una possibile lettura della storia dell’economia …...«la preghiera dei cristiani» [a cura di...
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UNA POSSIBILE LETTURA DELLA STORIA DELL’ECONOMIA DEL MONACHESIMO
OCCIDENTALE
a cura di Enzo Marigliano*
L’autosufficienza economica è stata, fin dalle origini, una delle principali preoccupazioni
del mondo monastico, sia nella versione orientale che occidentale.
Questa ricerca si occuperà, essenzialmente, del monachesimo occidentale nel periodo del
massimo apogeo, l’alto medioevo (in particolare secc. IV e V), prestando attenzione alle
caratteristiche che hanno contrassegnato le scelte produttive ed i diversi approcci a questo
tema sviluppati dalle principali famiglie monastiche; le profonde differenze nella “vocazione
economica” hanno segnato profondamente la storia di ciascun Ordine, imponendo scelte
altrettanto diversificate nella struttura architettonica, nello stile di vita della comunità e nel
rapporto fra quest’ultima e la società circostante.
Ciò nonostante si dovrà, per forza di cose, fare un cenno al monachesimo orientale in
quanto culla di tutto il fenomeno monastico nella fase pre benedettina1.
Il monachesimo alto medievale occidentale va considerato come un fenomeno ormai
relativamente “avanzato”, “maturo” e soprattutto “stabilizzato” nell’ambito della società e
dell’economia del tempo; in modo particolare va rammentato che a partire dall’epoca
carolingia (VII – VIII sec.) e fino a tutto il XIII sec. esso rappresentò un pilastro essenziale
della struttura tripartita su cui si reggeva l’equilibrio rappresentato dal feudalesimo,
Naturalmente è evidente che il monachesimo e la sua economia di autosufficienza così
come si espresse nella citata fase altomedievale appare enormemente diverso rispetto al
monachesimo attivo nel nostro presente di cui si si occuperà nella fase conclusiva.
È quindi necessario premettere alcune coordinate concettuali e semantiche riferite agli
albori del monachesimo, ovvero ai secoli II e III, quando alcuni spiriti decisi a seguire il
messaggio evangelico nella massima integrità possibile, scelsero la strada dell’isolamento.
La vita monastica, del resto, è inconcepibile senza separazione dal mondo, che si
realizzerà nel tempo in forme. modi e qualità molto diverse secondo le propensioni del
fondatore di ogni singolo ramo della famiglia monastica.
Tuttavia la prima, grande, differenziazione che in un certo senso segna e percorre
indelebilmente tutta la storia del fenomeno è fra “eremitismo” e “cenobitismo”, in pratica fra
isolamento solitario e vita comunitaria.
1. ORGANIZZAZIONE ED ECONOMIA NEL MONACHESIMO PREBENEDETTINO
La voce “monaco” deriva remotamente dal greco “monòs” (= solo e unico) e
prossimamente dal verbo “monazo” (= sto o vivo solo, sono solitario).
Pochi sanno che, alle origini, il monachesimo era un fenomeno laico, ben diverso dalla
realtà ecclesiale come oggi ci è nota: si trattava, in genere, di cristiani ferventi, uomini e
donne con famiglia che sceglievano di condurre una vita particolarmente austera e che,
per questo, si ritiravano in solitudine oppure, all’interno stesso della mura domestiche,
1 Cfr. Lorenzo Dattrino «Il primo monachesimo» Roma, Edizioni Studium, 1984.
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davano vita a primordiali aggregazioni di vita comunitaria prive di sacerdoti in quanto la
gerarchia sacerdotale venne imponendosi e definendosi solo molto lentamente.
Nell’area dell’Impero romano d’Oriente, ove nacque il fenomeno, prevaleva l’uso del greco
bizantino per cui questi ristretti nuclei erano noti come “spoudaioi” (= zelanti o seri),
locuzione derivante da “spoudê” (= zelo); in altri casi, e questo termine è di particolare
interesse per il tema di cui ci si occuperà in questa sede, come “philoponoi” (= industriosi),
mentre nelle province siriache si autodefinivano “figli dell’Alleanza”.
Circolavano anche personaggi bizzarri che interpretavano in forma estremizzata tale
scelta: è il caso di coloro che vivevano come bestie selvagge, rifiutando persino di usare il
fuoco e nutrendosi di vegetazione spontanea, tanto che la popolazione li denominò
“boskôi” (= erbivori); altri si caricavano di catene richiudendosi in gabbie esposte alle
intemperie, cibandosi esclusivamente delle poche cose che ricevevano dalle popolazioni
dei dintorni e bevendo acqua piovana.
Questi eccessi stanno a dimostrare che, almeno fino alla metà del IV secolo, nell’ambito
ascetico prevaleva la presenza di personaggi illetterati, accettati passivamente perché il
fenomeno monastico non aveva trovato una sua collocazione regolare nell’ambito della
Chiesa del resto essa stessa nella sua fase embrionale, priva di strutture organizzative e
persino di liturgie e preghiere ben definite2.
Il primo che usò il vocabolo “monaco”, ancora nella formula greco bizantina, ma comunque
veicolandolo nella nascente letteratura ecclesiastica occidentale e nel significato tecnico
che diverrà tradizionale fino ai giorni nostri, è Eusebio da Cesarea († c. 340), mentre il
primo ad utilizzare la forma latinizzata (”monachus”) fu S. Girolamo († 420).
Stando alla tradizione il passo decisivo che, lentamente, porterà al riconoscimento del
monachesimo nell’ambito della Chiesa sarebbe stato preso da Antonio il Grande3 il quale
dapprima visse alcuni anni in una tomba vuota, poi per tutta la vita nel deserto cibandosi di
bacche ed erbe spontanee ed indicando, in tal modo, una sorta di approdo privilegiato per
coloro che volessero intraprendere la vita solitaria.
La ragione per cui prese piede questo tipo di vita non è ancora del tutto chiara o,
quantomeno, fra gli storici convivono tesi diverse: taluni4 propendono per una fuga dei
cristiani dalle aree urbane in concomitanza con la terribile persecuzione voluta
dall’Imperatore Decio (249 – 251), poi, terminata la persecuzione, non tutti sarebbero
rientrati nelle antiche dimore ritenendo di riconoscere nell’isolamento il modo più consono
alla vita perfetta. Altri ritengono si trattasse di soggetti che approfittarono della tendenza
mistica semplicemente per eclissarsi sfuggendo alla forte pressione fiscale5, ipotesi non
2 Cfr. «La preghiera dei Cristiani» [a cura di Salvatore Pricoco e Manlio Simonetti] Roma-Milano, Fondazione
“Lorenzo Valla” – Arnoldo Mondadori editore, 2000. È la maggiore raccolta di preghiere cristiane che oggi esista in
Italia. L’opera, divisa in quattro parti comprende testi in greco e latino, con traduzione a fronte, dal I al XII secolo. 3 Per una storia complessiva del monachesimo dalle origini al cuore dell’alto medioevo (1156 morte dell’Abate
cluniacense Pietro il Venerabile) mi permetto di rinviare alla seconda parte (pagg. 92 – 436) di: Enzo Marigliano –
Massimo Zorzin «Medioevo in Monastero. Vita quotidiana in un’abbazia del XII secolo. Storia, storie e figure di
grandi monaci» Milano, Àncora, 2001. 4 Fra questi GiuseppeTurbessi, Gregorio Penco e Goffredo Viti, tutti monaci, ed, in genere, storici di formazione o
provenienza monastica o clericale. 5 È questa la tesi di Cyril Mango «La civiltà bizantina», Roma-Bari, Laterza, 2004, pag. 124. Con lui G. Bardy «Les
origines des écoles monastiques» in «Mélanges J. de Ghellink» Vol. I, Gembloux, 1951, pagg. 293 – 309.
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peregrina ma certamente inapplicabile per Antonio ch’era, invece, un agiato agricoltore
liberatosi delle sue molte proprietà volontariamente.
Resta il fatto, inequivocabile, che primi monaci, dunque, furono eminentente “eremiti”, détti
anche “ànacoreti”, dal greco “anachôrêsis” (= mi tiro in disparte), termine adottato per
primo da S. Girolamo per indicare “coloro che vivono in luoghi deserti”, e la loro
esperienza si sviluppò soprattutto nell’area mediorientale (Egitto, Siria, Anatolia).
La tradizione vuole che vivessero, oltre che negli anfratti delle montagne, nel deserto, sulle
fronde di alti alberi ove installavano piccole piattaforme con capanne di fortuna; in taluni
casi, l’isolamento si realizzava ponendosi sulla sommità di colonne o resti di costruzioni
abbandonate nei deserti posti alle periferie delle città ed, in tal caso, venivano denominati
“dendriti” o “stiliti”.
In tutti questi casi il problema del sostentamento e del rapporto fra preghiera e lavoro
manuale era lasciato alla scelta autonoma del singolo eremita: ci fu chi accettava
donazioni, chi intrecciava cesti, chi trascriveva le Sacre Scritture il tutto nell’ambito d’un
embrionale economia di baratto con cibo; più spesso, però, nelle vicinanze del luogo
prescelto per l’isolamento l’eremita curava un orto, determinando, di fatto, un
sostentamento essenzialmente vegetariano.
Il passaggio, dall’eremitismo al cenobitismo, ovvero dallo stile di vita individuale a quello
collettivo fu graduale e lento, tanto che i due fenomeni convissero e – come vedremo –
convivono tutt’oggi. Come e quando sia avvenuto tale passaggio è oggetto di studi, ma è
ormai accertato che si rincorsero e sovrapposero varie e successive fasi individuate dalla
ricerca archeologica: dopo l’Editto di Costantino (313) ed ancor più dopo quello di
Tessalonica (380) che posero fine alle persecuzioni legittimando il culto cristiano, alcuni
anacoreti, pur continuando ad abitare in luoghi divisi e diversi, si concentrarono in singole
aree costituendo piccole colonie attorno ad una capanna centrale, luogo deputato alla
preghiera, ove si ritrovavano per l’orazione comune in genere domenicale, struttura che fu
chiamata “laura”, voce d’incerta etimologia ed impossibile traduzione, derivante dal greco
bizantino “lavra”, che, nel tempo, acquisirà il significato di “quartiere”, nel cui ambito si
instaurò una forma di vita “mista” rappresentata, cioè, da un gruppo di capanne edificate
l’una vicina all’altra ed i cui abitatori intessevano reciproche relazioni, ed altre, invece,
edificate a notevole distanza reciproca in modo da assicurare il reciproco isolamento
perenne.
