vestito rosso

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Vestito rosso – 1946 Alice Munro Mia madre mi stava facendo un vestito. Per tutto il mese di novembre, tornando a casa da scuola, la trovavo in cucina, circondata da scampoli di velluto rosso e ritagli di carta velina da modello. Lavorava a una vecchia macchina a pedale sistemata contro la finestra per avere più luce e anche per poter guardare fuori, oltre i campi di stoppie e gli orti spogli, e controllare il passaggio in strada. Di rado passava qualcuno. Quel velluto rosso era un tessuto difficile da lavorare, perché tendeva a deformarsi, e poi mia madre aveva scelto un modello non facile. Non era una gran sarta. Le piaceva fare; il che è un’altra cosa. Se non era obbligata cercava di non imbastire e stirare e, a differenza di mia zia e di mia nonna, le importava poco di certe finezze di sartoria, come la rifinitura delle asole e il sopraggitto a mano. Era diversa lei: partiva da un’ispirazione, da un’idea luminosa e spavalda; e da quel momento in poi la sua soddisfazione andava scemando. Per cominciare non trovava mai il modello adatto. Sfido io, chi avrebbe saputo stare dietro alle idee che le fiorivano in testa? Per me, in tempi diversi dell’infanzia, aveva realizzato: un vestito di organza a fiori con fastidioso collo alto di pizzo e cuffia vittoriana in tinta; un completo scozzese con giacca di velluto e berretto; una camicetta ricamata, stile campagnolo, da indossare con gonna rossa in tinta unita e corpetto allacciato nero. Avevo messo quegli abiti con docilità, con piacere perfino, ai tempi in cui ancora ero ignara dell’opinione del mondo. Ora però, piú saggia, desideravo vestiti come quelli della mia amica Lonnie, che li comprava da Beale. Mi toccava provarlo. A volte Lonnie veniva a casa da scuola con me e si sedeva sul divano a guardare. Mi imbarazzava il modo in cui mia madre mi girava intorno accucciata, col fiatone e le ginocchia che scricchiolavano. Mormorava sempre tra sé. In casa non portava né il busto né le calze, ma scarpe con la zeppa e calzini alla caviglia e aveva le gambe segnate da grappoli di vene verdeazzurre. La sua posizione accosciata mi pareva volgare, se non oscena; mi sforzavo di continuare a parlare con Lonnie per distogliere il più possibile la sua attenzione da mia madre. Lonnie ostentava un’espressione di compito e cortese apprezzamento che era la sua maschera in presenza di adulti. In realtà li prendeva in giro e li imitava ferocemente, ma loro non lo scoprivano mai. Mia madre mi strattonava da una parte e dall’altra e mi pungeva con gli spilli. Mi faceva girare, allontanare un po’, stare ferma immobile. – Come ti sembra, Lonnie? – diceva, senza levarsi di bocca gli spilli. – È bellissimo, – diceva Lonnie in quel suo modo mite e sincero. La madre di Lonnie era morta. Lei abitava col padre che non si accorgeva nemmeno della sua presenza e questo, ai miei occhi, la rendeva al tempo stesso vulnerabile e privilegiata. – Sí, verrà bello, sempre che riesca a imbroccare la taglia, – diceva mia madre. E aggiungeva in tono melodrammatico, tirandosi su tra sospiri e scricchiolii d’ossa: – Peccato che lei forse manco lo apprezza –. Mi faceva rabbia quando parlava a Lonnie in quel modo, come se lei fosse adulta e io ancora una bambina. – Sta’ ferma, – diceva, sfilandomi dalla testa l’abito imbastito e pieno di spilli. Mi ritrovavo con la faccia soffocata dentro il velluto e il corpo in bella vista con addosso una vecchia sottoveste di cotone da tutti i giorni. Mi sentivo un grosso taglio di carne cruda, impacciata e coperta di pelle d’oca. Avrei voluto somigliare a Lonnie, che aveva le ossa minute ed era pallida e magra: era stata cianotica, alla nascita. Incipit Affondo retrospettivo

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Vestito rosso – 1946Alice Munro

Mia madre mi stava facendo un vestito. Per tutto il mese di novembre, tornando a casa dascuola, la trovavo in cucina, circondata da scampoli di velluto rosso e ritagli di carta velina damodello. Lavorava a una vecchia macchina a pedale sistemata contro la finestra per avere piùluce e anche per poter guardare fuori, oltre i campi di stoppie e gli orti spogli, e controllare ilpassaggio in strada. Di rado passava qualcuno.

