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L'Unità 2 dicembre 1999 La sinistra e il nuovo proletariato Caro direttore, permetta anche a me di proporre alcune riflessioni sulla linea di quelle di Giorgio Ruffolo uscite l'altro ieri su questo giornale, e di quelle, altrettanto stimolanti, di Paolo Sylos Labini pubblicate da La Repubblica di ieri. In vista del congresso DS, ma soprattutto per ridare un po' di fiato a una politica gravemente degradata dalla necessità di polemizzare con Berlusconi o addiritttura con il pregiudicato Dell'Utri suo principale collaboratore, è necessario "ripassare" le buone ragioni della nostra scelta di sinistra, prendendo atto di cio' che è vivo e di cio' che è morto, come direbbe Croce, in questa scelta. E' certamente vivo, nella sinistra, l'ideale basilare di stare dalla parte di chi non è contento di come va il mondo, e specificamente di come va, in esso, la società italiana. Questi "scontenti" sono quelli che Marx chiamava il proletariato, che oggi certo non si definisce più negli stessi termini, né rivendica più le virtù "apocalittiche" che Marx gli attribuiva. Resta pero' vero che è di sinistra chi ha un progetto di trasformazione sociale che non guarda solo alla propria individuale posizione nella società com'è. Che la destra sia stata spesso, anche se non sempre, razzista non mi pare solo un caso disgraziato della sua storia. Il fatto è che, dalla fede nella mano misteriosa del mercato all'insistenza sulla concorrenza come motore dello sviluppo, la destra è sempre stata fondamentalmente naturalista. Anche le differenze razziali, dunque, possono divenire, per essa, strutture da rispettare e da far valere come fattori di differenziazione sociale. Dal canto suo, nonostante tutti gli errori e gli orrori che i suoi progetti rivoluzionari hanno generato - orrori che pero' erano legati a una filosofia metafisica della storia, cioè ancora una volta alla pretesa di corrispondere a un ordine oggettivo scritto nella natura delle cose -la sinistra si è sempre legittimamente presentata come progressista: è la scelta politica di chi vuole e crede di poter cambiare le cose, per esempio e anzitutto correggendo le disuguaglianze naturali in modo da poter mettere tutti in condizioni quanto più possibile di parità nella competizione sociale, che certo non potrà mai scomparire, ma che deve essere spogliata dai caratteri di violenza che assume se è pura lotta di forze naturali per la sopravvivenza. Certo, qui siamo al livello delle più remote basi filosofiche della differenza tra destra e sinistra. Ma è

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Vattimo Gianni

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L'Unità2 dicembre 1999

La sinistra e il nuovo proletariato

Caro direttore, permetta anche a me di proporre alcune riflessioni sulla linea di quelle di Giorgio Ruffolo uscite l'altro ieri su questo giornale, e di quelle, altrettanto stimolanti, di Paolo Sylos Labini pubblicate da La Repubblica di ieri. In vista del congresso DS, ma soprattutto per ridare un po' di fiato a una politica gravemente degradata dalla necessità di polemizzare con Berlusconi o addiritttura con il pregiudicato Dell'Utri suo principale collaboratore, è necessario "ripassare" le buone ragioni della nostra scelta di sinistra, prendendo atto di cio' che è vivo e di cio' che è morto, come direbbe Croce, in questa scelta. E' certamente vivo, nella sinistra, l'ideale basilare di stare dalla parte di chi non è contento di come va il mondo, e specificamente di come va, in esso, la società italiana. Questi "scontenti" sono quelli che Marx chiamava il proletariato, che oggi certo non si definisce più negli stessi termini, né rivendica più le virtù "apocalittiche" che Marx gli attribuiva. Resta pero' vero che è di sinistra chi ha un progetto di trasformazione sociale che non guarda solo alla propria individuale posizione nella società com'è. Che la destra sia stata spesso, anche se non sempre, razzista non mi pare solo un caso disgraziato della sua storia. Il fatto è che, dalla fede nella mano misteriosa del mercato all'insistenza sulla concorrenza come motore dello sviluppo, la destra è sempre stata fondamentalmente naturalista. Anche le differenze razziali, dunque, possono divenire, per essa, strutture da rispettare e da far valere come fattori di differenziazione sociale. Dal canto suo, nonostante tutti gli errori e gli orrori che i suoi progetti rivoluzionari hanno generato - orrori che pero' erano legati a una filosofia metafisica della storia, cioè ancora una volta alla pretesa di corrispondere a un ordine oggettivo scritto nella natura delle cose -la sinistra si è sempre legittimamente presentata come progressista: è la scelta politica di chi vuole e crede di poter cambiare le cose, per esempio e anzitutto correggendo le disuguaglianze naturali in modo da poter mettere tutti in condizioni quanto più possibile di parità nella competizione sociale, che certo non potrà mai scomparire, ma che deve essere spogliata dai caratteri di violenza che assume se è pura lotta di forze naturali per la sopravvivenza. Certo, qui siamo al livello delle più remote basi filosofiche della differenza tra destra e sinistra. Ma è importante risalirvi perché è dalla definizione del nuovo "proletariato" che dipendono anche i contenuti concreti di una politica di sinistra. Il nuovo proletariato non è più sicuramente, almeno nel mondo industriale, quello dei poveri privi dei mezzi elementari della sussistenza. La scontentezza che accomuna il "popolo di sinistra" è certo fatta anche di difficoltà economiche, ma implica in misura almeno eguale se non addirittura superiore, l'insoddifazione per una esistenza individuale e sociale tanto scarsa di contenuti da rendere insignificante anche la sopravvivenza. Anche senza esagerare nel moralismo, è forse questo che ci insegnano i giovani dello sballo e delle overdosi mortali in discoteca; ma lo stesso si puo' leggere nella vicenda, anch'essa tranto spesso deprecata con toni moralistici, dei disoccupati che rifiutano lavori non gratificanti che pure potrebbero risolvere i loro più immediati problemi economici, che non sono nemmeno risolvibili, per le stesse ragioni, con i "lavori socialmente utili". Una sinistra che abbia messo da parte definitivamente, insieme all'utopia della società perfetta, anche il materialismlo economicistico di Marx deve avere un progetto per vincere queste ingiustizie sociali. Certo,

anche costruendo le condizioni per una iniziativa economica più aperta e libera - anche se non sarà trasformando tutti gli italiani in piccoli imprenditori del Nord Est (come credono i radicali) che si rinnoverà davvero la nostra società. Si tratta soprattutto di pensare il problema dell'occupazione in termini che chiamerei "esistenziali", il diritto al lavoro, cioè, come diritto ad avere un'esistenza densa di progettualità. Puo' esser tale anche se il lavoro che si svolge ha caratteri ripetitivi e frustranti; qui puo´aiutare una riduzione degli orari, o, come suggeriva Sylos Labini nel suo articolo di ieri, "la partecipazione dei lavoratori alle proposte e alle decisioni concernenti l'organizzazione del lavoro e le nuove tecnologie". E piu' in generale anche i lavori "peggiori" si sopportano se perlatro ci si sente coinvolti in un processo sociale denso di altre gratificazioni. Qui, semmai, entrano in gioco tematiche "radicali" meno banali di quelle recentemente abbracciate da Bonino e Pannella: l'affermazione di una società dei diritti, a cominciare dalla lotta ai tanti proibizionismi che ancora ci soffocano. Insomma, i proletari di cui la sinistra puo' e deve essere la voce sono oggi, piuttosto che i morenti di fame, i tanti che sono stufi di essere solo "consumatori" - di merci imposte dalla pubblicità, di programmi televisivi berlusconiani o no, di sballi momentanei che in realtà contribuiscono solo a mantenere i fortunati che non ne muoiono nei limiti di una disciplina sociale che spegne ogni progettualità. Proletariato siamo tutti noi anche in quanto non desideriamo vivere in una società opulenta ma barricata entro frontiere sempre più militarizzate, per difenderci da un terzo e quarto mondo che è escluso dai nostri esagerati consumi. E' in questa ultima specie di insoddisfazione, più che nella retorica dello sviluppo, che si radica l'apertura imprescindiubile della sinistra a una solidarietà di dimensioni mondiali, la sua alleanza con quell'altro proletariato, più vicino al modello marxiano, che ancora lotta per la sopravvivenza in tanta parte del mondo.

GIANNI VATTIMO

La Stampa22 febbraio 2000

La società dei due terzi

Vista da (centro)sinistra, la schiacciante vittoria di Aznar nelle elezioni politiche spagnole pone domande che vanno ben oltre i confini della Spagna. Se, come credo si debba fare, si prendono sul serio le scelte dei cittadini che lo hanno votato, sfuggendo alla tentazione di considerarli ingannati dalla propaganda (un fattore certamente presente, ma forse non così decisivo), la questione che emerge prepotente, e che minaccia di riproporsi anche in altri paesi d'Europa, è quella del consolidarsi della cosiddetta società "dei due terzi". Non c'è dubbio che l'economia spagnola conosce in questi anni uno sviluppo straordinario, solo in parte ridimensionato dal fatto che partiva da condizioni (disoccupazione, tassi di sviluppo, ecc.) molto più negative di quelle di altri paesi.. Accettiamo dunque che chi ha votato Aznar ha fatto una scelta fondata, corrispondente ai propri interessi. E gli altri? Fino a che punto il meccanismo economico sostenuto dalla politica della destra spagnola sarà capace di estendere il benessere anche a coloro che per ora ne rimangono esclusi e che dunque non hanno buoni motivi per appoggiare con il voto questa politica? Sono questi (ancora) esclusi che la sinistra cerca di non dimenticare, non certo presentandosi come il partito del proletariato espropriato di tutto. Questo proletariato, fortunatamente, è oggi una minoranza nei paesi industrializzati, anche se le sempre nuove forme di povertà (adulti

espulsi dal mercato del lavoro a causa delle nuove tecnologie, giovani senza formazione superiore, anziani, ecc.) ne fanno un problema difficilmente superabile. La sinistra crede nella possibilità di una alleanza tra i ceti sociali "emersi", che partecipano dei frutti della nuova economia, e quelli che ne sono esclusi. La destra sembra piuttosto convinta che, prima o poi, anche gli esclusi finiranno per godere i vantaggi del libero mercato, della concorrenza, dell'economia sciolta da lacci e lacciuoli. Tutto sta nel capire quanto gli esclusi dovranno aspettare. Se l'attesa, sia all'interno dei paesi industrializzati, sia, soprattutto, sul piano internazionale, con le tante Afriche che premono sui nostri confini, dovesse rivelarsi troppo lunga, la pazienza degli esclusi potrebbe esaurirsi; e allora, anche solo per motivi egoistici di pace sociale, la questione di una politica capace di non dimenticarli potrebbe riproporsi in modo drammatico.

GIANNI VATTIMO

 

Caffè Europa25 giugno 1999

Secolarizzazione, biglietto da visita per

l'Europa

È fin troppo evidente che l'unità dell'Europa è una questione politica e giuridica, e anche anzitutto finanziaria, come ha mostrato la realizzazione dell'Euro. Tuttavia, come sempre accade nelle trasformazioni di strutture costituzionali e politiche, non basta modificare leggi, abbattere sbarre di frontiera, nemmeno unificare programmi scolastici e curriculi universitari. Come diceva uno statista dell'Ottocento italiano, dell'epoca in cui l'Italia compì appunto il proprio Risorgimento nazionale diventando uno Stato unitario, una volta fatta l'Italia bisogna fare gli italiani. La cultura, nel senso più vasto e anche naturalmente vago della parola, ha proprio questo compito, difficile e impreciso insieme: ora che abbiamo cominciato a fare l'Europa, con il Trattato di Maastricht, di Schengen, di Amsterdam, dobbiamo fare gli europei.

Il termine secolarizzazione che ho voluto collocare nel titolo del mio intervento riassume in una sola parola, a mio parere decisiva, il contributo che gli uomini di cultura, filosofi storici scrittori ma anche teologi e artisti, possono dare per costruire una mentalità europea. Si diventa europei, potremmo dire, solo accettando di secolarizzare molti elementi della propria tradizione - nazionale, anzitutto: ma anche religiosa, filosofica, ecc. -: e assumendo la secolarizzazione stessa come il vero e proprio contenuto dell'eredità culturale caratteristica del nostro continente. Per continuare con le citazioni, anche in forma di slogan: il titolo del saggio di Novalis, "Die Christenheit oder Europa", potrebbe essere trasformato in: "Die Saekularisation ierung (?) oder Europa". Sottolineo che non è affatto una trasformazione blasfema. Come ho cercato di mostrare in altre sedi, la secolarizzazione, intesa nel senso più ampio, come passaggio dal sacro misterioso e trascendente alla divinità incarnata e coinvolta nella storia dell'umanità, può essere considerata ragionevolmente l'essenza stessa del cristianesimo. Se la salvezza, come insegna la Bibbia, ha una storia, essa può solo

essere la consumazione progressiva della distanza tra umano e divino. Le varie secolarizzazioni che hanno segnato la storia europea dall'antichità a oggi si possono legittimamente intendere in questo senso. Penso, ovviamente, come esempio emblematico, alla tesi di Max Weber sul capitalismo moderno come realizzazione secolarizzata dell'etica cristiana.

Credo che si debba estendere la tesi di Weber molto al di là dei limiti in cui egli l'ha voluta mantenere: in sensi diversi, tutta la moderna civiltà europea mi pare descrivibile come un fenomeno di secolarizzazione: non tanto di secolarizzazione del cristianesimo, ma ancora di più, di secolarizzazione di ogni sacralità naturalistica in virtù del cristianesimo.

Ciò che ha fatto la moderna civiltà europea è stato bensì secolarizzare il messaggio cristiano, interpretandolo in maniera sempre meno letterale e sempre più "spirituale", secondo l'intuizione di Gioacchino da Fiore: ma in tal modo non si è secolarizzato solo il contenuto della Bibbia, antico e nuovo testamento: proprio in nome dei valori cristiani, dell'idea di una storia della salvezza che è stata predicata da Cristo e dalle chiese, l'Europa è diventata il continente delle secolarizzazioni, della laicità, della dissoluzione dei valori eterni in favore di una concezione consensuale della verità, fondata più sulla ricerca dell'accordo e il rispetto reciproco delle opinioni, che sulla pretesa di rispecchiamento oggettivo dei fatti. Come filosofo, questo mi sembra particolarmente evidente nell'evoluzione dell'epistemologia del nostro secolo, nella centralità che ha assunto per l'etica filosofica e religiosa l'idea dell'incontro con l'altro, nella stessa trasformazione della nozione di universalità, che sempre più viene concepita come una meta da realizzare attraverso la pratica del dialogo e non mediante la ricerca sulla struttura del mondo. Persino l'annuncio di Nietzsche, secondo cui "Dio è morto", ed è morto perché è stato ucciso dai suoi fedeli, può essere interpretato in questo senso. Nella prospettiva di Nietzsche, Dio è stato una "bugia" utile all'umanità per darsi un ordine sociale praticabile, tale da rendere il mondo abitabile. E la credenza in Dio ha svolto questa funzione di razionalizzazione del mondo anche in quanto ha comandato la veridicità. Ma alla fine, quando il mondo è diventato un ambiente un poco più sicuro per l'umanità almeno relativamente civilizzata, il comandamento divino di non mentire si è rivolto contro Dio stesso: i fedeli hanno capito che per non dire bugie dovevano negare anche la bugia suprema, la loro fede in Dio.

Questa ricostruzione nietzschiana della storia del nichilismo occidentale mi sembra una rappresentazione metaforica della storia delle secolarizzazioni. È la rivelazione cristiana della storia della salvezza che ci ha permesso di dissolvere le credenze superstiziose, e di vedere il mondo come "natura" che può essere studiata dalla scienza fisica e manipolata dalla tecnica. La razionalizzazione ha così secolarizzato, cioè demitologizzato, il mondo naturale rendendolo abitabile per l'uomo. Nello stesso tempo, però, la secolarizzazione ha proceduto anche a spogliare progressivamente lo stesso messaggio giudeo-cristiano dei suoi elementi superstiziosi, sacrali, misteriosi: si è capito sempre meglio che la salvezza non consisteva nella recitazione di formule magiche, ma nel portare a compimento nella storia l'incarnazione di Dio. Le trasformazioni moderne dello stato in senso costituzionale e democratico, per esempio, la politica dei diritti umani, in genere le conquiste del liberalismo. Sono - finora - questo compimento, sebbene spesso esso sia avvenuto in contrasto con le autorità religiose che, fatalmente, hanno sempre cercato di porre limiti istituzionali al proseguimento della rivelazione nella vita della comunità dei credenti.

Non si tratta solo di riconoscere questo senso alla secolarizzazione finora avvenuta: non cerchiamo solo una visione retrospettiva della storia dell'Europa moderna. Ciò che importa in un dibattito come il nostro è cogliere un filo conduttore capace di servire come progetto per il futuro, come criterio per le opzioni sempre più complesse di fronte a cui ci troviamo. Così, anzitutto, una politica dei diritti umani di carattere europeo si fonderà molto più legittimamente sull'idea di secolarizzazione che su quella di una costituzione naturale dell'uomo che si tratterebbe di rispettare. Capisco che l'idea del diritto naturale ha avuto un peso determinante nel processo di civilizzazione della

modernità. Credo però che oggi, proprio come effetto di quella morte di Dio di cui ha parlato Nietzsche, e che in termini politici significa anche la fine dell'imperialismo e dell'eurocentrismo, noi dobbiamo fare a meno di una simile nozione, che rischia di divenire un intralcio a quel progresso dei diritti che ha inizialmente promosso. È un fatto che non si vede particolarmente chiaro in certe situazioni. In Italia, per esempio, ma anche in altri paesi cattolici dell'Europa, la legislazione sul terreno della bioetica, del diritto di famiglia e di aree affini, è rallentata e spesso distorta dalla pretesa di conformare le leggi dello Stato alla "legge naturale" che solo certe istituzioni, anzitutto la Chiesa cattolica, riconoscono come tale, opponendola anche alla libera decisione delle maggioranze parlamentari e soprattutto imponendola in modo autoritario a tutti, credenti e non credenti. Così, mentre nella generalità dei paesi europei è consentita alle coppie sterili, e anche ai single spesso, il ricorso alla fecondazione "eterologa" (con sempre di donatore estraneo alla coppia), in Italia sta per essere approvata una legge che lo vieta a tutti in nome di una concezione della famiglia "naturale" che è ormai estranea a gran parte dei cittadini, anche credenti, e che tende farsi valere al di là delle scelte di coscienza dei singoli. Cito questo esempio perché mi pare che proprio su questo terreno dovrà svilupparsi il lavoro per porre al centro della legislazione europea una concreta politica dei diritti, che non può farsi ispirare, e ormai soprattutto limitare, dal riferimento a essenze, leggi naturali, strutture immutabili. In generale, una legislazione democratica non può conciliarsi con idee metafisiche di questo tipo. È probabilmente vero che la democrazia ha bisogno di una fede nel valore della persona umana che ha l'apparenza di una concezione metafisica: ma se si analizza il contenuto della nozione di persona, è facile vedere che esso si riduce all'idea di libertà e autodeterminazione. Il che, in termini più comprensibili, come aveva già insegnato Pico della Mirandola alla fine del Quattrocento nella mirabile orazione De dignitate hominis, significa che l'essenza naturale dell'uomo è di non avere un'essenza prestabilita e di doversela scegliere liberamente.

Se ci si pensa, questo schema di una storia della salvezza come storia delle secolarizzazioni che sbocca nella scoperta della centralità della libertà individuale, traduce con estrema fedeltà l'idea cristiana secondo la quale la storia della redenzione è anche processo di progressiva comprensione del vero senso spirituale della rivelazione. La scrittura e la tradizione cristiane insegnano che l'essenza della rivelazione non è una qualche conoscenza della vera natura dell'uomo o di Dio, ma che tutto si riduce alla carità. Le secolarizzazioni che proprio il cristianesimo, con l'idea di incarnazione, ha inaugurato e messo in moto aprendo la via alla modernità, hanno un solo criterio e un solo limite, quello della carità: ama et quod vis fae. Secondo il detto di Agostino.

Si può domandare, conclusivamente, se questa identificazione della cultura dell'Europa con la secolarizzazione e, dunque, con l'idea di una storia della salvezza che ci proviene soprattutto dalla Bibbia giudeo-cristiana, non rischi di chiuderci in una prospettiva ancora una volta eurocentrica, che ignorerebbe proprio quel pluralismo culturale che vuole realizzare. Certamente vi è qualcosa di paradossale nel fatto che la stessa idea di pluralismo culturale sia, per ora, un valore soprattutto presente in una determinata cultura, quella occidentale cristiana. Noi però non possiamo immaginarci di saltare fuori dalla nostra tradizione, collocandoci in una posizione "universale", in una "view from nowhere", che pretenderebbe ancora di identificare la nostra concezione dell'umano con la vera essenza di ogni umanità. Possiamo solo, riconoscendo la finitezza del nostro progetto, cercare, proprio il nome dei nostri valori, di ascoltare i valori degli altri, aprendoci anche a forme di sincretismo, eclettismo, contaminazioni che mettono da parte ogni illusione di purezza - ideologica, razziale, linguistica - in nome del rispetto dell'altro come interlocutore a cui riconosciamo pari diritti. Si tratta forse di sostituire, alla pretesa di verità lo sforzo della carità: in fondo è in questo senso che, come diceva Croce, in quanto europei non possiamo non dirci cristiani - o anche, come dice un paradossale detto italiano, che "grazie a Dio, siamo atei".

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa4 marzo 1999

La "vita buona" e i suoi nemici

Ma la Chiesa rispetta la democrazia?

Fecondazione assistita, coppie di fatto, parità scolastica: i nodi della nuova contrapposizione tra laici e cattolici

Chi ha paura degli "storici steccati"? La rinascente contrapposizione tra "laici" e "cattolici" nella politica italiana su temi come la fecondazione assistita, i diritti della famiglia e delle coppie di fatto, i sussidi alla scuola confessionale, può certo disturbare, ma tutto sommato ha anche il senso di risvegliare un dibattito politico che rischiava di addormentarsi nella melassa del "pensiero unico", qualunque cosa questo termine voglia dire. Chi paventa tale risveglio sembra essere ispirato, sia sul "fronte" laico sia su quello cattolico, dalla diffidenza nei confronti del processo di secolarizzazione che, nella modernità, ha promosso lo sviluppo della democrazia dei diritti. I laici, che pure dovrebbero credere nel valore di questo processo, sembrano troppo spesso dubitare delle sue buone ragioni: mentre, più ovviamente, i cattolici lo considerano una iattura a cui resistere, in nome di un ideale di società del quale è difficile vedere i contorni. I cattolici (la gerarchia ecclesiastica) che si oppongono alla fecondazione eterologa e ai diritti dei single e delle coppie di fatto, per non parlare dell'"orrore" delle convivenze omosessuali, che ideale di società hanno in mente? Sembra che per loro si tratti solo di resistere all'estensione di diritti che il pensiero sociale moderno ha progressivamente riconosciuto, e che invece dovrebbero essere limitati in omaggio a un ordine "naturale" che peraltro solo la dottrina della Chiesa riconosce. È andata così in tante trasformazioni che hanno avuto luogo nei secoli passati, e che hanno visto la Chiesa ufficiale sempre (esageriamo?) dal lato della conservazione di strutture e privilegi consolidati. Non è il caso di risalire al processo di Galileo, all'Inquisizione, ai roghi degli eretici; basta pensare alla posizione della Chiesa dell'Ottocento sulla democrazia, e a più recenti battaglie su diritti civili come il divorzio e l'aborto. Anche la questione della scuola privata, a ben vedere, si collega a questi temi. I "laici" non vogliono che lo Stato sostenga un insegnamento di carattere confessionale, che discrimina gli insegnanti in base alla fede e ai costumi (quanti professori divorziati o omosessuali insegnano nelle scuole religiose?). La Chiesa, d'altra parte, rivendica sia il suo diritto di offrire un'educazione orientata secondo quelli che a lei paiono essere i valori umani universali (che dovrebbero essere, ma non sono, riconosciuti da tutti) sia la libertà delle famiglie di scegliere quali dogmi trasmettere ai proprio figli; anche questo diritto della famiglia (lo stesso che certe famiglie rivendicano per imporre l'infibulazione alle loro bambine) è un diritto fondato sulla natura umana, ma solo come la Chiesa la definisce.

La domanda che nasce da queste riflessioni, dunque, è: che cosa pensano davvero i nostri concittadini cattolici e la gerarchia ecclesiastica della direzione in cui deve andare una società per diventare più vivibile, umana, anche più caritatevole e cristiana? Certamente si deve riconoscere loro il diritto di far valere democraticamente la propria visione del mondo e della vita; dunque di affermare i valori della famiglia, i diritti dell'embrione, anche la castità prematrimoniale e la fedeltà coniugale. Ma "democraticamente" che cosa vuol dire? Solo contando sul consenso della maggioranza? Paradossalmente, proprio al principio di maggioranza si sono appellati opinionisti cattolici e persino prelati per rispondere alle proteste dei laici contro il divieto della inseminazione eterologa. Il ragionamento sembra filare. In democrazia, singoli e gruppi fanno valere le proprie opinioni su ciò che credono bene e verità; se sono maggioranza, questi valori diventano leggi. Ma, come del resto proprio il Papa ha ricordato tante volte, la maggioranza numerica non è tutto. Anche Hitler prese il potere per volontà di una democratica maggioranza. Sostenere i propri valori democraticamente significa anche accettare il diritto delle minoranze a rispettare i propri. Per esempio: nessuno impone ai cattolici di divorziare o di abortire, e ai medici in quest'ultimo caso è riconosciuto il diritto alla obiezione di coscienza. Nel caso della inseminazione eterologa, il diritto di ricorrervi è negato a tutti in nome di una scelta di coscienza di una maggioranza; nel caso dei single, in nome della stessa scelta di coscienza il diritto all'inseminazione è semplicemente rifiutato. Credere o no nella famiglia come unico luogo di trasmissione della vita è una questione di coscienza; dunque bisogna rispettare il diritto alla riproduzione anche di chi non crede nella famiglia. Del resto, questo è l'orientamento di molte leggi in vigore anche da noi; se no si dovrebbe proibire il divorzio, o ancor più sanzionare penalmente ogni relazione sessuale fuori dal matrimonio. Eccetera.

Una società, si è anche detto, non si regge se non su valori condivisi, e dunque su leggi che pongono necessariamente limiti. Ma la nostra società - con la libertà di opinione, di stampa, di religione, insomma i "diritti di libertà" che si sono fatti valere anche con il contributo dei credenti ma troppo spesso contro le posizioni ufficiali della Chiesa - è diventata estremamente complessa e pluralista. E il pluralismo moderno, che certo comporta tanti svantaggi, ha anche il pregio enorme di aver affermato, almeno in linea di principio, la libertà della coscienza individuale, di tutti gli individui a ugual titolo. Là dove sorgono conflitti "di coscienza" come quelli in mezzo a cui ci troviamo oggi, sarebbe il caso di attenersi a questo valore, davvero il più generale e essenziale tra quelli su cui si è costruito il modello sociale a cui nessuno di noi accetterebbe di rinunciare, cioè il principio secondo cui ognuno è libero di fare tutto ciò che crede e vuole fino a che non lede la pari libertà di chiunque altro. Se provassimo ad applicare questo principio al problema della inseminazione artificiale o delle coppie di fatto che cosa ne verrebbe? I cattolici intendono porre qui dei limiti richiamandosi ai diritti del nascituro, persino al suo diritto alla propria "identità biologica" e perché non razziale?). Ma ritenersi i rappresentanti autorizzati dei diritti dei nascituri non viola la pari libertà di altri che, con altre convinzioni vogliono rappresentare gli stessi diritti? Se poi si sostiene che la visione cattolica della sacralità della vita, sempre e comunque, è "naturalmente" (razionalmente, oggettivamente) più giusta si finisce di nuovo per volere che la legge adotti una determinata visione del mondo, una "confessione", contro altre, imponendola anche alla coscienza di chi non ci crede.

Con tutti i limiti, dei quali siamo fin troppo consapevoli, il valore moderno della libertà di coscienza dell'individuo - di quel singolo di cui anche i capelli del capo sono contati dalla provvidenza amorevole di Dio - resta l'unico su cui fondare la nostra vita associata e la nostra speranza di poterne fare una "vita buona".

GIANNI VATTIMO

 

ResetNovembre-Dicembre 2000 n. 63

Se deborda, è ripugnante

Per chi pensa la politica come un impegno fondamentalmente etico, cioè non finalizzato a scopi "economici", nel senso crociano di interessi "particolari", ma come promozione di valori che si sentono universalizzabili e che riguardano specificamente I meccanismi della vita associata, il cinismo può essere solo un atteggiamento che talvolta si ritiene di dover assumere proprio per la promozione di questi valori. E' sempre solo un mezzo, eventualmente, nel senso del machiavellismo popolare, quello per cui il principe ha addirittura il dovere di "sporcarsi" moralmente se ne va del bene dello stato (cioè, dovremmo pensare pero' noi democratici, del bene dei cittadini..).Se non è pensato in questi termini limitati, nella misura in cui può essere richiesto per far bene il proprio lavoro di politico moralmente motivato, il cinismo non è un comportamento politico, non ha diritto di essere considerato tale. Quel che succede spesso è che esso sconfina da questi limiti, in cui può e deve essere preso sul serio come possibile dovere in certe situazioni, e si fa regola generale, atteggiamento di base, fino a diventare caratteristica di interi gruppi "politici" che sono tali solo per modo di dire.

Si deve dunque discutere di cinismo in due sensi: quando è o sembra un comportamento necessario in certe situazioni per realizzare gli scopi di una politica eticamente motivata; o quando dilaga come atteggiamento eticamente riprovevole che si mette fuori dalla politica propriamente detta.

Nel primo senso, chiamerei cinismo la decisione di metter da parte interessi legittimi di singoli o gruppi in nome di uno scopo che sia moralmente giustificabile come più alto e più importante. Comandare un esercito in una guerra difficilmente si può senza una certa dose di cinismo: anche il nazista che entra in casa tua per violentare tua sorella , uccidere te, deportare I tuoi bambini ha una umanità che non puoi rispettare fino in fondo se devi difenderti. Un certo cinismo è richiesto spesso nel comportamento morale, per essere capaci di fare scelte che non siano in contraddizione con I valori guida a cui si vuole essere fedeli, o anche solo con l'esigenza di autoconservazione. Davvero si può non essere alquanto cinici quando si deve decidere, come medico, giudice, ecc. se operare due gemelli siamesi sacrificandone uno? Persino rinunciare alla pratica della raccomandazione dei meritevoli in una situazione in cui si sa che la raccomandazione è pratica comune e che I meritevoli sono in genere sconfitti da altri che meritevoli non sono richiede un certo cinismo. L'anima buona di Sezuan di Brecht dovette a un certo punto decidere di fare intervenire ogni tanto un finto cugino cattivo (la stessa anima buona travestita per l'occasione) per non andare completamente in rovina e distruggere tutte le proprie possibilità di aiutare ancora il prossimo. L'esperienza dei valori, nella nostra situazione esistenziale, è sempre esperienza di scelta tra valori in concorrenza, che non sono in sé inconciliabili ma di fatto non sono realizzabili insieme. Per questo, forse, nonostante gli sforzi, anche I più buoni fra noi hanno bisogno di perdono, e la giustizia (unicuique suum) non è davvero mai l'ultima parola, abbiamo sempre qualche scheletro negli armadi che ci potrebbe essere rimproverato. Un politico che porga sempre l'altra guancia non si può nemmeno immaginarlo, gli elettori lo boccerebbero subito, o in caso di monarchia assoluta sarebbero I cortigiani a farlo fuori. Chiameremo davvero cinismo quello

di chi non può non scegliere violando anche diritti, aspettative, tenerezza per l'umano? Possiamo non chiarmarlo cosi', ma dobbiamo aver presente che questa è come un'ombra permanente della nostra condotta morale che, sul piano politico - date le dimensioni di massa che le scelte spesso devono prendere, come nel caso dell'ordinare un bombardamento - corre il rischio di indurre una abitudine che fatalmente precipita nel disumano, nella pura ricerca del proprio interesse immediato, ecc.

