De Sanctis ha evidenziato, questo disaccordo, questo

clima di discordia, è una totale finzione poiché tutti quanti, Senato incluso, volevano

finire in fretta e con una battaglia decisiva, la guerra contro Annibale6. Lo storico

patavino forse dimentica di dire che l’ordine di una strategia totalmente offensiva veniva

da Roma stessa. A questa fonte si potrebbe anche opporre Polibio dove Varrone ha un

ruolo meno preponderante: di sicuro decide di attaccare contro la volontà del collega, ma

non è assolutamente questo pazzo furioso che urla arringhe in continuazione. Polibio gli

1 Da Liv. XXII.38.9 a Liv. XXII.40.42 A. JOHNER, Le violence chez Tite-Live, pp. 79-823 Liv. XXII.40.4-54 Liv. XXII.45.55 B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pag. 2576 G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, pp. 57-58

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deplora solamente l’inesperienza, ma ricorda appunto che questa strategia offensiva era

autorizzata sia da Paolo, sia dal Senato1.

Questo clima politico, che rimbalza anche tra i due consoli, definito da Livio dal

termine chiave discordia, sembra cessare una volta per tutte dopo la disfatta di Canne e

più precisamente al ritorno di Varrone a Roma. Il console sopravvissuto, non solo verrà

ringraziato dall’intero Senato per non aver abbandonato la città, ma anzi segnerà

nell’opera liviana, il limite ultimo di questo concetto.

Ritornando all’atteggiamento ferox e temerarius dell’homo novus, vediamo che

costui è spesso definito da un utilizzo esagerato e continuo della parola. Fin dai primi

dialoghi che pronuncia come neo eletto console, si schiera apertamente a favore della

plebe e Livio stesso afferma che spesso offendeva anche i cittadini più illustri di Roma.

Quest’uso ripetuto di arringhe da parte di Varrone, si rivela completamente

controproducente: quando il comandante dei cartaginesi finge di abbandonare il proprio

campo, con un grande clamore a militibus2 fu veramente difficile per i generali romani

trattenere i propri soldati dall’attacco. Il console Varrone, infatti, vociferando e urlando

come i suoi soldati, si confonde con loro e perde la propria supremazia. La ferocia in

questo caso si esercita soprattutto nel dominio del discorso e non durante l’azione, la sola

ferocia che possiede è quella della parola. Il saggio dittatore Fabio Massimo è l’unico in

grado di opporre la propria razionalità contro l’eccessiva ferocia di Varrone, legata

all’ignoranza, alla temerarietà e a un’irrazionale fortuna3. Diversamente da Flaminio,

l’homo novus rinsavisce di fronte ai presagi negativi del collega quando religione animo

incussit4, ma ormai i soldati non parerent5 più all’autorità dei due generali e mancava

poco che da soli depredassero il campo sguarnito. Il fatto stesso di seguire la folla è un

chiaro errore: il generale che segue i suoi uomini e diventa loro simile, rinuncia al suo

senso di comando e commette un atto di cancellazione della gerarchia della disciplina.

Seguire la folla è pericoloso perché questa è instabile e mutevole e in materia militare, si

1 A. JOHNER, Le violence chez Tite-Live, pag. 412 Liv. XXII.42.73 A. JOHNER, Le violence chez Tite-Live, pp. 54-574 Liv. XXII.42.9-105 Liv. XXII.42.10

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traduce spesso in un disastro1. Soltanto il provvidenziale intervento di due schiavi fuggiti

ai cartaginesi, soluisset maiestatem2.

Nella conclusione dello scontro, Livio ci mostra due aspetti completamente

opposti dei generali: da un lato vediamo che Paolo combatte con onore e si tuffa anche

nel centro della battaglia, minacciando lo stesso Annibale3. Quando aveva perso ormai

ogni forza, fu trovato dal tribuno Lentulo sopra un sasso e alla richiesta di mettersi in

fuga assieme a lui sul proprio cavallo, Paolo diede queste indicazioni: Lentulo avrebbe

dovuto avvisare il Senato di fortificare Roma e rinforzarla con dei presidi, prima che

arrivasse Annibale. Il console invece sarebbe rimasto lì a condividere la sorte dei suoi

soldati, ma anche perché non voleva venire accusato di nuovo, né tantomeno diventare

accusatore del collega che li aveva portati tutti alla sconfitta4. Diversamente da Flaminio,

alla fine Varrone non perde la vita in maniera eroica ma seu forte seu consilio5, riesce a

salvarsi dalla tragedia cannense.

