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Orchestra Haydn di Bolzano e Trento George Pehlivanian direttore Stefano Bollani pianoforte Gershwin Bollani Copland Stravinskij Torino Auditorium Giovanni Agnelli Lingotto Martedì 15.IX.2015 ore 21

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Orchestra Haydn di Bolzano e TrentoGeorge Pehlivanian direttoreStefano Bollani pianoforte

GershwinBollaniCoplandStravinskij

TorinoAuditorium Giovanni Agnelli Lingotto

Martedì 15.IX.2015ore 21

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George Gershwin(1898-1937)

Rhapsody in blue

Stefano Bollani(1972)

Improvvisazioni su temi di George Gershwin

Aaron Copland(1900-1990)

Appalachian Spring, suite per orchestra

Igor Stravinskij(1882-1971)

L’oiseau de feu, suite dal balletto (versione 1919) Introduzione Rondò delle principesse (Khorovod) Danza infernale di Kaščej Ninna-nanna Finale

Orchestra Haydn di Bolzano e TrentoGeorge Pehlivanian, direttoreStefano Bollani, pianoforte

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A far nascere la Rhapsody in blue fu Paul Whiteman (1890-1967), che dopo un esordio come violinista classico all’indomani della Grande Guerra era divenuto rapidamente famoso per la band da lui creata e diretta, nella quale lo stile sinfonico tradizionale si confrontava e si fondeva con le suggestioni del jazz. Nel 1923 Whiteman chiese a George Gershwin, appena venticinquenne ma già affermato per molte canzoni di successo e importanti musical per Broadway, un pezzo da concerto da eseguire con la sua orchestra. Dapprima Gershwin esitò, poi raccolse l’invi-to e scrisse abbastanza in fretta il lavoro, in una stesura per due pianoforti che fu poi passata a Ferde Grofé, l’arrangiatore di Whiteman, per essere orchestrata. Nel pomeriggio del 12 feb-braio 1924, nel corso di un concerto intitolato An Experiment in Modern Music, Whiteman e la sua Palais Royal Orchestra esegui-rono per la prima volta la Rhapsody in blue all’Aeolian Hall di New York: tra il pubblico molti musicisti importanti, alcuni dei quali decisamente appartenenti al fronte classico, a cominciare da Sergej Rachmaninov. L’orchestrazione era stata realizzata da un altro, la parte del pianoforte solista Gershwin l’aveva in testa ma non l’aveva scritta, persino il glissando iniziale del clarinet-to, oggi leggendario, era entrato nella partitura quando l’aveva improvvisato Ross Gorman, star della band di Whiteman, cui Gershwin chiese subito di inserirlo definitivamente nella par-te. Ma la Rhapsody evidentemente c’era, e il successo di quella prima non si sarebbe spento mai più, riflettendosi in milioni di dischi venduti e connotando Gershwin come la figura emergente di una musica degli States che ancora sembrava cercare se stes-sa, in un dibattito fra l’aspirazione a una cultura nobilmente eu-ropea e l’autoctona e immediata civiltà del jazz, per tacere della spigliata e floridissima industria del musical che solo un uovo di Colombo come quello poteva risolvere una volta per tutte. Prima e dopo la morte di Gershwin, Grofé ritoccò la partitura, in origi-ne destinata ai 23 elementi della band di Whiteman, portandola alla dimensione decisamente sinfonica con la quale il mondo ha imparato ad amarla. Concepito a episodi, come indica il titolo stesso di Rapsodia, questo capolavoro è in realtà solidamente tenuto insieme dall’impiego di pochi temi principali, sottoposti via via a trasformazioni anche assai significative fino a raggiun-gere un profilo melodico di estrema varietà. Frutto di un’inven-tiva spontanea, prossima all’improvvisazione, è però anche il prodotto di un compositore assai più meditato e sistematico di quanto la sua storia precedente non lasci sospettare. Quel con-certo del 1924 segnò l’inizio di una carriera di musicista “serio” che avrebbe collocato Gershwin anche nel repertorio di direttori

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quanto mai tradizionali, a cominciare da Arturo Toscanini, in-sediandolo fra i grandi del Novecento accanto a compositori ben più difficili, da Igor Stravinskij a quell’Arnold Schönberg, padre della dodecafonia, che l’avrebbe commemorato con ammirazio-ne e affetto al momento di una scomparsa troppo precoce.