E' questo debordare del cinismo che scandalizza di più in certe situazioni storiche. La polemica contro il buonismo che è diventata di moda nella politica e nella cultura italiana degli ultimi tempi è un sintomo di questo tipo. Mi ha impressionato, già anni fa (ma non ricordo esattamente la data, era la celebrazione di un anniversario di piazza Fontana credo) una trasmissione televisiva in cui Giuliano Ferrara discuteva con un gruppo di giovani, sostenendo alla fine che I depistaggi, I compromessi, le vere e proprie menzogne che costellano la storia delle stragi impunite nel nostro paese non devono scandalizzarci - spero, temo, di riferire correttamente il suo pensiero) perché questo è anche (o soprattutto) la politica come arte del governo. Imparare da Machiavelli, insomma, e non continuare a credersi, spesso ipocritamente, anime belle solo perché non ci siamo mai trovati a dover prendere decisioni di questo genere. Ferrara è comunque un esplicito sostenitore di questa concezione machiavellica della politica, di cui il suo giornalismo è una espressione spesso esemplare: politica come gioco di potere, e quindi anche come intrigo, e il giornalismo come scoop che svela retroscena e, sul piano dei commenti, coltiva un realismo disincantato nella visione della vita…Non so fino a che punto anche persone che stanno su posizioni opposte, politicamente, a quelle di Ferrara, non condividano questo cinismo programmatico: che è conforme a tante simpatie "filosofiche" di certa sinistra già rivoluzionaria e ora delusa, dunque amante di Carl Schmitt e del suo "realismo". Ora pero' si tratta di un realismo sommamente irrealistico, perché è misurato sulla politica come la si faceva I tempi del Congresso di Vienna, si tempi dei governi assoluti e degli arcana imperii. In un mondo, almeno in linea di principio, democratico, conta una certa immagine etica della politica che non può essere sempre solo immagine, deve corrispondere a qualcosa se no non funziona (vero è che chi sostiene il cinismo realistico dalla parte del Polo ha anche molte possibilità di manipolare l'immagine…). Come si fa a dire chiaramente che la bugia è indispensabile in politica quando ci si rivolge a un elettorato che vuole sapere per chi vota? E se non lo si dice, si continua per l'appunto a credere alla politica dei gruppi ristretti di potere; una sorta di piduismo fatto sistema, credenza esoterica, che non può nemmeno mettersi alla prova nella discussione pubblica e dunque deve affidarsi a una sorta di certezza profetica, a qualche guru supremamente sicuro di sé .

In questi termini, il cinismo non è un aspetto di una politica secolarizzata, è piuttosto un residuo di politica "moderna" nel senso in cui erano moderni Machiavelli e Luigi XIV. Non credo sia un fenomeno soprattutto italiano, anche se da noi vige una certa tradizione di doppia verità che, oltre ad avere alcuni effetti positivi - assenza generalizzata di fanatismo, sguardo di scettica tolleranza anche sulle più assurde pretese della Chiesa - implica pero' una certa tendenza a non fare molto conto del dire la verità in politica e in genere nella vita sociale. Ma non sempre la P2 la fa franca, e soprattutto non sempre chi predica il cinismo disincantato fa parte della vera P2, vive sempre con il sospetto che ci sia qualcuno più doppio e cinico di lui (di qui anche la mania della dietrologia e il gusto per I complotti..); anche solo per ragioni di salute mentale e di buona digestione, la scelta democratica sembra assai migliore.

GIANNI VATTIMO

La Stampa30 dicembre 2000

Laici, grazie a Dio

Ma è davvero così difficile prendere sul serio l'idea che la stessa laicità - delle istituzioni, dello Stato, dunque anche la democrazia con la sua "neutralità" - sia appunto quell'elemento cristiano costitutivo della nostra identità culturale europea che anzitutto la Chiesa dovrebbe essere interessata a difendere? Può darsi che non sia così felice insistere sull'espressione di Bonhoeffer "Come se Dio non ci fosse", che fa da titolo all'ultimo libro di Gian Enrico Rusconi e che don Zega mette in discussione ancora una volta nel suo articolo di mercoledì scorso. Eppure, se applicassimo il metodo usato da Max Weber nello studio della economia moderna, domandandoci, come lui ha fatto con la razionalità capitalistica, come mai l'idea della laicità dello Stato ha trovato il suo sviluppo proprio nell'Occidente cristiano - giacché non ce ne sono tanti esempi fuori di questo ambito - scopriremmo che la democrazia e la laicità si sono sviluppate nella nostra civiltà non come se Dio non ci fosse, o perché Dio non c'è, ma proprio grazie alla nostra eredità cristiana. È la libertà di coscienza che abbiamo faticosamente conquistato nelle guerre di religione, la libertà di professarsi cattolici, protestanti, o anche atei e agnostici, quella che ha reso possibile lo Stato laico moderno, l'uguaglianza dei diritti, la stessa democrazia. Che difficilmente si può far risalire alla polis greca, nella quale i cittadini di pieno diritto erano quattro gatti, circondati da meteci, schiavi, persino donne (!), forniti di diritti assai più limitati, magari nemmeno dell'anima. Dunque, hanno ragione coloro che, come don Zega, ci mettono in guardia dai rischi che comporterebbe una visione della modernità europea senza il cristianesimo. Ma per evitare questa pericolosa amputazione dovremmo tornare all'incoronazione dell'Imperatore da parte del Papa, come ai tempi di Carlo Magno? O anche solo restaurare lo Stato Pontificio abbattuto a Porta Pia poco più di un secolo fa? La vera grave amputazione della tradizione cristiana, al cui rischio siamo sempre più esposti, sarebbe proprio quella che ne escludesse la storia della laicità moderna, considerandola uno sviluppo estraneo o addirittura un rovesciamento e un abbandono. Ci dica don Zega se le radici e la memoria delle nostre origini cristiane si devono recuperare ritrovando il Sacro Romano Impero, lo Stato Pontificio, il Sillabo, l'Indice dei Libri proibiti. Immagino di no: ma una democrazia che non si senta orgogliosamente e cristianamente (grazie a Dio) laica, non finirebbe per dover tornare lì? Per esempio dovendo riconoscere che, "per legge naturale", l'errore non può avere gli stessi diritti della verità, da cui l'Indice, il Concordato con i privilegi per la Chiesa Cattolica, la censura sulle pubblicazioini oscene o blasfeme, ecc.? Se no che cosa? Noi, con tutta la buona volontà e con tutta la fede nel Vangelo, non riusciamo a vedere una civiltà cristiana se non come quella che, in contrasto con tutte le idolatrie, sa fare spazio alla libertà della coscienza e alla dignità di ogni uomo (anche i capelli della vostra testa sono contati, voi valete più di molti passeri).

GIANNI VATTIMO

 

la Repubblica4 gennaio 2001

I Lumi. Soffusi e deboli, così li preferisco

Caro direttore, sarà poi vero che, come dice nel suo bell'articolo del 31 dicembre, Umberto Eco è più illuminista di me? Ha forse ragione nel dire che non ci tengo a tutti i costi ad essere riconosciuto come (più) illuminista (di lui). Ma quando leggo che lui si sente illuminista perché è interessato a come in generale vanno le cose, e dunque a un certo concetto, sia pur relativamente, stabile di realtà, mi vien voglia di obiettargli almeno due cose che, insieme alla nozione kantiana di illuminismo (la ragione che diventa maggiorenne, ma proprio perché riconosce finalmente i propri limiti) dovrebbero aiutarci a discutere più "empiricamente", realisticamente o come si vuol dire, la questione. Primo: se vogliamo tener conto davvero di come vanno le cose, non possiamo ignorare che, del loro "andare", fa parte anche il nostro parlarne e tenerne conto. Come dire che noi guardiamo al corso delle cose non dall'esterno, from nowhere come ha detto un filosofo americano, o dal punto di vista di Dio (forse solo Emanuele Severino crede ancora di poterlo fare). Noi guardiamo al corso delle cose , distinguiamo il loro andare "generalmente" così piuttosto che altrimenti, ma siamo dentro al processo e non possiamo mettere tra parentesi questo "fatto". La differenza tra Kant e Hegel, o tra Eco e me (ma sì, bisogna pure scegliersi un termine di confronto, come diceva Woody Allen), è che nonostante tutto Kant crede ancora di poter parlare dal punto di vista di un Soggetto, sia pur finito ma stabile e non sottomesso, lui, al divenire storico. Dunque la ragione (la Ragione) ha una sua purezza , le sue categorie che si applicano sempre e dovunque ci sia un essere razionale finito eccetera. Hegel - buono questo, dirà Eco; e per molti versi concordo - pensa ancora in termini di Assoluto, certo; ma almeno comincia ad accorgersi che, se si dà un punto di vista vero, divino, definitivo, per l'uomo va conquistato. Per questo Marx era più hegeliano che kantiano, pensava anche lui che la visione limpida della verità fosse qualcosa da conquistarsi nella storia. Poi, come si sa, la storia ha smentito proprio questa aspettativa di Marx e di Hegel: il comunismo reale non era affatto razionale, e ai più è parso che questo fallimento non dipendesse solo dalla malvagità degli uomini o dal destino cinico e baro, ma dal difetto stesso del progetto. Risultato: torniamo a Kant? In parte sì, ma riconoscendo che la finitezza della ragione umana non consiste solo nel fatto che le categorie si debbono SEMPRE applicare a un materiale che ci viene dalla sensazione; anche quel "sempre" è un po' eccessivo. Finitezza vuol dire che anche il nostro guardare il mondo fa parte dei fatti del mondo, e non possiamo mai, nemmeno per scherzo, intenderlo come un guardare "puro", che ci direbbe come davvero e sempre vanno le cose. Illuminismo sarebbe qui dunque la consapevolezza della storicità della ragione, che giustamente chiameremo piuttosto ragionevolezza: per esempio, nell'etica, mischiando la fede nei nostri valori con il senso di responsabilità, che tiene conto delle conseguenze (non: fiat iustitia pereat mundus, per esempio), e tra queste, anche della storica "vivibilità" di un mondo che si ispiri a quei valori: dunque tenendo conto delle idee, dei valori, delle aspettative degli altri, e non solo dei propri ideali. Saremmo così meno convinti dei diritti umani fondamentali? E' questo che gli "illuministi" rimproverano sempre agli storicisti. Ma se ci mettessimo d'accordo che il diritto umano fondamentale è quello di essere interpellati sul proprio destino, o, appunto, quello di "mettersi d'accordo"? Non ci troveremmo così di fronte né ad autorità assolute che in nome della legge "naturale" ci vietano la fecondazione eterologa o le unioni civili omosessuali; e nemmeno di fronte a illuministi "ragionevoli" che , magari con argomenti meno dogmatici, finiscono spesso per arrivare alle stesse conclusioni (per esempio: le adozioni da parte di coppie omosessuali vanno vietate perché il bambino può trovarsi a disagio nei confronti dei compagni che hanno genitori "normali". Come dire che è meglio non essere ebreo in una società dove tutti celebrano il Natale e l'Epifania..).

Qui viene il secondo punto. delle mie osservazioni. Che anche il nostro sguardo sul mondo faccia parte del corso delle cose significa anzitutto che è un fatto, cioè un prodotto storico "motivato". Nessuno scienziato guarda il mondo "oggettivamente" per amore della verità o per

corrispondere a un dovere eterno. Lo fa per vincere il Nobel, o per produrre una medicina utile anche a se stesso, o per realizzare un mondo più giusto eccetera. I "valori" per i quali si muove non sono scritti in qualche ordine naturale, sono scelti liberamente. Che non vuol dire a capocchia ed arbitrariamente: ma appunto in relazione alla loro "presentabilità" agli altri, alla loro capacità di resistere a ogni obiezione umanamente immaginabile nella situazione concreta. Non posso dire che vanno sterminati gli ebrei o gli zingari pensando che tutti saranno d'accordo. Devo pensare che il diritto di ebrei e zingari a non essere sterminati sia legato al valore eterno e naturale della vita? Qualcuno dirà che così l'imperativo sarebbe più forte e più garantito il suo rispetto. Ma è poi proprio in nome di questo diritto eterno della vita che papi e vescovi o autorità civili varie mi vieteranno di bere alcoolici, di fumare spinelli, al limite anche di lasciarmi morire se la vita non ha più senso per me. Dunque, anche dal punto di vista "politico", molto meglio pensare in termini di consenso; motivato da argomentazioni, certo, che però si rifanno sempre solo alla nostra possibilmente condivisa esperienza storica - del tipo: ma se hai letto questo e questo, e se ricordi questo e questo, come fai ancora a dire che…? Se c'è una natura vera delle cose, c'è anche sempre una autorità - il papa, il comitato centrale, lo scienziato oggettivo, ecc. - che la conosce meglio di me e che può impormela anche contro la mia volontà. A che altro serve insistere sulla oggettività e la "datità " del vero, se non a garantire qualche autorità a qualcuno? Quando pensiamo che le leggi debbano essere fondate solo sul consenso consapevole, l'idea di poter ricorrere invece a una natura data (e anche di per sé buona, fonte di norme; ma perché?) appare migliore solo a chi ha una radicata sfiducia nella possibilità di incontrare ragionevolezza nel mondo umano. Se penso che i miei concittadini potrebbero dare la maggioranza a Berlusconi, Previti , Bossi e via straparlando e delinquendo, anch'io sono tentato di pensare che la legge non può fondarsi sul consenso ma deve avere basi più forti e "oggettive". Proprio questo svela però il senso profondamente autoritario dell'appello alla natura, alla verità, alle leggi eterne delle cose. Se voglio vivere in un mondo che garantisca la mia libertà devo per forza espormi al rischio di vivere in una società democratica, dove, per l'appunto, le leggi sono fatte con il consenso argomentato di tutti. Posso solo ridurre il rischio di lasciar trionfare i pazzi contribuendo allo sviluppo della cultura collettiva, con investimenti sulla scuola, partecipando attivamente alla discussione pubblica, e anche evitando politicamente che qualcuno possa imporre a tutti le proprie idee senza contraddittorio eccetera. Anche, e soprattutto, sforzandomi di garantire, specialmente quando sono maggioranza e posso farlo, il diritto delle minoranze, fino all'obiezione di coscienza, quando non violi diritti riconosciuti a tutti (non lascerò che l'unico farmacista della regione mi rifiuti i profilattico o la pillola del giorno dopo..).

Questo modo di vedere il rapporto tra etica - valori professati individualmente purché non a scapito della pari libertà altrui; valori condivisi in base ad argomentazioni storico-culturali, etica della responsabilità - e politica non ha bisogno di fondamenti assoluti. Si obietta: ma anche il rispetto della libertà altrui deve essere fondato su una scelta di valore. Si tratta però di una scelta che faccio in nome di una preferenza vitale: preferisco un mondo in cui ci si confronta discutendo a un mondo in cui ci si ammazza; e lo preferisco anche se sono dalla parte dei forti e dei privilegiati, perché non mi piace stare in un mondo blindato, se una sera voglio andare a divertirmi in un locale del Bronx uscendo dalle strade protette di Manhattan voglio poterlo fare. Inoltre: la fede nella libertà è una credenza vitale anche in un altro e più radicale senso: non posso predicarla agli altri, o addirittura imporla con la forza (se non fate elezioni libere sospendiamo gli aiuti). La posso rivendicare per me, e aiutare coloro fra gli altri che la rivendicano (sostegno ai movimenti di liberazione, diritto di asilo, ecc.); ma non la posso né voglio garantire a chi non ne sente il bisogno..

Ma che sia passato davanti a me il coniglio gavagai, o un qualunque vivente che corre via comunque io lo chiami, non è un fatto naturale, una datità oggettiva con cui devo fare i conti? Vero: ma: a) nello steso tempo sono passati davanti a me una quantità di altri enti (particelle di vari elementi, vibrazioni di luce, forse uno spirito invisibile..) e non li ho annoverati tra i fatti; stavo guardando solo una certa zona del mondo, e facevo attenzione solo a esseri capaci di correre nell'erba ecc. E' ciò che, credo, si chiama questione della rilevanza: anche che abbia visto un "fatto" è già risultato di una interazione tra me e il mondo; se mi si chiede di dire che cosa c'è davanti a me dirò che c'è una tastiera di computer, la mia libreria ecc: ma non tot di ossigeno, tot di azoto, tot di anidride carbonica. Come farei se dovessi rispondere a un questionario chimico. Siccome neanche quando in laboratorio si fa un esperimento "a parità di condizioni" si controllano tutte le condizioni, ma solo quelle che si presuppone possano influire

sull'andamento dell'esperimento, dirò che non conosco mai LA realtà; ma che chiamo reale ciò che non dipende da me e su cui, sempre, intervengo; reale è così una voce che ascolto, certo, ma che non si dà se non mi metto ad ascoltarla, che "c'è" solo se e nella misura in cui le rispondo. Non mi sembra che queste tesi che prendo da Heidegger siano poi tanto diverse da quelle di Quine.. In ogni caso, che ci sia il coniglio fuori di me comunque lo si chiami non mi sogno di negarlo. Ma anche solo rivendicare questa realtà "in sé", come fa Eco, risponde già a un piano, a un programma (qui, quello di stabilire se si è o no illuministi). E il programma non può essere legittimato descrivendo la realtà stessa; solo se dovessimo dire che la realtà è sempre in sé buona, perché creata da un Dio buono (ma anche poco preoccupato della nostra libertà) potremmo trarre da essa norme per giudicare il bene e il male. Invece, come sembra pensare anche Eco, noi cerchiamo di capire come stanno le cose solo perché ci interessa intervenire su di esse con le nostre arti e tecncihe; appunto, guardiamo alle cose come stanno solo dal punto di vista di questo interesse, che è storico, culturale, scelto responsabilmente in dialogo con gli altri, di oggi e di ieri.

Chi dice tutto questo? Non credo che sia l'essere che parla in me; sono io, pensatore debole collocato nel mio secolo. Propongo cioè questa teoria dal punto di vista di una lettura della mia (nostra) cultura; non perché so come stanno le cose in sé, ma perché, dall'interno di una situazione storica, mi sforzo di capire (che vuol dire: interpretare) il suo "senso" - anche come direzione verso cui essa indica, provenendo da dove proviene. Ebbene, parlare di pensiero debole significa ritenere che il senso della nostra provenienza "occidentale", giudaico-cristiana e anche illuministica, sia l'indebolimento delle pretese strutture forti dell'essere: dallo stato autoritario a quello democratico, dalla credenza nell'evidenza di coscienza alla consapevolezza freudiana dei moventi inconsci, dalla certezza dell'oggettività al sospetto marxiano e nietzschiano nei confronti delle ideologie, delle bugie inconsapevoli dovute alla nostra condizionatezza storica… Persino gli enti di cui parla la fisica di oggi sono tutto tranne che "reali" nel senso del coniglio gavagai.. Se c'è un'altra interpretazione della nostra situazione, sarò lieto di discuterla, come un'altra possibile interpretazione, e in base ad argomenti storici (autori, testi, esperienze vissute, ecc.). Naturalmente, se qualcuno viene e pretende che quel che dice è la verità "oggettiva", allora mi ricordo, parafrasandolo, di Goebbels, metto mano alla pistola.

GIANNI VATTIMO

la Stampa12 gennaio 2001

Valori forzati

TUTTO bene quello che dice don Zega nel suo intervento di ieri. Ma solo in apparenza. Se la Chiesa scendesse in campo a sostegno dei candidati che si impegnano "pubblicamente a sostenere la famiglia" come essa la intende, e l'educazione e il diritto alla vita, e persino di chi promette ("infine": è sempre stato così, purtroppo) "di battersi per un fisco più equo", e se coloro che essa sostiene avessero la maggioranza, che stato democratico ne risulterebbe? Vietate per legge le unioni non consacrate dal matrimonio, vietata la vendita dei profilattici, vietata l'eutanasia sotto qualsiasi forma, vietato (non si vede perché non dovrebbe esserlo) l'insegnamento di dottrine atee o materialiste, o l'esercizio di qualunque religione falsa e bugiarda (tutte tranne il cattolicesimo romano), stigmatizzata e perseguita penalmente ogni forma di vita sentimentale e sessuale diversa da quella della famiglia monogamica eterosessuale - si sarebbe realizzato un perfetto esemplare di "stato laico del silenzio", dove a

chi vuole abortire, amoreggiare in modi "diversi", proteggersi dall'Aids con il preservativo, leggere Carlo Marx o anche solo D'Annunzio e Pitigrilli, non sarebbe neanche concessa l'obiezione di coscienza (non è libera la coscienza di chi sceglie il male; e le leggi non devono favorirla). Non credo che don Zega, quando allude all'obiezione di coscienza, pensi a un diritto di questo tipo, rivendica solo la libertà di farmacisti e medici di non prestarsi a pratiche contraccettive. Esagero? Ma lo stato laico non ha mai imposto per legge a nessun cattolico di praticare l'aborto, di divorziare dal legittimo consorte, di usare il profilattico, di abbandonarsi a pulsioni omosessuali, di accoppare la zia malata terminale, di bucarsi con eroina e simili. Ha sempre solo sostenuto che, salva la pari libertà di tutti gli altri, ognuno è libero di regolarsi, in queste e simili materie, come meglio crede. Certo, anche di lasciare per testamento che quando sia in una condizione di vita-non vita, e incapace anche di uccidersi, lo si lasci (o faccia) morire in pace e dignità. Perché mai la difesa del senso religioso della famiglia dovrebbe implicare il divieto per chiunque, che religioso non è o lo è in modo diverso, di divorziare? So che nel caso di aborto e embrioni molti cattolici (non tutti, non lo stesso San Tommaso, per esempio) ritengono di difendere il diritto del nascituro. Ma la madre non sarà il primo soggetto da interpellare? E comunque, sulla natura di persona a pieno titolo dell'embrione ci sono opinioni scientifiche diverse, perché una maggioranza di cattolici (ammesso che ci sia nel Paese) dovrebbe imporre la propria visione a tutti gli altri? In conclusione: che razza di idea ha don Zega (e i tanti come lui) della laicità (cioè della non confessionalità, semplicemente) dello stato? È un male minore, da accettare fino a che i cattolici sono minoranza, o per qualche ragione (per esempio in cambio di privilegi concordatari) la Chiesa, bontà sua, si astiene dallo "scendere in campo"? Davvero una condanna ai "valori forzati" potrebbe essere un rimedio alla nostra crisi di valori, o finirebbe per distruggere anche l'unico valore su cui tutti possiamo liberamente concordare, quello della democrazia?

GIANNI VATTIMO

La Stampa30 gennaio 2001

Globali sì ma democratici

Da che parte stiamo, in fin dei conti? Da quella dei finanzieri, economisti, industriali, "padroni" di varie dimensioni che si sono riuniti a Davos nei giorni scorsi, oppure dalla parte del "popolo di Seattle" che li ha contestati duramente per le strade della Svizzera (e ieri anche nelle piazze di Torino) o, con meno diretta violenza, dal parallelo forum di Porto Alegre in Brasile? Il "popolo di Seattle" ha tutte le caratteristiche per farsi detestare non solo dalla lobby globale di Davos, ma anche più modestamente dai riformisti che si sforzano di non demonizzare la globalizzazione come tale, cercando invece di imporle delle regole politiche che ne facciano una risorsa per il mondo, anche e soprattutto per quel Terzo Mondo che se ne sente più minacciato. Seattle, e ora Porto Alegre, sembrano sinonimi di una sinistra alternativa che non di rado sconfina nel populismo alla Bové e nell'anarchico rifiuto della politica che troppo spesso ispira i giovani e meno giovani dei nostri centri sociali. Davanti ai movimenti ormai mensili di queste masse che praticano una sorta di turismo alternativo si prova una irritazione pari soltanto a quella che suscitano il turismo convegnistico confindustriale e quello delle varie feste di partito che affollano il weekend dei massmedia. Possibile che, per risparmiare le spese richieste dall'apparato di sicurezza e dalle riparazioni dei danni, i "vertici" di lobby private come quella di Davos o gli incontri dei capi di Stato e di governo, che attirano fatalmente le folle dei contestatori, non possano essere sostituiti da più igieniche teleconferenze? O magari tenersi sempre (Prodi ha proposto

giustamente qualcosa del genere per le riunioni europee a Bruxelles) nello stesso posto, magari a Fort Knox o in qualche remota isola difficilmente raggiungibile?

Tuttavia, nonostante tutto ciò, noi (almeno noi che non eravamo invitati a Davos) simpatizziamo spontaneamente, se non per i casseurs di Davos e di Zurigo, certo per la gente riunita a Porto Alegre piuttosto che per la lobby raccolta nella città dei Grigioni ( nomen omen ?). Probabilmente la ragione è che, con tutti i suoi eccessi che è giusto respingere e stroncare con le misure di ordine pubblico, il movimento di Seattle esprime una esigenza che anche molti riformisti ragionevoli sentono con sempre maggiore urgenza, bombardati come sono dalle minacce di Mucca Pazza e preoccupati della generale vulnerabilità del nostro sistema di vita rispetto a ogni tipo di terrorismo o di semplice distrazione tecnologica, scientifica, organizzativa. Sentiamo tutti che alla globalizzazione dell'economia, e a quella ancor più rapida della criminalità, deve corrispondere una globalizzazione della democrazia, la nascita di poteri democratici sovrannazionali capaci di guidare la crescente integrazione delle economie, ma anche delle culture e dei costumi, in una direzione che rispetti il diritto di tutti a decidere del proprio destino. Poteri di questo tipo non possono nascere certo nelle riunioni di Davos, ma nemmeno nelle fragorose rivoluzioni del weekend.

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa28 marzo 2001

Dite qualcosa di veroDopo il bando della politica in TV

Non ci staremo dimenticando qualcosa? Più che le liti sulla par condicio e i tempi di parola che ciascun partito, gruppo, coalizione cerca legittimamente di assicurarsi sulle reti televisive, quello che sembra paradossalmente mancare sono poi i contenuti della comunicazione politica che dovrebbe passare negli spazi che tutti vogliono occupare. Di che cosa parla questa campagna elettorale? Si può forse sperare che il quasi bando della politica dai programmi cosiddetti di "approfondimento", come Porta a porta e simili, conduca a un ampliamento di prospettive: non potendo far parlare i politici delle questioni del giorno, che poi sono quelle spesso più marginali, si sarà costretti a discutere, con o senza i politici, di problemi più vasti, che proprio per la loro importanza sembrano "irriducibili" alla (nostra) politica. Un buon esempio mi sembra la puntata di Porta a porta di lunedì 26: è vero che si è ripreso il tema dei giovani assassini di Novi Ligure, fin troppo discusso ormai. E tuttavia con un tono di serietà e pacatezza che certamente era possibile data l'assenza di politici litigiosi: la ministra Turco ha dato una delle sue prove migliori, in generale le banalità sono state contenute al minimo, Vespa si è mosso finalmente ad altezza d'uomo, si vorrebbe dire, né troppo altezzoso né troppo servile come spesso gli capita. Naturalmente, come ha messo in luce con discrezione Livia Turco, la questione discussa era tutt'altro che priva di risvolti e implicazioni politiche concrete: delitti come quello di Novi maturano in condizioni di difficoltà psicologica che hanno sicuramente da fare anche con la disponibilità o meno di servizi sociali, e più in generale con la qualità della vita collettiva che non coincide

sempre con impresa, inglese, Internet - tutti elementi che non sembravano mancare ai giovani "per bene" di Novi Ligure. Ma se provassimo a spingerci, nei dibattiti televisivi liberati dalle polemiche più effimere, a temi come quelli della salute nel Terzo mondo e dei costi proibitivi (ecco un'altra forma di proibizionismo assassino) che hanno le cure dell'Aids per i cittadini africani; oppure alle politiche per ridurre l'inquinamento e alle resistenze di Bush contro gli accordi di Kyoto; oppure, sì, anche alla tematica delle infelicità dovute alle varie forme di repressione del desiderio che ancora pesano su di noi, magari discutendo persino la pretesa "pedofilia" di Daniel Cohn Bendit e le tematiche libertarie del (troppo demonizzato) Sessantotto? I partiti che competono e ci chiedono il nostro voto dovrebbero anche dirci qualcosa su come si muoveranno a proposito di questi temi. Che non sono affatto temi estranei alla politica, e anzi solo se ritorneranno a farne parte a pieno titolo potremo evitare che la democrazia soffochi in una melassa di pretesa concretezza.

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa29 aprile 2001

Viva la conflittualitàCondizione necessaria alla politica

Possibile che gran parte dei dibattiti elettorali debba ruotare intorno al tono - più civile, meno aggressivo, più ragionevole, meno demonizzante - che questi stessi dibattiti dovrebbero avere? A turno, l'uno o l'altro leader (devo dire che in questo eccellono Berlusconi e Fini) insiste sul fatto che gli avversari insultano e mentono, senza mai dire quali siano in effetti le gravi bugie e i gravi insulti che usano. Da ultimo, Berlusconi dice che questa è la campagna elettorale più violenta e bugiarda della storia repubblicana, dirnenticando che gli insulti al magistrati sono sempre venuti, non da oggi, dalla sua parte, e che non c'è nulla di più insultante (anche insulso, va detto) che rifiutare il confronto con il candidato dell'altra parte decretando che non è lui il vero leader. Ma a parte queste amenità, ciò che colpisce nell'insistenza sul tema del "tono" - probabilmente assunto come centrale perché gli argomenti veri, programmatici, sono pochi - è la mentalità di fondo che essa sembra rivelare: l'ideale un po' melenso di una politica "normale" che, aiutata dai saperi economici, sociologici, biologici, medici, perda quel tono di lotta che sempre nella storia ha mantenuto. Non sarà più lotta di classe nella forma in cui l'aveva pensata Marx, perché almeno quel proletariato industriale non esiste più; anche se è probabile che se ne stia delineando un altro, assai più universale e incombente, quello dei popoli "terzi" a cui vengono negate le medicine anti-aids e le condizioni minime di sopravvivenza. Ma davvero con questa preoccupazione di non "farsi (troppo) male" crediamo di poter metter fine al carattere di conflitto che sempre, e forse fortunatamente, la politica ha avuto, soprattutto nelle società libere e democratiche? Forse non è che uno degli aspetti negativi e corruttori del consumismo - l'idea che il mondo delle merci, accessibili a tutti almeno in quel grande universo immaginario che è l'intreccio di informazione e pubblicità nel quale siamo immersi (la réclame universalizzata di cui parlava Adorno), finisca per ottundere

ogni angolosità della nostra vita, sia quella interiore sia quella sociale. La mano invisibile del mercato come vera panacea all'inquietudine esistenziale, anche sul piano politico. E il nostro cuore è inquieto (ah, Sant'Agostino) fino a che non riposa nella melassa della sacrosanta unità nazionale, del resto imposta dal rinascere (quanto spontaneo?) della minaccia terroristica. Un autentico liberale come Gobetti avrebbe terrore di una società "conciliata". E anche i pochi o tanti che, disgustati proprio dalla melassa, si accingono a non andare a votare (penso anche a Ceronetti, si) non saranno a loro volta succubi dell'ideale di una società "normale" che impedisce loro di accettare il conflitto come concretamente si presenta oggi?

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa10 maggio 2001

L'elettore artificiale

A leggere la lettera della signora Modolo (Il candidato artificiale, La Stampa del 9 maggio) viene in mente una famosa battuta di Eduardo De Filippo: "Chi c'è al telefono? La televisione. E allora falla parlare con il frigorifero". Anch'io (elettore nel collegio Torino-Centro) ho ricevuto la registrazione della voce che parlava a nome del notaio Scarabosio, candidato berlusconiano al Senato, ma per fortuna, se non con il mio frigorifero, ha "comunicato" con la mia segreteria telefonica, che purtroppo alla fine me l'ha scodellata con altri messaggi senz'altro più significativi e umani. Può darsi, come mi dice qualche amico giurista, che la norma severissima (promette anni di galera) della legge che vieta queste procedure (invadere la privacy telefonica altrui con messaggi registrati che occupano il telefono senza che vi si possa obiettare nulla, e nemmeno interrompere, giacché la linea resta comunque occupata) valga solo per la pubblicità commerciale. Finora nessun giudice l'ha interpretata estendendola alla propaganda politica. Ma forse dovrebbe farlo, non solo in omaggio alla privacy. Anche in difesa del costume democratico. Come si è visto abbondantemente nella attuale campagna elettorale, la agorà dei Greci dove i cittadini discutevano, si suppone anche animatamente, dei destini della polis, è diventata la "agorà televisiva" (dove solo alcuni discutono o fingono di discutere ) e di lì si è trasformata ulteriormente nel puro spazio degli slogan, degli striscioni attaccati agli aerei e nei muri in cui l'unico messaggio è il faccione del candidato. I radicali oggi digiunano per richiamare l'attenzione contro una campagna elettorale che ignora i grandi problemi della vita collettiva, dall'eutanasia alla ricerca sugli embrioni, e hanno ragione; dispiace che, anche di recente, non si siano battuti contro l'imbarbarimento della politica che deriva dallo strapotere dei soldi investiti nella propaganda, giacché il loro liberismo non sopporta che su questo terreno lo stato ponga alcuna regola, meno che mai che si preveda un finanziamento pubblico dei partiti. Il vuoto e la disattenzione che oggi lamentano è anche frutto di tale liberismo. Ma forse non siamo ancora arrivati all'estremo: il candidato artificiale (De Filippo docet) finirà per creare l'elettore artificiale, per esempio nella forma di un collegamento diretto tra gli istituti di sondaggio e gli exit poll, che, passando per l'auditel, ci darà i risultati elettorali senza che ci si debba scomodare per quel rito antiquato, umano troppo umano, che si svolge ancora nella "gabina".

