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Il primo secolo dell'impero: dai Giulio-Claudii ai Flavi agli imperatori di adozione. I Giulio Claudii. - Tiberio (14-37): figlio di primo letto di Livia moglie di Augusto, ottimo generale, assume il potere con riluttanza. Diffidente e intransigente, negli ultimi anni si ritira a Capri, lasciando il potere in mano al prefetto del pretorio Elio Seiano, sotto cui sono perseguitati intellettuali nostaligici della repubblica, come lo storico Cremuzio Cordo. - Caligola (37-41): nipote di Tiberio, governa come un folle tiranno, nello sforzo di imporre un'idea del potere secondo modelli orientaleggianti. - Claudio (41-54): zio di Caligola, messo al potere dai pretoriani, governa con avvedutezza, promuovendo opere pubbliche e conquistando la Britannia meridionale. Affida ai suoi liberti molti compiti amministrativi, inimicandosi il senato. E' succube delle due mogli, Messalina e Agrippina, madre di Nerone, la quale lo fa avvelenare. - Nerone (54-68): adottato da Claudio e messo sul trono dalla madre, governa aiutato da Seneca e dal prefetto del pretorio Afranio Burro. Dopo il quinquennio aureo, assume atteggiamenti demagogici, reprimendo il senato e imponendo i suoi ideali orientaleggianti. Il suo dispotismo alimenta contro di lui numerose congiure, fatale quella del 68. I Flavi. - Vespasiano (69-79): dopo un anno di guerre civili e il succedersi di tre imperatori, assume il potere Vespasiano, uomo di modeste origini, ma soldato pratico e solido. Salito al potere, promulga la lex de imperio, che definisce il potere dell'imperatore come una magistratura a vita e limita il potere del senato. Rinnova il senato immettendovi cavalieri italici. Conclude la guerra giudaica, facendo distruggere Gerusalemme dal figlio Tito (70 d.C.). - Tito (79-81): governa con saggezza e moderazione. Inaugura il Colosseo, iniziato dal padre. - Domiziano (81-96): passato alla storia per il suo regime di terrore, limita la collaborazione col senato e si appoggia a un ristretto consilium principis. Gli imperatori di adozione. - Nerva (96-98): ex senatore, ormai anziano, governa saggiamente,

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Il primo secolo dell'impero: dai Giulio-Claudii ai Flavi agli imperatori di adozione.

I Giulio Claudii.- Tiberio (14-37): figlio di primo letto di Livia moglie di Augusto, ottimo generale, assume il potere con riluttanza. Diffidente e intransigente, negli ultimi anni si ritira a Capri, lasciando il potere in mano al prefetto del pretorio Elio Seiano, sotto cui sono perseguitati intellettuali nostaligici della repubblica, come lo storico Cremuzio Cordo.- Caligola (37-41): nipote di Tiberio, governa come un folle tiranno, nello sforzo di imporre un'idea del potere secondo modelli orientaleggianti.- Claudio (41-54): zio di Caligola, messo al potere dai pretoriani, governa con avvedutezza, promuovendo opere pubbliche e conquistando la Britannia meridionale. Affida ai suoi liberti molti compiti amministrativi, inimicandosi il senato. E' succube delle due mogli, Messalina e Agrippina, madre di Nerone, la quale lo fa avvelenare.- Nerone (54-68): adottato da Claudio e messo sul trono dalla madre, governa aiutato da Seneca e dal prefetto del pretorio Afranio Burro. Dopo il quinquennio aureo, assume atteggiamenti demagogici, reprimendo il senato e imponendo i suoi ideali orientaleggianti. Il suo dispotismo alimenta contro di lui numerose congiure, fatale quella del 68.

I Flavi.- Vespasiano (69-79): dopo un anno di guerre civili e il succedersi di tre imperatori, assume il potere Vespasiano, uomo di modeste origini, ma soldato pratico e solido. Salito al potere, promulga la lex de imperio, che definisce il potere dell'imperatore come una magistratura a vita e limita il potere del senato. Rinnova il senato immettendovi cavalieri italici. Conclude la guerra giudaica, facendo distruggere Gerusalemme dal figlio Tito (70 d.C.).- Tito (79-81): governa con saggezza e moderazione. Inaugura il Colosseo, iniziato dal padre.- Domiziano (81-96): passato alla storia per il suo regime di terrore, limita la collaborazione col senato e si appoggia a un ristretto consilium principis.

Gli imperatori di adozione.- Nerva (96-98): ex senatore, ormai anziano, governa saggiamente, associando a sé il valoroso generale Traiano, da lui adottato come figlio, che gli succede.- Traiano (98-117): governa con moderazione, raggiungendo un accordo con il senato. Sotto il suo principato, l'impero romano raggiunge la sua massima estensione.

Contesto culturale del primo secolo dell'impero.Gli intellettuali del periodo sono consci di vivere dopo una grande epoca e procedono sempre sulle orme dei modelli augustei (epigonismo): tuttavia, sono costretti a deviare nell'estroso, nello stravagante, nell'innaturale, nell'eccessivo. Il potere imperiale esige un maggiore controllo sulla cultura: gli uomini di cultura dipendono, così, direttamente dal principe, che spesso censura soprattutto l'attività oratoria e storiografica. Gli imperatori della prima dinastia, del resto,

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hanno interessi culturali: Tiberio, allievo del retore Teodoro, è esperto di letteratura greca e latina; Germanico, valido generale, compone un poema astronomico; Claudio è studioso di antiquaria e linguistica; Nerone è un modesto poeta alla maniera greca e si circonda di letterati, tra cui Lucano. Si allarga il pubblico che si accosta alla letteratura (si diffondono i negozi di libri): ne nasce una produzione anche di scritti tecnici, così come di romanzi e poesia leggera. Domina anche nella letteratura seria un gusto dell'eccesso e del passionale, che qualifica lo stile di quest'epoca come barocco imperiale, che si allontana dall'equilibrio classico in nome dello sperimentalismo. Sotto i Flavi, nella letteratura si impone un gusto più controllato, tanto che la cultura diventa più che altro relax estetico di un ceto benestante: i letterati si orientano verso il recupero di moduli classici. Al poema epico virgiliano torna Stazio; la retorica di Quintiliano si ispira a Cicerone.

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SENECA (Cordova, Spagna, 5 a.C. - Roma, 65 d.C.)

* La sua formazione avviene presso la scuola filosofica dei Sestii, il padre e il figlio che la dirigono. La scuola si ispira al rigoroso modello di vita degli stoici (il saggio stoico fa della ragione la sua regola, vincendo così le passioni e i condizionamenti fisici) e s'apre pure a precetti pitagorici, come le pratiche alimentari ascetiche, attuate da S. tanto assiduamente che rischia la morte e si procura una incurabile malattia polmonare. Un'altra pratica della scuola è l'esame di coscienza, che permette al filosofo di comprendere a fondo la psicologia umana. La scuola è sciolta da Tiberio, perché sospettata di fomentare la protesta1. S., allora, soggiorna in Egitto e tenta il cursus honorum. Il giovane, di ricca famiglia, in breve diviene oratore ammirato e senatore. Si salva dalle gelosie di Caligola, grazie ad una schiava, che rivela al principe che S. sarebbe morto presto per la cattiva salute. Poi è coinvolto in uno scandalo di corte, accusato di aduleterio colla sorella di Caligola, Giulia Livilla, ed esiliato nel 41-8 in Corsica da Claudio. In esilio, torna alla filosofia e scrive la Consolatio ad Polybium, liberto di Claudio, per consolarlo della perdita del fratello e supplicare indirettamente l'imperatore.2

* A Roma torna su richiesta di Agrippina, madre di Nerone, che lo vuole come precettore del figlio: anche se forse progettava di recarsi ad Atene. Morto Claudio, che saluta con un elogio funebre e ripaga dall'esilio con una satira, Nerone regna guidato dal prefetto del pretorio Afranio Burro e dal procettore (quinquennio felice). Sembra avverarsi il sogno platonico di un filosofo al potere; S., inoltre, pensa di poter così mantenere fede al precetto stoico del rispetto dei doveri pubblici. Dunque, giustifica il principato in nome della razionalità universale3 nel De clementia (54-6), dedicato a Nerone (possediamo due dei tre libri). Nel trattato, il filosofo non discute la direzione monarchica dello stato, ma invita il principe a esercitare l'autocontrollo: egli, obbedendo ad un impulso interno ed essendo superiore alle parti, può creare omogeneità nell'amministrazione dello stato, se usa della capacità di perdono e spersonalizzazione insita nel concetto di clementia (teoria paternalistica del potere). S., in effetti, vede imperatori che personalizzano il potere e fanno favoritismi: s'illude di risolvere questi problemi, guidando il principe al perfezionamento morale. Ecco perché resta vicino a Nerone, anche quando la sua attività è inefficace, a prezzo di compromessi non sempre edificanti (giustifica il matricidio di Agrippina).

Non interrompe la ricerca morale, documentata nei Dialogi, dieci componimenti composti da prima dell'esilio al ritiro, raggruppati forse alla morte. In modo frammentario e con ripensamenti, in un'opera che riproduce il colloquiare di un 1 Lo stoicismo è la filosofia dei nostalgici della repubblica: modello di buono stoico è Catone Uticense, che s'uccide per non cadere prigioniero di Cesare. Durante l'impero, lo stoicismo chiude i canali politici e tende a cercare la perfezione dell'individuo: se fuori del saggio c'è disordine, almeno in lui regni l'ordine.2 Sono in tutto tre le Consolationes senecane, confluite nei Dialogi: nella prima, ad Marciam, cerca di confortare la figlia dello storico Cremuzio Cordo, alla quale è morto un figlio; nell'ultima, ad Helviam matrem, consola la madre per la sua assenza durante l'esilio.3 L'impero ha realizzato anche il cosmopolitismo stoico.

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maestro con i discepoli, essi presentano gli esiti della sua meditazione: sui modi di dominare le passioni (De ira4), sul senso delle avversità come prova della virtù del saggio (De providentia, all'amico Lucilio), sull'imperturbabilità del saggio (De constantia sapientis, all'amico Sereno), sui rimedi all'insoddisfazione (De tranquillitate animi, ancora a Sereno, cui è proposto un equilibrato rapporto tra vita contemplativa e attiva), sulla vita contemplativa (De otio, scritto ancora a Sereno dopo il ritiro dalla vita pubblica, quando S. considera praticabile solo il disimpegno), sulla necessità di usare del tempo nell'esercizio della filosofia (De brevitate vitae, al funzionario Paolino, perché lasci la politica), sull'identità di felicità e virtù (De vita beata, lungo monologo al fratello Novato Gallione5). La cornice dei Dialogi è l'etica stoica, infiltrata di motivi diversi, che puntano attorno al saggio e alla ricerca di libertà interiore: saggezza e libertà sono traguardi da raggiungere con la perfezione morale. La libertà non è politica, ma etica: il saggio è libero, perché riconosce le leggi del cosmo e si adegua. Tracce delle originarie connotazioni politiche del problema della libertà sono l'individualismo e l'aristocraticismo di S., che mostra di disprezzare la folla.

* Tra le cause che portano alla rottura con Nerone, lo storico Tacito indica la morte di Afranio, ma i motivi del dissenso tra S. e l'imperatore covavano da tempo. Dopo le dimissioni, i suoi ultimi anni di Seneca, passati tra pochi amici e molti volumi, sono ricchi e interessanti, perché il filosofo rimedita i temi che hanno destato il suo interesse, mettendo in discussione le sue certezze e tentando nuove vie. I titoli di questa fase sono: - Philosophia moralis (non conservato o solo progettato); - De beneficiis (7 ll.): il trattato riprende il De clementia, ponendo l'accento sul dovere della beneficienza, in difesa della dignità umana: i senatori, cui il filosofo si rivolge, devono aiutare materialmente i più umili, che devono invece beneficiare i loro patroni sotto il profilo morale. S. ancora una volta tenta di regolare paternalisticamente i rapporti sociali, senza discutere la necessità storica del principato. Nerone non compare, ma ben figurerebbe nella galleria degli ingrati che costellano l'opera;- Naturalium quaestionum libri VIII (=octo): S., usando conoscenze astronomiche e geografiche già note, illustra le cause scientifiche di misteriosi fenomeni naturali. In questo modo, l'uomo è liberato dalla paura e può dedicarsi liberamente al perfezionamento morale. Anche gli epicurei (ad es. Lucrezio) hanno adottato una strategia simile, ma in loro la spiegazione razionale dei fenomeni portava alla conclusione che nel mondo non esiste Dio, mentre Seneca, da stoico, ne deduce che la Provvidenza anima l'universo. Dall'opera emerge un kosmos dualistico, diviso tra materia e Dio. Del moralista restano le chiuse, come la condanna del progresso tecnico.- Epistulae morales (20 ll.): S. finge di indirizzare al discepolo Lucilio 124 lettere di 4 L'ira è l'opposto della clemenza ed è il difetto peggiore del principe.5 Due le idee principali: 1. la felicità è la virtù; 2. per ottenerla sono utili le ricchezze. Il primo concetto è contro gli epicurei, per cui la felicità è il piacere (S., tuttavia, li difende perché sensibile al fascino del vivi nascosto); il secondo è contro il volgo che critica i filosofi, accusandoli di incongruenza (molti gli rinfacciano le ricchezze accumulate con l'usura): S. fa capire che tenderà sempre alla virtù, ma che non la raggiungerà mai, perché essa, come la conoscenza, non è un possesso, ma un obiettivo. La filosofia, in questo senso, è una prassi continua, una lotta contro se stessi.

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argomento morale. S., deluso dall'ottimismo stoico che ha fatto i conti con la storia e si è rivelato incapace di spiegare il caos del mondo, segue anche altri sistemi filosofici. Ad es. nei primi tre libri è costante la presenza di Epicuro, che affascina S. per via della teorizzazione della rinuncia, da parte del saggio, alla politica. Anche se il filosofo non rinuncia alla predicazione, non si sente un vero modello di vita, ma constata la propria lontananza dalla meta. La sua serenità è aiutata dal pensiero della morte, che da oggetto di paura e segno di impotenza diviene certezza di liberazione.

* Nel 65 implicato nella congiura pisoniana, S. riceve da Nerone l'ordine di uccidersi: si taglia le vene e ricorre alla cicuta, volendo discutere di immortalità come Socrate, ma, poiché il sangue non scorre bene, deve entrare in un bagno caldo (questa componente teatrale è vista con ironia dallo storico che racconta la sua dipartita, Tacito, cui S. non è simpatico).

Il pensiero. Secondo lo stoicismo, l'universo è regolato da un'intelligenza intrinseca e provvidenziale: è il migliore possibile, proprio perché, grazie all'azione di Dio, esso è ordinato secondo logica. S., però, vive in una realtà dove regnano il caos e l'irrazionalità; da qui la sua idea di realizzare nel proprio spirito l'armonia che non è possibile rintracciare nell'esterno. Il mondo, dunque, presenta anomalie, ma esse sono le prove che il destino (Dio) ha stabilito perché l'uomo le affronti e dimostri così di essere saggio. Ecco perché lo stoicismo di Seneca è antidogmatico: da una parte, egli riconosce, da eclettico, che la verità non appartiene a nessun sistema filosofico (è ricerca e non possesso), ma parzialmente a tutti; dall'altra, non pretende che l'uomo possa vivere di sola filosofia, a prescindere dal suo quotidiano. S. riconosce, infatti, che in noi c'è una sfera non filosofica: su questo piano, però, la filosofia può intervenire a aiutarci a vivere meglio, o con più serenità, i piccoli episodi (i giochi del circo, il rapporto con gli schiavi, etc.). Il filosofo, così, si sveste della sua immagine e appare più umano, più vicino alle incertezze dell'uomo della strada, senza dover per forza essere condizionato dalla continua ricerca della coerenza. Come gli altri uomini, anch'egli appare ora forte della sua ragione, ora fragile e non padrone di sé, perché o trasportato dagli umori della folla (massificazione) o trascinato suo malgrado dal tempo, che è rapina omnium rerum. Condizionato dalla situazione, S. oscilla dunque tra ottimismo e pessimismo (ciclotimia) e la verità delle due posizioni sta tutta nella sincerità del suo stato d'animo.

Opere non filosofiche. Seneca è anche l'ultimo tragediografo latino, la cui produzione sia giunta completa: scrive nove coturnate6, ispirate ai grandi tragici greci, in particolare Euripide: Hercules furens (dall'Eracle di Euripide): Giunone provoca la follia di Ercole, che così uccide la moglie e i figli. Una volta rinsavito, determinato a suicidarsi, egli si lascia distogliere dal suo proposito e si reca infine ad Atene a purificarsi.Troades (dalle Troiane e dall'Ecuba di Euripide): dopo la sconfitta di Troia, le donne troiane prigioniere restano impotenti dì fronte al sacrificio di Polissena, figlia di Priamo, e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca.6 Il termine (da cothurnus, il calzare indossato dagli attori) indica una tragedia di argomento mitologico greco.

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Phoenissae (dalle Fenicie di Euripide e dall'Edipo a Colono di Sofocle): dopo l'allontanamento da Tebe di Edipo [vedi sotto Oedipus], che si reca a Colono per purificarsi dai propri delitti, i suoi figli, Eteocle e Polinice, si accordano per regnare a turno sulla città. Eteocle, però, alla fine del suo primo mandato, rifiuta di cedere il trono a Polinice, che lo rivendica, portando guerra alla propria patria, assieme a sei altri eroi. Nello scontro finale, i due si uccidono, com'era stato profetizzato. La tragedia è giunta incompleta. Medea (dalla Medea di Euripide):Medea, principessa della Colchide, ha aiutato Giasone nella conquista del vello d'oro, tradendo il padre. L'eroe, tornato a Corinto, la abbandona per un altro matrimonio. La giovane maga, dal carattere demoniaco, uccide, per vendicarsi, i figli avuti da lui. Phaedra (dall'Ippolito di Euripide e da una tragedia perduta di Sofocle): Fedra, regina di Atene e sposa di Teseo, si innamora del figliastro Ippolito, che, devoto di Artemide, non cede alla matrigna. Essa, per vendetta, lo denuncia al marito, provocandone la morte. Oedipus (dall'Edipo re di Sofocle): Edipo, allontanato da Tebe per via di un oracolo, senza saperlo uccide il padre Laio ad un crocicchio e sposa la madre Giocasta, diventando re della città. Alla scoperta della verità, reagisce accecandosi e lasciando Tebe per sempre. Agamemnon (dall'Agamennone di Eschilo): Agamennone, re di Micene, torna a casa dalla guerra di Troia. La moglie Clitennestra, ormai legata al cugino del marito, Egisto, lo uccide. Thyestes (dalle tragedie perdute di Sofocle e di Euripide): Atreo, animato da odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, si vendica con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli.Hercules Oetaeus (= "Ercole sull'Eta", il monte su cui si svolge l'azione; dalle Trachinie di Sofocle): Deianira, per riconquistare Ercole innamoratosi di Iole, gli invia una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, creduto un filtro d'amore e in realtà dotato di potere mortale: tra dolori atroci Ercole si uccide ed è assunto fra gli dei.

1. Le tragedie senecane hanno probabilmente un intento ideologico, sono cioé un modo indiretto di esercitare la critica politica e morale. Due i temi dominanti: la figura del tiranno, sanguinario, irrazionale e tormentato dall'ansia e dalla paura (es. Edipo); l'analisi psicologica della passione, vista come ostacolo alla felicità e all'adempimento del proprio dovere (ad es. Fedra e Medea).2. La violenza di certe situazioni (Medea uccide i figli sulla scena) e una componente fortemente retorica fanno pensare che le tragedie fossero recitate dall'autore o da attori da lui scelti (recitatio). 3. Il modello stilistico è Euripide, anche se S. tende alla contaminatio, condensa cioé vicende di diverse tragedie greche in un solo dramma, con il risultato che le sue opere sono esuberanti di elementi tragici. La componente verbosa s'esprime in tirate moralistiche e nella ricerca di effetti forti patetici e violenti.

Gli è attribuita una praetexta7: l'Octavia, la dolce e indifesa moglie di Nerone che 7 Da quando Nevio cominciò a scriverne, tutti i tragici latini ne hanno composta almeno una; l'argomento è tratto dalla storia o dalla leggenda romana.

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la elimina con una falsa accusa di adulterio per sposare Poppea. La tragedia non è di S., perché profetizza la morte di Nerone nei termini in cui avvenne (in una rivolta, si fa uccidere da uno schiavo perché non ne ha la forza) e perché tra i personaggi c'è anche il filosofo.

Morto Claudio, S., che ne compone l'elogio funebre, letto in senato da Nerone, scrive, per vendicarsi, anche il Ludus de morte Claudii o Apokolokyntosis (= "zucchificazione", deformazione del termine "apoteosi", cioé la divinizzazione dell'imperatore dopo la morte). Si tratta di una satira menippea, cioé un prosimetro che trae il suo nome dal cinico greco Menippo e il cui iniziatore, in lingua latina, era stato Varrone, un filologo dai molti interessi, amico di Cicerone. Di questo genere, caratterizzato dalla mescolanza tra prosa e poesia, dalla tendenza ad assumere una struttura narrativa e dalla polemica politica, restano molti frammenti e tutta la satira senecana (oltre alla produzione di Petronio). S. immagina che Claudio, una volta morto, finisca sull'Olimpo tra gli dei (cammina storto e muove sempre la testa): Augusto, però, non lo vuole e lo manda negli Inferi; tornando sulla terra, Claudio vede sull'Appia il proprio funerale e si rende conto finalmente d'essere morto. Presentato al giudice dell'aldilà Eaco, è condannato a giocare a dadi con un bossolo sfondato; Caligola lo reclama come schiavo, poi è assegnato ad Eaco che lo cede al liberto Menandro perché si occupi di inchieste giudiziarie (come da vivo). S. usa in chiave sarcastica la gigantizzazione dei toni.

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LUCANO (Cordova, Spagna, 37- Roma, 65)

Figlio di Marco Anneo Mela, fratello minore di Seneca, giunto a Roma da bambino, è educato alla scuola di Anneo Cornuto con Persio. L'ingegno e la precocità lo segnalano a corte; i favori di Nerone gli valgono l'ingresso nel senato e la questura ed è consacrato poeta ufficiale nel 60 col successo nei Neronia, con le Laudes Neronis. Della sua produzione scritta, vasta per un ventenne, conosciamo frammenti, titoli e argomenti grazie allo storico Svetonio: Iliacon (poema sulla morte di Ettore), Catachthonion (descrizione dell'Ade), Orpheus (sulla storia di Orfeo e Euridice), Saturnalia (che accompagnano doni), Silvae (10 ll. di carmi occasionali, modello di Stazio), Medea (incompiuta), un carmen famosum contro Nerone, la declamazione De incendio urbis (64), pantomime. I titoli fan pensare ad un poeta di corte, pronto a compiacere il gusto per le antichità troiane e la poesia di intrattenimento. Ma in breve tempo L. diviene oppositore del regime e congiurato (secondo gli storici Svetonio e Tacito). Tale svolta non è nata all'improvviso, né dettata da rivalità letterarie, ma è probabilmente dovuta alla sua formazione stoica. Tacito narra la sua morte: L., con le vene aperte e le estremità rigide, ricordandosi di un passo del suo poema in cui ha descritto un soldato che muore allo stesso modo, recita quei versi e muore. Una tal morte lo riscatta dalle delazioni cui si è abbassato dopo l'arresto, facendo il nome della madre, per farsi perdonare il ritardo nel confessare (Tacito) o sperando che tale scelleratezza lo avrebbe riabilitato agli occhi di un matricida (Svetonio).

La sua opera più importante è il poema epico Bellum civile o Pharsalia. Ne pubblica i primi tre libri, poi Nerone comincia a odiarlo, forse perché quest'opera (incompiuta al libro X, che è più breve degli altri) è animata da un'eccessiva nostalgia per la repubblica. L. ribalta il codice epico incarnato dall'Eneide di Virgilio, tanto che la Pharsalia è stata interpretata come un'Antieneide.

Eneide Pharsaliaargomento: mitologico storico

Enea, fuggito da Troia, fonda la città di Roma. Cesare sconfigge Pompeo durante la guerra civile (48 a.C.)8

fonti: Iliade e Odissea opere storiche: Livio, le lettere di Cicerone, Cesare9

eroe: Enea Cesare, Pompeo, Catone

8 Cesare valica il Rubicone e Pompeo, in difficoltà, fugge dall'Italia in Oriente. Cesare lo insegue in Epiro e lo assedia a Durazzo. Sesto, suo figlio, consulta la maga Erittone, che richiama in vita un soldato morto, il quale rivela la rovina che incombe sulla sua famiglia e sulla repubblica. Cesare, infatti, vince a Farsàlo le truppe di Pompeo, che fugge in Egitto. Qui il re Tolomeo lo fa uccidere. Il corpo decapitato di Pompeo è abbandonato sul litorale. Catone assume, così, il comando dell’esercito repubblicano e attraversa il deserto libico. Cesare arriva in Egitto, dove gli è offerta la testa di Pompeo. Gli Alessandrini tentano una sollevazione contro Cesare.9 L. si avvale anche della biografia di Catone scritta da Trasea Peto e delle Storie di Asinio Pollione, due storici dell'opposizione senatoria.

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qualità dell'eroe: forza, coraggio, pietas, devozione per lo stato brama di potere

meraviglioso: soprannaturale (vicende riguardanti gli dei) orientale (fantasmi, streghe), esotico (serpenti, tempeste di sabbia)

presenza dell'autore:i fatti si narrano da soli (impersonalità)10 l'autore compare costantemente, in modo perfino prepotente

Mentre l'eroe epico incarna le virtù che fungono da modello ed è vincente, perché la sua vittoria serve a confermare che il mondo è costruito su valori e principi cui l'autore crede, nella Pharsalia non ci sono veri e propri eroi: Cesare e Pompeo rappresentano la brama di potere, l'uso della forza; Pompeo è un Enea dimezzato e sfortunato, senza la coscienza di essere uno strumento in mano alla Provvidenza. Solo Catone incarna spirito di libertà e dedizione alla patria, ma perde e muore (victrix causa deis placuit, sed victa Catoni "la causa dei vincitori piacque agli dei, a Catone la causa perdente"). Il mondo appare così costruito sull'assurdo, come nella tragedia, dove il protagonista perde. A descrivere il caos informe di un cosmo disordinato, L. adotta uno stile magniloquente, esuberante, dai toni accesi, il quale contribuisce a far perdere al poema oggettività.

La differenza di tono tra Eneide e Pharsalia appare evidente nel confronto tra i due proemi.

Virgilio, Eneide I 1-7: Io canto l'armi e l'eroe [arma virumque cano], che per primo dalle spiaggie di Troia, profugo a causa del Destino, venne in Italia alle coste Lavinie, molto sbattuto sia per terra che per mare dalla forza degli dei, e dalla memore ira della crudele Giunone, avendo anche sopportato molte cose a causa della guerra, finché non fondò la città, e portò gli dei4 nel Lazio, da cui [ebbe origine] la stirpe dei latini, i padri albani e le mura dell'alta Roma.

L., Pharsalia I 1-12: Cantiamo guerre più atroci di quelle civili [bella... plus quam civilia... canimus], combattute sui campi d'Emazia, e il delitto divenuto legalità e un popolo potente che si è rivolto contro le sue stesse viscere con la destra vittoriosa e i contrapposti eserciti appartenenti allo stesso sangue e - infranto il patto della tirannia - tutte le energie del mondo sconvolto che lottano per un comune misfatto e le insegne che vanno contro quelle avversarie e le aquile contrarie alle aquile e i giavellotti minacciosi contro i giavellotti. Quale follia, o cittadini, quale sfrenato abuso delle armi offrire il sangue latino alle genti nemiche? Mentre si sarebbero dovuti strappare alla superba Babilonia i trofei italici e mentre l'ombra di Crasso continuava ad errare invendicata, si decise di intraprendere guerre che non avrebbero avuto alcun trionfo?

Virgilio, nell'aprire il suo poema, esprime la fiducia nella grandezza di Roma: il fato, che ha permesso i travagli di Enea e le guerre, vuole anche la pace e la gloria per i suoi discendenti. L'elenco degli argomenti è, così, orientato verso questo sbocco progressivo, cioé verso la fondazione di Roma. L., invece, canta bella plus quam civilia, con il che dichiara subito la sua linea ideologica: non canta la gloria, ma la catastrofe, al mito della fondazione sostituisce il trionfo della 10 Virgilio talora indica qual è il suo punto di vista (normalmente, quello di Enea; nel VI libro Didone), ma di rado commenta direttamente gli eventi (carattere della poesia lirica o delle opere a sfondo morale). Ad es. nell'episodio di Polidoro, Virgilio si lascia sfuggire: "O maledetta fame di oro".

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dissoluzione, espresso potentemente con l'immagine del popolo romano, che, seppure vincitore, si suicida.

Interessante è anche il confronto tra altri due passi: nell'Eneide VI Virgilio descrive la discesa, propiziata dalla Pizia, negli Inferi di Enea che qui incontra Anchise che gli predice la futura storia di Roma, nel Bellum civile VI è invece una maga ad evocare un morto che profetizza al figlio di Pompeo, Sesto, non un panorama di trionfi e civiltà, ma di disastri e sconfitte.

Pharsalia VI 529ss.: Erittone seppellisce nei sepolcri anime ancora in vita e che ancora sostengono i corpi, mentre la morte è costretta a presentarsi per altri, cui il fato aveva assegnato anni di vita; sconvolgendo i riti funebri, fa tornare il corteo dal cimitero: i cadaveri si alzano dal letto funebre. Lei strappa dalle fiamme dei roghi le ceneri fumanti e le ossa ardenti dei giovani e perfino la fiaccola, che i genitori ancora impugnano, e raccoglie i frammenti del letto funebre svolazzanti tra il nero fumo, le vesti che si trasformano in cenere e le braci, che odorano ancora di membra. Quando invece, allorché i corpi vengono sepolti nelle tombe, gli umori interni svaniscono e i cadaveri si induriscono, dal momento che non ci son più le parti più immediatamente corruttibili, allora Eritto incrudelisce avidamente su tutte le membra, immerge le mani nelle orbite e si inebria nel cavarne fuori gli occhi gelidi e rosicchia le pallide escrescenze delle mani rinsecchite. Spezza con i denti le corde e i nodi mortali, fa scempio dei corpi penzolanti, strappa dalle croci i cadaveri di quelli che vi sono stati inchiodati, afferra le viscere percosse dai nembi e le midolla ormai essiccate dal sole che vi penetra, divelle i chiodi conficcati nelle mani togliendo via l'atra putredine che cola per il corpo e l'umore rappreso e addenta i nervi, rimanendovi appesa, quando essi resistono...Subito il sangue rappreso si riscalda e ridà vita alle nere ferite e scorre nuovamente nelle vene fino all'estremità delle membra: gli organi interni, percossi nel petto gelido, palpitano e la nuova vita, scorrendo nelle midolla non più abituate alla normale attività organica, si mescola alla morte. Tutte le membra vibrano, i nervi si tendono: il cadavere non si alza dal suolo utilizzando gradatamente i suoi arti, ma, tutto in una volta, è respinto da terra ed è ritto in piedi. Aperte le fessure delle palpebre, gli occhi si spalancano: l'aspetto non è ancora quello di una persona viva, dal momento che aveva cominciato ad esser quello di un morto: predominano ancora il pallore e la rigidità ed egli si stupisce di essere stato nuovamente trasportato nel mondo. La bocca, però, ancora irrigidita, non emette alcun mormorio: la voce e la lingua gli sono state fornite soltanto per dare risposte. La maga lo apostrofa: «Dimmi quel che ti ordino e ci sarà per te una grande ricompensa: se dirai il vero, infatti, ti renderò immune dagli incantesimi tessalici per sempre: arderò il tuo corpo con un tale rogo, con tale legname e con tali formule magiche che la tua anima non dovrà più subire gli incantesimi e le formule dei maghi. Sia questo il prezzo di essere tornato in vita: né gli scongiuri né i filtri magici oseranno - una volta che io ti avrò fatto morire definitivamente - spezzare il sonno del tuo lungo Lete. I vaticini oscuri si addicono ai tripodi e ai vati degli dèi: si allontanino sicuri tutti coloro che chiedono la verità alle ombre ed affrontano coraggiosamente i responsi della dura morte. Non tener celato nulla, ti prego: svela con chiarezza e con precisione gli eventi ed i luoghi e parla con quella voce, con cui i fati mi si possano rivelare». Aggiunse anche una formula di incantesimo, con la quale permise all'anima di conoscere tutto quello che le veniva richiesto. Il cadavere, triste, rispose tra le lacrime:«Richiamato dalla sponda appena toccata, non ho visto i funerei stami delle Parche. Tuttavia sono stato in grado di sapere da tutte le anime che una feroce discordia lacera i Mani di Roma e che le armi nefande hanno infranto la quiete degli inferi: alcuni condottieri son giunti qui, in opposte schiere, dai campi Elisi, altri dal triste Tàrtaro, ed hanno rivelato quel che i fati stanno apprestando. Le anime dei beati avevano un'espressione sconsolata... Tu non tentar di conoscere il tuo destino: saranno le Parche a rivelartelo, senza che io dica alcunché: ti predirà ogni cosa, divenuto vate più sicuro, il padre Pompeo nei campi di Sicilia, anch'egli incerto dove chiamarti o da dove farti star lontano, quali zone del mondo e quali costellazioni esortarti ad evitare. O miseri, temete l'Europa, la Libia e l'Asia: la Fortuna ha scandito con sepolcri i vostri trionfi: casato degno di commiserazione, in tutto il mondo non riuscirai a scorgere nulla di più sicuro dell'Emazia».

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Dopo che ha svelato i fati, rimane ritto con il volto triste e reclama silenziosamente la morte. C'è bisogno di scongiuri magici e di filtri, affinché il cadavere stramazzi, dal momento che i destini non possono riottenere l'anima, una volta che hanno fatto uso del loro diritto. Allora la strega innalza un rogo con molta legna: il morto si dirige verso le fiamme. Erittone si allontana dal giovane dopo averlo deposto sulla catasta accesa, consentendogli finalmente di morire. Accompagna poi Sesto verso l'accampamento di Pompeo e, mentre la luce si sta diffondendo nel cielo, la notte - costretta a trattenere il giorno - offre fitte tenebre, fino a quando essi non siano giunti al sicuro fra le tende.

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PETRONIO

Autore del Satyricon, potrebbe essere identificato con un P. di cui Tacito parla (pur non menzionando mai la sua opera), già proconsole in Bitinia e console: a lungo alla corte di Nerone, è maestro di cerimonie e arbiter elegantiae; odiato dal prefetto del pretorio Tigellino, si ritira a vita privata. Il P. tacitiano e il P. autore sembrano simili di spirito: beffardi, dissoluti, senza ideologie, guardano con intelligenza al mondo così com'è e disprezzano chi non ha gusto. Durante la congiura dei Pisoni, Nerone gli intima il suicidio: P. organizza un banchetto, si taglia le vene e talora se le chiude, spedisce biglietti infamanti al principe e rompe il sigillo, perché non si costruiscano confessioni false con la sua firma.