Proprio nel segno e nello spirito di Gershwin, Stefano Bollani completa la sua partecipazione di solista a questo concerto con le sue improvvisazioni, ripetendo la miscela inconfondibile di estro e cultura, di musicalità e di senso dello spettacolo che ha fatto di lui una personalità fra le più vive e uniche di questi anni.

Ballet for Martha: Aaron Copland in origine aveva pensato di intitolare semplicemente così la partitura scritta fra il 1943 e il 1944 per Martha Graham e la sua Dance Company. A sua volta Martha Graham aveva ricevuto dalla mecenate Elizabeth Sprague Coolidge la commissione di creare un balletto che rap-presentasse uno spirito autenticamente americano e aveva dato a Copland alcune indicazioni di massima: «Un apologo di vita americana, qualcosa come uno scheletro, la struttura interio-re che dà l’unità di un popolo». Copland aveva capito al volo: «Dopo che Martha mi ebbe dato questa nuda traccia, capii al-cune cose fondamentali: che avrebbe dovuto trattare lo spirito dei pionieri americani, la giovinezza e la primavera, l’ottimismo e la speranza». L’azione descrive l’insediamento di due sposi in una fattoria appena costruita, sulle colline della Pennsylvania nella prima metà dell’Ottocento: interagiscono con loro i vicini e un predicatore attorniato dai suoi fedeli, nel clima generale del risveglio religioso e dei valori primari di un’America rurale e protesa verso il futuro. Fu poi Martha Graham a suggerire il titolo, ricavandolo da un verso della poesia The Dance, di Hart Crane, per condensare il senso della vicenda nel riferimento alla primavera negli Appalachi. La Fondazione Coolidge si occupava soprattutto di musica da camera, e lo spettacolo era pensato per uno spazio relativamente ristretto: Copland scrisse quindi la ver-sione originale di Appalachian Spring per tredici strumenti. In questa versione il balletto andò in scena il 30 ottobre 1944 all’Eli-zabeth Sprague Coolidge Auditorium della Library of Congress, a Washington, con Martha Graham stessa nel ruolo della Sposa, Erick Hawkins in quello dello Sposo, e un altro futuro grande del-la Modern Dance, l’allora venticinquenne Merce Cunningham, in quello del Predicatore. Nel 1945 Copland, che per questo la-voro ricevette il Premio Pulitzer, su richiesta di Artur Rodzinski ricavò dal balletto una suite sinfonica, utilizzando circa due terzi

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della partitura ed estendendo la strumentazione a un norma-le organico orchestrale. Eseguita per la prima volta dallo stesso Rodzinski con la New York Philharmonic il 4 ottobre 1945, la suite da Appalachian Spring da allora è familiare al pubblico di tutto il mondo, come immagine fra le più tipiche e felici della musica americana del Novecento, forte di una comunicativa me-lodica immediata (di cui è simbolo la citazione ed elaborazione di Simple gifts, un popolarissimo inno religioso dell’Ottocento) e di una poesia di atmosfere delicata e aurorale.

È un ragazzo di ventotto anni appena compiuti, il compositore che la sera del 25 giugno 1910 all’Opéra di Parigi balza all’ono-re delle cronache per il grande successo della musica che ha scritto per L’oiseau de feu, balletto fantastico in due quadri di Mikhail Fokine. Sergej Djagilev, l’impresario dei Ballets Russes, ci ha visto giusto, scegliendo un giovane ancora sconosciuto, dopo aver ascoltato a San Pietroburgo le uniche partiture vera-mente importanti finora da lui prodotte, lo Scherzo fantastico e Fuochi d’artificio: dapprima gli ha affidato l’orchestrazione di alcuni pezzi di Chopin per la sua stagione, ma presto è arrivato a commissionargli la musica per il grande balletto ispirato a una delle fiabe popolari russe più celebri. Domani ne parleranno i giornali: e da domani Igor Stravinskij sarà qualcuno, in patria ma soprattutto in campo internazionale, imponendosi rapida-mente fra i protagonisti della vita musicale del Novecento. Il soggetto dell’Uccello di fuoco era quanto mai adatto a dare al pubblico occidentale quell’immagine favolosa e orientale che agli occhi di molti si identificava con il nome stesso della Russia: il principe Ivan cattura nel giardino magico del perfido mago Kaščej l’Uccello di fuoco che solo è capace di combatterlo, per poi liberarlo in cambio di una delle sue piume. Incontra poi tredici principesse, prigioniere del mago, e si innamora di una di loro. Riuscirà a sfuggire a Kaščej agitando la piuma lasciatagli dall’Uccello di fuoco, che compare, addormenta tutti cantando una ninna-nanna e spezza l’incantesimo che rende immortale il mago. Tutti sono liberati, il principe e la principessa si spose-ranno. Così Stravinskij, che da buon allievo di Nikolaj Rimskij-Korsakov, mago (buono, però!) fra i più geniali dell’orchestra del tardo Ottocento, stende una partitura addirittura prodigiosa per ricchezza melodica, impiego del colore strumentale, vivacità ritmica, evidenza narrativa. Sarà il trionfo ultimo e massimo della scuola nazionale russa, e al tempo stesso il segno del suo superamento in vista di una modernità problematica e aspra del-la quale Stravinskij sarà fra i protagonisti con gli stessi balletti