In questa fase, dal punto di vista del sostentamento, ciascuno continuava a provvedere
autonomamente ai propri bisogni, comunque parchi, senza alcuna divisione del lavoro o
redistribuzione di prodotti o beni acquisiti tramite baratto.
Il passo successivo, quello d’una più consapevole e matura vita comunitaria, è
rappresentata dall’elaborazione dottrinaria ed organizzativa dei due principali legislatori del
monachesimo pre benedettino: San Pacomio (246 ca. - † 346) e San Basilio (329 - †379).
Pacomio aveva prestato servizio militare nell’esercito imperiale bizantino e, dopo aver
fatto una sorta d’apprendistato presso un eremita, pensò che proprio il modello militare
potesse risultare utile per dar vita ad un’inedita forma di vita ascetica tendente a realizzare
una sorta di “mediazione” fra la rigida scelta anacoretica e la possibilità di una, seppur
parziale, ma stabile, vita comunitaria.
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Per realizzare quest’obiettivo, Pacomio redige la prima «Regola»6 della storia monastica il
cui testo ci è pervenuto integralmente grazie ad una traduzione in latino di San Gerolamo.
Compare qui il termine “monastero” che, però, non deve essere interpretato pensando alle
strutture a noi note, poiché si trattava di “…una vasta area circondata da un muro e
comprendente una cappella, un refettorio, un locale per gli ammalati e una foresteria. I
monaci vivevano in casette individuali di legno prive di serratura e circondate da un orto;
non era loro concesso disporre di proprietà alcuna se non di pagliericcio per dormire a
terra, due vestiti senza maniche, e poche cose di prima necessità. Ciascuno doveva
lavorare la terra per il proprio sostentamento o realizzare prodotti col lavoro manuale che
potessero essere barattati con cibo. Qualunque cosa facessero, compreso il lavoro, i
monaci dovevano tenersi lontani l’uno dall’altro di almeno un cubito; non potevano
rivolgere parola ad alcuno se era buio; non potevano lasciare l’area cintata senza
permesso del capo della comunità ed, in tal caso, dovevano muoversi in coppia e al ritorno
non potevano dire nulla di ciò che avevano visto o udito. Era loro proibito maneggiare
danaro ed avevano in abominio il consumo di carne…se vi fossero eccedenze di
produzione agricola, ciascun monaco le consegnava al capo della comunità che decideva
in merito… ”7 La proibizione del maneggio di danaro aveva una sua logica: impediva che
gli anacoreti si fornissero del necessario attraverso acquisti, costringendoli inevitabilmente
allo svolgimento di lavoro manuale finalizzato esclusivamente alla produzione agricola a
fini di autosostentamento.
La prima comunità del genere nacque sulla riva destra del Nilo, in località Tabennêsi, ed
alla morte del fondatore i pacomiani si troveranno a gestire una vera e propria catena di
ben dodici strutture maschili e tre femminili sparse in tutto l’Egitto, coinvolgenti un migliaio
di monaci e monache8.
Interessante notare che, nel tempo, questa struttura in cui ciascun monaco era
ampiamente autosufficiente dal punto di vista alimentare, cominciò a dar vita ad una sorta
di redistribuzione dei prodotti esclusivamente all’interno del circuito dei “monasteri”
pacomiani, avviando in tal modo un’embrionale economia di baratto sovra territoriale tesa
ad assicurare l’autosufficienza più spinta e, di conseguenza, a rendere inutile qualsiasi
esigenza di contatto con l’esterno ed introducendo, di fatto, uno degli elementi principali
che ritroveremo nella concezione benedettina, ovvero la definitiva stanzialità del monaco
nel monastero di appartenenza dal momento in cui vi entrava fino alla sua morte.
Come vedremo la tipologia organizzativa delle singole “casette” non andrà persa ed, anzi,
verrà recuperata, ed abilmente aggiornata, da due importanti Ordini monastici post
benedettini: Certosini e Camaldolesi.
6 In realtà una sorta di «Regola della comunità» era stata elaborata dagli esseni, gruppo ascetico non cristiano ma
facente parte della tradizione ebraica, ritiratisi nel deserto adiacente al Mar Morto presso Qumrȃn. Di essa sono stati ritrovati brani non organici nell’ambito della scoperta dei famosi “rotoli” avvenuta nel 1947.Cfr. L. Moraldi «I
manoscritti di Qumrân» Torino, UTET, 1971. Dopo la distruzione del loro sito ad opera dei romani nel 67 d.C. gruppi
di esseni si avvicinarono al cristianesimo trasformandosi in “giudeo-cristiani” ed autodefinendosi “ebioniti”. Per il testo
integrale della complessa ed ampia legislazione pacomiana Cfr. Giuseppe Turbessi «Regole monastiche antiche»,
Collana Testi e Documenti n. 9, Roma, Edizioni Studium, 1978. 7 Cfr. Cyril Mango «La civiltà bizantina», op.cit. con part. rif. al capitolo Quinto “Il monachesimo”,pagg. 123 – 145. La
cit. a pagg. 125 – 126. 8 Cfr. Mariella Carpinello «Il monachesimo femminile» Milano, Mondadori, 2002. Segnalo anche un saggio della
pordenonese Eleonora Chinellato «Del monachesimo femminile nell’alto medioevo» in «Città di Vita» Firenze, Anno
LIX, 2003, pagg.295 – 304.
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Basilio, personalità complessa e sfaccettata, fu innanzitutto un autentico asceta ed un fine
intellettuale che séppe cogliere taluni aspetti dell’impostazione pacomiana per compiere
un nuovo passo in avanti nella concezione organizzativa della vita comunitaria.
Verso il 360 fondò a Neocesarea (nella regione Pontica, sulle sponde del Mar Nero,
corrispondente all’attuale territorio turco) il primo Monastero che sarebbe servito da
modello a molti altri.
Esaminata l’esperienza di Antonio e degli eremiti, come pure quella, a metà strada fra
eremitismo e cenobitismo, delle “lavre” ed infine quella della struttura monastica
pacomiana, Basilio pervenne alla conclusione che fosse necessario superarle tutte.
I primi non lasciavano spazio alcuno alla fraternità, sviluppando una concezione in cui
prevaleva l’idea di un Dio punitivo, privo di carità di fronte all’uomo comunque in
condizione di peccatore che, per tentare di salvarsi, doveva ricorrere ad uno stile di vita
talmente individualistico ed auto flagellante da impedire ogni dialogo con i suoi simili e tale
da condurre a sfinimenti fisici e psichici.
Dall’altro lato la struttura monastica pacomiana, pur portando ad una mitigazione degli
eccessi eremitici aveva finito col far nascere, e proliferare, strutture in cui convivevano
centinaia di monaci, determinando in tal modo la nascita di vere e proprie “oasi religiose”
autosufficienti in tutto e per tutto e, quindi, tanto chiuse in se stesse da precludere ogni
azione di apertura verso la società e, quindi, incapaci di fare proselitismo, col prevedibile
risultato che l’esperienza sarebbe definitivamente finita con la scomparsa dell’ultimo degli
abitanti che vi fosse rimasto.
Da queste riflessioni, Basilio giunse alla convinzione che fosse opportuno imboccare in via
definitiva la strada del cenobitismo, termine che identifica la vita comunitaria.
Il passaggio, tuttavia, si realizzò lentamente, grazie alla sperimentazione di aggregazioni
composte da non più di trenta/quaranta monaci chiamati a vivere comunitariamente in
“monasteri” che venivano edificari nelle vicinanze di centri abitati in modo tale da essere
“permeabili” verso l’esterno non solo attraverso la predicazione ma anche praticando, di
tanto in tanto, l’accoglienza a quanti volessero sperimentare tale tipo di vita religiosa. A tal
fine Basilio stabilì l’edificazione di capanne separate da quelle dei cenobiti stabili,
funzionali alla presenza temporanea di ospiti i quali dovevano comunque badare al proprio
sostentamento9: possiamo dire che si tratta di strutture antenate delle attuali “foresterie” e
di una prima forma di timida apertura del mondo monastico alla società,.
Per quel che riguarda il lavoro dei monaci rispondendo alla terza questione Basilio scrive:
“…credo che sia utile condurre una vita in comune con quelli che hanno la stessa volontà
e il medesimo proposito, prima di tutto perché anche per le stesse necessità materiali e
per il servizio del cibo ognuno di noi non bvasta a se stesso da solo…cosicchè ciò che è
distribuito ad ognuno in porzioni, di nuovo si riunisca e cooperi con le varie membra alla
formazione d’un corpo unico….A uno, infatti, è concessa la parola della sapienza, a un
9 San Basilio scrisse tre versioni diverse di una sorta di «Regola» la cui struttura letteraria differisce in modo radicale
sia dal testo pacomiano che da tutti quelli successivi, ivi compresa quella benedettina, in quanto, nella versione più
matura e completa, si compone di ben 203 domande poste da un immaginario interlocutore cui Basilio risponde dando
in tal modo precetti ed indicazioni operative. Per il testo integrale Cfr. Giuseppe Turbessi «Regole monastiche antiche»,
op.cit. pagg. 133 – 267.
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altro quella della scienza, a un altro il lavoro delle mani, ad uno la fede e ad un altro la
profezia, ad un altro il carisma delle guarigioni.10”
È un passo decisivo, apparentemente insignificante, invece di enorme rilievo in quanto
sfata definitivamente la concezione eremitica e pacomiana secondo la quale per “lavoro”
era da intendersi solo quello manuale che, per sfinimento fisico, aiutava il monaco a
fuggire le tentazioni, ed introduce la valorizzazione anche del “lavoro intellettuale”,
argomento su cui ritorneremo, che tanto si rivelerà importante nella concezione
benedettina.
A capo di ogni singolo “monastero” era posto un anziano invitato a comportarsi
amorevolmente verso gli altri e non come capo autoritario; singolare il fatto che
esplicitamente Basilio prevedesse che le strutture non dovessero sottostare in alcun modo
all’autorità del Vescovo eventualmente presente nel territorio.
Dal punto di vista economico, ribadita l’autosufficienza di ciascun “monastero”, il salto
qualitativo rispetto all’eremitismo ed al pacomianesimo in specie era rappresentato dal
fatto, presente in filigrana anche nel passo citato, che tutte le produzioni erano messe in
comune, il cibo per il sostentamento era assicurato attraverso una redistribuzione interna
ed ogni eventuale eccedenza interamente donata ai poveri.
