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“POSTE ITALIANE SPA, SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE DL 353/2003 (CONVERTITO IN LEGGE 27/02/2004 N°46) ART. 1 COMMA 1 LO/MI” WWW.TACTICALNEWSMAGAZINE.IT • € 6.00 TNM N°17 • LUGLIO-AGOSTO 2012 PERIODICO MENSILE MILITARY • LAW ENFORCEMENT • SECURITY LAW AREA TIRO TATTICO DA DIFESA PREVIEW ECOMAFIE, LA DARK ECONOMY IL PORTO DELL’ARMA IN CONDIZIONE OPERATIVA BERETTA NANO FOCUS ON IMPIEGO TATTICO DEI DRONI NELLE FORZE DI POLIZIA IN ITALIA SNIPER TRICKS IL TIRO CON ANGOLO DI SITO FOCUS ON TALEBANI GLI STUDENTI GUERRIERI MP5 KURZ TEST BY TNM

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Milano, 03/08/2012

Questa mattina recandomi al lavoro ho acceso la radio per sentire i soliti notiziari radio ricchi

di comunicati nefasti su vari “spread” in ribasso, “bund” in crisi o quant’altro, oppure lampi

di esaltazione circa le prestazioni dei nostri atleti alle olimpiadi che … vogliamo ricordarlo …

buona parte sono inquadrati nelle nostre Forze dell’Ordine o nelle Forze Armate. Le mie attese

però, sono state deluse con l’apertura di una notizia straordinaria che ha riempito il mio cuo-

re di soddisfazione: il carabiniere Alessandro Spadotto addetto alla sicurezza dell’ambasciata

italiana nello Yemen e rapito lo scorso 29 luglio nei pressi di San’a, è stato finalmente liberato

e consegnato alle autorità yemenite. Devo essere sincero? Ho tirato un sospiro di sollievo, non

credevo alle mie orecchie… “Strano – ho ragionato tra me e me – pensavo che in quanto italiano

se lo tenessero per ricordo, come i nostri due marò… che evidentemente piacciono così tanto

agli indiani da non volerli più lasciare andare via!!!”. Per fortuna le condizioni del nostro militare

– secondo quanto diffuso dalla stampa nazionale e dalle assicurazioni del padre Augusto – ap-

paiono buone. In effetti, quando le bande tribali che militano nella zona rapiscono qualcuno si

rendono subito conto di avere della merce preziosa e quindi di doverla trattare con tutti i riguardi.

Ma a chi va il merito di questa storia finita bene? È certo che la trattativa è stata condotta dalle

autorità yemenite con il supporto della Farnesina. Ma quanto è stato l’impegno dell’uno o dell’al-

tro? Lo so, sono malizioso e quando si parla di politica estera, missioni internazionali e militari

italiani, nutro sempre qualche diffidenza nei confronti dei “grandi capi” che dirigono, dalle loro

poltrone scarlatte, il destino di molti giovani “leoni”. Non posso neppure fare a meno di pensare

ai due ragazzi il cui basco sarà ormai sdrucito dall’attesa in quel clima cosi umido, la vegetata

scolorita, ma soprattutto il loro animo italiano pericolosamente intaccato da quella malattia che

si chiama “mancanza di fiducia nelle istituzioni”. Spero vivamente che il nostro Ministero degli

Esteri sappia sfruttare questo trend positivo che ha visto a breve distanza il rilascio di Rossella

Urru, dei tecnici Oriano Cantani e Domenico Tedeschi e infine di Spadotto! I nostri ragazzi in India

attendono sempre, non hanno molto da fare, vivono nella speranza di poter riabbracciare le loro

famiglie, nella loro casa, nella loro patria. Sono gli stessi ragazzi che sacrificano la loro vita in

Afghanistan e in altre parti del mondo, sono anche gli stessi che stanno collezionando medaglie

alle Olimpiadi di Londra, sono sempre loro… quelli che attendono e aspettano fiduciosi che, per

una volta, sia il loro governo a vincere la medaglia d’oro! Vi auguro buone vacanze… vi lascio

questo numero doppio (non nel contenuto), ma solo come uscite… a settembre ci rivediamo, so

che non ne rimarrete delusi… e non rimarranno delusi neppure gli anglofoni poiché a noi di TNM

ci attende una nuova avventura in campo internazionale.Mirko Gargiulo (Direttore editoriale)