Il Satyricon (= "libri di cose satiresche", "avventure di satiri"; si tratta di un genitivo plurale di forma greca, con sottinteso libri) è, formalmente, una satira menippea (un genere che fa parte della letteratura carnascialistica, quella cioé che esprime il desiderio di tornare indietro ad una fase sregolata della vita, nella quale si mescolano maschile e femminile, uomo e animale, potente e vittima), ma di fatto un romanzo, anzi una parodia del romanzo greco, della quale restano solo due libri incompleti (XIV e XVI) e uno per intero (XV). Nel romanzo greco, la cui origine forse va rintracciata nel mito di Iside e Osiride, si narra, generalmente, la vicenda di due amanti separati che tornano insieme dopo varie peripezie: ciononostante, quando si riuniscono, sono riusciti a mantenersi casti. Nel Satyricon, invece, si parla di una storia d'amore omosessuale, durante la quale i due amanti, Encolpio (alter ego dello scrittore, un intellettuale senza soldi, innamorato, ma impotente) e Gitone (il bellissimo fanciullo che Encolpio conosce in prigione), non riescono mai a mantenersi puri. La trasmissione di quest'opera fu piuttosto difficile per via del contenuto scabroso: nel IX secolo era disponibile un manoscritto che conteneva alcuni libri dell’opera (dal XIV): ne furono derivate antologie di diversa lunghezza. Nel 1650 fu trovato, in una biblioteca privata di Traù (Dalmazia), un manoscritto con il testo integrale della cena di Trimalchione, uno degli episodi del romanzo. Questo testo era già stata scoperto da Poggio Bracciolini in un codice di Colonia (1423), dal quale dipendeva quello di Traù.

Questa la ricostruzione delle vicende a noi note: - dei libri precedenti al XIV, si sa che Encolpio è incorso nell’ira di Priapo (come Ulisse in quella di Poseidone e Enea in quella di Giunone), che l'ha reso impotente; ha conosciuto Gitone, del quale s'è innamorato; si è unito alla coppia lo spregiudicato e grossolano Ascilto.

- prima macrosequenza: i tre sono in una città greca della Campania. Encolpio discute con Agamennone, un professore di retorica, sulle cause della corruzione dell’eloquenza: Encolpio dà la colpa ai maestri che fanno declamare i loro allievi su argomenti irreali, il maestro fa notare che i genitori vogliono programmi di studio abbreviati e facili. Ascilto, però, scappa per raggiungere in locanda Gitone: Encolpio lo segue ed entrambi si perdono, ritrovandosi in un lupanare. Quando arrivano alla locanda, litigano per Gitone e poi fanno pace. Sono raggiunti da

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Quartilla, sacerdotessa di Priapo, la quale s'è presa la febbre terzana, perché i tre hanno profanato una cerimonia: per espiare sono sottoposti a torture erotiche.

- seconda macrosequenza: i tre accettano un invito, procurato loro da Agamennone, a casa di Trimalchione, un liberto asiatico diventato ricchissimo, ma rimasto fondamentalmente un cafone. La cena è sfarzosa ai limiti dell'immaginabile: alcuni cibi raffigurano i segni zodiacali, dal ventre di un cinghiale arrostito esce uno stormo di tordi, una portata ha al centro un Priapo carico di frutti e focacce. Il padrone di casa fa una serie di gaffe epiche: si presenta in ritardo, perché impegnato in una partita; invece dei ritratti dei suoi avi, s'è fatto dipingere nella sua vita da banchiere; del vino dice che nemmeno il giorno prima, quando ha invitato ospiti più importanti, era così buono; si vanta di non aver mai letto un filosofo e filosofa alla Seneca sulla brevità della vita (facendosi portare uno scheletro d'argento); s'ubriaca e si commuove degli schiavi che ha fatto frustare poco prima per aver raccolto un piatto d'argento. Durante la cena, Nicerote e Trimalchione narrano due favole: un caso di licantropia e una storia di streghe. Trimalchione legge il proprio testamento, discute col marmista Abinna il progetto della sua tomba, mima la sua morte stendendosi in abiti funebri, accompagnato da cornisti. Il suono allarma i pompieri, che piombano in casa. Nel trambusto, i tre protagonisti fuggono e raggiungono la locanda.

- terza macrosequenza: Encolpio, disperato perché Gitone lo ha lasciato per seguire Ascilto, si reca in una pinacoteca e stringe amicizia col poetastro Eumolpo. I due parlano dell'arte contemporanea, ostacolata dalla brama di denaro. Vedendo Encolpio assorto davanti a un quadro raffigurante la caduta di Troia, Eumolpo improvvisa sul tema un poema epico (alla maniera di Virgilio) che i presenti non gradiscono e i due sono costretti a fuggire. Poco dopo, Encolpio ritrova Gitone che lo prega di riprenderlo con sé. Encolpio, Gitone e Eumolpo, per sfuggire ad Ascilto, prendono il mare.

- quarta macrosequenza: i tre scoprono troppo tardi che la nave su cui si sono imbarcati appartiene al mercante Lica (con la cui moglie Encolpio ha avuto una relazione) e ospita la cortigiana Trifena (da sempre innamorata di Gitone). Encolpio e Ascilto si travestono da schiavi fuggitivi, ma sono scoperti: la lite successiva sembra finire bene ed Eumolpo inizia a raccontare la novella della matrona di Efeso (una vedova che piange il marito vicino al monumento funebre viene consolata da una giovane guardia che sorveglia alcuni corpi crocifissi; quando uno dei cadaveri è trafugato dai parenti, la donna gli sostituisce proprio suo marito per salvare il soldato). Una tempesta si abbatte sulla nave: Lica muore, Trifena scompare su una scialuppa, i tre si mettono in salvo sulla spiaggia di Bruzio.

- quinta macrosequenza: i tre sono nelle vicinanze di Crotone, un tempo città fiorente, ora abitata da cacciatori di eredità. Eumolpo, che decide di fingersi un vecchio ricco senza figli, nello spostamento verso la città impartisce lezioni sulla poesia epica: essa dovrebbe essere fatta di mito e fantasia (come in Virgilio) e non di realtà storica (come in Lucano); recita un poema epico sulla guerra civile

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fra Cesare e Pompeo. In città, i tre vivono per qualche tempo alle spalle dei cacciatori di testamenti. Encolpio, che finge d'essere schiavo dell'amico e di chiamarsi Polieno, è irretito dalla bella matrona Circe. Egli, però, non riesce a possederla sua; ugualmente succede quando cerca di rifarsi con Gitone. Una vecchia megera prova a fargli recuperare la virilità, ma il ragazzo fallisce nuovamente con Circe. Picchiato dai servi della matrona, impreca contro quella parte del suo corpo che lo ha tradito (come Ulisse litiga col proprio cuore e Edipo maledice i propri occhi). Si sottopone, allora, ai riti della strega Enotea, ma, assalito da tre oche, ne uccide una che viene poi a sapere essere sacra a Priapo. I riti riprendono e le torture ricordano quelle di Quartilla. Infine, Encolpio recupera la sua virilità appellandosi a Mercurio. Eumolpo, intanto, si ammala e fa testamento, stabilendo che gli eredi, per godere delle sue ricchezze, dovranno cibarsi delle sue carni. Gli avidi abitanti di Crotone sembrano pronti a trasformarsi in cannibali.

L'opera, com'è evidente, parodizza la letteratura antica: in particolare, segue lo schema del viaggio, che ha come modello l'Odissea, a sua volta derivato da una tradizione forse orientale, il cui prodotto più tardo è la vicenda di Sinbad. Come nel poema epico, anche qui il novello Ulisse-Encolpio passa attraverso episodi intercambiabili e moltiplicabili, perché il viaggio è il pretesto per un affresco di una realtà immobile, quella della vita romana (anche se la vicenda si svolge in antiche città greche).11

I luoghi chiusi sono centrali nel romanzo, poiché a essi continuamente i personaggi tendono, considerandoli come rifugi capaci di metterli al riparo dalle disavventure. In realtà, essi si rivelano come trappole. Lo schema del labirinto diviene una chiave interpretativa del romanzo. Il continuo errare di Encolpio si configura come un errore, una ricerca frustrata di punti fermi, in un universo degradato dove le certezze sono illusorie e dove in sostanza tutto si ripete uguale, anche se lo scenario può cambiare.

La confusione strutturale è aumentata dal fatto che si tratta di un'opera a intarsio: ogni tanto un personaggio si ferma a raccontare una fabula milesia (tratta da Aristide di Mileto)12, una novella generalmente basata sui temi del sesso e dell'inganno.Da quest'analisi impietosa non si salva niente e nessuno: si irridono certe mode culturali (la questione atticismo-asianesimo; la scelta tra poema epico mitologico e storico), le nuove religioni (nell'episodio finale, c'è un'allusione al cristianesimo),

11 Diversamente, nel romanzo moderno il viaggio si carica di un tema derivante dall'intuizione romantica della storia come processo continuo e progressivo, nel quale l'uomo cresce anche interiormente, acquistando autocoscienza (Bildungsroman): non a caso nei romanzi di formazione talora con il protagonista cambia anche il mondo. Nella letteratura antica, invece, l'idea che un personaggio viaggiando si trasformi resta marginale (il poeta greco Solone, ad es., sostiene: "invecchio imparando", con ciò mostra di ritenere che il processo di crescita è un accumulo di esperienze, non un'evoluzione della coscienza) e, quando è presente, si tratta di un processo non graduale. Motivo di ciò è che la letteratura antica ignora la dimensione infantile.12 La novella greca si sviluppa tra la fine del II a.C. e l'inizio del I a.C., grazie a Aristide di Mileto, autore di "Storie milesie". Spunti derivati dalla tradizione della novellistica orale, di cui resta traccia nell'uso di un narratore omodiegetico, cioé interno alla narrazione. Sono novelle licenziose, spesso con un linguaggio crudamente realistico e a tratti volgare. Il tramite per il mondo latino fu Cornelio Sisenna, annalista romano, che nell'età di Silla (I a.C.) tradusse in latino l'opera di Aristide.

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la dissolutezza morale, la cafoneria. P. lascia trasparire, nel gioco con il narratore ingenuo Encolpio, talora la propria amarezza, ma l'atteggiamento tipico è quello del distacco dalla materia raccontata, non per ragioni ideali, ma di gusto: il tono generale è avalutativo, l'autore al massimo prende atto di una realtà di fatto immodificabile. L'umanità descritta, ad es., nella novella della matrona di Efeso obbedisce a istinti elementari, l'unica verità umana. Di fronte a questa filosofia, le sovrastrutture ideologiche perdono senso. L'uomo è animalizzato e l'intelligenza è solo uno strumento della sua bestialità. I tabù sono messi da parte, ad es. la sacralità della morte (sulla quale vince sempre la vita). Anche da questo punto di vista P. segna il tramonto della visione classica che, pur nutrita dell'attenzione all'uomo reale, ha sempre coltivato l'idea di una umanità diversa dagli animali. P., invece, accetta l'animalità dell'uomo. Il suo progresso non cancella questa realtà, ma la arricchisce di nuovi strumenti.

Non si può parlare però di realismo petroniano: egli, infatti, rappresenta sì realisticamente i caratteri degli uomini, ma concentrando vari elementi e moltiplicandoli (iperrealismo), con un esito esasperato che arriva ai limiti del grottesco). In questo contesto, non sorprende che anche la lingua classica vada in crisi, finendo per deformarsi e mescolarsi a espressioni dialettali o a forestierismi.

Satyricon 31, 3-33: Così finalmente ci mettemmo a tavola, con valletti di Alessandria che versavano acqua ghiaccia sulle mani, e altri che li rimpiazzavano ai piedi e con estrema precisione toglievano le pipite. E neppure questo servizio così ingrato li faceva star zitti, ma in quel mentre cantavano. Io volli provare se tutta la servitù cantava e chiesi allora da bere. Lì pronto mi secondò un valletto con un gor¬gheggio non meno stridulo, e così ogni altro a pregarlo di qualcosa. Sembrava un coro di pantomima, non il tri¬clinio di un padre di famiglia. Fu servito comunque un antipasto di gran classe, che tutti ormai erano a tavola, all'infuori di lui, Trimalcione, al quale in nuova usanza era riservato il primo posto. Quanto al vassoio, vi campeggiava un asinello in corinzio 48 con bisaccia, che aveva olive bianche in una tasca, nere nell'altra. Ricoprivano l'asinello due piatti, su cui in margine stava scritto il nome di Trimalcione e il peso dell'argento. E vi avevano saldato ancora dei ponticelli, che sostenevano ghiri cosparsi di miele e papavero. E c'erano dei salsicciotti a sfrigolare su una graticola d'argento, e sotto la graticola susine di Siria con chicchi di melagrana. Eravamo nel pieno di quelle delizie, quand'ecco che Trimalcione in persona fa il suo ingresso trasportato a suon di musica, sdraiato su soffici cuscini, e noi scoppiamo a ridere perché la cosa ci coglie alla sprovvista. Gli spuntava la crapa pelata da sotto un mantello rosso fuoco e intorno al collo già imbacuccato per bene si era avvolto un foulard orlato di porpora con frange svolazzanti da una parte e dall'altra. Al mignolo della mano sinistra portava un enorme anello dorato, mentre nell'ultima falange dell'anulare ne aveva uno più piccolo che secondo me era tutto d'oro ma con saldate sopra delle scaglie di ferro fatte a forma di stella. E per non limitarsi a sfoggiare soltanto quei preziosi, si scopre il bicipite destro su cui facevano un gran figurone un bracciale d'oro e un cerchietto d'avorio chiuso da una lamina piena di luce.Dopo essersi dato una ripassata tra i denti con uno stuzzicadenti d'argento, dice: «Amici, ad essere sincero non mi andava ancora di venire a tavola, ma per non farvi cominciare il pranzo in ritardo per la mia assenza, ho preferito sacrificare i comodi miei. Ciò nonostante permettetemi di finire la partita». Infatti gli veniva dietro un ragazzino con in mano una scacchiera di radica e dei dadi di cristallo, e io notai un particolare che era il colmo della raffinatezza: al posto delle pedine bianche e nere aveva infatti delle monete d'oro e d'argento. E mentre lui continuava a giocare bestemmiando come un perfetto portuale, e noi eravamo ancora all'antipasto, viene portato un vassoio con sopra un cestino contenente una gallina di legno che aveva le ali aperte a cerchio, come di solito fanno quando covano le uova. Subito si avvicinano due servi che, sul sottofondo assordante della musica, cominciano a frugare in mezzo alla paglia e tirano fuori una serie di uova

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di pavone che distribuiscono tra i commensali. Di fronte al colpo di scena, Trimalcione si volta e ci comunica: «Amici, ho fatto mettere sotto la gallina delle uova di pavone ma, per dio, mi sa che ci sia già dentro il pulcino. In ogni modo vediamo un po' se si possono ancora inghiottire». Noi allora prendiamo dei cucchiaini che non pesavano meno di mezza libbra e rompiamo quelle uova ricoperte con un impasto di farina. Io stavo quasi per buttar via il mio perché mi sembrava che dentro ci fosse già il pulcino. Ma poi, quando sento un habitué di quelle serate dire "mi sa che qui dentro c'è qualcosa di buono", frugo un po' con la mano dentro al guscio e ci trovo un beccaccino da favola immerso in salsa piccante di tuorlo.

Satyricon 111-112: C'era una volta ad Efeso una matrona di così rinomata pudicizia che accorrevano ad ammirarla anche le donne dei paesi vicini. Ora questa donna, dopo aver perduto il marito, non soddisfatta di accompagnarne il feretro, come si usa comunemente, con i capelli sciolti e di battersi il petto nudo sotto gli occhi della folla, volle seguire il defunto anche nella tomba e, dopo che il suo corpo fu deposto in una camera sotterranea secondo l'usanza greca, incominciò a custodirlo e a piangerlo giorno e notte senza mai smettere. Così si affliggeva e si ostinava a lasciarsi morire d'inedia e né i genitori né i parenti riuscirono ad allontanarla da lì. Da ultimo perfino i magistrati, respinti, se ne andarono e quella donna, esempio di singolare virtù, compianta da tutti, non toccava cibo ormai da cinque giorni.Assisteva quella poverina una fedelissima ancella che piangeva insieme a lei e che tutte le volte che la lampada posta dentro la tomba si affievoliva, la ravvivava. In tutta la città pertanto non si parlava d'altro e gli uomini di ogni ceto sociale riconoscevano che non c'era mai stato esempio più fulgido di vera pudicizia e di vero amore. Quand'ecco che nel frattempo il governatore della provincia fece crocifiggere dei ladroni proprio vicino a quell'edicola in cui la matrona piangeva il cadavere ancora fresco del marito. La notte seguente, dunque, un soldato che faceva la guardia alle croci per evitare che qualcuno sottraesse i corpi e desse loro sepoltura, avendo notato una luce che risplendeva sempre più vivida tra i monumenti funebri e avendo udito il gemito di qualcuno che piangeva, per umana curiosità fu preso dal desiderio di sapere chi fosse o che cosa facesse. Scese quindi nel sepolcro e, vista una donna bellissima, in un primo momento si fermò sbigottito come davanti ad un fantasma o ad un'apparizione infernale, ma poi, quando vide il corpo del morto e considerò quelle lacrime e quel volto graffiato dalle unghie, resosi conto della situazione reale, del fatto cioè che la donna non poteva sopportare la perdita del marito, portò nel sepolcro la sua cenetta e incominciò ad esortare la donna in lacrime a non perseverare in un dolore del tutto inutile e a non rompersi il petto con singhiozzi che non avrebbero portato alcun giovamento. Diceva che tutti gli esseri umani devono fare la stessa fine e che li attende la stessa dimora e aggiungeva tutte le altre parole con le quali si consolano gli animi affranti. Ma ella, ferita da quel tentativo di consolazione per lei senza senso, si lacerò con furia maggiore il petto e, strappatisi i capelli, li depose sul cadavere del marito lì disteso. Non si arrese tuttavia il soldato, ma, continuando ad esortarla nello stesso modo, tentò di dare del cibo alla povera donna, finchè l'ancella, vinta dal profumo del vino che le pareva un nettare, dapprima proprio lei, senza opporre più resistenza, porse la sua mano verso il gentile invito, poi, rifocillata dalla bevanda e dal cibo, incominciò a prendere d'assalto l'ostinazione della padrona dicendo: "A che ti gioverà tutto questo se ti lascerai morire di fame, se ti seppellirai viva, se esalerai la tua anima innocente prima che il destino lo voglia? Credi che le ceneri o i mani sepolti sentano tutto ciò? Vuoi tu ritornare a vivere? Vuoi sì o no toglierti dalla testa queste stupidaggini da donnetta e godere della gioia della luce del sole quanto più a lungo possibile? Il corpo stesso di questo morto qui disteso ti deve ammonire a vivere". Nessuno è sordo quando viene invitato a mangiare o a vivere e così la donna, indebolita dall'astinenza di alcuni giorni, lasciò che venisse spezzata la sua ostinazione e si rimpinzò di cibo non meno avidamente dell'ancella che si era arresa per prima.Del resto voi sapete quale altra tentazione suole farsi avanti quando la pancia è piena. Ed ecco che il soldato con quelle stesse lusinghe con cui aveva ottenuto che la matrona trovasse la voglia di vivere, diede l'assalto anche alla sua virtù. E a quella casta donna il giovane non sembrava certo brutto o rozzo nel parlare, anche perché l'ancella cercava di metterlo in buona luce e diceva ripetutamente: "Combatterai anche contro un amore che già ti ha preso il cuore?"A farla breve, la donna non tenne a digiuno neppure quest'altra parte del corpo e il soldato, vincitore, riuscì a piegarla per un verso e per l'altro. Giacquero dunque insieme non solo quella notte, in cui consumarono le nozze, ma anche il giorno seguente e quello dopo ancora,

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naturalmente dopo aver ben chiuso le porte del sepolcro, di modo che, chiunque si fosse avvicinato al monumento funebre, conosciuto o sconosciuto che fosse, pensasse che la castissima moglie fosse morta sopra il corpo del marito.Intanto il soldato, attratto dalla bellezza della donna e dalla segretezza di quell'amore, comprava tutto ciò che di buono poteva con i suoi scarsi mezzi e subito, al calar della notte, lo portava nella tomba. Perciò i parenti di uno dei crocifissi, come videro che la sorveglianza era diventata meno stretta, una notte tirarono giù il loro congiunto appeso e gli resero gli estremi onori. Ma il soldato, raggirato mentre si dava al bel tempo, non appena il giorno seguente vide una delle croci senza cadavere, temendo di essere giustiziato, spiegò alla donna che cosa fosse successo: e aggiunse che non avrebbe aspettato la sentenza del giudice, ma avrebbe fatto giustizia della sua incuria con la spada. Solo, concedesse lei stessa un posto a lui che stava per morire e rendesse comune al marito e all'amante quel sepolcro fatale. La donna, non meno pietosa che casta, rispose: "Gli dèi non permettano che io veda in così breve tempo i due funerali dei due uomini a me più cari! Preferisco appendere alla croce il morto che far morire il vivo". Conformemente a questo discorso, ordinò di togliere dalla bara il cadavere di suo marito e di attaccarlo alla croce che era rimasta libera. Il soldato mise in atto la trovata di quella donna così assennata, e il giorno dopo la gente si chiese con meraviglia come avesse fatto il morto a salire in croce.

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STAZIO (Napoli, 40/50 - 96)

Poeta di mestiere, a tempo pieno, compone anche carmi occasionali per i suoi patroni, nei quali parla di sè. Forte dell'insegnamento del padre retore e poeta (maestro a Napoli e Roma, abituava alla lettura dei greci), vince gli Augustali (80) di Napoli e l'Albano a Roma con un carme su Domiziano ed è incoronato poeta di corte. Deluso dalla sconfitta al Capitolino e per il mutato favore di Domiziano, cui ha dedicato il lavoro di dodici anni, la Tebaide, si ritira a Napoli, lavora all'Achilleide e muore. Queste due fatiche maggiori ne decretano la fortuna nel Medioevo (è un personaggio del Purgatorio dantesco). La Thebais (12 ll.) è modellata sull'Eneide: riprende un tema caro alla tragedia greca e alla civiltà latina (l'Edipo e le Fenicie di Seneca): la saga tebana13. Il mito della lotta tra Polinice e Eteocle si carica di allusioni alle guerre civili e in questa direzione è recuperato il motivo del fato distruttore presente in Lucano (gli dei sono sbiaditi, quasi sostituiti dalle allegorie), qua però allusione rassicurante che relega il ricordo delle lotte fratricide in una dimensione mitica. A questa prospettiva rasserenatrice, contribuisce il bagno di classicismo in cui l'autore immerge il poema e che bilancia le tendenze al macabro e ai turgori retorici. L'Achilleis è interrotta al v. 167 del II libro per la morte dell'autore; sono raccontati il soggiorno dell'eroe a Sciro e lo stratagemma di Ulisse e Diomede, che lo scopriranno tra le figlie del re Licomede. Il tono evita le punte enfatiche della Tebaide. L'epica flavia segna il tramonto del genere: lontano il ricordo dei conflitti socio-politici, il silenzio dell'epos si interromperà con Claudiano, quando Roma sentirà il pericolo della fine.

S. raccoglie 32 componimenti poetici nei 5 ll delle Silvae (dal greco "hyle", che significa bosco e anche materiale raccogliticcio); ogni libro ha una lettera di dedica ad amici la quale fornisce notizie su modi e occasioni della pubblicazione. Nella prima lettera a Arrunzio Stella, Stazio scrive che i carmi sono stati composti per ispirazioni improvvise e col gusto di fare in fretta, denunciando la natura occasionale di questo genere, disapprovato da chi non sopporta la superficialità (Quintiliano), ma difeso nella lettera del IV libro a Vittorio Marcello (cui Quintiliano dedica la Institutio oratoria). Attinge al suo repertorio di conoscenze mitologiche, cui stanno accanto toni, non insinceri, di affetto e mestizia (soprattutto negli epicedi composti per la morte del padre e di un figlio) e d'amicizia.

Per non morire di fame, nonostante il successo della Tebaide, S. scrive libretti per le pantomime, rappresentazioni in cui un attore canta il testo e un mimo mascherato lo danza. Introdotta a Roma in età augustea (22 a.C.), la fabula psaltica diviene spettacolo di massa, soprattutto presso le donne (che si abbandonano alle suggestioni erotiche della danza), come il mimo, l'atellana e i 13 Il vecchio Edipo, re di Tebe, maledice i figli Eteocle e Polinice. Il primo, che è stato scelto come re per primo, rifiuta di alternarsi al governo con il fratello, che sostenuto dal suocero Adrasto e da altri cinque eroi argivi muove contro Tebe. Un presagio dichiara che solo uno dei sette tornerà vivo dalla guerra. Infatti, l'indovino Anfiarao è inghiottito dalla terra, Tideo è ferito a morte e nell'agonia rode il cranio di un nemico (come il conte Ugolino nell'Inferno di Dante). Invano ammoniti dalla madre Giocasta, i fratelli si affrontano in un duello mortale per entrambi. Creonte, nuovo re della città, vieta la sepoltura di Polinice, ma Teseo, chiamato in aiuto, lo uccide in battaglia e permette la sepoltura degli Argivi.

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giochi circensi. Poco può contro loro il teatro tragico, destinato a un uditorio colto. Anche Seneca ammira la gestualità dell'attore. Delle pantomime nulla è rimasto, a parte il titolo Agave, opera di Stazio.

Thebais, finale del libro VIII: Ed ecco fende il vento un'immensa lancia, che porta gran destino e gran vendetta: chi la lancia non è noto e non si scopre. Menalippo, figlio d'Astaco, fu colui che fece il colpo e non se ne vanta. Quanto può, cerca di nascondere la mano, ma il clamore delle truppe lo fa palese; poichè al colpo mortale Tideo ferito si piegò, allentò lo scudo e tutto il fianco gli restò scoperto. Gridano allora le aonie schiere e piangono i Pelasghi; con i loro petti a lui, che freme, fanno schermo.Attraverso le dircee falangi cerca coll'occhio il suo nemico, raccoglie tutte le sue forze e gli scaglia contro un'asta, che a lui porse Opleo vicino, e per lo sforzo estremo uscì l'ultimo sangue dalle vene. Allor gli Etoli mesti riportarono indietro il loro signore, che ancor desidera combatter e chiede le lance (ahi qual furor?) e nega di morire, seppure in punto di morte; adagiarono le languide membra e il corpo fragile su uno scudo e lo posarono al confine del campo. Fra singulti gli fecero sperar di rimandarlo in guerra. E lui, che infine si vede morire e sente nel gelo mortale le membra sciogliersi e già fuggire l'anima superba, s'alza come può sul debole braccio e dice:"Abbiate pietà delle mie amare condizioni, Greci; non riportate questa inutile salma in Argo o a Pleurone, ché non mi preoccupo delle esequie e sempre odiai queste caduche membra e il debole uso del corpo fragile; ma se qualcuno mi porterà il tuo cranio, solo il tuo cranio, o Menalippo! E certo so che tu mordi il suolo. Va', Ippomedonte, se in te ferve il sangue d'Atreo; va', tu che onori l'Arcadia e sei già famoso nelle prime guerre; e tu fra tutti i Greci il più sublime, muoviti, o Capaneo." Corsero a gara; ma Capaneo giunge per primo e trova Menalippo spirante: se lo getta sulla sinistra spalla, anche se il sangue, che esce a torrenti dall'aperta ferita, gli sporca la schiena e la spada... Tideo s'alza di nuovo e corre incontro al suo nemico con lo sguardo; quando lo vede boccheggiare nei suoi ultimi singulti, con gli occhi languidi ed erranti, riconosce la sua morte in lui: ebbro d'allegria e di sdegno vuole che la sua testa sia tagliata e a lui offerta. Lo prende, lo guarda torvo e si compiace a rimirarlo, mentre gira gli occhi torbidi e tremanti. Tanto bastava al misero: ma l'empia Furia vendicatrice chiede un delitto più orribile. E già scendeva dal cielo (placato il padre) Atena non più mesta e all'infelice portava il dono dell'immortalità. Ma, quando lo vide mordere cervella e sangue ancor fumante né riuscivano a staccarlo dal fiero pasto inorriditi i Greci, si drizzarono le serpi sulla Gorgone e velarono la faccia della dea: essa girò la testa inorridita e, prima di tornare in cielo, purgò la vista con il sacro fuoco e si purgò nell'onda dell'Eliso.

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QUINTILIANO (Calagurris, Spagna, 35 - Roma, 96 d.C.)

Figlio di un maestro trasferitosi a Roma, vi studia, torna in Spagna e poi a Roma con Galba (68). E' avvocato e retore; le sue orazioni, non pervenute, lo rendono famoso. Vespasiano gli concede la prima cattedra statale di retorica con stipendio (ha tra i suoi allievi Plinio il Giovane e forse Tacito); Domiziano, che gli conferisce il consolato, gli affida l'educazione dei due nipoti, per cui scrive il trattato non pervenuto De arte rhetorica (2 ll.). Come retore, si occupa della crisi dell'eloquenza nel De causis corruptae eloquentiae (andato perso): come Seneca il Vecchio e Seneca, sostiene che una delle cause sia la degradazione morale, ma non esclude cause tecniche (l'abbandono dei modelli del passato e il diffondersi delle declamazioni), alle quali si rimedia con un programma di istruzione che accompagni il futuro oratore da bimbo.

Questo progetto prende forma, dopo l'88, quando si ritira dall'insegnamento, nei dodici libri dell'Institutio oratoria, dedicata al funzionario, amico di Stazio e Valerio Probo, Vittorio Marcello. Q. tenta in quest'opera di riportare la retorica alla funzione di asse portante della formazione culturale e della trasmissione dei valori che hanno fatto grande Roma. A differenza degli altri trattatisti, egli tiene in considerazione il discepolo fin dai primi anni di vita14, delineando una pedagogia della parola (al parlare e al pensare ordinato deve condurre ogni attività) perfettiva (chi sta intorno al bambino deve puntare su di lui come se fosse destinato a diventare perfetto).Durante la formazione, della quale fa parte anche il gioco, l'alunno dovrà affrontare la letteratura (il X libro è una rassegna dei classici da leggere), non la filosofia, che invece è pericolosa, dato che forma rivoluzionari. Il retore perfetto è, invece, con una formula di Catone il Vecchio, homo bonus dicendi peritus, cioé un uomo d'ordine, onesto e conformista, dotato di capacità formali. Queste ultime presuppongono come modello Cicerone, il cui stile appare come la giusta via di mezzo tra l'abbondanza dell'asianesimo e l'asciuttezza dell'atticismo. Seneca, invece, è l'antimodello (tuttavia, Q. ne resta, anch'egli, influenzato). Importante, per Q., è, infatti, l'imitazione dei classici, modelli insuperabili di stile.

Per una forma culturale, quale la retorica, che trova spazio solo dove è possibile una pluralità di opinioni, l'avvento dell'impero ha significato la decadenza. Anche Q. intuisce che l'intellettuale della sua età non è più l'oratore ciceroniano che influenza la politica, né il filosofo senecano che collabora col potere: i margini di intervento concessi al miglior retore sono ormai limitati. L'utile comune è ancora lo scopo di ogni sua azione pubblica, il senato e il popolo l'uditorio da persuadere; ma il retore, di fronte al potere, tutt'uno con l'interesse dello stato, deve adattarsi al proprio tempo e non esitare nemmeno di fronte alla menzogna. Egli è ormai diventato un funzionario che deve solo trasmettere le decisioni del principe e persuadere della loro validità.

14 L'uomo antico non considera quasi il bambino, che è infans, cioé incapace di parlare. Q. in questo senso è moderno.

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Institutio oratoria I, 1, 1-7: Dunque, nato il figlio il padre concepisca la migliore speranza riguardo a lui: così che dall’inizio diventi migliore. È falsa infatti la lamentela che sia concessa a pochissimi uomini la forza di apprendere le cose che vengono insegnate, mentre la maggioranza perderebbe tempo e fatica per tarda intelligenza. Infatti, al contrario potresti trovare moltissimi sia abili nell’inventare sia pronti nell’apprendere. Certamente ciò è naturale per l’uomo e come gli uccelli nascono per il volo, i cavalli per la corsa, le fiere per la crudeltà, così a noi sono propri l’attività e il movimento della mente, per cui si crede che l’origine dell’anima sia divina. Non si trova nessuno che non abbia raggiunto con l’applicazione nessun risultato. Chi è convinto di ciò, non appena diventerà genitore, presti la massima cura al figlio. Prima di tutto le nutrici parlino correttamente e la moralità certamente in queste cose senza dubbio è prioritaria, tuttavia parlino anche con correttezza grammaticale. Quelle cose che il bambino inizialmente ascolterà, cercherà di ripetere le parole di queste imitando. In realtà nei genitori potrei sperare che ci fosse quanto più possibile di cultura. E non parlo solo di padri: infatti sappiamo che la madre Cornelia contribuì molto all’eloquenza dei Gracchi. Tuttavia i genitori non istruiti non abbiano minore cura di istruire i figli, ma siano più diligenti verso le altre cose.

La differenza di capacità intellettuali passa per l'educatore in secondo piano di fronte alla possibilità per ciascuno di trarre profitto dall'educazione. In questo passo si manifesta l'ottimismo pedagogico di Q.: l'insegnante deve avere fiducia nella capacità di apprendere degli allievi, ciò che significa che gli indociles sono una rarità. Q. usa spesso immagini analogiche, che devono assumere il valore di prove: per dimostrare che bisogna educare il retore fin dalla più tenera età, egli, ad es., usa l'immagine delle stoviglie che mantengono il sapore del prodotto che hanno contenuto per primo e della lana che, una volta tinta, non riacquista più il colore originario.

Institutio oratoria X 2, 1-8: Da questi e da altri autori degni di essere letti occorre attingere per crearsi un buon corredo lessicale, un bagaglio vario di figure e la tecnica della composizione… Ma l’imitazione da se stessa non basta, anche perché contentarsi di quello che hanno inventato gli altri è sintomo di pigrizia mentale… Ad un esame generale e completo si può vedere che nessuna arte è rimasta nelle stesse condizioni in cui era quando fu inventata, né si è fermata entro gli stessi limiti: a meno che per caso non facciamo colpa soprattutto ai nostri tempi di questa infelicità, che, cioè, oggi nulla cresca; e nulla cresce con la sola imitazione.

Dopo aver passato in rassegna i grandi della letteratura classica, indicando pregi e difetti di ciascuno al fine dell'apprendimento retorico, Q. inserisce queste osservazioni sull'imitazione. La morale antica è appresa in Roma non attraverso trattati teorici, ma grazie al continuo depositarsi di exempla, che invitano all'imitazione in una catena di figure esemplari.