Un comandante che si distingue molto per la propria temeritas, è il centurione

Centenio Penula, che perde la vita in Lucania. Tito Livio lo descrive insignis […]

magnitudine corporis et animo6. Le sue colpe probabilmente ricadevano nella volontà di

utilizzare le stesse armi del nemico, le stesse artes7 poco apprezzate da tutti i Romani, ma

soprattutto nel fatto che era impossibile che un semplice centurio sconfiggesse in

battaglia Hannibal dux, avendo a disposizione un esercito novus totus, contro uno

vincendo veteranus8. Il concetto di temeritas lo ritroviamo poco prima della morte del

generale romano, il quale per paura di rovinare la propria fama e per metu dedecoris,

causato appunto dalla sua avventatezza9, cade in battaglia offrendo il petto ai numerosi

dardi nemici.

1 A. JOHNER, Le violence chez Tite-Live, pp. 79-822 Liv. XXII.42.123 Liv. XXII.49.1-34 Liv. XXII.49.6-135 Liv. XXII.49.146 Liv. XXV.19.97 Liv. XXV.19.118 Liv. XXV.19.149 Liv. XXV.19.16

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Anche dopo la sua morte, Tito Livio insiste sull’atteggiamento di Penula, poiché

vediamo come Annibale si ricordi il successo acquisito grazie alla temeritas1 di un

comandante romano, e di conseguenza l’esito di uno scontro capeggiato da un inscius

dux2.

Anche nel caso di Fulvio Flacco, la fonte mette in primo piano i limiti del

comandante e collega a questi le speranze di Annibale di cogliere una vittoria (e dunque,

visto che tali speranze si realizzano, le ragioni della sconfitta). Anzi il parallelo con i

precedenti successi del cartaginese e il rimando reiterato agli errori e all’incompetenza

dei generali che l’avevano preceduto, produce in maniera inequivocabile l’episodio in

oggetto nel medesimo schema.

Dopo un grande successo ottenuto in Apulia, cade con i soldati in una grande

licentia socordiaque e la disciplina militiae3 viene soppressa del tutto. Secondo il

moderno Lind, la potenza di un comandante, implica anche obbedienza assoluta da parte

dei suoi soldati e auto controllo. In ambito militare viene considerata e ripetuta spesso

come ragione della grandezza di Roma. Le punizioni per chi non la rispettava erano

durissime. La disciplina militiae integra un’obbedienza assoluta, un comportamento

semplice, l’auto sacrificarsi, la resistenza a tutti i pericoli e proseguire i propri doveri

senza mai lamentarsi. Il soldato romano grazie a questo è diventato uno dei migliori della

storia. Purtroppo per Fulvio, abbandonarsi a queste mollezze, porterà lui e i soldati alla

rovina4.

Il generale romano viene presentato infatti, quasi come fosse un burattino alla

totale mercé dei suoi soldati: quest’ultimi erano troppo avventati e quando Annibale si

avvicina al loro campo, poco ci manca che escono in battaglia con le insegne5. Al

comandante cartaginese non sfuggono questi tumultuatum in castri et plerosque ferociter6

e vuole approfittare subito della situazione.

1 Liv. XXV.20.52 Liv. XXV.20.73 Liv. XXV.20.6-74 C. DEROUX, Studies in latin literature and Roman history, IV, Bruxelles 1986, pp. 61-675 Liv. XXV.21.16 Liv. XXV.21.2

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Fulvio Flacco infatti poi schiera le sue truppe non tanto per una speranza di

vittoria, quanto piuttosto per impetu militum. Questi infatti affrontano la battaglia con

temeritas e senza seguire le indicazioni, né dei tribuni né del generale, si schierano con

libido1. Il comandante romano è pari in stultitia et temeritas a Centenio ma poiché dotato

di molto meno animus2, si da immediatamente alla fuga. In seguito al suo atteggiamento,

viene citato in giudizio da Bleso e viene accusato in quanto molti generali in passato

avevano perso per temeritas atque inscitia3, ma lui era l’unico che aveva corruptus4 così

tanto le proprie milizie. Inoltre aveva fatto sì che i soldati diventassero feroces et inquieti

con gli alleati, ignavi et imbelles5 con i nemici. La viltà di Flacco compare nuovamente,

poiché nella sua difesa dà la colpa proprio ai soldati che chiedevano di combattere

ferociter6 e quindi come un burattino era stato trascinato via dai fuggitivi.