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immediatamente successivi, Petruška e La sagra della primavera, composti sempre per Djagilev in quegli ultimi, pochissimi e formidabili anni precedenti la Prima Guerra Mondiale e la fine della vecchia Europa (nonché dell’impero russo). Destinato a un’orchestra enorme, L’oiseau de feu non tardò a conquistarsi un posto di primo piano anche nel repertorio sinfonico grazie alla suite che Stravinskij ne ricavò nel 1911, e ancor più in quella prodotta nel 1919, diversa sia nella successione dei pezzi sia – soprattutto – nell’orchestrazione, sensibilmente ridotta senza perdere niente in fatto di colore ed estroversione dinamica. I cinque pezzi di questa suite sono un’Introduzione di cui è protagonista l’Uccello di fuoco, il Khorovod [danza popolare russa] delle Principesse, l’esplosiva Danza infernale di Kaščej, la Ninna-nanna, forse la melodia più indimenticabile creata da Stravinskij, e il Finale, rutilante e armonicamente opulento a festeggiare la vittoria del bene sul male.

Daniele Spini

L’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento si è costituita nel 1960 su iniziativa dei Comuni e delle Province di Bolzano e di Trento. Il suo repertorio spazia dal Barocco ai contemporanei: in più occasioni autori come Luigi Dallapiccola, Luigi Nono, Luciano Berio, Franco Donatoni, Giorgio Battistelli, Matteo D’Amico e Giovanni Sollima le hanno affidato dei loro lavori in prima esecuzione assoluta.L’Orchestra Haydn ha preso parte a diversi festival internazionali, ap-parendo in Austria, Germania, Giappone, Italia (in numerose sale da concerto, da Firenze a Milano, alla Sagra Musicale Umbra di Perugia, al Rossini Opera Festival di Pesaro, al Maggio Musicale Fiorentino), nei Paesi Bassi, negli Stati Uniti, in Svizzera e in Ungheria.Sul suo podio sono saliti, fra gli altri, Claudio Abbado, Rinaldo Alessandrini, Riccardo Chailly, Ottavio Dantone, Eliahu Inbal, Ablain Lombard, Jesús López-Cobos, Neville Marriner, Riccardo Muti, Daniel Oren, José Serebrier, Jeffrey Tate e Alberto Zedda; dopo il fondatore Antonio Pedrotti si sono avvicendati come direttori sta-bili Hermann Michael, Alun Francis, Cristian Mandeal e Ola Rudner. Dal 2003 al 2012 ne è stato direttore artistico Gustav Kuhn. Dal 2013 la direzione artistica è affidata a Daniele Spini e dal 2014 Arvo Volmer è il nuovo direttore principale dell’Orchestra.Molte le registrazioni radiofoniche e televisive per la Rai; ampio il catalogo di cd e dvd realizzati per Agorá, Amadeus, Arts, Camerata Tokyo, Col Legno, Concerto, Cpo, Dynamic, Naxos, Opus Arte, RCA, Unitel, Universal, VMC Classic e Zecchini.