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TACITO (Gallia Narbonese?, 55/60 - Roma?, 117)

Gli storici di questo periodo o sono senatori ostili all'impero (storici del dissenso) o appartengono a ceti nuovi ed emergenti e sostengono il principato (storici del consenso). I primi, in genere, non manifestano le proprie idee attraverso forme dirette di contestazione: privilegiano piuttosto argomenti ideologici, come l'esaltazione di Catone, e costruiscono caricature degli imperatori. I secondi, invece, sono fautori di una propaganda a favore del principe. Essi seguono, a differenza degli storici d'opposizione, schemi meno rigidi di quello annalistico. Il più importante tra loro è Velleio Patercolo, ufficiale campano di Tiberio in Germania e Pannonia e poi pretore: scrive un breve manuale in due libri (Historiae) per Marco Vinicio, console nel 30 d.C. (doveva essere il preludio di un'opera più ampia, mai completata). Qui racconta la storia romana dalla guerra di Troia al consolato dell'amico. Velleio intende rispondere agli storici del dissenso e a quelli dei paesi conquistati da Roma: ai primi, secondo cui l'impero è una rottura della naturale storia evolutiva di Roma, fa notare che esso è invece la prosecuzione di un processo iniziato già in età repubblicana con alcune figure di leader (come Scipione, Mario, Silla), che tendono ad accentrare il potere per mantenere la pace; ai secondi, che contestano il diritto di Roma a guidare il mondo, risponde che la storia del principato dimostra che esso si muove nella direzione dell'estensione della cittadinanza e della realizzazione dell'uguaglianza (prima in Italia e poi nelle province, di cui si fa guida per realizzare anche i loro interessi).

Gli storici del dissenso sono noti grazie all'opera di Tacito, che, come senatore, ne condivide spesso l'impostazione ideale. Per la sua data di nascita, ci si rifà a una indicazione di Plinio il Giovane, suo amico, che assicura d'essere poco più giovane di lui. Un imperatore ternano, Tacito, vissuto due secoli dopo, si vantava d'essere suo discendente. Forse nasce in Gallia, dove il proconsole Tacito è suo parente e alcune iscrizioni attestano la presenza del suo nomen: appartiene al ceto dirigente locale. Studia retorica a Roma e sposa nel 77 la figlia del generale Giulio Agricola, che, tornato dalla Britannia che ha conquistato, è fatto avvelenare da Domiziano. Percorre la carriera fino alla pretura, ma si tiene in disparte con Domiziano (forse è al comando di una legione e poi riveste un incarico di governo in una provincia), per diventare console suffectus (cioé per la seconda parte dell'anno) nel 97 con Nerva e Traiano e infine dedicarsi alla storia. Nel 100 sostiene con Plinio il Giovane l'accusa di malversazione contro il proconsole d'Asia Mario Prisco, che sostituisce (112-113).

Germania (De origine et situ Germanorum, 98): il trattato, scritto quando Traiano si trova sul fronte germanico, è una monografia geo-etnografica sui popoli della zona ai confini con l'impero, allora più estesa. La prima parte tratta dei costumi dei Germani in generale e la seconda presenta le singole tribù. Forse era una digressione destinata a essere inglobata nelle Historiae. Poche le notizie storiche, poiché questi popoli non hanno storia (non hanno testimonianze, la loro è una società bellicosa, ma statica, che tende cioé a comportarsi sempre secondo le stesse coordinate mentali). Del resto, la storia di un popolo è scritta anche nella

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geografia e nella cultura (non è questa un'idea nuova in T., che già nell'Agricola ha descritto gli Anglosassoni in un excursus). Le sue fonti sono Cesare, Sallustio, Livio, Plinio il Vecchio, relazioni di funzionari militari e civili. Il fatto che Tacito conosca certi popoli, ha incoraggiato chi sostiene che sia originario della Gallia.Alcuni vedono in quest'opera un'intenzione morale, in quanto T. sottolinea in questi popoli una purezza morale che manca a Roma (dove l'adulterio e la corruzione sono di moda), un coraggio fisico che i Romani hanno perso. Questa tesi non può essere accettata interamente: T. sottolinea anche aspetti negativi della società germanica, come la mancanza di senso dello stato che si traduce in individualismo e senso di clan (manca una vita associata e organizzata) e il disprezzo del lavoro. Lo storico sa che in una società ci dev'essere anche chi produce, perché senza un processo di accumulazione non c'è evoluzione culturale: certo ciò presenta anche alcuni risvolti negativi, ma sono i rischi che una società paga per fare storia. Non ci sono finalità scientifiche fine a se stesse: T. scrive probabilmente un reportage giornalistico di attualità, richiesto dall'imperatore, anticipando le proporzioni di un grave pericolo, per cui sostiene che occorre ringraziare gli dei, se questi popoli sono così occupati a combattere tra loro da non pensare di farlo con Roma.

Il passo che segue della Germania, incentrato sul mito della purezza razziale dei Germani, fu utilizzato dai nazisti in chiave politica, per ribadire l'autoctonia della stirpe ariana. A T. (che ricavava la notizia probabilmente dai Bella Germaniae di Plinio il Vecchio) e alla mentalità umana, d'altra parte, è completamente estraneo il mito della razza: le stesse origini troiane di Roma non vanno nella direzione dell'autoctonia; inoltre T. scrive quando l'imperatore è spagnolo e in breve salirà al trono l'africano Settimio Severo. Germania 4, 11-12: Io stesso sono d'accordo con le opinioni di coloro che ritengono che i popoli della Germania, non contaminati da nessuna unione con altre genti, mostrino la loro razza pura e simile solo a se stessa. Per cui anche l'aspetto dei corpi, sebbene (?) in un numero tanto grande di uomini, è lo stesso per tutti: truci occhi azzurri, capelli fulvi, corporature massicce e adatte soltanto all'attacco...... Sulle questioni di minore importanza decidono i capi, su quelle più importanti, tutti; comunque, anche quelle di cui è arbitro il popolo subiscono un preventivo esame da parte dei capi. Si radunano, tranne casi di improvvisa emergenza, in giorni particolari, nel novilunio o nel plenilunio, perché credono che siano i periodi più favorevoli per prendere iniziative. Non contano il tempo, come noi, per giorni, ma per notti; con tale criterio fissano date, così si accordano: per loro è la notte che guida il giorno. Dal loro spirito di libertà deriva questo inconveniente, che non si presentano alle riunioni contemporaneamente, come dietro comando, ma perdono due o tre giorni per l'attesa dei partecipanti. Quando la massa dei convenuti lo ritiene opportuno, siedono in assemblea, armati. Il silenzio viene imposto dai sacerdoti che, in quelle occasioni, hanno anche il potere di reprimere. Quindi prendono la parola i re o i capi, secondo l'età, la nobiltà, la gloria militare e l'abilità oratoria e li stanno ad ascoltare più per l'autorevolezza che hanno nel persuadere che per l'autorità. Se le idee espresse non piacciono, manifestano disapprovazione con mormorii; se invece piacciono, battono insieme le framee: il plauso espresso con le armi è il più onorevole. Nell'assemblea è consentito presentare anche accuse e intentare un processo capitale. Le pene variano secondo le colpe: i traditori e i disertori sono impiccati agli alberi; i vili e i codardi e quelli che macchiano il proprio corpo con pratiche infamanti vengono sommersi nel fango di una palude, poi coperta con un graticcio. La diversità del supplizio ha un suo significato: la punizione dei primi crimini deve essere veduta da tutti, quella degli atti vergognosi, nascosta. Anche per le mancanze meno gravi esistono punizioni proporzionate: i

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colpevoli pagano un'ammenda in cavalli o capi di bestiame, parte della quale va al re o alla collettività e l'altra a chi ottiene giustizia o ai suoi familiari. Sempre in queste assemblee vengono scelti anche i capi, che amministrano la giustizia nei distretti e nei villaggi; ciascuno di essi è assistito da cento uomini del popolo, che lo consigliano e gli conferiscono autorità.

Agricola (De vita et moribus Iulii Agricolae, 98-9): il trattato, scritto dopo la morte di Domiziano, descrive la gioventù di Agricola, le sue imprese in Britannia (78-84) e i suoi ultimi anni a Roma. Non si tratta di un'opera solo biografica: l'autore deve compiere qualche forzatura per far corrispondere il personaggio al modello di cittadino impegnato che ha voluto disegnare (motivo, questo, della laudatio funebris). Se il principato è nato perché costruisca la pace, essa non è stata raggiunta. Di fronte a questo problema il cittadino ha davanti almeno tre scelte possibili: o partecipare ad una congiura, o chiudersi nel proprio isolamento o, come Agricola, che ha senso dello stato, comportarsi lealmente nei confronti della struttura, ma senza essere complici dell'imperatore. A T. (che, quando descrive la congiura dei Pisoni, parla con disprezzo dei congiurati, che sono uomini mediocri e frustrati; due sole figure sono ammirabili: un centurione e la prostituta Epicaris che torturata non parla), piace solo quest'ultima possibilità. Il saggio Agricola non si lascia corrompere dal morbo morale che guasta chi comanda e chi è comandato: la libido adsentandi, la voluttà cioé di adeguarsi al potere con compiacimento. Si tratta di una forma di pigrizia che viene quando si attribuisce ogni decisione a un altro.

I primi tre capitoli dell'opera inquadrano la vicenda nei tempi difficili vissuti dal protagonista. Mentre durante la repubblica fiorivano uomini virtuosi e non mancavano biografi, Domiziano ha soffocato la virtù nel terrore e ha cercato di cancellare la memoria storica. Ora con l'avvento di Nerva e Traiano nunc demum redit animus:

Agricola 1-3: L’antica usanza di tramandare ai posteri le gesta ed i costumi degli uomini famosi è cosa che neppure ai nostri tempi la nostra generazione, per quanto indifferente essa sia alle sue grandi personalità, ha tralasciato di fare, ogniqualvolta una virtù grande e nobile ha vinto e superato il vizio comune a città grandi e piccole: il disconoscimento del giusto e l’invidia. Ma come, presso gli antichi, era facile e più alla portata di tutti, di quanto oggi non sia, compiere atti degni diessere ricordati, così tutti gli ingegni più celebrati si sentivano indotti a lasciare memoria della loro virtù senza ombra di interesse personale o di ambizione, attratti solo dalla ricompensa di una coscienza limpida. E narrare personalmente la propria vita i più lo considerarono un gesto di fiducia nella loro moralità piuttosto che un atto di arroganza, né questa scelta fu per Rutilio Scauro motivo di scarsa attendibilità o di contestazione: a tal punto le virtù sono meglio apprezzate in quelle stesse epoche in cui più facilmente nascono. Ora invece, nell’accingermi a scrivere la biografia di un uomo ormai scomparso, ho dovuto chiedere quell’indulgenza che non avrei chiesto, se la mia intenzione fosse stata quella di accusarlo: così crudeli e ostili alle virtù sono i tempi! Sappiamo che, per aver lodato Aruleno Rustico Thrasea Peto ed Erennio Senecione Elvidio Prisco, ciò fu loro imputato a colpa capitale e non si infierì solo contro gli autori (di quegli elogi), ma anche contro i loro libri, essendo stato demandato ai triumviri il compito di far bruciare nello spazio pubblico del Comizio le testimonianze dei più grandi ingegni. Evidentemente con quel fuoco credevano di soffocare la voce del popolo Romano e la libertà del Senato e la coscienza del genere umano, tanto più che erano stati banditi da Roma quanti facessero professione di filosofia e qualunque arte onesta, perché non vi fosse luogo in cui rimanesse qualche traccia di dignità. Sì, è vero: abbiamo dato grande prova di capacità di sopportazione; e come l’antichità vide a quale ultimo approdo potesse giungere la libertà, così noi abbiamo visto che cosa ci fosse in fondo alla

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strada della schiavitù, essendoci stata tolta, attraverso i servizi di spionaggio, perfino la facoltà reciproca di parlare e di ascoltare. Avremmo perduto, insieme alla voce, anche la memoria, se fosse in nostro potere dimenticare, così come tacere. Ora finalmente si torna a respirare; e per quanto già al primo schiudersi dell’era più felice Cesare Nerva abbia coniugato le due cose un tempo incompatibili, il principato e la libertà, ed ogni giorno di più Nerva Traiano accresca la felicità dei tempi e la sicurezza pubblica sia tornata non solo ad accarezzare speranze e desideri, ma anche a nutrire solida fiducia nella realizzabilità di quei desideri medesimi, tuttavia, per effetto della natura dell’umana fragilità, i rimedi sono più lenti dei mali; e come i nostri corpi crescono lentamente, ma muoiono in un batter d’occhio, così le attività dell’ingegno è più facile soffocarle che richiamarle in vita; perché si insinua anche il gusto sottile dell’inazione e l’apatia, dapprima odiosa, si finisce per amarla. Che dire se nell’arco di quindici anni – un lasso di tempo lungo per una esistenza umana – molti sono morti per casi fortuiti, i più coraggiosi per via della crudeltà del principe, e pochi siamo rimasti in vita, sopravvissuti, per così dire, non solo agli altri, ma anche a noi stessi, essendoci stati tolti dal cuore stesso della nostra vita così tanti anni, durante i quali, se eravamo giovani, siamo arrivati alla vecchiaia, se già vecchi, all’estremo approdo dell’esistenza ormai conclusa, nel più assoluto silenzio? Ciò nondimeno non mi dispiacerà di aver affidato alla scrittura, anche con voce rozza e inelegante, la memoria della trascorsa schiavitù e la testimonianza dei beni presenti. Frattanto questo libro, destinato a rendere onore a mio suocero Agricola, sarà apprezzato o almeno giustificato nella sua aperta professione di affetto.

Nell'83, una spedizione romana via terra e via mare penetra nella Scozia: i Caledoni, abitanti della regione, ricorrono alle armi. Poco prima della battaglia del monte Graupio (84 d.C.), il capo dei Caledoni Calgàco esorta i suoi a battersi nella difesa della libertà, mettendo in questione la legittimità dell'espansionismo romano, come ha fatto nel 155 a.C. il filosofo neoaccademico Carneade (che ritiene che l'impero romano sia costruito sulla forza e non sulla giustizia e che, se i Romani si volessero comportare secondo giustizia, dovrebbero rendere i territori). Anche l'onesto Agricola, dunque, combattendo i Caledoni, si fa strumento di questa oppressione. T. è da una parte conscio che i Romani stanno portando la civiltà, dalla quale avranno da guadagnare anche i barbari; dall'altra, sa che quel mondo di stranieri ha molte virtù da insegnare a Roma:

Agricola, 30-32: Sempre, quando io medito sull’origine della guerra e sulla situazione che ci opprime, fermissima fede nasce nell’animo mio che l’ora presente e l’unione vostra schiudano la via a riconquistare l’indipendenza dell’intera Britannia: tutti, infatti, siamo inesperti della servitù e né per noi vi sono altre terre al di là e neppure il mare è libero dal momento che ci minaccia la flotta romana. Armi e battaglie, fonte d’onore ai valorosi, divengono in tali condizioni il supremo elemento di sicurezza per gli ignavi stessi. Sinora noi combattemmo con varia sorte contro i Romani, e fu a noi speranza e forza il nostro braccio. Nobilissimi fra tutti i britanni, come abitatori dell’interno noi non vediamo lidi di popoli schiavi: neppure con la vista noi subimmo l’oltraggio della dominazione straniera. Sino ad oggi questo nostro oscuro vivere nelle estreme zone della terra e della libertà ci ha protetti. Ora anche questo ultimo recesso della Britannia è aperto; e come tutto ciò che è ignoto, lo si immagina ripieno di meraviglie: al di là non più alcun popolo, non altro che flutti e scogli e, peggior male, i Romani, la cui prepotenza invano vorresti placare con l’umile sottomissione. Predoni del mondo intero poiché tutte le terre hanno devastato e altre terre da devastare non hanno, anche il mare vanno ora frugando. Avidi contro il nemico ricco, contro il povero superbi; non saziati dall’oriente, non dall’occidente, soli fra tutti a gettarsi con pari accanimento sull’opulenza e sulla povertà. Rubare, massacrare rapire, hanno da essi il falso nome di signoria: dove fanno deserto, dicono pace. Volle la natura che ognuno abbia carissimi i figli e i congiunti: ma la leva ce li porta via e sono mandati a servire lontano. Le mogli, le sorelle, se pur si salvano dalla violenza nemica, sono profanate con la maschera dell’amicizia e dell’ospitalità. I beni ci si consumano nelle imposte, il campo e il raccolto nel tributo del grano, i corpi e le braccia nell’aprire strade in foreste e paludi, tra bastonate ed ingiurie. I nati alla schiavitù sono pur venduti una sola volta, e il padrone li nutre: la Britannia no, essa compera ogni giorno la schiavitù

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propria, ogni giorno l'alimenta. E come nella turba degli schiavi l’ultimo giunto è dai suoi stessi compagni deriso, così, in questa vecchia moltitudine di servi del mondo intero, noi, ultimi e miserabili, siamo frustati a sangue poiché non abbiamo campi o miniere o porti, a lavorare i quali valga la pena tenerci in vita. Ai padroni spiace che i sudditi siano fieri e valorosi: noi siamo per questo ancora più sospetti. Nessuna grazia ci è concesso sperare. Avanti dunque! E vi sia cara sopra ogni cosa la salvezza e la gloria. I Briganti (erano piuttosto gli Iceni ad aver riportato devastanti successi sotto la guida di Boadicea, e avevano per capo una donna) diedero alle fiamme la colonia, forzarono gli accampamenti e, se il successo non li avesse intorpiditi, ben potevano liberarsi dal giogo. Noi nella pienezza delle nostre forze, noi indomiti e pronti a combattere non per vendetta di servitù ma per fede di libertà, mostriamo sin dal primo scontro quali uomini la Caledonia abbia serbato a propria difesa. O forse credete che i Romani siano tanto valenti in guerra quanto arroganti in pace? Sono le nostre divisioni e le nostre beghe che li hanno fatti famosi: colpe nemiche, codeste, che essi hanno convertito in glorie del proprio esercito, accozzaglia di genti svariatissime che solo la buona fortuna tiene assieme, l’avversa dissolve: a meno che non vogliate supporre che quei Galli e quei Germani, e (arrossisco a dirlo) quei molti Britanni che hanno prestato il sangue alla tirannia straniera, si sono ad essa legati di fede e di cuore, sebbene siano vissuti più a lungo da nemici che da sudditi:la soggezione ed il terrore sono fragile cemento all’amicizia: fa’ che si sciolga e dove cessa la paura subentra l’odio. Tutto ciò che esalta alla vittoria è per noi. Da parte romana non spose che l’infiammino, non genitori che li svergognino in caso di fuga: sono pochi, timorosi per la novità dei luoghi, stupiti nel guardare intorno a sé un cielo, un mare, delle foreste, tutto un mondo ignoto; gli dei stessi ce li danno in mano quasi accerchiati e avvinti. Non vi spaventi la vuota apparenza, il luccicare dell’oro e dell’argento che non protegge e non ferisce. Tra le file nemiche ritroveremo le nostre squadre: intenderanno i Britanni da quale parte sia la loro causa; ricorderanno i Galli l’indipendenza di un tempo; diserteranno i Germani tutti come hanno appena fatto gli Usipi. E che altro avremo poi a temere? Vuote le fortezze, nelle colonie vecchi soltanto, deboli i municipi e rissosi tra chi male obbedisce e chi iniquamente comanda. Qui sta il loro generale, qui il loro esercito: al di là il fisco, il lavoro forzato delle miniere, tutte le altre torture della servitù che, se non vogliamo che ci gravino sopra in eterno, dobbiamo su questo campo finalmente vendicare. Ed ora alla battaglia! E siano in cima ai vostri pensieri gli avi e i posteri!

L'OPERA STORICA.Le Historiae (scritte nel 100 ca.) narrano le vicende storiche di Roma dalla morte di Nerone (68) a quella di Domiziano. Degli originari 12 o 14 libri, sono pervenuti i primi quattro e parte del quinto: essi contengono la trattazione degli eventi dal 69 (inizio del regno di Galba) al 70 (rivolta giudaica). Gli Annales (scritti nel 112-113) narrano gli eventi della morte di Augusto (14 d.C.) al 68. Degli originari 18 o 16 libri, sono arrivati i primi quattro, l'inizio del quinto e il sesto privo della parte iniziale, oltre ai ll. XI-XVI, con lacune all'inizio dell'XI e alla fine del XVI; resta persa la trattazione su Caligola e parte di quella su Claudio.L'opera storica di T. circola in una raccolta di 30 libri, con gli Annales che precedono le Historiae, anche se sono stati scritti dopo. I due titoli rinviano a due modelli storiografici diversi: gli annales tradizionalmente raccontano tutta la storia di Roma, a partire dalla fondazione, scandendo gli eventi anno per anno, nell'idea che tra i fatti appartenenti allo stesso anno ci sia una intima solidarietà e che, alla sua fine, la storia ricominci; le historiae, invece, isolano un segmento del tempo storico, scegliendo tutti quegli eventi che appaiono collegati in una costellazione. TIpico di Tacito è contaminare i due codici: egli, infatti, si limita ad esaminare un periodo, ma rispettando la cadenza annalistica.

Finché scrive le Historiae, T. è ancora convinto che grazie alla pratica dell'adozione l'impero possa conoscere una stagione diversa e più giusta: il

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principato è un prodotto della necessità storica ed è inevitabile per superare le tensioni causate dall'instabilità della repubblica e garantire la pace. L'iniziativa di Nerva sembra allo storico (di fondo pessimista) restituire alla società (e in particolare al senato) la libertà di parola persa. Tale fiducia viene meno, quando Traiano sceglie come erede Adriano, il cui padre era suo cugino. Ecco così che negli Annales l'impero è interpretato come una malattia, per la quale non esiste nessuna giustificazione: non a caso T. sceglie come tema un periodo oscuro. Ogni tanto, ricorre alle argomentazioni dell'ideologia augustea, ma deve mestamente concludere che la realtà è ben diversa: l'impero, nato per portare la pace, non riesce nella sua missione; ma, anche se avesse successo, sarebbe ad un prezzo troppo alto: la libertà. Anche la nobiltà è colpevole del deteriorarsi del quadro politico, condannata dalla propria libido adsentandi. Rispetto alle Historiae, che privilegiano movimenti di eserciti e di masse, gli Annales si concentrano sui meccanismi dell'impero e sulla corruzione; protagonisti sono i singoli principi: Tiberio è un esempio di falsità e dissimulazione, Claudio un inetto senza volontà, Nerone un tiranno senza scrupoli. In omaggio alla storiografia senatoria, accoglie lo schema annalistico e conserva come scenario fisso Roma. La battuta di inizio degli Annales (Urbem Romam principio reges habuere) sembra una concessione al tradizionale inizio degli annali, ma poi T. sintetizza in poche frasi la storia repubblicana di Roma. La storia dell'impero però non si svolge solo a Roma e ciò crea rotture nella cronologia annalistica per permettere a T. di scrivere anche sulle altre regioni. La mole dell'impero, la formalità delle magistrature, l'emergere di nuovi soggetti storici sono irriducibili ai procedimenti tradizionali, ma T. ne tenta un ultimo recupero.

Analizzare decadenza e corruzione è un compito ingrato, diverso da quello dell'antica storiografia repubblicana. Non c'è diletto né gloria per T. che interroga sine ira et studio gli storici dell'opposizione, altri autori e atti burocratici, per dimostrare il guasto sociale prodotto dal principato. Alle spalle dello storico non c'è un vero e proprio sistema filosofico (anche se sono di ascendenza stoica l'ideale della serenità e l'identificazione di Dio con il fato; d'altra parte, T. rimprovera agli oppositori del regime, tutti imbevuti di stoicismo, il loro atteggiamento anticesareo e con fatalismo considera gli eventi della storia come frutto del caso), perché non può aderire a nessuna, se non a quella medioplatonica, quando constata di non poter ricavare leggi dalle vicende umane e registra il caos della storia.Queste constatazioni non allentano il suo interesse per le azioni umane né gli fanno dimenticare il suo compito, ma incrementano il suo pessimismo. Legato alla nobiltà, affronta la storia della sua crisi come un moralista rassegnato: la virtù è negli antichi modelli e bene fa chi sa tenerle in vita (Trasea Peto) e chi sa vivere e morire con dignità (Agricola). Da qui scaturiscono ritratti di principi non sempre obiettivi: la storia del principato appare come una tragedia di eroi negativi e sconfitti, un dramma senza speranza né giustificazione. Allo storico sono chiuse le ragioni che spiegano la storia, il moralista può indagare la realtà psicologica dei personaggi, ma anche i comportamenti delle masse, spesso analizzati in base alla dinamica purezza-corruzione.

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Lo stile di Tacito rispecchia la sua coscienza problematica: è frantumato e disarticolato (abruptum dicendi genus) e trova nella variatio l'antidoto alla monotonia e nella brevitas (ottenuta con ellissi e frasi nominali) il modulo di comunicazione, strumenti retorici che incrinano l'equilibrio del periodare classico. E' interessante come T. curi la semantizzazione del suo apparato retorico, funzionale a sottolineare i momenti dell'argomentazione o della narrazione: il lessico della paura e quello dela modestia caratterizzano da una parte il rapporto tra principe e sudditi e dall'altra l'unica virtù che il saggio oppone al furore del tiranno.

All'inizio dell'Agricola T. sembra avere in mente una trattazione ampia in cui ricordare i tempi di Domiziano. Nel proemio delle Historiae, si riserva per la vecchiaia la trattazione di Nerva e Traiano (materia ricca e meno rischiosa) e narra gli anni delle guerre civili e delle nefandezze del principe. Il proemio mostra, così, tutto il pessimismo tacitiano: dopo essersi dilungato sulle calamità che hanno segnato l'età a lui contemporanea, vi oppone un quadro brevissimo degli esempi di uomini virtuosi e, alla fine, addirittura avanza l'ipotesi di un castigo divino, la quale spiegherebbe la devastazione tanto gigantesca causata dalla corruzione. T. in questo senso risente della lezione di Tucidide, la quale lo porta a vedere la storia come una serie di mali provocati dall'avidità e dal desiderio di potere. Del resto, egli è uno storico moralista, che è portato dalla sua mentalità a mettere in luce crimini e vizi, oltre che uno storico politico-pragmatico, , conscio che i valori della civiltà romana sono stati travolti. D'altra parte, mantiene ancora una piccola speranza: ciò che gli dei rifiutano, i mortali possono assicuraselo con le loro forze. Ne hanno la possibilità se ispirano la propria condotta agli imperativi morali.

Historiae I 2-3: Metto mano a un lavoro denso di eventi, tremendo per gli scontri in armi, lacerato da rivolte, tragico perfino nella pace. Quattro principi eliminati col ferro, tre guerre civili, parecchie esterne e per lo più fra loro connesse; successi in Oriente, situazione compromessa in Occidente: l'Illirico in piena confusione, le Gallie inclini al tradimento, la Britannia conquistata ma subito abbandonata, gli attacchi subiti da Sarmati e Svevi, il prestigio dei Daci cresciuto per i rovesci inflittici e da loro patiti, anche i Parti sull'orlo della guerra per l'impostura di un falso Nerone. E poi l'Italia afflitta da disastri mai accaduti o ricomparsi dopo lungo giro di generazioni: città della fertile costa campana inghiottite o sepolte, Roma devastata da incendi e quindi crolli di antichissimi templi e anche il Campidoglio bruciato da mani di cittadini; profanazione di riti, scandali ad alto livello; confinati politici in ogni mare, coperti di sangue gli scogli. Proprio a Roma la crudeltà più violenta: delitto l'essere nobili, ricchi e potenti per cariche ricoperte o semplicemente rifiutate; e alla virtù, come premio garantito, la morte. Più offensive dei delitti le ricompense ai delatori: alcuni arraffavano quale bottino cariche sacerdotali e consolati, altri governi di province e potere politico nella capitale, tutto scardinando per odio e paura. Corrotti gli schiavi contro i padroni, contro i patroni i liberti, e per chi non avesse nemici, c'era un amico a colpirlo. Sterile di virtù quest'età, eppure non fino al segno da non portare alla luce anche scelte di nobile ardimento: madri al seguito di figli profughi, spose vicine ai mariti nel confino, congiunti capaci di coraggio, generi non disposti a piegarsi, schiavi arroccati nella loro fedeltà anche di fronte alla tortura, uomini di primo piano costretti a subire l'estremo supplizio, e questo affrontato con grande dignità, all'altezza delle più celebrate morti del passato. E oltre a questa eterogenea somma di umane vicende, i prodigi del cielo e della terra, l'avvertimento dei fulmini e i presagi del futuro, lieti e tristi, misteriosi ed evidenti; e mai al popolo romano con più atroci calamità e con segni più pertinenti venne confermato che gli dei non attendevano alla nostra salvezza, bensì al nostro castigo.

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Come s'è detto, T. racconta negli Annales la morte del filosofo Seneca, che lo storico crede estraneo alla congiura. Si tratta di un esempio di exitus virorum illustrium, brani di opere storiche o scritti autonomi in cui si celebrano le circostanze della morte di personaggi vittime dei tiranni. Archetipo di questa letteratura sono gli elogi di Catone Uticense, il repubblicano che dopo la sconfitta dei pompeiani si suicida in Utica (a nord di Cartagine) nel 46 a.C.Il racconto di T. risente dell'esempio del Fedone, il dialogo di Platone dedicato alla morte di Socrate. Seneca, come Socrate, rivolge parole di ammonimento agli amici; poi, benché si sia reciso le vene dei polsi e stia per recidersi quelle delle gambe, chiede che gli sia portata la cicuta. Altri dettagli, come il bagno caldo e la libagione in punto di morte (che ricordano la morte di Trasea Peto), inducono a credere che il resoconto tacitiano contaminasse due versioni.

Annales XV 63-64: Dopo riflessioni di tal genere, che sembravano rivolte a tutti indistintamente, stringe fra le braccia la moglie e, inteneritosi alquanto, malgrado la forza d'animo di cui dava prova in quel momento, la prega e la scongiura di contenere il suo dolore e di non renderlo eterno, ma di trovare, nella meditazione di una vita tutta vissuta nella virtù, un decoroso aiuto a reggere il rimpianto del marito perduto. Paolina invece afferma che la morte è destinata anche a sé e chiede la mano del carnefice. Seneca allora, per non opporsi alla gloria della moglie, e anche per amore, non volendo lasciare esposta alle offese di Nerone la donna che unicamente amava: "Ti avevo indicato" le disse "come alleviare il dolore della vita, ma tu preferisci l'onore della morte: non mi opporrò a questo gesto esemplare. Possa la fermezza di una morte così intrepida essere pari in te e in me, ma sia più luminosa la tua fine." Dopo di che il ferro recide, con un colpo solo, le vene delle loro braccia. Seneca, poiché il corpo vecchio e indebolito dal poco cibo lasciava fuoruscire lentamente il sangue, taglia anche le vene delle gambe e dei polpacci; e, stremato dalla intensa sofferenza, per non fiaccare col proprio dolore l'animo della moglie, e per non essere indotto a cedere, di fronte ai tormenti di lei, la induce a passare in un'altra stanza. E, non venendogli meno l'eloquenza anche negli ultimi momenti, fece venire degli scrivani, cui dettò molte pagine che, divulgate nella loro forma testuale, evito qui di riferire con parole mie. Nerone però, non avendo motivi di odio personale contro Paolina, e per non rendere ancora più impopolare la propria crudeltà, ordina di impedirne la morte. Così, sollecitati dai soldati, schiavi e liberti le legano le braccia e le tamponano il sangue; e, se ne avesse coscienza, è incerto. Non mancarono, infatti, perché il volgo inclina sempre alle versioni deteriori, persone convinte che Paolina abbia ricercato la gloria di morire insieme al marito, finché ebbe a temere l'implacabilit? di Nerone, ma che poi, al dischiudersi di una speranza migliore, sia stata vinta dalla lusinga della vita. Dopo il marito, visse ancora pochi anni, conservandone memoria degnissima e con impressi sul volto bianco e nelle membra i segni di un pallore attestante che molto del suo spirito vitale se n'era andato con lui. Seneca intanto, protraendosi la vita in un lento avvicinarsi della morte, prega Anneo Stazio, da tempo suo amico provato e competente nell'arte medica, di somministrargli quel veleno, già pronto da molto, con cui si facevano morire ad Atene le persone condannate da sentenza popolare. Avutolo, lo bevve, ma senza effetto, per essere già fredde le membra e insensibile il corpo all'azione del veleno. Da ultimo, entrò in una vasca d'acqua calda, ne asperse gli schiavi più vicini e aggiunse che, con quel liquido, libava a Giove liberatore. Portato poi in un bagno caldissimo, spirò a causa del vapore e venne cremato senza cerimonia alcuna. Così aveva già indicato nel suo testamento, quando, nel pieno della ricchezza e del potere, volgeva il pensiero al momento della fine.

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Dialogus de oratoribus.

L'opera, stilisticamente simile a Quintiliano e a Cicerone, giunta con le opere di T., è attribuita a quest'ultimo: forse è un'opera giovanile; oppure, se la sua datazione è posteriore alle prime due opere tacitiane, è l'argomento che ha indotto ad una scelta di stile particolare.L'autore riferisce una discussione, svoltasi nel 74-5, a casa di Curiazio Materno (portavoce dell'autore, che assiste giovanissimo), tra l'ospite e tre oratori: Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo. Nella prima parte, Marco Apro rimprovera a Curiazio di tralasciare l'eloquenza per dedicarsi alla poesia drammatica: ne nasce una discussione in cui Curiazio sostiene il primato della poesia e Marco quello dell'eloquenza; nella seconda parte, la conversazione si sposta prima sul confronto tra eloquenza moderna (sostenuta da Marco Apro) e eloquenza antica (Vipstano Messalla) e infine sulla decadenza dell'oratoria, attribuita da Vipstano all'educazione moderna e da Curiazio alla fine della repubblica. E' l'unica opera del periodo a spiegare la crisi dell'eloquenza su basi storiche. La grande eloquenza era tipica dell'età repubblicana e delle sue battaglie politiche: con l'impero la pace ha perso l'eloquenza.

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PLINIO IL GIOVANE (Como, 61 - 113 d.C.)

Adottato alla morte dei genitori dallo zio materno Plinio il Vecchio, nasce da famiglia ricca, possidente di molte ville; è fatto istruire dallo zio a Roma alla scuola di Quintiliano e di Niceta Sacerdote di Smirne. Avvocato e funzionario, percorre il cursus honorum fino alla pretura (93) e per primo nella sua famiglia diventa senatore. Sotto Traiano, è eletto prefetto dell'erario di Saturno (la cassa centrale dell'impero) tra 98 e 100, poi console suffectus (100) e governatore in Bitinia (111-113). Traiano lo considera uomo di fiducia e per questo motivo lo mette a capo di una provincia senatoria, dissestata dal malgoverno e dalle cosche locali (sta per attaccare i Parti e quindi ha bisogno di un retroterra fidato). Sempre per Traiano, s'impegna in una epurazione di chi ha cooperato con Domiziano: sostiene l'accusa contro il corrotto governatore dell'Africa Mario Prisco, assieme a Tacito (100); difende due ex governatori della Bitinia, vittime delle malversazioni delle cosche provinciali (103, 107).