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa7 giugno 2001

Se la sinistra fa la sinistra

Melandri e il popolo di Seattle

Davvero si finisce per pensare che non ha ragione Andreotti quando dice che il potere logora chi non ce l'ha. I Ds che stanno ora all'opposizione sono finalmente in grado di prendere, nei confronti del "popolo di Seattle", un atteggiamento meno ambiguo, e in definitiva più responsabile, di quando si trovavano al governo. (Molto bella, a proposito, l'intervista di Giovanna Melandri sulla Stampa di lunedì). Atteggiamento più responsabile perché più selettivo, attento ai contenuti specifici della protesta - dunque anche più capace di distinguere tra i diversi "popoli di Seattle" che si trovano a manifestare contro gli effetti della globalizzazione.

Certo, la sinistra, anche di governo, aveva sempre cercato di spiegare chiaramente che non è la globalizzazione come tale (commerci, lavoro anche per la gente dei paesi terzi che, sia pure pagata meno che nell'Occidente opulento, ha finalmente l'occasione di una prima uscita dalla miseria) ciò che bisogna combattere, ma i suoi effetti perversi; e anzitutto l'impoverimento fondamentale del Terzo mondo, che consiste nell'imporgli i nostri modelli di vita senza dargli i mezzi per realizzarli in concreto. Ma ora che non ha più la responsabilità principale di assicurare l'ordine pubblico, tendenzialmente demonizzando, e concretamente spesso bastonando, tutti i diversi popoli di Seattle, la sinistra ritrova una parte di se stessa che era stata alquanto oscurata nei mesi passati. E forse non è un bene solo per la sinistra e la sua ricerca di identità. È probabilmente un bene anche per tutti, come è un bene per tutti l'aria che si respira e il clima dell'ambiente in cui viviamo.

Rispetto a problemi come questi è assai meglio che l'alternativa non sia solo tra Bush e le vetrine spaccate dai Centri cosiddetti sociali. Non vogliamo a tutti i costi vedere qualcosa di provvidenziale nella sconfitta elettorale dell'Ulivo; ma non è poi tanto male guardare ad essa facendo di necessità virtù, ritrovando appunto quelle virtù che l'esercizio del potere aveva lentamente logorato.

La svogliatezza con cui la gente di sinistra è andata a votare in questi anni di maggioranza ulivista era certo anche la spia della mancanza di una "cultura di governo", come ci è stato tanto spesso ripetuto. Ma esprimeva soprattutto il disagio profondo di trovarsi troppo spesso di fronte, come avversari, coloro che in realtà (per condizione economica, per visione del mondo e atteggiamento morale) erano sempre stati amici e compagni di strada. Sanare questa ferita non significa ritornare nostalgicamente agli ideali "rivoluzionari", o addirittura eversivi, di un tempo.

È soprattutto un passo significativo verso la costruzione di un riformismo capace di dare voce politica agli ancora tanti esclusi, con il risultato, si spera, di realizzare una società più sicura proprio perché meno disperatamente conflittuale.

GIANNI VATTIMO

 

L'Unità10 giugno 2001

Come inventare l'opposizione

Caro direttore,

dobbiamo certo prender sul serio D'Alema quando dice che il suo discorso alla Direzione Nazionale dell'altra settimana, sull'esigenza che l'Ulivo con le due gambe, di centro e di sinistra, abbia anche una testa che può essere solo socialista, non era una rivendicazione di leadership della coalizione in funzione anti-Rutelli. Che qualcuno, non pochi, l'abbia potuta intendere così, tuttavia, la dice lunga sul deterioramento del clima dentro il partito, e anche sugli effetti che in genere produce lo stile dalemiano.

Ma, appunto, il senso autentico del discorso è del tutto condivisibile, almeno come punto di partenza di una discussione programmatica che finalmente voglia uscire dalle secche dei personalismi o, quando va bene, dei discorsi di pura trattativa elettorale.

L'allusione alla geografia politica del Parlamento europeo, del resto, è perfettamente trasparente.

I due maggiori gruppi, in quel Parlamento, sono quello popolare e quello socialista. Rutelli e i Democratici italiani stanno nel gruppo liberaldemocratico; ma altri esponenti della Margherita sono invece collocati nel Partito popolare europeo, dove si trovano in compagnia di Berlusconi e C. Per quanto si voglia considerare accidentale questo fatto - giacché è probabilmente Forza Italia che sta "abusivamente" nel Ppe - esso richiama tuttavia a un problema che l'Ulivo non può non porsi, quello del proprio orizzonte programmatico.

E proprio in vista di un rafforzamento della Margherita, anzitutto, che, come ha osservato su l'Unità del 3 giugno Dino Sanlorenzo, ha il problema di trasformare il successo elettorale "in una fase politica" per rappresentare un "fatto nuovo positivo nella geografia politica italiana".

Il che significa, tra l'altro, proprio darsi un programma politico definito, che dovrà esprimere l'orientamento dei vari gruppi che la compongono. la battuta di D'Alema sulla "testa socialista" dell'Ulivo trova una sua legittimità nel presupposto che, comunque, i popolari, i socialdemocratici, gli ambientalisti, i vari laici che si sono raccolti nella Margherita condividono in generale un orientamento che, nella suddivisione attuale delle forze politiche dei vari paesi europei, dentro o fuori

dell'Unione, sta piuttosto dal lato dei socialisti che da quello dei "popolari". Ovvio che né i popolari europei sono tutti berlusconiani - anzi, sono in prevalenza piuttosto tiepidi nei confronti del Cavaliere; né i socialisti europei sono un corpo politico omogeneo, a cominciare dal diverso atteggiamento che professano nei confronti della stessa forma dell'Unione europea.

Dunque, con tutte queste cautele, e senza alcuna implicazione sul piano della leadership dell'Ulivo nei prossimi anni, la questione è giusto che si ponga. È del resto il problema intorno a cui si discusse nell'ormai preistorico convegno di Garonza. Da questo punto di vista, la battuta di D'Alema su gambe e testa sembra anzi una professione di fede ulivista: una testa più omogenea, un programma esplicitamente unitario, è la condizione perché l'Ulivo diventi finalmente ciò che a Garonza non ha potuto divenire. Che questa testa porti il nome "socialista", o "socialdemocratica" - entrambi termini che in un passato non troppo remoto suonavano, per la "vera" sinistra comunista italiana, come pesanti ingiurie - o si chiami invece in un altro modo conta poco. Non credo che D'Alema avesse in mente un ennesimo cambiamento di nome dei Ds. E penso anzi che gli amici (compagni?) della Margherita si sentano comunque più affini a un partito democratico della sinistra che a un partito socialista, per quanto "europeo". Ma, per l'appunto, come non si tratta solo di persone e di personalismi, così non si tratta principalmente di nomi e di nominalismi. Che cosa perseguiamo noi diessini, e noi ulivisti tutti insieme, come ideale di società per il quale vogliamo lavorare? L'enormità del conflitto di interessi di Berlusconi, e la minaccia che egli, con l'uso spregiudicato del denaro e del potere mediatico, rappresenta per la democrazia (oggi in Italia, domani, anche solo come esempio, in Europa) rischia di far passare in secondo piano questa domanda concernente la nostra "cultura", di là dalle molte preoccupazioni contingenti che tutti conosciamo. Certo, anzitutto noi vorremmo una società italiana libera dal peso della pluto-telecrazia berlusconiana, dove dunque il dibattito e la competizione politica potessero svolgersi in condizioni non truccate. Anche se fortunatamente la situazione è diversa, e qualcuno troverà che esageriamo, ci sono qui molte analogie con la Resistenza e il Cln: ci sembra spesso di dover abbandonare il dibattito programmatico - e le eventuali differenze non marginali che in esso si potrebbero evidenziare - perché siamo (e lo saremo sempre di più nei prossimi anni) in una situazione di emergenza. Eppure questo dibattito é sempre più urgente, e condizionerà anche la politica di opposizione che riusciremo a fare nel Parlamento e nel Paese. L'allusione dalemiana al socialismo, per quanto provocatoria, ci mette di fronte a un passaggio non facilmente accantonabile: pensiamo di proporre solo uno sviluppo capitalistico dal volto (più) umano, o un po' meno disumano, o abbiamo in mente un modello di società dove, prima di tutto, si mettano in discussione i meccanismi di distribuzione del potere? Berlusconi vuole abolire la tassa di successione probabilmente solo per interesse privato; ma si tratta di un provvedimento che ha una grande portata simbolica, e per questo rappresenta un esempio appropriato. Una società dove (secondo la moda liberista) tutto si fonda sulla competizione e il merito, può davvero sopportare che le condizioni iniziali della gara sociale siano così spudoratamente, e spesso irrimediabilmente, truccate?

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa30 luglio 2001

Non sfilate,

boicottateContestare senza mettere a repentaglio la

vita

Lontano da Genova e dall'Italia per impegni accademici (posso considerarmi giustificato, si licet, come Noam Chomsky, per questa assenza?), converso con Charles Taylor, filosofo e politico canadese, sulle possibilità dei movimenti democratici di cittadini di farsi valere contro lo strapotere delle multinazionali, e anche dei mass media che, spesso di loro proprietà, distorcono gravemente i meccanismi nei vari Paesi. Taylor mi racconta che in Canada il movimento ecologista è riuscito a modificare radicalmente la condotta di una grande multinazionale dei mobili, che per le sue produzioni usava legnami provenienti da foreste minacciate di estinzione. Come? Attraverso un'azione di boicottaggio organizzato da associazioni e movimenti, che certo hanno dovuto trovare mezzi di comunicazione ancora relativamente liberi come Internet. Di fronte a ciò che leggo sui pestaggi di Genova, e anche sul comportamento delle polizie di tutto il mondo, mi convinco che l'idea del boicottaggio massiccio può essere un'alternativa valida alle manifestazioni di piazza. E' ovvio che da una polizia che risponda a un governo rispettoso dei diritti dei cittadini mi aspetto un comportamento diverso da quello che, per testimonianze numerose e concordi, c'è stato a Genova. Ma il punto è che bisogna prendere atto che le manifestazioni di piazza, anche e soprattutto per il dilagare di una violenza sociale che tende fatalmente (e con la complicità dei governi) a prendere il sopravvento su ogni intenzione pacifica delle grandi masse, finiscono in genere col produrre danni materiali ingenti e, soprattutto, col giustificare l'escalation di misure repressive che soprattutto le destre ritengono di dover affermare per amore della legge e dell'ordine. E' sempre più necessario inventare modi di lotta che non mettano a repentaglio l'incolumità fisica e addirittura la vita di militanti politici dei quali proprio una democrazia ben ordinata non può fare a meno. Tenendo conto che là dove si viene allo scontro non ha senso aspettarsi di poter "sfondare" le difese del potere. Ma se tutti gli antiglobalizzatori che hanno sfilato a Genova e nelle altre città per protestare contro la violenza che hanno subito, dai Black block e dalla polizia, decidessero davvero di non consumare più le tante merci superflue che sono loro offerte, ma anche spesso imposte, da quelle stesse multinazionali che vogliono combattere, qualcosa potrebbe davvero cambiare.

GIANNI VATTIMO

 

L'Espresso30 agosto 2001

L'opera dei califfi

Michael Cook, Il Corano, Einaudi, pp. 173, lire 16 mila L'immagine "minacciosa" del fondamentalismo islamico che viene spesso agitata contro il rischio della massiccia immigrazione di musulmani in Europa, e che in genere siamo inclini a rifiutare proprio per le sue connotazioni politiche reazionarie e razziste, non è del tutto infondata. Questa è almeno una delle conclusioni del bel libro di Michael Cook, professore a Princeton, che presenta in termini piani e rigorosi il testo sacro dell'islam, il Corano. Nella storia della formazione del canone coranico, straordinariamente rapida rispetto a quella delle scritture sacre delle altre due grandi religioni monoteiste - quella ebraica e quella cristiana - Cook individua uno dei fattori dell'autorevolezza con cui il Corano si presenta nella cultura attuale; un'autorevolezza che è bensì fondata sulla compattezza del suo contenuto, ma che consegue anche dalla stretta connessione che esso ha sempre avuto con lo Stato: la redazione delle 114 "sure" o capitoli di cui è fatto è stata opera dei califfi, cioè dei compagni del Profeta che erano anche i capi politici della società musulmana. Tutto il lavoro di critica testuale che ha caratterizzato la storia della recezione moderna della Bibbia, non ha avuto luogo nel mondo islamico. O almeno non in una misura comparabile. Di qui una serie di conseguenze che vanno tenute presenti per capire la cultura musulmana. Nella quale certo vi sono orientamenti interpretativi diversi, anzitutto quelli che separano i sunniti dagli sciiti. Nonostante le apparenze in contrario (l'Iran khomeinista) Cook ha ragione di credere che forse proprio da certi aspetti più vivi e moderni dell'Islam persiano possa venire un impulso all'affermazione di una laicità musulmana.

GIANNI VATTIMO

La Stampa27 settembre 2001

Smemorati tra loroChi attenta alla democrazia occidentale

Tra i danni che il terrorismo può produrre sulla nostra esistenza civile, oltre alla riduzione di libertà e di privacy che, forse inevitabilmente, dovremo subire, ce n'è un altro molto più sottile: la rispettabilità che sembrano destinati a riacquistare discorsi come quello di Angelo Panebianco nell'editoriale "Smemorati tra noi", pubblicato sul Corriere della Sera di ieri.

Panebianco ci invita a liberarci finalmente da quel relativismo culturale che, equivocando sulla nozione di uguaglianza tra gli uomini, è arrivato a pensare che la civiltà occidentale non è l'unica possibile civiltà umana degna del nome, ma forse si colloca in un contesto in cui culture e sistemi di valori diversi hanno per lo meno la pari

dignità che spetta agli interlocutori di una civile discussione.

Se abbandonassimo finalmente questo pernicioso relativismo - come Panebianco ci chiede di fare - che cosa dovremmo pensare? Che la nostra civiltà occidentale è in assoluto superiore a quelle con cui ci troviamo oggi in confronto e, forse, in conflitto. Dunque, dovremmo tutti condividere lo spirito di crociata che Bush ha incautamente evocato, smentendosi subito dopo, sotto la pressione, dobbiamo credere, di consiglieri relativisti e intellettuali nichilisti?

Panebianco farebbe bene a ricordare - anche lui - che molti attacchi terroristici alla democrazia occidentale sono venuti dall'interno di questa stessa civiltà superiore: dai terroristi rossi italiani degli anni Settanta, ai baschi, ai nordirlandesi, agli autori della strage di Oklahoma City di qualche anno fa. E, manco a dirlo, tutti costoro non erano certo nichilisti, relativisti culturali o simili. Erano esattamente questo tipo di persone persuase assolutamente della verità della propria "civiltà", tanto da volerla difendere a tutti i costi anche al prezzo della vita propria e altrui. Per favore, se dobbiamo parlare di memoria, e di rispetto della nostra cultura, ricordiamoci che la sua superiorità, se ne ha una, è proprio nel fatto di aver scoperto che non è la sola possibile forma di umanità civile al mondo.

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa10 ottobre 2001

Alla guerra senza sorrisi

Potremo anche impegnarci militarmente di più, se gli obblighi che abbiamo con la Nato ce lo imporranno, e insieme ai nostri alleati europei; ma non chiedeteci di gridare viva Bush, per favore, e nemmeno viva Berlusconi. Non chiedeteci di marciare entusiasti dietro le bandiere della libertà impugnate dal governo italiano della legge sulle rogatorie, detta giustamente legge Previti; né al seguito del presidente Usa che, eletto con l'appoggio determinante dei petrolieri, rifiuta gli accordi di Kyoto. Non chiedeteci di sentirci davvero rappresentati, come cittadini dell'Occidente liberale e democratico, dalla grande coalizione che, come giustamente fanno osservare i "filoamericani" radicali, include anche la Corea del Nord, Gheddafi, l'Arabia Saudita e gli altri paesi degli sceicchi. Quella opinione pubblica riluttante, quel popolo del "sì, ma" che oggi è bersaglio di quasi tutti gli opinionisti "indipendenti", e a cui si infliggono quotidiane lezioni di decisionismo anglosassone, esprime anche e soprattutto perplessità di questo genere. Si è ricordato spesso, in questi giorni, che l'Europa si è salvata dal fascismo per l'impegno degli americani contro Hitler (peraltro diventato effettivo quando furono attaccati direttamente a Pearl Harbor). Giusto, ma della coalizione antifascista e antinazista faceva parte anche Stalin: qualcuno si sognerebbe oggi di rimproverare ai liberali e democratici dell'epoca di non aver inneggiato all'Unione Sovietica, accettando tuttavia lo stato di necessità imposto dalla situazione? Non aggrediteci subito dicendo

che Bush non è Stalin, mentre è molto verosimile che i talebani siano come Hitler. Lo sappiamo bene; ma permetteteci di avere qualche dubbio sulla buona fede democratica di alcuni, non pochi, membri della attuale coalizione; e di preoccuparci che la situazione di emergenza sia da loro utilizzata per liquidare troppi conti con loro dissidenze interne che niente hanno da spartire con la ferocia terroristica di Bin Laden. Vista sotto questo profilo, l'operazione "tutti uniti dietro agli Usa" è molto simile a quella che tutte le destre hanno sempre tentato anche in condizioni diverse e di minore oggettiva tensione: le campagne elettorali giocate prima sul pericolo comunista, poi sulla sicurezza pubblica minacciata dalla caduta dei "Valori" e dall'invasione degli immigrati; adesso, certo con ben più forti ragioni ma sempre nello stesso stile, in nome della difesa della libertà occidentale contro il fanatismo terroristico. Date queste esperienze, concedeteci almeno una certa freddezza, un residuo di atteggiamento critico - che del resto non guasta: anche nell'uso legittimo della forza è necessario non perdere del tutto il discernimento.

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa16 ottobre 2001

Oppio Bin LadenI fondamentalisti e il vecchio Marx

Chissà se Berlusconi, in visita a Bush, ha potuto tener conto dell'articolo di Mario Deaglio pubblicato ieri sulla Stampa; se no, varrebbe la pena che qualcuno ne facesse dei manifestini da lanciare sulle centrali del potere occidentale per favorire una riflessione finalmente non succube della follia fondamentalista. Deaglio ci invita, con argomenti della solidità che gli è consueta, a considerare finalmente l'attacco di Bin Laden all'Occidente come un fatto politico e non solo religioso. A cui si può e deve opporre una risposta politica: una iniziativa che liberi l'Occidente dalla minaccia del terrorismo, ma che insieme si ponga il problema di liberare anche i paesi musulmani, e le loro riserve petrolifere, dal dominio di una casta di feudatari che nuotano nei petrodollari e, come nel caso di Bin Laden, si prendono anche il lusso di presentarsi come difensori dei diritti degli sfruttati. Giacché è questo che, oltre alle riflessioni di Deaglio, dovremmo finalmente cominciare a dire esplicitamente: Bin Laden è solo uno sceicco dissidente, un aspirante emiro, o califfo, che agita davanti alle masse poco colte (in tempi meno Fallaci si sarebbe detto ignoranti) del mondo islamico il miraggio della rivoluzione per sostituire il potere degli sceicchi corrotti con un nuovo potere ancora peggiore, perché non più democratico ma solo più sanguinario e determinato nella lotta per il dominio del mondo. Un curioso modo di venir meno ai valori della civiltà occidentale, un altro aspetto della nostra "decadenza" (che sarebbe meglio sempre scrivere con le virgolette, quando ci confrontiamo con i fondamentalisti), è l'oblio in cui sembra esser caduta la grande eredità europea della critica dell'ideologia. Serpeggia in Occidente, in ciò sì nichilista nel senso peggiore, una specie di oscuro sentimento di ammirazione per il fanatismo di Bin Laden e dei suoi accoliti, che non esitano a sacrificare la vita per potere, attraverso lo sterminio di altri, affermare la propria fede. Non sarebbe ora di ricordarsi con Marx che la religione, e certo almeno

questa religione, è l'oppio dei popoli? E che i kamikaze in buona fede saranno bensì dei martiri, ma che il martirio (lo diceva Nietzsche, ma forse non solo lui) non ha mai provato la verità di qualcosa. E Bin Laden che è cresciuto negli agi di una ricchezza mai guadagnata con il lavoro, frequentando le più corrotte classi sfruttatrici di Oriente e Occidente, se anche - ma poi? - crede in ciò che predica, è solo vittima di una falsa coscienza che appunto i maestri del preteso nichilismo occidentale ci hanno insegnato a smascherare. Cominciamo a non lasciarci torbidamente affascinare da nostalgie regressive per l'integralismo, guardiamo laicamente alle motivazioni politiche, economiche, di dominio che stanno dietro a questi crociati della purezza, e inventiamo una politica che non si limiti ad affidarsi alle bombe o, peggio, addirittura agli scongiuri.

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa21 ottobre 2001

Bipartisan? No, grazie

La smania che contagia Governo e opposizione

Non è solo questione dei dubbi di pronuncia (bi- o bai- partisan?); è proprio il contenuto del termine che ormai, colpa anche dell'abuso che se ne fa, suscita sempre più spesso giustificate diffidenze. Si dice: ricordatevi della guerra in Kosovo, quando solo con l'appoggio parlamentare dell'opposizione, il governo di centro-sinistra riuscì ad assumersi le sue responsabilità internazionali. Appunto: in quel momento il voto dell'opposizione fu determinante; ma oggi, con la maggioranza debordante di cui dispone Berlusconi nei due rami del Parlamento, che bisogno c'è di invocare continuamente quella sorta di unione sacra di tutte le forze politiche quasi che di lì dipendesse la salvezza della patria? Forse che è indispensabile per far sì che l'Italia figuri un po' meno male nel consesso internazionale, e possa "contare" di più nella coalizione antiterrorista - e dunque sedersi con più diritti al tavolo della pace, quando si tratterà di decidere sui nuovi assetti mondiali? Ma questa idea, di entrare in una guerra iniziata da altri per partecipare all'eventuale spartizione del bottino, non è quella che indusse sciaguratamente Mussolini a gettarsi nell'avventura hitleriana? Corsi e ricorsi, certo con molte differenze, e tuttavia non si può fare a meno di pensarci. Forse che il grande corteo di solidarietà con gli americani - manco a dirlo, bipartisan - promosso dal giornale di proprietà della signora Berlusconi e dagli altri giornali di regime per il mese prossimo potrebbe contribuire a non lasciare che l'Italia venga esclusa dal direttorio europeo inventato da Chirac e riservato a Francia, Germania, Gran Bretagna? Ma noi vogliamo davvero un'Europa di stati nazionali che procedono a spartizioni di influenze, o non dovremmo piuttosto difendere (lo ha fatto giustamente Prodi) l'ideale di una Europa davvero federale, capace solo così di "contare" nel mondo? Domande che giustificano altrettanti sospetti nei confronti delle smanie bipartisan di tanti personaggi dell'opposizione e, soprattutto, del governo. Il fatto è che se l'opposizione si lascia prendere nella logica della bipartisanship (concediamoci anche questo termine) , il solo

risultato sarà di far passare in secondo piano le persistenti ragioni che la separano dal governo Berlusconi. Nel patriottico clima bipartisan, chi si ostinasse ancora a scandalizzarsi (insieme a tanti politici e giornali stranieri) per il conflitto di interessi,la legge sulle rogatorie e altre quisquilie "giustizialiste" del genere dovrebbe rassegnarsi a tacere o ad apparire come un bilioso Catone, o un soldato giapponese a cui non è ancora arrivata la notizia della fine della guerra. Ebbene, anche a costo di correre questo rischio, noi (io?) diciamo che non ci stiamo. Continuiamo a non avere nessuna voglia di sfilare insieme a Berlusconi e ai suoi avvocati di reputazione non proprio specchiata, ai suoi collaboratori variamente inquisiti; diffidiamo più che mai dei richiami di una stampa e di una televisione che sempre più evidentemente rispondono alla voce di un solo padrone. Se volete, anche per evitare che il bi (bai?) di bipartisan perda ogni significato.

GIANNI VATTIMO

 

17 novembre 2001

Forse sta nascendo una nuova, pulita socialdemocrazia

Intanto, il rosso, se non sbaglio molto più visibile e intenso come colore dominante della sala, del (minimale) palco e di tutta la (sobria) scenografia; poi l'Internazionale cantata in coro con un'intensità niente affatto rituale; e infine il logo, non più lo "I care" veltroniano, ma un più netto "Il coraggio di cambiare. Il mondo" (quest'ultimo scritto, molto realisticamente, ahimè, a testa in giù). Ecco, queste sono le novità che (mi) colpiscono immediatamente nell'avvio del secondo congresso dei DS a Pesaro. L'appello veltroniano a prendersi cura non era meglio o peggio del motto scelto quest'anno; rifletteva solo una situazione diversa - molto diversa, quanto cambiata in meno di due anni: era un richiamo diretto a una società ricca e pacifica, tentata soltanto dal disinteresse e dall'egoismo consumistico, e per giunta governata, bene, da una maggioranza di centro sinistra. Oggi tutto si è come repentinamente rovesciato: governo Berlusconi all'interno, Bush presidente, e guerra al terrorismo che coinvolge anche, e ancora non sappiamo fino a che punto, il nostro Paese. Non sappiamo se sia un'impressione esagerata; ma, in questa situazione, ciò che occorre è un più netto e specifico programma politico, non solo un richiamo a un generico ideale di solidarietà.

Forse, ciò che si comincia a rovesciare con il Congresso di Pesaro non è "il mondo", anche se è verso questo che si deve andare (ma sì, ritroviamo un po' di utopia). E' anzitutto lo stesso nome dei DS che si rovescia: diventando francamente SD, socialdemocrazia. Una restaurazione? Una svolta vergognosa per un partito che ha tanto a lungo bollato i socialdemocratici come socialtraditori, e che dalla storia recente dei socialisti italiani è stato spinto a diffidare, fino a vergognarsi, del nome di socialista. Ebbene, anche se non è vero che il passato è finito, come pensa un po' ottimisticamente Amato, è certo che ormai siamo in

condizione di non provare più una simile vergogna. E' anzitutto un risultato dell'esperienza europea, un effetto della collaborazione con i partiti della sinistra riformista che governano grandi paesi nostri partner nell'Unione. Fassino ha giustamente insistito sul fatto che di contro alla (disastrosa) esperienza del socialismo italiano sta l'esempio dei successi dei partiti socialisti di Francia, Gran Bretagna, Germania, Portogallo, anche dei socialisti spagnoli che hanno saputo pilotare la Spagna fuori dal franchismo verso la modernizzazione. Niente amnistie, o amnesie, niente revoca di sentenze di condanna passate in giudicato; niente pentimento per l'aver voluto duramente separare la nostra vocazione di sinistra da una cultura "di governo" ridottasi a vorace volontà spartitoria di potere e di denaro.

Con questo ritrovamento dell'eredità socialdemocratica il partito si starà spingendo "a destra"? Ma è proprio la nuova aggressività della destra, quella interna e quella mondiale (il nostro "alleato" Bush!), a rendere chiaro che la sola terza via percorribile per le democrazie sviluppate è il socialismo; senza una forte presenza dello stato, e di uno stato sopranazionale rispettoso dei diritti fondamentali, la libertà individuale, compresa quella del mercato che sta tanto a cuore ai liberisti, e soprattutto la libertà civile, la privacy, la libera ricerca della salute (se non della felicità), tutto ciò diventa vuota retorica. Sta forse nascendo faticosamente a Pesaro la nuova, pulita, socialdemocrazia italiana?

 

GIANNI VATTIMO

L'Unità19 novembre 2001

I diritti civili diventano protagonisti

Possiamo intitolare la giornata conclusiva del congresso di Pesaro ai diritti? Forse è questo il più evidente denominatore comune degli interventi che si sono sentiti ieri mattina, compresi alcuni dei più attesi, da Cofferati ad Amato a Veltroni a Bassolino. Il tono dei diritti è stato dato dai primi interventi della mattinata, quando ancora i congressisti stavano arrivando, e sono stati, così si spera, svegliati dalla loro distrazione.

Parlo degli interventi di Sergio Lo Giudice, presidente dell'Arci Gay, e di Pasqualina Napoletano, capo della delegazione Ds al Parlamento Europeo. Ben lungi dal limitarsi a rivendicare il riconoscimento delle coppie di fatto e delle convivenze omosessuali, Lo Giudice ha evocato, in un intervento di largo respiro, la più generale questione del sostegno che il partito della sinistra riformista deve dare, laicamente, alle tante libertà civili che ancora, in Italia, attendono di essere legalmente riconosciute. Le libertà che hanno da fare con la politica della famiglia, con la ricerca scientifica (contro l'"embriolatria" del cattolicesimo reazionario), con i limiti stessi della vita: quando la sinistra avrà il coraggio e la forza di condurre in porto una legge sull'eutanasia?

Il rispetto della coscienza religiosa di così gran parte degli italiani - che Fassino ha giustamente evocato nella sua relazione di apertura - non dovrebbe più francamente ispirarsi all'ideale

autenticamente cristiano della libertà di coscienza, contro l'autoritarismo di quelle istituzioni che credono di dover difendere il nostro vero bene anche contro la nostra libera scelta? Se anche in Italia potremo arrivare un giorno ad una legge così civile e cristiana, forse ciò sarà possibile solo con l'aiuto dell'Europa, "obbligati" a civilizzarci per stare al passo con i nostri partner dell'Unione.

È il senso dell'intervento di Pasqualina Napoletano, che ha mostrato come l'unità europea non serva solo all'economia o alla lotta contro la criminalità e alla difesa dell'ambiente; ma più fondamentalmente all'affermazione dei diritti. Non è forse un caso che questo discorso sull'Europa dei diritti sia stato affidato a una donna; né che l'ultimo intervento prima della replica di Fassino sia stato quello di Livia Turco, ex ministro degli Affari Sociali.

Non che l'Europa sia femmina - a parte il genere grammaticale del nome. Ma certamente il primato dei diritti, che si è sentito chiaramente in moltissimi degli interventi congressuali (compreso, anzitutto, quello di Sergio Cofferati) ha qualcosa di femminile. Specialmente se lo si confronta con il tradizionale primato di un altro termine che, nei giorni di Pesaro, si è sentito poco, quello di "sviluppo".

Dobbiamo leggere in questo un limite, un ripiegamento, un minimalismo "di guerra"? Forse no, solo un altro aspetto del coraggio di cambiare: una sinistra che si occupa di più dell'uguaglianza, della solidarietà (I care, non l'abbiamo certo cancellato!), disposta a pagare il prezzo di una minore aggressività machista, nei confronti degli altri (nella competizione senza regole), nei confronti delle cose e delle risorse della natura (nella ricerca di una indefinita crescita quantitativa del mondo), in vista della costruzione di un mondo meno frenetico e più amichevole.

 

GIANNI VATTIMO

L'Unità22 dicembre 2001

Lei difende i giudici? Ma come si permette

Caro direttore, sarà poi tanto di cattivo gusto, come alcuni hanno subito osservato, celebrare una "giornata della giustizia" il 17 febbraio, giorno in cui iniziò Tangentopoli con l'arresto, quel giorno del 1992, del piccolo "mariuolo" (così Craxi) Mario Chiesa? Se proprio si vuole usare questo termine dell'estetica, si dovrà osservare che il gusto è espressione di una spiritualità, di un costume, di un atteggiamento condiviso. E se oggi siamo arrivati al punto di sollevare un problema di gusto su un tema come quello della giustizia, vuol dire che il martellamento delle menti e delle coscienze operato da ciò che scrivono e soprattutto da ciò che tacciono i media ormai (quasi?) tutti di regime sta ottenendo quello che si propone: mettere fuori corso il senso della giustizia a favore di una rassegnata accettazione di ciò che, per l'appunto, appare accettato e accettabile dalle voci dominanti del potere.

Dovremmo vergognarci di celebrare l'inizio di quella che anche autorevoli organi di stampa "neutrali" come il New York Times chiamarono la "rivoluzione italiana"? Sappiamo tutti che una rivoluzione dovrebbe essere anzitutto un fatto politico; dunque

che non è fisiologico che venga, invece, affidata ai giudici e al potere giudiziario. Ma il buon gusto ci impone forse di considerare fisiologia autentica quella espressa nel famoso discorso di Craxi al Parlamento, adattandoci al fatto che i costi della politica dovevano essere pagati con la corruzione generalizzata - la quale dunque avrebbe dovuto godere di una sua impunibilità?