2. AGLI ALBORI DELL’ECONOMIA MONASTICA: S. BENEDETTO, LA «REGOLA»
Non sappiamo quando Benedetto da Norcia scrisse la «Regola» (RB = «Regula
Benedicti»); è, invece, certo che al momento della sua morte (21 marzo 547) era compiuta
e già alcune decine di Monasteri l’avevano fatta propria11.
La struttura del testo fondamentale del monachesimo occidentale è molto lineare: si
articola per blocchi di argomenti; si compone di un “Prologo” e 73 capitoli. La prima parte
(capitoli da 1 a 7) è dedicata ai principi generali della costituzione monastica ed alle linee
maestre della spiritualità benedettina; la seconda (capitoli da 8 a 20) è dedicata alle
modalità della preghiera comune ed individuale; la terza (capitoli da 21 a 72) è quella che
affronta le questioni che potremmo definire legislativo – organizzative nel senso più
generale del termine: è qui, infatti, che si esaminano le più svariate situazioni di vita
quotidiana del monaco, cercando di regolare i suoi doveri verso Dio, i superiori, i confratelli
e ad organizzare minuziosamente la giornata della comunità sotto tutti i punti di vista.
Infine il capitolo 73 può considerarsi “l’epilogo”, nel quale l’Autore afferma esplicitamente
di considerare il testo come un semplice inizio del percorso di perfezione cui dovrebbe
sempre aspirare il monaco in quanto uomo votato a Dio. Per gli ulteriori sviluppi ascetici,
infatti, Benedetto rinvia il suo lettore allo studio della Bibbia, ai testi dei Padri del deserto,
alla «Regola» di S. Basilio ed agli scritti dei vari personaggi del monachesimo d’Oriente ed
Occidente che lo avevano preceduto.
10
Cfr. Giuseppe Turbessi «Regole monastiche antiche», op.cit. pagg. 161 – 162. 11
Sulla parete di quella ch’era stata la cella del Santo, rimasta incredibilmente intatta nonostante il bombardamento
alleato del 1944, sul muro si può ancora leggere il graffito “Hic scripsit Regulam.” Poiché la bibliografia su S.
Benedetto e la «Regola» è sterminata, mi permetto di rinviare per un approccio sintetico al capitolo ad essi dedicato nel
già citato Enzo Marigliano – Massimo Zorzin «Medioevo in Monastero. Vita quotidiana in un’abbazia del XII secolo.
Storia, storie e figure di grandi monaci» Milano, Àncora, 2001. Pagg. 133 – 149.
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Così facendo Benedetto sceglie di collocare il suo testo nella corrente di tutto il
monachesimo preesistente, dichiarandosi pertanto un continuatore il cui compito era
quello di riordinare l’impostazione della vita monastica nell’ambito d’una comunità che
doveva trovare autonomia ed equilibrio, doti indispensabili per superare le difficoltà
organizzative, psicologiche e materiali, che inevitabilmente nascono quando si deve
vivere, gomito a gomito, per tutta la vita terrena12, sempre nel medesimo luogo e con le
stesse persone13.
Leggere la RB14 è un’esperienza culturale di grande fascino ed interesse,
indipendentemente dal fatto d’essere o meno credenti che consente e sollecita indagini,
studi a tutto campo e nell’ambito d’un ampio ventaglio di discipline (dalla storia
all’antropologia, dalla teologia alla sociologia, alla linguistica…) in quanto ciascun capitolo,
e il testo nel suo insieme, presenta innumerevoli spunti di riflessione sulla natura umana,
sulle sue contraddizioni, sulle soluzioni possibili dei problemi quotidiani che si pongono ad
una vita comunitaria che pone interrogativi economici, organizzativi, gestionali,
architettonici, religiosi.
È possibile, ad esempio, realizzare una lettura (e conseguenti ricerche) anche
“disarticolandone” il testo, in modo da affrontare singole tematiche: dalle questioni
prettamente spirituali a quelle che investono le risposte date alle esigente di sussistenza
economica del Monastero o alle condizioni di vita dei monaci15.
Una rapida scorsa ai titoli della RB che hanno attinenza con l’economia, alla gestione
interna al Monastero e, più in generale, alla sussistenza, può offrire un piccolo quadro
d’insieme che, mi auguro, incuriosisca il lettore e lo spinga ad un approfondimento
specifico.
Ecco, dunque, che il Cap. XXXI è dedicato a “Quali caratteristiche deve avere il cellerario
del Monastero”, ovvero quella figura che possiamo parificare ad un economo-gestore dei
beni della comunità; il XXXII a “Degli utensili e dei beni del Monastero”; il XXXV delinea
l’attività dei “Settimanari di cucina”, ovvero di coloro che, di settimana in settimana, devono
avvicendarsi nel lavoro di preparazione dei pasti comunitari; il XXXVI “Dei fratelli malati”,
indica le variazioni di “menù” che possono essere attuate, derogando alle abitudini
quotidiane e soprattutto alla rigida disciplina dei periodi di astinenza, per i monaci infermi;
12
Il concetto di “stabilitas loci” è il cardine essenziale della RB presente fin dal Cap. I intitolato “Dei diversi tipi di
monaci” nel quale S. benedetto chiarisce che vi sono quattro tipi di monaci: i cenobiti e gli anacoreti, rappresentano il
meglio, mentre i sarabaiti ed i girovaghi sono condannati senza appello. Nella millenaria storia del monachesimo
occidentale, però, si è prodotto anche un singolare caso di monachesimoi “itinerante” che la Chiesa non solo non ha
condannato, ma anzi ha valorizzato: quello della tradizione irlandese che ha prodotto San Patrizio, San Brendano, San
Colombano e San Bonifacio (Winfrid) tutti impegnati nell’evangelizzazione itinerante nel cuore dell’Europa barbarica
tra VI ed VIII secolo. Questa forma di monachesimo decisamente “atipica” è poi scomparsa completamente dal XII sec. 13
Significativo e molto interessante sia dal punto di vista organizzativo che da quello psicologico il Capitolo LXIII
della RB intitolato: “Dell’ordine della comunità” nel quale sono contenute precise disposizioni tese a regolare i
possibili dissidi interni al Monasatero. 14
Le edizioni disponibili della RB sono moltissime. Un’edizione agile con traduzione in italiano e testo latino a franto è
stata curata dalle monache benedettine di Viboldone; un ottimo commento è stato curato dalle Edizioni “Scritti
monastici” del Monastero di Praglia (PD) 15
Io stesso ho svolto una specifica ricerca su come il testo della RB affrontò le esigenze di vestiario, di cibo e, più in
generale di cura del corpo dei monaci, Cfr. Enzo Marigliano «La cura del corpo nell’ambito del monachesimo maschile
nell’alto medioevo» in «Città di vita» Anno LIX, n. 3, 2004, pagg. 279 – 294. Segnalo, nel medesimo numero della
rivista fiorentina il saggio della dott.ssa Eleonora Chinellato «Del monachesimo femminile nell’alto medioevo» pagg.
295 – 304.
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il XXXVII “Dei vecchi e dei fanciulli”, che, precisa le variabili del precedente capitolo, e che
riveste un interesse particolare perché (assieme al capitolo XXX “Come si devono
correggere i fanciulli in tenera età”) apre uno squarcio di enorme interesse su un
fenomeno tipico dell’Alto medioevo ed oggi scomparso totalmente, ovvero quello delle
cosiddette “oblazioni” (regolate dal capitolo LIX “Dell’oblazione dei figli di nobili o di
poveri”) secondo le quali molti bambini venivano affidati dalle famiglie, ai Monasteri per
diventare, a loro volta, “uomini di Dio” (“Viri Dei”16); il XXXIX ed il XL, rispettivamente
dedicati a: “Della misura del cibo” e “Della misura del bere”. Il capitolo LIII regola le
modalità in cui s’esamina la delicata materia “Dell’accoglienza degli ospiti”, questione che
nel tempo ha posto rilevanti problemi all’autosufficienza economica ed anche, dal punto di
vista religioso, per assicurare il rigido rispetto della clausura; mentre riveste anch’esso un
notevole interesse per quanto attiene l’autosufficienza monastica il capitolo LV dedicato a
“Dei vestiti e delle calzature dei fratelli”, che farà da base costitutiva delle strutture interne
ai Monasteri ed ai Castelli dei laici (officine, alle sartorie, calzaturifici, fabbricerie ecc..) che
nel tardo medioevo si sposteranno fuori dal perimetro dei singoli cenobi e daranno vita a
mercati, fiere ed ai primissimi embrioni di villaggi da cui, più avanti, nasceranno le città.
Fondamentale per il salto di qualità concettuale operato da S. Benedetto rispetto a tutta la
precedente tradizione orientale, il capitolo XLVIII “Del lavoro manuale quotidiano”, sul
quale è opportuno soffermarci per le enormi e talvolta imprevedibili implicazioni che ha
avuto nell’evoluzione delle forme operative dell’economia monastica, nella cultura,
nell’organizzazione dei Monasteri e nella loro architettura.
Il testo in questione così recita:
“L’oziosità è nemica dell’anima. Per questo i fratelli devono essere occupati, in tempi
determinati, nel lavoro manuale e in altre ore alla lettura divina. Pensiamo, pertanto, che le
due occupazioni siano ben ripartite in questo modo: da Pasqua sino alle calende17di
ottobre,al mattino siano occupati nei lavori necessari fino a quando escono da Prima fino
all’ora quarta18. Dall’ora quarta fino a circa l’ora sesta inoltrata si tengano liberi per la
lettura. Dopo sesta, alzatisi da tavola, riposino nei loro letti in assoluto silenzio o, se
16
Nella fase matura dell’alto medioevo, ovvero con il consolidarsi del feudalesimo in epoca carolingia ed ancor più
ottoniana,la società si strutturò in una sorta di piramide ed articolata in classi e ceti ben definiti, l’uno impermeabile
all’altro. I medievalisti Le Goff e Duby hanno elaborato il concetto di società “tripartita”, composta cioè dai combattenti
(“bellatores”), dagli uomini di Dio, in specie monaci (“oratores”) ed infine las grande massa dei lavoratori
(“laboratores”). 17
Per “calende” in genere s’intende il primo giorno del mese, anche se taluni studiosi esaminando il testo del Capitolo
VIII della RB, ove è scritto “…nella stagione invernale, cioè dalle calende di novembre fino a Pasqua…” sarebberi più
propensi a darvi il significato di prima domenica del mese. 18
La scansione della giornata monastica è rimasta, anche nel linguaggio, identica dai tempi di S. Benedetto sino ai
giorni nostri. La sveglia è alle 5; alle 5,20 Ufficio della “Lectio Divina”; alle 7,30 “Lodi mattutine”; “Ora Terza”
ovvero alle 8.10 Eucarestia nell’ambito di una messa concelebrata; dalle 9 alle 12.00 attività lavorative; o”Ora Sesta”
ovvero alle 12,20 preghiera comune in coro; ore 12.30 Pranzo comunitario che si svolge in Refettorio ed in silenzio,
con lettura “edificante” da parte del “lettore di settimana”; tempo libero personale fino alle 14.30; “Ora Nona” ovvero
alle 14,50, preghiera comune in coro; dalle 15 alle 18.00 attività lavorative; “Vespri” ovvero alle 18.00 preghiera
comune in coro; 18,40 preghiera personale e lettura spirituale individuale nella propria cella; 19,30 Cena comunitaria
che, come il Pranzo, si svolge in Refettorio ed in silenzio, con lettura “edificante” da parte del “lettore di settimana”;
breve periodo di “ricreazione” ovvero di possibilità dio dialogo comunitario fra i monaci e fra questi e gli eventuali
ospiti; “Compieta”, ovvero alle ore 20,45 preghiera comune in coro che chiude la giornata. Dopo “Compieta” è
severamente proibito parlare (Capitolo XLII “Che nessuno parli dopo Compieta”) e ciascun monaco ed ospite si ritira
nella propria cella a dormire in attesa del nuovo giorno.