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Military - Law Enforcement - Securityn°17 - luglio-agosto 2012 - mensilewww.tacticalnewsmagazine.it

Direttore responsabileMarco [email protected]

Direttore editorialeMirko Gargiulo [email protected]

Direttore commercialeGiovanni Petretta [email protected]

Art directorMatteo [email protected]

Impaginazioneechocommunication.eu

Pubblicità[email protected]

CollaboratoriGianluca Favro, Gianluca Sciorilli, Fabio Rossi, Marco Sereno Bandioli, Giovanni Di Gregorio, Zoran Milosevic, Gabriele Da Casto, Marco Strano, Mario Leone Piccinni, Marco Buschini, Michele Farinetti, Ovidio Di Gianfilippo, Sergio Giacoia, Alberto Saini, Lorenzo Prodan, Vincenzo Cotroneo, Daniel Piga, Paolo Palumbo, Daniel Sharon, Norbert Ciano, Gogo della Luna, Luca Munareto, Davide Pisenti, Alessandro Zanin, Giuseppe Marino, Rocco Pacella

FotografieISAF, Department of Defense, Stato Maggiore Esercito, U.S. Navy, NATO Multimedia, The National, Command Special Naval Warfare, Onu Media Press, Zoran Milosevic, Michele Farinetti, Marco Buschini, Marco Alberini, Norbert Ciano, Davide Pisenti, Marco Antonio Garaventa

Periodico mensile edito da:CORNO EDITOREPiazza della Repubblica n. 6 20090 Segrate - Milano - P.IVA 07132540969

StampaReggiani SpaVia C. Rovera 40, 21026 Gavirate (VA)

DistributorePieroni Distribuzione s.r.l. Viale Vittorio Veneto, 28 - 20124 Milano

Registrazione Tribunale di Milano n.509 del 27 settembre 2010Iscrizione al ROC 20844

Tutti i diritti di proprietà letteraria, artistica e fotografica sono riservati, ne è vietata dunque ogni duplicazione senza il consenso scritto della Corno Editore

EDITORIALE 2

IN MEMORY OF 8

NEWS 8

HOT POINT 22 LA CIA HA AMMESSO DI AIUTARE L’OPPOSIZIONE SIRIANA INVIANDO ARMAMENTI

FOCUS ON 26TALEBANI GLI STUDENTI GUERRIERI

TEST TNM 40SPECIAL EQUIPMENT GAMMA MK2

FOCUS ON 52INPIEGO TATTICO DEI DRONI

FIRE TEST 60BU-9 NANO, LA NUOVA SUPER COMPATTA DI BERETTA USA

LAW AREA 64MAFIA E RIFIUTI

AFGHAN MEMORIES 70AFGHANISTAN 1433

TEST BY TNM 86MKE T94K, L’MP5 KURZ DEL SULTANO

COLTELLI TATTICI 98 WARRIOR’S EDGE

TIRO TATTICO DA DIFESA 102IL PORTO DELL’ARMA IN CONDIZIONE OPERATIVA

(CARTUCCIA CAMERATA)

SNIPER TRICKS 114IL TIRO CON ANGOLO DI SITO

ACTION MOVIE 124SOD GEAR VESTE IL CAST DI ZOMBIE MASSACRE

TACTICAL GADGET 126

FOCUS ON 130 GIUSEPPE GENOVALI, UN UOMO E IL SUO SOGNO

ALPHA 22 138

BOOK 142

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In quei lunghi giorni, mesi, trascorsi tra i più isolati combat out post della valle del Murghab dove, Dio o Allah, “sembra si sia dimenticato la vita”, molti di noi fin che vivranno ricorderanno in maniera tangibile cosa sia stato il sacrificio mosso da un non comune senso del dovere, che unisce noi fratelli in un unico valore, grande e innato per vocazione, che viene chiamato mantenimento della Pace. La situazione della valle del Murghab è davvero difficile: a soli pochi chilometri dal confine Turkmeno, dove da decenni orde di bande di criminali, insorti, trafficanti, talebani, la fanno da padrone a svantaggio delle prospettive di vita migliori per la popolazione civile. Uomini e donne costretti a vivere in condizioni di arretratezza estrema, nell’ignoranza e nella povertà, ma soprattutto a discapito di un’istituzione,