Quel velluto rosso era un tessuto difficile da lavorare, perché tendeva a deformarsi, e poi miamadre aveva scelto un modello non facile. Non era una gran sarta. Le piaceva fare; il che èun’altra cosa. Se non era obbligata cercava di non imbastire e stirare e, a differenza di mia zia edi mia nonna, le importava poco di certe finezze di sartoria, come la rifinitura delle asole e ilsopraggitto a mano. Era diversa lei: partiva da un’ispirazione, da un’idea luminosa e spavalda; eda quel momento in poi la sua soddisfazione andava scemando. Per cominciare non trovava maiil modello adatto. Sfido io, chi avrebbe saputo stare dietro alle idee che le fiorivano in testa? Perme, in tempi diversi dell’infanzia, aveva realizzato: un vestito di organza a fiori con fastidiosocollo alto di pizzo e cuffia vittoriana in tinta; un completo scozzese con giacca di velluto eberretto; una camicetta ricamata, stile campagnolo, da indossare con gonna rossa in tinta unita ecorpetto allacciato nero. Avevo messo quegli abiti con docilità, con piacere perfino, ai tempi incui ancora ero ignara dell’opinione del mondo. Ora però, piú saggia, desideravo vestiti comequelli della mia amica Lonnie, che li comprava da Beale.

Mi toccava provarlo. A volte Lonnie veniva a casa da scuola con me e si sedeva sul divano aguardare. Mi imbarazzava il modo in cui mia madre mi girava intorno accucciata, col fiatone e leginocchia che scricchiolavano. Mormorava sempre tra sé. In casa non portava né il busto né lecalze, ma scarpe con la zeppa e calzini alla caviglia e aveva le gambe segnate da grappoli divene verdeazzurre. La sua posizione accosciata mi pareva volgare, se non oscena; mi sforzavo dicontinuare a parlare con Lonnie per distogliere il più possibile la sua attenzione da mia madre.Lonnie ostentava un’espressione di compito e cortese apprezzamento che era la sua maschera inpresenza di adulti. In realtà li prendeva in giro e li imitava ferocemente, ma loro non loscoprivano mai.

Mia madre mi strattonava da una parte e dall’altra e mi pungeva con gli spilli. Mi faceva girare,allontanare un po’, stare ferma immobile. – Come ti sembra, Lonnie? – diceva, senza levarsi dibocca gli spilli.

– È bellissimo, – diceva Lonnie in quel suo modo mite e sincero. La madre di Lonnie era morta.Lei abitava col padre che non si accorgeva nemmeno della sua presenza e questo, ai miei occhi,la rendeva al tempo stesso vulnerabile e privilegiata.

– Sí, verrà bello, sempre che riesca a imbroccare la taglia, – diceva mia madre. E aggiungeva intono melodrammatico, tirandosi su tra sospiri e scricchiolii d’ossa: – Peccato che lei forse mancolo apprezza –. Mi faceva rabbia quando parlava a Lonnie in quel modo, come se lei fosse adultae io ancora una bambina. – Sta’ ferma, – diceva, sfilandomi dalla testa l’abito imbastito e pienodi spilli. Mi ritrovavo con la faccia soffocata dentro il velluto e il corpo in bella vista con addossouna vecchia sottoveste di cotone da tutti i giorni. Mi sentivo un grosso taglio di carne cruda,impacciata e coperta di pelle d’oca. Avrei voluto somigliare a Lonnie, che aveva le ossa minuteed era pallida e magra: era stata cianotica, alla nascita.

Incipit

Affon

do ret

rospet

tivo

– Comunque a me nessuno faceva i vestiti quando andavo a scuola, – diceva mia madre. – O meli facevo da sola, o stavo senza –. Temevo che potesse partire per l’ennesima volta con la storiadi quando doveva farsi sette miglia a piedi per arrivare in paese ed era stata costretta a cercarsiun lavoro come cameriera in una pensione per mantenersi agli studi. Tutti i racconti di vita dimia madre che un tempo mi interessavano avevano cominciato a sembrarmi eccessivi, irrilevantie noiosi.

– Una volta qualcuno mi aveva passato un vestito, – diceva. – Era di cashmere color panna conbordure blu cina sul davanti e dei bellissimi bottoni di madreperla. Chissà che fine ha fatto.