Se poi, secondo un gusto (ancora) pragmatico che si diffonde pericolosamente anche a sinistra (ma forse solo nelle oligarchie burocratiche dei partiti), ci si obietta che con il "giustizialismo" rischiamo di perdere ancora voti e consensi (certo, dalla stampa di regime..), e che sarebbe invece pagante una apertura francamente bipartisan alle riforme, sarà meglio non dimenticare che le analisi dei flussi elettorali non danno affatto ragione a questa posizione; e soprattutto che ciò che oggi si ammanta del nome anglosassone di bipartisanship (ammesso che il termine esista) non è altro che il consociativismo di infelice memoria.

Un consociativismo che, nella versione berlusconiana, si configura così: prima si fa la legge salvaladri, si cancellano le rogatorie, si mette al sicuro il cavaliere da ogni possibile incriminazione; poi si invita l'opposizione al dialogo con la scusa del senso di responsabilità istituzionale.

Se Berlusconi e i suoi complici vogliono stravolgere la Costituzione e cancellare i diritti sindacali, lo facciano da soli, speriamo che i cittadini prima o poi si facciano sentire.

Perderemmo davvero consensi se, finalmente, invece di proporci solo come più attendibili realizzatori di un programma di destra, ci mostrassimo davvero come una sinistra alternativa?

GIANNI VATTIMO

 

L'Unità27 dicembre 2001

Da sinistra a destra in nome dello

"sviluppo"Caro Direttore, non conosco personalmente, se non in modo molto superficiale, Renzo Foa; so che ha diretto l’Unità e adesso è un autorevole collaboratore del Giornale di casa Berlusconi. Quando sento citare con tono elogiativo i suoi articoli da quelle altre voci libertarie ma anche inspiegabilmente sempre più berlusconiane che parlano da Radio Radicale mi domando che cosa lo abbia spinto a compiere una così stupefacente "evoluzione". Poi penso anche a tanti colleghi (compagni sarebbe dire troppo, si offendono) che (ancora?) non hanno fatto lo stesso percorso, e anzi militano nella sinistra persino con responsabilità parlamentari ( ma sì, facciamo i nomi, che sono nomi

di amici: primo fra tutti Franco Debenedetti) e anche qui mi domando che cosa motivi quelli che a me paiono francamente dei tradimenti, ma che obiettivamente sono solo dei sempre più marcati dissensi.

Dei dissensi dalla tradizione della sinistra come ancora, sia pure minoritaria, vive in tanti di coloro che hanno votato per noi e anche per loro nelle ultime elezioni. Ebbene, poiché in questo campo è difficile dire che ci sia una verità oggettivamente innegabile - se no la politica dovrebbe essere ancora duramente diretta da una scienza dimostrativa, saremmo ancora ai piani quinquennali di sovietica memoria - non posso pensare che il loro atteggiamento sia un "errore" dovuto a debolezza di mente o addirittura a pochezza morale. Mi spiego il tutto solo guardando a quelle che – adesso non penso più a Foa, confesso, ma soprattutto agli amici della sinistra "liberal" – sono le motivazioni che più spesso mi vengono opposte quando discuto con loro. Queste motivazioni, se lascio da parte quelle più legate alla opportunità elettorale, del tipo: con il giustizialismo perdiamo le elezioni, che ovviamente hanno una dignità molto minore (anche Hitler prese il potere con una maggioranza elettorale), trovo una parola il cui significato mi sembra sempre più dubbio, la parola "sviluppo". In fondo, dal loro punto di vista "realistico", il sistema sovietico è davvero caduto solo quando è diventata insopportabile la sua inefficienza economica: tutti potevano comprare qualunque cosa, ma i supermercati erano vuoti. Per converso, se avesse saputo produrre merci per tutti e benessere materiale diffuso, le violazioni della libertà avrebbero finito per non pesare tanto, certo non avrebbero dato luogo allo sconquasso che ha abbattuto il cosiddetto socialismo reale. Sulla base di un ragionamento simile siamo oggi invitati a non fare tanto gli schizzinosi sugli accordi commerciali con paesi come la Cina, nei quali le libertà civili sono gravemente violate: se ci rifiutiamo a questi accordi, danneggiamo lo sviluppo (anche nostro) e dunque, più o meno direttamente, violiamo quegli stessi diritti umani che vorremmo difendere, i nostri sindacati non mancherebbero di ribellarsi a questi eccessi di idealismo…

Si badi che la Cina, in questo caso, è davvero molto vicina. Gli stessi principi valgono quando si parla per esempio, da noi, dell’articolo 18 e della necessità di limitarne gli effetti perversi sulla vitalità delle aziende. O della politica fiscale berlusconiana che, almeno a parole, intende ridurre le tasse , e dunque gli introiti dello stato, con la conseguenza che si dovranno anche ridurre i servizi sociali; in attesa, ma quanto lunga, che la nuova vitalità economica così stimolata ci renda tutti più ricchi e meno dipendenti dall’assistenza statale. Non ignoriamo quanto complessi e stretti siano i rapporti tra realizzazione dei diritti umani fondamentali (le condizioni di esistenza materiale, la sicurezza del futuro..) e la crescita del Pil. Ma irrigidire troppo questi rapporti significa né più né meno che affidare tutto alla mano invisibile del mercato. La quale sempre più appare, oltre che invisibile, inesistente. Prendete gli esempi sempre più frequenti di un paradosso come quello che tutte le statistiche ci mettono sotto gli occhi: grandi industrie che riducono drasticamente la mano d’opera e vedono crescere il loro valore sul mercato azionario. Oppure, più banalmente: se lo stato francese, italiano, vendesse tutti i castelli e le opere d’arte dei musei, il suo Pil aumenterebbe di molti punti, ci sarebbe uno "sviluppo". Per un bel po’, o magari definitivamente (giacché le assicurazioni costano), la Gioconda non sarebbe più esposta al pubblico – ma questo nel Pil non conta. Così come non conta nel Pil il disagio dei molti disoccupati prevedibili nella "transizione" – nel periodo (quanto lungo?) tra la riduzione delle tasse, o l’abolizione dell’articolo 18, e la nuova ricchezza prodotta dalla accresciuta vitalità dell’economia. Anche prevedere degli "ammortizzatori" che aiutino a "passare la nottata" si rifletterebbe negativamente sul Pil, dunque ostacolerebbe lo sviluppo. (Da filosofo, ma conta poco anche questo per lo sviluppo, potrei vedere in questi esempi un segno della impossibilità di ridurre le scienze dello spirito alle scienze della natura: "tempi" diversi, quelli dei meccanismi materiali dell’economia e quelli della qualità della vita. E diversi anche i tempi di chi affronta le transizioni in diverse condizioni di partenza..).

Non so quando la mano invisibile del mercato abbia cominciato a mostrarsi troppo debole per garantire quella che, parodiando Kant, si chiamerebbe l’unione di virtù e felicità, cioè la sintesi tra sviluppo e promozione umana; certo oggi a questa sintesi non

credono più nemmeno i "transfughi" della sinistra; almeno non ci credono coscientemente, anche se le loro posizioni restano fondamentalmente determinate da questa mai consumata convinzione. Non solo sono vittime di una inconscia soggezione ai dogmi liberisti; peggio, sono ancora dominati dalla dottrina del piano quinquennale. Quando decidono di schierarsi contro il sindacato in nome di una razionalità sociale che alla loro scienza economica appare oggettivamente "vera" parlano come gli antichi programmatori sovietici (o, potenza della sanguinaria tradizione "comunista", cavaliere mio: come i deportatori di intere popolazioni da una parte all’altra dell’Urss in nome della necessità di razionalizzare la produzione). Talvolta pensano e dicono di parlare in nome delle generazioni future – anche se le generazioni presenti si rifiutano di ascoltarli. (Non è lo stesso quando il cardinale Tonini difende i diritti del feto contro la volontà della madre che pensa in coscienza di non poter non abortire, o i diritti della vita contro la volontà del malato terminale che chiede l’eutanasia?). L’autentico politico deve saper mettersi contro gli interessi apparenti, immediatamente sentiti, delle masse per difendere i loro interessi "veri"…

Solo pensieri in libertà sul rapporto tra sviluppo e promozione umana? A me pare che tutto , un po’ razionalisticamente, si tenga. La scuola-azienda della Moratti risponde alla stessa logica dominata dal Pil e disposta a sacrificare, per un non molto chiaro futuro, la qualità attuale dell’istruzione. Molto esibito "machiavellismo" di Giuliano Ferrara si muove nello stesso spirito. Qualche giorno fa la seconda pagina del Foglio conteneva un articolo di Oscar Giannino che merita di essere ricordato, e su cui occorre riflettere: secondo uno studio recente condotto negli USA, le esecuzioni capitali favoriscono al diminuzione del tasso di omicidi, mentre la loro commutazione in pene diverse riduce la deterrenza della legge. Si potrebbe aggiungere (certo , molto al di là delle intenzioni di Giannino) che applicare la pena di morte a molti reati gravi che ora ci costringono ad affollare i penitenziari permetterebbe di ridurre drasticamente le spese per il sistema carcerario…

Oggi, fortunatamente, la parola sviluppo compare sempre più spesso accompagnata dall’aggettivo "sostenibile". Ma forse bisognerebbe cominciare a domandarsi se l’espressione non finisca per essere un puro e semplice ossimoro; e cioè che dovremmo abbandonare lo stesso termine di sviluppo, il culto degli indici, la soggezione – questa si espressione di materialismo dogmatico – della politica all’economia. .Non sappiamo verso dove potrebbe condurci una decisione simile; anche perché, come nel caso di molte malattie che non si curano perché nessuna industria farmaceutica ha interesse a studiarle, sociologi, economisti, teorici della politica, non hanno il coraggio di riprendere seriamente le ricerche che, in questa direzione, avevano intrapreso circoli ristretti come il "club di Roma" e pochi organismi simili. Anche solo ricominciare a discuterne potrebbe servire a qualcosa.

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa23 gennaio 2002

UE contro Ui"Emergenza democratica": risposta a

Debenedetti

Sono lieto che, per la cortese anche se criptica e polemica citazione che ne fa il senatore Franco Debenedetti (18 gennaio), i lettori della Stampa vengano a sapere di un articolo che ho pubblicato sulla Süddeutsche Zeitung ("Europa, stacci vicino") e della amichevole ma aspra polemica che ci ha visti impegnati nelle ultime settimane a proposito della politica della sinistra italiana e dell'atteggiamento che essa dovrebbe tenere nei confronti del governo Berlusconi. Nell'articolo, uscito con un certa evidenza nelle pagine culturali del giornale di Monaco, io sostenevo una tesi che non mi sembra affatto stravagante, e cioè che "solo l'Europa ci può salvare". Non soltanto nel senso più immediato, per cui il futuro politico, economico, civile dell'Italia, come degli altri Paesi dell'Unione, e di tutto il continente, dipende strettamente dallo sviluppo delle politiche di integrazione; ma anche in senso più specifico, che oggi, di fronte alla "resistibile ascesa di Arturo Ui" (cioè alle sempre più evidenti tentazioni autoritarie e antiliberali del governo Berlusconi) è proprio l'Europa - con la realizzazione di uno spazio di libertà e giustizia comune (leggi: mandato di arresto europeo, rogatorie semplificate ecc.), con una legislazione antimonopoli e di difesa della libertà di stampa e di tv, con una attenzione marcata ai diritti civili (a cominciare dalla eguaglianza dei cittadini davanti alla legge per finire al pari trattamento delle diverse confessioni religiose..) - che può rappresentare un argine e una garanzia.

Debenedetti, iscritto ai Ds e senatore di questo partito, sostiene che in Italia la democrazia e l'ordine liberale non sono in pericolo; e che è controproducente e addirittura autolesionistico, da parte della sinistra, insistere su questo tasto. Gli elettori ormai non ci sentono più da questo orecchio, secondo lui. Forse è così (sebbene, quanto agli effetti della "demonizzazione" del cavaliere sui risultati elettorali, le statistiche dicano tutto il contrario); ma non sarà conseguenza della disparità di armi mediatiche con cui la sinistra, in regime di non risolto conflitto di interessi, è costretta a muoversi? Anche se noi Ds avessimo i migliori e più ragionevoli programmi di questo mondo - e un po', caro senatore, li abbiamo, lo riconosca - i cittadini ne sarebbero verosimilmente tenuti all'oscuro. Come sempre più spesso succede. Farei un torto al Presidente della Repubblica, per cui nutro il massimo rispetto oltre che civico e personale affetto, chiedendo su tutto ciò l'aiuto dell'Europa? Ma se lo stesso Debenedetti dice che non è augurabile né in potere del Presidente un intervento che ponga limiti all'azione della maggioranza democraticamente eletta, a chi dovremmo rivolgerci? Non so se non fare attenzione a tutti questi problemi e al deteriorarsi delle libertà nelle condizioni attuali possa chiamarsi un atteggiamento democratico; di sinistra certo no.

GIANNI VATTIMO

 

L'Unità24 gennaio 2002

Intanto a Strasburgo: sguardo sull'Europa

Il socialismo ossia l'Europa. Potremmo ispirarci al titolo del famoso scritto di Novalis (dove al posto del socialismo c'era "la Cristianità", e Dio sa quanto i termini siano affini) per sviluppare una connessione che, anche grazie (si fa per dire) alla politica-non politica del governo Berlusconi ci diventa sempre più chiara. Al punto che l'ideale europeo si presenta come un valido, forse il solo valido, sostituto del progetto marxista di costruzione di una società disalienata. Si osserverà che i due progetti stanno a un diverso livello di generalità filosofica; è vero. Solo che anche l'ideale europeo, se pensato, come si deve, fuori da ogni prospettiva di tipo etnico e "naturalistico" - com'era il caso delle unificazioni nazionali ottocentesche: l'Italia "una d'armi, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue e di suol", a cui si richiamano ormai solo Bossi e i suoi padani - diventa un programma denso di significato politico che può a buon diritto rivendicare una portata emancipatoria comparabile con quella, ormai logorata, del marxismo.

Non è un caso, insomma, che oggi il progetto europeo sia in Italia patrimonio della sinistra; come è stato a lungo patrimonio di quei movimenti politici di ispirazione liberale e cristiana che avevano e hanno oggi più che mai in comune una visione della politica come grande impresa etica di promozione umana. Liberaldemocrazia, cristianesimo politicamente impegnato, movimento socialista affrancato dal peso della tradizione sovietica sono oggi più vicini che mai, e lo si vede bene soprattutto nelle istituzioni europee, nelle quali sono meno sensibili le remore create dalle eredità clientelari dei vari partiti nazionali. Un nuova frontiera del catto-comunismo, penserà qualcuno. Perché no, se nel frattempo l'impegno etico sia dei cristiani sia dei socialisti si è purificato da ogni integralismo con la piena assunzione dei valori della democrazia liberale?

L'eredità marxiana a cui i socialisti non dovrebbero rinunciare è forse quella che proprio le democrazie popolari di tipo sovietico hanno tradito di più, l'idea che l'economia politica non è una scienza naturale, dunque che non può autorizzare alcuna pianificazione rigida dell'economia che si pretenda scientifica.

Ma ciò che deve restare di una tale idea - oltre a un certo indispensabile volontarismo nella progettazione politica - è soprattutto la conspevolezza che ciò che è umanamente e eticamente degno non è assecondare una qualche essenza "naturale", bensì consiste nell'assumere la responsabilità piena di scelte argomentate e condivise.Il valore del progetto europeo risiede tutto nella sua "artificialità"; che si traduce nel fatto di realizzarsi in modo democratico e, per la prima volta nella storia, non mediante la conquista violenta da parte di un potere come quello delle dinastie o dei condottieri che hanno operato le "unificazioni" nazionali o imperiali del passato. I passaggi di questo ragionamento sono difficilmente riassumibili in breve, ma possono comunque essere accennati; il loro livello di "generalità" non dovrebbe spaventarci, se, come pensiamo e diciamo spesso, si tratta di ricostruire le basi di una filosofia e politica della sinistra. Persino la vicinanza, spesso esagerata a scopo retorico o addirittura polemico (Nietzsche) e caricaturale tra cristianesimo e socialismo ci può qui aiutare. Come l'annuncio cristiano, il socialismo - quello che resta o merita di restare di esso - è un radicale antinaturalismo: solo in quanto antinaturalistico si può intendere la profezia-speranza marxista della rivolta dei deboli-proletari contro i padroni-forti. Ma poi, molto più banalmente: se si cerca un minimo comune denominatore dei programi politici della destra ciò che si incontra è proprio l'apologia e la volontà di riportarsi alle differenze "naturali" come motori dell'emancipazione: liberare le energie, togliere lacci e lacciuoli alla libera concorrenza, giù giù fino alle implicazioni razzistiche di tutto ciò. Per non parlare delle varie forme di autoritarismo sociale, o religioso, che pretendono di fondarsi sulla conoscenza corretta della vera natura di uomini e cose: papi e comitati centrali comandano in nome di leggi ed essenze naturali che ai semplici fedeli o ai proletari "empirici" non sono chiaramente accessibili. Non

dovremo riconoscere come una sempre valida eredità marxiana, e dunque socialista, la messa in luce del carattere ideologico di tutte queste pretese di "verità" su cui gli autoritarismi si fondano? Ciò che si sottrae alla falsa coscienza ideologica è soltanto quello che è proposto e assoggettato alla libera discussione e stipulazione. Libera e dunque, certo, anche argomentata: non però con lo scopo di raggiungere una dimostrazione definitivamente fondata, ma solo di stabilire un accordo rivedibile che tuttavia impegna seriamente (molto più seriamente di qualunque "principio eterno") i contraenti.

L'Europa, anzitutto come progetto di costruzione politica totalmente fondata sulla libera adesione - di cittadini e stati con uguali diritti - è oggi la più concreta e visibile manifestazione di una politica antinaturalistica, e cioè "marxista", cristiana e socialista. È in quanto tale che può rivendicare lo statuto di un ideale politico capace di muovere le volontà e anche scaldare gli animi. Tutto il resto viene dopo; ma neanche con mediazioni troppo complicate. Anzitutto: gli euroscettici sono chiaramente succubi di una visione naturalistica della storia e della politica. L'Europa delle patrie o delle nazioni è l'Europa di chi non rinuncia al culto esagerato delle proprie radici, appartenenze, dialetti, e non vuole tener conto del fatto che le stesse identità nazionali o regionali a cui tiene tanto si sono storicamente formate attraverso la dissoluzione di appartenenze e identità precedenti, più "naturali"...

L'Europa dei cattolici che vorrebbero una esplicita menzione della religione o del cristianesimo nella Carta dei diritti rivendica tale richiamo in nome di una naturale vocazione dell'uomo alla religione, come se proprio il cristianesimo non ci avesse avvertiti che la religione naturale è solo superstizione e idolatria. L'Europa concepita solo come area di libero mercato senza troppi vincoli statalistici è l'Europa dello scontro tra forti e deboli, che non vuole nemmeno asoggettarsi alle "burocratiche" regole tendenti ad assicurare sportivamente una relativa parità nelle condizioni di partenza. Per amore di sistema, e di polemica, si potrebbe andare avanti nel riportare a un "idealtipo" naturalistico le varie posizioni antieuropeiste che si stanno sempre più evidenziando quanto più - con l'Euro, con l'avvicinarsi dell'allargamento - diventa urgente scegliere tra diversi possibili modelli dell'Unione. Ma è chiaro che, come tutti gli idealtipi weberiani, anche il nostro deve fare i conti con molte "impurità".

Quel che ci sembra invece più chiaro è il nesso suggerito all'inizio; l'idea cioè che oggi un programma socialista, o di sinistra, può e deve identificarsi come programma dell'integrazione europea. È in questo programma che si concretano e appaiono praticabili i valori di cui la sinistra e il socialismo sono ancora portatori. Le tematiche dell'alienazione si traducono oggi nei diritti sociali, politici, civili che, anche a causa dei diversi livelli di sviluppo che hanno avuto nei vari paesi, trovano garanzia e prospettiva di affermazione solo nel quadro di una legislazione comune europea: non pensiamo qui solo ai paesi che già stanno nell'Unione, ma a quelli candidati, che spesso vengono da un'esperienza tragica di socialismo autoritario. Quanto sia importante l'orizzonte europeo per un'economia capace di svilupparsi uscendo dalla soggezione agli Stati Uniti e mantenendo un modello sociale attento alla solidarietà tra classi e generazioni è quello che appare sempre più chiaro oggi che, con l'Euro diventato moneta "effettiva", siamo sulla via (non garantita, certo, ma possibile) di una piena attuazione delle potenzialità economiche del Continente. Sicurezza, efficacia della giustizia, qualità della vita collettiva nei vari paesi anche dal punto di vista dell'ecologia, della disponibilità di farmaci, della difesa della privacy nel mondo della telematica - tutto questo, che è un insieme di condizioni indispensabili della libertà, si realizza oggi solo nell'ambito di una più franca integrazione europea.

Ce n'è abbastanza per pensare che vale la sinonimia tra socialismo ed Europa. Con una importante aggiunta: sia i giusti timori circa il carattere imperialistico della globalizzazione, sia la preoccupazione che, in un mondo non più bipolare, la potenza "imperiale" statunitense si abbandoni (con Bush, poi) a sempre più estese guerre preventive per lo sradicamente definitivo del "terrorismo" (non solo quello che è davvero tale, ormai lo sospettiamo), possono trovare espressione politica, invece che nelle violenze di strada o nel puro appello papale ai buoni sentimenti, nella esistenza di una forte Unione "europea" anche nel senso della fedeltà a una tradizione politica ispirata a valori come l'uguaglianza e la solidarietà che oggi più che mai sembra la sola capace di promettere un futuro non totalitariamente militarizzato e invivibile.

GIANNI VATTIMO

La Stampa27 gennaio 2002

I buoni tradimentiCome sentirsi europei restando italiani

SE dico a un amico francese che mi sento italiano solo quando gioca la nazionale di calcio o quando mi metto a tavola cercando gli spaghetti si scandalizzerà; i francesi si sa che sono sciovinisti. Sembra se ne scandalizzi anche Enzensberger, nel suo colloquio con Umberto Eco raccolto ieri da La Stampa, forse per motivi diametralmente opposti: i tedeschi hanno a lungo dovuto ritrovare una loro identità nazionale dopo il nazismo attraverso una faticosa elaborazione della "colpa". Ma Eco, quando sostiene l'esistenza di un homo europaeus riflette una fortunata caratteristica della mentalità italiana; quella stessa che si manifesta nella editoria, la più "traduttrice" fra tutte quelle dei paesi sviluppati. Si dice talvolta: grazie a Dio sono ateo; ebbene, grazie all'Italia non ci sentiamo anzitutto ed esclusivamente italiani, abbiamo imparato a identificare la nostra nazionalità come una identità locale, a cui restiamo fedeli come alla nostra famiglia, alla cucina di casa, al dialetto e alle sue ricchezze. Ma una identità esiste solo per essere "tradita", superata, inclusa in identità sempre più ampie. Che cosa sono stati, se non tradimenti di questo genere, gli ideali unitari del Risorgimento, quando si trattò appunto di superare le piccole patrie per diventare un solo stato nazionale? Le tradizioni regionali e municipali non sono affatto morte, allora, e vivono ancora, molto più che in altri Paesi come la Francia, nei dialetti, nella cucina, ma anche nella fisionomia specifica delle accademie e della vita intellettuale che nel nostro Paese è così policentrica e multiforme. Sempre dal punto di vista, privilegiato (il nostro solo "primato morale e civile") di una cultura nazionale non nazionalista, vaccinata proprio dalla dolorosa esperienza del fascismo e della sconfitta bellica, siamo nella condizione migliore per capire che c'è già, da noi ma anche in tanti altri Paesi del continente, e almeno in tanti gruppi e ceti sociali (internazionalismo proletario!) anche dei Paesi più sciovinisti, una sensibilità europea che non ha niente da fare con delle appartenenze "naturali".

Come se queste appartenenze non fossero a loro volta già prodotti culturali, divenuti a causa di decisioni: davvero il codice giustinianeo o il codice napoleonico sono rimasti nella storia perché rispecchiavano fedelmente una cultura già radicata? Non hanno invece contribuito in modo decisivo a costruirla, come noi speriamo che facciano oggi l'euro e la vilipesa (da Bossi) burocrazia di Bruxelles?

Per fortuna, l'Europa è una cultura e non una nazione; tanto più cultura quanto meno può richiamarsi ad appartenenze "naturali", che però tali non sono perché sono solo tracce di eventi e decisioni culturali più antiche, e dunque anche, talvolta, degne di essere abbandonate come abiti smessi. Se, senza alcuna legittimazione in origini e nascite comuni, l'Europa oggi riuscirà a darsi, mediante stipulazioni volontarie e scelte politiche, una costituzione, proprio in ciò si dimostrerà fedele alla sua provenienza, che come tutte le eredità culturali esiste solo a partire dal momento in cui decidiamo di riconoscerla.

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa7 febbraio 2002

Regime sì regime noIl no degli intellettuali a Berlusconi

Caro direttore, poiché sono un collaboratore di lunga data della Stampa, e d'altra parte sono anch'io uno degli "esuli di carta" di cui parla Gramellini nel suo articolo di ieri, mi permetta di esprimere il disagio che quell'articolo mi ha provocato, anche perché - ma non sono ovviamente un giudice neutrale - è solo una delle sempre più numerose voci "centriste" (?) che dalla colonne del giornale invitano ironicamente a non esagerare nel giudizio sul pericolo che sarebbe costituito dal governo Berlusconi. Voglio offrire a Gramellini un altro argomento di osservazioni ironiche. Ecco qua: se durante gli anni del fascismo si fosse ironizzato sul fatto che Benedetto Croce (ma come, vogliamo paragonarlo a Tabucchi?) continuava a essere libero di pubblicare la sua rivista e i suoi libri, dimostrando dunque che gli antifascisti come lui avevano torto, lo si sarebbe trovato grottesco, se non peggio. È ovvio che tutti i regimi autoritari hanno bisogno di una facciata di rispettabilità; Berlusconi ha licenziato Ruggiero ma - magari lasciando alla casa editrice Einaudi, ora di sua proprietà, la tradizionale impronta di sinistra - cerca anche con la politica culturale di garantirsi il rispetto di quegli europei che non è ancora riuscito a comprare con i soldi. Il nuovo fascismo italiano non è quello dello sdoganato Fini e nemmeno quello del povero Bossi; è il fascismo postmoderno che non si serve di manganelli e olio di ricino, ma conta sul dominio della pubblicità, della comunicazione, di una pubblica opinione progressivamente addormentata. È davvero esagerato - in una situazione di crescente controllo di tutti i media da parte del capo del governo, capo del partito di maggioranza, ministro degli Esteri, imprenditore di successo, proprietario di tutte le televisioni private e della più grande casa editrice, primo nella lista dei più ricchi d'Italia - cercare di farsi sentire, finché è ancora possibile, dai nostri concittadini?

L'Unità11 febbraio 2002

Dite a Berlusconi le parole legalità e

giustizia

La manifestazione di Torino di sabato 9 febbraio merita davvero di marcare una svolta nella politica dell'Ulivo; l'autentica risposta di massa che ha fatto registrare, del resto non dissimile da altre che si verificano un po' in tutte le città, richiede che i partiti e la coalizione reagiscano a loro volta con una immediata indicazione di obiettivi politici, realistici ma ambiziosi, su cui si possa concentrare la nuova disponibilità all'impegno politico che si è fatta vedere, sorprendendo persino i più ottimisti fra gli organizzatori. Una disponibilità direttamente proporzionale alla sempre più diffusa sensazione dei pericoli - non solo politici, ma istituzionali - che si delineano nelle scelte del governo Berlusconi.

Per questo, forse, è indispensabile che gli obiettivi di azione dell'opposizione siano anzitutto legati alla difesa della legalità repubblicana contro gli attentati che le si rivolgono. Di qui, la necessità di premere perché i processi di Milano si svolgano regolarmente a dispetto di tutte le iniziative dilatorie che dall'ambito (legittimo) della difesa degli imputati tendono a straripare sul piano delle iniziative parlamentari "di supporto", prese da avvocati (del premier) che sono anche deputati (dello stesso) e sostenute da ministri e sottosegretari (del suo partito).

Castelli si è già dovuto rimangiare il trasferimento immediato del giudice Brambilla, ma non mancherà certamente di inventare qualche altro espediente per interferire con il processo. Prima di, o almeno insieme a, ogni iniziativa di riforma della giustizia, l'Ulivo deve battersi perché giustizia sia fatta anzitutto con l'applicazione equa - la legge è uguale per tutti, lo ricorda Castelli? - delle leggi vigenti e così molteplicemente violate dal nostro premier e dai suoi adepti. Basta con le accuse alla magistratura, in nulla diverse, per carattere eversivo, da quelle a suo tempo avanzate dai terroristi di destra e di sinistra.

Su questo piano della legalità, quali che siano stati gli atteggiamenti erronei del passato, occorre rivendicare anche l'illegittimità costituzionale della elezione parlamentare di Berlusconi; il quale ha dedicato gli ultimi anni della legislatura precedente a rinfacciare a D'Alema la sua condizione di abusivo (non eletto direttamente alla carica di premier; ma non c'era nessuna norma costituzionale che lo imponesse), mentre oggi i suoi opinionisti spacciano senz'altro per una caduta di gusto e di sensibilità politica evocare la legge che vieta ai titolari di concessioni governative (e quali concessioni: non un'esattoria di paese, ma tutte le reti televisive private) di concorrere a cariche politiche elettive. Non abbiamo avuto abbastanza forza e determinazione per rivendicare l'applicazione di questa legge a suo tempo; così come non abbiamo fatto la legge sul conflitto di interesse, sulle cariche RAI; e allora? Se ci fossimo dimenticati di sanzionare con una legge l'omicidio o il furto sarebbe una buona ragione per non provvedere ora, e lasciare che simili delitti rimangano impuniti?

La difesa senza compromessi dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori appartiene anch'essa all'impegno per il rispetto della legalità costituzionale; ma è già, anche, un obiettivo decisamente politico. Da quello che si vede nelle manifestazioni sindacali di questi giorni, è un punto su cui l'Ulivo è chiamato a farsi sentire con iniziative anche estreme, come il sostegno allo sciopero generale, se e quando esso sarà indetto. Contro l'obiezione - ritorno agli anni Cinquanta! - che si tratti di uno sciopero "politico", il sindacato deve rivendicare il proprio diritto-dovere di difendere non solo i salari, ma anche il quadro istituzionale entro il quale si colloca il lavoro. E l'Ulivo non può che sostenere con tutte le forze questa rivendicazione.

Vuol dire tutto questo che l'agenda dell'Ulivo si lascia condizionare, solo in funzione difensiva, dall'iniziativa del governo? In qualche misura sì, ma il governo persegue ben precisi scopi politici che sono diretti a limitare profondamente diritti irrinunciabili; o a intervenire su problemi aperti nella società italiana che richiedono prese di posizione

specifiche anche dell'opposizione. In entrambi i casi, l'agenda del governo è anche la nostra: nel primo caso in una funzione difensiva, nel secondo con un senso propositivo che deve configurare precise alternative ai programmi della destra.