L’esito di un temerarium consilium, lo possiamo notare facilmente poco prima

delle righe in cui Livio descriverà la morte di Publio Cornelio Scipione: infatti,

nonostante sia un comandante cautus et providens7, vinto dalla necessità, prende una

decisione temeraria e rischiosa attaccando Indibile nel cuore della notte.

Nel caso della seconda sconfitta di Erdonea, l’omonimo di Fulvio Flacco, Cneo

Fulvio, non viene mai definito dal concetto di temeritas, ma notiamo facilmente che la

sconfitta romana è causata dalla sua neglegentia insita ingenio8, poiché dispone gli

accampamenti senza difesa e in luoghi poco sicuri. Come Annibale, anche lui è dotato

della stessa audacia consilio et viribus ma Tito Livio spezza una lancia a suo favore: la

sconfitta avviene principalmente per la sua inferiorità nelle copiis9.

Gli ultimi consoli rilevati in questa breve analisi sono Marco Marcello e Crispino.

Entrambi sono famosi e temuti dal popolo per l’esagerata ferocia10 che li

1 Liv. XXV.21.52 Liv. XXV.21.93 Liv. XXVI.2.74 Liv. XXVI.2.85 Liv. XXVI.2.116 Liv. XXVI.3.17 Liv. XXV.34.78 Liv. XXVII.1.59 Liv. XXVII.1.7-810 Liv. XXVII.25.14

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contraddistingue. Nel caso di Marcello, la sua cupiditas1 di combattere contro Annibale

sarà anche la causa fondamentale che lo porterà alla rovina.

Astuzie dei Cartaginesi:

Secondo quanto riporta Tito Livio, quasi tutte le sconfitte romane durante la

seconda guerra punica vengono in parte decise dall’incredibile astuzia e perfidia del

generale Annibale e dalle sue truppe. Ogni disfatta si articola quasi allo stesso modo: in

primo luogo vediamo come il comandante cartaginese, accortosi della temeritas del dux

nemico, inizi a devastare i territori nelle sue immediate vicinanze. In questa situazione,

infatti, sfrutterà l’orgoglio dell’avversario per farlo cadere nella sua trappola e indurlo ad

attaccare subito battaglia. Le forme attraverso cui si manifestano le insidiae Cartaginesi,

sono molteplici e varie. Queste vanno da un semplice inganno, a complesse ed elaborate

imboscate. Infine, vediamo come in ognuna di queste disfatte, il coraggio dei Romani sia

l’unica arma in grado di contrastare le astuzie dei guerrieri Punici2.

Secondo Brizzi, Livio condivideva l’idea che i Cartaginesi ricorrevano

costantemente e con grande abilità all’uso degli stratagemmi in ogni loro forma; questi

ultimi risultavano ai Romani alieni e intollerabili. I Quirites avevano un codice morale

molto arcaico che univa l’etica alla politica e alla guerra, il concetto di fides. Annibale al

contrario, separava questi termini e divenne il simbolo della perfidia: molto

probabilmente le fonti dell’epoca di parte romana generalizzarono subito, attribuendo

questa caratteristica a tutti i Cartaginesi3.

Lo stratagemma, visto come qualcosa al di fuori delle regole belliche, sembra

rompere i canoni di comportamento dei Romani3: ogni qual volta questo avverrà, lo

stratagemma viene definito dal termine insidiae4. Che queste astuzie vengano

discriminate da Tito Livio e da tutta la storiografia antica, è evidente nella disfatta subita

dal centurione Penula: quest’ultimo forse viene brutalmente sconfitto in battaglia perché

1 Liv. XXVII.27.12 EVERETT L. WHEELER, Stratagem and the vocabulary of military trickery, Leiden 1988, pag. 563 G. BRIZZI, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Bologna 2002, pp. 66-674 EVERETT L. WHEELER, Stratagem and the vocabulary of military trickery, pag. 60 e pag. 655 EVERETT L. WHEELER, Stratagem and the vocabulary of military trickery, pag. 55

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egli stesso promette ai suoi concittadini di combattere il nemico, usando però eadem ars1.