quella Afghana, che cerca di imporsi e insediarsi a piccole dosi in un territorio vasto, ostile, costituito da svariate comunità tribali. Nonostante tutte le difficoltà, questo popolo riesce a ottenere piccoli ma importanti risultati che a tratti sanno di Afghanistan libero, unito e civile; cercando di ottenere una pace e una democrazia che molti di noi nelle nostre comuni case, tra le nostre comuni strade, a volte ne dimentichiamo il giusto significato e valore. Io non dimentico e invito tutti, a porre un fiore ai monumenti ai caduti per rendergli il giusto omaggio: essi non sono solo un segno del passato, ma un monito ancora vivo di una memoria la quale ricorda chi si è battuto per la libertà e per la Patria.Così anima lo spirito di noi paracadutisti in una delle nostre canzoni: “a chi cade combattendo Dio

concede sorte belle, di volare lieve lieve tra una nuvola e una stella, in quell’angolo di cielo riservato a tutti noi dove VIVONO IN ETERNO santi matti ed EROI”. E così, da quella maledetta mattina del 25 luglio 2011, sconfitto dagli eventi, caro fratello Dà, non ci sei più. “Uomo a terra!”. Ecco il primo pensiero che mi torna in mente pensando a David. Uomo a terra!”. E nella confusione e nel crepitio dei colpi nemici ci chiediamo chi c…o è l’uomo a terra. Qualcuno dice è David, gravemente ferito, mentre con gli altri pensiamo: com’è possibile? Era nella buca meno “esposta” se mai ce ne sia stata una. La verità è che in quei momenti non hai il tempo per pensare o per comprendere quello che ti succede intorno o più semplicemente è la testa che non ci vuole credere.E in tutto ciò gli uomini a terra erano già due, David e Simone e alla fine tre, con Francesco. Non più di un paio di ore prima ricordavamo un incidente al braccio avuto da David durante il corso Esploratori Paracadutisti, nel quale aveva quasi perso l’uso del braccio per lo schiacciamento di un nervo dovuto al peso dello zaino e noi giustamente non potevamo far altro che prenderlo in giro. Era buffo con quel braccio penzoloni: questo era David e quel corso lui l’ha finito lo stesso anche senza un braccio, ecco chi era! Un ragazzone sempre con il sorriso e con un fisico da far invidia che gli poteva permettere di campare di prepotenza, ma lui era troppo educato e troppo intelligente. L’ho “cazziato” 1000 volte perché sembrava che stesse

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pensando sempre ai fatti suoi, con quell’aria da “ncefalitico” come diceva lui. Quando cade qualcuno in missione, ricorrono sempre le parole “era un bravo ragazzo”: la verità è che siamo tutti “bravi ragazzi” e non potrebbe essere diversamente. Nella Folgore uno ci arriva per i motivi più disparati e da estrazioni sociali e culturali differenti, ma quello che accomuna tutti è il condividere momenti che difficilmente uno avrebbe solo osato immaginare: belli, stupendi, brutti e qualche volta tragici. Non sta a me decidere cosa sia giusto o sbagliato e neppure David poteva farlo. In quei momenti non pensi al politico che discute se sia o no una missione di “pace”, in quegli istanti le priorità della vita cambiano, l’unico pensiero che hai è quello di restare vivo! E devo essere onesto, non pensi neanche alla bandiera o alla famiglia, sono riflessioni che non puoi permetterti di avere, potrebbero solo distrarti e fare di te un “Uomo a terra”. Pensi solo al tuo “coppio”, a quello che ti sta al fianco, non ragioni su cosa sia il bene o il male, sai solo che qualcuno ti vuole ammazzare e devi cercare di essere più bravo o fortunato di lui. Poi atterra l’elicottero che ti porta alla base e fino a quel momento per te quell’“uomo a terra” è solo un ferito, anche se nel tuo binocolo, mentre cercavi di scorgere le postazioni nemiche, avevi visto David mentre lo portavano via incosciente. Per te è solo ferito, poi vedi le facce di quelli che sanno già che David non ce l’ha fatta: ecco il momento in cui cala l’adrenalina e realizzi che è vero, è