Quando ci liberavamo, io e Lonnie andavamo di sopra, in camera mia. Era fredda, ma cistavamo lo stesso. Parlavamo dei maschi della nostra classe, passandoli in rassegna banco perbanco e chiedendoci: «Lui ti piace? Da uno a dieci? Lui ti fa schifo? Se te lo chiedesse, ciusciresti insieme?» Non ce l’aveva mai chiesto nessuno. Avevamo tredici anni ed eravamo entratealle superiori due mesi prima. Rispondevamo ai test sulle riviste, per scoprire se avevamocarattere e se avremmo avuto tanti ammiratori. Leggevamo articoli su come truccarci per metterein risalto i nostri punti forti, come gestire una conversazione al primo appuntamento e comecavarcela quando un ragazzo cercava di andare un po’ troppo in là. Oppure anche articoli sullafrigidità da menopausa, l’aborto e i motivi per cui i mariti cerchino il piacere fuori di casa.Quando non facevamo i compiti, passavamo gran parte del tempo a raccogliere, riferirci ediscutere informazioni sessuali. Ci eravamo giurate di dirci tutto. Ma una cosa che non le dissi fudi quel ballo, il Ballo di Natale della scuola per il quale mia madre mi stava facendo un vestito. Ilfatto è che non ci volevo andare.

A scuola non mi sentivo a mio agio mai, nemmeno un minuto. Non sapevo come fosse perLonnie. Prima dei compiti in classe, lei aveva le mani gelate e il cuore le batteva forte, ma io eropraticamente disperata tutto il tempo. Se in classe mi facevano una domanda, anche la piùsemplice e banale, la voce poteva uscirmi stridula, oppure roca e tremante. Se dovevo andare allalavagna ero certa di avere la gonna macchiata di sangue, anche nei giorni del mese in cui nonera possibile. Quando mi si chiedeva di usare il compasso da lavagna, le mani mi sudavano dapazzi. Non sapevo battere a pallavolo; la necessità di fare qualsiasi cosa davanti agli altri miannichiliva i riflessi. Odiavo le lezioni di ragioneria perché bisognava tracciare pagine e paginedi righe a pennino sui registri contabili e, se l’insegnante si piazzava a guardarmi alle spalle, tuttiquei tratti si mettevano a tremare e sovrapporsi. Odiavo scienze; dovevamo appollaiarci susgabelli alti sotto luci impietose, davanti a banconi carichi di attrezzi strani e delicatissimi, e ilprofessore era il preside, un uomo dalla voce fredda e compiaciuta – con cui leggeva ognimattina le Sacre Scritture – e un grande talento per umiliare le persone. Odiavo lettere perché imaschi giocavano a tombola al fondo dell’aula, mentre l’insegnante, una ragazzona gentile e unpo’ strabica, leggeva Wordsworth dalla cattedra. Li minacciava, li supplicava, le veniva la facciarossa e una voce non piú credibile della mia. Allora quelli si sperticavano in scuse grottesche, equando lei ricominciava a leggere, assumevano atteggiamenti rapiti, espressioni beate, con tantodi occhi storti e mano sul cuore. Qualche volta lei scoppiava a piangere, non ce la faceva più edoveva scappare nel corridoio. A quel punto i ragazzi si mettevano a muggire forte e le nostrerisate crudeli – oh, sì, anche la mia – la accompagnavano fuori. Aleggiava in classe un’atmosferadi farsesca barbarie che a persone deboli e insicure come me faceva paura.

Quello che veramente succedeva a scuola però non c’entra tanto con ragioneria, lettere oscienze; era ben altro a conferire urgenza e brio alla vita. Il vecchio edificio dagli scantinatiumidi in pietra, i servizi bui e i quadri di sovrani ed esploratori morti alle pareti era carico dellatensione eccitata, prodotta dall’antagonismo sessuale, e su questo fronte, sebbene fantasticassienormi successi, subodoravo una sconfitta totale. Doveva per forza succedere qualcosa che mitenesse alla larga dal ballo.