Probabilmente quest’utilizzo è concesso, in quanto non si tratta di un vero e proprio

comandante.

La prima sconfitta in cui si registra il ricorso alle insidiae in senso proprio è la

battaglia combattuta nei pressi del Trebbia. Livio ci mostra la prima azione di Annibale:

inviare i suoi uomini a devastare i territori dei Galli, i quali cercavano di allearsi sia con i

Cartaginesi, sia con i Romani2, e subito dopo locum insidiis circumspectare coepit3.

Successivamente il condottiero punico compie un altro stratagemma, che assomiglia ad

una piccola imboscata: nelle vicinanze del campo romano si trovava un ruscello, le cui

alte rive erano protette da fitti rovi. Il cartaginese disse al fratello Magone di scegliere

1.000 fanti e 1.000 cavalieri per nascondersi con loro all’interno del luogo prescelto.

Quando sarebbe giunto il momento opportuno, Annibale avrebbe dato il segnale ai 2.000

soldati di uscire allo scoperto4. Il condottiero punico è così sicuro di uno stratagemma

simile poiché è perfettamente consapevole che i Romani siano totalmente inesperti di tali

artes di guerra5.

Un altro stratagemma che lo contraddistingue è quello di sfidare il nemico: dopo

aver fatto rifocillare le truppe, manda i Numidi a provocare i Romani. I soldati cartaginesi

si ritirano a poco a poco, per indurre gli avversari a seguirli fin oltre il fiume. Il fiume

gelido, infatti, sarà un elemento decisivo dato che il freddo intenso fu in grado di togliere

l’ardore del combattimento ai soldati Romani6. Livio stesso scrive come la battaglia sia in

parità solo grazie al coraggio delle truppe consolari7. Quando però irruppe Magone con i

Numidi dal ruscello, provocò subito tumultum ac terror8.

La disfatta sul Trasimeno, invece, risulta essere diversa per altri aspetti. Annibale,

informatosi bene sulla natura dei luoghi, ma soprattutto sul console Flaminio9, si prepara

1 Liv. XXV.19.112 Liv. XXI.52.53 Liv. XXI.53.114 Liv. XXI.54.1-45 Liv. XXI.54.36 Liv. XXI.54.4-5 e Liv. XXI.55.17 Liv. XXI.55.88 Liv. XXI.55.99 Liv. XXII.3.2

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a provocarlo devastando i campi dell’Etruria1. In contemporanea, il luogo da lui scelto

per ordire insidiae2, è descritto dallo storico come una via stretta con delle ripide colline

ai lati. Dietro ai colli Annibale nasconde i frombolieri e la fanteria leggera. La cavalleria

invece era nascosta allo sbocco del passo in modo tale che fossero deceptae insidiae3. Lo

stesso teatro scelto per la battaglia è un’insidia, non si tratta di uno stratagemma attutato

durante la battaglia, né di una componente del confronto bellico, ma è qualcosa di più.

Non appena i Romani entrarono in questo stretto passaggio, i Cartaginesi uscirono

all’improvviso (subita atque improvisa res fuit4) e i soldati di Flaminio ebbero la certezza

che se circumventum esse5.

Nel caso della disfatta di Canne, i vari espedienti adottati e le diverse tipologie,

risultano ben definiti dallo storico patavino. Per prima cosa Annibale fa in modo di

provocare lui la battaglia: il cartaginese era consapevole della propria inferiorità

numerica e sperava di combattere in pianura. Si mise a provocare gli odiati Romani con

delle piccole scaramucce6 e poi mandò i suoi Numidi ad assalire coloro che si rifornivano

d’acqua, raggiungendo quasi le porte del campo avversario7. Il risultato delle sue

provocazioni induce Varrone ad attaccare immediatamente battaglia, in un luogo di

aperta pianura, affinché Annibale potesse anche combattere nelle migliori condizioni

(infatti il vento…)8. Nemmeno durante il combattimento l’esercito punico si trattiene

dall’usare abbondantemente gli stratagemmi: né la cavalleria gallica né quella spagnola

combattevano secondo la tradizionale tattica equestre9.