Panegyricus: pronunciato come gratiarum actio, il discorso di ringraziamento che il console tiene in senato quando entra in carica, è riscritto per essere pubblicato. E' l'unica orazione di P. giunta sino a noi. Tra i temi affrontati c'è il ritorno della libertà di pensiero e parola: P. avverte che esso dipende più dal principe che dal mutamento delle condizioni politiche. A Traiano dice: "Ci ordini di essere liberi: noi lo saremo!", come a dire che la libertà serve solo a confermare l'adesione ad un corso politico perfetto. Traiano cerca un'intesa col senato e potenzia la burocrazia con i cavalieri: la nobiltà diviene gruppo di appoggio con gli equites, che cercheranno così un'integrazione anche culturale. P. è testimone di questo processo: il panegirico è intessuto di considerazioni positive sull'alleanza tra principe e senato e di cortesi, ma ferme esortazioni con cui si cerca di influire sul potere (quest'atteggiamento sembra nascere da una tradizione platonica, per cui l'intellettuale è pedagogo del principe: in realtà, lo si vedrà nelle lettere, è Traiano che consiglia P. e non il contrario).

Epistolario: in questa gigantesca opera, composta di 10 libri, modellata su Cicerone (con la differenza che le lettere di Cicerone erano genuine, per cui egli vi rivelava anche le sue debolezze e il suo stile era colloquaile, mentre P. scrive lettere che saranno pubblicate, perciò elabora una sua immagine e uno stile), l'autore si rivela un uomo vanitoso, aperto agli affetti, tollerante, pieno di virtù borghesi. Il suo ritratto di Roma è lontano, ad es., da quello di Giovenale: è la Roma bene, in cui tutti sono come lui, civili, educati, ma superficiali. L'attività culturale prevalente è la declamatio, di cui anche lui è produttore e fruitore entusiasta. Se tutto dipende dal principe, all'intellettuale restano solo la sua arte e la necessità di ricercare una sfera diversa da quella politica dove esercitarla: la piccola realtà della vita. P. non capisce che la cultura tradizionale è in crisi e ciò ha comportato la riduzione delle funzioni della retorica. Egli semplicemente crede che sia in decadenza solo il gusto degli ascoltatori, che mostrano di annoiarsi e disertano auditori e salotti.Il X libro lo vede intrattenere un carteggio (pubblicato per iniziativa di Traiano) con l'imperatore, quand'è governatore in Bitinia. In una di queste lettere,

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prospetta il problema dei cristiani (non è il primo documento di letteratura non cristiana che ne parli: Tacito li ricorda con disprezzo quando narra che Nerone li accusò dell'incendio di Roma); P. deve istituire processi e spiega a Traiano come s'è comportato, ma vorrebbe chiarimenti. La lettera è significativa perché indica com'è il cristianesimo in questa fase (quella siriana). Un secolo più tardi Tertulliano, polemizzando contro le persecuzioni anticristiane, cita P. e non lo contesta. L'epistola indica la prassi giuridica seguita: se i cristiani non sono denunciati, non devono essere cercati; se sono denunciati non da anonimi, occorre istituire un processo. Tertulliano lo criticherà (o il cristianesimo è un reato e allora dev'essere estirpato o non lo è e allora i processi non vanno istituiti). Questo processo è un'inchiesta extra ordinem, per cui si è processati per un'accusa e condannati per un'altra, cioé si chiede al cristiano di omaggiare la religione ufficiale: se egli rifiuta, è condannato.

Epistulae X 96: E’ per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza? Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome. Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi. Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani. Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo. Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata.Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma.

Epistulae X 97: Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati

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come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi.

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PLINIO IL VECCHIO (Como, 23- Napoli, 79 d.C.)

Ogni tanto le culture si concedono una pausa di sistemazione dell'acquisito, quando nasce l'idea che non si possa progredire oltre, o quando si vive in una fase di grandi mutamenti culturali. I due orientamenti non sempre sono opposti. In questi disegni enciclopedici, l'antichità conosce due indirizzi distinti: uno concentrato sulle arti liberali (grammatica, retorica, dialettica) e uno sulle arti pratiche (medicina, architettura, agricoltura). L'uomo antico pregiudizialmente ritiene che il primato sia delle discipline che non mirano a esiti materiali (dietro è il dualismo, già platonico, tra anima e corpo, risolto in favore dell'anima). A Roma, però, sono diversi i manuali enciclopedici relativi alle arti pratiche: ciò significa che le nuove élite professionali sono in ascesa. Tra di essi, c'è il De re rustica di Columella15 e il De medicina di Celso16.

Il più importante enciclopedista è però P. il V., un ricco funzionario militare (ha venti ville in Italia, due sul lago di Como chiamate Tragedia e Commedia, vicine ad una sorgente a sifone, la quale scorre per sei ore e si ferma per altre sei). E' procuratore di Narbonese, Spagna, Africa (sotto Claudio e Vespasiano) e poi capo della flotta di Miseno: come tale, mentre soccorre il popolo a Pompei, durante l'eruzione del Vesuvio, essendo asmatico, muore per i gas inalati. Il nipote e figlio adottivo, Plinio il Giovane, descriverà la sua dipartita all'amico Tacito, perché lui ne faccia una trattazione storica.

Dei suoi vasti interessi prova è l'elenco delle opere non pervenute: scritti di retorica, storia, biografie, trattati; giunta è la Naturalis historia (36 ll.), pubblicata nel 77 e dedicata a Tito, poi ripubblicata dal nipote, che raccoglie in un libro gli elenchi delle parti e gli indici. Benché gli argomenti siano tutti legati alle scienze sperimentali (mineralogia, botanica, zoologia), i dati sono desunti da libri. Per non sprecare tempo, legge e si fa leggere i libri di cui cura riassunti anche in bagno e a pranzo. Ne risulta un'opera eterogenea, spesso contraddittoria (si dice degli elefanti che puzzano loro le zampe). P. è un curioso: la curiositas sostituisce l'humanitas ciceroniana, è nozionismo non più capace di plasmare la personalità. Il fenomeno, ampio, oggetto della polemica cristiana (Tertulliano: nobis opus non est curiositate, post Christum), si spiega così: le nuove élite, che vengono dalle province, si accostano alla cultura del passato (coerente alla realtà dell'antica nobiltà senatoria) dall'esterno, senza sentirne la tradizione, in modo epidermico. P. partecipa nello stile al gusto del tempo: è ineguale, a parole tecniche si alternano vocaboli poetici, arcaici, sofisticati.

15 Amico di Seneca e Celso, funzionario e proprietario, Columella, nativo di Cadice, scrive un'opera di agricoltura; nel X libro, scritto in versi, accetta l'invito di Virgilio, che nelle Georgiche aveva tralasciato la trattazione di orti e giardini.16 Celso, vissuto sotto TIberio, scrive le Artes, in sei sezioni, divise in libri: ne resta solo il De medicina, in 8 libri.

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SVETONIO (70 - 150 d.C.)

Di famiglia ricca di cavalieri, avvocato e magistrato protetto da Plinio il Giovane e dal prefetto del pretorio Setticio Claro, diviene funzionario di Adriano (procuratore delle ricerche d'archivio, ispettore delle biblioteche pubbliche, incaricato della corrispondenza dell'imperatore). Nel 122 è destituito dalle sue cariche assieme a Setticio: forse ha mancato di rispetto all'imperatrice Sabina, che si è vendicata, nel contesto di un rivolgimento dopo la morte della vedova di Traiano, Plotina.

Scrive di diversi argomenti in latino e in greco (calendario, giochi pubblici, editoria, politica ciceroniana, abbigliamento...): di questa sua produzione, forse raccolta in un'opera miscellanea (non originale, ma utile) intitolata Prata, restano solo frammenti e titoli. Il suo lavoro di ricerca e compilazione è facilitato dalle sue mansioni. Immette nelle sue ricerche atteggiamenti burocratici: concretezza, gusto del documento e della curiosità, anedottica. Il suo pubblico è l'apparato imperiale, insofferente delle ricerche stilistiche e concreto, cui Svetonio offre una sintesi schematica di storia e cultura, inventoriando le notizie per facilitarne l'apprendimento di chi non ha l'educazione dei nobili.

Sono pervenuti, perlomeno in parte, due altri trattati. Il De viris illustribus comprendeva biografie (disposte in ordine cronologico) di letterati latini, divise in cinque sezioni (poeti; oratori; storici; filosofi; grammatici e retori). Restano il De grammaticis et rhetoribus, quasi intero; dal De poetis le vite di Terenzio, Virgilio, Orazio e Lucano; dal De historicis la vita di Plinio il Vecchio. Singole notizie sono confluite nella traduzione latina fatta da Girolamo della Cronaca di Eusebio di Cesarea.La ricerca si concretizza in sintetici profili, arricchiti da aneddoti sulla vita privata dei personaggi; non si esprimono giudizi, ma si raccolgono dati senza curarsi di eventuali discrepanze. S. privilegia gli episodi connessi con la vita pubblica (di Terenzio ricorda il rapporto con Lelio e Scipione, di Orazio e Lucano quello rispettivamente con Augusto e Nerone).

Sono giunte per intero, a parte la dedica e le prime pagine della vita di Cesare, le Vitae XII Caesarum (8 ll.) raccolgono le biografie dei primi dodici imperatori: un libro per ciascuno dei primi sei imperatori (Cesare, Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone); il settimo comprende le vite di Galba, Otone, Vitellio; l'ottavo quelle di Vespasiano, TIto, Domiziano. Per S., un funzionario con il senso pratico, non ha senso accettare la cronologia annalistica basata sulle magistrature: lo schema biografico è più idoneo a periodizzare gli eventi. Lo schema adottato vede iniziare sempre con l'esposizione, in ordine cronologico (per tempora), delle notizie sulla nascita e sulla famiglia; dal momento della ascesa al potere del principe, subentra un criterio per species, cioé per categorie o rubriche, consistente nell'elencare i fatti inerenti alla vita pubblica e privata. Nella conclusione torna l'ordine per tempora col racconto della morte del principe. Ulteriori eventuali partizioni si basano su provvedimenti e battaglie. L'idea è quella di costruire un ritratto del carattere dell'imperatore, similmente a quello che fa nelle Vite parallele lo storico greco Plutarco di Cheronea (46-120

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d.C.): la differenza è che S. non ha intenti encomiastici e rappresenta i principi come uomini mortali, animato com'è dall'interesse per la vita quotidiana, testimoniato dall'uso di vocaboli colloquiali. L'assenza di toni elogiativi e l'uso di fonti riservate sembrano conferire obiettività alle opere storiche di S. La focalizzazione sul protagonista comporta la conseguenza che il soggetto grammaticale o logico del periodo è sempre l'imperatore e la narrazione avviene sempre in terza persona.Anche le vite hanno un pubblico di cavalieri e di funzionari, di cui ripropongono il senso di concretezza, l'uso a catalogare, l'insofferenza per le elaborazioni stilistiche. Ciò spiega l'interesse di S. per gli elementi della storia cittadina e per quegli imperatori che hanno consentito agli equites di raggiungere il potere: Augusto e Domiziano, sul quale il giudizio di S. appare più equilibrato rispetto ad altri, come Tacito.

Il capitolo X della Vita Domitiani è dedicato agli exitus illustrium virorum sotto questo imperatore. Sul conto di Elvidio Prisco padre, lodato da Tacito e qui appena nominato, S. esprime altrove un giudizio restrittivo, presentandolo come un provocatore che si ostina a trattare l'imperatore come un cittadino. Il figlio di Elvidio, che in una farsa ha preso in giro Domiziano ricordandone il divrorzio dalla moglie, innamorata del mimo Paride, è, invece, per S. una vittima innocente. Il biografo non considera Elvidio padre un martire, perché egli è un repubblicano.

Vita Domitiani 10 - 12: Purtroppo non perseverò né nella clemenza né nel disinteresse; tuttavia passò molto più rapidamente alla crudeltà che alla cupidigia. Fece morire un allievo del Pantomimo Paride, benché fosse ancora fanciullo, e precisamente mentre era ammalato, perché con la sua arte e con la sua figura gli ricordava troppo il suo maestro. Uccise anche Ermogene di Tarso a causa di alcune allusioni contenute nella sua storia e fece perfino crocifiggere i librai che l'avevano copiata. Durante uno spettacolo, poiché un padre di famiglia aveva dichiarato che un trace valeva quanto un mirmillone, ma meno dell'organizzatore dei giochi, lo fece togliere dal suo posto e gettare ai cani nell'arena con questa scritta «Partigiano dei gladiatori traci che ha parlato in modo empio». Fece morire molti senatori, di cui un buon numero erano ex consoli: tra questi Civica Cereale, mentre esercitava il proconsolato in Asia, Salvidieno Orfito, Acilio Glabrione, in quel momento in esilio, con il pretesto che essi fomentavano una rivoluzione, e gli altri con i più diversi e futili motivi. Alio Lamia fu messo a morte per battute di spirito, senza dubbio sospette, ma vecchie e inoffensive: aveva risposto ad uno che si complimentava per la sua voce, dopo che Domiziano gli aveva portato via la moglie: «Pratico la continenza,» e a Tito che lo esortava a contrarre un secondo matrimonio, aveva replicato: «Non vorrai sposarti anche tu?» Salvio Cocceiano fu eliminato perché aveva festeggiato l'anniversario della nascita di suo zio, l'imperatore Otone; Mettio Pompusiano perché si diceva tra il pubblico che aveva un oroscopo che gli annunciava l'Impero, faceva circolare una carta geografica disegnata su membrana, come pure i discorsi dei re e dei generali ripresi da Tito Livio e perché aveva dato a due dei suoi schiavi i nomi di Magone e di Annibale; Sallustio Lucullo, legato in Britannia, fu soppresso perché aveva tollerato che venissero chiamate luculliane alcune lance di nuova forma; Giunio Rustico per aver pubblicato un panegirico di Peto Tarsea e di Elvidio Prisco, chiamandoli i più nobili degli uomini; Domiziano approfittò per altro di questa accusa per bandire da Roma e dall'Italia tutti i filosofi. Fece morire anche Elvidio figlio, con il pretesto che in un epilogo comico aveva criticato, sotto il nome di Paride e di Enone, il suo divorzio da Domizia; eliminò Flavio Sabino, uno dei suoi due cugini, perché il giorno delle elezioni in cui fu designato console il banditore incespicò nel titolo presentandolo al popolo non come console, ma come imperatore. Ma fu molto più feroce dopo la vittoria nella guerra civile per scoprire i complici di Antonio, anche i più nascosti. Fece applicare alla maggior parte dei membri della parte avversa un nuovo genere di tortura che consisteva nel bruciare gli organi genitali, a qualcuno di loro fece anche tagliare le mani. È accertato che due soli dei più in

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vista ottennero la grazia: erano un tribuno insignito del laticlavio e un centurione che, per meglio dimostrare la loro innocenza, avevano fornito la prova di essere di costumi infami e di conseguenza non avevano potuto trovare nessun credito né presso il generale, né presso i soldati.Era di una crudeltà non solo grande, ma anche astuta e imprevista. Il giorno prima di far crocifiggere il suo tesoriere, lo convocò nella sua camera, lo costrinse a sedersi sul suo letto, accanto a lui, lo congedò tutto rassicurato e felice e gli fece anche l'onore di inviargli una parte della sua cena. L'ex console Arrecino Clemente, uno dei suoi più intimi amici e dei suoi emissari, la cui condanna a morte era già stata decisa, vide il suo favore intatto, anzi accrescersi fino al giorno in cui Domiziano, passeggiando con lui in lettiga, gli disse, scorgendo il suo delatore: «Vuoi che domani ascoltiamo questo perfido schiavo?» E per abusare più insolentemente della pazienza di tutti, non pronunciò mai una sentenza funesta, senza farla precedere da parole clementi, al punto che un avvio di discorso pieno di dolcezza era divenuto il segno più sicuro di una conclusione atroce. Una volta aveva fatto introdurre nella curia alcune persone accusate di lesa maestà e poiché aveva esordito dicendo che «quel giorno avrebbe dimostrato quanto fosse caro al Senato» ottenne con facilità che fossero condannate ad essere punite secondo l'uso antico; più tardi, spaventato dall'atrocità della pena e temendo di rendersi troppo odioso intervenne con queste parole (e non è fuori posto conoscerle testualmente): «Padri coscritti, lasciatemi ottenere dalla vostra misericordia - e so che mi sarà difficile ottenerlo - che questi condannati scelgano il loro supplizio; così voi risparmierete ai vostri occhi un triste spettacolo e tutti sapranno che io ho preso parte a questa seduta.»Rovinato dalle costruzioni, dagli spettacoli e dagli aumenti di stipendio, tentò dapprima di ridurre le spese militari diminuendo il numero dei soldati, ma rendendosi conto che si esponeva così alle incursioni dei barbari, senza per altro arrivare ad un alleggerimento dei suoi oneri, non si fece nessuno scrupolo di saccheggiare con tutti i mezzi. I beni dei vivi e dei morti venivano confiscati dappertutto, sotto la più piccola accusa di un delatore qualsiasi. Bastava che si denunciasse un gesto o una parola qualunque che offendeva la maestà imperiale. Si requisivano le eredità che meno riguardavano l'imperatore, se solo si presentava un testimonio che dichiarava di aver sentito dire dal defunto, quando era vivo, che Cesare era suo erede. La tassa sui Giudei fu riscossa con un rigore tutto particolare: vi si sottoponevano sia i proseliti che vivevano come i Giudei, senza averlo dichiarato, sia coloro che, dissimulandone l'origine, si erano sottratti ai tributi imposti a questa nazione. Mi ricordo di aver visto, quando ero appena adolescente, un agente del fisco, accompagnato da un numeroso seguito, esaminare un vecchio di novant'anni per stabilire se era circonciso. Fin dalla giovinezza Domiziano si mostrò arrogante fino all'impudenza e senza freni sia nelle parole, sia nelle azioni. Quando Cenide, la concubina di suo padre, gli offrì, secondo la sua abitudine, la guancia, al suo ritorno dall'Istria, egli le tese semplicemente la mano; indignato che il genero di suo fratello avesse pure lui servitori vestiti di bianco, esclamò: «Non è bene che vi siano molti sovrani.»

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FEDRO (Macedonia, 15 a.C. - 50 d.C.)

Liberto di Augusto, assegnato probabilmente a mansioni amministrative o all'insegnamento, si dedica sotto Tiberio a scrivere favole, cercando nelle lettere l'affermazione sociale che altri liberti cercano negli affari. Seiano, ministro di Tiberio, lo accusa di diffamare i potenti17: dal processo che segue, F. non riesce a riabilitarsi nemmeno dopo la caduta di quest'ultimo (31 d.C.) ed è costretto a cercare la protezione di ricchi liberti, cui sono dedicati gli ultimi tre libri della sua raccolta. Gli sono attribuiti cinque libri per un totale di 93 fabulae, 5 prologhi e 3 epiloghi. La dimensione ridotta dei libri II e V induce a pensare che una parte dell'opera sia andata persa. In un manoscritto dell'umanista Niccolò Perotti (1429-80), è giunta un'altra trentina di altre favole, la cosiddetta Appendix Perottina.

La fabula è un genere inventato dai ceti umili per criticare i potenti: suo iniziatore, in ambito greco, è Esopo (VI sec. a.C.), al quale F. si richiama, raccontando le stesse storie, mettendole in versi (senari giambici) e limandone la forma (come lui stesso, con modestia, afferma nel prologo del I libro). Il racconto contiene un'azione sostenuta da un paio di personaggi, preceduta o seguita da un altro enunciato, non narrativo, che fornisce la chiave per interpretare la vicenda: la morale (detta, a seconda della sua posizione, promitio o epimitio), a volte tanto rapida da avvicinarsi al proverbio. La sua è una poetica affine a quella di Orazio: come lui, vuole descrivere la vita, colta in tipi rappresentativi, travestiti da animali, suscitare il riso e offrire cosigli per emendare i propri comportamenti (moralismo descrittivo). Come il poeta augusteo, preferisce uno stile atticista (humilis, tenuis, brevis). Le sue categorie di pensiero, trasmesse dalla cultura ellenistica, per cui il mondo è scomponibile tra pochi-molti, buoni-cattivi, sapienti-pazzi, soperchiatori-vittime, non bastano ad interpretare una realtà, quale quella a lui contemporanea, molto più complessa e in movimento. Alcuni elementi della sua cultura filosofica, come l'apprezzamento per la rinuncia alle ricchezze, sembrano ispirarsi al cinismo. Ciò spiega lo scarso successo avuto tra gli intellettuali del suo periodo (Seneca poco dopo la sua morte parla di favole e non lo nomina, come anche Quintiliano; solo più tardi Marziale forse lo menziona) e viceversa la popolarità durante il periodo medievale, quando è letto con intento morale ed è usato come testo d'esercizio per le scuole di latino.

Fabula I 1: Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, si ritrovarono a bere nello stesso ruscello. Il lupo era più a monte, mentre l'agnello beveva a una certa distanza, verso valle. La fame però spinse il lupo ad attaccar briga e allora disse: "Perché osi intorbidarmi l'acqua?" L'agnello tremando rispose: "Come posso fare questo se l'acqua scorre da te a me?" "E' vero, ma tu sei mesi fa mi hai insultato con brutte parole". "Impossibile, sei mesi fa non ero ancora nato". "Allora" riprese il lupo "fu certamente tuo padre a rivolgermi tutte quelle villanie". Quindi saltò addosso all'agnello e se lo mangiò. Questo racconto è rivolto a tutti coloro che opprimono i giusti nascondendosi dietro falsi pretesti.

17 Fedro gli risponde che chi crede di riconoscere le proprie colpe nei vizi dei suo protagonisti, rivela di avere la coscienza sporca.

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La favola del lupo e dell'agnello apre la raccolta, enunciando la legge del più forte in termini destinati a rimanere proverbiali. Lo scenario della vicenda è delineato in pochi tratti nell'incipit e nelle rispettive posizioni, materiali e anche sociali, dei protagonisti; si insiste sul giudizio morale che associa al comportamento del lupo una serie di termini negativi. L'epimitio, oltre alla denuncia delle ingiustizie dei potenti, sembra contenere nell'espressione fictis causis ("con false accuse") un accenno al malcostume dei falsi delatori. La metafora del lupo risale probabilmente all'Asinaria di Plauto (lupus est homo homini, non homo) ed è ripresa anche nel Vangelo di Matteo: "Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi" (= tra gli uomini malvagi). Durante il Medioevo, l'immagine si carica di valenze terrificanti, nonostante la parziale riabilitazione nell'agiografia di san Francesco, che parla col lupo di Gubbio. In una delle Parabulae di Odone di Cheriton, predicatore nativo del Kent, attivo a inizio XII sec., si legge la storia del lupo Isengrino, che vuole farsi monaco, anche se deve imparare il Padrenostro, ma dice sempre Agnello o Ariete. Il lupo diventa così lo spauracchio del folclore, riempiendo di terrore i bambini che sentono la fiaba di Cappuccetto Rosso. Quando Fedro riemerge dall'anonimato nel '600, la sua opera nutre un esercito di favolisti: tra gli altri Jean de La Fontaine (1621-95), il cui lupo è conscio della propria malvagità, perché uccide l'agnello dopo averlo portato nella foresta. Nella ripresa del poeta romanesco Trilussa (1871-1950), chi è cambiato è invece l'agnello, che s'è fatto furbo e raggiunge il lupo solo quando lui non avrà fame.

Fabula I 15: Quando cambia il governo, molto spesso per i poveracci non cambia nulla se non il modo d'essere del padrone. Che sia vero lo indica questa piccola favoletta. Un vecchio pauroso faceva pascolare in un prato il suo asinello. Atterrito dall'improvviso gridare dei nemici, esortava l'asino a fuggire per non lasciarsi prendere. Ma quello, senza fretta: "Dimmi, credi che il vincitore mi metterà addosso due basti?". Il vecchio rispose di no. "Allora, purché mi si carichi di un unico basto, cosa mi importa chi devo servire?".

Questa favola nega la speanza in un cambiamento e suona come un invito alla rassegnazione. La situazione ricorda il coro dell'Adelchi: "Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti" e la lirica Der Radwechesel ("Il cambio della ruota") di Bertol Brecht (1898-1956), a proposito dei cambimenti del comunismo dopo la morte di Stalin nel 1953.

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PERSIO (Volterra, 34 - 62)

Di Persio una biografia medievale sembra risalire al grammatico Valerio Probo. Nato da una famiglia equestre, orfano di padre a sei anni, studia a Roma presso Anneo Cornuto, è amico di Lucano e Cesio Basso; parente e ammiratore di Trasea Peto, leader dell'opposizione e autore di una vita di Catone Uticense, muore prima della congiura per una malattia allo stomaco.

Della sua prima produzione (una tragedia, un carme di viaggio e un elogio di Arria Maggiore, suocera di Trasea Peto) è perso tutto: restano sei satire in esametri, riviste da Cornuto (che sconsiglia la pubblicazione delle altre opere) e pubblicate da Cesio; come prologo sono 14 coliambi, in cui si dichiara poeta rozzo (semipaganus) e prende le distanze da chi è poeta per avidità. Questi i temi delle satire:

I. attacca i poeti del suo tempo, che non hanno niente da dire e mirano a ottenere facili consensi.II. sostiene che la preghiera dev'essere pura e non limitarsi a richieste di aiuto.III. la cattiva educazione alleva giovani schiavi delle passioni, come il "giovin signore".IV. a proposito del precetto delfico "Conosci te stesso", mette in scena un dialogo tra Socrate e Alcibiade, nella cui figura si allude a Nerone. Obiettivo polemico sono i funzionari che non conoscono i propri difetti. V. ringrazia il maestro, Cornuto, e illustra il tema della libertà come controllo delle passioni.VI. la satira, indirizzata a Cesio Basso, tratta della moderazione necessaria nell'uso delle ricchezze.

La sua giovane età e l'estraneità a preoccupazioni materiali spiegano l'atteggiamento risentito verso una realtà che il poeta conosce solo limitatamente e verso ogni compromesso: la sua poesia, in effetti, non va oltre l'esercizio letterario e una contestazione fine a se stessa. I suoi lettori (che appartengono all'opposizione senatoria) devono conoscere lo stoicismo per decifrare le ambiguità del suo stile. La sua raffinatezza vuole demistificare le apparenze della realtà sociale e recuperare, attraverso lo straniamento, la verità sotto la pelle delle cose e delle persone (detrahere pellem, come scriveva Orazio di un altro poeta satirico, Lucilio). Per ottenere quest'effetto, P. associa in iuncturae pungentissime (la callida iunctura oraziana diviene acris) termini lontani o appartenenti a categorie linguistiche diverse: ad es. accosta la lingua dotta e quella popolare, come nella prima satira, là dove, nel dialogo con un partigiano della poesia filogreca di moda, ricorre al lessico del corpo e del sesso per rivelare la corruzione del gusto.

Al di là del contenuto concettuale (il rifiuto di una poesia prezzolata), i versi del prologo sono un esempio dello stile difficile di P. Anche l'impiego del metro è indice di una volontà di rottura: il coliambo o scazonte è un giambo zoppicante, cioé un trimetro giambico con l'inversione delle quantità dell'ultimo piede. Forte è

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l'immagine centrale deI cattivi poeti (e anche delle cattive poetesse) che lavorano su commissione, come gli uccelli ammaestrati ripetono le parole per ottenere un po' di cibo.

Choliambi: Non bevvi dall’Ippocrene [sull'Elicona, sede delle Muse], né mi sembra d'aver dormito sul doppio Parnaso [altra sede delle Muse], così da diventare rapidamente poeta. E lascio le Muse e la pallida Pirene [altra fonte] a quelli le cui immagini lambiscono attorte edere [cioé gli scrittori più famosi]. Io mezzo paesano [semipaganus] porto i miei versi alla sagra dei vati. Chi insegna a dire salve al papagallo e alle piche [gazze ladre] il tentare le nostre parole? Maestro d'arti e datore d’ingegno il ventre, un artista nell'imitare voci innaturali. Poiché se brilli speranza del denaro ingannatore, ti capiterà di credere che poeti corvi e poetesse gazze stiano cantando il nettare di Pegaso [l'acqua delle fonti ispiratrici di poesia].

La satira III è diretta contro chi conduce una vita di solo piacere, indifferente ai precetti della filosofia. Il componimento si apre con l'immagine di un giovane vizioso, che, sfiancato dai bagordi della notte, dorme fino a tardi, poi trova scuse per non studiare, mentre un interlocutore lo esorta a coltivare la saggezza e a non contare sulla posizione sociale e sui beni materiali. Similmente, Giuseppe Parini (1729-99) nel Giorno descriverà il risveglio del "giovin signore".

Satira III 1-43: "Sempre la solita storia? già il chiaro mattino entra dalle finestre e allarga con la luce le strette fessure, e continui a russare quanto basti a smaltire il robusto Falerno, mentre la quinta linea è toccata dall'ombra. Ehi, che fai? Già da un pezzo la canicola infuriata cuoce le messi inaridite e ogni gregge è al riparo d'un ampio olmo", dice uno degli amici. "Davvero? è cosi? presto, qualcuno! Nessuno?" Gli si gonfia la vitrea bile: "Mi sento scoppiare" grida quasi ragliassero gli armenti d'Arcadia. Subito brandisce un libro, una rasata pergamena di doppio colore, la carta, il nodoso astile. Allora cominciano i lamenti: l'inchiostro rappreso ristagna sulla penna, il nero di seppia sbiadisce per eccesso d'acqua, è un continuo gemito per la cannuccia che semina gocce."O meschino, e ogni giorno più meschino, a ciò siamo giunti? Ma perché piuttosto, al pari d'un tenero piccioncino e dei figli dei ricchi non chiedi la pappa a bocconcini, e bizzoso non ti quieti neppure alla ninnananna della balia?""Studiare con questa penna?". "A chi lo racconti? Perché canticchi codeste storielle? Ci sei tu, in gioco. Il cervello ti si scioglie in acqua. Tutti ti sprezzeranno. Risuona del difetto a percuoterla, e risponde stonata una brocca di creta malcotta. Sei umido e molle fango, ora bisogna affrettarsi a plasmarti con l'instancabile ruota. Certo hai un discreto raccolto di grano dal podere paterno, una saliera tersa e immacolata, cos'hai da temere? - e una padella sicura abitatrice del fuoco. Basta così? o ti si conviene far scoppiare i polmoni di vento, perché millesimo trai il tuo ramo da una genealogia etrusca, o perché drappeggiato nella tràbea saluti il tuo censore? Al volgo le fàlere. Io ti conosco fin sotto la pelle. Non ti vergogni di vivere al modo di quel dissoluto di Natta? Ma egli è inebetito dal vizio e nelle fibre del cuore gli cresce grasso lardo, è irresponsabile, non sa cosa perde, e se affonda non ritorna più a gorgogliare alla superficie delle onde. Grande padre degli dèi, quando un'atroce passione tinta di bollente veleno sfrena la mente dei crudeli tiranni, non punirli in altra maniera che questa: scorgano la virtù, e si sentano marcire per averla abbandonata. O forse più gemettero i bronzi del siculo giovenco, o più atterri la spada che pendeva dai dorati soffitti sulla testa porporata, di chi debba dire a se stesso: "Precipitiamo, precipitiamo fino al fondo", e in sé impallidisca, infelice, mentre ne è ignara la sposa che gli dorme accanto."

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MARZIALE (Bilbilis, Spagna Tarraconese, 40-106)

Resta a Roma per un lungo periodo (64-98); per breve tempo gode dei favori della famiglia del connazionale Seneca, che già nel 65 cade in disgrazia; è amico anche di Giovenale e Quintiliano.Nell'80, per l'inaugurazione del Colosseo sotto Tito, compone un libro di una trentina di epigrammi (Liber de spectaculis) dedicati all'imperatore da cui ottiene lo ius trium liberorum. Da Domiziano ha il grado di cavaliere e il tribunato militare. Durante il suo regno (84-85), pubblica i due libri di Xenia (carmi per accompagnare doni) e Apophoreta (carmi per doni ottenuti a sorteggio). Con cadenza annuale dall'86 al 98, pubblica undici libri di epigrammi, cui ne segue un dodicesimo, scritto in Spagna nel 101-102. Frastornato dalla vita frenetica di Roma, nell'87 cerca rifugio a Imola, dove resta per poco tempo per rientrare nella capitale. Si procaccia una casa sul Quirinale e un podere a Nomento (oggi Mentana), ma la nostalgia di casa e il fatto che non riesce a ingraziarsi Nerva e Traiano (era troppo recente il ricordo delle sue adulazioni verso Domiziano) lo consigliano a tornare a Bilbilis, grazie a Plinio il Giovane che gli paga il viaggio; in questo periodo è mantenuto dalla ricca vedova Marcella, che gli regala un podere e una casa.

L'epigramma è già attestato nella lirica greca arcaica: si tratta di un'iscrizione posta su tombe, ex voto e doni, legata a occasioni spesso pubbliche; tuttavia, il genere si presta a infiltrazioni individuali; spesso è fittizio e il suo metro è il distico. Epigrammi sono, in ambito latino, le nugae di Catullo, con il quale diviene dominante la componente soggettiva. Ma, se il poeta di Sirmione considerava poco importante questa sezione all'interno del canzoniere, Marziale fa dell'epigramma un genere assoluto e questa ambizione di universalità si rispecchia in una minore restrizione metrica (prevale però il distico) e anche in una scelta di temi di maggiore impegno (confessioni, spunti di polemica, denuncia di vizi, dichiarazioni di principio, idealizzazione dei valori semplici della vita di campagna).

Contro il poema epico, rivendica l'imitatio vitae e la virtù della brevità (nostra pagina hominem sapit). Nelle raccolte è concentrato su aspetti concreti e predilige dettagli di cronaca spicciola. Della città compaiono squallide figure di poeti e filosofi, signore e avari: una società osservata con candore e crudeltà. Lo si accusa di dipingere un quadro troppo basso e lui si difende: lasciva est pagina, vita proba. La moralità dello scrittore sta quindi, secondo M., nella sincerità. Gli manca l'impassibilità di Petronio davanti alla realtà del suo tempo: i suoi atteggiamenti risentiti sono quelli di un uomo non realizzato, che, però, preferisce il sorriso all'indignazione di Giovenale.

Generalmente, nei suoi epigrammi si distinguono una parte descrittiva o narrativa, che presenta una situazione, e una battuta finale inattesa (aculeus o fulmen in clausula). La lingua che M. usa è sempre realistica, legata ad una vis comica densa e alla curiosità per l'umano: questi caratteri sono probabilmente dovuti alla recitatio degli epigrammi che, per riuscire di successo, dovevano

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essere brevi, vivaci e sorprendenti.

La campagna per M. è, come per molti poeti che lo precedono, un locus amoenus (si lamenta di vivere in una casa sulla strada, senza un parco che lo isoli dalla vita cittadina, perchè non riesce a dormire), ma il poeta arricchisce il motivo con l'opposizione tra ricchezza e povertà. Il ricco, infatti, sta bene anche in città: il povero cittadino è invece tediato dai rumori e dall'incalzare di una folla ossessiva.