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qualcuno vuol leggere per conto suo, legga pure, ma in modo da non disturbare gli altri. Si
celebri nona con un po’ di anticipo, a metà dell’ora ottava, e di nuovo ritornino al lavoro
che debbono fare, fino al Vespro. Se poi le condizioni del luogo o la povertà rendono
necessario che i monaci si occupino loro stessi del raccolto, non ne siano rattristati,
perché proprio allora sono veri monaci, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i
nostri padri e gli apostoli. Tutto, però, si deve fare con equilibrio, tenendo conto dei deboli
Dalle calende di ottobre all’inizio della quaresima siano liberi per la lettura fino a tutta l’ora
seconda; all’ora seconda si celebri Terza e poi, fino a Nona, tutti lavorino all’opera loro
assegnata; al primo segnale dell’ora di Nona ciascuno smetta il suo lavoro in modo da
essere pronti al secondo segnale. Dopo pranzo siano liberi per le loro letture o per lo
studio dei Salmi.
Nei giorni di quaresima, dal mattino fino a tutta l’ora terza, siano liberi per la lettura, e fino
a tutta l’ora decima siano impegnati al lavoro loro comandato. In questi giorni di quaresima
ogni fratello riceva un libro dalla Biblioteca, e lo legga tutto di seguito integralmente. Questi
libri dovranno essere distribuiti all’inizio della Quaresima. Certo, sarà indispensabile
delegare uno o due anziani che girino per il Monastero nelle ore in cui i fratelli sono liberi
per la lettura, perché veglino a che non si trovi un fratello vittima dell’acedia, che si perde
nell’ozio o in chiacchiere invece di immergersi nella lettura, arrecando così non solo danno
a se stesso, ma anche distrazione agli altri. Se si trova qualcuno – non si sa mai – a fare
così, lo si riprenda una o due volte, e se non si corregge venga sottoposto alla punizione
indicata dalla Regola in modo tale che anche gli altri ne rimangano presi da timore. E un
fratello non si trovi con un altro fuori dai tempi previsti. Di domenica parimenti, tutti siano
liberi per la lettura, tranne quelli incaricati dei diversi servizi. Se poi c’è qualcuno così
superficiale e pigro da non volere o non sapere darsi alla riflessione ed alla lettura, gli si
dia da fare qualche lavoro perché non stia in ozio.
Ai fratelli malati e di salute cagionevole si affidi un incarico o un mestiere in modo da nopn
lasciarli inattivi; d’altra parte il lavoro non dev’essere tale da opprimerli o indurli a
sottrarvisi. L’abate deve aver riguardo per la loro debolezza.”
Da questo testo emergono molte informazioni sulla vita quotidiana e sull’organizzazione
dei tempi dedicati alla preghiera, allo studio ed al lavoro, ma, soprattutto, è possibile
dedurre indicazioni che avranno decisiva importanza nel successivo sviluppo storico e
nelle modalità di realizzazione dell’economia d’autosufficienza nella fase matura del
monachesimo occidentale.
Le grandi scansioni temporali indicate (da Pasqua ad ottobre, e, poi, da ottobre a
Quaresima), come pure la minuziosa articolazione oraria giornaliera diversificata all’interno
stesso di tali aree, offre l’idea d’una organizzazione del lavoro capace di tenere in debito
conto le stagioni, le ore di luce a disposizione, le condizioni ottimali per l’espletamento
dell’attività lavorativa prevalentemente agricola ma che prevedeva anche qualsiasi altro
tipo di lavoro manuale.
Ma il punto più significativo – e spesso non sufficientemente analizzato – è il rilievo e la
ripetuta insistenza posta al tema della lettura che percorre sostanzialmente l’intero
capitolo.
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Per comprendere l’importanza di questo aspetto, è opportuno rammentare che nella
società alto medievale la stragrande maggioranza della popolazione, ivi compresi i ceti
nobiliari (significativo il caso di Carlo Magno), era analfabeta poiché la capacità di leggere
e scrivere era rimasta appannaggio di ristrettissime élites selezionate operanti nelle corti
signorili o nell’ambito ecclesiastico.
Il fatto che la RB prevedesse con tale minuziosità ed insistenza la lettura dei testi sacri,
finì’ con l’imporre a ciascun monaco di saper leggere e scrivere; ne derivarono
conseguenze significative: entro i Monasteri nacquero scuole la cui frequenza divenne
obbligatoria sia per i giovanissimi oblati che per i monaci ancora analfabeti; l’impegno
intellettuale venne parificato al lavoro manuale, assumendone in tutto e per tutto la stessa
valenza. Peraltro se non vi fosse stata questa insistenza sulla lettura e scrittura non
avremmo avuto la nascita e lo sviluppo dentro i Monasteri degli “scriptoria”, luoghi
considerati lavorativi al parti dei campi e delle foreste da dissodare; non avremmo avuto,
di conseguenza, l’attività di ricopiatura che significherà la salvezza del patrimonio letterario
e culturale della classicità greco – romana19.
Questo punto focale, direi determinante, segna una svolta epocale per l’assetto
organizzativo e per la stessa evoluzione del sistema produttivo dell’economia monastica,
che potrà, infatti, da qui in avanti, diversificarsi scegliendo strade diverse: ora accentuando
l’interesse e la “vocazione” per questa o quella produttiva, oppure concentrando
l’attenzione sull’aspetto culturale.
Ad una lettura ancor più approfondita ci si renderà conto che il vero e proprio “reticolo
concettuale” su cui si regge l’impianto logico della RB, ha saputo considerare
attentamente anche gli aspetti – diciamo così – “collaterali” che avrebbe posto
l’applicazione del citato capitolo XLVIII; ed ecco che meritano riflessione altri tre, diversi,
Capitoli del testo benedettino.
Il Capitolo XXXII (“Degli utensili e dei beni del Monastero”) ha tutto l’aspetto di una precisa
disposizione organizzativa che, oggi, verrebbe data da un imprenditore oculato ad un
proprio amministratore:
“…Per quanto riguarda le sostanze del Monastero, strumenti di lavoro, oggetti di
guardaroba o qualsiasi altro bene, l’abate scelga dei fratelli la cui vita e le cui abitudini
diano affidamento e consegni loro i diversi oggetti da custodire e raccogliere come gli
parrà utile. L’abate tenga un inventario di tutti questi beni in modo che nell’avvicendarsi dei
fratelli nei diversi incarichi, egli sappia quello che da e quello che riceve. Se qualcuno
tratta i beni del Monastero con poca cura della pulizia o con trascuratezza, venga ripreso,
e se non si corregge, subisca la punizione della Regola”
Anche in questo caso l’interesse dello storico è notevole poiché è solo grazie a questa
disposizione che, sono giunti fino a noi “Regesti”, “Atti”, “Capitulari”, “Decreti”, “Cessioni”,
“Donazioni” e persino falsi, che costituiscono il grosso della messe documentale che
19
Cfr. Enzo Marigliano «Cultura, scrittura e “scriptoria” nei Monasteri fra X ed XI secolo» Pordenone,Quaderni della
Biblioteca Civica, n. 2/2002, pagg. 75 – 93. Jean Leclercq «Umanesimo e cultura monastica» Milano, Jaca Book,1989.
con part.rif. ai capitoli: “Gli studi nei Monasteri del X e XII sec.” (pagg. 93 – 102) e «Lo sviluppo dell’atteggiamento
critico degli allievi e dei monaci dal X al XII sec» (pagg. 107 – 131).
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consente di fare la storia dell’economia monastica, ma – più ampiamente – dell’economia
alto medievale nel suo insieme.
Anche il Capitolo XXXIII (“Se i monaci devono avere qualcosa di proprio”) riveste
un’indubbia importanza nel contesto d’indagine e riflessione analitica sull’ economia
monastica, meritando un esame critico:
(Cap. XXXII) [“Se i monaci devono avere qualcosa di proprio”] “È assolutamente
indispensabile estirpare dal Monastero questo vizio, e fin dalle sue radici, ché nessuno si
permetta di dare o ricevere qualcosa senza autorizzazione dell’abate, o di possedere
qualcosa di proprio, assolutamente nulla: né libro,né tavoletta, né stilo, nulla insomma,
dato che i monaci non possono disporre neppure del proprio corpo e della propria volontà.
Tutto ciò di cui c’è bisogno si deve attendere dal padre del Monastero, né sia consentito
avere qualcosa che l’abate stesso non abbia dato, oppure permesso di tenere. «Tutto sia
comune a tutti – come sta scritto – e nessuno dica o pretenda qualche cosa come sua.»
Se ci si accorge che qualcuno è portato a questo tristissimo vizio, lo si ammonisca una
prima ed una sec onda volta; e se non si emenda, subirà la correzione”
Come vedremo le disposizioni di questo Capitolo, verranno abilmente “aggirate”, in
particolare nella fase nascente e successivamente un quella matura del feudalesimo (X -
XII sec), attraverso la pratica delle “donazioni” grazie alle quali il mondo monastico diverrà
una vera e propria potenza economica che porterà ad una vera e propria degenerazione
nella successiva fase delle assegnazioni “commendatarie” dei Monasteri stessi nel corso
dei secoli XIV – XVII.