L'elenco è facile. - Sanità: difesa e rafforzamento delle strutture sanitarie pubbliche, contro la deriva privatistica che spinge verso le assicurazioni - per ora integrative, ma domani sempre più sostitutive e dunque fonte di nuove disuguaglianze; deriva per giunta promossa da un governo il cui capo è anche un magnate delle assicurazioni. - Scuola: affermazione del carattere pubblico dell'istruzione, contro ogni tentazione di utilizzare le scarse risorse per la promozione della scuola privata (confessionale, per lo più); e impegno per una scuola che non discrimini fin dall'inizio, come vuole la signora Moratti, tra ragazzi destinati al lavoro manuale e ragazzi destinati alle carriere "alte" (è quello che la cosiddetta riforma vuole stabilire, con la scelta, imposta a meno di quattordici anni, tra scuola professionale e scuola orientata al proseguimento liceale). (Ancora: solo negative, le nostre posizioni sulla scuola? No, avevamo un riforma Berlinguer già varata, che l'arroganza dei nuovi governanti ha voluto mandare all'aria).- Europa: impegno per una Convenzione che arrivi a porre almeno le basi di una Costituzione europea. Scelta del modello federale contro le ambiguità del governo Berlusconi-Bossi, che flirta senza costrutto con l'idea della sussidiarietà, con i richiami all'Europa delle nazioni (alias, demagogicamente, dei "popoli": padani, insubrici, e vattelapesca). Scelta per l'elezione diretta del presidente della Commissione esecutiva. Scelta decisa per l'allargamento entro il 2004. Mandato d'arresto europeo e collaborazione giudiziaria da realizzare entro lo stesso termine (senza aspettare che Berlusconi si faccia altre leggi su misura dei suoi guai giudiziari). - E poi, assenza molto grave nei discorsi che si sono fatti in questi giorni da parte dei leader ulivisti: presa di distanza netta da ogni enfasi americana sulla lotta al terrorismo come priorità assoluta. Se abbiamo potuto simpatizzare con questa tesi nei giorni immediatamente successivi all'11 settembre, oggi diventa sempre più chiaro l'uso che Bush vuol fare dello spettro del terrorismo: giustificare sul piano interno una limitazione grave delle libertà civili; e sul piano internazionale, fondare una rinnovata politica di competenza esclusiva degli USA come unico gendarme dell'ordine internazionale. Non senza il proposito, oggi evidentissimo, di coprire con il terrorismo dell'antiterrorismo, le gravi responsabilità dell'establishment nell'affare Enron. Non si tratta soltanto, anche qui, di opporsi alla linea "amerikana" del nostro governo; stabilire e sostenere, con gli alleati più sensibili, una specifica, e alternativa, politica europea su questo tema, significa anche aprire la via per un diverso rapporto con il terzo mondo, con i paesi poveri che si ribellano giustamente alla globalizzazione modello G8. Non è vero che Porto Alegre è stata monopolizzata da Bertinotti; chi c'era parla anzi di una sconfitta delle sue tesi davanti alla platea del Forum, e di conclusioni seriamente riformiste. Non sarà il caso, anche qui, di trovare in un più esplicito impegno per un ordine mondiale diverso uno "sfondo" niente affatto occasionale che contribuisca a ridare all'Ulivo quel respiro etico, quel pizzico di ideale utopico, che del resto è scritto nelle migliori tradizioni della sinistra?

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa18 febbraio 2002

Liberati e rovinati

Qualche dubbio sulle ricette della destra

MA adesso che il Tfr (la famosa liquidazione) ci sarà messo a disposizione perché lo possiamo liberamente investire in "previdenza integrativa", non rischieremo, molti di noi, di fare la fine degli impiegati della Enron, che sono stati turlupinati e derubati dei loro fondi pensione che credevano di aver investito in azioni arcisicure? La domanda non è tanto peregrina, anche se qualcuno (magari una nostrana società di revisione come la Andersen) ci spiegherà subito che il caso è del tutto diverso e che possiamo stare tranquilli. Tranquilli un cavolo, se intanto teniamo conto che il falso in bilancio è stato tempestivamente depenalizzato dal governo Berlusconi, e che dunque la nostra nuova avventura di investitori, azionisti, speculatori si apre sotto pessimi auspici. Ma questo caso del Tfr è solo il più preoccupante in un panorama di cambiamenti che sembrano annunciarsi se andranno avanti le tante liberalizzazioni che vengono ogni giorno promesse, o piuttosto minacciate. Per esempio: libera concorrenza tra compagnie telefoniche. Qualcuno dei lettori ha davvero chiaro che cosa gli conviene di più tra i tanti diversi tipi di contratti che vengono pubblicizzati? Certo, una ditta avrà dei consulenti e forse (se non sono come la Andersen) le consiglieranno le scelte migliori. Ma tutti noi tapini privati, che già per compilare la denuncia dei redditi, anche semplicissima, dobbiamo ricorrere al commercialista, come ce la caveremo? E pensare che qualche liberista convinto tempo fa aveva addirittura proposto che si abolisse la ritenuta d'acconto, lasciando al cittadino la libertà di denunciare a fine anno i propri redditi e di calcolare le imposte dovute. Ancora, e forse più grave di tutto: liberalizzazione dell'assistenza sanitaria; ognuno si sceglie il medico, chirurgo, mago, ospedale preferito, e poi la mutua rimborsa. Perché non prevedere anche che si vada in farmacia e a naso si scelgano, liberamente, i farmaci che ci sembrano più adatti? Paradossi ma non troppo; per dire che un aspetto inseparabile, e certo intollerabile, delle soluzioni liberiste estreme sono né più né meno che un ennesimo taglio di servizi pubblici. È un servizio pubblico anche fornire ai cittadini una consulenza che altrimenti finirebbero per doversi procurare a pagamento. Un punto dolente di questo tipo è la scuola. Davvero le famiglie sono in grado di scegliere a ragion veduta la scuola migliore per i loro figli? Non succederà che anche questa libertà si ritorcerà contro i cittadini così "liberati"? O, più semplicemente, molti si affideranno ad altre "agenzie" per operare le loro scelte . Non è un caso che i massimi sostenitori della libertà della scuola si trovino tra il clero: dove viene meno lo Stato, rientra la Chiesa. Che è già gravata da tante funzioni di supplenza, impostele dalle disfunzioni dello Stato (a quando un servizio postale di parrocchia?). Insomma, i liberisti ci pensino seriamente: le loro proposte di maggiore libertà potrebbero celare solo una inedita forma di "interruzione di pubblico servizio".

GIANNI VATTIMO

 

L'Unità21 febbraio 2002

Questa destra per niente gentile

Il livore e il sarcasmo con cui la destra - anche quella degli osservatori autorevoli dei giornali "indipendenti" - commenta la riunione convocata da Fassino per giovedi 22 in cui il segretario dei DS vuole ascoltare gli intellettuali italiani che si riconoscono nel (o semplicemente, anche con molte insoddisfazioni, votano per il) suo partito, si spiega probabilmente con una certa invidia.

Nonostante tutto, cioè nonostante la prospettiva di prebende e di posti di sottogoverno culturale che si apre con la nuova maggioranza, gran parte dell'intellighenzia italiana è sempre un terreno accidentato per la destra. Galli della Loggia e Panebianco restano, per esempio, una voce di minoranza nel gruppo del Mulino, che peraltro non si è mai segnalato per giacobinismo e estremismo. E quando Berlusconi dice che Rai e giornali gli sono ostili, certo non riflette una situazione di fatto, ormai ampiamente modificata a suo favore.

Ma esprime una sensazione fondamentalmente giusta, prende atto della scarsa disponibilità degli intellettuali italiani a farsi colonizzare da questa destra. Per un D'Alema che a Parigi mette in guardia contro il "moralismo" e il gauchismo che insidierebbero la sinistra del notro paese, ci sono decine di voci diverse, e culturalmente non meno autorevoli, che parlano molto più radicalmente a francamente contro il pericolo di nuovo fascismo rappresentato da Berlusconi e dai suoi soci. Dunque i commentatori moderati si rassegnino, e prendano atto che, per ora, la "transizione a destra" della cultura italiana riguarda una sparuta minoranza, e spesso figure non proprio di primo piano, per giunta non tutte probabilmente mosse da nobili motivazioni ideali.

Comunque sia, il numero e la qualità di coloro che hanno anunciato la loro partecipazione all'incontro del 22 dovrebbe almeno suscitare qualche riflessione invece che soltanto i cachinni delle penne di regime. Un riflessione che avrebbe dovuto già farsi sui docenti universitari di Firenze che hanno sfilato contro il governo, o sui magistrati che, in ogni procura d'Italia, hanno colto l'occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario per esprimere la loro opposizione alla politica giudiziaria di Berlusconi.

Tutte cose ispirate da fanatismo, nostalgie sessantottarde, snobismo radical chic? Sarà vero che gli intellettuali e la borghesia delle professioni, magistrati avvocati tecnici professori non hanno maggior titolo di qualunque altro cittadino a farsi sentire in politica; ma una stampa che li tratta come oggetto di scherno o al massimo di bonaria ironia rivela con cio' stesso che i loro timori di un incipiente fascismo non sono per niente infondati.

L'olio di ricino con cui i fascisti delle origini trattavano i loro oppositori - anch'essi non di rado intellettuali - è solo una variante un po' più violenta di questo stesso umoristico e ironico populismo. Gli oppositori non si discutono, si mandano - oggi solo metaforicamente, ma chissà, - a cagare. L'espressione è forte, ma speriamo che i nostri avversari cosi' ostili allo snobismo ce la consentano (come potrebbero sopportare Bossi, se no).

Poste queste chiare premesse, è ovvio che si potrebbe anche discutere un po' meno vagamente del senso dell'impegno degli intelletuali in politica, della loro esistenza o meno come categoria, dei loro diritti e doveri nei confronti di altre categorie di cittadini. Ma poiché l'argomento è sicuramente inesauribile nello spazio di un articolo, limitiamoci ad osservare che non stupisce il livore di questa destra (niente affatto Gentile) contro la figura degli intellettuali. In quanto non si identificano con specialisti o tecnici di questa o quella disciplina "ausiliaria", ma si occupano di tuttologia, di sistemi di valori, di visioni del mondo, essi sono funzionali a una società democratica,

contribuiscono a dare alla politica una sostanza che non si riduce solo alla discussione sui bilanci (e al mascheramento dei falsi in bilancio). Non hanno né arte né parte, non "servono", chiaccherano, vanno bene là dove non si sono ancora aboliti quei ludi cartacei che sono le campagne elettorali. Non è senza significato che chi ha sollevato il vespaio da cui è scaturita la riunione del 22 febbraio sia un uomo di spettacolo, un regsita di cinema, anzi un comico: non un premio Nobel per la chimica, non un grande tecnico o un economista. Almeno in questo, il popolo che i populisti fingono di rappresentare contro gli intellettuali snob dovrebbe vedere una ragione di compiacimento. Non staremo dalla stessa parte, noi tuttologi malvisti (e non tutti ben pagati) e voi operai, giovani non garantiti, pensionati al minimo, lavoratori socialmente utili minacciati di licenziamento? Il padrone, riconoscetelo, sta comunque dall'altra parte.

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa20 aprile 2002

Cosa c'è che non vaL'articolo 18 e l´anima profonda del paese

I sindacati facciano pure dei begli scioperi, ma il governo deve governare, anche se i suoi atti dispiacciono ai sindacati. Oppure: è vero che i sondaggi dicono che il 70 per cento degli intervistati preferisce un posto di lavoro anche difficile da trovare da cui però non si possa poi essere licenziati (se non per giusta causa, in virtù dell'articolo 18); ma una vera classe dirigente ha appunto il compito di far mutare questa idea (sbagliata, si suppone senz'altro) che domina ancora "l'anima profonda di un Paese sempre attaccato all'interesse particulare". Queste alcune delle tesi che, con notevole sintonia, sono state avanzate sulla Stampa negli ultimi giorni da esponenti della maggioranza e dell'opposizione. Com'è che l'anima profonda del Paese, qui solennemente evocata e stigmatizzata, continua a coltivare un'idea così irragionevole, infondata, smentita - si suppone - da tutti i dati disponibili? Com'è che tutti i maggiori sindacati concordano nel non credere che nuovi posti di lavoro (per quei benedetti giovani, così perseguitati dai loro padri di sinistra) si creeranno solo se si rende più facile licenziare chi un lavoro ce l'ha? L'anima profonda del Paese, e soprattutto la cervice dei nostri concittadini, deve essere ben dura e sclerotizzata per continuare a non capire; soprattutto, in una situazione in cui la "verità" le è predicata concordemente dalla grande maggioranza dei media, e persino da lezioni unitamente impartite da destra e da sinistra. Non ci sarà qualcosa che non va? Prima di tutto, a parte la mancanza di ammortizzatori sociali adeguati (che il governo promette di istituire; ma come e quando?), non saranno da tener in conto i dati presentati per esempio da Luciano Gallino in un recente libretto su I costi umani della flessibilità, dai quali emerge che il nesso tra licenziamenti più facili e creazione di nuovi posti di lavoro non è affatto provato? E, ancora più importante: non è così sicuro che il compito di una classe dirigente sia quello di agire contro "l'anima profonda" di un Paese, almeno quando si pretende di governare in nome di un mandato popolare (magari anche difendendo le prerogative del Parlamento dalle pressioni della "piazza"). Del resto, anima profonda o no, il Paese si è formalmente espresso, con un referendum di qualche anno fa, sulla proposta di abolizione dell'articolo 18 (sostenuta dai soliti

ineffabili radicali così pronti a digiunare per costringere il Parlamento a fare ciò che sembra non abbia voglia di fare). La proposta non fu approvata; probabilmente per la solita incapacità del popolo di capire il suo vero interesse. Ma se è così, perché insistiamo a lasciare che questo popolo vada ancora a votare?

GIANNI VATTIMO

 

L'Unità14 giugno 2002

L'insostenibile leggerezza di Blair

La domanda che mi gira in testa da qualche giorno - perché Berlusconi non è stato invitato al vertice "democratico" convocato da Tony Blair la scorsa settimana, vista la vicinanza (da lui costantemente rivendicata) delle sue posizioni con quelle del premier inglese - è forse troppo ingenua, o troppo radicale e provocatoria. Ma può essere tradotta in una più ragionevole: che rapporto c'è fra il "socialismo-non-più-socialismo" di Blair e colleghi e l'effettiva situazione del mondo in cui viviamo, e la storia delle forze politiche che dovrebbero confluire nella nuova "Internazionale democratica" a cui essi pensano?

La terza via di cui i leader del centro-sinistra occidentale, Blair e Clinton in testa, parlano, sembra per ora poco più che una Pratica di Mare colorata di rosa piuttosto che di azzurro, ma ha la stessa consistenza prevalentemente teatrale, aggravata dal fatto che in questo caso manca il potere. Il mondo è in guerra: in Afghanistan, in Medio Oriente, negli stessi Stati Uniti dove si impone sempre più la tendenza ad applicare anche ai cittadini americani (non parliamo dei desaparecidos di Guantanamo e dintorni) il codice militare, negando loro le più elementari garanzie costituzionali. Bush non cessa di ricordarci che la guerra ai terroristi c'è, che durerà a lungo, e che giustifica la riduzione delle libertà civili in tutto il mondo (sempre meno) democratico. L'altra faccia di questo stato di guerra permanente e di impoverimento progressivo della maggioranza dei Paesi del mondo - non solo la fame del Terzo mondo, ma anche le ristrutturazioni industriali del primo; a cui si accompagna la crescita del potere economico delle mafie, a cominciare da quella russa (continuiamo a trovare difficile che Putin, ex capo del KGB e ora amico per la pelle del nostro "prescritto" cavaliere, non ne sappia proprio nulla).

Ecco, questa è la situazione. Che cosa dice l'internazionale democratica blairiana-clintoniana di tutto ciò? La risposta che si percepisce chiaramente, in Italia ma forse non solo, è questa: meno "socialismo", meno rigidità sul welfare e sui diritti dei lavoratori, meno sospettosità nei confronti della ricchezza (altrui), meno attenzione all'uguaglianza e maggiore sforzo per "liberare" le energie della società (ovviamente da lacci e lacciuoli...). Per questo po' po' di progetto "democratico" dovremmo buttare a mare la tradizione socialista e il sogno del riscatto delle masse? (ma ci facciano il piacere, come direbbe Totò). Il risultato sarebbe solo quello di allontanare definitivamente dai nostri partiti "di sinistra" coloro che ancora credono nella politica come impegno etico e di emancipazione, tagliando ogni legame con un patrimonio di

valori, di fedeltà, di progettualità che, nella prospettiva di questa evanescente internazionale "rosa", diventerebbero (o sono ormai diventati) una inutile retorica zavorra.

GIANNI VATTIMO

L'Unità29 giugno 2002

Gli schiavi della porta accanto

Non si guarda all'affermazione del nuovo regime schiavistico che si sta instaurando,

ma al pericolo per la nostra identità culturale.

L'immigrazione dai paesi più poveri verso l'Europa non è una catastrofe ma una

trasformazione da regolare razionalmente

Leggendo i sempre più frequenti reportages sull'immigrazione clandestina che si è abbattuta da alcuni anni sull'Europa (penso per esempio a quello di un recentissimo numero dello Spiegel), ciò che impressiona più profondamente non è solo la testimonianza di miseria mondiale che emerge dai racconti di viaggi terribili conclusi spesso tragicamente: o dai numeri - numeri di coloro che tentano l'avventura del viaggio verso il "paradiso" occidentale, e cifre dei guadagni che gli smugglers, i contrabbandieri che li trasportano, guadagnano per il loro triste lavoro.

La cosa più impressionante è dover prendere atto che l'immigrazione clandestina sta ricostituendo il regime della schiavitù, nel senso più letterale e tradizionale del termine. Oggi una percentuale non piccola di esseri umani che circolano nelle nostre città, che lavorano nelle nostre fabbriche, o come domestici nelle nostre case, o come prostituti e prostitute nelle nostre strade, sono schiavi. In una condizione ancora peggiore di tanti altri - per esempio dei neri degli Stati Uniti prima di Lincoln - perché la loro condizione non è regolata da alcuna norma di diritto, per quanto disumana. L'assoluta clandestinità fa sì che essi siano trattati come pure e semplici cose, peggio ancora degli animali i cui diritti, sia pure lentamente, vengono sempre più riconosciuti, per esempio con leggi che vietano la vivisezione, il trasporto in condizioni di disagio, altre forme di crudeltà. Si può chiamare solo schiavitù la condizione di una ragazza albanese che, per pagare il prezzo del suo passaggio clandestino in Italia, rimane legata ai suoi sfruttatori per un tempo indefinito, spesso sotto la minaccia di ritorsioni contro la sua famiglia rimasta al paese d'origine nel caso che osi ribellarsi. E di vera e propria

vivisezione si tratta nei casi, ormai documentati, di vendita di organi di trapianto.

Le opinioni pubbliche dei paesi in cui l'immigrazione clandestina è più intensa - oggi sono soprattutto i paesi del Mediterraneo, ma sempre più sono esposti anche i paesi dell'Europa Centrale su cui si riversano gli immigranti dell'Est - tende a reagire a questa ondata di nuova barbarie pensando di difendere la propria identità culturale e il proprio livello di vita con una chiusura più o meno totale delle frontiere.

Si sviluppano così nuove forme di xenofobia e di vero e proprio razzismo, quando si credeva di averle definitivamente superate. Ciò che si guarda con orrore non è tanto, come si dovrebbe, l'affermazione di un nuovo regime schiavistico: quanto la pura e semplice presenza dell'altro, dello straniero, anche del povero in cerca di lavoro.

Le leggi che si stanno approvando o che già sono in vigore nei vari paesi europei hanno lo scopo di ridurre o addirittura eliminare del tutto, almeno immediatamente, l'immigrazione. Poiché però non ci riescono - come mostra l'analoga triste esperienza del proibizionismo in materia di droghe, che non ha fermato il traffico ma ha reso solo più cospicui i guadagni delle varie mafie - il risultato è che l'immigrazione continua e le condizioni degli immigrati diventano sempre più disumane.

L'Unione Europea, almeno nelle sue dichiarazioni di principio, è sicuramente consapevole che la chiusura assoluta delle frontiere non si può materialmente realizzare e comunque non converrebbe nemmeno alla nostra economia, che si giova ormai largamente di mano d'opera immigrata. Quando però si tratta di passare dai principi agli atti, pesano ancora sulla legislazione le molte differenze nazionali non superate, le lentezze "tecniche" di tutti i processi di integrazione, dalle quali traggono vantaggio tutti coloro che dall'immigrazione clandestina ricavano immensi guadagni: le mafie che trasportano gli schiavi e li usano per ogni sorta di attività illegali, ma anche le aziende che utilizzano il cosiddetto "lavoro nero" che costa meno e non prevede alcuna forma di oneri sociali.

L'ideologia che sorregge questa politica di chiusura, peraltro finta, delle frontiere agli immigrati insiste sull'idea di identità da salvare: persino la Chiesa Cattolica, per voce di alcuni suoi alti esponenti come il cardinale arcivescovo di Bologna, mette in guardia contro la "marea" musulmana che minaccia di sfigurare la nostra civiltà cristiana.

Contro simili aberrazioni culturali, bisogna cominciare a dire esplicitamente che sia le identità "nazionali" dei vari paesi europei, sia soprattutto l'identità dell'Europa, si sono costruite nei secoli superando altre identità "minori", consumandole e dissolvendole in orizzonti ibridi più vasti. E questo processo è avvenuto in connessione con movimenti di popoli, grandi ondate migratorie, vere e proprie invasioni. Anche, e lo sappiamo benissimo noi popoli sia latini sia anglosassoni, con grandi guerre. Oggi, come in tanti altri campi, la nostra civiltà sta realizzando ciò che, anche con gravi esagerazioni ed errori, aveva sognato Nietzsche: non lasciare più che il tipo "uomo" si modifichi per cause naturali accidentali, ma si trasformi in base a decisioni coscienti e ragionate. Dalla bioingegneria alla costruzione di un'Europa unita, siamo in condizione di non attendere che il futuro si determini da sé - per una qualche catastrofe naturale o per la volontà di conquista di un sovrano. Si tratta di processi che vogliamo accadano deliberatamente e democraticamente. Di qui l'estrema difficoltà, ma anche la straordinaria novità dell'impresa: l'Unione Europea, se riuscirà a realizzarsi completamente, sarà la prima entità "statale" della storia ad essersi costruita con trattative pacifiche e non con la conquista da parte di un sovrano o di uno stato.

Anche il grande movimento di immigrazione dei paesi più poveri verso l'Europa e l'Occidente non può più essere trattato come un catastrofico fenomeno naturale, a cui si possono opporre solo difese, chiusure, blocchi. Tanto più che anche le statistiche demografiche, e forse persino i campionati di calcio, mostrano una certa tendenza al declino di certi popoli rispetto a certi altri. Dobbiamo necessariamente immaginare

questi processi come una lotta per la sopravvivenza - della nostra identità contro le altre, della nostra razza contro i neri e i gialli; oppure possiamo cominciare a pensare di regolare nazionalmente questa, forse inevitabile, trasformazione? I mezzi pratici non mancano: alle trattative con i paesi di origine dei migranti, in modo da aiutare lo sviluppo di attività economiche locali che permettano a molti di rimanere a casa propria; a una accoglienza legale di quote di stranieri che trovino possibilità di abitazione, istruzione professionale, assimilazione alla cultura in cui si inseriscono, e anche ampie possibilità di continuare a praticare le loro tradizioni (moschee, per esempio). Ciò che manca, si dice spesso, è la "volontà politica" di mettere in atto questi mezzi pratici. E, in democrazia, la volontà politica è sinonimo di opinione pubblica, dunque di cultura. Qui, credo, c'è un importante impegno per gli intellettuali, persino per i filosofi.

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa12 luglio 2002

Sinistra, il "moderatismo" non

serveDai girotondi alle piazze: perché l'ala liberal

dei DS sta sbagliando linea politica

L'ostinazione della CGIL nel difendere l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori anche a costo di escludersi dalle ulteriori trattative sul cosiddetto "Patto per l'Italia" ha almeno una utilità innegabile, di cui non tiene conto chi, come Michele Salvati (La Repubblica del 10 luglio) e Franco Debenedetti (La Stampa del 9 luglio ), pensa che i Democratici di sinistra dovrebbero scegliere con più decisione la via della lotta parlamentare per perseguire una "vera" politica riformista, senza lasciarsi attrarre dalla via "sindacale" - scioperi parziali o generali, e perché no anche girotondi e altre manifestazioni "di piazza".

Ciò che si tratta di fare, secondo questi autorevoli esponenti della minoranza "liberal" dei DS autopromossi a portavoce della maggioranza di Pesaro, è piuttosto lavorare per preparare, in vista delle elezioni del 2006 (dicesi 2006), un verosimile programma alternativo a quelli del governo (magari cominciando con il restaurare il reato penale di falso in bilancio, la tassazione sulle grandi eredità, una legge seria sul conflitto di interessi...). E' con questo atteggiamento "costruttivo" che l'Ulivo (o quel che è) può sperare di vincere le prossime elezioni, non certo alimentando il conflitto sociale e ascoltando la protesta sindacale (solo del sindacato indebitamente "politicizzato", la CGIL). Alla base di questa indicazione liberal sta l'idea che, come ci hanno ripetuto a

sazietà, le elezioni si vincono al centro; che la sinistra "di governo" europea è quella di Blair, quella di Schroeder e non di Lafontaine, eccetera.

Che la sinistra italiana abbia perso le ultime elezioni perché non stava abbastanza al centro è una tesi non solo da dimostrare, ma contrastante con serie rilevazioni sociologiche e anche con il semplice buon senso, se si calcola che la causa principale della sconfitta è stata la mancanza di unità appunto della sinistra nell'Ulivo. Ma poi: come spiegano i nostri amici liberal la brillante affermazione dell'Ulivo nelle recenti elezioni amministrative? Non c'entrerà in qualche modo il nuovo clima politico creato dalla grande manifestazione del 23 marzo e dal il rinnovato vigore della opposizione "di piazza"? Nessuno vuole affidarsi solo alla piazza, ovviamente. Ma certo non si puo' accettare un atteggiamento che finisce per riasumersi in una "lasciateci lavorare in pace", noi parlamentari e pensosi riformisti.

Ottenere con la sola, o quasi, azione parlamentare leggi che rispettino i diritti dei lavoratori, i valori fondamentali della Costituzione (dalla libertà di informazione alla divisione dei poteri dello stato, dal diritto all'istruzione alla libertà di ricerca scientifica alla stessa libertà del mercato da monopoli e corruzione)? Ma come, con una maggioranza blindata come quella che già oggi svuota il Parlamento di ogni funzione? Sarà anche, questa deriva dell'istituzione parlamentare, una patologia diffusa e non solo italiana; ma qui è difficile non riconoscere che tale patologia sta diventando una malattia mortale. Che cosa ci si può davvero aspettare da un Parlamento che digerisce senza batter ciglio la legge sul conflitto di interessi, che si prepara ad approvare una legge di bilancio le cui "cartolarizzazioni" abilmente escogitate da Tremonti fanno ridere, oltre che scandalizzare, i nostri partner europei, che ha discusso della procreazione assistita con argomenti in cui non si sapeva se prevalese l'ignoranza,il bigottismo o la più sfrontata ipocrisia? Ahi, si dirà: ecco il rischio giacobino, l'ideologia che, stigmatizzando la limacciosità e scelleratezza della politica del lavoro governativa, arma la mano dei terroristi che sparano a Biagi.

Ora: a parte l'indecenza di una maggioranza governativa che pretende di dar lezione di linguaggio moderato alla sinistra, dopo aver parlato per anni di magistrati criminali meritevoli della galera, della Guardia di Finanza come di una "associazione a delinquere", di tricolore da buttare nel cesso ovviamente dopo essercisi puliti il didietro (si veda il gustoso, ma anche tristissimo, articolo di Enzo Costa su L'Unità del 10 luglio ), si vorrebbe comunque domandare che cosa si aspettano i liberal da questa loro lotta a livello esclusivamente parlamentare. Certo, essi ci rimprovereranno di metterci sulla strada dell'insurrezione armata. Ma tra l'ascoltare con un po' più di attenzione la voce dei cittadini che si mobilitano politicamente e predicare la lotta armata c'è ancora una bella differenza. Ignorarla serve solo a propagandare un moderatismo condannato alla sconfitta.

Ma che c'entra tutto questo con l'articolo 18? Non dovremmo rispettare la specificità del sindacato e l'autonomia dei partiti? E' difficile non vedere (ma c'è chi ci riesce!), che l'attacco all'articolo 18 è solo la punta di un iceberg, quello di cui fa parte la legge sul conflitto di interessi, la delegittimazione della magistratura, la distruzione della scuola pubblica e dell'università di stato (dunque anche accessibile a tutti, non dimentichiamolo), la tendenziale identificazione delle leggi dello stato con la morale cattolica ufficiale, la delega della politica sulla droga a comunità private modellate su quella di Muccioli e delle sue porcilaie. Soprattutto: davvero se, nel tempo libero dalle battaglie parlamentari perse in partenza, la sinistra si dedicasse pensosamente alla costruzione di un programma "davvero" riformista, moderato e rispettoso delle sacre leggi del mercato e dello sviluppo, avrebbe più probabilità di vincere le elezioni del 2006? Ci saranno davvero ancora elezioni? Certo che sì, visto che chi comanda sui media non ha nulla da temere (né in questo mondo né nell'altro, si direbbe parafrasando la saggezza di Socrate).

Ma di sicuro le probabilità della sinistra di vincerle saranno infinitamente minori di oggi.

Ecco perché, quale che sia la prudenza sindacale di Cofferati, ciò che la sinistra deve fare oggi non può essere altro che cercare di accelerare, anche con una democratica ma decisa "gestione" dei conflitti sociali che si stanno intensificando, la caduta di questo governo. Tutto il resto, purtroppo, rischia di essere pura chiacchera, questa sì di salotti liberal-chic.

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa24 dicembre 2001

Masse di negriI pericoli di un mondo globale senza politica

Forse, almeno a titolo profilattico, di precauzione, dovremmo davvero cominciare a dire e pensare che dopo l'11 settembre non è cambiato niente. Intanto, per non essere succubi di Bush, per il quale l'11 settembre è stato tanto catastrofico da giustificare una limitazione senza precedenti dei diritti civili in America; limitazione che, con maggiore o minore solerzia, è destinata via via a imporsi anche nei paesi europei. Ma soprattutto, dovremmo sospettare dell'uso che anche a sinistra sempre più spesso si fa del significato apocalittico dell'11 settembre per coltivare senza pudore uno dei vizi più antichi e più cari alle correnti di pensiero che si richiamano (fino a che punto legittimamente?) a Marx; cioè la tendenza appunto a pensare la storia solo in termini di apocalisse, di rovesciamento totale, che poi nel linguaggio quotidiano della politica diventa il "benaltrismo" che è sempre stato nemico del riformismo. Se nemico del riformismo, dunque molto probabilmente, per una elementare legge transitiva, amico della conservazione. Questo viene in mente leggendo il dialogo, pubblicato nell'ultimo numero (Almanacco di filosofia 2001) di Micromega, tra Toni Negri, Roberto Esposito, Salvatore Veca, e in particolare ciò che dice nel dialogo il primo dei tre interlocutori, invano contrastato, con argomenti più politicamente ragionevoli, dagli altri due. Secondo Negri, la globalizzazione toglie senso (se mai ce ne ha avuto; non dimentichiamo il Toni Negri degli anni Settanta) a qualunque forma di rappresentanza politica, insomma alle istituzioni liberali e democratiche come le abbiamo ereditate (anche per questo "obsolete e logore") dalla tradizione europea. Alla situazione radicalmente nuova venuta in luce piena con l'11 settembre si può reagire solo con l'invenzione di un pensiero e un lessico politico totalmente nuovi; che esigono "l'esodo dalla sinistra rappresentanza". Per Negri, non ha senso puntare "sulla ricostruzione del mondo attraverso le istituzioni esistenti"; si può contare solo "sulle moltitudini e sulla loro possibilità di costruire nuove istituzioni". Non vede il rischio che "un mondo totalmente spoliticizzato sia strutturalmente esposto alla violenza", con le "moltitudini" - titolari uniche dell'autentico spirito comunitario - che si affrontano e affrontano il potere senza alcuna mediazione istituzionale. Addio Max Weber, addio figura del capo carismatico concepita come un rischio per la libertà. Come gli hanno osservato Esposito e Veca, lo storicismo totale di Negri fa sì che la descrizione dei modi in cui di fatto sta andando la globalizzazione (a cominciare, si licet, dalla telecrazia italiana) diventi una accettazione euforica dei suoi meccanismi. Non sarà anche questo a spiegare l'entusiasmo con cui l'ultimo libro di Negri è stato accolto dai compassati signori di

Time?