Epigrammi XII 57: Tu chiedi perché spesso io mi ritiri nel mio arido campo di Nomento ed al trasandato focolare della mia casa rustica? A Roma per un povero, qual io sono, dormire o pensar non è concesso, o Sparso. Al mattino i maestri elementari mi rendono la vita insopportabile, di notte è la volta dei fornai, per tutto il dì non ti concede pace il lungo martellar dei calderai. Da una parte un cambiavalute sfaccendato scuote il tavolo sudicio del mucchio di monete di Nerone; dall'altra il battitore del minerale aurifero di Spagna batte il sasso già ridotto in pezzi col lucido mazzuolo, né cessa un sol momento di vociare la fanatica turba di Bellona, né il naufrago ciarliero dal fusto tutto avvolto nelle fasce, né il Giudeo dalla madre ammaestrato cessa di questuare e grida a perdifiato quel cisposo che vende zolfanelli. Chi mai potrebbe numerare i danni di un languido sonno? Quegli dirà quante mani battano in città vasi di bronzo quando la luna tormentata battuta dalla magica ruota della Colchide. Tu, Sparso, ignori queste noie, né puoi saperle, dedito ai piaceri nelle vaste tenute di Petilia; a te una casa comoda dall'alto fa contemplar le sommità dei monti ed a Roma possiedi un gran podere con un assiduo vignaiol romano e dove la vendemmia si protrae più a lungo che sul colle di Falerno. La tua casa ha un ingresso così grande che consente il passaggio a una carrozza; tu prendi sonno in un intimo recesso, indisturbato da ciarliere lingue e hai la luce del dì quando la vuoi. Son svegliato dal riso dei passanti e mi sta tutta Roma al capezzale. Ogni volta che, stufo dei fastidi, mi piace di dormire, me ne vado difilato al mio podere.

M., tornato nel paradiso della sua patria (98), non trova la serenità agognata: le beghe di paese e la nostalgia di Roma colmano di amarezza gli ultimi anni di vita del poeta. In questo epigramma rivolto a Giovenale, tuttavia, la gioia del ritorno è piena e prende corpo nell'opposizione tra le piccole soddisfazioni della vita rurale e la tristezza dei lunghi anni passati nella capitale.

Epigrammi XII 18: Mentre tu forse, Giovenale, t'aggiri senza pace per la chiassosa Suburra, o percorri su e giù il colle di Diana regina, o mentre la toga inzuppata di sudore ti fa vento sulle soglie dei potenti e ti sfiancano nel tuo girovagare il grande e il piccolo Celio, mi ha accolto la mia Bilbili, fiera del suo oro e del suo ferro, ritrovata dopo molti inverni, e ha fatto di me un contadino. Qui coltivo con pigro e lieve impegno Boterdo e Platea (questi sono i nomi rozzi della terra dei Celtiberi) e mi godo dei sonni profondi, vergognosamente lunghi, che spesso nemmeno l'ora terza interrompe, rifacendomi così per intero di un trentennio di veglie. La toga è un'illustre sconosciuta, ma se la chiedo mi danno una veste che sta a portata di mano su una poltrona sgangherata. Quando mi alzo, mi accoglie un fuoco alimentato da un bel mucchio di legna del vicino querceto, cui fanno corona un bel po' di pentole della fattoressa. Poi arriva il cacciatore, uno di quelli che ti piacerebbe avere in qualche recesso d'un bosco; l'imberbe fattore distribuisce cibo ai ragazzi e li prega di tagliarsi i lunghi capelli. Così voglio vivere, così morire.

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GIOVENALE (Aquino, 55 - 130)

Vissuto a Roma come professore, avvocato e, morto Domiziano, poeta satirico, cliente come Marziale (ha un podere ad Aquino, case a Roma e Tivoli), è forse esiliato in Egitto da Adriano con un comando militare. Scrive 16 satire in esametri, divise in 5 libri, le quali hanno lo stesso campo degli epigrammi di Marziale, trattando dei vizi della società. Qui di seguito gli argomenti di ciascun componimento:

* I -- è il manifesto programmatico della sua poetica, nel quale polemizza contro i generi alti (tragedia, poema epico), che mancano di referente oggettivo e non sono realistici. Affrontare la realtà esclude il distacco dalla materia che il poeta "classico" trasforma in bellezza artistica: a dettargli i versi non è la dimensione estetica, ma l'indignazione (facit indignatio versus). Alla fine, G. conviene con un interlocutore che è più sicuro parlare dei morti. Per cautelarsi, dunque, indirizza i suoi strali verso le generazioni passate ("scoperchierò le tombe della via Appia"). Probabilmente si parla di morti, sottintendendo che i vivi non sono diversi.

* II -- G. descrive l'ipocrisia di uomini corrotti che affettano antiche virtù o si mascherano da filosofi. Anche una cortigiana, Larronia, li giudica severamente, perché almeno non nasconde i propri vizi. I pervertiti, invece, si vestono da donna in pubblico.

* III -- il poeta dà l'addio all'amico Umbricio, che lascia Roma per evitare i disagi di una metropoli corrotta e pericolosa. Ormai la capitale è una Graeca urbs, nella quale non si può uscire di notte, perché si è rapinati, soprattutto se si è poveri.

* IV -- un liberto arricchito ha speso una somma enorme per una triglia che mangerà da solo. Su questo spunto si innesta la narrazione di una seduta dei consiglieri di Domiziano (adombrato nella perifrasi calvus Nero) convocati in fretta per decidere della cottura di un rombo di enormi dimensioni che un pescatore ha recato in dono. La scena termina coi consiglieri che decidono di costruire una teglia abbastanza grossa.

* V -- G. dialoga con un cliente, che racconta d'essere stato invitato a cena dal suo patrono: rispetto agli ospiti di riguardo, egli è trattato peggio, perfino nel servizio (gli è destinato uno schiavo magro). Il poeta insinua che il patrono si comporti così solo per godersi lo spettacolo delle sue sofferenze.

* VI -- per distogliere un amico dall'idea del matrimonio, G. descrive a quale corruzione le donne siano giunte, sedotte dagli esempi della letteratura greca e dal desiderio di apparire sofisticate; il poeta offre un efficace ritratto di Messalina, moglie di Claudio: una volta sfidò in gara la più celebre prostituta dell’epoca e la vinse avendo 25 rapporti in 24 ore (lassata viris, nondum satiata, recessit "stanca, ma non sazia, smise"). La disapprovazione si estende a tutte le donne che non rispettano il modello della matrona dei tempi della repubblica, quindi anche alle

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donne troppo colte o desiderose di avere un ruolo nella società.

* VII -- la decadenza della cultura è legata alla crisi dei costumi e alla mancanza di mecenati. Stazio deve vendere un suo poema inedito ad un mimo. Sola speranza ormai è l'intervento dell'imperatore (forse Adriano).

* VIII -- la nobiltà di nascita è un falso valore: Cetego e Catilina con le loro azioni indegne hanno trascinato la loro famiglia nel fango, un homo novus senza antenati ha guadagnato gloria imperitura opponendo alla loro corruzione le virtù italiche.

* IX -- Nevolo è un gigolo che si guadagna da vivere soddisfacendo gli appetiti dei ricchi e all'occasione delle loro mogli. Si lamenta comicamente della propria condizione soggetta agli sbalzi d'umore dei suoi "patroni" e vagheggia un improbabile mutamento di fortuna.

* X -- G. esorta gli uomini a chiedere agli dei solo mens sana in corpore sano. Potere, ricchezza, fama, bellezza sono solo beni apparenti, spesso causa di rovina Lamenta la vita miserabile dei poveri, fissando le aspirazioni della plebe romana nella formula sarcastica panem et circenses.

* XI -- G. invita l'amico Persico ad una cena in una sua casa in campagna: non si aspetti lusso o sfarzo rovinoso, né danzatrici seminude, ma letture da Omero e Virgilio e piacevoli conversari; poi, un bagno di sole e un salto alle terme, piaceri da godere con moderazione.

* XII -- G. sta per celebrare con un sacrificio la salvezza insperata di un amico naufragato non perché spera di ereditare da lui (ha già tre figli), ma per amicizia. Nessuno ormai conosce questo sentimento, tutto si fa per interesse.

* XIII -- consola un amico truffato, dissuadendolo dai propositi di vendetta e ricordandogli che la corruzione pervade la società. Chi ruba non crede agli dèi o si convince che non si interessino a lui, ma, se gli capita un malanno, lo assale la paura della punizione. Il rimorso, non la vendetta, è la prova che gli dèi non sono ciechi e sordi.

* XIV -- i vizi della società nascono in famiglia: i genitori non insegnano ai figli le regole della vita sociale e li esortano solo a conseguire successo.

* XV -- quando G. si trova in Egitto, assiste ad un terribile conflitto in cui uno degli sconfitti è sbranato e divorato; l'episodio di cannibalismo offre lo spunto per una polemica contro i fanatici religiosi.

* XVI -- G. elenca ad un amico i vantaggi della vita militare: in particolare, chi vuole testimoniare contro un soldato deve aver coraggio a sfilare davanti a tutti i suoi commilitoni.

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Molti degli elementi della satira di G. ricordano i cliché della diatriba stoico-cinica, come ad es. l'idea che i beni esteriori siano indifferenti in vista del conseguimento della felicità. Ma, rispetto alla tradizione, G: ribalta il disprezzo della ricchezza e mostra come la povertà non sia affatto un bene. Da questo tema, prende avvio la protesta del poeta, convinto che dietro ogni patrimonio ci sia un delitto o una colpa, nonostante i quali il ricco si gode tranquillo il benessere.Il suo coinvolgimento morale è così forte da impedirgli il sorriso, tanto che la satira di G. appare insistente, spietata, espressionistica. Il poeta è ostacolato nella sua comprensione del presente, perché non sa liberarsi di una cultura aristocratica individualistica, dove non c'è posto per forze sociali nuove. La sua protesta, del resto, si arresta alla denuncia o idealizza talora un passato in cui le sperequazioni erano più dolci.

Satira IV 37-55, 130-154: davanti ad Ancona un pescatore trova un enorme pesce. Le coste sono piene di spie e i legulei potrebbero dimostrare che tutto ciò che sta nel mare appartiene a Domiziano. Il pescatore è quindi costretto a donare il pesce all'imperatore. Egli convoca il senato perché si deliberi se tagliare a pezzi il pesce o se adottare un'altra soluzione. "Era il tempo in cui l'ultimo dei Flavi vessava il mondo intero e Roma era succube di un Nerone calvo. Davanti al tempio di Venere, che in Ancona domina la rocca dorica, un rombo di dimensioni enormi per il nostro Adriatico incappò nelle reti e tutte le riempì con la sua mole. Impigliato, mostrava una grandezza degna di quelli che la palude Meotica ricopre con i suoi ghiacci e che poi, sciolti questi dalla vampa del sole, trascina sino alle bocche impetuose del Ponto, intorpiditi dal letargo e impinguati dal lungo gelo.Il padrone del peschereccio e della rete destina questa meraviglia a Domiziano, pontefice massimo. E chi mai avrebbe osato venderla o comperarla con tutta la spiaggia piena di spie? I guardacoste, appostati dovunque, avrebbero di certo querelato il povero barcaiolo, pronti a giurare che era un pesce fuggito dai vivai dell'imperatore, dove a lungo s'era nutrito, e che essendo da questi evaso, doveva tornare al primitivo padrone. Se gli dai retta, per Palfurio ed Armillato qualsiasi cosa preziosa e leggiadra si trovi in mare, ovunque nuoti, è proprietà del fisco. Perché non sia sprecata, gliela si deve dunque dare.Il mortifero autunno ormai cedeva alla brina, gli infermi s'auguravano la febbre quartana, strideva lugubre l'inverno mantenendo fresca la preda. Ma il pescatore, come incalzato dall'Austro, s'affretta. E quando gli apparvero i laghi ai piedi di Albalonga, che, sebbene in rovina, conserva ancora il fuoco venuto da Troia e venera una sua piccola Vesta, la folla stupefatta per un poco gli ostacolò l'ingresso. Ma poi gli fece largo, si spalancarono le porte girando docili sui cardini; e i senatori guardano da fuori quella ghiottoneria entrare.Giunto ai piedi dell'Atride, il Piceno: 'Accetta', dice, 'questa preda troppo eccelsa per focolari di gente comune. Festeggia questo giorno. Avanti, sgombra il tuo ventre d'ogni fardello e màngiati questo rombo che il fato destina alla tua era. Volle lui farsi pescare!'. V'è piaggeria più smaccata? Ma quello drizza la cresta. Non c'è lode che un uomo, reso dal suo potere simile agli dei,non creda per sé vera e doverosa.Ma non v'è padella che contenga quel pesce. Si chiamano a consiglio i maggiorenti, che lui, Domiziano, odiava, quelli che in viso recano impresso lo sgomento per quell'augusta e nefasta amicizia."

"'Qual è allora la sentenza? Tagliarlo a pezzi?' 'Lungi da lui questo affronto', grida Montano, 'si trovi piuttosto una padella profonda che col cerchio dei suoi orli sottili lo contenga tutto. Un grande e sorprendente Promèteo ci vuole per questo piatto. Argilla e tornio, qui, presto: da oggi i vasai ti seguiranno, Cesare, fin sui campi di guerra!' Proposta vincente, ben degna di tal uomo. Montano conosceva a menadito il tradizionale sfarzo della corte imperiale e le notti di Nerone protratte sino all'alba, quando le trippe, arse dal Falerno, rinnovano la fame. Nessuno ai miei tempi lo superava nell'arte di mangiare: al primo assaggio sapeva dirti se un'ostrica proveniva dalle scogliere del Circeo, da quelle del lago Lucrino o dai fondali di Rutùpie; a prima vista indovinava la spiaggia di un riccio.Tutti in piedi, seduta sciolta. Ordine di andarsene ai dignitari, che il sommo duce aveva convocati tremebondi e in gran fretta nella rocca d'Alba, come se volesse discutere dei Catti o dei minacciosi Sigambri, come se da terre lontane gli fosse giunto per corriere un messaggio angoscioso.Oh, se avesse speso solo in queste sciocchezze la sua vita efferata! No, senza che nessuno lo punisse o mai si vendicasse, svuotò Roma di anime insigni, di uomini famosi. Solo quando cominciò ad averne terrore il popolo, cadde: questo gli fu fatale, mentre ancora grondava del sangue dei Lami. "

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L'età di Adriano e degli Antonini (117-192)

Il quadro storico.Il II sec. d.C. è il periodo di maggiore prosperità dell'impero romano in quanto domina la pace e vige il sistema di adozione nella successione imperiale: salgono al trono principi capaci in ambito militare e diplomatico:- Adriano (117-138): consolida le conquiste precedenti, costruisce il vallo di Adriano in Britannia e distrugge Gerusalemme;- Antonino Pio (138-161): assicura un ventennio di benessere e pace, concedendo sgravi fiscali e reprimendo il malgoverno;- Marco Aurelio (161-180): filosofo stoico, combatte sui confini imperiali contro i Goti, i Sarmati e i Parti;- Commodo (180-192): figlio di Marco Aurelio, impone un governo autoritario e dispotico.

Il contesto culturale.L'età degli Antonini, pacifica e senza tensioni, è povera nella produzione culturale: la corte imperiale ha un ampio consenso; prendono il via processi di integrazione, facilitati dalla scuola e da testi divulgativi: non a caso la classe dirigente è ormai quasi interamente originaria delle province e gli intellettuali più rappresentativi (Frontone e Apuleio) sono africani, come i primi scrittori cristiani. La letteratura, frivola e superficiale, ristagna nell'esaltazione del passato e registra una prevalenza dell'intrattenimennto. La poesia serve al consumo effimero (restano i versi leziosi di Adriano e i pochi carmi di Floro su temi banali); la prosa registra uno sviluppo della declamazione, che risente del modello greco della seconda sofistica. Questo movimento letterario ha in comune con la prima sofistica il culto della parola; d'altra parte, rispetto ad essa non ha interessi filosofici, né aspira a guidare la politica, anche se talora i suoi rappresentanti assumono un atteggiamento predicatorio. D'altra parte, essa investe tutto l'impero, rendendolo omogeneo culturalmente, tant'è che letterati romani e greci hanno rapporti stretti: i Greci spesso vengono a Roma e i Romani sono diglottoi.

Caratteristico del periodo è l'atteggiamento verso la lingua: davanti ad un greco imbastardito, diventato koiné, i rappresentanti della seconda sofistica auspicano un ritorno all'antico dialetto attico. A Roma vi è un movimento analogo, detto arcaismo, che individua i propri modelli, morali e di stile, in Catone il Censore e negli oratori arcaici di età repubblicana. Il suo più importante rappresentante è l'africano Frontone, senatore sotto Adriano, consul suffectus sotto Antonino (143), poi maestro di retorica di Marco Aurelio e Lucio Vero. Di lui restano frammenti, soprattutto dall'epistolario, scoperti nel 1815 in un codice palinsesto da Angelo Mai. Interessante è anche la figura del conferenziere itinerante Floro, amico di Adriano, con cui scambia poesie di argomento leggero. Dovrebbe essere l'autore di un manuale storico (Bellorum Romanorum libri II), che sembra un'epitome dell'opera di Livio. Accantonato l'impianto annalistico, Floro offre una sintesi dell'avventura di Roma (dalla sua fondazione all'impero di Augusto), facendo

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collimare le sue tappe con presunte età del popolo romano, modellate su quelle dell'uomo. Lo schema biografico accomuna in un giudizio negativo due secoli di storia imperiale, ma tale giudizio è corretto con l'affermazione che con Traiano l'impero conosce una nuova gioventù.

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APULEIO (Madaura, oggi Mdaurusch, Algeria, 125 - Cartagine?, 170 ca.)

Mago, scienziato della natura e filosofo medioplatonico, conferenziere itinerante, compie il suo apprendistato a Cartagine (grammatica e retorica) e ad Atene (geometria, musica, poesia, dialettica), dove rispettivamente è iniziato a Asclepio e ai misteri eleusini. In Egitto è iniziato a Iside. A Cartagine, è, infine, eletto sacerdote del culto dell'imperatore. Sotto il nome di Florida, sono pervenute 23 declamazioni da lui tenute soprattutto a Cartagine: si va dagli elogi di personaggi autorevoli o di oggetti (es. un pappagallo) a temi filosofici. Sono persi gli scritti di filosofia naturale (De piscibus, De re rustica...), ma la sua fama come naturalista e medico facilita la diffusione di scritti attribuitigli falsamente. Veri sono De deo Socratis (l'universo è popolato da potenze divine intermedie, i demoni, che riempiono lo spazio tra terra e etere e presiedono ai rapporti fra dei e uomini; sono tre i tipi di demoni: le anime incarnate, quelle disincarnate con funzioni protettive come i Lari, quelle senza legami corporei come Sonno e Amore), De Platone et eius dogmate (dopo una biografia leggendaria del filosofo, sintetizza la sua dottrina fisica ed etica servendosi dei Dialoghi), De mundo (rifacimento dello pseudo-aristotelico Perì kosmou, muove dalle scienze naturali per spingersi all'indagine delle forze costitutive dell'universo).

Di un episodio fondamentale della sua esistenza, ci dà lui stesso notizia nell'Apologia (o De magia liber), in 2 ll., l'unica orazione giudiziaria di età imperiale giuntaci. Questo l'antefatto: mentre sta andando da Cartagine ad Alessandria, il trentenne A. incontra a Oea (Tripoli) un antico compagno di studi ad Atene, Ponziano, che lo convince a sposarsi la madre, la ricca vedova Pudentilla, per metterla al riparo dei cacciatori di dote. Pochi anni dopo muore Ponziano, sobillato dal suocero Erennio Rufino contro A., i parenti della donna per tutelare il fratello minore Pudente trascinano A. in tribunale per aver ricorso ad incantesimi per irretire la vedova e assicurarsi l'eredità. Il processo si celebra a Sabràtha (Tripolitania) nel 158/9, di fronte al proconsole Claudio Massimo. L'accusa di magia esponeva il reo alla pena di morte, perché il diritto la assimilava agli avvelenamenti (Lex Cornelia de veneficiis) L'orazione, da lui scritta per difendersi, viene poi rimaneggiata e pubblicata dopo l'esito del processo, che probabilmente A. supera brillantemente: così si spiegano l'ironia e la sicurezza delle sue parole, oltre al fatto che non menziona le Metamorfosi. Durante il dibattimento, A. ribatte a ogni prova: quando lo si accusa di venerare una statuetta a mò di scheletro, il giovane esibisce la statua, che è di Mercurio, e dichiara la sua devozione in nome della dottrina platonica, maledicendo l'accusatore. Altrove, si difende proclamandosi filosofo, quando gli rimproverano l'interesse per strani pesci o le cerimonie notturne con donne e bimbi in trance. A chi lo accusa di avere uno specchio e di lavarsi con un dentifricio, oppone la sua bellezza mediterranea (che descrive; un prosatore classico non l'avrebbe mai fatto) e la sua voglia di pulizia che è civiltà. Non dice, insomma, di essere un mago, ma nemmeno il contrario e distingue una magia bianca e religiosa da una nera, ch è commercio con le forze del male.Alla fine, con un colpo di teatro, mostra il testamento di Pudentilla, che nomina erede Pudente e ad Apuleio lascia solo un legato.

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L'orazione interessa per le notizie che dà sull'autore e perché è testimonianza di un panorama culturale in cui al gusto frammentario della curiosità si accosta talora l'ansia di recuperare una visione globale e unitaria del reale, non più imbevuta di un fallimentare razionalismo. Emerge in questo contesto l'idea che l'uomo debba, di fronte alle verità parziali che ricostruisce con la propria ragione, debba aspettarsi una rivelazione dall'alto per conquistare la verità. Com'è anticlassico sul piano culturale, così A. lo è su quello stilistico: i classici hanno un superiore dominio dello stile che è signoria sulla materia. Il fatto che la realtà non sia più conoscibile razionalmente si riflette sullo stile, che diventa squilibrato e insolito. A. è barocco, brioso, scintillante, creatore di neologismi e di contaminazioni di genere, assai compiaciuto della propria bravura retorica.

L'opera più importante di A. è Metamorphoseon libri XI, chiamati da Agostino Asinus aureus con riferimento al colore fulvo dell'animale protagonista o al valore letterario dell'opera. Si tratta dell'unico romanzo latino, un genere popolare, adatto ad un pubblico nuovo che cerca di darsi dignità sociale attraverso la cultura. Questa la trama:

I-III: Lucio, studente di Corinto, viaggia verso la Tessaglia per imparare la magia. A Hypata, è ospitato in casa di Milone e della moglie Panfila; avvia una relazione con la servetta Fotide, che gli fa spiare una magia della padrona che, untasi, si trasforma in uccello. Fotide lo aiuta a penetrare nel laboratorio e a provare a diventare gufo. Qualcosa va storto e lui si muta in asino.

[tre novelle di magia introducono all'atmosfera della Tessaglia.]

IV-VII: di notte una banda di briganti lo rapisce; nel covo giunge anche Carite, una fanciulla rapita prima delle nozze. Per confortarla, una vecchia le narra la favola di Amore e Psiche. I briganti sono beffati da Tleopolemo, fidanzato di Carite, il quale riporta la fanciulla a casa. Lucio apprende, più tardi, che i due sono morti tragicamnete.

[l'ultima delle figlie di un re, Psiche, è bellissima. Sua madre la dice più bella di Afrodite, che le manda Amore per farla innamorare di un mostro. Cupido, però, se ne innamora e ne fa la sua amante, facendola vivere in un castello, purché lei non lo veda mai; le sorelle la spingono a vedere se è brutto e una notta Psiche, con una lampada ad olio, si china su Amore che, scottato da una goccia d'olio, la caccia seppur malvolentieri; per riconquistarlo, Psiche affronta varie prove aiutata da lui e alla fine anche dalla madre (grazie a Zeus) ed è assunta in cielo.]

VIII-X: Lucio è venduto a sedicenti sacerdoti, a un mugnaio, a un ortolano, a un soldato, a un cuoco e a una matrona. Alla fine a Corinto nell'anfiteatro dovrebbe accoppiarsi con una donna condannata ad bestias. Atterrito, fugge al porto di Cencrea, dove si addormenta.

[nel l. IX sono raccontate due novelle di adulterio: la seconda, narrata da

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una mugnaia, si articola in tre racconti a incastro; nel l. X appaiono due novelle incentrate sul veneficio e sulla crudeltà femminile e preludono alla redenzione finale.]

XI: Lucio, che ha pregato la Luna, sogna Iside, che gli indica una processione. Il sacerdote che la guida ha un cesto di rose: se ne mangerà, tornerà uomo. La vicenda che segue è la biografia di Apuleio, che è iniziato una prima volta a Iside e inviato a Roma, è iniziato una seconda volta a Iside e Osiride. A Roma, l'ultima metamorfosi: nel sogno del sacerdote che l'accoglie, Lucio si rivela "l'uomo di Medauro", cioé l'uomo invitato da Osiride a dedicarsi all'avvocatura, nonostante i malevoli.

A. si sente vincolato (lo dice aprendo la narrazione) alla tradizione delle fabulae milesie (anzi l'esito dell'intreccio per l'autore è una fabula Graecanica): molte, infatti, sono le novelle raccontate nel romanzo e unite dal racconto-cornice. Quest'ultimo sfrutta materia collaudata dal coevo romanzo greco e da racconti di trasformazioni asinine. Sul tema si conserva, in greco, Lucio e l'asino (attribuito a Luciano di Samòsata, sofista dell'età di Apuleio); secondo il patriarca Fozio (IX sec.), Lucio di Patre avrebbe trattato la stessa storia. A. si ispira forse allo scarso testo coevo per la storia dell'uomo asino, ma la favola di Amore e Psiche e il finale sono originali.La letteratura delle metamorfosi inizia, d'altra parte, con la trasformazione in porci dei compagni di Ulisse (Odissea X) e giunge alle novelle di animali parlanti e alle Metamorfosi di Ovidio. Il tema è fortunato, perché è parte integrante del patrimonio popolare e antico, con radici nella tradizione orale orientale.

Ma il romanzo di A. non è un semplice romanzo, con il compiacimento per la peripezia, i mutamenti di scenario, un affresco sociale. Come dimostra il confronto tra la trama principale e quella della favola di Amore e Psiche, vi è nelle Metamorfosi un senso anagogico: come Lucio, anche Psiche commette un peccato di curiositas, poiché tenta di conoscere umanamente ciò che le è negato: all'esperienza superiore della conoscenza s'accede solo attraverso prove espiatrici e sublimatrici, grazie a cui si ottiene, alla fine, l'unione dell'anima con Dio. Dopo la caduta nel peccato (animalità, sensualità, curiosità) e la punizione (viaggio in un inferno dove l'umanità è degradata), l'uomo riesce a giungere in Paradiso. Il riscatto, però, non è alla portata di tutti: Socrate (incontrato da Lucio in Tessaglia e ucciso dalla maga) e Carite moriranno. Il numero dei libri (11) corrisponderebbe ai gradi di iniziazione a Iside. Quando all'inizio l'autore dice al lettore: lector, intende, laetaberis ("attenzione, lettore, ti divertirai"), egli in realtà vorrebbe significare allusivamente: "riceverai letizia di altro genere".

L'imbestiamento del protagonista ha una duplice valenza: che si muti in un animale inferiore simboleggia la degradazione cui la sua anima va incontro come punizione per la sua curiosità e per il suo indulgere al piacere sessuale. L'asino è, nella teologia di Iside, simbolo di Seth, uccisore di Osiride, mentre nella dottrina platonica è figura della carnalità. Lucio, d'altra parte, conserva intelletto e sensibilità umani con il risultato d'essere escluso dalla comunità umana ed anche

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da quella animale.Metamorfosi III 24-26: Dopo avermi ripetuto più volte tali assicurazioni, entrò tutta emozionata in quella stanzetta e prese dallo scrigno il vasetto. Come io l'ebbi fra le mani me lo strinsi al petto e cominciai a baciarlo pregando che mi facesse fare voli felici, poi, liberatomi in fretta di tutti i vestiti, immersi avidamente le dita nel barattolo e preso un bel po' di unguento me lo spalmai su tutto il corpo. Poi, agitando le braccia su e giù mi misi a fare l'uccello, ma niente: penne non ne spuntavano e nemmeno piume; piuttosto i peli cominciarono a diventare ispidi come setole, la pelle, delicata com'era, a farsi dura come il cuoio, alle estremità degli arti le dita si confusero, riunendosi in una sola unghia e in fondo alla colonna vertebrale spuntò una gran coda. Poi eccomi con una faccia enorme, una bocca allungata, le narici spalancate, le labbra penzoloni, mentre smisuratamente pelose mi erano cresciute le orecchie. Nulla in quell'orribile metamorfosi di cui potessi per qualche verso compiacermi, se non per il mio arnese diventato grossissimo, ma proprio quando, ormai, non potevo più tener Fotide tra le mie braccia. Guardandomi tutte le parti del corpo e vedendomi diventato asino e non uccello sentii d'essere rovinato. Mi venne voglia di prendermela con Fotide per questo bel guaio, ma privo ormai del gesto e della voce, feci quel che potevo: chinai il muso e guardandola di traverso con gli occhi umidi mi raccomandai a lei in silenzio. Quand'ella, intanto, mi vide in quello stato, cominciò a picchiarsi il viso e: «Disgraziata che sono» cominciò a gridare «l'emozione e la fretta mi hanno tradita e mi ha ingannata la somiglianza dei vasetti. Meno male che per questa trasformazione è presto trovato il rimedio. Basta che tu mastichi delle rose e subito ti toglierai di dosso questo aspetto d'asino e tornerai il mio Lucio. Peccato che ieri sera non ho preparato per noi le solite coroncine di rose perché allora non avresti dovuto aspettare nemmeno una notte. Appena spunta l'alba, però avrai subito la medicina.» Così ella si disperava ed io benché asino perfetto, un quadrupede al posto di Lucio, conservavo la sensibilità umana. Così stetti a lungo a chiedermi se avessi dovuto uccidere a furia di calci e di morsi quella disgraziata e malvagia femmina; ma da questo proposito avventato mi distolse una considerazione più sensata e cioè che se avessi punito Fotide con la morte, mi sarei tolta da me ogni possibilità di aiuto. Così a testa bassa e ciondoloni e mandando giù la momentanea umiliazione, nonché rassegnandomi a quel tristissimo accidente, me ne andai vicino al mio cavallo che così zelantemente mi aveva portato fin lì, nella stalla, dove trovai anche un altro asino, appartenente a Milone, un tempo mio ospite. Intanto io pensavo che se tra gli animali, privi come sono di parola, esiste un tacito e istintivo senso di solidarietà, quel mio cavallo, riconoscendomi e avendo pietà di me, mi avrebbe dato ospitalità e lasciato ch'io occupassi il posto migliore. E, invece, per Giove ospitale, per le segrete divinità della Fede, quella mia illustre cavalcatura e quell'asino, annusandosi, si misero subito d'accordo ai miei danni e, appena videro che io mi avvicinavo alla greppia, preoccupati per il cibo, a orecchie basse, infuriati, mi accolsero con una tempesta di calci. Così fui tenuto bene alla larga da quell'orzo che io stesso, la sera prima, con le mie mani, avevo posto davanti a quel mio riconoscente servitore.

L'episodio del primo disvelamento di Amore a Psiche è raccontato con studiata lentezza, soprattutto quando la narrazione si ferma per la descrizione di Amore addormentato, svolta dal punto di vista della fanciulla. Tra gli espedienti usati per accentuare l'atmosfera fantastica, è l'antropomorfizzazione degli oggetti, come la lucerna o il pugnale, che sfugge alla ragazza, che medita il suicidio.Metamorfosi V 22-23: Allora a Psiche vennero meno le forze e l'animo; ma a sostenerla, a ridarle vigore fu il suo stesso implacabile destino: andò a prendere lalucerna, afferrò il rasoio e sentì che il coraggio aveva trasformato la sua natura di donna. «Ma non appena il lume rischiarò l'intimità del letto nuziale, agli occhi di lei apparve la più dolce e la più mite di tutte le fiere, Cupido in carne e ossa, il bellissimo iddio, che soavemente dormiva e dinanzi al quale la stessa luce della lampada brillò più viva e la lama del sacrilego rasoio dette un barbaglio di luce. «A quella visione Psiche, impaurita, fuori di sé sbiancata in viso e tremante, sentì le ginocchia piegarsi e fece per nascondere la lama nel proprio petto, e l'avrebbe certamente fatto se l'arma stessa, quasi inorridendo di un così grave misfatto, sfuggendo a quelle mani temerarie, non fosse andata a cadere lontano. «Eppure, benché spossata e priva di sentimento, a contemplare la meraviglia di quel volto divino, ella sentì rianimarsi. «Vide la testa bionda e la bella chioma stillante ambrosia e il candido collo e le rosee guance, i bei riccioli sparsi sul petto e sulle

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spalle, al cui abbagliante splendore il lume stesso della lucerna impallidiva; sulle spalle dell'alato iddio il candore smagliante delle penne umide di rugiada e benché l'ali fossero immote, le ultime piume, le più leggere e morbide, vibravano irrequiete come percorse da un palpito. «Tutto il resto del corpo era così liscio e lucente, così bello che Venere non poteva davvero pentirsi d'averlo generato. Ai piedi del letto erano l'arco, la faretra e le frecce, le armi benigne di così grande dio. «Psiche non la smetteva più di guardare le armi dello sposo: con insaziabile curiosità le toccava, le ammirava, tolse perfino una freccia dalla faretra per provarne sul pollice l'acutezza ma per la pressione un po' troppo brusca della mano tremante la punta penetrò in profondità e piccole gocce di roseo sangue apparvero a fior di pelle. Fu così che l'innocente Psiche, senza accorgersene, s'innamorò di Amore. E subito arse di desiderio per lui e gli si abbandonò sopra e con le labbra schiuse per il piacere, di furia, temendo che si destasse, cominciò a baciarlo tutto con baci lunghi e lascivi. «Ma mentre l'anima sua innamorata s'abbandonava a quel piacere la lucerna maligna e invidiosa, quasi volesse toccare e baciare anch'essa quel corpo così bello, lasciò cadere dall'orlo del lucignolo sulla spalla destra del dio una goccia d'olio ardente. Ohimè audace e temeraria lucerna indegna intermediaria d'amore, proprio il dio d'ogni fuoco tu osasti bruciare quando fu certo un amante ad inventarti per godersi più a lungo, anche di notte il suo desiderio. «Balzò su il dio sentendosi scottare e vedendo oltraggiata e tradita la sua fiducia, senza dire parola, d'un volo si sottrasse ai baci e alle carezze dell'infelicissima sposa.

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Crisi del III secolo (dinastia dei Severi, 193-284)

Quadro storico. - Settimio Severo: potenzia l'apparato militare- Caracalla: emana la Constitutio Antoniniana (212), con cui estende la cittadinanza a tutti gli abitanti dell'impero.La dinastia dei Severi si estingue con Eliogabalo e Severo Alessandro.

Dopo, si apre il periodo dell'anarchia militare (235-284): il potere è in mano alle legioni, che diventano arbitri nella successione imperiale; intere regioni (Gallie, Asia Minore, Siria) cercano di staccarsi dall'impero. La situazione è aggravata dalle prime invasioni dei barbari, da pestilenze, dalla pressione fiscale, dovuta all'aumento delle spese militari (riforme militari sotto Decio). Nel denario, la moneta comune, per legge scende il tasso d'argento, tanto che con Antoniniano lo stagno supera l'argento: ciò impoverisce le classi medio-basse e s'arricchisce la classe dirigente che si serve della moneta d'oro.