tutto vero e non senti più il frastuono dell’elicottero, non senti più niente e cerchi disperatamente con lo sguardo qualcuno che ti dica che non è vero. Poi vedi il volto del Comandante e sai che è inutile continuare a cercare, nessuno ti dirà che David è vivo. Avevo sempre guardato con invidia i vecchi reduci che dopo tanti anni erano ancora così legati a quei momenti, a quei posti e ai loro camerati caduti in combattimento: ora non li invidio più perché conosco quella sensazione che li lega, possiedo quel dolore che li accompagna. Vorrei tanto non averli invidiati, avrei voluto non conoscere il significato di “brothers in arms”. Ecco chi era David, non un eroe, non un martire, ma un figlio e un fratello che è caduto combattendo per l’Italia. “Scusa Annarita!”. Così, con un grande nodo alla gola, ti ricorda nostro fratello Luigi Sampietro che lì con te, quella triste e disgraziata mattina, ha vissuto la dura realtà del mantenimento della pace.Il 18 APRILE 2012 LA PATRIA CONFERISCE davanti alle massime autorità dello Stato, alla presenza del Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, ritirata dalla Signora Annarita Lo Mastro, mamma del Cle. Magg. Sc. f (par) David TOBINI LA CROCE D’ONORE alla memoria con la seguente motivazione:Paracadutista del 183°reggimento, animato da straordinarie qualità morali e di carattere, comandato in missione di pace in teatro afghano, si prodigava con rara perizia ed eccellente professionalità, nel assolvimento dei propri compiti. Il 25 luglio 2011,

nel corso dell’operazione “KOMODO SHAMAAR VARAN” nella valle di Bala Murghab , veniva fatto oggetto di fuoco con armi portatili da elementi ostili, colpito mortalmente, periva in seguito delle ferite riportate, immolando la propria vita. Chiaro esempio di attaccamento al servizio ed altissimo senso del dovere spinto fino al estremo sacrificio.

COSì TI RICORDERòFRATELLO MIO

Ci siamo lasciati in quell’infernocon un abbraccio e un sorriso,

con quell’arrivederci che aspetteròfin che vivrò.

Pochi giorni dopo su quel C-130così freddo e surreale ho bussato

alla tua cassa.Sulle mie spalle, avvolto nel tricolore,con profondo dolore ho avuto l’onore

di accompagnarti in quellache è stata la tua ultima parata.

Fiero e orgogliosodi averti avuto come fratello,

con quel bel sorrisosei stato e sarai sempre

un esempio per tutti noi:un uomo che ha saputo affrontare le difficoltà della vita a testa alta.Per noi sarà impossibile riempire

quel profondo vuoto. Ciao Dà, aspettaci nei blue skies

a noi tanto cari .

VENTO FRESCO.

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AROUND THE WORLD

only FOR GOOD GUYS

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a cura di Marco alberini

Quotidianamente giungono dal Messico le scabrose vicende riguardanti la guerra dei narcotrafficanti messicani. Recentissima è la notizia di nove persone impiccate ai lampioni delle città di Monterrey, con accanto un lenzuolo firmato dal cartello “Los Zetas”. Sacchetti della spesa a decine, lasciati ai bordi della strada, con dentro altrettante teste decapitate; omicidi quotidiani perpetrati alla luce del sole; sparatorie ed inseguimenti lungo le strade dei centri cittadini. Questa è solo una parte della vita quotidiana di un paese dilaniato dalla guerra tra il cartello della droga dei “Los Zetas” (di recente arrivati anche alla ribalta dell’informazione italiana essendo probabile un connubio tra questo cartello e la Ndrangheta calabrese) e dall’altra parte il cartello del “Golfo”. Negli ultimi sei anni la guerra del narcotraffico ha causato la morte di oltre 47.000 persone; buona parte del corpo di Polizia è sospettato di corruzione e i cittadini hanno rinunciato da tempo a denunciare i crimini. Tra le varie realtà, governative e non, che propongono soluzioni ed aiuto per la guerra messicana, ne è giunta una di quelle che solitamente non ti aspetti. Eric Schmidt in qualità di presidente esecutivo di Google e Jared Cohen, direttore creativo di Google, si sono resi partecipi di un viaggio nel paese martoriato dalla violenza e hanno potuto valutare, sul luogo, la situazione e il clima terribile imperante nella cittadina di Juarez. In una conferenza successiva al viaggio hanno dichiarato: “È surreale quanto accade lì, quando siamo scesi dall’aereo abbiamo avvertito un’atmosfera irreale; ci ha raggiunto un convoglio di carri armati e di camion della polizia. Gli ufficiali della Policia Federal avevano delle mitragliatrici e indossavano passamontagna per nascondere l’identità. Poi abbiamo incontrato i volontari e gli attivisti che hanno