In ogni caso il genio del condottiero cartaginese è palese durante le prime battute

dello scontro, poiché cambia totalmente la disposizione dei suoi soldati. La parte centrale

dello schieramento sembra essere molto più sporgente e verrà subito ricacciata indietro

dall’esercito consolare. I Romani così finiscono tutti nel centro dello schieramento

1 Liv. XXII.3.6 e Liv. XXII.4.12 Liv. XXII.4.23 Liv. XXII.4.24 Liv. XXII.4.65 Liv. XXII.4.76 Liv. XXII.44.4-57 Liv. XXII.45.2-48 Liv. XXII.45.59 Liv. XXII.47.1-2

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nemico1 e poi fu veramente facile per le truppe africane circumdedere coloro i quali

incautamente erano finiti lì in mezzo2. Nell’ala sinistra dello scontro, vediamo che Livio

ci descrive un terzo tipo di stratagemmi utilizzati a Canne, ovvero un atto di fraus tipico

dei Cartaginesi3: i Numidi fanno finta di defezionare in massa dal proprio esercito e, una

volta guadagnata la fiducia romana, attaccano alle spalle i nuovi “alleati”4.

Nel caso della morte di Tiberio Sempronio Gracco, il fatto di cadere in

un’imboscata, non è collegato alla temeritas o all’imprudenza del comandante, ma è

frutto di una proditio (del tutto inaspettata, ingiustificata e vile). Non è un caso che, qui,

il ritratto del comandante romano sia sostanzialmente positivo, infatti la chiave

interpretativa risiede altrove, e precisamente nel concetto di fatum.

Il generale romano venne tradito da un suo vecchio alleato, Flavo Lucano, capo

della fazione dei Lucani fedeli ai Romani. Costui, per potersi guadagnare subito la fiducia

dei Cartaginesi, desiderava consegnare loro Tiberio: andò in segreto da Magone e gli

disse di nascondere i suoi uomini in un luogo adatto a tendere le insidie. Gracco cadde,

infatti, in queste insidias, perdendo la vita5. Sullo stesso episodio, Livio riporta altre

versioni: alcuni storici riferiscono che Gracco si sia spinto fuori dall’accampamento per

fare un bagno e dei nemici nascosti nella vegetazione, uscirono allo scoperto e lo uccisero

nudo. Altri invece raccontano che il generale, secondo il consiglio degli aruspici, si

allontanò dal campo per espiare i presagi negativi e per caso capitò in mezzo a due

squadroni di Numidi.

Anche durante la prima battaglia di Erdonea il significato di questo stratagemma è

lo stesso: Annibale ordina a Magone di occupare tutti i passaggi dai quali i nemici

avrebbero potuto fuggire e infatti questo inganno aumentò di gran lunga le perdite dei

Romani6. A Venosa, infine, vediamo subito il desiderio di Annibale di conquistare il colle

vicino, per impadronirsi di un luogo adatto alle imboscate, alle insidiae7.

1 Liv. XXII.47.5-62 Liv. XXII.47.83 Liv. XXII.48.24 Liv. XXII.48.45 Liv. XXV.16.166 Liv. XXV.21.47 Liv. XXVII.26.7-8

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Secondo le opinioni del moderno Wheeler, le insidiae dei soldati Cartaginesi in

Livio, coincidono spesso, ma non solo, con l’aggiramento dei Romani, un attacco sui

fianchi, a sorpresa o persino durante la notte; il termine circumvenire diventa una parola

standard, ed esprime il concetto di circondare e dominare gli avversari. Probabilmente lo

storico si concentra molto su questo aspetto, poiché va contro alle normali tattiche

belliche impiegate in battaglia dalla Repubblica1.

In Spagna, i Numidi attaccano repente Publio Cornelio2 e poco dopo i Romani

erano circondati da tutte le parti: il combattimento ormai è perduto3. Nella seconda

battaglia di Erdonea, Annibale ordina ai suoi uomini di prendere i Romani alle spalle, e

una volta che questi ultimi vengono circumvecti, le sorti della battaglia volgono a

vantaggio dei Cartaginesi4.