Quadro culturale.

L'atmosfera dominante è quella di un'epoca di angoscia (R. Dodds), un periodo segnato da un radicale pessimismo nella condizione umana, dal senso di una catastrofe imminente, dalla certezza di aver perso ogni punto d'appoggio. Questo stato d'animo si manifesta nella crisi del razionalismo: s'apre la strada all'idea che si deve far appello a forze non razionali, mistiche, per cui l'accesso alla verità è possibile solo con la fede. Nel mondo pagano appare una figura analoga a Cristo, Apollonio di Tiana, protagonista di vari miracoli. Si diffondono vari culti di salvazione (Iside, Mitra), che esorcizzano il disagio prospettando certezze oltremondane.

In questo contesto, si comprende il grande successo del cristianesimo, la cui diffusione deve molto a Paolo di Tarso, forse morto durante l'incendio di Roma; suoi caratteri forti sono: - l'esclusivismo: i cristiani non sono tolleranti verso le altre religioni, a differenza dei pagani;- l'universalità: il messaggio cristiano è aperto a tutti, soprattutto ai poveri, cui è promesso un futuro migliore; non richiede una cultura per essere assimilato;- il rovesciamento della scala dei valori: i beni materiali sono svalutati da una nuova morale fondata sull'amore per il prossimo.Non sono questi i motivi per cui il cristianesimo è perseguitato: prima del 250, in effetti, non vi sono persecuzioni anti-cristiane organizzate dallo stato, ma misure di polizia18. I pagani sono irritati dal rifiuto del culto degli dei e dell'imperatore, dalla tendenza a superare le distinzioni sociali, dalla preferenza per una vita appartata. I loro pregiudizi sono aumentati dalla segretezza dei riti cristiani e dal loro stesso linguaggio: l'uso di chiamarsi fratelli alimenta le voci di rapporti 18 Altri episodi prima del 250: Nerone accusa i cristiani per l'incendio di Roma (64); Tito vince la guerra giudaica e una rivolta ebraica è sedata da Adriano, che fa distruggere il tempo di Gerusalemme: così inizia anche la diaspora ebraica.

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incestuosi; il pasto comune, detto agape, in cui i cristiani mangiano carne e sangue di Cristo, fa parlare di cannibalismo. Nel 250 Decio, che sta per combattere i Goti, preoccupato della coesione interna, bandisce la prima persecuzione anticristiana, ripresa da Valeriano nel 257: l'editto impone ai sudditi di sacrificare all'imperatore, ottenendo una certificazione formale, o libellum. Molti cristiani (lapsi) cedono, altri acquistano il certificato, altri ancora affrontano la morte. Inoltre, i cristiani sono accusati di essere responsabili della crisi, perché gli dei sono irritati e il cristianesimo rammollisce i mores con la sua tendenza al disimpegno.

Mentre la cultura ufficiale pagana è in crisi, nonostante la scuola imperiale garantisca la continuità, nasce la letteratura latina cristiana (fine II sec.). Quella greca s'era sviluppata dalla metà del I d.C. con la composizione dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli. In risposta a questo clima nasce l'apologetica in lingua latina: essa mira a difendere la religione cristiana dalle calunnie popolari, dai giuristi (è contestata la prassi che legittima le persecuzioni dall'interno del diritto romano); dagli intellettuali (resta poco delle contestazioni filosofiche al cristianesimo), ma presenta anche altre finalità, come la lotta contro le eresie, l'istruzione dei neofiti, la propaganda verso gli intellettuali. I primi scrittori latini di quest'area non nascono cristiani, ma hanno una formazione classica da retore. Una componente apologetica è presente nei cosiddetti atti dei martiri, trascrizioni dei verbali dei processi intentati contro questi ultimi. Dopo l'editto di Costantino, agli atti subentrano scritti edificanti: le passioni (opere che narrano prove e supplizi subiti dai protagonisti) e l'agiografia (vite di santi).

Il latino cristiano è una lingua speciale, un mezzo di comunicazione particolare che, pur basandosi sulla lingua comune, da essa si distingue come la lingua di un gruppo. Produce i cosiddetti cristianismi: diretti/ indiretti (se designano o meno concetti cristiani), neologismi lessicali (ad es. prestiti greci, come apostolus, ecclesia; ebraici, come hosanna amen; o neoformazioni, come salvator) e semantici (si tratta di parole che, già presenti nel latino, assumono un nuovo significato nell'uso cristiano: confessio, gratia, dominus). La sintassi mantiene forme classiche, importando isolati semitismi di origine biblica come il genitivo di qualità (terra promissionis, "terra promessa"), il genitivo elativo (canticus canticorum, "il cantico più bello"). All'influsso biblico è dovuta la tendenza alla paratassi.

Il termine eresie indica sette, o chiese parallele, che si distinguono dalla Chiesa ufficiale perché, su uno o più punti della teologia ufficiale, non seguono l'ortodossia. Esse hanno strutture recenti e nascono per un'esigenza di chiarezza: le persecuzioni obbligano il cristiano a farsi conoscere; il mondo romano, ad es., tende a confondere ebrei e cristiani. Le più importanti sono:- l'arianesimo: il prete di Alessandria Ario (256-336), considerando il Figlio creato dal nulla e quindi non coeterno, lo riduce a pura manifestazione del Padre. L'eresia ariana, condannata dal concilio di Nicea (325) e Costantinopoli (381), è assai diffuso; in Occidente i barbari sono conquistati alla fede ariana dal goto Ulfila.

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- l'adozionismo: reputa Cristo un uomo adottato da Dio.- il monofisismo: riconosce a Cristo la sola natura divina.- il nestorianesimo: attribuisce a Cristo due nature e due persone. - il docetismo: riduce l'incarnazione di Cristo all'assunzione di apparenze umane.- il manicheismo: fondato dal persiano Mani (III sec.) con elementi di buddismo, zoroastrismo e messianismo giudaico, cerde che esistano due divinità, una buona e una cattiva, dal cui conflitto risulta il divenire del mondo. - il donatismo: il suo fondatore, Donato, accusa il vescovo di Cartagine Ceciliano e i suoi fedeli di aver consegnato le Sacre Scritture alle autorità durante la persecuzione di Diocleziano (IV sec.). Assai rigorosi, i donatisti si rifiutano di adeguarsi alla conciliazione tra chiesa e impero sancita da Costantino, accogliendo istanze di rivendicazione sociale verso i proprietari terrieri e giustificando gli atti di violenza di bande di proletari e vagabondi detti circumcelliones.- lo gnosticismo: diffuso in tutto il mondo antico (I-II sec.), fonde componenti orientali (zoroastrismo) e neoplatoniche con la dottrina cristiana, cui, d'altra parte, preesistono. Gli gnostici credono che il Dio uno sia tanto perfetto che non può aver creato il mondo, ciò che ha fatto un Dio peggiore (quello dell'Antico Testamento); ipotizzano l'esistenza di divinità minori (eoni), poste tra Dio e gli uomini, in grado discendente (l'ultimo è Cristo). Sostengono che l'uomo può ottenere la redenzione grazie alla gnosi, cioé ad una conoscenza rivelata dall'alto. La facoltà che coglie la gnosi è il pneuma (pneumatici), mentre psiche è l'anima comune a tutti (psichici). La conoscenza permette anche comportamenti peccaminosi, perché dà comunque la certezza della salvezza. - il marcionismo: fondato da Marcione di Sinope (Ponto) (II sec.) e diffuso in Oriente, immagina un contrasto tra Dio giusto dell'Antico Testamento e il Dio buono del Nuovo, che ha sostituito l'amore alla legge. - il montanismo: fondato dal prete frigio Montano e condannato dal concilio di Costantinopoli (381), si dichiara ispirato dallo Spirito Santo e crede in un'imminente fine del mondo, che spinge a praticare un rigoroso ascetismo. Il movimento, infatti, predica la povertà, il digiuno, la castità, perfino l'astensione dal matrimonio. In particolare, ai montanisti fa specie che la Chiesa gestisca denaro. In effetti, davanti alle difficoltà dell'impero, che non riesce a far fronte ad alcune necessità sociali (ad es. riscattare i prigionieri, seppellire i poveri), la Chiesa si sostituisce allo stato e risponde a tali esigenze, creando le prime banche. - il pelagianesimo: fondato dal monaco irlandese Pelagio (V sec.), riconosce all'uomo la capacità di salvarsi dal peccato senza la grazia divina, perché non esiste il peccato originale; ne segue che il battesimo perde di significato.

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MINUCIO FELICE

Definito il Cicerone cristiano, forse è il primo apologeta e maestro di Tertulliano. Di lui si sa, grazie all'unica opera rimasta, l'Octavius, in 40 cc., che è pagano, avvocato a Roma e convertito. Il dialogo, di ascendenza ciceroniana, sembra destinato ai pagani per dimostrare la continuità tra paganesimo e cristianesimo. Tre amici, Ottavio (già morto al momento della stesura del testo), Minucio e Cecilio passeggiano sulle rive di Ostia (l'ambientazione è ricostruita con gusto; è descritto il gioco del rimbalzello): passano davanti a una statua del dio Serapide e Cecilio porta la mano alla bocca in omaggio. Ottavio, da tempo assente e da poco tornato dall'Africa, rimprovera Minucio di non averlo convertito. Inizia un dibattito, di cui è giudice Minucio.

Cecilio, il cui discorso è forse ispirato ad un'orazione di Frontone, attinge al patrimonio filosofico tradizionale, sostenendo il suo scetticismo a proposito delle certezze cristiane sull'esistenza di Dio, problema che non è affrontabile razionalmente e arrivando a conclusioni certe. Conclude dicendo che se si deve credere ad un Dio, allora è meglio restare fedeli a quelli tradizionali, la cui religione è una garanzia di unità dell'impero.

Dopo che Minucio raccomanda di guardarsi dal tumor eloquentiae, Ottavio confuta con tono pacato le accuse: anche gli umili (i cristiani) possono affrontare le questioni religiose, perché la loro mente, non distratta dal denaro e dalla retorica, vede il vero. Assurdo non è il cristianesimo, ma semmai il politeismo, miscuglio di ignoranza, miti e culti immondi; l'impero è frutto della venerazione superstiziosa. I misfatti attribuiti ai cristiani sono consumati dai loro accusatori, che non vivono d'innocenza, amore, castità, concordia. Al termine, Cecilio si dichiara convinto e vinto, ma la sua sconfitta è per lui vittoria di verità.

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TERTULLIANO (Cartagine, Africa Proconsolare, 155/160 - 220)

Biglotta, riceve un'accurata preparazione giuridica ed è avvocato e retore a Roma; si converte, torna a Cartagine e diventa prete nella comunità. A questo periodo (190-200), risalgono le sue prime opere. I suoi scritti possono essere divisi tra apologetici, antieretici, morali.

Nelle opere morali, matura una sua evoluzione verso il montanismo, che addirittura supera nel suo rigorismo, fondando il tertullianesimo, i cui ultimi proseliti torneranno alla chiesa con Agostino. Tra i temi trattati, T. contesta la passione per i giochi circensi (De spectaculis), il lusso nel vestire (De cultu feminarum), la magia e il culto degli idoli (De idololatria), la fornicazione e l'adulterio (De pudicitia). Più interessante il De corona militis (211), che prende spunto da un fatto di cronaca. Un soldato cristiano ha ottenuto, per il suo valore, l'onore di essere incoronato: tuttavia, egli non la vuole, perché dovrebbe riceverla in una cerimonia religiosa, ed è martirizzato. Tenuto conto che nell'esercito erano molti i cristiani così come i cultori di Mitra, la cosa scandalizza la comunità cristiana (che teme nuove persecuzioni). T., in nome d'una coerenza totale, rinnega la leva e perfino la fuga durante le persecuzioni (De fuga in persecutione). Il cristiano è libero nei confronti dell'imperatore (liber sum illi) e quindi deve scegliere di obbedirgli e lo farà solo se quest'ultimo rispetterà i confini della sua libertà: l'autorità, insomma, si legittima in chi la subisce. Altri titoli sono: De oratione (commento al "Padre Nostro"), De baptismo, De paenitentia.

Tra gli scritti antieretici, il De praescriptione haereticorum contesta il diritto degli gnostici di consultare le Scritture con un argomento del diritto romano: la praescriptio longae possessionis. Se teniamo un bene per un certo periodo senza l'opposizione di nessuno, esso diviene nostro. Nell'Adversus Marcionem, T. si oppone all'eretico che sostiene il dualismo tra Dio buono del Nuovo Testamento e Dio giudice severo dell'Antico Testamento. Nel De anima, affronta il problema dell'anima come soffio vitale, contestando la dottrina pitagorica della metempsicosi e quella platonica dell'esistenza dell'anima prima dell'unione con il corpo.

Importanti sono i trattati apologetici: nel De testimonio animae, che anticipa Agostino, si sostiene che ogni uomo, poiché esprime una spiritualità, è predisposto a essere cristiano, perché l'anima è naturaliter christiana: tutti, dunque, sono cristiani, anche senza saperlo, perché si nasce cristiani e poi lo si diventa grazie al contatto con le Scritture. La cultura non cristiana, dunque, non è che una anticipazione di quella cristiana, perché presenta in se stessa verità cristiane, anche se allo stato embrionale. Nell'Ad nationes (197; = "Ai pagani", 2ll.), denuncia l'ingiustizia dei processi a carico dei cristiani; similmente nell'Ad Scapulam (212), indirizzato al proconsole in Africa, persecutore dei cristiani, sostiene che la religione non può essere imposta e che i cristiani sono anche troppo leali nei confronti dello stato romano: la religione è un atto di libera scelta,

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la legge può prescrivere l'azione, ma non può entrare nella vita della coscienza, senza spegnerla.

Il capolavoro di T. resta però l'Apologeticum (197; in 50 cc.), forse la sua prima opera, databile con precisione perché vi si allude a eventi contemporanei, ai governatori delle province (imperii antistites), destinatari di un certo livello culturale (per cui lo stile è alto), depositari di poteri politici e giudiziari (istituiscono i processi). Il trattato ha la struttura di un'orazione: dopo l'esordio e alcuni preliminari giuridici, i capitoli centrali contengono la confutazione delle accuse rivolte ai cristiani: 1. illegalità commesse in privato (incesto, infanticidio, cannibalismo, orge notturne...); 2. illegalità riguardanti la vita pubblica (sacrilegio, lesa maestà, odio verso l'umanità e l'impero). T. ribatte opponendo l'irreligiosità dei pagani al culto dell'unico vero Dio.

T. si domanda da cosa dipende l'odio del mondo pagano verso i cristiani. Poiché di quest'avversione non ci sono motivi nel cristianesimo, essi devono essere nel mondo pagano, nella sua ignoranza. Giacché la logica della cultura classica è quella di una estrema apertura e tolleranza nei confronti di tutti i sistemi filosofi, se i pagani sono completamente chiusi nei confronti del solo cristianesimo, non è un problema di differenti sensibilità culturali, ma di pregiudizi e paura verso chi è diverso. L'ignoranza, se dura, non è casuale, ma voluta (malunt nescire qui iam oderunt). Come T. racconta, Seneca, che sostiene di entrare nell'accampamento dei nemici, cioé di avvicinarsi alle filosofie diverse dallo stoicismo, non per disertare, ma per esplorare, quando si avvicina al cristianesimo, invece lo fa solo per disertare. T. è dunque sostanzialmente convinto che, se i pagani conoscessero davvero il cristianesimo, non potrebbero che diventare cristiani (in questo, senza saperlo è dogmatico).

T. contesta la procedura dei processi contro i cristiani: se è reato essere cristiani, i cristiani devono essere perseguiti in quanto tali, ma l'autorità agisce solo in base ad una denuncia; se non è reato, essi non devono neppure entrare in tribunale. La legge, dunque, colpisce non il crimen, ma il nomen, non un delitto, ma l'opinione. Tuttavia, i reati d'opinione non esistono. T., ponendosi sulla tradizione stoica per cui tutti sono uguali (in quanto tutti sono dotati di ragione) e su una linea radicale della giurisprudenza, sostiene che il diritto positivo, cioé la legge (ius), è un prodotto storico e non assoluto, che deve essere legittimato dai valori universali, dalla giustizia naturale (iustum), alla quale, per approssimazioni costanti, si avvicina nel tempo. La validità dello ius sta proprio nel consenso di chi ne è l'oggetto: è la coscienza del cittadino che invera lo ius. Perciò, lo stato non deve avere giurisdizione sulle questioni religiose. All'imperatore si obbedisce con lealtà, sinché non chiede al cittadino qualcosa che esula dall'essere cittadino. La pretesa del principe di ricevere un omaggio come una divinità è assurda, perché tutti i poteri sono assegnati da Dio. Il problema è quindi risolto in termini simili al Vangelo, là dove Gesù, cui è chiesto se si devono pagare le tasse all'imperatore, risponde: "date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio".

Per spiegare cosa vuol dire essere cristiani, T. insiste non tanto sulla

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dimensione teologica, ma su quella antropologica: componenti dell'uomo nuovo che è il cristiano sono: 1. il primato dell'amore (spogliato di ogni residuo erotico) come dovere che esclude la competitività e porta alla comunanza tra fratelli (gli epicurei sottolineavano la loro comune appartenenza ad una comunità chiamandosi philoi, cioé "amici"); 2. il senso del peccato: alla civiltà di vergogna tipica della civiltà omerica subentrò con Socrate quella di colpa; qui non si esclude il tribunale della coscienza, ma ce n'è uno superiore, quello di Dio (l'idea della responsabilità davanti a Dio appare anche nei culti misterici); 3. la giustizia, che non ha più carattere solo formale (ius), ma promuove, associandosi con la caritas, l'uguaglianza di tutti; 4. la speranza: allo scetticismo filosofico il cristianesimo risponde, proiettandosi nel futuro, oltre la storia, con fiducia19. Qui è il nucleo di partenza di una nuova idea della storia: il primum dei cristiani non è la fondazione di Roma; non si considerano importanti guerre e strutture sociali; il momento della svolta è la nascita di Cristo, dopo tutta la vita dev'essere vissuta come se in ogni momento egli nascesse (tempo lineare).L'uomo nuovo cristiano è inconciliabile col paganesimo: nobis opus non est curiositate post Christum.20 Nel commiato, T. si rivolge ai filosofi classici che hanno scritto spesso sul fatto che la morte deve essere disprezzata, ma non hanno convinto nessuno: il cristianesimo, invece, ha fatto affrontare la morte ai martiri, testimoni di fede. Il cristianesimo è vero, perché c'è gente che muore per dimostrarlo (semen est sanguis Christianorum).

Apologeticum 1, 1-7: Se a voi, dell'Impero romano magistrati, che in luogo pubblico ed eminente, direi quasi proprio al sommo della città presiedete ai giudizi, palesemente investigare e dinanzi a tutti esaminare non è permesso che cosa chiaramente nella causa dei Cristiani si contenga: se per questa unica specie di processi l'autorità vostra di inquisire in pubblico, come esige una giustizia accurata, o teme o arrossisce: se, in una parola, com'è recentemente in processi di casa nostra accaduto, l'ostilità contro questa setta, soverchiamente accanitasi, la bocca chiude alla difesa, sia lecito alla verità arrivare alle orecchie vostre almeno per l'occulta via di uno scritto silenzioso. Essa in favore della propria causa punto non prega, perché della propria condizione nemmeno si meraviglia. Sa essa che straniera vive su la terra, che fra estranei facilmente trova dei nemici: che, del resto, la sua famiglia, la sua sede, la sua speranza, il suo credito, la sua dignità l'ha nel cielo. Un'unica cosa frattanto brama: di non essere, senza essere conosciuta, condannata. Che ci perdono qui le leggi, che nel proprio regno signoreggiano, se essa viene ascoltata? Forse che per questo maggiormente n'avrà del loro potere gloria, perché la verità, pur senza averla udita, condanneranno?. Ma qualora senza averla udita la condannino, oltre l'odio per l'ingiusto procedere, anche il sospetto si attireranno di nutrire qualche preconcetto, ascoltare non volendo quello che, ascoltato, condannare non avrebbero potuto. Orbene, questa prima accusa noi contro di voi formuliamo: l'ingiusto odio verso il nome cristiano. La quale ingiustizia dimostra e aggrava lo 19 Similmente argomenta il retore africano Arnobio (di Sicca Veneria), il quale, vicino alla morte, affascinato dal cristianesimo, vuole ottenere il permesso di convertirsi al vescovo della sua città. Per dimostrare di avere la fede, egli scrive un trattato Ad nationes (7 ll.), dove sostiene che o i cristiani hanno ragione o no: se è vero che non l'hanno, non c'è niente dopo, allora non c'è differenza tra essere cristiano e non esserlo; ma, se il cristiano ha ragione, allora conviene esserlo.20 Stessa intolleranza appare nell'islam: il califfo, arrivato ad Alessandria, fa bruciare la biblioteca: "o questi libri dicono il contrario del Corano e sono dannosi o dicono lo sesso e sono inutili".

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stesso titolo che sembra scusarla, vale a dire, l'ignoranza. Che infatti di più ingiusto, che dagli uomini venga odiato quello che essi ignorano, pur se la cosa l'odio meriti? Ché allora lo merita, quando viene conosciuto se lo merita. Ma se la conoscenza manca di codesto merito, onde dell'odio la legittimità si difende, la quale, non in base ai fatti, ma in base a un preconcetto deve trovare approvazione? Quando, dunque, gli uomini per questo odiano, perché ignorano quale sia la causa che odiano, perché non potrebbe questa esser tale che odiare non la dovrebbero? Perciò noi l'un fatto in base all'altro impugniamo: il fatto che essi ignorano, mentre odiano, e il fatto che ingiustamente odiano, mentre ignorano. Prova dell'ignoranza, che l'ingiustizia condanna, mentre vorrebbe scusarla, si è che tutti coloro, che per l'addietro odiavano, perché ignoravano, appena di ignorare cessano, anche cessano di odiare. E da costoro provengono dei Cristiani veramente con cognizione di causa, e quello che erano stati a odiare prendono, e quello che odiavano a professare; e sono tanti, quanti anche siamo accusati. Gridano che la città ne è assediata; che Cristiani si trovano nei campi, nei castelli, nelle isole. Che persone di ogni sesso, età, condizione, anche di famiglia distinta passano a questo nome, come di un danno, si attristano.

T. si difende i cristiani dalle tipiche accuse, contrattaccando e sostenendo, sulla base di Erodoto e degli storici romani, che le pratiche antropofaghe non erano diffuse tra i cristiani, ma tra i pagani. La pratica dell'incesto, diffusa tra i popoli pagani primitivi, è favorita dall'adozione.Apologeticum 9, 9-20: Quanto al pasto di sangue e alle consimili portate da tragedia, leggete se in qualche luogo non si trovi riferito - si legge, credo, in Erodoto - come certe nazioni il sangue versato dalle braccia dell'una e dell'altra parte e gustato - facevano servire alla conclusione di un patto. Non so qual bevanda del genere fu gustata anche per ordine di Catilina. Dicono anche che presso alcuni Gentili di fra gli Sciti, ogni defunto viene dai suoi mangiato. Ma mi allontano di troppo. Qui oggi il sangue della coscia tagliata raccolto nella mano e dato a bere, i seguaci di Bellona inizia. Del pari coloro, che durante lo spettacolo, nell'arena, il sangue caldo dei criminali sgozzati, scorrente dalla gola raccogliendo, con avida sete bevono per guarire dal morbo comiziale, dove si trovano? E del pari coloro che di vivande ferme si cibano raccolte dall'arena, che domandano un pezzo di cinghiale, di cervo? Quel cignale nella lotta il sangue lambì di colui che esso dilaniò; quel cervo nel sangue giacque di un gladiatore. Perfino le viscere degli orsi si appetiscono, piene ancora di umane viscere non digerite. Erutta, perciò, uomo, carne pasciutasi di uomo. Voi che simili vivande mangiate, quanto siete distanti dai banchetti dei Cristiani? E meno fanno anche coloro, che, da libidine selvaggia sospinti, bramosi anelano a membra umane, per il fatto che divorano dei viventi?. Meno con sangue umano vengono all'ignominia consacrati, perché lambiscono quello che diverrà sangue? Non mangiano bimbi, senza dubbio, ma piuttosto degli adulti. Arrossisca l'error vostro di fronte ai Cristiani, che nemmeno il sangue degli animali abbiamo a tavola tra le vivande in uso, che per questo anche dagli animali soffocati e morti di malattia ci asteniamo, per non venire in qualche modo contaminati dal sangue pur nascosto entro le viscere. In fine fra le tentazioni adoperate con i Cristiani, voi anche delle salsicce accostate loro gonfie di sangue, sicurissimi - è chiaro - essere tra loro illecito quello con cui farli deviare volete. Or dunque che è mai codesto vostro credere che bramose di umano sangue siano persone, che siete convinti aborrire il sangue di animali? A meno che essere quello più gustoso per avventura sperimentato non abbiate. Il sangue anch'esso adoperare ugualmente si sarebbe dovuto, quale mezzo di indagare i Cristiani, come il braciere e l'incensiere: in tal guisa, infatti, appetendo il sangue umano si sarebbero rivelati, allo stesso modo che rifiutandosi al sacrificio; altrimenti si sarebbe dovuto negare che fossero cristiani, se non ne avessero gustato, al modo stesso che se avessero sacrificato. E certo non sarebbe mancato a voi sangue umano nell'ascoltare e condannare i detenuti. Inoltre chi è più incestuoso di coloro, cui Giove stesso istruì?. Ctesia riferisce che i Persiani con le loro madri si uniscono. Ma anche i Macedoni sono sospetti, perché, avendo per la prima volta assistito alla tragedia Edipo, ridendosi del dolore dell'incestuoso 'Si gettava - dicevano - su sua madre!'. Riflettete fin d'ora quanto sia permesso alle confusioni per compiere unioni incestuose, là dove le occasioni fornisce la promiscuità della lussuria. Prima di tutto voi esponete i figliuoli, perché siano da qualche pietà estranea, che passi loro vicino, raccolti; o li emancipate, perché adottati siano da genitori in condizioni migliori. è inevitabile che il ricordo della famiglia divenuta estranea, un momento o l'altro svanisca. E appena la possibilità di confusione avrà preso piede, da allora subito se ne avvantaggerà la propaggine dell'incesto, e la famiglia si estenderà

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delittuosamente. Allora, quindi, in qualunque luogo, in patria, fuori, al di là dei mari vi è compagna la libidine, le cui deviazioni, dovunque compiute, possono facilmente in qualche luogo procrearvi, senza che lo sappiate, figliuoli anche da una qualche porzione della vostra semenza; talché la discendenza dispersa attraverso le relazioni umane, con i suoi consanguinei venga a incontrarsi, senza che l'ignaro del sangue incestuoso li riconosca. Noi da codesta eventualità difende una diligentissima e costantissima castità; e quanto dagli stupri e da ogni eccesso dopo il matrimonio, altrettanto anche dall'eventualità dell'incesto siamo sicuri. Alcuni, molto più sicuri, ogni pericolo di questo errore allontanano con una continenza verginale, vecchi fanciulli. Se codesto stato di cose consideraste esistere in voi, vedreste che altrettanto non esiste fra i Cristiani: gli stessi occhi vi avrebbero fatto palese l'una e l'altra realtà. Ma di cecità ve n'è due specie, che vanno facilmente insieme: quelli che non vedono quello che è, di vedere credono quello che non è. Così proverò essere in tutto. Ora parliamo dei misfatti palesi.

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LATTANZIO (Africa?, ca. 250 - Gallia?, 320 ca.?)

Scolaro di Arnobio, per la propria fama di retore (fu detto il Cicerone o il Seneca cristiano) è chiamato da Diocleziano a Nicomedia (Bitinia), capitale della parte orientale dell'Impero, come insegnante di retorica (290 circa): la scuola ha scarso successo, in quanto la città è di lingua greca. Lascia il suo ufficio a causa delle persecuzioni contro i cristiani, alla cui religione si è convertito (303). Abbandona la Bitinia nel 306, per tornare grazie all'editto di tolleranza di Galerio (311). Nel 317 Costantino lo chiama a Treviri (Gallia), come precettore del figlio Crispo, che poi l'imperatore ucciderà, con la matrigna. De opificio Dei: L. usa argomenti stoici per dimostrare che Dio ha creato il mondo (ad es. la posizione eretta dell'uomo, la mano), ma la conclusione è diversa: mentre gli stoici credono che il mondo sia vivificato da un logos divino dall'interno, il Dio cristiano è posto fuori del mondo.

De ira Dei: il pensiero ellenico elabora una figura divina non antropomorfica, come definizione negativa (non è ciò che è di male nell'uomo: fisicità, passioni contingenti), come un essere spiritualmente neutro o apatico (stoici) o atarassico (epicurei). Per L., Dio, invece, è capace di ira, quando l'uomo compie peccato. Si avvicina al concetto di Dio come persona e non principio.

De mortibus persecutorum: una delle poche fonti sulle persecuzioni, a volte falsificata (le persecuzioni non furono dieci, come afferma L.), è scritta quando il cristianesimo non è più perseguito. I persecutori sono tutti finiti male e puniti (Nerone). L. elabora così un nuovo codice storico cristiano (ripreso poi da Orosio e che troviamo anche nello storico greco Eusebio, tradotto da Girolamo): esso prevede un post quem (la creazione), non un ante quem; svaluta ciò che si costruisce storicamente come perituro (guerre, leggi, stati) e avverte la presenza storica della Provvidenza21.

Divinae institutiones (7 ll.): l'opera è composta tra il 303 e il 313 (editto di Costantino). L. cerca di delineare un'immagine sistematica della dottrina cristiana: i primi tre libri sono dedicati alla confutazione del politeismo e della filosofia pagana, gli altri quattro illustrano le novità del cristianesimo in tema di morale e di giustizia.Egli vuole, in sostanza, come indica il titolo (che si richiama a Quintiliano), formare, attraverso un piano educativo, l'uomo nuovo cristiano: l'uomo, infatti, non nasce cristiano, ma lo diventa, perché, tendendo naturalmente alla ricerca della verità, la trova nella mente di Dio. Essa è, infatti, rivelazione (arcanum summi Dei) e può passare all'uomo come dono (notionem veritatis munus suum fecit "fece della conoscenza della verità un proprio dono"). A differenza dell'institutio cristiana, la formazione classica è fatta di tappe, è classista e antifemminista. 21 Successivamente, ci sarà ancora una concezione religiosa della storia, ma senz'una religione: Hegel e poi Marx vedranno la storia obbedire a una sola legge e proiettarsi verso un ultimum, il cui senso è la fine del cambiamento e la realizzazione della perfezione.

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La verità che è rivelata all'uomo è, naturalmente, il contenuto delle Sacre Scritture. D'altra parte, esse non piacciono agli intellettuali, perché sono state scritte in modo semplice e adattate al livello culturale del popolo. L., dunque, si pone il problema di utilizzare la retorica per propagandarle. Già Tertulliano utilizza la retorica classica, pur contestandola; L. va oltre, distinguendo una retorica buona (che comunica la verità) e una cattiva (che fa di se stessa il proprio scopo). Affronta, tra l'altro, anche il problema, poi ripreso scientificamente da Girolamo, delle traduzioni. Com'è evidente, L. considera i rapporti fra cultura cristiana e classica in modo meno perentorio che in passato: per lui il cristianesimo è una cultura completiva e cumulativa delle precedenti. Interessante è anche il suo discorso a proposito della iustitia: per L. essa è Dei unici pia et religiosa cultura, cioé obbedienza e rispetto religioso. Insomma, lo iustum diventa, secondo L., santo. Il cristianesimo è in se stesso un modello di giustizia, il quale pone le basi di una res publica christiana, fondata sull'equitas e sulla pietas: essa non è realizzabile nell'immediato, perciò l'uomo si accontenta di surrogati.

De ave phoenice: si tratta di un poemetto, attribuito a L., ma probabilmente non suo, in 85 distici sulla vicenda della fenice, che rinasce dalle sue ceneri, interpretata come simbolo della risurrezione.

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L'impero tardoantico (284-476)

Contesto storico.

Il IV e il V secolo vedono la lenta disgregazione dell'impero, messo a dura prova dai barbari, che penetrano nelle terre dei Romani. Quest'era è segnata anche dall'affermazione del cristianesimo.

284-305: Diocleziano: riforma l'impero instaurando il sistema della tetrarchia, realizza riforme militari e amministrative e scatena l'ultima persecuzione anticristiana.313: editto di Milano: Costantino concede libertà di culto ai cristiani.324: vinto Licinio, Costantino resta unico imperatore fino al 337.325: concilio di Nicea: condannata l'eresia ariana.361-3: Giuliano l'Apostata: impone un temporaneo ritorno al paganesimo.364: l'impero è spartito tra Valentiniano I (364-75) che controlla l'Occidente e il fratello Valente (364-78) cui spetta l'Oriente.378. battaglia di Adrianopoli: i Goti sconfiggono l'imperatore Valente che muore e sono ammessi nel territorio dell'impero.379-95: impero di Teodosio.380: editto di Tessalonica: il cristianesimo diviene religione di stato.392: un editto vieta il culto pagano395: morto Teodosio, l'impero è diviso tra i figli, Arcadio (Oriente) e Onorio (Occidente), sotto la tutela del generale vandalo Stilicone.402: Stilicone sconfigge i Goti di Alarico a Pollenzo, in Piemonte.406: una coalizione di Vandali, Svevi e Alani si impadronisce della Gallia a eccezione della Provenza.408: Stilicone, accusato di tradimento, è assassinato410: Alarico marcia su Roma e la saccheggia per tre giorni in agosto (sacco di Roma). 418: i Visigoti, guidati da Ataulfo, successore di Alarico, si stabiliscono in Aquitania, da dove partono alla conquista della Spagna.425-55: l'impero di Occidente è retto dall'imbelle Valentiniano III. 429: i Vandali conquistano l'Africa452: gli Unni, guidati da Attila, distruggono Aquileia, saccheggiano Milano e sono fermati da papa Leone Magno.455: i Vandali di Genserico saccheggiano Roma.476: il re erulo Odoacre depone l'ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo, e riceve dall'imperatore d'Oriente Zenone il titolo di patrizio e il mandato per governare in suo nome l'Italia.

Quadro culturale.La crisi dell'impero sembra risolversi alla fine del III sec., quando si inaugura con Diocleziano una nuova politica di controllo e sviluppo delle scuole tradizionali: sono creati nuovi centri culturali (Cartagine, Bordeaux, Tolosa, Treviri). A Roma nascono scuole private, caratterizzate dal loro maestro, come quella di Caio Mario Vittorino, di Cartagine, filosofo medioplatonico, poi cristiano e maestro di

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Girolamo (nel 361 lascia l'nsegnamento perché Giuliano l'Apostata proibisce ai cristiani di insegnare autori a loro estranei), o come Elio Donato, maestro di Girolamo e commentatore di Virgilio. C'è anche un settore che difende la tradizione religiosa classica (e i propri privilegi): il senato romano, che fa capo alle famiglie dei Nicomachi e dei Simmachi.Dopo l'editto di Milano (313) e quello di Teodosio (380), l'apologetica cristiana perde ragione d'essere e lascia il posto ai Padri della Chiesa, nei cui scritti si fissa la teologia dei secoli a venire e si realizza la sintesi tra il messaggio di Gesù e la cultura greco-latina. Sulla scorta delle dottrine filosofiche, emerge la figura dell'asceta cristiano, che trova il suo luogo ideale nel deserto. Intorno a lui si forma la fama di uomo santo, capace di vincere le malattie, dominare le intemperie, reprimere i disordini.