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa11 dicembre 2001

Società della conoscenza o società del gioco?Nella sovrabbondanza ingestibile delle informazioni, un via d'uscita rischiosa

ma senza alternative

Società della conoscenza o società del gioco? Mi rendo conto del carattere, consapevolmente, provocatorio del titolo. Tuttavia ritengo che esprima bene la situazione delle nostre società avanzate in cui la quantità di informazione disponibile e utilizzabile per la produzione di cose e di servizi è ormai così sterminata da doversi necessariamente riferire alle macchine, alle memorie artificiali, come solo possibile "soggetto" capace di contenerla e di "dominarla". L'Unione Europea parla oggi di una "società della conoscenza" come orizzonte direttivo delle sue politiche comunitarie di istruzione, divulgazione, educazione degli adulti: anche e soprattutto con il proposito di vincere le sfide del mercato globale, che richiede una capacità diffusa di utilizzare i nuovi mezzi prodotti dalle tecnologie. Il che significa: quando parliamo di società della conoscenza parliamo in realtà di una società del sapere tecnologico diffuso e perciò più ricca di possibilità "produttive". Se si tengono presenti queste osservazioni, nasce per lo meno un dubbio circa il significato da attribuire al termine "società della conoscenza". Il conoscere è sempre stato nella nostra tradizione sinonimo della attività più degna e gratificante dell'uomo. Tuttavia almeno a partire da Kant la filosofia ha colto e teorizzato la differenza tra conoscere e pensare. A questa differenza si rifà evidentemente anche Heidegger quando pronuncia la scandalosa affermazione secondo cui "la scienza non pensa". In Kant il "noumeno", l'essere "pensato", è l'essere in sé del mondo del quale non possiamo sapere e conoscere nulla, giacché la nostra conoscenza, quella su cui si fonda il sapere, è limitata al fenomeno, a ciò che appare. Le attività superiori, se vogliamo chiamarle così, della ragione umana si esercitano tutte oltre il mondo del fenomeno, a cominciare dall'uso morale della ragione, che è caratterizzato da una capacità di iniziativa non determinata causalmente dalla catena dei fenomeni, per finire alla contemplazione estetica. Il nostro titolo si potrebbe forse riformulare, a questo punto, come: società della conoscenza o società del pensiero? Ma se poi

ci domandiamo un po' più specificamente che cosa caratterizzerebbe, in questa distinzione, il pensiero rispetto alla conoscenza, non tarderemmo a trovare ciò che ho proposto di indicare con la parola gioco, che richiama Kant, ma anche Gadamer. In questa accezione, gioco ci permette di cogliere almeno due importanti caratteristiche del pensare in quanto non riducibile al conoscere: la libertà e il coinvolgimento emotivo. Il pensiero come gioco non è certo slegato dall'attività conoscitiva; ma vi si lega in quanto è la condivisione, già sempre data con la nostra esistenza storica, di un orizzonte entro cui l'esperienza dei fenomeni e il conoscere scientifico ci diventano possibili. Un certo scandalo non può non sorgere quando si passi dalle (innocue?) considerazioni filosofiche su pensare e conoscere a un tentativo di trarre da esse conseguenze di tipo pratico, sociale e politico. Che cosa dovremmo insegnare a scuola? Il gioco al posto della dura disciplina dell'apprendimento di conoscenze che sono sempre più indispensabili alla nostra vita individuale e associata? Il fatto di cui tener conto è che con la conoscenza e la diffusione di essa accade un po' ciò che accade con il concetto di "sviluppo"; al quale sempre più spesso, oggi, si associa il termine "sostenibile". Chi cerca di tenersi "al corrente" si trova molto spesso in una condizione di saturazione; deve ricorrere a collaboratori o a "motori di ricerca" che gli forniscano una pre-selezione del materiale che alla fine cercherà di leggere direttamente. Fortunatamente (o sfortunatamente) il pubblico medio non legge e non ascolta tutto, o non si preoccupa affatto della completezza della propria informazione, ha altro da fare. E questo diventa anche un problema per il funzionamento della democrazia. Sempre più spesso, le decisioni pubbliche implicano saperi specialistici: se c'è un referendum sul problema degli impianti nucleari, per esempio, coloro che sono chiamati a votare hanno sufficienti conoscenza di fisica per poter decidere con cognizione di causa? Per sapere ciò di cui si tratta, gli elettori dovrebbero essere dei piccoli Leonardi da Vinci, e ovviamente non lo sono. Si può immaginare una società della conoscenza nella quale, come nel caso dello "sviluppo", si realizza progressivamente una condizione di "leonardismo" generalizzato? Ma se no, che cosa? Qui la distinzione tra pensare e conoscere si impone in tutta la sua possibile attualità, per una inderogabile ridefinizione del significato sociale della conoscenza. Non è un caso che la società in cui matura la crisi dell'ideale dello sviluppo quantitativo della conoscenza sia anche la società dell'informatica. Un fortunato libro di Hubert Dreyfus di qualche anno fa portava come titolo What computers can't do, ciò che i computer non sanno fare. Naturalmente, ci sono cose che i computer non sanno fare, ma dobbiamo ormai sempre più prestare attenzione a ciò che sanno fare, e servircene nel modo più efficace. Non si tratta solo, insomma, di rivendicare l'irriducibile carattere umano della vita della mente, ma di riconoscere e promuovere positivamente la possibilità di ridurre al non-umano una quantità di attività che in passato occupavano e appesantivano il lato propriamente umano della nostra vita. Una società della conoscenza è una società in cui, come nel caso delle buone abitudini che ci fanno fare il bene senza pensarci, la conoscenza è "disponibile", nelle reti, nel sistema delle memorie artificiali, e "funziona" anche se non c'è da nessuna parte un soggetto "assoluto" capace di possedere, nel modo della concezione classica del sapere, tutte le conoscenze. Preciso che non so bene, per ora, verso dove conduce la via che propongo di imboccare. So che comporta dei rischi, ma sono convinto (non posso dire che lo so, mi contraddirei) che non ci sono alternative. Promuovere una società della conoscenza come mondo in cui tutti sapranno domani decidere con cognizione di causa sui più svariati problemi della vita associata, che sempre più comportano il possesso di nozioni specialistiche, mi sembra una mistificazione ideologica che rivela solo l'incapacità di ripensare il concetto stesso di conoscenza. Già oggi succede sempre più spesso che quando si tratta di decisioni che implicano il possesso di simili nozioni, noi ci affidiamo a esperti che stimiamo e di cui abbiamo fiducia per un insieme di ragioni che non hanno direttamente da fare con la valutazione (di cui non saremmo capaci) della loro competenza specifica. È in riferimento a osservazioni come queste che diventa meno scandaloso parlare di una società del loisir e del gioco come sola possibile attuazione dell'ideale di una società della conoscenza. Tenendo presenti i tratti essenziali del concetto di gioco: quelli della "condivisione" e della spontaneità, dunque anche del coinvolgimento affettivo. In concreto, significa che nel nostro futuro c'è un sapere che nessuno individualmente sarà in grado di possedere; e cioè che in sempre più vasti settori della vita individuale e associata dovremo "affidarci" a qualcun altro. La forma socialmente più generale e visibile di un simile affidamento è in definitiva la democrazia politica. È vero che quando esercito il mio diritto di cittadino elettore scelgo tra programmi politici esplicitamente formulati; ma in essi non vado mai oltre un certo grado di conoscenza e di competenza. Qualcuno dirà che in tal modo si abdica alla libertà; ma si tratta appunto di prendere sul serio le trasformazioni - che proprio la scienza e la tecnologia hanno prodotto - del concetto stesso di conoscenza, di verità, di libertà. La democrazia e la libertà politica non si realizzeranno mai come competenza

scientifica universalmente diffusa, ma come possibilità per ciascuno di scegliersi gli "esperti" da cui vuol farsi guidare, e di sceglierli in base a una più complessa affinità che non è esagerato chiamare "esistenziale". Riconoscere questo significherà cedere totalmente a una democrazia dove il carisma dei "capi", per lo più costruiti dai media e con la forza degli slogan, soppianta totalmente il dibattito razionale? Siamo consapevoli del rischio; ma anche in società meno mediatizzate della nostra la purezza razionale del dibattito politico, là dove si dava, era profondamente condizionata da appartenenze, amicizie, "affidamenti"; forse tutto ciò era solo ideologicamente mascherato, come sapeva bene Marx. In democrazia ne siamo finalmente consapevoli, non solo negativamente in quanto siamo divenuti più scettici circa la possibilità di scegliere "razionalmente" la via vera; ma anche in quanto siamo sempre più perentoriamente chiamati a concepire e vivere l'esistenza sociale come esercizio di amicizia in cui consiste l'unica possibile essenza della stessa civiltà.

GIANNI VATTIMO

La Stampa25 settembre 2000

La democrazia debole

Ma ciò che mon. Sgreccia ("Una nuova democrazia contro il disimpegno", La Stampa 17 settembre) chiama proceduralismo non sarà semplicemente quello che si chiama democrazia? La democrazia è appunto una procedura per operare le scelte politiche mediante il consenso della maggioranza, e nel rispetto delle minoranze che, dal canto loro, debbono godere almeno della possibilità di diventare maggioranza. Anche la democrazia così intesa, ovviamente, richiede l'accettazione di alcuni valori sostanziali, che però non si distinguono dalla procedura: bisogna credere nella democrazia per applicarne le regole. La credenza nella democrazia può a sua volta motivarsi in modi diversi: la preferiamo perché è meno violenta, o perché crediamo nei diritti dell'uomo, o perché ci siamo abituati; addirittura, certe volte solo perché ci fa comodo: anche la Chiesa ha spesso lasciato correre sui regimi fascisti che rispettavano i suoi diritti, e ha tuonato contro quelli comunisti che li violavano. Anche nel caso della bioetica, in democrazia bisogna "rassegnarsi" ad ascoltare i cittadini interessati, senza la pretesa di disporre di una legge naturale che, all'occorrenza, potrebbe essere imposta anche contro la loro volontà, essendo il loro "vero" bene. Il "pensiero debole" della democrazia procedurale non è affatto una mancanza di fede nella capacità della ragione di operare scelte razionalmente motivate. Proprio perché crede nella ragione, i cui "portatori" sono le persone concrete, si preoccupa che ciascuno sia libero di far valere le proprie ragioni nel dialogo sociale, senza sottomettersi ad autorità "naturali" e assolute di nessun genere. L'etica cattolica, se è davvero rispettosa della libertà di coscienza, dovrebbe concordare su questo punto, e forse proprio così aiuterebbe la nostra società a essere meno "debole", meno divisa e incerta. Si prenda solo l'esempio dell'eutanasia: perché la società laica non dovrebbe accettare che chi non vuole esser tenuto in vita a tutti i costi quando non sia più in grado di avere una vita che considera degna di vivere, possa, con un testamento, chiedere anticipatamente che lo si aiuti a morire? Il suicidio può essere considerato un peccato, dai credenti di varie fedi, ma certo non un reato penale. Se poi si pensa a questioni come l'aborto, in cui certo almeno uno degli interessati, il nascituro, non può essere consultato, anche qui c'è

qualcuno che, per "natura", ha il diritto di dire l'ultima parola, la madre che lo porta in grembo. E poi: anche chi crede che la vita è un dono di Dio ha qualche buona ragione di pensare che, proprio in quanto dono, essa è affidata a lui e non ad autorità esterne alla sua libertà e alla sua coscienza. Si deve certo concordare con monsignor Sgreccia e con le molte voci cattoliche che invocano una società più consapevole di valori etici condivisi. Ma è troppo chiedere che proprio i cattolici, contro le ricorrenti tentazioni autoritarie, comincino a prendere più sul serio il valore, sia pur debole, della democrazia, e partecipino lealmente alla sua realizzazione?

GIANNI VATTIMO

 

L'Unità19 luglio 2002

Sinistra di governoSinistra del governo

Sembra che molte delle discussioni di questi ultimi tempi (tempi difficili, dopo l'infausto 13 maggio) sul destino, la vocazione, i compiti della sinistra si possano riassumere in una alternativa di preposizioni: la sinistra deve essere sinistra di governo o sinistra del governo? O meglio: non sarebbe saggio tener presente che per essere sinistra di governo non si deve essere necessariamente la sinistra del governo?

Naturalmente, come spesso i giochi di parole, anche questo ha un certo fascino espressivo ma rischia di semplificare troppo le cose. Però è vero che coloro che ci invitano a partecipare attivamente a "migliorare" le proposte governative su lavoro, sanità, opere pubbliche, sicurezza, immigrazione sembrano orientati a pensare che si può essere sinistra di governo solo accettando di diventare la (buona) coscienza di sinistra del governo. E hanno certo le loro ragioni, quelle stesse che hanno indotto Cisl e Uil a firmare il cosiddetto patto (scellerato, meglio ripeterlo sempre) per l'Italia.

Meglio cercare di ottenere qualche risultato "concreto" (ma lo sarà poi davvero? Si considerino i calcoli sulla disponibilità di fondi per gli ammortizzatori sociali e per altre iniziative "a favore dei lavoratori", che sono legati ai calcoli acrobatici e fantasiosi del ministro Tremonti..) che ostinarsi in una politica di rifiuto e di opposizione; la quale sembra unicamente capace di rafforzare un obsoleto sentimento di identità della sinistra, magari spingendola, come ha osservato Giorgio Napolitano su questo giornale, a rispolverare mitologie e ideologie morte e sepolte da cui non può derivare niente di buono.

C'è una via per essere sinistra di governo senza ridursi a rappresentare l'ala sinistra del governo? Mentre quest'ultima si può identificare grosso modo con la posizione collaborativa di Cisl e Uil, l'altra come si definirebbe? Per esempio, nella prospettiva dei più intelligenti fra i suoi sostenitori, mediante la capacità di elaborare e proporre un programma alternativo a quello della destra, tale da convincere gli elettori e prepararli a votare finalmente in modo diverso alla prossime elezioni politiche (2006). Ora, possiamo davvero considerarla una prospettiva verosimile? Domanda difficile, anzitutto perché la destra al governo in questo momento in Italia è tutto tranne che una "destra di governo", dotata di un programma politico chiaro che non sia solo la difesa

immediata degli interessi delle sue varie eterogenee componenti, a cominciare dal presidente del Consiglio e dai suoi famigli implicati nelle più varie forme di illegalità, talvolta già definitivamente riconosciuta come tale dai tribunali della Repubblica. Davanti alla situazione italiana, con un Parlamento in cui la destra dispone di una maggioranza blindata, di molto superiore al suo peso numerico nel Paese, e che usa del suo potere con una spregiudicatezza al limite della criminalità, ha senso ostinarsi (questa sì è ostinazione) a immaginare una situazione "normale", con la possibilità, sempre più solo teorica, di introdurre miglioramenti occasionali a questa o quella legge inaccettabile? La situazione italiana è certo particolarmente disastrata, quasi irrimediabile. Ma è un fatto che in molti altri Paesi il Parlamento, sebbene dotato di una fisionomia democraticamente più accettabile, tende a perdere potere di fronte allo straripare dell'esecutivo. Sempre più spesso, le leggi vengono costruite da comitati di esperti nominati dal governo (in Italia, i progetti di "riforma" della giustizia sono elaborati direttamente dagli avvocati di Berlusconi, a quanto se ne sa), e quando arrivano in Parlamento (anche qui, l'esempio italiano è solo un estremo negativo, non una pura e semplice eccezione) vengono votate da maggioranze compatte e poco sensibili a ogni proposta di modifica migliorativa. (Se volevano farci pentire di esser passati al sistema uninominale, questo è certamente il modo migliore. Continuiamo a crederci, ma senza doppio turno ci appare sempre più come una trappola in cui ci siamo abilmente cacciati..).

È persino fisiologico che in questa condizione di impotenza parlamentare conclamata, la sinistra passi il tempo a farsi del male, magari fingendo che questo sia un primo passo verso la costruzione dei suoi programmi alternativi, credibili, domani vincenti. Se si vuole evitare questo autolesionistico gioco al massacro, la sola via è quella di collegarsi più francamente e nettamente con le lotte sociali che si accendono sempre più nel Paese. È per questo che il rapporto con il sindacato e le rivendicazioni non solo del mondo del lavoro, ma dei tanti che vedono ridursi la qualità della loro vita (quando non è anche la durata, vista la politica sanitaria..) e le loro possibilità di progettare l'esistenza (senza un lavoro stabile, neanche una casa si trova), è decisivo per il destino della sinistra.

Non si tratta di illudersi che il capitalismo stia crollando sotto il peso delle sue contraddizioni (un'idea non del tutto peregrina, del resto); ma di cominciare a non credere più tanto ciecamente nella ineluttabilità di tutti i suoi aspetti, anche i peggiori.

GIANNI VATTIMO

 

La Rinascita19 luglio 2002

Liberalismo grottesco

"Quella di Silvio Berlusconi è una nave negriera"

Persino molti noi avevano finito per sospettare, se non convincersi, che fosse ora di non parlare più di antifascismo, peggio ancora di Resistenza - quella guerra civile il cui ricordo andava sterilizzato in celebrazioni formali, con un Venticinque aprile dedicato alla memoria di tutti i caduti nelle guerre per la libertà, del resto senza accentuare troppo neanche questo ultimo termine: caduti e basta, onore ai morti, per qualunque causa si siano battuti (tanto ormai morti sono e non possono più disturbarci...). Ebbene, un altro dei pochi meriti "dialettici", paradossali, del governo Berlusconi è stato quello di risuscitare il significato dell'antifascismo militante, un culto per i valori della Resistenza che, questo si' e non l'inno nazionale cantato dai nostri calciatori miliardari, corrisponde all'accorato richiamo di Ciampi per una ripresa del sentimento nazionale. Il quale è spirito di cittadinanza, dunque patriottismo costituzionale (cosi lo chiama Habermas), e non attaccamento a un qualche radicamento "naturale", peggio ancora etnico e, alla fine, razziale. Potremmo davvero pensare che il conflitto fascismo-antifascismo sia ormai inattuale nella società italiana, in una società nella quale, certo (per ora) senza olio di ricino e senza (troppi, privati) manganelli si sta restaurando l'essenza più vera e pericolosa del fascismo, il suo essere regime, e cioè un male ovvio e accettato, con cinismo, rassegnazione, disprezzo dei capi e della loro pretesa ideologia? Chi ha vissuto anche solo da bambino, o nei ricordi freschi dei suoi genitori, il clima del fascismo regime, anni Trenta fino alla guerra, risente fin troppo chiaramente nell'atmosfera dell'Italia berlusconiana queste caratteristiche tragico-grottesche. Persino il modo in cui i capi di stato degli altri paesi , nell'Unione Europea e fuori, considerano il nostro presidente del consiglio - le sue barzellette, le sue pacche sulle spalle, le imputazioni da cui si difende davanti a vari tribunali con trucchi da Pulcinella - somigliano molto alla considerazione del fascismo da parte dei politici liberali di quegli anni. Cio' che ha rovinato l'idillio tra gli italiani cinici e menefreghisti e Mussolini è stata l'alleanza con Hitler, la guerra dell'Asse. E - la storia si ripete come farsa, almeno finora - non è forse Berlusconi l'alleato più fedele, e intimamente partecipe, di Bush? Non riproduce nella sua politica tutti gli aspetti peggiori del modello americano, a cominciare dalla privatizzazione della salute e dela previdenza sociale? Naturalmente, con qualche sbavatura: va a depenalizzare (depenalizzarsi) il falso in bilancio proprio mentre Bush è costretto a tuonare contro questo tipo di corruzione che ha rovinato tanti azionisti e tanti lavorarori dipendenti che contavano sul loro fondo pensioni? E in questo clima dovremmo dar retta al "liberalismo" di Dell'Utri che pretende di imbarcare sulla nave negriera del Cavaliere Croce e Einaudi, Calogero e Salvemini? Ma andiamo...

GIANNI VATTIMO

 

L'Unità23 luglio 2002

Piazza parlamento partiti, piazza

Come forse - ma lo riconoscevo anch'io - ha poco senso ridurre il dibattito attuale della sinistra nella forbice "sinistra del governo o sinistra di governo", così non credo che le giuste osservazioni di Livia Turco su l'Unità di domenica configurino una vera opposizione tra i nostri punti di vista. Soprattutto perché, a differenza di altri esponenti del partito, Turco non pone in alternativa il movimento di piazza con l'azione parlamentare; non si tratta per lei di scegliere il lavoro "istituzionale" a preferenza del

"movimento" (girotondi, Palavobis, scioperi), che da parte di alcuni esponenti dell'ala liberal dei Ds sono stati indicati come capaci di alienarci le simpatie dell'elettorato moderato; con una inspiegabile cecità di fronte al fatto che nelle recenti elezioni locali, che hanno coinvolto circa un terzo dei cittadini, la netta affermazione delle forze uliviste anche in comuni e province in passato orientati a destra, è stata propiziata, e comunque non ostacolata, dalle manifestazioni "di piazza".

Dunque d'accordo sul punto centrale: la piazza da sola non basta, ci vuole una decisa azione a livello istituzionale, ed è giusto citare, come fa Turco, i successi recenti sul piano parlamentare (le dimissioni di Scajola, il ritiro dell'emendamento salva-Previti); da non sopravvalutare, tuttavia, posto che si è trattato anche di regolamenti di conti all'interno della maggioranza.

Comunque, benissimo. Forse ha meno senso ciò che dice Livia Turco sull'importanza di non fare della piazza e dei movimenti di protesta sociale un'occasione per abbandonare il progetto unitario dell'Ulivo a favore di una "politica di unità della sinistra". Una simile preoccupazione, temo, rispecchia una prevalente attenzione per i dibattiti di partito, e tra i partiti, più che per ciò che si muove di fatto, certo nella piazza. Il progetto unitario dell'Ulivo vive già nella manifestazioni unitarie in cui si confondono le bandiere rosse e quelle verdi.

La bellissima intervista di Rosy Bindi su l'Unità di domenica mi sembra soprattutto un sintomo di questo; anche se Rosy Bindi è una politica di lungo corso come Livia Turco, riflette però una posizione unitaria che non sembra preoccuparsi troppo dei rapporti tra segreterie, gruppi, piccole clientele, che hanno così spesso rovinato i progetti dell'Ulivo. Persino sui temi più delicati, come quelli della bioetica e delle politiche familiari, la base cattolica è molto più disponibile delle gerarchie ecclesiastiche ad accettare una politica rispettosa della libertà di coscienza. Un referendum sulle famiglie di fatto, per esempio, vincerebbe molto probabilmente anche presso i cattolici praticanti. Bindi, comunque, sembra giustamente cogliere il senso dell'unità del movimento attivo nelle piazze: anche e soprattutto come uno stimolo per i politici cattolici ad osare un po' di più, a non irrigidirsi in posizioni che rispecchiano il volere di una gerarchia ecclesiastica che poi, al momento buono, è disponibile a buttare a mare il destino della scuola (non solo di quella pubblica) per il piatto di lenticchie dei sussidi all'istruzione confessionale, e in genere a lasciare che i pluricondannati di Forza Italia si presentino come rappresentanti dei "valori cristiani".

L'attenzione attiva alla piazza, non che minacciare la possibilità di una unità dell'Ulivo, è oggi forse la sola scelta capace di preparare tale unità fuori dalla cerchia ristretta delle trattative, e dalle beghe, delle segreterie di partito. Sapremo non sciupare questa occasione?

GIANNI VATTIMO

 

L'Unità29 luglio 2002

Ho un sogno: una sinistra davvero

unita Sarà giusto il calcolo con cui Berlusconi, contando sulla forza (ulteriormente) addormentante della pausa estiva cerca di liquidare, poco prima delle ferie, i suoi problemi giudiziari con l'approvazione dei provvedimenti sulla giustizia? La tattica del governo in questi giorni è esemplare del modo in cui la maggioranza di destra pensa di gestire la politica. Un modo che sarebbe difficile non definire "di regime": normalizzazione, "lasciateci lavorare", basta con le divisioni, promesse generiche di riforme istituzionali "bipartisan". E, parallelamente, la stampa dipendente, cioè quasi tutta, che punta l'attenzione sulle divisioni interne della sinistra. Spesso, purtroppo, questa non è un'immagine troppo distorta della situazione. Solo che il senso che vi si può leggere è diverso da quello che il governo vorrebbe; non c'è un Paese unito dietro i suoi capi operosamente impegnati nelle grandi opere, né una piccola minoranza di scontenti che strumentalizza le difficoltà fisiologiche di un esecutivo ancora "nuovo" e che le volge a scopi di "regolamento di conti" interno. La maggioranza, del Parlamento e, per ora (riconosciamolo) dell'elettorato sta ormai adagiandosi in una condizione mentale di rassegnato cinismo: nessuno, o pochi, dubita che le accuse dei pubblici ministeri contro Previti, Berlusconi, Dell'Utri e compagnia prescrivendo, siano seriamente fondate. Nessuno, salvo le facce più bronzee dei famigli di Berlusconi assurti a cariche istituzionali, pensa davvero che la legge sul conflitto di interessi non sia quella ridicola presa in giro che tutta la stampa internazionale riconosce come tale. Semplicemente, aiutata dal coro mediatico addomesticato, si lascia andare a "pensare positivo": ci tolgono l'articolo 18, cerchiamo almeno di cavarne qualche piccolo impegno sostitutivo, chi vivrà vedrà.

Dunque, in molti sensi il calcolo berlusconiano può rivelarsi vincente. La sola cosa che può disturbarlo è l'inattesa vitalità di quella "minoranza" che sembra impegnata solo a distruggere in risse, ideologiche o personalistiche, le proprie chances di vincere. Ma chi ha seguito in queste settimane i dibattiti, spesso molto accesi, che si svolgono nelle feste dell'Unità e nelle altre manifestazioni di partito, ha ben chiaro in mente che le divisioni che vi si esprimono non dimenticano mai chi è l'avversario principale.

L'insistenza dei media governativi sulle risse e gli impulsi suicidi della sinistra testimonia solo che proprio l'unità di fondo che si manifesta, al di là di ogni altra cosa, in questi nostri dibattiti, è il vero pericolo temuto dalla destra al governo. La sinistra che si divide, si dilania, minaccia ogni giorno di scindersi - almeno nell'immagine che ne accreditano i media dipendenti - è in realtà l'espressione di una vitalità che costituisce la sola speranza di sopravvivenza della democrazia nel nostro paese. Una vitalità non solo politica, ma etica. La violenza di cui si lamenta così spesso la diffusione nelle nostre città è infatti solo il corrispettivo del cinismo politico, privo di qualunque ispirazione ideale, che la destra sta imponendo in tutta la vita italiana, un cinismo che è sostanzialmente lo stesso che ha garantito per tanti anni la sopravvivenza del fascismo. La nostra lotta per ritornare maggioranza, vista in questa luce, non è solo un compito politico, ma un impegno morale: che ha molto poco da fare con i sondaggi d'opinione, con la necessità di non perdere i voti dei moderati senza allontanare peraltro la sinistra radicale, con gli inviti a battere la destra sul suo terreno - dell'immagine, della propaganda parolaia, delle promesse irrealizzabili. Ci hanno così a lungo rintronati con la necessità di non cedere alla passione identitaria, di guardare le cose in modo pragmatico, che il solo parlare di un impegno etico, prima che politico, della sinistra rischia di apparire anche a noi - la carne è debole, la voce della propaganda è forte - un richiamo obsoleto. Eppure proprio di questo si tratta, se vogliamo che l'addormentamento su cui conta Berlusconi non riduca la nostra democrazia a un fantasma e a un sogno.

GIANNI VATTIMO

 

L'Espresso25 luglio 2002

Io preferisco il sublime

Non conosco nessuno che si sia innamorato delle "Demoiselles d'Avignon" di Picasso, che per esempio sia partito per la Francia del Sud spinto dal bisogno di incontrare gli "originali" di quelle ragazze. E ancora: ci sarà qualcuno che, giustamente consapevole della rivoluzione antifigurativa dell'arte novecentesca, si innamora, in un senso non totalmente metaforico, del dipinto come tale? Il discorso sulla bellezza nella massima parte della tradizione occidentale (e non solo, forse) si è sempre mosso alla luce della analogia, o addirittura identità, tra bello naturale e bello d'arte; per questo dell'arte si è parlato cosi' spesso come di una "imitazione della natura". Perciò, se è certamente provocatoriamente ingenua la prima domanda, non è lo stesso per la seconda. Il collezionista e l'amatore d'arte continuano a descrivere il proprio atteggiamento come un'ammirazione che ha molti tratti dell'innamoramento, a cominciare dal desiderio di possesso dell'opera, che è solo, almeno per loro, promessa e condizione di possibilità di una convivenza, di un "abitare" insieme che ispira anche il desiderio di chi si innamora o si sposa. Ma fino a che punto anche questo secondo, meno ingenuo, atteggiamento nei confronti della bellezza dell'arte vale ancora? Ci si puo' innamorare, anche solo in senso abbondantemente metaforico, della "Merda d'artista" di Manzoni o della "Fontaine" di Duchamp? Questi esempi, certo estremi (ma si puo' pensare anche alla striscie di Buren, o a tanti classici surrealisti o dadaisti, per restare sempre nel campo delle arti visive) mostrano soltanto quanto diverga oggi l'idea della bellezza artistica da quella "naturale". Al punto che ormai si parla di "belle arti" solo nelle denominazioni delle accademie o in certe formule stereotipate ("Bellettristik" è il titolo delle pagine letterarie nei periodici tedeschi, per esempio). Hegel sosteneva che la sola vera bellezza è quella delle opere d'arte, perché solo in esse si realizza, quando riescono, la perfetta compenetrazione di esterno e interno, di contenuto spirituale e forma visibile, in cui la bellezza appunto consiste. La nostra cultura sembra invece collocata ormai nell'atteggiamento opposto: la bellezza pende tutta dal lato della natura - giacché natura, sia pure spesso molto lavorata dalla cosmesi, sono le bellezze che ancora ci commuovono, da quelle dei paesaggi a quelle dei bei corpi di modelli e modelle al cui fascino si affida tanta pubblicità, e che uomini e donne si sforzano di "imitare" con arte, ginnastiche, diete, abiti griffati.

Significato di tutte queste trasformazioni del gusto? Fondamentalmente, e certo era il caso di Hegel, la diffidenza verso ciò che ci è dato senza nostra scelta libera; dunque anche una sana ribellione verso l'indiscutibilità della natura, e allora possibili implicazioni "democratiche" di tale rivolta. Già in un titolo come "Poveri ma belli" echeggia qualcosa del genere. I poveri che rivendicano anche la propria bellezza affermano solo la loro conformità ai canoni del gusto in vigore, oppure instaurano, consapevolmente o no, un canone diverso? Sicuramente, comunque, l'assenza di "bellezza" in tanta arte contemporanea è legata al sospetto, e al rifiuto, nei confronti di canoni che si sono rivelati troppo socialmente condizionati per non portare con sé anche quella che Adorno chiamava una apologia dell'esistente, e dunque una implicita scelta conservatrice e reazionaria. L'attuale rinascita del culto della bellezza in certe arti - penso a poeti come Giuseppe Conte e ai loro sodali teorici - appare da questo punto di vista come un aspetto del generale "revisionismo" naturalistico che spinge verso una filosofia più francamente realistica, un'arte piu' gradevole e "positiva", un'economia più rispettosa delle eterne leggi del mercato... Anche sotto questi aspetti, è un segno che stiamo ancora

precipitando dal sublime, come Kant chiamava cio' che turba ma ispira grandi pensieri, al bello - della moda, della pubblicità, della retorica sociale mediatica, che tende semplicemente a sistemarci confortevolmente nel mondo com'è.

GIANNI VATTIMO

La Stampa6 settembre 2002

Malati di fair playLa sinistra liberal e i "girotondi"

Si capiscono perfettamente le riserve della destra (Pera contro la "piazza"; Pisanu che promette una straordinaria vigilanza poliziesca) contro il girotondo programmato a Roma per il 14 settembre; si capiscono meno le ragioni avanzate dalla sinistra (?) liberal che mette in guardia contro il favore che con i girotondi si farebbe a Berlusconi e alla sua maggioranza, spaventando e allontanando dall'Ulivo quell'elettorato di centro che bisognerebbe invece conquistare. Intanto, se fosse vero che i girotondi fanno il gioco del governo e della destra, non si vede perché i media di osservanza berlusconiana, cioè quasi tutti, siano così unanimi nel condannarli, anche dando voce, con encomiabile fair play, alle voci che, da sinistra, li stigmatizzano. Queste voci, del resto, usano due tipi di argomenti: uno del tutto indistinguibile da quello di Forza Italia e soci, secondo il quale i girotondi sono solo gli eredi e i succubi di quell'irrigimento conservatore del sindacato che ha già condannato al fallimento, nella scorsa legislatura, il riformismo del centro-sinistra. Ma, se si lascia da parte questa più o meno inconscia identificazione con l'avversario, l'argomento più presentabile della cosiddetta sinistra liberal è quello (sostenuto anche dal sindaco Chiamparino alla Festa dell'Unità di Torino) secondo cui invece di promuovere i girotondi (ma anche lo sciopero generale?), la sinistra dovrebbe cercare di produrre programmi per conquistare il consenso di chi ha votato Berlusconi nel maggio scorso. Certo, ripetere con il concerto mediatico governativo che la colpa di tutti i nostri mali è la rigidità del sindacato, cioè che Cofferati è il vero avversario della sinistra, tanto più pericoloso perché si annida al suo interno (altro che l'innocente babau del Cavaliere), può essere un buon modo di conquistare il consenso degli elettori di destra, benché non si veda perché, a questo punto, essi dovrebbero scomodarsi a cambiare il loro voto. Ma la difesa della Costituzione dall'attentato della legge Cirami e dei provvedimenti già realizzati dal governo Berlusconi (depenalizzazione del falso in bilancio, legge sulle rogatorie, per dire solo i più calamorosi e scandalosi anche per i nostri partner europei conservatori) non è un programma politico sufficiente, soprattutto per una opposizione che in Parlamento si scontrra con una maggioranza blindata e decisa a digerire (Pera docet) qualunque mostruosità legislativa imposta dal suo signore e padrone? Davvero la difesa della legalità e dell'uguaglianza dei cittadini davanti alle legge è una parola d'ordine tesa a spostare a sinistra l'asse dell'Ulivo? O non si tratta proprio di valori che dovrebbero stare a cuore anche ai tanti cittadini onesti che hanno votato per la Casa delle cosiddette libertà? Se non si fa attenzione a questo, resta solo la demonizzazione di Cofferati come alternativa alla demonizzazione del cavaliere. E la sinistra, per quanto liberal, non dovrebbe avere dubbi sulla scelta.