Dal punto di vista dell’evoluzione storica, sappiamo che l’espansione a macchia d’olio
della RB, con la conseguente nascita di un gigantesco reticolo di Monasteri in tutto il
continente europeo, fu il frutto di un’abile accordo fra la dinastia Carolingia e gli ambienti
benedettini.
Si deve, in particolare, all’azione congiunta di Ludovico il Pio e S. Benedetto d’Aniàne se,
fra l’816 e l’817, la RB venne di fatto imposta come “unica” Regola vigente nei Monasteri
del Sacro romano Impero. Tale diffusione determinò la parallela estensione in tutto il
vecchio continente non solo di eguali comportamenti liturgici, ma soprattutto di identiche
modalità operative in campo economico – produttivo.
Opportunamente, ad esempio, Jacques Attali ha fatto notare come sia venuta mutando in
tutt’Europa la concezione del tempo grazie al fatto che ogni Monastero segnalava la
scansione delle proprie ore liturgiche e lavorative, attraverso il suono delle campane le
quali, a loro volta, venivano ascoltate dai rustici dei villaggi circostanti i quali, lentamente,
impararono anch’essi a scandire la propria giornata modellandola su quella del mondo
monastico20.
Il tempo si fece “ciclico” per tutta la società alto medievale, ed anche i laici si riconobbero
nella grande suddivisione liturgica del cristianesimo che di anno in anno si ripeteva
sempre uguale a se stessa: Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua. Una suddivisione che
20
Cfr, Jacques Attali «Storie del tempo» Milano, Spirali Ed., 1983. Con part. rif. alla parte “Conventi e clessidre” pagg. 57 – 67.
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ben s’intrecciava con il ciclico ripetersi delle stagioni che faceva da perno generale ad una
società essenzialmente agricola21.
***
A questo punto è opportuno chiudere ogni ulteriore approfondimento sulla RB e sulla sua
prima fase applicativa, tema che ci porterebbe troppo lontano e richiederebbe l’analisi
incrociata di molti Capitoli.
È il momento di concentrare l’attenzione sull’evoluzione delle vicende del grande corpo
monastico benedettino affrontando la questione della nascita delle Congregazioni e dei
diversi Ordini ciascuno dei quali ha sviluppato, da un’intuizione iniziale del fondatore, una
propria peculiarità non solo dal punto di vista del “carisma” religioso, ma soprattutto nella
definizione di uno stile di vita che ha prodotto differenti scelte architettoniche ed
economico – produttive riverberatesi nell’interscambio con l’economia del territorio
d’insediamento o d’irradiazione.
3. UNITÀ NELLA DIVERSITÀ: GLI ORDINI E LA UNA NUOVA ECONOMIA
L’assestamento sociale, istituzionale, organizzativo e militare che era iniziato con la
dinastia Carolingia22 (VIII sec.), proseguirà in forme sempre più definite dopo il giro di boa
segnalato dall’anno Mille.
Il pensiero economico lungo tutto l’alto medioevo valutò l’attività produttiva attraverso
l’ottica della compatibilità con gl’ideali teologici e religiosi, nell’ambito concettuale di una
subordinazione dell’economia alla morale cristiana23 ragion per cui mancava un vero e
proprio pensiero economico sistematico.
Vennero riprese vaghe idee dei padri della Chiesa, in particolare Clemente Alessandrino,
Tertulliano, Cipriano e Lattanzio uniti da un unico comun denominatore: la strumentalità
della ricchezza e l’uso strumentale dei beni. Sarà solo a partire dal XIII secolo, quindi nel
delicato crinale fra alto e basso medioevo, che s’assisterà al rifiorire di una riflessione
economica sollecitata dalla novità del movimento francescano, su cui faremo un cenno
proprio nella parte conclusiva di questo lavoro, e che troverà in Piero Giovanni degli Olivi il
suo migliore e fecondo esponente, ed all’Ordine domenicano (del quale pure ci
occuperemo brevemente in fase conclusiva) che avrà il suo pensatore economista in
Tommaso d’ Aquino.
Prima del 1000, però, le cose erano ancora ferme. Sarà solo dopo il giro di boa segnato
emblematicamente da tale data che l’economia comincerà a decollare grazie a molteplici
innovazioni: dalla rotazione delle seminagioni, all’introduzione dell’aratro con vomere ed
un nuovo tipo di collare a trazione da applicarsi ai buoi senza che corrano il rischio di
21
Dal punto di vista iconografico una visione della scansione temporale dei mesi in relazione alle attività agricole, è offerta dal ciclo di affrescxhi della Torre dell’Aquila del Castello del Buonconsiglio di Trento. 22
Cfr. Paola Guglielmotti «I franchi e l’Economia carolingia» in «Storia medievale» Roma, Manuali Donzelli, 1998.
Pagg. 175 – 202. 23
Lungo tutto l’altomedioevo sia in ambito ecclesiastico che in quello civile sono state attive tendenze teocratiche,
rappresentate inizialmente da Sant’Agostino («De civitate Dei») e che raggiunsero l’estremizzazione ierocratica con
Egidio Romano («De potestate ecclesiastica», 1301) e Giacomo da Viterbo («De Regime christiano» 1301) mentre
saranno criticate da Marsilio da Padova e Gugliekmo di Ockham. Con la conclusione della “lotta per le investiture”
(1122) il tentativo primaziale della Chiesa verrà ridimensionato. Cfr. Renate Ute-Blumenthal «La lotta per le
investiture. Appendice bibliografica di Matteo Villani» Napoli, Liguori, 1997.
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strozzarsi; dall’introduzione dei mulini ad acqua, alla forte ripresa della circolazione di
merci e del danaro resa possibile grazie al ripristino di una parte del reticolo viario romano
ed all’uso massiccio dei grandi percorsi fluviali, in particolare nel centro Europa (Reno,
Danubio, Mosa, Senna, Garonna ecc.)24.
Fra IX e XII secolo, comunque, il mondo monastico si troverà ad essere, a volte senza
volerlo, in altri casi scientemente, il cuore ed il volano di questa rinascita culturale ed
economica da un lato perché implicitamente la RB permette la costituzione di proprietà, in
quanto funzionale al sostentamento comunitario e non all’arricchimento del singolo;
dall’altro lato, il rifiuto della proprietà invece era esplicitamente presente nel dettato della
RB ma, in tal caso, chiaramente riferito al singolo monaco e non già all’istituzione
monastica nella sua accezione più ampia, tanto più, come acutamente osserva Ludo Mills,
che «…tra l’altro, nel medioevo, la parola “povero” non connotava direttamente una
persona priva di beni, bensì una ininfluente o priva di potere. E dato che ai monaci non
era neanche consentito di “…disporre liberamente del proprio corpo…” (Capitolo LVIII) il
monaco non poteva che essere povero”25».
Anche se i beni d’un novizio proveniente da famiglia altolocata o le ampie donazioni
territoriali da parte dei potenti, in teoria sarebbe stato opportuno fossero redistribuiti ai
poveri, in breve tempo la prassi generale che invalse fu quella di considerare qualsiasi tipo
di donazione come una sorte di “dote” da incamerare nell’ambito dei beni del Monastero
giustificando tale scelta con la necessità di dover sostentare per tutta la vita sia il singolo
monaco che la comunità, tanto più in una fase come quella altomedievale in cui il numero
di monaci era in costante crescita poiché migliaia di persone prive d’ogni tipo di risorsa
finivano con l’entrare nei Monasteri, o vi lasciarono la prole, sapendo che vi sarebbero
stati accolti senza molta fatica né controllo sull’esistenza o meno della vocazione.
3.1. CLUNY: PRIMO ESEMPIO DI ECONOMIA MONASTICA ORGANIZZATA
Il Monastero di Cluny nacque l’11 settembre 909 o 910 per opera di Guglielmo, conte di
Macôn e Duca d’Aquitania, ma titolare di molte altre contee fra Linguadoca e sud della
Borgogna.
La storia del Monastero più importante di tutto il medioevo è stata scritta più volte e con
alterne chiavi di lettura26 e nell’arco dei 256 anni intercorrenti fra la data fondativi ed il
1166, anno in cui il re di Francia Luigi VII entrerà a Cluny decretando l’inizio del suo
declino, si è prodotta la piùà grande e significativa mutazione organizzativa dell’intera
storia del monachesimo occidentale.
Lentamente Cluny si trasformò, da semplice Monastero locale, in una potenza
sopranazionale con una ramificazione di priorati, Abbazie e Monasteri che finì col
punteggiare tutta l’Europa cristiana altomedievale.
Ne nacque un vero e proprio Ordine: i monaci vestivano l’abito nero; ogni singolo priorato
o Monastero doveva non solo essere autosufficiente economicamente per se stesso, ma
versare anche una quota di surplus della propria produzione o delle proprie “entrate” alla 24
Cfr. Chris Wichham «Economia altomedievale» in in «Storia medievale» Roma, Manuali Donzelli, 1998. Pagg. 203 –
226. 25
Cfr. Ludo Mills «Monaci e popolo nell’Europa medievale» Torino, Einaudi, PBE, 2002. Pag. 26. 26
Cfr. Glauco Maria Cantarella «I monaci di Cluny» Torino, Einaudi, 1993.
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“casa madre”. L’Abate di Cluny, ad un certo punto, divenne talmente importante da
esserre definito “l’Abate degli Abati”, posto al vertice di una struttura piramidale modellata
a similitudine della società laica esterna e considerato secondo solo al Papa.
Questa gigantesca struttura poté nascere, proliferare e ramificarsi grazie al fatto che
Guglielmno d’Aquitania ebbe l’accortezza di far scrivere nel documento fondativo che “…i
seguenti beni di mia legittima proprietà trasmetto dalla mia signoria a quella dei Santi
Apostoli Pietro e Paolo, e cioè la villa di Cluny, con la corte e la parte domenica e la
cappella che vi è…con tutte le pertinenze, vale a dire, cappelle, servi dei due sessi, vigne,
campi, prati, boschi, acque e corsi d’acqua, mulini, vie d’accesso e d’uscita, colto ed
incolto nella loro interezza….Stabilisco con questo dono che a Cluny sia costruito un
Monastero di regolari in onore dei Santi Pietro e Paolo, e che ivi si raccolgano monaci che
vivono sotto la Santa Regola di Benedetto, che i suddetti beni in perpetuità possiedano,
tengano, abbiano ed ordinino…”27; la “genialità” di questa scelta sta nel fatto che, ponendo
la fondazione di Cluny sotto la diretta potestà degli Apostoli Pietro e Paolo, la si
consegnava ed assegnava direttamente alla Santa Sede romana, il che consentì a Cluny
di essere totalmente e permanentemente autonoma da qualsiasi potentato locale o
intromissione da parte di laici di qualsivoglia territorio.