In ultima analisi, nell’opera liviana è facile notare come i Romani non siano per

nulla preparati alle abili astuzie dei Cartaginesi, le quali si discostano molto dal modo di

combattere tipico dell’esercito consolare. L’unica volta che i Romani approfittano di un

tradimento durante la seconda guerra punica, quest’ultimo viene definito sollerti magis

quam fideli consilio5. Vincere imbrogliando, infine, è un’idea che lo storico patavino

collega al concetto di rubare una vittoria6.

Defezione dei mercenari:

Nella versione dei fatti che ci propone il patavino, un altro elemento che concorre

alle responsabilità della sconfitta in ottica liviana, è sicuramente il ruolo delle truppe

mercenarie. Seppur presente in minima parte, la defezione di queste unità, riveste in Livio

un ruolo fondamentale, un exemplum per il futuro.

Nel capitolo 32 del venticinquesimo libro, viene finalmente descritta dallo storico

una delle prime operazioni belliche importanti che avviene in Spagna. In questo momento

vediamo che i due fratelli Scipione, Publio e Gneo, avevano appena terminato di

1 EVERETT L. WHEELER, Stratagem and the vocabulary of military trickery, pp. 80-852 Liv. XXV.34.93 Liv. XXV.34.104 Liv. XXVII.1.85 Liv. XXII.22.66 EVERETT L. WHEELER, Stratagem and the vocabulary of military trickery, pag. 75

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arruolare 20.000 Celtiberi; grazie a queste truppe i generali erano sicuri di poter

sconfiggere con facilità i tre eserciti dei Cartaginesi, accampati nelle vicinanze.

L’errore dei due dux, secondo Tito Livio è credere che satis ad id virium

credebant accessisse viginti milia celtibero rum ea hieme ad arma excita1, ovvero che i

mercenari arruolati nell’inverno, bastassero per sgominare le truppe nemiche. Tuttavia si

sbagliavano: infatti il generale Asdrubale, quando scoprì dell’eccessivo affidamento che

facevano sui mercenari e, soprattutto, che i soldati Romani erano molti meno rispetto ai

Celtiberi, peritus omnis barbaricae et praecipue omnium earum gentium2, patteggiò coi

capi dei mercenari.

Così facendo il Cartaginese riuscì a indurre in queste truppe la defezione e poco a

poco abbandonarono l’esercito degli Scipioni. A questo punto Livio sembra criticare

l’operato dei comandanti Romani e avverte che da una situazione del genere

bisognerebbe sempre guardarsi. Questi esempi devono essere considerati come una

prova, affinché non venga più fatto un eccessivo affidamento su questo tipo di soldati.

Infatti, Publio Cornelio, menomato di ben 20.000 soldati, quando vide che senza

l’aiuto degli ausiliari non aveva un contingente pari a quello nemico, si diede

immediatamente alla ritirata. Continuando a leggere il resoconto delle disavventure finali

degli Scipioni nella penisola iberica, vediamo che l’aver perduto le truppe mercenarie

risulterà determinante – almeno secondo lo storico patavino -, per la vittoria cartaginese.

Prodigia:

I prodigia non vanno visti come un segno indicatore della sconfitta imminente, ma

come un espediente che utilizza Livio, per farci capire il turbamento dei cittadini Romani,

causato dalle numerose sconfitte. Secondo quanto ci riporta il libro di Champeaux, il

prodigium è qualcosa che sfugge alle leggi di natura, un evento che l’uomo non può

spiegare. Per i Romani però non è un segno premonitore, ma un segnale che avverte gli

uomini che hanno commesso un errore, di solito rituale, e che hanno rotto la pax deorum.

In questo caso dovranno ristabilirla con pratiche religiose: all’inizio i pontefici erano

incaricati di attuare gli scongiuri necessari e in seguito i Romani presero prima gli 1 Liv. XXV.32.3-42 Liv. XXV.33.2

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aruspici dagli Etruschi e poi i libri sibillini dall’ellenismo1. In base alla quantità e alla

lunghezza dei presagi che inserisce Livio, si possono trovare chiare indicazioni o

sull’esito delle battaglie stesse o sul destino della capitale.