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RUTILIO NAMAZIANO (Gallia Narbonese?)

Figlio di un funzionario, diviene prefetto di Roma nel 414, dopo il sacco di Alarico (410). Nel 417 parte per la Gallia, dove le sue proprietà sono infestate dai Goti: il suo viaggio è narrato nel De reditu suo, un poemetto elegiaco in 2 ll. L'opera odeporica si interrompe al v. 68 del II libro con l'arrivo del protagonista a Luni, ma recentemente è stato ritrovato un breve frammento che descrive la continuazione del viaggio fino ad Albenga, con lodi al console Costanzo (futuro Costanzo III). Non si sa come terminò il viaggio.

R. viaggia per mare a cabotaggio: le vie di terra non sono sicure per via di barbari e banditi e abbandonate. L'imbarco è a Portus Augusti (Ostia), alla foce del Tevere; le tappe sono: Falesia (qui ricorda un oste ebreo villano e si lancia in una invettiva contro i Giudei, chiamati "radice di follia", in quanto propagatori del cristianesimo), Populonia (una città abbandonata, perché per ragioni di sicurezza si tende a vivere in città o in ville-castra: "possono morire anche le città"), Capraia e Gorgona (abitate da eremiti cristiani, definiti lucifugi; nel convento della Gorgona è un suo amico perditus... vivo funere "morto con un funerale da vivo"; R. ritiene che solo la vita della città dia senso all'esistenza umana, dunque i cristiani, che la rinnegano, sono malati nell'animo: Circe trasforma i corpi, il cristianesimo le anime).

R. assiste al tramonto del suo mondo, ma non è disperato: Roma ha costruito qualcosa di indistruttibile (lo dice quando la sta lasciando: la saluta per quel che è stata storicamente: fecisti patriam diversis gentibus unam... urbem fecisti quod prius orbis erat). La fisionomia culturale costruita da Roma è l'unità della legge, attraverso cui passa l'unità del mondo. Quest'idea passa al Medioevo cristiano e arriva in Dante (Giustiniano, Paradiso VI).

De reditu suo I 439-452, 511-526: Avanzando nel mare già si vede innalzarsi la Capraia; isola squallida, piena di uomini che fuggono la luce. Da sé con nome greco si definiscono “monaci”, per voler vivere soli, senza testimoni. Della fortuna paventano i doni e insieme temono i colpi. Si fa qualcuno da sé infelice per paura di esser tale? Quale delirio di una mente sconvolta può essere così insano che, mentre temi il male, non puoi sopportare il bene? O sono dei condannati che scontano i loro delitti, o il loro triste fegato è gonfio di nera bile. Così, ad un eccesso morboso di bile Omero attribuiva le ansie di Bellerofonte. Colpito infatti dai dardi di un crudele dolore, il giovane si dice abbia preso in disprezzo il genere umano. L’Aurora dorata aveva spinto avanti i cavalli lucenti del cocchio; la brezza del lido invita a distendere le vele. Spinge gli ornamenti di poppa un vento tranquillo,senza scosse, le vele appena gonfie tremano sulle salde gomene. Nel mare sorge, cinta dai flutti, la Gorgona, in mezzo alle coste di Pisa e della Corsica. Sta di fronte uno scoglio, testimone di una recente sventura: qui un concittadino viveva come un disperato, seppellendosi vivo.

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CLAUDIANO (Alessandria, Egitto, 374 - dopo il 404?)

Di lingua greca, a vent'anni a Roma, forse muore giovane prima della morte del generale vandalo Stilicone, suo protettore, (408) e del sacco di Alarico (410). Scrive De raptu Proserpinae (un raffinato poemetto mitologico in 3 ll., composto tra 395 e 398, incompiuto; l'episodio del rapimento di Proserpina ad opera di Plutone è ovidiano e di toni misterici; la celebrazione del mito della storia sacra di Eleusi portebbe essere un atto di omaggio alla tradizione pagana, quando il santuario, distrutto da Alarico nel 396, è occupato dai cristiani per impedirne il restauro), Carmina minora (componimenti di carattere neoterico; uno cristianeggiante: De salvatore), Panegyricus Probini et Olybrii (dedicato ai giovani consoli del 395, della famiglia degli Anicii, designati da Teodosio per far pace con la nobiltà che nel 394 appoggiò il golpe del retore Eugenio; si celebra anche Teodosio).

Morto Teodosio (395), l'impero è diviso fra i figli: Claudiano passa a Milano, presso Onorio, dov'è poeta ufficiale (nonostante sia pagano); scrive tre panegirici in occasione dei consolati dell'imperatore (Panegyricus de tertio/ quarto/ sexto consulatu Honorii), nei quali loda la storia di Roma, e un epitalamio per le nozze di Onorio con Maria, figlia di Stilicone. Stilicone, che l'ha protetto a Roma, è ammesso nella galleria dei grandi Romani ed è celebrato in De bello Gildonico (il poema celebra la vittoria in terra africana nel 398 sul ribelle Gildone, un comes che impediva, sobillato da Bisanzio, i rifornimenti di grano a Roma; quest'ultima, personificata, chiede aiuto agli dei per poter sfamarsi), De bello Gothico (il poema celebra la vittoria a Pollenzo, presso Alba, sui Goti di Alarico, nel 402), De consulatu Stilichonis (400, 3 ll.), In Rufinum (396) e In Eutropium (399, invettive velenose contro ministri d'oriente avversari di Stilicone), Laus Serenae (elogio della moglie di Stilicone).

Torna poi a Roma: testimonia la sua fortuna e la sua importanza l'erezione, proposta dal senato nel 400, da parte di Onorio e Arcadio di una sua statua nel foro traiano (l'epigrafe a Napoli lo dice: praegloriosissimus, chiude in omaggio al suo bilinguismo: "lo spirito di Virgilio e la musa di Omero").

C. ridà vita al poema epico per cantare l'impero e lo scontro titanico civiltà/ non civiltà sul terreno della storia contemporanea. La poesia non consente riflessioni sul presente, né lo permette la sua posizione (è legato alla nobiltà pagana di Roma e alla corte), che lo obbliga al panegirico e all'invettiva. Tenta di presentare la realtà sotto il segno dei modelli epici: la copiosa produzione (frettolosa e artificiosa e barocca) non è d'ispirazione profonda. C. è solo sicuro che la civiltà di Roma sia eterna, anche se ossessiva è la presenza della Gigantomachia (in 2 ll., uno in latino e uno in greco, allegoria dell'assedio portato all'impero dalle popolazioni barbare). Nelle praefationes, dà notizie sui modi di circolazione e sul pubblico (letture a Roma nel tempio di Apollo sul Palatino ai nobili, alla corte di Milano, in cenacoli di dotti). Pur neoplatonico, a nomine Christi alienum (Agostino) e paganus pervicacissimus (Orosio), eserciterà fascino sui cristiani, che ne accetteranno l'idea della grandezza di Roma.

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C. condivide con Stilicone il disegno di un'alleanza con i Goti. Il generale si attira così i sospetti di Onorio e del senato, cui è imposto nel 408 un contributo per comprare l'alleanza con Alarico. Alla fine, Stilicone è fatto uccidere a Ravenna col consenso dell'imperatore, ma la sua fine provoca la discesa di Alarico nel 408 e il sacco di Roma. In questi versi, la risolutezza di Alarico acquista risalto nel colloquio con un anziano Goto, che lo invita alla prudenza davanti all'invincibilità di Roma. De bello Gothico 485-557:Un tale, più grave d'età, cui larga fiducia è data per i discorsi e i consigli, con gli occhi a terra agitando la chioma e appoggiato all'elsa d'avorio: "Se non m'inganno nel conto" disse "trascorre il trentesimo inverno da che passammo il vorticoso Danubio e in tanti anni abbiamo schivato l'esercito di Roma. Mai in tale angustia Marte ha costretto la tua sorte, Alarico. Credi in me, vecchio esperto di molte battaglie, a me che come un padre ti stringeo nei teneri anni, quando ti davo faretre da bimbo e alle spalle infantili allacciavo il minuscolo arco. Spesso, ricordi, invano ti esortai a che, rispettando il patto concluso, ti fermassi al sicuro in Tessaglia. Poiché ti ha preso la fiamma di ardene giovinezza, ora se hai qualche pensiero dei tuoi almeno fuggi, ti prego, l'assedio, finché puoi ritrarre le schiere, finché puoi, rapido scampa dall'Italia; bada che per brama d'altre prede tu non debba deporre le prime epagare, come lupo al pastore, entro l'ovile la pena delle stragi. A che sempre ci parli del rigoglio dei tralci etruschi e di non so che Roma con un suo Tevere? Se gli antichi dicono il vero, nessun con demente guerra aggredì codesta città e tornò poi esultante dell'offesa. Né le divinità lasciano la sede: si narra che da lungi volino saette contro i nemici e guizzino alle mura fiamme divine, sia il cielo a tuonare o Roma. Se disprezzi l'Olimpo, guardati dal grande Stilicone che sempre incalza gli empi con la Fortuna al fianco. Sai quanto fitte le ossa abbia ammassato sui roghi per le terre d'Arcadia e con quanto sangue abbia scaldato i fiumi greci. Saresti estinto se non ti avesse protetto un tradimento con titolo di legge e il favore del principe d'Oriente".Mentre l'anziano con viso ardente così parlava, Alarico dopo un obliquo sguardo non tollerò altre parole e l'accesa superbia eruppe in voci di furore: "Se la tua età, inabile al pensiero e privata dei sensi, non destasse indulgenza, mai il Danubio invendicato sopporterebbe queste infamie, me vivo. Io, che ho sbaragliato i Cesari (lo narra l'Ebro), per tua proposta subirò la fuga, anche se la natura si piega al mio ossequio? Abbiamo visto spianarsi ai ostir piedi i monti, inaridirsi i fiumi. Non vogliano gli dei goti e gli spiriti degli avi che io, volgendo il cammino, ricalchi le mie orme. Queste zolle io farò mie o vincitore col regno o vinto con la morte. Ho attraversato popoli e città, ho infranto le Alpi, con l'elmo vittorioso ho attinto al Po: che altro mi resta se non Roma? La nostra gente già era forte, quando no contava su armi altrui. Ma ora che mi è affidato il potere dell'Illiria e che mi hanno eletto capo, tante frecce e spade, tanti elmi ho allestito con molto sudore dei Traci e con ordine legittimo ho costretto le città romane a stornare per i miei bisogni il tributo del ferro. Tale è il favore del fato. Quelli che ogni anno saccheggiavo, si rassegnano a servire. Gemendo mi donavano armi e fuso dalla fiamma e dall'arte l'acciaio ardeva a loro danno tra il lamento dei fabbri. Aggiungi le parole degli dei. Non di sogni parlo, né di voli d'uccelli, ma della voce echeggiata del bosco: Ogni ritardo tronca, Alarica, senza più soste, quest'anno, spezzate le Alpi dell'Italia, tu entrerai nell'Urbe. Fino lì è il cammino. Chi dunque ancora fiacco esita o tarda ad ubbidire al richiamo del cielo?" Così rincuora i suoi e li dispone alla marcia e alla guerra. Vanamente gli oracoli innalzano il suo orgoglio. O profezie sempre maligne in tacita doppiezza, o tardo compimento del vero, solo nei fatti esplicito e ignoto ai vati stessi All'ultimo confine dei Liguri giunge ad un fiume detto Urbe con inatteso nome e lì, domato e istruito dagli eventi, comprese che le parole erano gioco dell'oscuro destino.

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AMMIANO MARCELLINO (Antiochia, Siria, 333 ca. - 400)

Nato da famiglia altolocata, entra nei protectores domestici, cioé nella guardia imperiale cui accedono solo i nobili, e poi in cavalleria, sotto l'amico Ursicino in Oriente (con Costanzo) e in Gallia. Qui conosce Giuliano, futuro imperatore, allora governatore, alla cui corte passa, quando Ursicino sconfitto è congedato. Con Giuliano, detto l'Apostata, combatte contro i Parti (373) spesso vittoriosamente, ma non in battaglie campali, fino alla morte dell'imperatore. Si ritira a vita privata ad Antiochia, da cui si allontana per viaggiare in Egitto, Tracia, Grecia, finché si trasferisce a Roma, dove approfondisce la conoscenza del latino e comincia a scrivere la sua opera storica (poi fatta conoscere attraverso cicli di conferenze). Resta un solitario, slegato dai circoli, anche se è vicino a quello di Simmaco. Da Roma forse è allontanato nel 383, quando sono espulsi gli stranieri, causa una carestia.

Il Triginta unus libri rerum gestarum continua l'opera tacitiana dal 96 fino al 378, l'anno della battaglia di Adrianopoli, là dove muore l'imperatore Valente, sconfitto dai Goti. Sono rimasti i ll. XIV-XXXI, che affrontano il periodo dal 353 al 378, raccontando gli eventi dopo la vittoria di Costanzo sull'usurpatore Magnenzio, con le prime campagne dei generali Giuliano in Gallia e di Ursicino in Mesopotamia, poi il breve impero di Giuliano (361-3), di Valentiniano I e di Valente. La presenza di un proemio al libro XXVI fa pensare che in origine l'opera si chiudesse in un primo momento dopo la morte di Giuliano.

I caratteri di quest'opera sono: 1. l'adozione del modello annalistico, interrotto dai ritratti di imperatori, excursus geografici, religiosi, filosofici, socioeconomici;2. l'ampiezza e la completezza del quadro storico: A. è attento alle masse (da Tacito ritenute incapaci di storia), ai problemi tecnici (per Tacito il problema centrale era la successione; A. invece guarda, ad es., al rapporto tra Roma e barbari anche sul piano economico: i Romani vendono caro e comprano a buon prezzo, tanti popoli di frontiera non si difendono dai barbari perché non pensano di poter vivere peggio), alle province; oltre che negli archivi, cerca nei rapporti dei funzionari3. l'essenzialità (tutto è colto per summitates);4. la riduzione dell'analisi psicologica;5. l'obiettività.

A. sa di non poter rispecchiare in modo completamente fedele la realtà, ma non fa propaganda e prende da tutti distanza, equilibrando nei suoi ritratti aspetti positivi e non: perfino di Giuliano, da lui tanto ammirato, critica in nome del neoplatonismo l'intolleranza verso i cristiani. Nei confronti di questi ultimi, è imparziale: ammira il sentire cristiano, la absoluta et simplex religio, da cui distingue la anilis superstitio, il formalismo bigotto di cui accusa Costanzo; distingue il piccolo clero locale, che ha costanza ed è pronto alla morte, dal grande clero, opportunista e trafficone. A. pensa che l'impero sia in crisi (inettitudine, individualismo), ma come Simmaco

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crede che Roma sia una presenza storica incancellabile e che essa sarà victura (viva, vincitrice), finché ci saranno uomini. Nell'epilogo dichiara di scrivere ut miles quondam et Graecus "come un soldato un tempo e greco". La prosa è segnata da grecisimi nel lessico e nella sintassi, a tratti appare faticosa. L'introduzione di excursus consente all'autore di aggiungere dettagli etnografici e di soddisfare il piacere del particolare meraviglioso, delineato con un gusto pittorico.

Ferito in uno scontro durante l'attraversamento dell'Armenia, Giuliano muore poco dopo nella sua tenda. In punto di morte, rivede il percorso della sua vita, improntato a dignità e purezza, e ringrazia gli dei per avergli concesso la bella morte, che coglie l'uomo giovane e all'apice della gloria. A., nel tratteggiare l'episodio, si ispira alla morte di Socrate raccontata da Platone (Fedone), a quella di Ciro in Senofonte (Ciropedia) e di Germanico in Tacito (Annales). Res gestae XXV 3, 15-23: Mentre venivano fatte queste cose, Giuliano, che giaceva sotto la tenda, disse a coloro che, avviliti e tristi, lo circondavano: "Adesso giunge, o compagni, il tempo più adatto per allontanarsi dalla vita, che è reclamata dalla natura. Esulto, come colui che sta per restituire un debito in buona fede. Non sono afflitto e addolorato (come alcuni pensano). Sono guidato dalla opinione generale dei filosofi che l'anima sia più felice del corpo. E osservo che, ogni volta che una condizione migliore sia separata da una peggiore, occorre rallegrarsi piuttosto che dolersi. Noto anche che gli dei celesti donarono ad alcuni molto religiosi la morte come sommo premio. Ma so bene che quel compito mi è stato affidato non per soccombere nelle ardue difficoltà, né per avvilirmi, né per umiliarmi. Ho imparato a conoscere per esperienza che tutti i dolori colpiscono chi è senza energia, ma cedono di fronte a coloro che persistono. Non ho da pentirmi di quanto ho fatto, né mi tormenta il ricordo di qualche grave delitto. Sia nel periodo in cui ero relegato in ombra e in povertà, sia dopo aver assunto il principato, ho conservato immacolata (o almeno così penso) la mia anima, che discende dagli dei celesti per parentela. Ho gestito con moderazione gli affari civili e, con motivate ragioni, ho fatto e allontanato la guerra. Tuttavia il successo e l'utilità delle decisioni non sempre concordano, poiché gli dei superni rivendicano a sé i risultati delle azioni. Reputo che scopo di un giusto impero siano il benessere e la sicurezza dei sudditi. Fui sempre propenso, come sapete, alla pace. Ho allontanato dalle mie azioni ogni arbitrio, corruttore degli atti e dei costumi. Me ne vado felice, sapendo che ogniqualvolta la repubblica, come imperioso genitore, mi ha esposto a pericoli prestabiliti, sono rimasto fermo, abituato a dominare i turbini degli eventi fortuiti. Non sarà vergognoso riconoscere che da lungo tempo ho appreso da una predizione profetica che sarei morto mediante un ferro. Perciò venero il sempiterno nume, perché non muoio per clandestine insidie, o tra i dolori delle malattie, né subisco la fine dei condannati, ma in mezzo a splendide glorie, ho meritato una illustre dipartita dal mondo. E' giudicato pusillanime ed ignavo colui che desidera morire quando non è il momento opportuno e colui che tenta di sfuggire alla morte quando è il momento giusto. Il parlare è stato sufficiente, ora il vigore delle forze mi sta abbandonando. Per quanto concerne la nomina del nuovo imperatore, ho deciso cautamente di non pronunciarmi. Non voglio omettere per imprudenza qualcuno degno. Né voglio sottoporre a pericolo di vita qualcuno che ritengo adatto ad essere nominato, qualora un altro gli venisse preferito. Ma come un bravo figlio della repubblica, desidero che si trovi dopo di me un buon imperatore." ... Essi tacquero, ed egli discusse approfonditamente con i filosofi Massimo e Prisco sulla sublimità delle anime. La ferita al fianco, dove era stato trafitto, si allargò. Il gonfiore delle vene gli impedì di respirare. Bevve dell'acqua gelida che aveva chiesto. In mezzo al terrore religioso della notte, venne sciolto senza difficoltà dalla vita. Aveva 32 anni.

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AMBROGIO (Treviri, Gallia, 330 ca. - Milano 397)

Nato da una famiglia nobile romana al livello dei Simmachi, è fatto educare dalla madre (il padre, funzionario cristiano, muore presto) a Roma; presentato all'imperatore Valentiniano, un cristiano tollerante, diventa, trentenne, governatore della Liguria e dell'Emilia a Milano (vera capitale dell'impero), ove combattono cristiani e ariani. Nel 374 muore il vescovo ariano Aussenzio e scoppiano tumulti per l'elezione del successore (scelto direttamente dai fedeli): A., ancora catecumeno, interviene ed è acclamato vescovo; sente la sua nomina come un impegno che lo coinvolge sul piano personale. Dà ai poveri i suoi beni, si dedica all'astinenza, aiuta chi soffre. Attento alla dimensione sociale dei problemi, afferma che la ricchezza non è un diritto, ma un caso. E' educato al cristianesimo dal suo successore, Simpliciano. La sua biografia è scritta su richiesta di Agostino (da lui battezzato) da Paolino di Milano.

Scrive 91 lettere a imperatori, vescovi, papi, personaggi della corte, amici. I suoi nemici sono l'arianesimo e il paganesimo. Il suo interlocutore più importante è l'imperatore Teodosio, cristiano come lui. Nel 388, i cristiani locali, istigati dal vescovo, incendiano la sinagoga di Callinico (sull'Eufrate): Teodosio li vorrebbe obbligare a ricostruire l'edificio, ma A. si oppone e lo fa desistere. Nel 390, Teodosio reprime con una strage una rivolta nel circo di Tessalonica (Illirico): Ambrogio gli vieta l'accesso in chiesa, finché egli non si pentirà pubblicamente. Nel 391 Teodosio vieta il culto pagano e proclama il cristianesimo religione ufficiale dell'impero.

La questione dell'ara della Vittoria. Davanti alla statua della Vittoria, era tradizione che i senatori giurassero ogni anno fedeltà allo stato: la statua è portata a Roma da Taranto nel III sec. a.C. e posta in senato da Augusto dopo la battaglia di Azio (31 a.C.). Nel 357 l'imperatore cristiano Costanzo, in visita a Roma, fa rimuovere l'altare; qualche anno dopo, probabilmente, Giuliano l'Apostata lo ricolloca al suo posto, dove resta sotto il cristiano Valentiniano. Nel 382, su pressione di Ambrogio, Graziano lo rimuove. L'anno dopo, resta ucciso e diviene imperatore il dodicenne Valentiniano II, la cui madre Giustina aspira a mantenere buoni rapporti con l'aristocrazia romana. La situazione sembra favorevole alla causa pagana e il rappresentante del senato e prefetto della città Simmaco presenta a Milano una richiesta di ripristino dell'ara. Lo fa con una delle 49 relationes che sono rimaste della sua produzione (e che costituiscono il decimo libro del suo epistolario)22. Nella relatio, è la statua stessa a parlare all'imperatore e a chiedergli di essere fedele alle proprie radici: il patrimonio di Roma sta, proprio, nella legge e nel sentire la politica connessa con i valori religiosi. Alla richiesta si oppone Ambrogio (lettere 17-18): prima, chiede una copia del discorso di Simmaco, poi lo confuta punto per punto, in particolare rinfacciandogli la preoccupazione per la revoca delle sovvenzioni statali al culto pagano, sancita da Graziano nel 382. Narra anche l'episodio (forse vero) di un senatore cristiano costretto all'omaggio. L'imperatore 22 Restano di lui anche alcuni panegirici per gli imperatori Valentiniano e Giuliano e frammenti di cinque discorsi al senato.

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è costretto a negare il consenso a Simmaco, che si dimette. Nuove legazioni senatoriali sono inviate senza esito nel 389 a Milano presso Teodosio e in Gallia presso Valentiniano II, finché il senato ottiene soddisfazione da Eugenio (393), innalzato al trono da Arbogaste, il generale franco cui Teodosio affida la tutela di Valentiniano II. Sotto Eugenio, l'ara è rimessa nella curia fino alla vittoria di Teodosio su Eugenio e Arbogaste. La statua della Vittoria resta in senato fino al sacco di Roma (410).

Hexameron (6 ll.): è una raccolta di nove omelie sul Genesi, commentato con lo stile di Origene di Alessandria d'Egitto, cioé in modo allegorico23.

De Abraham: altra opera esegetica sullo stile di Origene. Abramo è il perfetto cristiano, per cui la fede è accettare anche per ipotesi ciò che è assurdo (similmente Kirkegaard). De Nabuthae historia: il re Ahab vorrebbe una piccola vigna, che il proprietario, Naboth, non può vendergli, perché l'ha ereditata dal padre e la legge glielo impedisce. La moglie Jezebel lo fa lapidare, accusandolo di essere stato blasfemo e di aver maledetto il re; Ahab ottiene la proprietà, ma il profeta Elia lo maledice. A. prende spunto da questa storia per intervenire sul tema della ricchezza e dei vizi ad essa collegati e prendere posizione contro i ricchi (la ricchezza non è diritto di natura, ma un prodotto storico.

De Iacob et vita beata: A. prende spunto dalla storia dello sfortunato Giacobbe, che anche da esule resta felice, per sostenere che la virtù basta all'uomo per essere felice. Rispetto allo stoicismo, c'è di nuovo che l'uomo si trova ad essere aiutato da Dio e che dunque questo principio si può realizzare facilmente.

Inni: Ambrogio fonda l'innografia latino-cristiana, quando nel 386 i cristiani occupano la Basilica Nuova e la Basilica Porzia per impedire alle milizie inviate dall'imperatrice filo-ariana Giustina di lasciare i due luoghi di culto agli ariani. Imitandone un uso, per tenere alta la tensione spirituale, crea, appunto, gli Inni (lodi a Dio, preghiere). Ha presente gli inni classici, ma non li imita. Quattro degli inni tramandati sotto il suo nome sono suoi: Deus creator omnium, Aeterne rerum conditor, Iam surgit hora tertia, Intende qui regis Israel. Non è suo il Te Deum.

De officiis ministrorum: modellato sul De officiis di Cicerone, il trattato ne segue l'andamento in 3 ll.: prima si tratta dell'onesto, poi dell'utile e infine del rapporto tra utile e onesto. Ciò che è nuovo è il precetto paolino: Amate vos vindicem. E' il primo trattato di etica cristiana. Sviluppa sermoni tenuti al clero milanese, a illustrare l'etica dell'honestum che assicura al cristiano l'utile della ricompensa 23 Origene è il primo a curare un'edizione scientifica della Bibbia, chiamata Hexapla, redatta per offrire un testo unitario ed attendibile, con un metodo simile a quello della filologia ellenistica. Il titolo dell'opera indica le "sei versioni" del testo disposte su sei colonne, tra cui il testo ebraico originale e la traduzione greca dei Settanta. Nell'interpretazione della Bibbia, adotta un metodo fondamentalmente allegorico, ogni volta che il senso letterale comporta qualcosa di impossibile, assurdo o indegno di Dio. Tra le sue posizioni non pienamente ortodosse, Origene crede che l'anima preesista al corpo e che Dio non voglia castighi eterni: tutte le anime sono destinate alla apokatastasis, cioé alla salvezza universale.

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celeste.

Tra gli altri scritti, si possono citare i trattati antieretici De fide e De Spiritu Sancto (scritta nel 380 su richiesta dell'imperatore Graziano, per sostenere l'ortodossia trinitaria sancita dal concilio di Nicea del 325 contro l'eresia ariana) e alcuni scritti sull'Antico Testamento, come il De Cain et Abel e il De paradiso.

Aeterne rerum conditor: l'inno era destinato all'officiatura notturna. Il testo descrive nella prima parte il risveglio della natura all'alba, calando in una veste metrica facile un repertorio di immagini coerenti: tra esse il canto del gallo rappresenta l'invito al fedele a destarsi dal sonno spirituale per riprendere il cammino della vita. Nelle ultime due strofe, il canto si fa preghiera, chiedendo a Cristo di scuotere il sonno della coscienza e di risvegliare la fede che vacilla. O creatore eterno delle cose, che regoli il giorno e la notte e i tempi diversi avvicendi ad alleviarci la noia, già s'ode l'araldo del giorno, che veglia nel profondo della notte: è come luce a chi cammina al buio, delle notturne vigilie è segnale. Desta a quel canto la stella lucifera dalla tenebra libera il cielo; dei vagabondi la torma, a quel canto, abbandona le strade del malfare. Si rincuora a quel canto il navigante poi che si placa la furia del mare; anche colui che è Pietra della Chiesa a quel canto deterse il suo peccato. Alacri dunque e animosi leviamoci: il gallo scuote chi a giacere indugia, rimbrotta i dormiglioni e chi si nega accusa. Se il gallo canta, torna la speranza, e rifluisce ai malati il vigore, il bandito nasconde il pugnale, negli smarriti la fede rivive. Guarda, Gesù, chi vacilla, emendaci col tuo sguardo. Se tu ci guardi, le colpe dileguano e il peccato si stempera nel pianto. Tu, luce, ai sensi rifulgi e dissipa il sonno dell'anima. Te la primizia della voce canti, prima che agli altri il labbro a te si sciolga.

Questa è la lettera che A. scrive all'imperatore riguardo all'Ara della Vittoria. Tra l'altro, ritorce contro i pagani l'accusa che la carestia dell'anno precedente sia stata provocata dall'ira degli dei pagani. A. sostiene che rispetto alla rigidità e al tradizionalismo dei profani il cristianesimo prospetta nella storia un processo evolutivo che porta alla redenzione. Epistola 18, 8-10, 22-23: A chi asserisce che non seguendo una solva via è dato penetrare nei segreti recessi dell'essere, così replichiamo: quel che ignorate, noi l'abbiamo appreso dalla voce di Dio; e quel che cercate per incerte vie, sappiamo in modo certo dalla sapienza e verità divina. Non v'è concordanza tra i vostri e i nostri principi: voi implorate dagli imperatori pace per i vostri dei, noi chiediamo a Cristo pace per gli stessi imperatori; voi adorate dei plasmati dalle vostre mani, noi riteniamo sia sacrilegio fare di esseri plasmati dagli uomini degli dei. Dio non tollera di essere adorato in immagini corporee: fin i vostri filosofi vi han schernito per queste superstizioni. Che se poi non credete in Cristo perché è morto, se ignorate che la sua morte è stata solo una morte della carne e da lui voluta perché nessun credente in lui morisse, se ciò voi ignorate o negate, che cosa è più stolto dell'onorare gli dei, come fate col recar loro ingiuria e dello sminuirli nell'atto i cui mostrate di onorarlo. Dappoiché l'immagine materiale del dio è per voi Dio (irriverente riverenza) e intanto vi rifiutate di credere che Cristo abbia potuto morire (riverente irriverenza). A sentir Simmaco, son da rendere ai simulacri i loro altari, i loro ornamenti ai templi. Ora, perché non chiedono i gentili coteste cose a quel ch'hanno le stesse loro superstizioni? Un imperatore cristiano non può onorare che l'ara di Cristo. Perché vogliono costringere mani pie e labbra fedeli a servire i loro sacrileghi culti? la voce del nostro imperatore faccia risonare solo il nome di Cristo, pronunzi solo il nome di colui in cui crede....E veniamo all'ultima e maggiore questione: a quella per cui voi, imperatori, dovreste ristabilire per

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i loro culti e i loro sacerdoti quei sussidi, che già vi furono di tanto giovamento. Dice Simmaco: che vogliano continuare a proteggervi gli dei! Che possano continuare ad essere da noi adorati! Ma è ciò, o cristianissimi principi, che non possiamo tollerare; perché, tollerandolo, han bene il diritto di rinfacciarci le preghiere che rivolgono ai loro dei in vostro nome: senza vostro mandato, sono indotti a credere che sia consenso la vostra tolleranza e a commettere sacrilegio. Si tengano per sé i loro dei e i loro dei che li proteggano anche, se son da tanto! Infatti, se non riescono ad essere di aiuto a coloro dai quali sono adorati, come possono esserlo per voi che non li adorate?

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GIROLAMO (Stridone, Dalmazia, 347 - Betlemme, 419?)

Nato da famiglia ricca cristiana, studia a Roma nella scuola di Elio Donato e in quella di Vittorino, con l'amico Rufino di Aquitania. Vive a Treviri e ad Aquileia in una comunità ascetica con Rufino. Parte in pellegrinaggio per Gerusalemme, ma cade malato ad Antiochia (Siria) e dopo la guarigione fa l'eremita24 nel deserto di Calcide (375-377) e studia l'ebraico (dunque, è triglotta). Qui ha una visione che narra alla vergine Eustochio: Dio lo rimprovera (Ciceronianus es, non christianus). La mattina dopo pronuncia un voto: Domine, si umquam habuero codices saeculares, si legero, te negavi. Ordinato prete (377) e infastidito dalle dispute teologiche dei monaci, va a Costantinopoli (380-1). Qui viene a contatto con la patristica greca, soprattutto Origene. Torna a Roma nel 382, al seguito di Epifanio, vescovo di Salamina e di altri amici convocati per un sinodo; qui rimane con un incarico di papa Damaso, di cui diventa segretario. Il pontefice gli affida la revisione della traduzione latina dei Vangeli; in particolare, nel 384, appronta anche una prima revisione del Salterio. Gli è vicino un circolo animato dalla nobile Marcella, il quale si riunisce in una villa sull'Aventino con Paola e sua figlia Eustochio. Paola e Eustochio lo seguono a Betlemme, dove si trasferisce (385-386), dopo la morte di Damaso, anche per via delle accuse ricevute per i rapporti con le nobildonne romane. Nel 386 fonda a Betlemme un convento con annessa una scuola25, Paola e Eustochio tre monasteri femminili. Tra il 390 e il 405, G. traduce dall'ebraico l'Antico Testamento. effettua due revisioni dei Salmi, una sulla versione greca di Origene, l'altra sul testo ebraico. La sua traduzione in latino della Bibbia sarà accettata come ufficiale solo con il concilio di Trento (1545-63).Nel 393 si trova implicato nella controversia tra sostenitori e negatori dell'ortodossia di Origene: è così che si allontana da Rufino (che è origeniano anche in teologia), contro cui scriverà Contra Rufinum; non da Origene, del quale traduce un'opera andata persa e scritta in greco nel De principiis. Per salvare il maestro, G. è pronto anche a falsificarne il pensiero.

G. vive sempre combattuto tra ritiro spirituale e vita mondana, come tra cultura cristiana e cultura classica: il fatto è che non riuscirà mai a rinunciare ad una delle due, perché sente che l'essere umano si rispecchia in entrambe: ciò dimostra indirettamente che G. riconosce autonomia e dignità anche alla cultura classica. Questo rapporto complica ancora di più la traduzione della Bibbia, che resta il lavoro più importante di G. Egli sa che tradurre è difficile e si applica affinché la sua traduzione non sia bella e infedele né brutta e fedele. In genere, rende idea con idea, limitandosi ad una revisione leggera per i Vangeli e affrontando con maggiore libertà l'Antico Testamento. Sceglie, così, un latino semplice, che rispecchia il greco parlato dell'originale, ma pieno di dignità stilistica.

24 In queste forme di monachesimo si realizza l'esperienza dei fellah, i poveri egiziani, che fuggono le sperequazioni sociali dedicandosi alla contemplazione.25 NeI suoi conventi si lavora, prega e studia (anche la cultura classica): l'impegno serve ut semper te diabolus inveniat occupatum.

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Chronicon (Costantinopoli, ca. 380): G. traduce la storia universale di Eusebio di Cesarea (che trattava la storia da Abramo al 325), ampliato fino al 378 (morte di Valente a Adrianopoli) e con notizie culturali (ad es. su Lucrezio), tratte da un'opera persa di Svetonio.