Ma è dal punto di vista economico – organizzativo che i cluniacensi diedero vita alla prima
vera struttura economica di dimensione europea nell’ambito dell’economia
dell’autosufficienza monastica. Seguendo il percorso illustrato dal Cantarella, si potrà
constatare come ciascuno dei 10 Abati28 che si succederanno nei 256 anni di nascita,
apogeo e decadenza cluniacense, si mossero accortamente per estendere quanto più
possibile le proprietà non solo della “casa madre” ma di ciascuna delle centinaia e
centinaia di pertinenze che venivano via via acquisite da ciascuno dei Monasteri
dipendenti. Sotto l’abbaziato di Ugo di Semour (1049 – 1109), la crescente influenza
economica, finì col produrre, inaspettatamente e certo senza che fosse prevista,
un’innovazione in campo liturgico che segnò una svolta epocale nella storia della
Congregazione ponendo le basi per la modifica sostanziale dei rapporti economici posti
alla base dell’esistenza stessa di questa esperienza monastica.
Avvenne che la maggior parte dei “donatori” che lasciavano a Cluny ed alle sue
dipendenze sparse in tutt’Europa terre, servi, lasciti in danaro, prebende, usufrutti
chiedevano in cambio che i monaci pregassero insistentemente per le loro anime o per
dei loro consanguinei. Questa novità costrinse sia la “casa madre” (Cluny) che tutte le altre
migliaia di dipendenze sparse per l’Europa, a doversi impegnare, improvvisamente,
principalmente dell’attività liturgica dedicando la totalità del loro tempo più alla preghiera
che al lavoro: si istituì la pratica delle cosiddette “laus perennis” (preghiere peramenti) che
implicavano la rotazione continua dei monaci nella celebrazione incessante di messe,
preci, cerimonie di ogni genere che non avevano mai interruzione né di giorno, né di notte.
27
Il testo integrale del documento è in Glauco Maria Cantarella «I monaci di Cluny», op.cit. pag. 13 – 15. 28
Per una cronolgia complessiva della storia cluniacense dalla fondazione al 1116 si veda la tavola cronologica in
“Appendice” al citato lavoro del Cantarella, pagg. 319 – 322. Per una biografia dei più importanti Abati cluniacensi, in
particolare quelli assurti agli onori degli Altari, si veda il lavoro, seppure di “taglio” decisamente agiografico di
Raymond Oursel «Il segreto di Cluny. Vita dei Santi Abati di Cluny da Bernone a Pietro il Venerabile (910 – 1156)»
prefazione di Inos Biffi. Milano, Jaca Book, 2001.
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In tal modo, però, venne a cadere uno dei capisaldi della RB:: il rapporto fra lavoro e
preghiera, il ben noto “ora et labora”29.
Questa nuova procedura, mai vista in precedenza, vedeva “esaltato “ il ruolo religioso ma,
nel contempo, dal punto di vista della struttura economica, creò l’esigenza di affidare ad
altri il lavoro manuale al posto dei monaci chiamati a svolgere di fatto solo ed
esclusivamente il compito liturgico.
Si finì, per questo, con l’affidare ai rustici della zona il compito di coltivare terre, vigne,
agrumeti, far funzionare i molini, produrre il pane e quant’altro fosse compatibile con la
realtà organizzativa di ogni singolo priorato o Monastero.
In pratica – esattamente com’era in uso per il potere laico – anche il reticolo monastico si
trasformò rapidamente in una struttura che dava lavoro ed i contadini, in specie dopo l’VIII
secolo, secondo l’uso feudale, finirono col diventare “servi dei Monasteri” esattamente
come tutti gli altri sottoposti alla servitù feudale di matrice “laica”. Si giunse, lentamente ma
progressivamente, anche ad accettare l’idea che i Monasteri ed i priorati potessero
affittare i terreni ricavandone in cambio il pagamento delle decime, adottando l’identica
procedura in atto da parte dei “potentiores” signorili.
In altri termini: dedotto quanto andava obbligatoriamente alla “casa madre”, o in termini di
danaro o di surplus produttivo, la quota restante delle entrate monetarie o delle produzioni
sarebbe stata utilizzata per l’autostentamento della singola comunità religiosa; un’altra
parte sarebbe servita per assicurare il minimo vitale ai lavoranti, molti dei quali, si noti,
erano ben lieti di essere posti sotto il giogo monastico piuttosto che sotto quello, ben più
pesante, dei potentati laici; infine una parte, ancor più residuale, sarebbe stata, ove
possibile, consegnata ai poveri quantomeno per dare un’ultima parvenza d’applicazione
della RB.
Questo tipo di organizzazione avrà modo di consolidarsi lungo nei successivi 13 anni
(1109 – 1122) intercorrenti fra la morte dell’Abate Ugo di Semour e l’ascesa e la gestione
dell’abbaziato da parte del controverso ed ambiguo Ponzio di Melgueil30, finché - guarda
caso nello stesso 1122 in cui si giungerà alla stipula del Concordato di Worms, grazie al
quale si chiuse formalmente la lotta per le investiture che aveva opposto la Chiesa
all’Impero - il ruolo di Abate verrà assegnato a Pietro di Montoboissier che verrà (ancora in
vita) denominato “Pietro il Venerabile”.
Molto si è scritto sui di lui che è riconosciuto, a buon diritto, il personaggio che segna
l’apice della cultura e dell’organizzazione cluniacense31 sia dal punto di vista religioso che
economico.
Prestando attenzione solo a quest’ultimo aspetto, proprio Leclercq sente il bisogno di
dedicare un paragrafo della biografia dell’Abate cluniacense, proprio al suo ruolo di
organizzatore, definendolo “Un grande economista”32.
29
Merita notare che, a differenza di quel che si crede, tale motto non fu coniato da S. Benedetto ma è accertato che entrò in uso solo dopo il IX secolo per cui fu certamente coniato da qualche altro monaco rimasto tutt’oggi ignoto. 30
A proposito della figura di Ponzio di Melgueil rinvio non solo al già citato lavoro del Cantarella (pagg. 230 – 236) ma anche alle mie ricerche pubblicate dalla Rivista dell’Accademia «Pasquale II». 31
La migliore, e più completa, biografia resta quella del grande storico benedettino Jean Leclerq ed. it.: «Pietro il
venerabile» prefazione di Inos Biffi, Milano, Jaca Book, 1991. 32
Jean Leclerq ed. it.: «Pietro il venerabile» op cit. pagg. 122 – 124..
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Tale definizione trae origine dal fatto che tra il 1025 ed il 1048, quindi ben prima di
diventare Abate, Pietro il Venerabile aveva contribuito a tentate di raddrizzare la barca
cluniacense che economicamente faceva acqua, redigendo una nuova formulazione degli
«Statuta», i quali erano una sorta di raccolta degli usi e consuetudini stratificatisi nei secoli
al di sopra della RB.
Una volta divenuto priore generale e poi settimo Abate, carica che ricoprirà dal 1122 al
1156, anno della sua morte, Pietro decise di rivedere la macchina operativa cluniacense
stendendo la «Disposizio rei familiaris cluniacensis» (“Disposizione sulla famiglia
cluniacense”), ed è in quest’ultimo testo che troviamo la versione più limpida e chiara delle
difficoltà organizzative, e nel contempo la descrizione vivace, della nuova organizzazione
che Pietro il venerabile impresse al più grande complesso economico dell’alto medioevo.
Scrive Pietro: “…Querllo che ho fatto per le cose spirituali ora lo faccio anche per
l’interesse materiale dei monaci…Quando sono stato elevato, ventisei anni or sono, a
questa carica di Abate, ho trovato una Chiesa grande, religiosa, illustre, ma assai povera
rispetto ai suoi immensi compiti; le spese erano considerevoli; le entrate, paragonate alle
spese, quasi nulle. I fratelli della sola casa madre erano quasi trecento e la casa poteva
mantenerne a proprie spese a mala pena cento. Sempre vi era una folla di ospiti ed un
infinito numero di poveri bussavano al portone. L’annona proveniente dai decanati bastava
a malapena per quattro mesi, a volte nemmeno tre; il vino raccolto da ogni parte non
durava mai più di tre mesi e, se venduto per ricavare entrate, uno solo. Il pane era scarso,
nero e misto di crusca…il camerario economo solo per l’acquisto di grano spendeva ogni
anno ventimila soldi, senza parlare della altre spese….”33
A fronte di questa situazione Pietro il Venerabile decise di muoversi da economista e non
solo da pastore d’anime: non aumentò le risorse della casa madre; non impose sforzi e
tassazioni alle dipendenze, come avevano fatto in precedenza, con scarsi risultati, Maiolo,
Ugo di Semour e Ponzio di Melgueil, ma decise di ripartirle in maniera diversa, obbligando
a fare altrettanto anche alle sub dipendenze delle sedi periferiche e dei priorati in
tutt’Europa. Scrive Leclercq “…prima di lui si operava alla giornata; capitava allora che i
fratelli, i cui compiti erano mal definiti, fossero sovraccarichi d’impegni, e siccome erano
insufficienti ai propri impegni li compivano malvolentieri. Per esempio il cellerario
distribuiva i vestiti ai fratelli in modo scarso, confuso, talvolta sgradevole: non sempre si
dava a ciascuno secondo il proprio bisogno. Si doveva nello stesso tempo badare alla
carità fraterna ed alla povertà esterna così era importante rimettere tutto in ordine.” 34
Se si esamina il comportamento di Pietro il Venerabile con gli occhi di un moderno
manager, ci si accorge – inaspettatamente – di quanto siano simili le decisioni adottate a
quelle così tipiche dell’odierno capitalismo maturo, poiché egli “…tese a garantire la
regolarità degli approvvigionamenti e ad equilibrare meglio i consumi interni. Ispirandosi
ad un metodo ch’era stato sperimentato fin dall’VII secolo in alcuni grandi Monastero come
Saint-Wandrille o Lobbes, decise che ogni proprietà facesse, ogni mese, una consegna in
33
Jean Leclerq ed. it.: «Pietro il venerabile» op cit. pag. 122.. 34
W. Williams «A great medievaleconomiist: Peter the Venerable» ‘pagg. 37 – 43. cit da Jean Leclerq ed. it.: «Pietro il venerabile» op cit. pag. 123.