raccontato le sorti della città sopraffatta dalla violenza. Abbiamo visto gente sconfitta, abbandonata, queste persone hanno vissuto esperienze così dure con i cartelli del narcotraffico, da aver perso la speranza. A questo punto abbiamo pensato che la nostra tecnologia

possa aiutare la situazione messicana e non solo. Crediamo fermamente che la diffusione dei dispositivi moderni e l’accesso alla rete possano essere armi da utilizzare contro i peggiori criminali del mondo. Consideriamo una situazione fin troppo diffusa a Juarez: se un uomo collabora

GOOGLE CONTRO I NARCOS mESSICANI

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LA GERmANIA FINANzIAIL POTENzIALE NuCLEARE ISRAELIANO

Per la fine dell’anno il 2017 la Germania consegnerà ad Israele altri tre sottomarini modello Dolphin, portando così ad un totale di sei sottomarini, le forze della flotta israeliana subacquea. Strategicamente rilevante è il fatto che gli u-boats della classe Dolphin possiedono tubi di lancio con caratteristiche tecniche tali da poter ospitare il missile da crociera denominato Popeye Turbo il quale, oltre a una testata convenzionale, è in grado anche di trasportarne una nucleare. I sottomarini Dolphin non hanno le stesse capacità tecniche dei grandi sottomarini a propulsione nucleare, come quelli in dotazione alla marina degli Stati Uniti o della Federazione Russa, in grado di trasportare testate nucleari in navigazione intercontinentale; tuttavia rappresentano comunque un’arma strategica molto rilevante nell’area mediterranea e medio orientale, qualora Israele possedesse un arsenale nucleare segreto come da vari analisti sostenuto. Il contratto di produzione dei sottomarini è attivo da tempo, ma solo ora sta avendo una certa rilevanza anche all’interno della politica tedesca: pare che questi sottomarini siano stati acquisiti da Israele ad un “prezzo agevolato” con il contributo di un terzo dei costi da parte della Germania stessa. In questo modo si profila un aiuto di stato all’industria tedesca garantendo si posti di lavoro, ma andando anche contro le direttive europee, oltre a dare un grandissimo aiuto al potenziale strategico di Israele. Per i media francesi il missile Popeye Turbo che potrebbe dotare i sottomarini Dolphin, sarebbe già stato testato da Israele davanti alle coste dello Sri Lanka, questo avrebbe un gittata di 1.500 chilometri e permetterebbe ai sommergibili israeliani stanziati nel Golfo Persico di raggiungere obiettivi importanti in Iran, come Natanz o Teheran. Alti funzionari della diplomazia israeliani gettano ancora più scompiglio nella vicenda dichiarando che “l’obiettivo principale è che non ci fosse alcun dibattito pubblico a riguardo, né in Israele né in Germania”. Nulla è stato fatto per dare chiarezza alla questione: i cantieri navali di Kiel sono avvolti da un alone di mistero, persino ad alcuni manager della Thyssen Krupp viene vietato l’ingresso. Ad alcuni giornalisti è stato permesso di visitare uno dei sottomarini già consegnati ad Israele, ma sono rimasti per lo delusi, in quanto l’accesso ai ponti sottostanti, il 2 e il 3, è rimasto severamente vietato. Il Ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha dichiarato che “i tedeschi possono essere fieri di aver garantito per molti anni l’esistenza dello Stato di Israele”, rimarcando così un’altra famosa dichiarazione, quella della Cancelliera tedesca Merkel risalente al marzo 2008, quando disse che “la sicurezza di Israele è parte della ragion di stato della Germania”.