Con dicembre arrivò la neve e mi venne un’idea. In un primo momento avevo ipotizzato dicadere dalla bicicletta e storcermi una caviglia e ci avevo anche provato, pedalando verso casasulle stradine di campagna dure di ghiaccio e piene di solchi profondi. Ma era troppocomplicato. In compenso si diceva che fossi debole di bronchi e di gola: perché non esporli alleintemperie? Cominciai ad alzarmi di notte e ad aprire un po’ la finestra. Mi inginocchiavo efacevo entrare folate di vento gelido, a volte misto a nevischio, che mi avviluppassero d’aria lagola nuda. Mi toglievo la giacca del pigiama. Mi ripetevo l’espressione «cianotica dal freddo» e,mentre mi inginocchiavo a occhi chiusi, immaginavo di vedere petto e gola diventare cianotici, diquell’azzurro spento che hanno le vene sotto la pelle. Restavo lì finché non ce la facevo più, poiprendevo una manciata di neve dal davanzale della finestra e me la sfregavo sul torace, prima diriabbottonarmi il pigiama. Si sarebbe sciolta sotto la flanella e così avrei dormito coi vestitibagnati; in teoria, la cosa peggiore che si potesse fare. Il mattino dopo, svegliandomi, mischiarivo la gola per vedere se mi faceva male, provavo a dare qualche colpo di tosse, carica disperanze, mi toccavo la fronte per sentire se avevo la febbre. Macché. Ogni giorno, compresoquello del ballo, mi alzavo sconfitta, in perfetta salute.

Il giorno del ballo mi arricciai i capelli coi bigodini di ferro. Non l’avevo mai fatto prima, avendoi riccioli naturali, ma quella volta volevo la garanzia di ogni possibile rituale di femminilità.Sdraiata sul divano di cucina, lessi Gli ultimi giorni di Pompei e desiderai essere là. Mia madre,intanto, mai soddisfatta, cuciva sull’abito un colletto bianco, di pizzo; aveva stabilito che,altrimenti, sarebbe stato un modello troppo da grande. Contai le ore. Era uno dei giorni piùcorti dell’anno. Sulla tappezzeria sopra il divano c’erano tracce di vecchie partite a tris, disegni escarabocchi fatti da me e mio fratello quando stavamo a casa con la bronchite. Li guardavo eavrei tanto voluto ritrovarmi di nuovo al sicuro, dentro i confini dell’infanzia.

Quando tolsi i bigodini i miei ricci naturali, per giunta artificialmente stimolati, esplosero in unrigoglioso cespuglio lucente. Li bagnai, pettinai, spazzolai rigorosamente tirandomeli sulleguance. Misi la cipria che, sulla faccia accaldata, assunse un aspetto gessoso. Mia madre andò aprendere la sua acqua di Colonia Polvere di rose che non metteva mai e mi permise dispruzzarmela sulle braccia. Infine, mi chiuse la lampo dell’abito e mi girò verso lo specchio. Ilmodello era un classico stile princesse, molto attillato a vita. Notai che il seno dentro al nuovoreggipetto rigido sporgeva in modo sorprendente, con matura autorevolezza, sotto i puerilifronzoli del colletto.

– Beh, vorrei proprio farti una foto, – disse mia madre. – Sono davvero contenta di come ti sta.E tu potresti anche ringraziare, no?

– Grazie, – dissi.

La prima cosa che disse Lonnie quando le aprii la porta fu: – Gesú, cosa hai fatto ai capelli?

– La messinpiega.

– Sembri una zulú. Beh, non fa niente. Passami un pettine, vedo di sistemarti la frangia a rotolo.Vedrai che stai bene. Ti farà perfino sembrare più grande.

Sedetti davanti allo specchio mentre Lonnie, alle mie spalle, mi aggiustava l’acconciatura. Miamadre pareva incapace di lasciarci sole. Avrei voluto che se ne andasse. Assistette allacostruzione del rotolo commentando: – Sei fantastica, Lonnie. Dovresti fare la pettinatrice.

– È un’idea, – disse Lonnie. Indossava un abito a tulipano di crêpe celeste, fermato da un fiocco,

decisamente più da adulta del mio, anche senza il colletto. I capelli le erano venuti lisci comequelli della ragazza sulla cartina delle forcine. In cuor mio avevo sempre pensato che Lonnie nonpotesse essere carina per via dei denti storti ma ora mi rendevo conto che, denti o non denti,con quel vestito alla moda e i capelli lisci, mi faceva sembrare una specie di mostrosemidelirante, infagottata nel velluto rosso, con gli occhi spiritati e i capelli da selvaggia.

Mia madre ci accompagnò alla porta e urlò nel buio: – Au reservoir! – Era il salutoconvenzionale tra me e Lonnie; in bocca a lei risultava squallido e idiota e mi irritò tanto chenon le risposi. Solamente Lonnie le gridò di rimando un «Buonanotte!» allegro e incoraggiante.