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proporzione al suo prodotto, dedotto dai bisogni della propria comunità, Questo regime di
mensilità era quello che offriva la più esatta bilancia tra produzione e consumo.”35
In sostanza, non solo ogni dipendenza cluniacense fu chiamata a versare mensilmente,
fatta salva la propria autosufficienza, una quota alla casa madre, ma quel che più
interessa notare è che tutte le “dipendenze” di Cluny furono chiamate a sopportare le
spese generali secondo le proprie possibilità auto produttive; anzi, come precisa Leclercq,
nell’ultima delle tre stesure della «Disposizio rei familiari cluniacensis» (1054), Pietro
introdusse correttivi e precisazioni alla luce dell’esperienza nel frattempo maturata,
cosicché: “…oltre le proprietà dirette, che fornivano cibo, anche le rendite prelevate dai
Monasteri di Spagna ed Inghilterra, ed altre province dovevano dare il loro contributo; e
designò alcune case che invece di prodotti avrebbero versato un censo per permettere
l’acquisto di tutti i manufatti e gli attrezzi per Cluny…Questi provvedimenti contribuirono a
rinsaldare i vincoli di solidarietà fraterna: le membra tutte sostenevano il capo ed esso
animava le membra. Rendeva loro in beni spirituali, ciò che riceveva in beni materiali:
sublime trasformazione del senso di carità. In entrambi i sensi, in entrata e in uscita, vi era,
all’interno di questo vasto «corpo cluniacense», un’intensa circolazione di beni...36”.
Questo meccanismo da un lato si rivelò funzionale, ma dall’altro mutò radicalmente e
definitivamente la natura dell’esperienza cluniacense, originariamente nata nel solco degli
albori del monachesimo la cui ragione fondante era costituita dalla micro autarchia e
dell’autonomia di autoproduzione.
Commisurando le imposte, siano esse sotto forma di derrate alimentari, vestiario o danaro,
con i proventi e le caratteristiche di ciascun Monastero periferico, forse senza volerlo
coscientemente Pietro il Venerabile finì col determinare la nascita di un vero e proprio
mercato a circolazione interna e, per la prima volta dalla caduta dell’Impero romano
d’Occidente, agendo su dimensione sopranazionale: in pratica si creavano “riserve” utili al
sostentamento di ogni singolo priorato o Monastero; ciascuna realtà territoriale faceva
provenire il surplus alla Casa madre, la quale, a rendiconto, poteva eventualmente
restituire qualcosa a quelle realtà che dovessero improvvisamente trovarsi di fronte ad una
emergenza inattesa come una guerra, un cataclisma naturale o un’epidemia assicurando
anche derrate da utilizzarsi per le mense dei poveri che, a migliaia, si presentavano,
questuanti, davanti ai Monasteri e, nelle domeniche, nei sagrati delle Abbazie collegate ai
cenobi.
Nei 110 anni intercorrenti fra la morte di Pietro il Venerabile (25 dicembre 1156) e l’entrata
di Luigi VII a Cluny (1166), questo sistema economico sopranazionale si affinerà e
potenzierà progressivamente, tanto che la Congregazione cluniacense diverrà tanto ricca
da potersi permettere la fondazione di sempre nuovi priorati o Monasteri, crescenti acquisti
di terre e conseguenti produzioni agricole la cui distribuzione e vendita avveniva grazie ad
una vera e propria “flotta” di barche che portavano i prodotti, acquistati o più spesso
barattati, dalle coste all’entroterra. Si giunse persino ad introdurre una vera e propria
specializzazione e diversificazione nelle produzioni, come dimostra una relazione
cluniacense successiva alla morte di Pietro il Venerabile, studiata da Georges Duby, dalla
quale apprendiamo che: “…alcune dipendenze producevano solo il grano per il pane
35
Cfr. «Pietro il venerabile» op cit. pag. 123, 36
Cfr. «Pietro il venerabile» op cit. pag. 124.
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bianco e per le Ostie Sacre; alcune la segale per il pane per le persone di categoria
inferiore, altre si specializzavano in foraggio, in formaggio, fagioli o vino. Ciascun priorato
diventava l’unico fornitore del suo prodotto per un dato periodo di tempo. Il Monastero di
Lourdon forniva cereali per il pane in febbraio e marzo; Mazille doveva provvedere per
tutta l’avena necessaria ai cavalli e muli di Cluny per una singola notte; July e Saint-
Hippolyte assicuravano i rifornimenti di vino per un mese…”37 .
Prese piede, dopo la morte di Pietro, una concezione da “impero monastico”, che trovò il
suo apice durante l’abbaziato di Odilone (9994 – 1049) che coincise con la massima
acquisizione di donazioni e la crescita abnorme del patrimonio.
La potenza cluniacense si fece visibile anche attraverso l’adozione d’un vero e proprio
“stile architettonico” riferito non solo alle Chiese ma anche alle strutture deputate alle
attività agricole.
La gigantesca struttura dell’Abbazia di Cluny, superiore a ciò che era all’epoca S. Pietro in
Roma, influenzò notevolmente l’intera edilizia romanica del tempo38, tanto che ritroviamo
ovunque in Europa il medesimo stile della Cattedrale della Casa madre; parallelamente gli
edifici non legati alla stretta attività liturgica seguirono la stessa logica seriale: ovunque
furono costruiti in aree pianeggianti e molto estese e vi si prevedevano precisi ambienti
lavorativi legati all’economia, silos per le sementi, stalle, segherie, sartorie, laghetti
artificiali per l’allevamento ittico, luoghi di ammassamento e conservazione della frutta e
degli ortaggi; si eressero foresterie specifiche in caso di visite nobiliar,i mentre all’esterno
delle mura monastiche, entro le quali vivevano solo i monaci, si consentì ai soli lavoranti
dipendenti di costruirsi capanne di legno dai tetti di paglia e sterco di animali, che, col
tempo, sarebbero diventati i primi nuclei di futuri villaggi, con la medesima procedura con
cui, in specie dal IX secolo, sarebbero nati attorno ai castelli feudali grazie all’avvio dei
mercati settimanali che avrebbero fatto da “incubatori” alla nascita delle città fra la fine del
XII e l’inizio del XIII secolo.
In pratica: l’Ordine di Cluny, crebbe e si arricchì costantemente e, come proprietari terrieri,
i Monasteri e gli Abati cluniacensi in tutt’Europa divennero sempre più potenti, costretti
dalle dinamiche oggettive a rispondere alle stesse forze economiche che regolavano il
comportamento dei signori secolari.
Del resto le relazioni fra i due mondi (monastico e laico), e fra ciascuno di essi e la realtà
circostante erano molto simili, tranne per il fatto che l’economia feudale, o curtense, le cui
basi erano state delineate già in epoca carolingia39, non solo non puntava
all’autosufficienza ma non aveva alcuna ambizione sovra territoriale. Almeno fino alla metà
del XII secolo ciascun ducato o contea signorile non guardava oltre il proprio territorio e si
37
Georges Duby «Un inventaire des profits de la seigneurie clunisienne à la morte de Pierre le Venerable» in «Petrus
Venerabilis 1156 - 1956» a cura di G. Costable e J. Kritzek «Studia Anselmiana» n. 40, Roma, 1956, pag. 128 – 140. 38
Per una disamina dell’architettura cluniacense restano fondamentali le opere di F. Conant….Si ritrovano caratteristiche nettamente cluniacensi nelle Chiese dei Monasteri di tutt’Europa, ad esempio a: Saint-Philibert di Turnus
(Borgogna), di Mont Saint-Michel (Bretagna), Hirasu (Foresta Nera in Germania), Romainmôntier (Giura Svizzero),
San Polirone di Po (Italia). 39
Cfr. Enzo Marigliano «Il capitulare de Villis», con prefazione di Paolo Cammarosano. Udine, Paolo Gaspari Editrice, 2012. [il libro sarà in commercio dal mese di ottobre]
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confrontava con le difficili condizioni della domanda e dell’offerta in un’economia ancora
embrionale ed asfittica e non certo regolata ed organizzata come quella monastica40.
Ad un certo punto, però, la ricchezza e l’espansione terriera inevitabilmente cominciarono
a mettere in crisi gli spiriti mistici che si erano votati alla scelta monastica, i quali, volendo
ritrovare lo spirito pauperista delle origini, sentirono crescere il fastidio nei confronti di
questo palese “allontanamento” dalla purezza originaria della RB e diedero luogo ad una
“scissione” che condusse alla nascita d’un nuovo Ordine monastico che imposterà una
struttura economico – produttiva del tutto nuova ed originale sotto tutti i punti di vista e tale
da segnare indelebilmente tutto il medioevo dal XII secolo in poi.
3.2. CÎTEAUX ED I CISTERCENSI: DALLE “GRANGE” ALLA “FILIAZIONE”
La polemica che si sviluppò in seno alla famiglia cluniacense trovò un suo momento
catalizzante e decisivo fra il 1097 ed il 1098.
Da tempo si erano levate voci che chiedevano il ritorno alle origini, alla “puritas”
benedettina originaria, ma erano rimaste voci isolate, finché trovò un punto di riferimento
in alcune “idee forza” che cominciarono a circolare auspicando una decisa riforma del
mondo monastico: il ritorno alle fonti ispiratrici, in specie alla RB; il ritorno alla povertà
come stile di vita; il ritorno alla solitudine (“nudos amat eremus” = il deserto ama coloro
che non hanno nulla); la ricerca d’una nuova organizzazione che scongiurasse
l’arricchimento realizzatosi con l’esperienza cluniacense.
Fu fra le mura di un piccolo Monastero fondato nel 1075 nella foresta di Molesme, che il
dibattito e la riflessione sulle “distorsioni” dell’esperienza cluniacense, si fece stringente
grazie alla contemporanea presenza di tre figure intellettualmente rilevanti e dalle forti
caratteristiche carismatiche: l’Abate fondatore, Roberto; il priore Alberico ed il monaco di
origine inglesi Stefano Harding.
Dopo anni di confronti interni, il 21 marzo 1098, giorno della festa di S. Benedetto, i tre,
seguiti da altri 18 confratelli, ottenuta la dispensa dal Vescovo e legato pontificio Ugo di
Lione e del Vescovo Gualtieri di Chalon, lasciarono Molesme per edificare una nuova
struttura monastica, in una zona paludosa e malsana donata loro dal Visconte Renaud di
Beaune. La nuova fondazione, fatta solo di poche capanne di legno, fu chiamata
semplicemente e banalmente “Novum Monasterium” ma, negli anni successivi, sarebbe
stata conosciuto in tutta l’Europa cristiana dal nome della palude ove era insediata:
“Citeaux”.