Sul Ticino, appena prima che Romani e Cartaginesi si scontrassero in Italia per la

prima volta, si verificano i primi prodigia: un lupo era entrato nell’accampamento, aveva

ferito alcuni soldati ed era fuggito incolume, poi uno sciame d’api si era collocato su di

un albero sopra la tenda di Scipione2.

La disfatta seguente, quella del Trasimeno, viene predetta dallo storico

tramite numerosi presagi: In Sicilia fecero scintille le punte delle lance di alcuni soldati,

in Sardegna prese fuoco il bastone di un cavaliere che ispezionava le sentinelle, dei

fuochi lampeggiarono sulle spiagge, due scudi sudarono sangue, alcuni soldati furono

colpiti da un fulmine, inoltre il cerchio del sole sembrava più piccolo del solito. A

Preneste caddero dal cielo dei sassi infiammati, ad Arpi si videro in cielo degli scudi e il

sole che lottava contro la luna, a Capena sorsero due lune durante il giorno, a Cere le

acque delle sorgenti fluirono miste a del sangue. Ad Anzio furono mietute delle spighe

insanguinate, a Faleri il cielo si aprì come una grande spaccatura dalla quale uscì

tantissima luce, a Roma invece le statue di Marte e dei lupi avevano sudato, a Capua si

vide un cielo fiammeggiante con la luna che tramontava tra la pioggia. Avvennero anche

prodigi minori che riguardavano il mondo animale: delle capre si trasformarono in

pecore, un gallo si trasformò in una gallina, e una gallina in gallo.

Si decise di espiare questi prodigi sia con animali adulti, sia con animali da latte e

per tre giorni bisognava compiere preghiere pubbliche in tutti gli altari. Inoltre i

decemviri decisero di consultare i libri sibillini: in seguito offrirono a Giove un fulmine

d’oro del peso di cinquanta libbre, a Giunone e a Minerva dei doni d’argento, a Giunone

Regina e a Giunone Sospita un sacrificio di animali adulti, mentre le matrone dovettero

raccogliere del denaro e donarlo a Giunone Regina compiendo anche un lettisternio, e per

finire le schiave liberate dovettero offrire del denaro a Feronia3.

1 J. CHAMPEAUX, La religione dei romani, pp. 94-992 Liv. XXI.46.1-23 Liv. XXII.1.8-20

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Per quanto riguarda il generale Varrone, la sua avventatezza non era tale da

compromettere eccessivamente la pax deorum come fece Flaminio, poiché alla vista del

presagio infausto dato dalle viscere dei polli, decise di non attaccare il campo sguarnito di

Annibale1; in ogni caso il destino dell’esercito romano è già segnato.

Nel 212 a.C. si verificò, secondo Tito Livio, un’ondata di superstizione che invase

la città. Si tratta di religioni provenienti dall’esterno, in quanto né gli uomini né gli dei

sembravano più gli stessi. I culti religiosi praticati con meticolosità quasi esagerata,

iniziarono a cadere sia tra le mura domestiche, sia in pubblico. Ormai si vedevano

dappertutto sacerdoti sacrificatori e indovini2.

Non soltanto in generale, ma anche a singoli comandanti, accadde di dover

decifrare alcuni prodigia particolari. Dopo che il proconsole Ti. S. Gracco fece i sacrifici

necessari per la partenza, dal nulla spuntarono due serpenti che riuscirono a divorare il

fegato dell’animale sacrificato. Gli aruspici consigliarono di ripetere il sacrificio per

sicurezza, ma questo prodigium capitò altre due volte. Gli aruspici spiegarono che si

trattava di una premonizione riguardante il comandante stesso: egli avrebbe dovuto

guardarsi dagli uomini a cui chiedeva consigli, che però tramavano in segreto contro di

lui. Infatti, non riuscendo a ristabilire la pax deorum, verrà inevitabilmente ucciso dal

fatum3.

Come ultimo caso riportato, anche il console Marcello, il giorno stesso della sua

morte, aveva praticato un sacrificio mal riuscito. Aveva immolato degli animali, ma tutte

le viscere erano deformate e questo non era certo un presagio favorevole4. Come previsto,

a causa di un’imboscata nemica, perse la vita.

1 Liv. XXII.42.92 Liv. XXV.1.6-83 Liv. XXV.16.1-54 Liv. XXVII.26.13-14

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