La palestra odorava di pino e di cedro. Dai canestri del basket pendevano campanelle verdi erosse di carta arricciata, e i finestroni a sbarre erano nascosti da rami verdi. Tutti i ragazzi delleclassi più alte parevano essersi presentati in coppia. Qualche studentessa dell’ultimo e delpenultimo anno si era portata il ragazzo già diplomato, ormai giovane uomo d’affari in paese.Costoro fumavano nei locali della palestra e nessuno poteva impedirlo, perché erano liberi. Leragazze stavano al loro fianco con la mano distrattamente appoggiata su una manica maschile, el’espressione annoiata su visi alteri e bellissimi. Quanto avrei voluto essere così anch’io. Sicomportavano come se al ballo ci fossero soltanto loro, le grandi, come se tutte noi, tra cui siaggiravano superandoci con lo sguardo, fossimo inanimate, se non proprio trasparenti. Quandofu annunciato il primo ballo, un brano di Paul Jones, si avviarono languide, sorridenti tra lorocome al richiamo di un vecchio gioco da bambine quasi dimenticato. Tremanti e mano nellamano, tutte accalcate insieme, io, Lonnie e le altre del primo anno le seguimmo a ruota.

Non osavo neppure rivolgere lo sguardo sul cerchio esterno mentre mi superava, per paura disorprenderli ad affrettare sgarbatamente il ritmo. Appena la musica cessò, mi bloccai dov’ero e,alzando gli occhi, vidi un ragazzo di nome Mason Williams venirmi incontro con aria svogliata.Sfiorandomi a stento il fianco e le dita, mi fece ballare. Avevo le gambe molli, il bracciotremante, e non sarei riuscita a spiccicare parola. Questo Mason Williams era uno degli eroi delliceo; giocava a basket e a hockey e passeggiava nei corridoi sdegnoso come un principe e fierocome un barbaro. Dover ballare con una nullità come me lo offendeva come essere costretto amemorizzare dei versi di Shakespeare. Ne ero consapevole né più né meno di lui, e immaginaiche stesse scambiando con gli amici delle occhiate affrante. Mi pilotò inciampando al marginedella pista. Sfilò la mano dal mio girovita e mi lasciò cadere il braccio.

– Ci vediamo, – disse. E se ne andò.

Mi ci vollero un paio di minuti per rendermi conto di quello che era successo e del fatto che nonintendeva tornare. Andai ad appoggiarmi alla parete, da sola. L’insegnante di educazione fisicaballando con foga tra le braccia di uno studente del second’anno, mi rivolse uno sguardointerrogativo. Era l’unica insegnante dell’istituto a utilizzare il termine «socializzare» e, in casoavesse visto la scena, mi terrorizzava il pensiero che tentasse qualche orribile esperimentopubblico per costringere Mason a finire quel ballo con me; io invece sapevo accettare lacondizione di Williams, come la mia, all’interno del mondo scolastico, e capivo che il suo erastato un gesto realistico. Era il tipo dell’Eroe Puro, lui, non il genere Benefattore votato alsuccesso extrascolastico, di quelli che avrebbero ballato con me con garbato paternalismo senzafarmi sentire affatto meglio. In ogni caso, mi augurai che non avessero visto in tanti. Detestavoche la gente vedesse. Cominciai a tormentarmi le pellicine del pollice.

Quando finì la musica mi unii al nugolo di ragazze in fondo alla palestra. Fa’ finta di niente, midicevo. Fa’ finta di essere arrivata solo adesso.

L’orchestra riprese a suonare. Ci fu trambusto e la ressa fitta in questa zona della pista si

assottigliò rapidamente. Arrivavano i ragazzi e le ragazze andavano a ballare. Lonnie fu invitata.Anche la ragazza accanto a me, dall’altra parte. Io no. Mi venne in mente un articolo che avevoletto con Lonnie su una rivista; diceva: «Mostratevi allegre! Fate vedere ai ragazzi la luce cheavete negli occhi, la risata che avete nella voce. Semplice, ovvio, no? Eppure, quante se nedimenticano!» Verissimo, io per esempio. Ero tesa e accigliata, dovevo avere una faccia brutta esmarrita. Feci un respiro lungo e provai a distendere i lineamenti. Sorrisi. Mi sentivo assurda, asorridere a vuoto. Per giunta, notai che le ragazze in pista, quelle ricercate, non sorridevanoaffatto; molte, anzi, ostentavano facce indolenti e scontrose e non sorridevano mai.