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Nato a Beirut nel 1964, George Pehlivanian è cresciuto a Los Angeles. Ha studiato direzione d’orchestra con Pierre Boulez e Lorin Maazel nonché con Ferdinand Leitner all’Accademia Chigiana di Siena, di-plomandosi in California e a Bloomington, Indiana; nel 1991 ha vin-to il Concorso di direzione d’orchestra di Besançon.Direttore ospite principale dell’Orchestra dell’Aia, della Wiener Kammerorchester e del Teatro Lirico di Cagliari, direttore stabi-le della Deutsche Staatsphilharmonie Rheinland-Pfalz e direttore musicale dell’Orchestra Filarmonica Slovena, ha diretto l’Orche-stra della NDR di Amburgo, i Bamberger Symphoniker, la Royal Scottish National Orchestra di Edimburgo, l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, quella della Radio di Francoforte, la Israel Philharmonic Orchestra, l’Orchestra del Gewandhaus di Lipsia, la BBC Philharmonic, la London Philharmonic e la Philharmonia Orchestra di Londra, l’Orquesta Nacional de España di Madrid, l’Orchestra Filarmonica della Scala di Milano, l’Orchestre Philharmonique de Radio France, l’Orchestra Filarmonica Ceca di Praga, l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, l’Orchestra Filarmonica di Rotterdam, l’Orchestra del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, l’Orchestra Sinfonica della Radio SWR di Stoccarda, l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, e poi a Baltimora, Cincinnati, Hong Kong, Houston, Indianapolis, Montecarlo, Montréal, Mosca, Toronto, Vancouver e Sydney.È stato ospite dei festival di Aspen, Granada, Le Touquet, Linz (Brucknerfest), Lubiana, Lugano, Merano, Parma, Praga, Ravello, Ravenna, Verona (Settembre in Musica) e Vienna.Numerose le sue incisioni discografiche per BMG, Virgin Classics, Chandos e Studio SM.

Stefano Bollani, dopo il grande successo del suo programma te-levisivo su Rai3, Sostiene Bollani, e il nuovo spettacolo teatrale La Regina Dada da lui scritto e interpretato insieme a Valentina Cenni, non può più essere definito soltanto un pianista jazz.Bollani inizia a suonare all’età di 6 anni e si diploma al Conservatorio di Firenze, intraprendendo la sua attività profes-sionale a 15 anni con gruppi pop-rock e gruppi jazz. Fra le tappe della sua carriera, fondamentale è la collaborazione iniziata nel 1996 – e da allora mai interrotta – con il suo mentore Enrico Rava, al fianco del quale tiene centinaia di concerti e incide ben tredici dischi, fra i quali Tati in trio con Paul Motian alla batteria (disco dell’anno per l’Académie du Jazz), The third man, miglior disco dell’anno per le riviste «All About Jazz», «Musica Jazz» e «New York Days», con Mark Turner, Larry Grenadier e Paul Motian

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(«Musica Jazz» lo proclama anche miglior nuovo talento del 1998 e musicista dell’anno nel 2006).Compie invasioni continue nella classica, come un dvd Live at La Scala con la Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Chailly, con il quale ha già registrato Sounds of the 30’s e Rhapsody in blue con la Gewandhaus di Lipsia; Ambasciatore di «Topolino», nell’ambito del fumetto ha collaborato anche con Leo Ortolani (il disegnatore di Rat-man); su Radio3 il programma di grande suc-cesso Dottor Djembè lo ha visto come conduttore insieme a David Riondino e Mirko Guerrini per sei stagioni. Varie le collaborazioni con il teatro e con il cinema.Pluripremiato per i suoi dischi, ha chiuso il 2014 con il disco d’oro per il suo disco/progetto Carioca (uscito nel 2008) e ha aperto il 2015 vincendo il referendum di «Musica Jazz» per il miglior disco dell’anno con Joy in Spite of Everything, registrato a New York con Jesper Bodilsen e Morten Lund e due prestigiosi ospiti: Mark Turner e Bill Frisell. Ha ricevuto il suo primo disco d’oro per Sounds of the 30’s; O que serà (in duetto con il mandolinista brasiliano Hamilton De Holanda) è stato giudicato uno dei mi-gliori album del 2013 dalla rivista americana «DownBeat» e dalle italiane «Musica Jazz» e «Jazzit». Fra i vari premi e onorificenze, nel 2007 ha ricevuto l’European Jazz Prize come miglior musicista jazz europeo dell’anno e nel 2010 la laurea honoris causa dal Berklee College of Music di Boston.

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