GIANNI VATTIMO

 

L'Unità9 settembre 2002

Liberi spiriti di regime

Fingere che si viva in un Paese normale, o peggio crederlo (ma non si vuole esagerare nella sottovalutazione dell'intelligenza dell'avversario), quando il Paese normale non è, è sempre stato un modo di aiutare "oggettivamente" l'esistenza del regime. Certo, si può obiettare che così facendo si utilizzano positivamente gli spazi di libertà che, nonostante tutto, ancora ci sono. Sarà anche vero, ma dato appunto che ci sono ancora spazi di libertà, e - come ci si ricorda continuamente - non siamo ai manganelli (eccetto Genova e dintorni), all'olio di ricino, ai tribunali speciali (anzi: garantismo bresciano..), non sarebbe meglio utilizzarli?

Per evitare che si riducano ulteriormente, anche solo con il discredito delle istituzioni che un governo criminofilo e criminogeno come questo non può non produrre nei cittadini? Sono questi i pensieri che spesso, e da ultimo leggendo l'articolo di fondo del Corriere del 5 settembre, ci vengono in mente di fronte agli scritti di Angelo Panebianco. Una dissertazione che gronda pacatezza da tutti i capoversi, e che arriva persino - discutendo una intervista di Amato - a rimproverare ai liberisti che comandano oggi in Italia di non esserlo abbastanza, giacché in fondo non riescono a liquidare completamente i lacci e lacciuoli che, manco a dirlo, sono un retaggio del dirigismo cattocomunista della tradizione italiana. Panebianco, a onor del vero, non esorta il governo a liquidare ogni regola, giacché si sa che il mercato funziona solo se regole, appunto, ci sono. Dunque non è questa la ragione dell'irritazione che il suo articolo provoca. Piuttosto, il punto è che parlando di regole, e dell'incapacità che questo governo dimostra di distinguere quelle buone (per il mercato) da quelle dannose (come sopra), rimprovera ai fanatici dell'Unità e di altri giornali della sinistra di combattere una destra liberista che esiste solo nella loro immaginazione, mentre appunto ciò con cui abbiamo da fare è solo un liberismo imperfetto, ancora prigioniero di ubbie dirigiste. Tutto questo parlare di regole senza ricordare che il Parlamento è impegnato, anzi è stato costretto dalla maggioranza berlusconiana, a discutere una legge che proprio di alcune regole elementari di giustizia e di diritti costituzionali vuole "liberarsi", per lasciare in "libertà" alcuni imputati eccellenti che rischiano seriamente la galera - questo ci sembra lo scandaloso spirito di regime che si respira nel testo dell'accademico bolognese.

Sarà la nostra eccessiva familiarità con il brechtiano "parlare di alberi" che ci rende la "voce roca" (ancora Brecht!), e ci fa preferire l'invettiva? Ma come si fa a prendere sul serio, e magari a discutere con tono seminariale (in tutti i sensi della parola), uno che di fronte allo scempio delle istituzioni e al disastro dell'economia (almeno questa dovrebbe stargli a cuore) non trova di meglio che gingillarsi con i rischi di dirigismo che avvicinano pericolosamente Berlusconi a Cofferati, contro la pacatezza illuminata che egli ritiene (bontà sua) di condividere con Amato?

GIANNI VATTIMO

 

Micromega - "I girotondi delle libertà"3/2002

Democrazia formale e democrazia futura

Se c'è una novità significativa, nell'azione e nel dibattito della sinistra non solo italiana dell'ultimo anno, credo la si debba individuare nel venire in primo piano del rapporto tra istituzioni e opinione pubblica, o anche tra partiti e movimenti, o ancora: tra democrazia formale e democrazia sostanziale. Soprattutto se adottiamo quest'ultima formula per descrivere la situazione dobbiamo mettere sul conto una reazione di fastidio, di rigetto, persino di paura. Quasi che evocassimo un altro termine che ormai è diventato assolutamente tabù anche per la sinistra, quello di rivoluzione. Le cronache politiche dell'estate italiana sono piene di evocazioni negative di questo tema: Pera che parla al meeting di CL a Rimini agitando il minaccioso fantasma del "platonismo" politico (versione Popper) come sinonimo di fanatismo e violenza; la sinistra liberal che rimprovera ai girotondi di voler premere indebitamente sul Parlamento configurando in fondo una situazione eversiva; la destra che soffia sul fuoco insistendo sulla "improprietà" democratica di un sindacato che si rifiuta di ridursi alle semplici battaglie salariali (per giunta, ci si dice, oggi senza sbocco, vista la congiuntura economica). Sullo sfondo, manco a dirlo, la ricorrente minaccia del terrorismo - quello rosso interno e quello islamico internazionale.

Non è certo una novità la questione pura e semplice del rapporto per lo più conflittuale tra partiti e movimenti di base; lo sappiamo. Ma nuova è invece la forza con cui questo problema si pone molto al di là della realtà italiana. Basterebbe pensare alla conferenza di Johannesburg e al ritratto che essa dà della realtà mondiale, dove è difficile non vedere come le aspettative, i bisogni, i valori condivisi da grandi masse si scontrino con la realtà di istituzioni che sono sempre più incapaci di rappresentarli e di rispondervi. Dunque, se anche per ragioni ovvie ci soffermiamo sulla specifica situazione italiana, dobbiamo aver presente che essa è un aspetto della più ampia situazione dell'Occidente e del suo rapporto con il mondo "esterno", quello in cui Marcuse, forse indebitamente dimenticato, vedeva la sopravvivenza del proletariato apparentemente scomparso nella società industriali a capitalismo avanzato.

Sia che guardiamo in modo specifico, e più concreto, alla situazione italiana, sia che ci rivolgiamo alle dimensioni planetarie (non meno concrete, ma difficilmente trattabili..), non c'è da stare allegri; anzi, ci sono tanti motivi di sconforto e di vera e propria disperazione che risulta spiegabile la difficoltà che - almeno questa è un'esperienza personale che non credo affatto eccezionale - si prova quando ci si mette a riflettere e a scrivere su questi temi. Si incontrano infatti troppe idee che abbiamo paura di pensare, a cominciare dal sospetto che la democrazia parlamentare , che continuiamo a considerare un valore basilare, sia ormai destinata a scomparire. Chi, magari dopo aver vissuto per gran parte del tempo come cittadino privato pur interessato alla politica, o anche militante di base, si trova a frequentare più "professionalmente" i luoghi della politica, ha per lo più un unico problema: non perdere la fiducia nella democrazia e nei suoi meccanismi; che vissuti dall'interno si rivelano troppo lenti, defatiganti, e anche troppo aperti a corruzioni di ogni tipo, per essere anche solo minimamente forme di realizzazione della libertà.

Ancora una volta, è un'esperienza che hanno fatto tutti; come chi diventa un prelato di Santa Romana Chiesa e rimane scandalizzato da ciò che vi incontra. Sì, ma oggi in Italia la delusione per la democrazia ha ben altri e più intensi significati, che del resto corrispondono a ciò che devono vivere i cittadini americani nel regime Bush e i cittadini di molti altri paesi - soprattutto dei paesi dove la democrazia è meno radicata, o in realtà difficili come quella dell'America Latina.

Possiamo davvero ridurre a un fatto di psicologia individuale il sentimento, blandamente apocalittico, che ci pervade davanti alle prospettive della politica italiana e davanti alla situazione mondiale come ci è rappresentata dalla insolubilità dei problemi in discussione a Johannesburg? E' così che ci siamo comportati fino ad ora, e ci comportiamo ancora, quando consideriamo tentazioni qualunquiste quelle a cui cedono tanti nostri amici, di sinistra come e più di noi, che mettono da parte ogni impegno politico, persino quello minimo richiesto dall'andare a votare. A questo atteggiamento abbiamo sempre opposto l'ideale di una "sinistra di governo" che accetta di impegnarsi nelle condizioni concrete e di utilizzare i mezzi a disposizione per realizzare gli scopi in cui crede, anche a costo di rimandare di molto i risultati e di dover scendere a compromessi che preferirebbe evitare. Diciamo che oggi un numero sempre più grande di persone che hanno preferito questo atteggiamento costruttivo, realistico, e saldamente istituzionale, cominciano a sospettare di aver sbagliato. La questione del rapporto tra maggioranza di Pesaro e opposizione interna, nei DS, è tutta qui. Ed è qui anche il senso della strana posizione che sembra prevalere nell'Ulivo di fronte alla "piazza" e ai girotondi: partecipare e condividere, ma senza impegnarsi con una adesione formale. I girotondini sono certo ulivisti, ma non sfileranno con le bandiere dell'Ulivo il 14 settembre - a meno che di qui (fine agosto) ad allora qualcosa cambi. Sono "compagni che sbagliano", certo in modo meno pericoloso dei brigatisti, ma sempre politicamente sospetti e da non assecondare in alcun modo?

Si dice: se ci lasciamo (noi DS, o Ulivo) identificare troppo con i girotondi capiterà che: a) allontaniamo dalle file del nostro elettorato - più ampio certo del popolo dei girotondi - quella fascia di cittadini moderati che diffidano della piazza, e dunque addio possibilità di vincere le prossime elezioni del 2006; b) ci lasceremo andare a una deriva massimalista, buona per le frange estremiste tipo Rifondazione, ma fatalmente incapace di elaborare programmi di governo realizzabili e convincenti da proporre agli elettori con qualche speranza di affermazione; c) la mancanza di risultati - elettorali, alle scadenze fisiologiche; e economici, sindacali, legislativi - che potrebbero essere ottenuti con una politica più "collaborativa", di opposizione costruttiva, eroderà ulteriormente le nostre possibilità di tornare a governare in futuro.

E' in base a considerazioni, ragionevoli, come queste ultime, che sindacati come CISL e UIL hanno firmato il cosiddetto "Patto per l'Italia". Una decisione da cui derivano conseguenze che rispondono in un certo modo anche alle preoccupazioni espresse nei punti (a) e (b). In una prospettiva come questa, per esempio, l'opposizione dell'Ulivo deve esercitarsi in due sensi precisi: costruzione di un programma di governo credibile e capace di imporsi all'elettorato nel 2006; tallonamento della maggioranza di governo allo scopo di costringerla a realizzare quanto promesso o a riconoscere (e far toccare con mano ai cittadini) che i suoi programmi sono falliti o erano addirittura delle menzogne. In vista di scopi come questi, la piazza dei girotondi non serve, e anzi disturba, perché, soprattutto dal punto di vista della raggiungibilità di risultati immediati - sul piano salariale, o del miglioramento di certe leggi - una radicalizzazione dei rapporti tra opposizione e governo non può che costituire un ostacolo.

Se si aggiunge poi che i girotondi sono spesso "inquinati" dai no-global, la loro "pericolosità" per una sinistra (would be) "di governo" diventa ancora più evidente; nel generale clima (anti)terroristico che la potenza imperiale dell'Occidente impone a tutti i paesi alleati, la sinistra rischia infatti di lasciarsi identificare con il terzomondismo più radicale, destinato a sicura impopolarità presso l'elettorato italiano, ed europeo, in quanto minaccia direttamente abitudini di vita e standard di consumo a cui nessuno vuole rinunciare.

Tutte queste considerazioni, quelle che oppone la "sinistra di governo" alla crescente frangia dei nuovi oppositori radicali, sono estremamente ragionevoli; troppo, però, per valere in una situazione di democrazia anomala come quella in cui viviamo oggi in Italia (e non solo: vale il

discorso anche a livello mondiale, con l'impero americano senza più limiti esterni...). L'anomalia della democrazia italiana dell'era Berlusconi è fin troppo evidente; media quasi totalmente asserviti al governo, il cui capo ne è anche il proprietario; maggioranza parlamentare costituita da clientes del medesimo, disposti a sostenere anche le proposte di legge più liberticide in nome, quando va bene (ma quando), di una democrazia capace di governare, e dunque possibilmente non intralciata da alcuna opposizione. E via dicendo, con in più una generale impudenza nell'attacco alle garanzie costituzionali sottoposte alla logica del più spregiudicato spoils system. La democrazia pensata e praticata senza limiti come dittatura della maggioranza.

Possiamo contare che, con i mass media nella condizione di totale asservimento in cui si trovano, l'elettorato possa mai prendere atto che le promesse berlusconiane erano aria fritta, e dunque decidere di punirlo alle prossime elezioni? Possiamo mai pensare che, sempre in queste condizioni della informazione, la sinistra potrà elaborare e far conoscere agli elettori, fra quattro (diconsi quattro) anni, un programma di governo convincente capace di farsi valere contro quello di Forza Italia? Possiamo sperare che - come sarebbe anche giusto - l'appartenenza all'Unione Europea ci aiuti a limitare il degrado della democrazia italiana, magari imponendo limiti alla distruzione dello stato di diritto, della scuola e dell'università, della libertà e pluralità dell'informazione? A tutte e tre queste domande è difficile - se non impossibile - trovare qualcuno che risponda affermativamente. Anche i più accaniti liberal dell'Ulivo concordano, mi pare, nel definire gravemente anomala e pericolosa la condizione della democrazia in Italia.

Il fatto che la maggioranza - non così netta, peraltro - degli elettori abbia premiato Berlusconi piuttosto che la sinistra non è un argomento contro la tesi dell'anomalia, ne è anzi, diciamolo senza falsi pudori, il più grave sintomo: basti pensare alle elezioni siciliane con sessantuno seggi su sessantuno vinti da Forza Italia. La maggioranza attribuita a Berlusconi è un segno grave di decadimento morale del costume italiano. Smettiamola di pensare untuosamente che nel risultato elettorale del maggio 2001 ci sia una qualche "razionalità". Quando un paese vota a maggioranza per un politico con un carico di accuse, sospetti, processi per corruzione, come Berlusconi, è la moralità collettiva che si mostra gravemente intaccata. I nostri concittadini, sia pure in piccola maggioranza, mostrano di non parlare più la stessa lingua che credevamo di condividere con loro. Un moralista può riconoscere loro le attenuanti generiche: abbiamo lasciato che fossero rintronati dal linguaggio dei media berlusconiani per tanto tempo, il risultato non poteva che essere questo. Stiamo imprecando al destino cinico e baro? Stiamo snobisticamente considerando gli italiani come dei minus habentes, dei deficienti? Fate un po' voi; ciò che non possiamo negare è che ce ne sentiamo distanti non solo, come sempre, untuosamente ancora, si dice perché hanno programmi politici diversi dai nostri. Qui - e le ultime vicende parlamentari prima dell'estate lo confermano ampiamente - siamo di fronte anzitutto a una caduta di sensibilità etica. Nessuno dubita davvero che Berlusconi e i suoi siano colpevoli almeno di una parte notevole dei crimini di cui sono accusati, come conferma il loro sforzo di sottrarsi ad ogni costo ai processi; ma molti, i più, hanno deciso di non farci più caso, forse anche di prenderne esempio per tutti i loro rapporti con il potere pubblico e con i loro concittadini: ruba se puoi farla franca, magari anche pagandoti gli avvocati migliori proprio con il frutto delle tue ruberie.

Ma dunque: in questa condizione ha senso davvero proporre la prospettiva della vittoria elettorale nel 2006 come alternativa alla piazza, ai girotondi, all'inasprimento del conflitto sociale? Manifestare pessimismo circa la possibilità di sostituire "fisiologicamente" questo governo vincendo le elezioni politiche prossime significa senz'altro porsi in un atteggiamento eversivo - come ha suggerito Cossiga in una delle sue esternazioni: se davvero credessi la democrazia in pericolo, prenderei le armi - o prepararsi a una pura e semplice politica "di testimonianza", da anime belle che sopravvivono solo come appendici tollerate e utili del sistema, giacché contribuiscono - in cambio di qualche invito al Costanzo Show - a mantenere la minoranza divisa e inoffensiva?

Che la destra oggi al governo in Italia sia un fenomeno politicamente anomalo e tendenzialmente eversivo si può verificarlo se solo pensiamo all'ipotesi di una grande coalizione, a cui pure ci si è spesso avvicinati negli anni del predominio DC: compromesso storico, apertura a sinistra…Qualcuno può immaginare una ipotesi del genere con Berlusconi e

compagnia? Certo è una ipotesi del tutto astratta e fuori di ogni attualità: ma può servire per rendersi conto di quella vera e propria differenza antropologica, etica, che ci separa dall'Italia di Forza Italia. Solo effetto del bipolarismo che abbiamo realizzato con le riforme, incomplete e perciò perverse, del sistema elettorale? So bene che sottolineare l'ampiezza di questa distanza non può che rendere ancora più difficile ancora più difficile il compito di una riconquista della maggioranza. Ma mi pare molto più realistico che illudersi di compiacere almeno una parte dell'elettorato di Forza Italia al punto da convincerlo che è meglio votare per noi. Un tale sforzo non può che rovinare moralmente quel poco di sinistra che c'è ancora nel nostro paese, rendendola (ancora) meno credibile a chi a sinistra si colloca, e senza certo guadagnarle il consenso della destra. Il motto secondo cui le elezioni si vincono al centro, che ci si ripete spesso per raccomandare una politica moderata, e che ritiene di aver ragione perché è pur vero che i risultati elettorali sono decisi da un piccolo numero di voti che si spostano da una coalizione all'altra, è meno realista di quanto si pretenda. Per esserlo, dovrebbe avere il coraggio di predicare il ritorno alla proporzionale pura: rinascerebbero dei partiti di centro che, appoggiando questa o quell'ala dello schieramento, deciderebbero come in passato, le sorti dei governi. Nella struttura attuale, e senza il doppio turno, la preoccupazione di conquistare il centro non fa che sfigurare le coalizioni, favorendo quella in cui la politica e le idee contano meno. Nessuno degli elettori "centristi" di Berlusconi si è allontanato da Forza Italia perché questa si allea con gli ex fascisti o i nuovi razzisti della Lega. A sinistra, la sola idea di non escludere Rifondazione dall'Ulivo provoca terremoti e minacce di defezione, riapertura di dibattiti ideologici infiniti.

Stiamo solo accumulando, anche alla rifusa, ragioni per guardare con pessimismo al futuro elettorale della sinistra; e vorremmo che queste ragioni potessero venir smentite. Ma anche i liberal del nostro schieramento, ripetiamolo, hanno solo da opporre non una diversa valutazione; solo una sorta di reductio ad absurdum. Se no, ci dicono, che cosa? Dovremmo dar ragione a Cossiga? Abbracciare la lotta armata, o aspettare che essa, spontaneamente o magari aiutata da qualche servizio segreto, riprenda da sé? Davvero l'alternativa per una sinistra che non voglia essere stritolata dalle leggi liberticide di Berlusconi e dalla crescente indifferenza pubblica alla corruzione dilagante, è solo quella tra la politica "collaborativa" del patto per l'Italia e la testimonianza delle anime belle che non disturbano ma anzi forniscono alibi di democraticità a questo sistema? Non è possibile concepire una politica di sovversione democratica che prometta qualcosa più di questo? Torno a un termine che ho già evocato sopra, quello di rivoluzione. La sinistra l'ha usato fin troppo spesso nel passato, applicandolo a proposito a realtà come quella sovietica e quella cinese. Ma anche un liberale come Gobetti aveva il coraggio di parlare di rivoluzione. Implicandovi un alto grado di componenti morali, più che di violenza eversiva. Perché continuare a non voler vedere che la situazione che si è creata - ancora una volta, non solo in Italia; ma qui con tratti emblematici, per il peso che i soldi di Berlusconi hanno avuto e hanno nel determinarla - è una situazione anomala che non può essere trattata con la tranquillità istituzionale di chi crede ancora che il sistema funzioni e che i diritti delle minoranze siano rispettati? Il disegno di legge Cirami è solo un piccolo sintomo, certo, ma significativo: il Senato lo discute e approva - sotto la presidenza di un liberale! - in via di urgenza violando precisi articoli della costituzione, e chiaramente nell'interesse esclusivo di Berlusconi e dei suoi coimputati. Di che cosa abbiamo ancora bisogno per riconoscere che qui siamo di fronte a un vero e proprio golpe antidemocratico? Certo, non ci sono milizie fasciste per le strade, non si usa il manganello (tranne che a Genova e dintorni..).

Le armi di Cossiga, allora? Siamo non violenti, i più di noi, e quindi le escludiamo a priori. Ma anche chi non ne rifuggirebbe, come l'ex gladiatore Cossiga se pensasse che..., si rende conto che sarebbe una scelta insensata, capace solo di suscitare repressione più dura e sicura impopolarità. Insomma, la storia delle BR la conosciamo abbastanza per non ricaderci. Ma allora? Non è facile ideare e praticare in concreto la sovversione democratica che ci pare necessaria in questa situazione. Ostruzionismo a oltranza, Aventino, black out mediatico (quanti leader di sinistra andranno ancora a farsi "intervistare" da Vespa?), uso politico dello sciopero dovunque possibile, una cento mille piazze, indisciplina sociale diffusa, boicottaggio delle merci pubblicizzate dalle televisioni… La sola speranza di sopravvivenza di una democrazia decente, in Italia, è rendere impossibile la vita a questo governo fin da subito. Può essere un programma politico non privo di valore anche teorico, molto più, insomma, che una urgenza italiana imposta dalla tracotanza del regime berlusconiano. La questione di un "sovversivismo democratico" diventerà sempre più generale in società in cui la manipolazione

dell'opinione pubblica attraverso i media renderà fatalmente sospetta e sempre più vuotamente rituale il richiamo agli strumenti della democrazia formale. Guardate come già adesso le vestali di Forza Italia inorridiscono davanti ai girotondi, invocando il rispetto delle istituzioni. E' ben vero che sono loro a mettersele sotto i piedi, violando leggi specifiche (Berlusconi titolare di concessioni pubbliche non doveva essere nemmeno eleggibile al Parlamento, altro che diventare primo ministro) e norme costituzionali (l'urgenza concessa da Pera al disegno di legge Cirami!). Ma dirlo serve a poco, se è così difficile farlo sapere all'opinione pubblica degli elettori, subissati di menzogne diffuse senza vergogna dai media asserviti. Si può certo sempre contare sul fatto che, prima o poi, i cittadini si accorgano che Berlusconi mente risentendo direttamente sulla propria pelle le conseguenze negative della sua politica economica. Si può davvero contarci? Intanto, per carità di patria non possiamo non augurarci che gli effetti devastanti della politica governativa non si sentano così forti e tutti i una volta. E però, in secondo luogo, la forza dei media è tale da indurre anche un modo di autorappresentazione falso in coloro stessi che sono vittime di questa politica. Potevamo mai pensare che gli italiani avrebbero votato a maggioranza per il loro concittadino in assoluto più ricco? Possibile che lo abbiano sentito come un proprio adeguato rappresentante, come "uno di loro"? Se è andata così, dobbiamo sicuramente fare i conti anche con la capacità di falsificazione della stessa autorappresentazione collettiva. Anche questo è un segno di corruzione morale diffusa, su cui pesa in modo decisivo l'industria del loisir, la televisione, il consumismo diffuso.

Sappiamo bene che tra i contenuti caratteristici della democrazia formale c'è anche il rispetto dei diritti delle minoranze, e dunque che essa non consentirebbe la degenerazione autoritaria che temiamo, e le cui avvisaglie sono ben visibili nella situazione italiana. E sappiamo anche che le democrazie possono morire di suicidio, per i limiti che non possono non rispettare nel difendersi dai propri nemici. Ciò che possiamo solo chiamare sovversivismo democratico è una forma di lotta politica che utilizza tutti i possibili mezzi non violenti, non armati, per orientare in modo diverso l'azione del governo. Sarà scandaloso? E' lo stesso che uno sciopero della fame inteso a premere sulle istituzioni perché facciano qualcosa che da sé non farebbero. Pannella docet? Per quanto peso corporeo abbia perso, e per quanto rischio autentico abbia corso, la sua azione è stata troppo amichevolmente guardata, addirittura coccolata dall'opinione di regime, per valere come esempio. Ne è riprova il fatto che nessuna delle vestali delle istituzioni che tuonano contro i girotondi ha mai pensato di usare nei suoi confronti gli argomenti opposti alla "piazza". Non crediamo che sia per rispetto alla "nobiltà" dei suoi metodi non violenti. Se ascoltate qualche volta Radio radicale e le sue violente invettive contro tutto ciò che sa lontanamente di sinistra, capirete che in questo atteggiamento amichevole dei media di regime c'è ben altro che il rispetto.

Ma l'uso di metodi non violenti in vista di un rovesciamento delle politiche della maggioranza può andare ben al di là degli innocui digiuni pannelliani. Il boicottaggio, lo sciopero bianco, l'ostruzionismo, sono forme di azione che dobbiamo ancora imparare ad usare meglio; e che, se diventano tecniche di massa, possono davvero significare molto. Naturalmente non intendiamo rinunciare alla lotta parlamentare, allo sforzo di vincere le elezioni. Ma il futuro della democrazia, se ancora ne ha uno, passa attraverso una non ancora sperimentata composizione di questa azione politica istituzionale con la pressione "sovversiva" che, qui e ora, appare sempre più indispensabile proprio per garantire la sopravvivenza delle istituzioni.

GIANNI VATTIMO

La Stampa 11 settembre 2002

L'impero dentro di noiEgemonia culturale e consenso, i concetti chiave

del novecento nell'era del mercato globale

Nell'ultima intervista concessa, ormai anni fa, alla televisione italiana prima di rientrare in Italia a costituirsi, Toni Negri, allora rifugiato a Parigi, aveva sullo scaffale alle sue spalle, in bella evidenza, il libro (purtroppo postumo) di un filosofo franco-tedesco-americano, Reiner Schürmann, intitolato Des hégémonies brisées, Le egemonie spezzate. Lo avevo notato sia perché di Schürmann ero stato amico, sia perché mi sembrava un riferimento (credo non casuale) interessante per capire le posizioni di Negri, che ricordavo più dogmaticamente legate al marxismo, sia pure molto personalmente interpretato. L'immagine mi è tornata in mente leggendo il famosissimo Impero, il lavoro scritto da Negri insieme a un filosofo americano, Michael Hardt, che è stato universalmente acclamato (a partire dalle università statunitensi) come il manifesto della nuova contestazione (anti)globale. Anche se Schürmann è appena nominato in questo libro, non esito a pensare che la sua idea dell'epoca attuale come epoca dove tutte le egemonie sono cadute, con le varie metafisiche che le reggevano, sia uno degli elementi ispiratori del lavoro. L'impero di cui parlano Negri e Hardt è il mondo globalizzato dove le sovranità locali, nazionali, con tutto ciò che di istituzionale, e anche di liberale e democratico, portavano con sé, sono state ormai sostituite da un insieme di meccanismi integrati che rispondono solo alla impersonale, anche se rigidissima, legge del mercato. Di fronte a questo sistema sono ormai impotenti le autorità degli Stati nazionali, e di conseguenze i cittadini che, almeno negli Stati democratici, votano per governi del tutto privi di peso nei confronti del potere globale.

Tra Foucault e Toni Negri

L'uso del termine "impero" che fa da titolo al libro sottolinea proprio sia il carattere sovranazionale di questo potere, sia il suo presentarsi come ordine legittimato da una specie di diritto universale - appunto perché non sembra costruito nell'interesse di un qualche soggetto, o sovrano, determinato. Confluiscono in tale rappresentazione dell'impero anche molte delle analisi di Michel Foucault, che aveva parlato del potere moderno, e tardo moderno, come di una forza coercitiva diffusa capillarmente nella società, a cui tutti finiscono con il soggiacere perché in molti sensi vi consentono. Per esempio, e anzitutto, attraverso l'assoggettamento dell'immaginario collettivo ai modelli diffusi dal mercato mediatico, dalla pubblicità, da quella che già Adorno (altro autore di riferimento) aveva chiamato la "fantasmagoria della merce". Insomma, anche se le analisi di Negri e Hardt sono spesso inutilmente fumose, capiamo benissimo che qui si descrive solo la condizione della società contemporanea, indicata anche come post-fordista, nella quale, cioè, i proletari non sono più gli operai di fabbrica di cui parlava il marxismo, e che sono diventati una minoranza delle forze di lavoro; ma tutta la massa di gente che, quando lavora, assolve a mansioni difficilmente classificabili, secondo modelli variabili, flessibili, che per lo più non richiedono, e anzi non consentono nemmeno (data la loro flessibilità) l'acquisizione di un mestiere e di una identità di classe. Al potere capillare, ma anche impersonale, del mercato globale, corrisponde dunque una altrettanto anonima soggettività di persone che vivono immerse in un immaginario collettivo, fatto di conoscenze diffuse e di una affettività altrettanto condivisa e partecipata, che tende sempre più a coincidere con ciò che il potere globale le impone e richiede. Possiamo tradurre così: se l'autoritarismo moderno era ancora fondato sulla imposizione di una disciplina da parte di centri di potere determinati (lo Stato, il padrone ecc.), il potere dell'impero si identifica ormai totalmente con il sentimento e l'immaginario "spontaneo" di tutti. Abbiamo spesso osservato, in questa o quella situazione, la contraddizione dei giovani antiglobal che mangiano al MacDonald, portano scarpe magliette e jeans rigorosamente griffati, consumano la musica e il

cinema che vengono dall'America, che insomma contestano quel potere di cui di fatto sono i massimi sostenitori, quasi i prodotti. (E la maggioranza dei nostri concittadini non ha forse eletto a capo del governo l'imprenditore più ricco del paese, in fondo sentendolo come simile a sé, condividendone spontaneamente gli ideali e gli atteggiamenti, non immaginandolo nemmeno lontanamente come un "padrone"?).

La scelta di Togliatti

E l'egemonia? Il libro di Negri e Hardt, magari con il filo conduttore di Schürmann, si può capire meglio se lo si confronta con la nozione di egemonia. Che, come si sa, e come si può leggere nel bel libro di Giuseppe Bedeschi sul pensiero politico italiano del Novecento, è un concetto chiave di Gramsci. Nelle società complesse come quella italiana (di oggi, ma già della prima metà del secolo scorso) non si può immaginare di prendere il potere come Lenin in Russia, con un atto di forza. Bisogna invece costruire una cultura condivisa orientata in senso egualitario, insomma bisogna produrre consenso. Sulla base di questa nozione di Gramsci (che qui risulta inevitabilmente semplificata, e che gli avrebbe permesso anche, se fosse vissuto più a lungo, di spiegare il fallimento del regime sovietico a causa delle sue origini leniniste) si è fondata la scelta democratica dei comunisti italiani a partire da Togliatti. Il consenso e l'egemonia culturale si manifestano (anche) nelle scelte elettorali. La lotta politica è una lotta di culture, di visioni del mondo, che competono per farsi valere come l'orientamento prevalente di una certa società. Ma a proposito delle masse che, nel libro di Negri e Hardt, sono insieme i prodotti e i produttori dell'impero - in quanto ne condividono sempre più "spontaneamente" le regole - si può ancora parlare di egemonia, e addirittura di egemonia culturale? Per molti versi, sembrerebbe di sì; giacché il consenso qui non è prodotto da una qualche pressione esterna, l'adesione alle regole imperiali non è imposta da nessuna forza coercitiva. E al fondo dell'idea di egemonia, come fa notare bene Bedeschi, c'è sempre stato il sogno di una società organica, dove la volontà dei singoli si identificasse senza residui e senza sforzo con la volontà di tutti, come nell'immagine che i romantici avevano della città greca e della sua "bella eticità" senza conflitti. Una simile società doveva anche essere quella che, una volta realizzato il comunismo, avrebbe potuto fare a meno dello Stato. Per quanto in modo diverso, questo sogno di una società "etica" domina anche i tanti lamenti contemporanei sulla caduta dei "Valori": le difficoltà della nostra società deriverebbero dalla mancanza di valori spontaneamente condivisi e dallo sfrenarsi di tendenze anarchiche. Il paradosso e l'interesse dell'Impero di Negri e Hardt consiste nel fatto che, mentre da un lato essi prendono atto della caduta di tutte le egemonie, dal potere degli Stati al vigere delle varie culture, a favore di una globalizzazione della mentalità e persino degli affetti determinata dall'imporsi universale del mercato, continuano poi a immaginare la possibile emancipazione in base a un modello organico. Alla rivoluzione del proletariato industriale a cui pensava Marx, Negri-Hardt sostituiscono la rivolta delle "moltitudini", che essi comparano addirittura con il cristianesimo nascente che determinò, o contribuì potentemente a determinare, la fine dell'impero romano.