L’esodo verso la pista proseguiva. Alcune, disperate, decidevano di ballare tra loro. Ma perlopiùse ne andavano coi ragazzi. Le grasse, le brufolose, una poveretta che non aveva neanche unvestito buono e si era dovuta mettere gonna e camicia: andavano tutte a ballare, invitate daqualcuno. Perché loro sì e io no? Perché tutte le altre e non io? Io ho un vestito di velluto rosso,mi sono fatta i riccioli, ho messo il deodorante e l’acqua di Colonia. Prova a pregare, pensai.Non potevo chiudere gli occhi, ma mi ripetei mentalmente, Ti prego, ti prego, fa’ che chiedano ame, e agganciai le dita dietro la schiena nel modo segreto e assai più efficace del normaleincrocio, messo a punto da me e Lonnie per non essere chiamate alla lavagna durante l’ora dimatematica.

Non funzionò. Quel che avevo temuto era vero. Sarei rimasta lì. Dovevo avere qualcosa dimisterioso che non andava, qualcosa che non aveva rimedio come l’alito cattivo, né si potevaignorare, come i brufoli; lo sapevano tutti, e lo sapevo io, l’avevo sempre saputo. Ma non ne erostata sicura, avevo sperato di sbagliarmi. La certezza mi montò dentro come un attacco dinausea. Sfrecciai accanto a un paio di ragazze non invitate come me e mi rifugiai in bagno. Minascosi in un gabinetto.

Fu lì che rimasi. Tra un ballo e l’altro le ragazze andavano e venivano di corsa; nessuna fece casoal fatto che uno era sempre occupato. Durante i brani, ascoltavo la musica che mi piaceva ma misentivo estranea a tutto. Non intendevo più riprovare. Volevo solo restarmene lì nascosta, usciresenza incontrare nessuno e tornare a casa.

A un certo punto, durante un ballo, una ragazza si trattenne in bagno. Ci stava mettendoparecchio a fare scorrere l’acqua, lavarsi le mani, pettinarsi. Avrebbe trovato strano che non mimuovessi da lì. Meglio uscire e lavarmi le mani anch’io; lei intanto magari se ne sarebbe andata.

Era Mary Fortune. La conoscevo di nome perché era del direttivo della squadra di atleticafemminile, era sull’albo d’onore e organizzava sempre qualcosa. Aveva anche collaboratoall’organizzazione del ballo, era andata in giro per le classi in cerca di volontari per ledecorazioni. Era al terzo o quarto anno.

– Fa un bel fresco qui dentro, – disse. – Sono venuta a rinfrescarmi un po’. Ho un caldo!

Si stava ancora pettinando quando finii di lavarmi le mani. – L’orchestra ti piace? – chiese.

– Abbastanza –. Non sapevo assolutamente cosa dire. Mi stupiva che una ragazza più grande,come lei, perdesse tempo a parlare con me.

– A me no, invece. La trovo penosa. Detesto ballare quando non mi piace la musica. Senti. Nonvanno a tempo. Tanto vale non ballare, per farlo così.

Mi pettinai. Lei si chinò su un lavabo, osservando me.

Svolt

a

– Non mi va di ballare e nemmeno tanto di stare qua dentro. Andiamo a fumarci una sigaretta.

– Dove?

– Vieni, ti faccio vedere.

Al fondo del bagno c’era una porta. Non era chiusa a chiave e dava accesso a uno sgabuzzinobuio pieno di secchi e strofinacci. Mi disse di tenere aperto per far entrare la luce del bagnomentre lei cercava la maniglia di un’altra porta. Quest’ultima si apriva sul buio totale.

– Non posso accendere la luce, se no qualcuno potrebbe vederla, – disse. – È la stanza delbidello –. Pensai che gli atleti parevano saperne sempre più di noi della scuola in quanto edificio;sapevano dove stavano le cose e uscivano sempre da locali ai quali era vietato l’accesso, conun’aria spavalda e intenta. – Guarda dove metti i piedi, – disse. – Laggiù in fondo ci sono deigradini. Portano in uno sgabuzzino al primo piano. La porta è chiusa, ma c’è una specie diintercapedine tra le scale e la stanza. Perciò, se ci sediamo sugli scalini, anche se entra qualcunonon ci vede.