De viris illustribus: il trattato raccoglie 135 vite di scrittori cristiani (tra cui Tertulliano e lo stesso G.), giudicati per contenuti e stile. Il titolo ricorda un'opera di Svetonio. Fine di G. è di dimostrare che i cristiani non sono ignoranti, ma che esistono anche intellettuali cristiani.

Adversus Helvidium: il trattato è scritto a Roma contro Elvidio, che sulla base della maternità di Maria sostiene la pari dignità del matrimonio e della verginità. G. crede invece che il matrimonio sia da condannare.

Vita Pauli, Vita Malchi, Vita Hilarionis: si tratta di tre agiografie, la prima scritta ad Antiochia, le altre a Betlemme. Narrano rispettivamente le vite di Paolo di Tebe d'Egitto (il primo anacoreta, morto nel 341), del prete siriaco Malco e di Ilarione di Gaza, taumaturgo e fondatore del monachesimo in Palestina.

Epistolario: comprende 154 lettere, di cui 117 di G. Ogni epistola è di genere diverso: ci sono lettere biografiche, trattati di traduzione, consolationes, opere esegetiche.

In sogno è trascinato davanti al tribunale celeste e accusato di essere ciceroniano. La problematica compare nell'epistola 21 a Damaso, nella quale G. sembra attenersi al giuramento pronunciato durante il sogno. Nella lettera 70, scritta a Betlemme a fine secolo, quando G. insegna nella scuola del suo monastero, ammette che il cristiano possa ricavare profitto dalle lettere profane. Girolamo, epistola 22, 30: Riferisco a te la mia storia di infelicità.Quando, molti anni fa, mi amputai, per il regno dei cieli, casa, genitori, sorella, parenti e – cosa più difficile – l’abitudine a pranzi piuttosto lauti, dirigendomi alla volta di Gerusalemme a militare per Cristo, non potevo restar privo della biblioteca che a Roma mi ero messa insieme con molta cura e fatica. E così io, sciagurato, digiunavo per poi leggere Cicerone. Dopo frequenti veglie notturne, dopo le lacrime che mi faceva uscire dal profondo delle viscere il ricordo dei vecchi peccati, prendevo in mano Plauto. E se talvolta, ritornato in me, iniziavo a leggere i profeti, mi faceva orrore quel linguaggio rozzo e, non vedendo la luce a causa della cecità degli occhi, non pensavo che fosse colpa degli occhi; ma del sole. Mentre l’antico serpente si faceva beffe di me in questo modo, verso la metà della Quaresima la febbre mi penetrò fin nelle midolla e si impadronì del mio corpo esausto, e senza un attimo di tregua – anche a dirlo è incredibile – mi consumò le membra infelici al punto che a stento restavo attaccato alle mie ossa. Intanto si preparava il funerale; tutto in corpo era già freddo ed il calore vitale dell’animo palpitava solo nel povero petto, appena tiepido, quando improvvisamente, rapito nello spirito, vengo tratto davanti al tribunale del Giudice, dove c’erano tanta luce e tanto fulgore irradiato dai presenti che io, gettatomi a terra, non avevo il coraggio di alzare lo sguardo. Interrogato su chi fossi, risposi di essere cristiano. E colui che sedeva disse: «Menti, tu sei ciceroniano, non cristiano; “dove c’è il tuo tesoro, lì c’è anche il tuo cuore”». Subito ammutolii e tra le percosse – egli aveva ordinato infatti che io fossi battuto – ero tormentato ancor più dal fuoco della coscienza, mentre consideravo tra me quel versetto: “Ma nell’inferno chi canteràle tue lodi?” Iniziai tuttavia a gridare e a dire, lamentandomi ad alta voce: “Pietà di me,

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Signore, pietà di me”. Queste parole risuonavano tra i colpi di frusta. Alla fine, gettati sulle ginocchia di colui che presiedeva, gli astanti supplicavano che concedesse il perdono alla mia giovane età, che desse all’errore la possibilità di penitenza, con la condizione che avrebbe preteso poi tale supplizio se mai avessi ripreso a leggere libri di scrittori pagani. Io che, costretto in una situazione così critica, sarei stato disposto a promettere anche di più, cominciai a giurare e a dire, chiamando a testimonio il suo nome: «Signore, se mai avrò testi profani, se li leggerò, significherà che ti ho rinnegato!». Rilasciato dopo queste parole di giuramento; torno sulla terra e, fra la meraviglia di tutti, apro gli occhi, talmente inondati di lacrime da convincere, visto il mio dolore, anche gli increduli. E non si era trattato di un sogno né di quelle vane fantasie da cui spesso siamo ingannati. Lo attesta il tribunale avanti al quale stetti prostrato, lo attesta il giudizio di cui ebbi paura – non mi capiti mai più di incorrere in un processo del genere! –, il fatto che avevo le spalle livide, che sentivo le piaghe al risveglio, e che da allora ho letto i testi sacri con tanto zelo, quanto non ne avevo avuto prima nel leggere i testi mortali.

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AGOSTINO (Tagaste, Numidia, ora Algeria, 354 - Ippona, 430)

Il padre Patrizio, modesto proprietario terriero e membro del consiglio municipale, si converte morendo al cristianesimo; la madre, Monica, è da sempre una fervente cristiana. Patrizio, orgoglioso del successo di A. negli studi a Tagaste e Madaura, decide di mandarlo a Cartagine per farlo diventare avvocato, ma impiega molti mesi per raccogliere il denaro. Nell'ozioso A. si scatena una crisi morale: prova quasi attrazione per il peccato, come in occasione di un furto di pere, rimasto celebre. Studia a Cartagine (370), conduce una vita dissoluta, ha una relazione con una donna che gli dà un figlio, Adeodato (372). Si separano nel 386, quando ella lo lascia a Milano per recarsi in Numidia con la promessa che sarebbe tornata.

Nel 373, la lettura dell'Hortensius di Cicerone provoca in lui un cambiamento: s'interessa di filosofia e approda al manicheismo. A. è attratto da una filosofia libera dai vincoli della fede e dalla speranza di trovarvi una spiegazione scientifica dei fenomeni della natura. E' affascinato dall'irresponsabilità morale che risulta da una dottrina che attribuisce la responsabilità dei crimini ad un principio esterno. Al termine dei suoi studi torna a Tagaste per insegnare. Il giovane professore incanta i suoi alunni, uno dei quali, Alipio, per non lasciarlo, è in seguito battezzato a Milano e diventa poi vescovo di Tagaste. Poco dopo A. torna a Cartagine, dove continua ad insegnare. Si rende conto che il manicheismo non è mai riuscito a calmare la sua inquietudine: del resto, non è mai stato un "eletto", ma un "uditore"; altri motivi del suo disincanto sono l'immoralità dei compagni e la debolezza delle loro argomentazioni anticristiane (le Sacre Scritture sono state falsificate). Nel 383, spera che Fausto di Mileve, famoso vescovo manicheo, giunto a Cartagine, gli riveli, almeno in parte, la scienza della natura, ma scopre nelle sue risposte solo volgare retorica.

Nel 383 A. parte per Roma, imbarcandosi di notte (la madre non vorrebbe lasciarlo andare). Qui frequenta la comunità manichea; apre una scuola di retorica, ma, disgustato dagli alunni, che lo defraudano delle loro tasse, fa domanda per una cattedra a Milano. Simmaco lo aiuta per contrastare la fama del vescovo Ambrogio. Ma A., dopo aver conosciuto Ambrogio, ne resta affascinato.

A. in un primo tempo si volge verso lo scetticismo accademico. Tuttavia, è tormentato dal problema del male: se Dio esiste ed è onnipotente, perché non riesce ad annientarlo? Risponde in qualche modo a questa domanda il neoplatonismo, al quale si avvicina grazie ad Ambrogio. Intanto, Monica lo raggiunge a Milano. Attraversa un ultimo periodo di angoscia, diviso tra la volontà di convertirsi e i piaceri di una vita sregolata, finché, anche grazie ad Ambrogio, intuisce che la verità è un'entità viva e personale e che Gesù sia l'unica via per giungervi. Simpliciano gli racconta la storia della conversione del retore neo-platonico Vittorino. A 33 anni, la voce di una bimba che canterella tolle lege, «prendi e leggi», lo invita ad aprire a caso la Bibbia: A. legge un passo di Paolo di Tarso (386). Alcuni giorni più tardi, con Monica, Adeodato e i suoi amici si ritira a Cassisiacum, residenza di campagna di Verecondo (386-387). Lì si dedica alla ricerca della vera filosofia e completa l'istruzione dei suoi amici attraverso, tra

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l'altro, conferenze: i tre dialoghi Contra academicos, a proposito della certezza della verità; il De beata vita, dove sostiene che la felicità vera sta nella conoscenza di Dio; il De ordine, dove risolve il problema del male, che è provvidenziale; i Soliloquia, un dialogo con la ragione, il quale si chiude con l'idea che la verità dev'essere cercata solo in se stessi (similmente, Petrarca, nel Secretum, immaginerà di dialogare con A. in presenza della Verità).

Verso l'inizio della quaresima del 387, Agostino si reca a Milano dove, con Adeodato ed Alipio, è battezzato da Ambrogio il giorno di Pasqua. Inizia un'enciclopedia delle arti liberali (grammatica, retorica, dialettica, matematica, geometria, musica, astornomia), i Disciplinarum libri, dei quali A. completa il De grammatica (andato perso) e il De musica in 6 ll., recuperando la tradizione classica, ma riconducendo le artes alle Sacre Scritture. A questo punto decide di ritirarsi nella solitudine dell'Africa, ma, mentre sta per imbarcarsi ad Ostia, Monica muore: A. rimanda la partenza, restando a Roma, di molti mesi.

Finalmente, nel 388, giunge a Cartagine e, quasi immediatamente, torna a Tagaste. Qui vende tutti i propri beni, lasciando gli incassi ai poveri; infine, con i suoi amici, si ritira in un terreno, per condurvi una vita in comune nella preghiera e nello studio. Durante questo periodo, scrive il De magistro, in 2 ll., dedicato ad Adeodato, e il De vera religione. Nel primo trattato, affronta il problema del rapporto tra docente e alunno: il maestro non comunica una verità, ma prepara un altro maestro interiore: lo spirito, che è aperto al vero perché creato da Dio. Ne segue che ogni educazione funziona se è autoeducazione, perché la verità è dentro di noi ed è l'esistenza di Dio, la prima conoscenza dalla quale derivano tutte le altre. Il concetto è ribadito anche nel De vera religione, dove appare in una formulazione diventata proverbiale: Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas "non uscire fuori da te, torna in te stesso, nell'intimo dell'uomo abita la verità"; qui A. ribadisce anche che la religione è esperienza dell'anima, più che un insieme di riti e dottrine.

A. non pensa al sacerdozio, ma una folla ad Ippona costringe Valerio, il vescovo, a ordinarlo prete nel 391. Valerio lo autorizza anche a fondare un monastero e a predicare, nonostante questo ministero fosse riservato ai vescovi in Africa. A., allora, combatte l'eresia dei manichei. Nel 392, sfida pubblicamente il prete manicheo Fortunato, il quale resta così umiliato dalla sconfitta che fugge da Ippona (Acta contra Fortunatum manichaeum). Nello stesso anno, affronta con il vescovo donatista di Siniti, Massimino, il caso di un diacono della città di Mutugenna, ribattezzato da quest'ultimo.

Nel 395, seppure costretto da Aurelio, A. è consacrato vescovo coadiutore e quindi suo successore. Il neo-vescovo è esemplare per come combina l'esercizio dei suoi doveri pastorali con l'austerità. Dalla sua casa, passano molti dei fondatori di nuovi monasteri in Africa. Nella sua nuova carica, A. affronta diverse eresie:

- i manichei: tra l'altro, scrive 33 libri Contra Faustum manichaeum (397-400),

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Contra Felicem Manichaeum (398), Contra Secundinum Manichaeum (399). Nel 404 A. invita a una disputa pubblica Felice, dottore manicheo, al termine della quale quest'ultimo si dichiara vinto e si converte.

- i donatisti: A., inizialmente, tenta di ritrovare l'unità con i donatisti attraverso conferenze e controversie amichevoli: nel 395 organizza un dibattito con il vescovo donatista d'Ippona, Proculiano; nel 397 con il vescovo donatista Fortunio a Thubursicum (Numidia). I donatisti accolgono questi inviti col silenzio, poi con insulti ed infine con la violenza, attentando alla vita del discepolo di A. Possidio (401, 403). La disputa con i donatisti finisce, formalmente, nel 411 alla Collatio (=conferenza) di Cartagine: qui A. prova l'innocenza di Ceciliano e del suo consacratore Felice, sostenendo che la Chiesa può tollerare i peccatori al suo interno nell'interesse della loro conversione. A nome dell'imperatore il proconsole Marcellino sanziona la vittoria dei cattolici. Tra le opere contro i donatisti, si ricordano: De baptismo (7 ll., 400-1), Psalmus contra partem Donati (carme abecedario), De correctione Donatistarum (417), Contra Gaudentium Donatistarum episcopum (421).

- i pelagiani: A., contro Pelagio, sostiene che il peccato originale ha corrotto la volontà dell'uomo e inficiato la sua libertà, cioé la sua capacità di realizzare i propri propositi. L'uomo ha ancora il libero arbitrio, cioé la capacità razionale di scegliere tra il bene e il male: vorrebbe per natura tendere al bene, ma è incapace di perseguirlo e solo Dio con la sua grazia può redimerlo. Contro quest'eresia, A. ottiene diverse condanne ufficiali (412, 416, 417, 418). In particolare, nel 418 A. deve convincere papa Zosimo, che è diventato pelagiano grazie all'opera di Celestio. In seguito, la disputa prosegue per iscritto contro Giuliano vescovo di Eclano. Tra i trattati antipelagiani, si citano: De natura et gratia (413-5), De gratia Christi et de peccato originali (418), Contra Iulianum.

Altri scritti teologici importanti, appartenenti al periodo del vescovato, sono i 15 ll. De trinitate (399-420), i 4 ll. De doctrina Christiana (i primi tre risalgono al 396-7 e riguardano la teoria dell'esegesi biblica; il quarto, del 426-7, regola il rapporto tra cristianesimo e retorica classica), le Retractationes (426-7), che presentano una recensione cronologica di tutti gli scritti precedenti, per chiarirne le ragioni. Nel 426, per risparmiare alla sua città il tumulto di un'elezione episcopale, A. fa acclamare come suo ausiliare Eraclio. In quegli anni è in atto la rivolta del comes Bonifacio (427); i Visigoti inviati dall'imperatrice Galla Placidia e i Vandali alleati di Bonifacio sono tutti ariani. Al seguito delle truppe imperiali, entra ad Ippona Massimino, un vescovo ariano. A. fa riconciliare Bonifacio e l'imperatrice. Il comes, inseguito da Genserico, il re vandalo, si rifugia ad Ippona, che i barbari assediano per diciotto mesi. A., all'inizio dell'assedio, è colpito da una malattia fatale e, dopo tre mesi, muore.

Le sue opere principali sono, però, le Confessiones e il De civitate Dei.

Confessiones (397-9, in 13 ll.). I primi nove ll. raccontano la vita dell'autore fino alla conversione e al ritorno in

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Africa. Il X verte sulla condizione di A. quando stende l'opera e contiene una riflessione sulla memoria e sulla relatività dell'idea del tempo; gli ultimi tre contengono un commento al racconto biblico della creazione. La parola confessio significa, infatti, riconoscimento del proprio passato peccaminoso, professione di fede, lode a Dio (corrispondente al momento esegetico). Nella parte autobiografica, ogni evento è considerato solo in virtù dell'eco che ha prodotto e produce nell'interiorità dell'autore: egli non sceglie di raccontare tutto, ma solo ciò che è importante per lo studio della propria anima. A posteriori, tutte le tappe della sua vita (anche le più banali, compreso il furto della frutta al vicino) hanno significato perché si allineano lungo una direzione provvidenziale, che lo porta alla salvezza. Per salvarsi, infatti, occorre prendere coscienza della propria natura torbida e toccare il fondo, per poter ritrovare nella propria pochezza la grandezza di Dio. A., quando non è cristiano, è scontento, sempre in tensione: cerca qualcosa che non sa cosa sia. Dio lo tira a sé, ma è vero anche che lui tende a Dio. Il suo cuore resta inquieto, finché non trova riposo in Dio (Nos fecisti ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te "ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in te"): A., dal canto suo, si getta in un disordinato fare per cercare un senso nella vita, ma lo trova solo nella contemplazione.

L'ultima parte affronta problemi chiave dell'opera: il tempo (la cui misura non è oggettiva, tanto che la soggettività umana può rallentarlo o accelerarlo a seconda dei casi) e il male. A. distingue fra male fisico del corpo e male morale dell'anima, legato al peccato. In questo modo contesta l'idea che la malattia e il dolore siano una punizione divina: infatti, Dio è Amore. Dolore, fame, malattia e peccato sono mancanza di essere, difetto di bene, non realtà oggettive. Il male, che si manifesta per ignoranza, non è concepibile da parte di Dio, mentre lo è da parte dell'uomo, che può attuarlo poiché è creato libero.

Avverte l'esigenza di uno stile immediato e paratattico per riprodurre la colloquialità del dialogo con Dio. A questo scopo riprende lo stile libero e franto della prosa neosofistica. Le continue antitesi sono giustificate, perché sono uno schema universale ispirato direttamente dalla natura contraddittoria della creazione. Molte sono le immagini usate da A., in parte eredità dei manichei e dei neoplatonici, in parte suggerite dalla lettura della Bibbia.

De civitate Dei (413-27, 22 ll.). I primi dieci libri spiegano che la causa del crollo dell'impero sta nella storia immorale e nella religione, superstiziosa e corrotta, dei Romani. Gli altri libri ripensano la storia per comprenderne il senso ultimo (A., a questo fine, chiede ad Orosio, che incontra in Africa, un manuale di storia: si tratta delle Historiae adversus paganos, in 7 ll., dei quali i primi sei raccontano la storia dell'uomo da Adamo alla nascita di Cristo, mentre nel settimo si descrive una fase di progresso, coincidente con l'affermarsi del cristianesimo):1. è ufficializzata la concezione lineare del tempo (la storia come mutamento e non più come ripetizione o analogia, anche se non ciclica: lo storico greco Tucidide, ad es., crede che gli uomini siano sempre gli stessi e il processo di

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crescita riguardi solo il lato economico);2. si chiude la lettura della storia in un'unica ottica (a differenza, ad es., di quanto faceva Tacito, secondo cui le storie sono tante quante è la gente che le vive);3. c'è un punto di arrivo: la storia marcia verso la sua fine (l'eterno), in cui non ci sarà più cambiamento;4. si accetta un embrione di principio dialettico tra città celeste e terrena (lo spunto deriva ad A. dal teologo donatista Ticonio). Esse non sono organizzazioni o strutture, ma modi di essere: la città terrena è l'amor sui, spinto fino al disprezzo di Dio; quella celeste, l'amor Dei, spinto fino al disprezzo dell'uomo. La storia si muove, in effetti, da un'iniziale prevalenza della città terrena per arrivare al trionfo della città celeste. Per ora, però, non esiste una realizzazione vera e propria di entrambe: città terrena e celeste convivono in ciascun uomo. Ad es. anche il bandito e il tiranno tengono alla pace (elemento della città celeste), ma la intendono come il governo di uno solo su tutti. L'unità di misura con cui si giudica ciò che è storicamente positivo finora è stata la competitività: ma Roma, che oggi è capitale della città terrena, sarà capitale della città celeste. Per tutto il Medioevo, il De civitate Dei sarà letto come l'opera della lotta tra chiesa e impero, senza esserlo. In questo trattato, A. predilige una prosa ipotattica la cui complessità segue le articolazioni del pensiero, sostituendo all'immediatezza del dialogo interiore il taglio argomentativo dello scritto apologetico e dottrinale.

Le Confessioni si aprono con una preghiera a Dio. L'uso del Du-Stil, le citazioni bibliche, l'apostrofe iniziale e la semplicità dello stile di ascendenza biblica introducono l'immediatezza del colloquio interiore con Dio, cui A. si rivolge in tutta l'opera, escludendo il coinvolgimento diretto del lettore o inglobando il rapporto col lettore nell'ambito onnicomprensivo del rapporto tra A. e Dio.Confessiones I 1, 1: Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile 1. E l'uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l'uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te. Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno colui, in cui non credettero? E come credere, se prima nessuno dà l'annunzio? Loderanno il Signore coloro che lo cercano? perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e t'invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto. T'invoca, Signore, la mia fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l'opera del tuo Annunziatore.

Che il giovane A. sia uno scapestrato, lo dimostra l'avventura di una notte, quando ruba da un albero vicino alla sua vigna molte pere, gettate in pasto ai porci. Dopo vent'anni, A. scandaglia il senso del gesto e vi scorge il fascino del proibito (rivive l'esperienza di Adamo, ma su un piano più banale, verificando la natura peccaminosa dell'uomo, che non può salvarsi senza la grazia di Dio). Qualcuno s'è chiesto se la vicenda sia reale, ma le Confessioni sono sempre in

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bilico tra storia e coscienza e il rilievo conferito ai fatti non è assoluto, ma è quello dell'interiorità. Nelle Confessions, anche Rousseau racconta di un furto di mele, ma dall'esperienza non esce ravveduto, anzi più risoluto a rubare e a subirne le conseguenze.Confessiones II 4, 9; 5, 11; 6, 12: La tua legge, Signore, condanna chiaramente il furto, e così la legge scritta nei cuori degli uomini, che nemmeno la loro malvagità può cancellare. Quale ladro tollera di essere derubato da un ladro? Neppure se ricco, e l'altro costretto alla miseria. Ciò nonostante io volli commettere un furto e lo commisi senza esservi spinto da indigenza alcuna, se non forse dalla penuria e disgusto della giustizia e dalla sovrabbondanza dell'iniquità. Mi appropriai infatti di cose che già possedevo in maggior misura e molto miglior qualità; né mi spingeva il desiderio di godere ciò che col furto mi sarei procurato, bensì quello del furto e del peccato in se stessi. Nelle vicinanze della nostra vigna sorgeva una pianta di pere carica di frutti d'aspetto e sapore per nulla allettanti. In piena notte, dopo aver protratto i nostri giochi sulle piazze, come usavamo fare pestiferamente, ce ne andammo, giovinetti depravatissimi quali eravamo, a scuotere la pianta, di cui poi asportammo i frutti. Venimmo via con un carico ingente e non già per mangiarne noi stessi, ma per gettarli addirittura ai porci. Se alcuno ne gustammo, fu soltanto per il gusto dell'ingiusto. Così è fatto il mio cuore, o Dio, così è fatto il mio cuore, di cui hai avuto misericordia mentre era nel fondo dell'abisso. Ora, ecco, il mio cuore ti confesserà cosa andava cercando laggiù, tanto da essere malvagio senza motivo, senza che esistesse alcuna ragione della mia malvagità. Era laida e l'amai, amai la morte, amai il mio annientamento. Non l'oggetto per cui mi annientavo, ma il mio annientamento in se stesso io amai, anima turpe, che si scardinava dal tuo sostegno per sterminarsi non già nella ricerca disonesta di qualcosa, ma della sola disonestà... Perciò nella ricerca del movente di un delitto non si è paghi di solito, se non quando si scopre la brama di ottenere l'uno o l'altro dei beni che abbiamo definito minimi, oppure il timore di perderlo, perché essi, sebbene abietti e vili a paragone dei beni superiori e beatificanti, posseggono una loro bellezza e grazia. Qualcuno ha ucciso: perché l'ha fatto? Vagheggiava la moglie o il podere del morto, oppure cercò di predare per vivere, oppure temeva di perdere uno di questi beni per mano del morto, oppure era arso dal desiderio di vendicare un affronto subito. Avrebbe mai perpetrato un omicidio senza ragione, per il solo piacere di uccidere un uomo? Chi lo crederebbe? Persino alle follie e alle crudeltà estreme di un uomo, del quale fu detto che sfogava abitualmente per nulla la propria malvagità e crudeltà, fu premessa una ragione: "perché nell'inattività - dice il suo storico - non s'intorpidisse la mano o lo spirito". Domandati anche questo: a che scopo? perché questo? Evidentemente per ottenere mediante la pratica dei delitti e una volta padrone della città onori, potere, ricchezze; per liberarsi dal timore delle leggi e dalle angustie che gli derivavano dall'esiguità del patrimonio e dal rimorso dei delitti. Dunque neppure Catilina amò i propri delitti, ma altro: lo scopo, cioè, per cui li commetteva... Ma io, sciagurato, cosa amai in te, o furto mio, o delitto notturno dei miei sedici anni? Non eri bello, se eri un furto; anzi, sei qualcosa, per cui possa rivolgerti la parola ? Belli erano i frutti che rubammo, perché opera delle tue mani, o Bellezza massima fra tutte, creatore di tutto, Dio buono, Dio sommo bene e bene mio vero. Belli, dunque, erano quei frutti, ma non quelli bramò la mia anima miserabile, poiché ne avevo in abbondanza di migliori. Eppure colsi proprio quelli al solo scopo di commettere un furto. E infatti appena colti li gettai senza aver assaporato che la mia cattiveria, così inebriante a praticarla. Se pure un briciolo di quei frutti entrò nella mia bocca, a insaporirlo era il misfatto. E ora, Signore Dio mio, mi domando: cosa mi attrasse in quel furto? Non vi trovo davvero bellezza alcuna, non dico la bellezza insita nella giustizia e nella saggezza, o nell'intelletto umano, nella memoria, nella sensibilità, nella vita vegetativa, o la bellezza e la grazia propria nel loro ordine agli astri e alla terra e al mare, popolati di creature che si succedono nella nascita e nella morte, e nemmeno quella difettosa e irreale con cui ci seducono i vizi.

Nel 373 A. è spinto dalla lettura dell'Hortensius a una prima conversione alla sapienza e alla verità.Confessiones III 4, 7-8: Fu in tale compagnia che trascorsi quell'età ancora malferma, studiando i testi di eloquenza. Qui bramavo distinguermi, per uno scopo deplorevole e frivolo quale quello di soddisfare la vanità umana; e fu appunto il corso normale degli studi che mi condusse al libro di un tal Cicerone, ammirato dai più per la lingua, non altrettanto per il cuore. Quel suo libro contiene un

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incitamento alla filosofia e s'intitola Ortensio. Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d'un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore. Così cominciavo ad alzarmi per tornare a te. Non usavo più per affilarmi la lingua, per il frutto cioè che apparentemente ottenevo con il denaro di mia madre: avevo allora diciotto anni e mio padre era morto da due; non per affilarmi la lingua dunque usavo quel libro, che mi aveva del resto conquistato non per il modo di esporre, ma per ciò che esponeva. Come ardevo, Dio mio, come ardevo di rivolare dalle cose terrene a te, pur ignorando cosa tu volessi fare di me. La sapienza sta presso di te, ma amore di sapienza ha un nome greco, filosofia. Del suo fuoco mi accendevo in quella lettura. Taluno seduce il prossimo mediante la filosofia, colorando e truccando con quel nome grande, fascinoso e onesto i propri errori. Ebbene, quasi tutti coloro che sia al suo tempo, sia prima agirono in tal modo, vengono bollati e denunciati in quel libro. Così vi è illustrato l'ammonimento salutare che ci diede il tuo spirito per bocca del tuo servitore buono e pio: Attenti che nessuno v'inganni mediante la filosofia e la vana seduzione propria della tradizione umana, propria dei princìpi di questo mondo, ma non propria di Cristo, perché in Cristo sussiste tutta la pienezza della divinità corporeamente. A quel tempo, lo sai tu, lume della mia mente, io ignoravo ancora queste parole dell'Apostolo; pure, una cosa sola bastava a incantarmi in quell'incitamento alla filosofia: le sue parole mi stimolavano, mi accendevano, m'infiammavano ad amare, a cercare, a seguire, a raggiungere, ad abbracciare vigorosamente non già l'una o l'altra setta filosofica, ma la sapienza in sé e per sé là dov'era. Così una sola circostanza mi mortificava, entro un incendio tanto grande: l'assenza fra quelle pagine del nome di Cristo. Quel nome per tua misericordia, Signore, quel nome del salvatore mio, del Figlio tuo, nel latte stesso della madre, tenero ancora il mio cuore aveva devotamente succhiato e conservava nel suo profondo. Così qualsiasi opera ne mancasse, fosse pure dotta e forbita e veritiera, non poteva conquistarmi totalmente.

In una giornata di agosto del 386, A. si trova nel giardino della sua casa milanese col discepolo Alipio. Si ritira in disparte e scoppia in pianto. All'improvviso da una casa vicina gli giunge una voce infantile: "Prendi, leggi". Afferra le Lettere di Paolo, le apre a caso e legge: "Non nelle gozzoviglie e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle dissolutezze, non nella contesa e nell'invidia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non prendetevi cura della carne nelle sue concupiscenze". A. si rende conto che la conversione è avvenuta. L'espediente della Sacra Scrittura aperta a caso deriva dalla storia di Antonio scritta da Atanasio; sarà recuperato da Petrarca in una sua famosa lettera, dove racconta l'ascensione al monte Ventoso (Provenza). Petrarca legge, infatti, un passo delle Confessioni e se ne sente talmente turbato da imitare A. e cambiare egli stesso vita.Confessiones 8, 28-30: Quando dal più segreto fondo della mia anima l'alta meditazione ebbe tratto e ammassato tutta la mia miseria davanti agli occhi del mio cuore, scoppiò una tempesta ingente, grondante un'ingente pioggia di lacrime. Per scaricarla tutta con i suoi strepiti mi alzai e mi allontanai da Alipio, parendomi la solitudine più propizia al travaglio del pianto, quanto bastava perché anche la sua presenza non potesse pesarmi. In questo stato mi trovavo allora, ed egli se ne avvide, perché, penso, mi era sfuggita qualche parola, ove risuonava ormai gravida di pianto la mia voce; e in questo stato mi alzai. Egli dunque rimase ove ci eravamo seduti, immerso nel più grande stupore. Io mi gettai disteso, non so come, sotto una pianta di fico e diedi libero corso alle lacrime. Dilagarono i fiumi dei miei occhi, sacrificio gradevole per te, e ti parlai a lungo, se non in questi termini, in questo senso: "E tu, Signore, fino a quando? Fino a quando, Signore, sarai irritato fino alla fine? Dimentica le nostre passate iniquità". Sentendomene ancora trattenuto, lanciavo grida disperate: "Per quanto tempo, per quanto tempo il "domani e domani"? Perché non subito, perché non in quest'ora la fine della mia vergogna?". Così parlavo e piangevo nell'amarezza sconfinata del mio cuore affranto. A un tratto dalla casa vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando e ripetendo più volte: "Prendi e leggi, prendi e leggi". Mutai d'aspetto all'istante e cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla udita da nessuna

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parte. Arginata la piena delle lacrime, mi alzai. L'unica interpretazione possibile era per me che si trattasse di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il primo verso che vi avrei trovato. Avevo sentito dire di Antonio che ricevette un monito dal Vangelo, sopraggiungendo per caso mentre si leggeva: "Va', vendi tutte le cose che hai, dàlle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, e vieni, seguimi". Egli lo interpretò come un oracolo indirizzato a se stesso e immediatamente si rivolse a te. Così tornai concitato al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il libro dell'Apostolo all'atto di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi. Diceva: "Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze". Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono. Chiuso il libro, tenendovi all'interno il dito o forse un altro segno, già rasserenato in volto, rivelai ad Alipio l'accaduto. Ma egli mi rivelò allo stesso modo ciò che a mia insaputa accadeva in lui. Chiese di vedere il testo che avevo letto. Glielo porsi, e portò gli occhi anche oltre il punto ove mi ero arrestato io, ignaro del seguito. Il seguito diceva: "E accogliete chi è debole nella fede". Lo riferì a se stesso, e me lo disse. In ogni caso l'ammonimento rafforzò dentro di lui una decisione e un proposito onesto, pienamente conforme alla sua condotta, che l'aveva portato già da tempo ben lontano da me e più innanzi sulla via del bene. Senza turbamento o esitazione si unì a me. Immediatamente ci rechiamo da mia madre e le riveliamo la decisione presa: ne gioisce; le raccontiamo lo svolgimento dei fatti: esulta e trionfa. E cominciò a benedirti perché puoi fare più di quanto chiediamo e comprendiamo. Vedeva che le avevi concesso a mio riguardo molto più di quanto ti aveva chiesto con tutti i suoi gemiti e le sue lacrime pietose. Infatti mi rivolgesti a te così appieno, che non cercavo più ne moglie né avanzamenti in questo secolo, stando ritto ormai su quel regolo della fede, ove mi avevi mostrato a lei tanti anni prima nel corso di una rivelazione; e mutasti il suo duolo in gaudio molto più abbondante dei suoi desideri, molto più prezioso e puro di quello atteso dai nipoti della mia carne.

In questo passo, A. caratterizza le città terrena e celeste, rendendole riconoscibili, cosicché la città di Dio non riceva danno dalla mescolanza con la città terrena. L'antitesi pervade ogni elemento concettuale ed espressivo, a partire dai due aggettivi di riferimento (terrena, celeste). In questo passo, A. trasforma l'antitesi da Formenparallelismus a autentico schema di pensiero (Gedankenparallelismus), cioé la figura retorica non è fine a se stessa, ma consente al filosofo di sottolineare un elemento fondamentale della sua teologia. De civitate Dei XIV 28: Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l'amor di sé fino all'indifferenza per Iddio, alla celeste l'amore a Dio fino all'indifferenza per sé. Inoltre quella si gloria in sé, questa nel Signore. Quella infatti esige la gloria dagli uomini, per questa la più grande gloria è Dio testimone della coscienza. Quella leva in alto la testa nella sua gloria, questa dice a Dio: Tu sei la mia gloria anche perché levi in alto la mia testa. In quella domina la passione del dominio nei suoi capi e nei popoli che assoggetta, in questa si scambiano servizi nella carità i capi col deliberare e i sudditi con l'obbedire. Quella ama la propria forza nei propri eroi, questa dice al suo Dio: Ti amerò, Signore, mia forza. Quindi nella città terrena i suoi filosofi, che vivevano secondo l'uomo, hanno dato rilievo al bene o del corpo o dell'anima o di tutti e due. Coloro poi che poterono conoscere Dio, non lo adorarono e ringraziarono come Dio, si smarrirono nei propri pensieri e fu lasciato nell'ombra il loro cuore stolto perché credevano di esser sapienti, cioè perché dominava in loro la superbia in quanto si esaltavano nella propria sapienza. Perciò divennero sciocchi e sostituirono alla gloria di Dio non soggetto a morire l'immagine dell'uomo soggetto a morire e di uccelli e di quadrupedi e di serpenti e in tali forme di idolatria furono guide o partigiani della massa. Così si asservirono nel culto alla creatura anziché al Creatore che è benedetto per sempre. Nella città celeste invece l'unica filosofia dell'uomo è la religione con cui Dio si adora convenientemente, perché essa attende il premio nella società degli eletti, non solo uomini ma anche angeli, affinché Dio sia tutto in tutti.