con le forze dell’ordine, la moglie viene minacciata . In molti ne sono a conoscenza, ma non denunciano il fatto perché hanno paura – e ancora – non vogliono correre il rischio perché la possibilità di cambiamento è molto bassa. Ma se trasferiamo on-line le istituzioni si avrebbe più discrezione e maggiore riservatezza”. Secondo Smith, Google potrebbe mettere a disposizione le proprie risorse per fornire a quell’80% di cittadini messicani dotati di cellulari, ma privi di fiducia nelle forze dell’ordine, di condividere informazioni in modo anonimo con le autorità per aiutare la lotta al crimine. Per la condivisione anonima Google si rivolge alla “commutazione di pacchetto”, cioè quella tecnica che garantisce la sopravvivenza di una rete di telecomunicazioni e che suddivide un messaggio in parti più piccole (pacchetti) prima di inoltrarle in rete al destinatario. Ogni pacchetto inviato da una stazione (nodo, MS) segue un proprio percorso di rete per raggiungere la stazione finale, la quale provvederà a riordinare i pacchetti e assemblare il messaggio di partenza. Questa tecnica ottimizza l’impiego della rete, perché permette a più stazioni la trasmissione di diversi messaggi sullo stesso canale. La tecnologia, secondo la proposta di Google, può aiutare perché il trasferimento delle informazioni (come la dichiarazione di chi vuole collaborare con la giustizia) può passare attraverso la rete, senza dover incontrare persone fisiche e arrivare quindi subito a destinazione evitando la corruzione. Oltre a questo, la tecnologia di Google potrebbe essere utilizzata per studiare la dinamica con cui le organizzazioni criminali comunicano e reperiscono informazioni utili a proteggere il proprio business. Uno dei punti di forza dei cartelli messicani consiste, infatti, in un sofisticato utilizzo della tecnica informatica la quale consente ai vertici dei Narcos di ottenere informazioni geolocalizzate sulla posizione delle forze dell’ordine e sui loro movimenti. L’idea avanzata da Google va a inserirsi nel solco delle nuove tecnologie anti-crimine, tra le quali spiccano algoritmi predittivi come quello a cui la polizia di Los Angeles ha intenzione di affidarsi. La disponibilità sempre maggiore di dati personali e informazioni geolocalizzate potrebbe aiutare, infatti, non solo a conoscere la posizione e le attività di un individuo, ma anche a prevedere i suoi spostamenti.

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Il 26 luglio 2012 è stata una giornata di sangue in Iraq, la peggiore degli ultimi due anni in quel teatro. Tutti i sospetti della polizia locale ricadono su al-Qaeda. L’attacco è stato compiuto con una serie di incursioni armate e coordinate con attentati dinamitardi. I numeri parlano di 26 episodi in totale, che hanno coinvolto 14 diverse località del paese, secondo le fonti ufficiali sono morte almeno 120 persone e altre 250 sono rimaste ferite. L’attacco più grave è avvenuto contro la base militare di Balad, dove alle 5 di mattina un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione uccidendo 15 soldati e ferendone altri due. Una serie di attentati dinamitardi avvenuti nella località di Taji, 25 chilometri a nord della capitale, ha provocato 42 morti e 40 feriti, secondo quanto reso noto da fonti ospedaliere; sette persone sono morte e altre 29 sono rimaste ferite in tre attentati avvenuti nella provincia di Kirkuk. Due militari e un poliziotto sono stati uccisi in due attacchi contro dei posti di controllo della sicurezza nella provincia di Diyala, mentre due persone sono morte e altre dieci sono rimaste ferite nell’esplosione di un’autobomba a Husseiniyah, quartiere settentrionale di Baghdad; infine, sempre nella capitale, nel quartiere sciita di Sadr

City, almeno 12 persone hanno perso la vita nell’esplosione di un’autobomba. Hakim al-Zamili, deputato iracheno sciita, membro della commissione parlamentare per la sicurezza e la difesa dichiara che “Al-Qaeda sta provando a inviare il messaggio che è ancora forte e che può scegliere tempo e luoghi per attaccare”. A parere del deputato, le carenze nelle capacità delle autorità

irachene di raccogliere informazioni sui movimenti terroristici, o di fermarli, mostra che il governo non è in grado di proteggere la propria gente. Al-Zamili ha anche sollevato l’accusa di una forte infiltrazione di al-Qaeda tra le forze di sicurezza. Se queste mancanze non saranno risolte in fretta, ha aggiunto, “gli attacchi e le esplosioni continueranno e al-Qaeda sarà sempre più pericolosa in Iraq”.