– E se sentono l’odore di fumo? – chiesi.

– Oh, beh. Un po’ di rischio ci vuole.

Sulla scala c’era un finestrone dal quale ci arrivava un po’ di luce. Mary Fortune aveva in borsasigarette e fiammiferi. Io non avevo mai fumato prima, se non le sigarette che ci facevamoLonnie e io usando le cartine e un po’ di tabacco rubato a suo padre, ma si aprivano sempre nelmezzo. Queste erano decisamente meglio.

– L’unica ragione per cui sono qui stasera, – disse Mary Fortune, – è che sono la responsabiledelle decorazioni, perciò, sai, volevo vedere che effetto facevano con la gente e tutto. Altrimentinon mi sarei di certo presa il disturbo. Non smanio per i ragazzi, io.

Alla luce del finestrone vedevo il profilo spigoloso della sua faccia sprezzante, la pelle scurabutterata dall’acne e gli incisivi accavallati che le conferivano un aspetto adulto e autoritario.

– Lo fanno quasi tutte. Non hai notato? Questo liceo può vantare la più alta concentrazione distudentesse che smaniano per i ragazzi.

Le ero grata per l’attenzione, la compagnia e le sigarette. Dissi che la pensavo anch’io come lei.

– Prendi oggi pomeriggio, ad esempio. Cercavo di convincerle a sistemare le campanelle e tuttele altre carabattole. E loro non facevano altro che salire sulle scale e fare le cretine con i ragazzi.Non gliene importava niente che la sala fosse addobbata o no. Era solo una scusa. Perché l’unicoscopo della loro vita è quello: fare le cretine con i ragazzi. Per quanto mi riguarda, sono unbranco di idiote.

Parlammo dei professori, delle cose di scuola. Mi disse che il suo sogno era diventare insegnantedi educazione fisica e che quindi avrebbe dovuto andare al college, ma che i suoi non avevano isoldi per mandarcela. Disse che aveva deciso di pagarsi gli studi lavorando, che volevacomunque rendersi indipendente; si sarebbe trovata un impiego in mensa e d’estate avrebbelavorato in campagna, tipo raccogliere tabacco in qualche piantagione. Mentre l’ascoltavo,sentivo la fase acuta della mia infelicità stemperarsi. Ecco una persona che aveva subíto la miastessa sconfitta – lo capivo benissimo – eppure era piena di energia e di fiducia in se stessa.

Aveva pensato di fare altro, di andare a raccogliere tabacco.

Rimanemmo lì a parlare e a fumare per tutta la lunga pausa dell’orchestra durante la quale, insala, servivano ciambelle e caffè. Quando la musica ripartì, Mary disse: – Senti, ma dobbiamoproprio starcene qui ancora tanto? Prendiamo il cappotto e filiamocela. Potremmo andare da Leea berci una cioccolata calda e a chiacchierare in pace, non trovi?

Uscimmo a tastoni dalla stanza del bidello, portandoci in mano la cenere e i mozziconi disigaretta. Nello sgabuzzino ci fermammo a sentire che non ci fosse nessuno in bagno.Emergemmo alla luce e gettammo la cenere nel gabinetto. Dovevamo attraversare la pista perarrivare al guardaroba accanto all’uscita.

In quel momento attaccava un brano. – Fa’ il giro della palestra, – disse Mary. – Non cinoteranno.

La seguii. Senza guardare in faccia nessuno. Senza cercare Lonnie. Tanto non sarebbe più statamia amica, non come prima, almeno. Mary l’avrebbe definita una che smaniava per i ragazzi.

Scoprii che, avendo preso la decisione di andarmene dal ballo, non avevo più tanta paura. Nonaspettavo che qualcuno mi scegliesse. Avevo i miei progetti. Non ero costretta a sorridere né afare gli scongiuri. Non mi importava. Stavo andando a bermi una cioccolata calda con la miaamica.

Un ragazzo mi rivolse la parola. Mi stava davanti. Pensai mi facesse notare che mi era cadutoqualcosa o che non potevo passare di lì o che il guardaroba era chiuso. Non mi resi conto che mistava invitando a ballare finché non lo disse di nuovo. Era Raymond Bolting, un compagno diclasse con il quale non avevo mai parlato. Lui dovette credere che avessi detto di sì. Mi mise unamano sul fianco e, quasi senza volerlo, cominciai a ballare.