Marxismo dannunziano

La fiducia, che traspare anche da questa comparazione, nella forza "buona" delle moltitudini, accompagnata da una dura polemica contro tutte le forme di rappresentanza e in fondo contro ogni costruzione statuale, costituzionale, giuridicamente strutturata, è un segno evidente del fatto che la vecchia nostalgia per la bella eticità, per la società organica, per l'egemonia, non è affatto scomparsa nella visione politico-filosofica di Negri. Il problema che il libro pone è certo quello davanti a cui tutti ci troviamo: tentare la costruzione di una società libera anche nelle nuove condizioni della globalizzazione, che non è solo economica ma coinvolge profondamente la nostra mente e i nostri stessi affetti, desideri, sogni. L'analisi di questi aspetti radicali della globalizzazione è forse il contributo più originale di questo lavoro. Non ci aiuta, però, la costruzione (un po' astratta, un po' estetizzante: Guido Viale ha parlato in proposito di "marxismo dannunziano") di una nuova mitologia che, invece di prendere davvero atto della fine delle egemonie, va in cerca di nuove pericolose figure di redentori globali.

GIANNI VATTIMO

La Stampa 10 ottobre 2002

Lo straccio della sfidaPerché il gesto di un singolo può cambiare il

mondo?

Non sarà che anche il tramonto delle ideologie rivoluzionarie negli ultimi decenni, un tramonto di cui ci siamo spesso rallegrati perché destinato a togliere di mezzo utopie violente, lotte di classe o guerre di religione, è in fondo legato al clima facile dell'abbondanza, all'imporsi di una società in cui nessuno è più davvero espropriato di tutto, ma vive in una "infelicità senza desideri" (un titolo di Peter Handke), come un adolescente viziato che odia i genitori ma preferisce pur sempre la comodità della vita di famiglia? Ci siamo così spesso ripetuti che è felice una società che non ha bisogno di eroi, da aver dimenticato anche che forse non possiamo fare a meno di profeti.

I profeti però non parlano mai in nome proprio, sempre in nome di un altro, o di altri. In una pagina di Spirito dell'utopia (1918), Ernst Bloch, discutendo la figura di Don Chisciotte, si domanda quale sia la differenza tra il pazzo e il profeta rivoluzionario; e suggerisce che una tale differenza non si può stabilire con certezza a priori, ma solo sulla base della capacità che l'individuo "strano" ha di costruire intorno a sé una comunità di seguaci. Chi vuole vedere una qualche razionalità nella storia, deve credere in una qualche forma di provvidenza, o di "astuzia della ragione", come diceva Hegel: profeti e pazzi si distinguono solo in base alla riuscita (dunque ha ragione chi vince?), ma alla fine la razionalità della provvidenza conduce tutto verso il fine che, anche a loro insaputa, si propone; e che è l'inevitabile trionfo del bene. Perciò, benché non lo si possa mai dire a priori con certezza, il profeta parla davvero in nome della ragione, di Dio, del progresso, anche se non lo sa, o si crede predestinato esattamente come il pazzo.

Ma se si prescinde, come forse non si può non fare dopo Benjamin e dopo Nietzsche, da ogni fede provvidenzialistica, svelata come ideologia delle classi dominanti, allora la storia umana ci appare identificabile nella grande metafora che meglio di tutti ha proposto Chaplin nella scena di un suo film, dove il povero Charlot in fuga da qualche poliziotto raccatta uno straccio per strada e, quando lo solleva, si trova subito alla testa di un improvvisato corteo di dimostranti che lo acclamano come loro capo. I valori in cui ci riconosciamo non sono dedotti a priori da argomentazioni astratte, sono riconosciuti solo in opere, forme storiche, grandi personaggi, realizzazioni di qualche tipo, che fondano anche le regole in base a cui noi li giudichiamo. Non corrispondono a nessuna norma preesistente; vale qui ciò che Luigi Pareyson diceva dell'opera d'arte, che si costruisce seguendo una norma che essa stesa inventa.

Ritrovare il senso della sfida come positiva esperienza di vita sembra voler dire riconoscere coraggiosamente l'infondatezza della esistenza umana nel mondo, una infondatezza senza di cui non possiamo aspettarci nulla dal futuro, perché il senso di esso sarebbe solo nella conservazione neghittosa degli ordini esistenti; in una rassegnata infelicità senza desideri, appunto.

Già, desideri. Si è capaci di sfidare l'esistente, o anche di opporsi a tutti i costi agli altri, di iniziare una rivoluzione, solo se la passione ci sostiene e ci spinge. Ma c'è pur sempre una differenza tra la folla urlante dei tifosi che assaltano l'arbitro, senza bisogno di alcun profeta che li guidi, e Pier Paolo Pasolini che vive, pagandone grandi prezzi (come l'espulsione dal PCI negli anni Cinquanta), la sua diversità stigmatizzata di omosessuale. All'inizio è come Don Chisciotte; i molti che vivono la sua stessa condizione si sono adattati al "don't ask, don't tell" che valeva nell'Italia fascista (e che vale oggi, ufficialmente, nell'esercito americano). Vivi e lascia vivere, non bisogna turbare le certezze della maggioranza, la quale del resto ti tollererà se non pretendi ANCHE che ti riconosca un tuo buon diritto. Non solo l'omosessuale in rivolta deciso a conquistare piena cittadinanza; prima di tutto il rivoluzionario che vuole rovesciare l'ordine esistente si muove sotto la spinta di una passione; sia essa il patimento della miseria e dell'oppressione sociale, oppure la compassione per chi sta peggio di lui. Chi di noi non conosce un ricco borghese che si schiera a sinistra perché, faccio solo un esempio, è omosessuale e per questo si sente fuori dall'ordine esistente? O, d'altra parte, quanto agisce e ha agito (per esempio nella caduta delle società comuniste) il desiderio di liberare anche la propria sessualità e voglia di vivere dai tabù di una società che - Marcuse insegna, ancora - ha sempre accoppiato lo sfruttamento economico con la repressione sessuale? Ebbene, sia il borghese omosessuale e PERCIO' di sinistra, sia le masse del socialismo reale che si ribellano al familiarismo reazionario di Stalin e Breznev, hanno buone e serie ragioni per lottare contro l'ordine esistente, e meritano tutta la fiducia dei proletari in rivolta, i quali anche lottano in nome di una passione-patimento niente affatto più "rispettabile".

Ma, per tornare a Don Chisciotte e a Chaplin: davvero la sfida è e rimane una faccenda individuale, legata alla comunità al massimo per il fatto di costruirla dopo, come effetto "istituzionale" dell'iniziativa originaria? Ancora l'esempio di Pasolini: la forza con cui rivendicava il diritto alla propria diversità era profondamente nutrita dalla coscienza di rappresentare i dannati della terra: ebrei, proletari, emarginati, donne oppresse dalla società maschilista, immigrati senza il visto... Persino quel proverbiale individualista di Nietzsche alla fine si inventò la "grande politica", si mise a mandare messaggi ai potenti della terra per esercitare, attraverso di loro, un'influenza sui popoli. Non si può raccattare uno straccio per terra e sollevarlo senza correre il rischio di diventare un "eroe", con le relative responsabilità.. E chi fa questo gesto consapevolmente non lo fa mai solo in nome di una comunità a venire, ma anzitutto in nome di altri con cui si sente legato, e dai quali ritiene di essere legittimato. Con tutto il significato individualistico che va riconosciuto alla sfida, è forse su questo suo inevitabile aspetto comunitario, solidaristico, autenticamente profetico, che dobbiamo riflettere.

GIANNI VATTIMO

L'Unità16 ottobre 2002

Maggioranza, minoranza, lontananza

Ma i compagni della maggioranza del 65 per cento che ha approvato l'altro giorno la relazione Fassino ci possono spiegare perché ogni volta che alcuni di noi vanno in giro nelle sezioni periferiche del partito, nelle associazioni culturali che vi sono in qualche

modo collegate, nelle Feste dell'Unità dei mesi scorsi, non incontrano mai nessuno che sostenga appassionatamente le posizioni sagge e moderate che si sono riaffermate nella Direzione del 14 ottobre? Possibile che non solo il sottoscritto - spesso invitato non per parlare di politica (e magari hanno ragione) ma di tematiche culturali con solo qualche remoto risvolto politico - ma molti altri compagni che si sono fatti vedere ai Girotondi, a piazza San Giovanni (dove Fassino era presente, è vero), si sentono al massimo obiettare, molto di rado, che bisogna purtroppo adattarsi a una politica di compromesso, di saggezza, in fondo di soggezione mal tollerata al modello "liberal"? Davvero in tutti questi incontri parlano solo coloro che vogliono compiacere noi fanatici identitari, cripto-vetero-comunisti nostalgici di Stalin?

Io mi permetto di avere un altro sospetto. Negli incontri a cui penso, le persone che vedo non sono per lo più iscritte al partito. Non sono state consultate, ovviamente e a termini di statuto, prima del congresso di Pesaro, che ha plebiscitato ancora una volta D'Alema e ha dato la segreteria (ma forse con speranze diverse) a Fassino. Non dobbiamo davvero pensare a questa gente, visto che non è organizzata e tesserata? Sono davvero, costoro, le masse di moderati che, per iscriversi, e magari votarci, aspettano solo che noi ci schieriamo con Bush - benedetto o no dall'Onu dei cinque "grandi" - fingendo di credere che con le bombe su Saddam ci libereremo del terrorismo? Non ci si dirà, spero, che abbiamo perso le ultime elezioni perché non siamo stati abbastanza "liberal"! (Anzi, abbiamo recuperato qualche speranza con il voto amministrativo di primavera proprio dopo il Palavobvis e lo sciopero di marzo).

Adesso poi si sente dire che tutto dobbiamo proporci di ottenere tranne le elezioni anticipate. Ossia: dovremmo aiutare Berlusconi, Buttiglione e Bossi a non litigare perché altrimenti sarebbe peggio per noi? Allora, meglio anche rinunciare a ogni lotta contro l'infame legge Cirami, giacché se fallisse nel suo scopo di salvare Previti e il suo amico premier, alla elezioni anticipate si andrebbe comunque. O invece che cosa? Preparare un accordo con Fazio sotto la protezione di sant'Escrivà per costruire l'ennesimo governo ribaltonico-inciucesco?

La mia (settaria, fanatica) impressione è che (la maggioranza di) un partito che, nella situazione presente di sfascio, non solo della nostra economia e della nostre etica collettiva, ma anche del sistema di mercato in generale (Fiat docet) guarda con preocuppazione all'eventualità di elezioni anticipate è condannata da subito a essere sconfitta, presto (se elezioni saranno) o peggio alla scadenza elettorale del 2006, e prima del 2003 e 2004. Il partito ritiene di non poter affrontare la prova elettorale perché non ha ancora risolto la secolare questione del rapporto con la Margherita e gli altri partitini? Queste preoccupazioni esprimono paure tipiche di una classe dirigente che teme di doversi confrontare con ciò che sta fuori dalle stanze di partito e del suo confortante 65 per cento. Che Escrivà ci protegga!

GIANNI VATTIMO

 

La Stampa26 ottobre 2002

Sempre meno libertà

Serial killer a Washington, sequestro del pubblico di un teatro a Mosca, omicidi plurimi commessi da squilibrati in Italia; e poi lo stillicidio sanguinoso del terrorismo palestinese e della rappresaglia israeliana: un quadro decisamente spaventoso, che accresce la nostra insicurezza e l'ansia che accompagna ormai ogni momento della nostra vita. Primo pensiero, quando sentiamo che la polizia americana mette in atto le più sofisticate tecniche di ricerca per arrestare l'assassino: speriamo che ce la facciano, che riescano a fermarlo. Magari usando intercettazioni "illegali", controlli a tappeto, violazioni della privacy e altri marchingegni non autorizzati da alcun magistrato. Che cosa importa, purché siano efficaci. Lo stesso sentimento generale che abbiamo provato subito dopo l'11 settembre dell'anno scorso e il crollo delle torri di New York.

Secondo pensiero: se andiamo avanti così, che ne sarà della nostra libertà: di movimento, di comunicazioni private, di orientamento politico, religioso, etico. La sicurezza e la libertà da difendere impongono per l'appunto che si rinunci a parti non marginali di esse, accettando irruzioni di ogni tipo nella nostra vita privata e anche nella sfera dei diritti politici. Se però è così, comincia a farsi strada un sentimento misto di rassegnazione, pessimismo, che può facilmente degenerare nel cinismo o nella tentazione di tirarsi fuori da tutto, almeno nella misura che a ciascuno è consentita, secondo il suo mestiere, la condizione sociale, le sue capacità complessive di resistenza passiva. Addio al sogno ingenuo di un mondo in cui, come hanno sempre pensato i teorici del contratto sociale, fosse possibile cedere un po' di sovranità individuale in cambio di una garanzia che tutto il resto, la maggior parte, sarebbe stato assicurato. Usciamo dalla foresta primitiva solo per cadere nel mondo del Grande Fratello - non quello provinciale e scollacciato di Canale 5, ma quello di Orwell.

O il controllo totale delle dittature rosse, nere o brune; oppure quello dei difensori della democrazia che, fatalmente, devono adeguarsi, imponendoci più o meno (certo la differenza non è irrilevante) le stesse cose. Con l'integrazione sociale ed economica crescente, e con le nuove tecnologie della comunicazione, difficile non prevedere che le cose andranno fatalmente così. Almeno ai tempi del muro di Berlino - di cui certo non rimpiangiamo l'esistenza - la guerra era fredda, l'equilibrio del terrore reciproco reggeva. Dovremo arrivare ad augurarci che si affermi nel mondo un altro protagonista internazionale (Saddam? L'Islam politico?) capace di restaurare quell'equilibrio? Con l'egemonia incontrastata dell'impero americano, quel che ci aspetta, al di là delle intenzioni dello stesso imperatore, sembra essere proprio questo "stato universale omogeneo", come lo chiamava Alexandre Kojève. C'è ancora un futuro per la libertà? Domandarselo, anche senza troppe speranze, potrebbe essere l'unica forma di resistenza che ci rimane.

GIANNI VATTIMO

 

L'Espresso21 novembre 2002

Tutta colpa della paura diffusa

Negli Stati Uniti assistiamo a un ripiegamento culturale. Che cancella il mito della frontiera

Certo il romanticismo è stato anche un fenomeno di affermazione dell'identità, ma più di quella delle comunità, soprattutto nazionali e linguistiche, che dell'identità individuale. Se Bush riscopre e valorizza questo tipo di identità collettive, lo farà per una improvvisa vocazione "romantica"? Una tale vocazione è talmente fuori tempo e fuori luogo che non si può non sospettarvi una ciurmeria ideologica. Intanto, il romanticismo delle identità nazionali è poco americano, almeno a prender sul serio le tante teorie del melting pot come tratto caratteristico della storia statunitense. E il west, i pionieri che si conquistavano le praterie nono solo contro gli indiani, ma anche contro altri apolidi decisi a costruirsi là una nuova vita a prescindere dalla proprie appartenenze nazionali d'origine?

A dispetto di questi elementi fortemente moderni della tradizione americana, Bush sembra orientato a offrire una visione della storia di tipo leghista. Arriverà fino al "sangue e suolo" di hitleriana memoria? (Sentiamo già gli stepiti del partito "amerikano", lo sdegno degli "autoconvocati" di Piazza del Popolo). Eppure, quanto più si riduce lo spazio per il patriottismo costituzionale, cioè per l'orgoglio americano di fungere da custode della democrazia e della libertà in tutto il mondo, tanto più il governo Usa dovrà ricorrere al nazionalismo "romantico".

Ora che anche molti cittadini statunitensi cominciano a rendersi conto che il loro presidente non è un crociato della civiltà liberale, un paladino dei diritti umani - li ha ormai buttati nel mare di Guantanamo, o sacrificati a una sempre più occhiuta sorveglianza non solo all'estero, ma anche all'interno, li ha sospesi istituendo un vero e proprio ministero della propaganda e della disinformazione - il solo elemento unificante su cui può contare Bush è una fierezza nazionale fondata sull'esaltazione dell'identità nel senso più nazionalistico e biologico. Il significato dell'allarme, se è tale come speriamo, circa il "romanticismo" di Bush, sta tutto qui: nel dover prendere atto che, certo non solo per colpa del presidente, ma anche per colpa dei terroristi che gli hanno fornito le più ampie giustificazioni alla ripresa del nazionalismo, gli Stati Uniti sono in una fase di ripiegamento culturale che li riduce a rifugiarsi in mitologie che l'Europa ha fortunatamente consumato quasi del tutto, ormai da almeno mezzo secolo.

Più che la difesa di interessi che si devono mascherare con menzogne ideologiche, qui gioca pesantemente la paura che attanaglia molta parte della società americana, aggredita (per la prima volta) sul proprio territorio da nemici che non riesce nemmeno a identificare e dai quali dunque fatica a difendersi. E' la paura diffusa che rende di nuovo presentabili i miti nazionalistici, anche nella patria di Jefferson. Altro che chiusura della mente americana, come l'aveva chiamata - pensando però ad altri fenomeni - l'arguto (e conservatore rispettabile) Allan Bloom. Non solo ripiegamento su miti obsoleti; anche legittimazione di comunitarismi pericolosi per la stessa unità della federazione. Gli auto-segregati di Waco, Una Bomber e fenomeni simili sono solo piccoli esempi di dove può condurre il delirio identitario. A limiti ai quali Bush non ha certo pensato, ma che potrebbero rivoltarglisi contro, in un paese dove ci sono più armi da fuoco in possesso di privati di quanti siano i cittadini.

GIANNI VATTIMO

La Stampa23 novembre 2002

La filosofia al tempo no globalA Vattimo il premio Hannah Arendt per il pensiero politico. Ecco

una parte della sua "lectio"

L'idea di una globalizzazione politica che sappia fare da contrappeso a quella economica delle multinazionali ha qualche speranza di funzionare? Qui si presentano almeno due risposte che vale la pena di discutere. Per comodità le indicherò come la risposta populista e la risposta federalista. La prima, che riprende e esprime molti dei motivi di rivolta presenti nell'anarchismo populista e nell'indisciplina sociale diffusa, si muove ancora nell'orizzonte dell'eredità marxista e della sua idea di una rivoluzione del proletariato mondiale capace di instaurare un nuovo ordine giusto e umano. È stata da ultimo formulata, in termini aggiornati, da Toni Negri e Michael Hardt nel libro Impero, che arriva addirittura a identificare, almeno in una certa misura, il populismo antiglobal dei nostri giorni con il cristianesimo delle origini; come i cristiani furono il fattore decisivo nel dare il colpo di grazia all'impero romano già in via di dissoluzione, così oggi le moltitudini dei diseredati dalla ristrutturazione globale dell'economia mondiale finiranno per condurre alla rovina l'impero americano. La teoria di Negri e Hardt non si pone naturalmente il problema del dopo - giacché è proprio dopo la caduta dell'impero romano che si è costruito l'ordine mondiale poi sboccato nella situazione attuale. Sembra che, del resto con qualche ragione, Negri e Hardt pensino la storia nei termini della Critica della ragione dialettica di Sartre: momenti di autenticità - le rivoluzioni e le nuove società che esse fondano - seguiti dalla fatale ricaduta nella serialità, burocraticità, dominio del "pratico inerte". Una visione che ha il suo fascino (largamente sentito dalla sinistra intellettuale americana),e che però o si decide per un esito religioso (la salvezza sta comunque in un al di là della storia) oppure per una sorta di estetismo esistenziale (un critico italiano di Negri ha fatto il nome di D'Annunzio). Certo per le stesse ragioni - rifiuto di costruire una filosofia della storia universale - Negri e Hardt non affrontano nemmeno il problema dell'ordine politico che dovrebbe succedere alla rivoluzione delle moltitudini; quasi volessero allontanare il più possibile il momento della ricaduta nel "pratico-inerte" e prolungare al massimo l'esperienza di autenticità del "gruppo in fusione".

Eppure la costruzione di un ordine politico che non risusciti la rivolta delle moltitudini - così chiamano gli autori di Impero il proletariato mondiale non più caratterizzato dall'omogeneità di classe dei lavoratori di Marx - si troverebbe a dover risolvere tutte le questioni che hanno bloccato sul nascere le varie utopie della democrazia diretta, e che in fondo sono alla base di quella ricaduta nel pratico-inerte che Sartre riteneva inevitabile. Senza una risposta a tali questioni, Negri e Hardt sembrano approdare a una ennesima teoria della "rivoluzione permanente" che non per nulla suscita l'interesse e il consenso della sinistra intellettuale, la quale - in America ma anche altrove - vi può trovare una sorta di legittimazione della propria "pratica teorica", delle sue tante "decostruzioni" puramente testuali attuate sulle riviste e nelle biblioteche. Una analoga mancanza di progetti politico-istituzionali si può trovare nelle opere di Hannah Arendt, più preoccupata di criticare il degrado moderno della politica che di delineare forme di stato che sfuggano a tale critica. Tuttavia, la filosofia politica arendtiana contiene almeno qualche spunto che può aiutare a caratterizzare l'altra possibile risposta alla domanda sull'ordine politico che si dovrebbe costruire in alternativa alla globalizzazione delle multinazionali e alla guerra di Bush. Si tratta della sua preferenza, più o meno esplicita, per una polis non sovradimensionata, che possiamo tradurre in una preferenza federalista. Alla globalizzazione dominata dall'economia che si fa, immediatamente, ordine (abusivamente) politico, non si rimedia con la costruzione d'un parallelo ordine politico globale. Del resto, qui Hannah Arendt incontra le legittime preoccupazioni di tanta sinistra critica del Novecento, a

cominciare dagli esponenti della Scuola di Francoforte, Adorno soprattutto, che hanno teorizzato una sorta di vocazione inevitabilmente totalitaria della tecnologia moderna. E' vero che il pessimismo di Adorno - fondato soprattutto sulla considerazione del potere illimitato dei mass media - può essere stato smentito dall'uso interattivo che molti dei media da lui "demonizzati" hanno finito per avere anche in vista della liberazione di minoranze sociali prima senza voce; ma noi ci rendiamo conto che tale pessimismo è oggi motivato dalle dimensioni che uno stato "globalizzato" dovrebbe necessariamente prendere per fare da contrappeso politico alla globalità dell'economia (e del crimine organizzato).

E' possibile, in altre parole, una politica globalizzata che non perda fatalmente i tratti della politica autentica - distinta dall'economia e non ridotta a funzione della sopravvivenza? Naturalmente, qui ci si pone subito una domanda circa la validità della concezione arendtiana della politica; che appare troppo letteralmente modellata sulla sua idealizzazione della pòlis greca per poter essere trasposta senz'altro nella nostra situazione. Per poter utilizzare questi concetti della Arendt, noi dobbiamo probabilmente spogliarli di una certa retorica legata alla nozione di onore contrapposta ai valori della sopravvivenza, mantenendo però l'esigenza e il principio della distinzione tra sfera del sociale, o della società civile hegeliana, e sfera della politica. Che è anche l'esigenza che si manifesta nella teoria dell'agire comunicativo di Habermas, là dove egli si preoccupa di evitare la "colonizzazione" della sfera della comunicazione sociale complessiva - la Lebenswelt - da parte dell'agire strategico che tocca alle scienze positive e alla tecniche, compresa tutta la sfera dell'economia. La tematica del riconoscimento come esigenza che trascende i problemi della sopravvivenza - e che diventa sempre più evidente nelle società avanzate che, bene o male, hanno fornito una qualche soluzione a questi ultimi, ma che tuttavia sono ancora luoghi di intenso disagio e di vera e propria alienazione - si può facilmente leggere alla luce anche della concezione arendtiana della politica. La quale, dunque, al di là della condivisione della sua ammirazione per la polis greca (popolata di una maggioranza di schiavi, che Nietzsche, come si sa, considerava necessari; ma la Arendt?), suona affermazione di una separazione "etica" della politica dalla sfera degli interessi, separazione che non è un mero imperativo morale astratto, se è vero che la questione del riconoscimento, anche se non ha da fare con le possibilità immediate di sopravvivenza, resta decisiva per la qualità della nostra esistenza nel mondo.

GIANNI VATTIMO

L'Unità29 novembre 2002

La politica delle apparenze

Cresce, nella società dell'informazione (cosiddetta) in cui viviamo, la sensazione di essere continuamente presi in giro: se non proprio manovrati come burattini, certo spinti in una direzione o nell'altra dall'agitarsi incontrollato (da noi) di panni variopinti che orientano la nostra attenzione su questa o quella questione, che a un secondo sguardo ci appaiono, o ci appariranno presto, come secondarie rispetto ad altre che ci erano state nascoste. E' una sensazione che ci è stata provocata in modo fin troppo scoperto (tanto da non funzionare nemmeno come un inganno) nel caso di Berlusconi "clemente" verso Sofri.

Con il primo impegnato a promettere al secondo una grazia che non gli darà (non può e non la chiede); mentre aveva appena condotto a buon (per lui) fine la legge Cirami, che infatti è stata immediatamente applicata per sospendere il processo di Milano. Ma non sapremmo nemmeno dire se, rendendoci conto di questo gioco, non siamo ancora ingannati da altri schermi. Così, la questione giustizia su cui i giornali di regime imbastiscono la favola di un "disgelo" che non c'è (come giustamente ha osservato Violante sull'Unità), viene agitata anche e soprattutto per far dimenticare la conclusione del processo Andreotti, rivoltando la sentenza contro quella magistratura che rimane lo spauracchio principale di questa maggioranza. E la devoluzione, con le sue nebulose modifiche costituzionali per ammansire la Lega (come dice Cacciari), non sarà l'ennesimo gioco di specchi per attirarci in conflitti senza costrutto? Domina su molte delle discussioni politiche considerate "calde" una generale aria di distrazione dall'essenziale - che non sappiamo indicare con nome e cognome, ma che non cessa di farsi presente nella forma di questo sospetto diffuso.

Per esempio: l'Italia è sotto metri di acqua in varie regioni, ma solo qualche isolato climatologo ci ricorda che dovremmo finalmente prendere sul serio (e far prendere sul serio ai nostri alleati, primi fra tutti gli Stati Uniti) il protocollo di Kyoto. Per esempio: è in corso a Torino una conferenza internazionale sull'Aids in cui vengono presentati dati apocalittici sulla continua diffusione della malattia, profezie sulla scomparsa annunciata di popolazioni di interi continenti; ma gerarchie cattoliche e maggioranze "osservanti" continuano a guardare con sospetto la pubblicità del preservativo e a non fare nulla contro l'indifferenza omicida delle multinazionali che possiedono i brevetti dei farmaci. Per esempio: la crisi Fiat rivela, non solo le magagne di una dirigenza che ha commesso errori di strategia, ma anche le magagne delle ricette dell'economia capitalistica che prima o poi generalizzerà nel mondo industrializzato crisi di questo tipo; ma noi - i nostri governi di democrazia matura (marcia?) - continuiamo ad agitare davanti agli occhi della gente la bandiera dello sviluppo a tutti i costi e retto dagli stessi schemi del profitto a breve scadenza. Per esempio: Bush continua a preparare la sua guerra contro l'Iraq, con buone probabilità che essa diventi una guerra più vasta; ma noi, orgogliosi di aver potuto mettere a sua disposizione gli alpini, ci consoliamo con la promessa che altre nostre truppe saranno impiegate solo a conflitto finito, verosimilmente per raccogliere cadaveri o, più probabilmente, per partecipare alla spartizione delle commesse per le varie "ricostruzioni". Non ce n'è abbastanza per provare un moto di scetticismo nei confronti di questa politica delle, impure, apparenze?

GIANNI VATTIMO

 

L'Unità14 dicembre 2002

Il vecchio Marx mi ha detto

Ciò che stupisce di più i tanti di noi che non provengono da un'esperienza di militanza comunista, perché si rifiutavano di credere alle "profezie" di Marx - soprattutto a causa dei crimini del socialismo reale - è la sempre più evidente verità, sia pure in qualche senso distorta, o quasi allegorica, proprio di quelle previsioni.

Così, quando leggiamo in statistiche attendibili che negli ultimi anni, in una società capitalistica "modello" come quella degli Usa, la ricchezza si è concentrata nelle mani di un sempre minor numero di straricchi, e che il divario tra ricchi e poveri si è allargato invece di ridursi, non possiamo non ripensare con meno scetticismo alla previsione marxiana circa la progressiva proletarizzazione del mondo. Non vale niente qui l'obiezione che nei sistemi socialisti era, o sarebbe, peggio.

Le soluzioni di Marx forse non hanno funzionato e non funzionerebbero, ma la sua analisi del destino del capitalismo non è poi così priva di senso. Si dice che l'impoverimento di grandi masse di proletari in paesi ricchi come gli Stati Uniti è solo un fatto relativo: se i ricchi sono sempre meno numerosi e più ricchi, non vuol dire che i poveri non abbiano visto migliorare le loro condizioni in termini assoluti, è solo il rapporto con la sezione di società a reddito più alto che produce l'apparenza dell'impoverimento. Già; ma intanto la povertà è sempre stata un fatto relativo, e oggi soprattutto condizionata dalle aspettative di consumo che, se stimolate e frustrate producono effettivamente più infelicità e cioè povertà.

Poi: sarà solo così, quando assistiamo a crisi industriali come quella della Fiat, che non è un fatto tanto eccezionale anche se in altre situazioni riesce ancora a non manifestarsi in modi tanto devastanti? Forse non è solo colpa del management, della scarsità di investimenti, di errori e omissioni della proprietà. Non ci sarà qualcosa di più radicale - il fatto stesso che il capitalismo è sempre fiorito nutrendosi delle proprie crisi, ma in condizioni diverse da quelle intensamente globalizzate in cui viviamo noi? Nel mondo della globalizzazione è diventato apparentemente più facile spostare produzioni da una regione all'altra, inseguendo i bassi costi della mano d'opera. Ma gli intervalli in cui questa differenza di costi si può sfruttare diventano, proprio a causa della globalizzazione, sempre più brevi. Non è più il tempo in cui la banca Fugger realizzava alti guadagni procurandosi (era con piccioni viaggiatori?) notizie anticipate sull'andamento dei raccolti in lontane parti del mondo.

Per non parlare del peso che anche le opinioni pubbliche e i fattori di immagine hanno sempre più spesso sui comportamenti dei consumatori: i palloni fabbricati da bambini in India non si vendono più tanto liberamente e facilmente come qualche tempo fa. Si aggiunga ancora che gli alti profitti dell'economia capitalistica sono sempre stati favoriti dal basso costo delle risorse naturali; ma oggi anche l'acqua e l'aria ormai costano.

Se la sinistra, come si lamenta spesso, esagerando (infatti: che cosa è il progetto di Prodi del 96, che cosa sono le tante proposte del Social Forum di Firenze di qualche settimana fa? ), non ha un programma è anche e soprattutto perché si rifiuta di prendere atto di questa rinnovata "verità" di Marx; ossia della crisi non puramente temporanea dell'organizzazione capitalistica dell'economia. D'accordo, non potremmo dire precisamente in che cosa tale organizzazione e la sua crisi consistano. Quel che vediamo, però, forse basterebbe a fornire la base di una discussione; magari anche riferendosi ad "autorità" non sospette come quella di Stiglitz; e guardando alle difficoltà concrete in cui si dibattono le economie del mondo "sviluppato". Certo, gli stessi liberali hanno ormai di molto annacquato la loro fede nel potere salvifico del mercato. Ma forse unicamente per convincersi che questo potere non è affatto finito, solo ha bisogno di sostegni, regole, aiuti vari per farsi valere. Persino la parola d'ordine della competitività ad ogni costo rientra in questa logica di prolungamento della vita del capitalismo: se recuperiamo competitività, reggeremo ancora una decina d'anni, in attesa che altri paesi si siano attrezzati per batterci. Ma fino a quando? E, soprattutto, a prezzo di quali e quanti licenziamenti, casse integrazione, famiglie sul lastrico, riduzione di provvidenze sociali, suicidi attuati o minacciati da persone che, senza lavoro, non hanno davvero più niente di che, e per che, vivere? Se non qui, ora, in India o in Africa, fino a che la logica del mercato non metterà noi nelle stesse condizioni. Magari riproducendo quello che accade entro la grande società ricca degli Usa; se il numero dei ricchi è destinato a restringersi sempre più, siamo poi sicuri che noi ci rientreremo? E anche se fosse, non saremmo dei ricchi sempre più militarizzati, per

difenderci dalla realizzazione di quell'altra "falsa" profezia di Marx, quella sulla rivoluzione del proletariato mondiale divenuto universale?

GIANNI VATTIMO