Non è questa la sede per trattare diffusamente la storia dei fondatori, né, tanto meno,
quella dell’Ordine cisterciense41, argomenti che ci porterebbero troppo lontano rispetto
40
Per una attenta, anche se ormai datata, indagine sull’evoluzione dell’economia fra alto e basso medioevo restano
fondamentali: Henri. Pirenne «Maometto e Carlomagno», Roma – Bari, Laterza, 2010.. Johann Huizinga «L’autunno
del medioevo» Roma, Newton Compton, 1998. 41
La sterminata bibliografia sull’argomento richiede un’impietosa sintesi assolutamente orientativa e tale da suggerire esclusivamente testi “di base”. Mi permetto di suggerire: M. Raymond «Tre frati ribelli. Storia e avventura dei
fondatori dei monaci bianchi» Roma, San Paolo, 2006. Claudio Stercal «Stefano Harding. Elementi biografici e testi»
Milano, Jaca Book, 2001. Louis L. Lekaj «I Cistercensi. Ideali e realtà» Pavia, Certosa di Pavia, 1989. Terryl N.
Kinder «I Cisterciensi. Vita quotidiana, cultura, arte» Milano, Jaca Book, 1998. «Le origini cisterciensi. Documenti»
[A cura di Claudio Stercal e Milvia Fioroni] Milano, Jaca Book, 2004. Léon Pressourye «I cisterciensi e l’aspirazione
all’assoluto» Roma – Parigi, Universale Electa/Gallimard, 1999. Una sintesi anche nei capitoli “Agli esordi di Cîeaux:
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all’argomento centrale di questa ricerca; limitiamoci a dire che gli albori del “Novum
Monasterium” furono effettivamente corrispondenti agli ideali di povertà, ascetismo e
isolamento dal mondo che erano stati alla base della separazione dei 21 da Molersme e
dall’ordine cluniacense.
Questo primo “esperimento rinnovatore”, come pure gli altri esperimenti riformatori che si
svilupperanno fra XI e XIII secolo, sono resi possibili da una sorprendente libertà e varietà
di interpretazioni del testo della RB; in sostanza, come sottolinea lo storico cistercense,
padre Louis Lekaj, “…la maggior parte dei riformatori, pur professando un’altissima fedeltà
alla Regola, la interpretarono, senza lasciarsi prendere da scrupoli ermeneutica…”42 e
sarà proprio nella questione della gestione economica ed organizzativa che si
delineeranno le più significative articolazioni e differenziazioni , da cui nasceranno i diversi
Ordini che si distingueranno, gli uni dagli altri, a partire da queste tematiche.
Nel corso della prima fase di vita del “Novum Monasterium” si giunse persino ad un passo
dalla fine dell’esperimento43. Il secondo Abate, Alberico, mémore della ragione per cui
Cluny ebbe totale autonomia dai potentati laici, si diede da fare fino a quando, nel 1100,
ottenne dal Papa Pasquale II la diretta protezione della Sede apostolica44, mentre il 16
novembre 1106 il Vescovo Gualtieri di Chalon consacrò la nuova Chiesa in luogo scelto
appositamente leggermente a sud dell’originaria fondazione del 1098.
Il terzo Abate, Stefano Harding (abate dal 1109 al 1134), conobbe a sua volta pesanti
difficoltà economiche poiché si mantenne nella convinzione che la proprietà fondiaria
originaria, che comunque era d’estensione e qualità mediocre, dovesse restare immutata,
pur sapendo che non bastava ad assicurare il sostentamento della pur esigua comunità:
non casualmente Stefano Harding scrisse: “…temo che l’istituzione sorta con noi termini
con noi.”45
Il vento mutò nel 1112 allorché un giovane di 22 anni – Bernardo di Fontaine – si rivolse a
Cîteaux assieme ad uno stuolo di 30 giovani delle migliori famiglie della Borgogna, fra i
quali 4 suoi fratelli e 2 zii materni: tutti chiesero di farsi monaci determinando, così, la
svolta per il piccolo e quasi morente “Novum Monasterium” che ebbe l’immissione di tali e
tante nuove forze vitali.
Saranno loro - ed in particolare Bernardo – a segnare la storia successiva dei cistercensi.
Imporranno l’abito bianco per distinguersi dai cluniacensi e per il popolo questo semplice
atto sarà il segnale chiaro di una “rottura” simbolica con il passato dei monaci “neri” vissuti,
a torto o ragione, come arricchitii e lontani dallo spirito della RB.
Roberto di Molesme e Alberico” (pagg. 307 – 322); “Stefano Harding e il modello cistercense” (pagg. 323-350); “La
fase di transizione dei cistercensi” (pagg. 351 – 360) e “Bernardo di Clairvaux: un’altra frontiera della cristianità”
(pagg. 361 – 386) del già cit. E. Marigliano – M. Zorzin «Medioevo in Monastero» op.cit. 42
Cfr. Louis L. Lekaj «I Cistercensi. Ideali e realtà», op.cit, pag. 13. 43
Roberto di Molesme, a seguito di una trama ordita contro di lui dai vecchi confratelli da cui si era allontanato, venne “richiamato all’ordine” e costretto dai superiori a rientrare nella struttura cluniacense e sembra che a Cîteauxfossero
rimasti solo 8 monaci. Le vicende delle origini cistercensi sono ricostruite sia dell’«Exordium parvum», dell’«Exordium
Magnum».e soprattutto della «Chsrta caritatis» e degli«Eclesiastica Officia» che sono, nell’insieme, i testi base per la
comprensione della vicenda cistercense tutti rintracciabili sia dal Lekaj che dai documenti originali offerti dal lavoro
«Le origini cisterciensi. Documenti» ove il lettore troverà il testo originale latino e la traduzione italiana 44
Ho esaminato questo tema nel mio «I rapporti fra papato e monachesimo attraverso il confronto di tre documenti di
Pasquale II» in «Studi medievali» Pordenone, ed. Omino Rosso, 2008, pagg. 49 – 74. 45
Cfr. . Léon Pressourye «I cisterciensi e l’aspirazione all’assoluto» op.cit. pag. 26.
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Per evitare il riprodursi della struttura “piramidale” che aveva caratterizzato l’intera vicenda
storica cluniacense e nel contempo per impedire che nascessero Monasteri il cui numero
di monaci determinasse l’impellente necessità di iper produzione economica, fu adottato
un concetto mai visto in precedenza: la “filiazione”.
In pratica, ogni qual volta un nucleo di monaci (almeno 12) volesse dar luogo ad un nuovo
insediamento monastico per mantenere vivo lo spirito originario della riforma anti
cluniacense, l’Abate del Monastero di appartenenza, convocato il “Capitolo”, consentiva la
“diaspora” che dava luogo alla nascita d’un nuovo insediamento; si determinava, così, un
flusso continuo di irradiazione e nascita di nuovi centri monastici che, di filiazione in
filiazione, favorivano l’allargamento del nuovo Ordine evitando, però, il ripetersi
dell’esperienza, tutta centralizzata e piramidale, base del modello cluniacense. Tale
diaspora verrà chiamata “sciamatura”, a similitudine del vagabondare degli sciami di api
impegnati a fondare sempre nuovi alveari.
Nel giro di un pugno di anni da Cîteaux “filiarono” le prime quattro nuove fondazioni: La
Ferté (1114); Pontigny (1114); Clairvaux (1115) e Morimond (1115).
Da ciascuna di queste quattro sedi nei decenni successivi si dirameranno, di filiazione in
filiazione, decine e decine di nuovi Monasteri in tutt’Europa, anche se la più famosa
resterà Clairvaux grazie al fatto che il primo Abate sarà proprio S. Bernardo e
La prova di questo originale, ed inedito, percorso è oggi identificabile dalla toponomastica
di tutto il continente: in Italia, ad esempio, Chiaravalle milanese e Chiaravalle della Fiastra
derivano entrambe da Clairvaux; Morimondo milanese deriva da Morimond e via dicendo.
Tutte le Chiese cistercensi furono obbligatoriamente dedicate al culto della Vergine,
mentre per i nomi delle nuove fondazioni, oltre che dalla derivazione della “casa madre” di
partenza dei fondatori, si scelse il metodo di desumerlo dalla descrizione dei luoghi
d’insediamento; è così che la bellezza delle valli ha dato nome ad insediamenti
cistercensi come Bonnecombe, Bellecombe, Bellevaux, Bonnevaux, Valbonne e
Valbuena; la freschezza delle acque vicine ai siti prescelti ha dato nome a Monasteri come
Fontfroide, Fontanafredda, Acquafredda, Fontenay, Fontane, Fountains, Bellaigue,
Aiguebelle, Aquaformosa; l’orrore degli stagni si esprime in Noirlac; la vastità delle foreste
in Grandselve, che contrasta con la ristrettezza dei fondovalle segnalata da nomi come
Liecroiussant, Valcroissanta, L’Escale-Dieu.
La grandiosa utopia ecologista ed autarchica dei Padri del deserto sembrò trovare una
nuova vitalità persa dai secoli dell’esperienza cluniacense.
Riprese slancio e centralità nella giornata monastica il lavoro manuale, tanto che i
Cistercensi sono stati considerati gl’inventori della moderna Europa rurale: dissodarono
terre dall’Armorica all’Elba, dalla Scandinavia all’Andalusia; divennero provetti idraulici
drenando paludi e riscoprendo le tecniche di deviazione dei fiumi usate dagli antichi
romani; accanto a ciascuno dei loro Monasteri non mancherà mai la piscicoltura;
realizzeranno il raddoppio dei rendimenti agricoli e s’impegneranno nella viticoltura.
Accanto ai monaci si accolsero, in numero limitato, quei laici che volessero assumere lo
stile di vita monastico, senza tuttavia pronunciare i voti di promessa solenne: nacque così
la figura dei “conversi” per5 i quali venne stilata una vera e propria “Regola” suppletiva ed
integrativa alla RB, che fu denominata “Usus conversorum”46.
46
Per il testo degli «Usus conversorum» Cfr. «Le origini cisterciensi. Documenti» op.cit.
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Ma il principale risultato che realizzeranno in campo economico sarà la vera e propria
“ideazione” di fattorie modello” mai viste in precedenza cui daranno il nome di “grange”.
Ciascuna di esse verrà edificata con l’idea d’essere essa stessa un’isola d’autosufficienza
posta al di fuori e lontana dal Monastero, di modo che questo restasse esclusivamente
luogo di preghiera e di vita dei monaci, i quali nell’arco della giornata erano impegna