Ci spostammo verso il centro della pista. Stavo proprio ballando. Le gambe si erano scordate ditremare e le mani di sudare. Ballavo con un ragazzo che mi aveva invitata. Nessuno gli avevadetto di farlo, non era costretto, mi aveva invitata e basta. Era possibile? Dovevo crederci? Nonc’era niente che non andasse in me, allora?

Pensai di dirgli che aveva capito male, che io stavo uscendo, che andavo a bere una cioccolatacalda con la mia amica. Ma non lo feci. Sulla mia faccia si stavano verificando lievi mutamenti;andavo assumendo senza sforzo l’espressione seria e svagata delle ragazze che venivano scelte, diquelle che ballavano. Fu quella l’espressione che vide Mary Fortune quando guardò fuori dalguardaroba, già con il foulard in testa. Le rivolsi un debole cenno con la mano appoggiata sullaspalla del ragazzo, per comunicarle che mi scusavo, che non sapevo cos’era successo ma ancheche era inutile stare ad aspettarmi. Poi voltai la testa e, quando tornai a guardare da quellaparte, se n’era andata.

Raymond Bolting portò a casa me e Harold Simons accompagnò Lonnie. Andammo tutti equattro insieme fino all’angolo della casa di Lonnie. I ragazzi ebbero una discussione animata suuna partita di hockey, ma Lonnie e io non riuscivamo a seguirli. Poi ci separammo a coppie eRaymond proseguì con me il discorso iniziato con Harold. Sembrava non essersi neppure accortodi aver cambiato interlocutore. Un paio di volte gli dissi: «Beh, non saprei, io non l’ho vistaquella partita», ma dopo un po’ mi rassegnai a fare solo «Hm-hm», il che pareva più chesufficiente.

Un’altra cosa che disse fu: «Non sapevo che abitavi così lontano». E tirò su col naso. Il freddo

Concl

usione

faceva colare un po’ il naso anche a me perciò rovistai nella tasca del cappotto tra le carte dicaramella e trovai un kleenex spiegazzato. Non sapevo se fosse il caso di offrirglielo, ma a uncerto punto tirava su in modo talmente rumoroso che dissi: – Senti, ho solo questo, non èneanche pulitissimo forse, sarà macchiato di inchiostro. Ma, se lo strappo, possiamo fare a metà.

– Grazie, – disse lui. – Ne ho proprio bisogno.

Fu un bene, pensai, che l’avessi fatto, perché quando arrivammo al cancello e io dissi: «Beh,allora buonanotte», e lui rispose: «Ah, già. Buonanotte anche a te», Raymond si chinò a baciarmibrevemente all’angolo della bocca, con l’aria di uno che sa il fatto suo. Poi fece ritorno in paese,ignaro di essere stato il mio salvatore, di avermi traghettata dal mondo di Mary Fortune almondo normale.

Feci il giro di casa per passare dalla porta sul retro e intanto pensavo, sono stata a ballare e unragazzo mi ha riaccompagnata e mi ha dato un bacio. Era tutto vero. La mia vita era possibile.Passai davanti alla finestra della cucina e vidi mia madre. Stava seduta coi piedi appoggiati sullosportello aperto del forno e beveva un tè da una tazza senza piattino. Era lì solo in attesa che iotornassi a casa a raccontarle tutto quello che era successo. E io non intendevo farlo, mai e poimai. Ma vedendo la cucina che mi aspettava e mia madre in vestaglia di flanella sbiadita adisegni cashmere e la faccia assonnata ma carica di tenace aspettativa, mi resi contodell’imperativo misterioso e opprimente che mi gravava addosso, l’obbligo di essere felice cheavevo rischiato di non onorare in quella occasione, come in altre a venire, probabilmente, ognivolta, e senza che lei lo sapesse.

Le parti bianche rappresentano lo sviluppo (di cui fanno parte anche l'affondo retrospettivo e la svolta).

Schema della narrazione

La madre cuce un vestito perché la ragazza possa andareal ballo.

Carattere della madre, amiciziacon Lonnie e riflessioni sulla scuola (motivi per cui non vuole andare al ballo).

La ragazza va al ballo ma nessuno la invita a ballare.

La ragazza incontra Mary Fortune che la convince a lasciare il ballo.

Un ragazzo invita a ballare la protagonista, la riaccompagna a casa e la bacia.

Incipit

Affondoretrospettivo

Svolta

Sviluppo

Conclusione