LA GIORNATA PIù SANGuINOSA IN IRAq DEGLI uLTImI DuE ANNI

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ARRIvA LO “SChERzI A PARTE” ALL’EGIzIANA: vIP SEquESTRATI DA TERRORISTI FINTI

Avete presente Scherzi a parte? Ecco, inEgitto si sono inventati un programma simile dove però lo scherzo al vip di turno è un rapimento nel deserto come quelli che, purtroppo, capitano non di rado soprattutto nella valle del Sinai. Il vip va in gita, poi arrivano i beduini armati fino ai denti, lo rapiscono, lo trascinano nel deserto e quando questo è quasi morto dalla paura escono le telecamere e qualcuno urla “è tutto uno scherzo”. Poi tengono il vip inchiodato su una poltrona mezzora, ovviamente con giusto rifornimento d’acqua per riprendersi, a parlare delle sue espressioni… Il grottesco programma si chiama “Ramz, la volpe del deserto” e viene trasmesso dall’emittente al-Hayat, molto seguita in tutto il Medio Oriente. Tutte le “gag” seguono una stessa scaletta: la vittima, il vip di turno, viene invitata con una scusa a Hurgada, sul Mar Rosso con un autobus. Lungo il tragitto in mezzo al deserto una jeep accosta l’autobus: una banda di uomini mascherati che spara colpi d’arma da fuoco sale a bordo disseminando il panico tra i passeggeri e catturano il vip ignaro di tutto, gli bendano gli occhi e lo trascinano in mezzo al deserto. Arrivato a destinazione gli tolgono la benda e urlano: “E’ tutto uno scherzo”. Ecco che escono le telecamere, tutti applaudono e la vittima si sfoga imprecando… NO COMMENT

ASSASSINATOA ISTANbuL IL CuGINO DELL’EmIRO DEL qATAR, CAPO DEI SERvIzISEGRETI IN mISSIONE ANTI-ASSAD!

Il cugino germano dell’Emiro del Qatar, il Colonnello Abdullah bin Muhammad al-Thani, capo dell’Intelligence aeronautica qatariota, é stato ucciso nella capitale turca Istanbul. Cosa facesse in Turchia é motivo di speculazioni ma le solite fonti bene informate giurano che stesse coordinando con le autorità locali il sostegno finanziario del suo ricchissimo cugino Emiro alle formazioni terroristiche mercenarie scatenate dal complotto contro la Repubblica Araba di Siria. Il sicario (un unico tiratore) avrebbe sorpreso il Colonnello Al-Thani nella prima mattina del 29 luglio scorso fuori da un ristorante freddandolo a colpi di fucile a pallettoni. Nessuna rivendicazione dell’assassinio é ancora pervenuta ad agenzie di informazione o testate cartacee o televisive e le autorità turche e quelle qatariote non hanno ancora commentato ufficialmente l’accaduto.Dopo l’attentato esplosivo al Ministero della Sicurezza di Damasco una bomba ha colpito il centro dei Servizi Segreti sauditi, uccidendo il vice del loro nuovo capo, il principe saudita Bandar Sultan, adesso viene eliminato addirittura uno dei capi dei Servizi qatarioti. La possibilità che si tratti di rappresaglie da parte siriana o filosiriana non é assolutamente da scartare.

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Defence industry

ANTI-IED RObOTISRAELIANO COmPLETA-mENTE AuTONOmO

Su commissione dell’esercito israeliano (IDF Ground Forces), è al momento in fase di sviluppo il progetto per realizzare un robot destinato ad impiego anti IED avente la peculiarità di essere completamente autonomo. Una volta che il personale riceverà in dotazione il modernissimo dispositivo e avrà individuato una potenziale area a rischio presenza IED, non dovrà fare altro che dare il via al robot che autonomamente procederà a individuare e disinnescare l’eventuale ordigno esplosivo presente. Il tutto grazie ad una ricca suite sensoristica installata sul robot che operando in modalità del tutto autosufficiente aumenterà il livello di efficienza globale nella ricerca e disinnesco di ordigni esplosivi contribuendo, inoltre, ad accrescere la sicurezza degli operatori militari dislocati sul campo di battaglia. Il nuovo robot disporrà dunque di un sofisticato sistema di navigazione completamente svincolato dall’uomo, nonché di una vasta libreria di algoritmi di calcolo e successivo intervento atti a consentire sempre l’attuazione della migliore soluzione procedurale in linea con la situazione contingente rilevata.

a cura di Giuseppe Marino

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La divisione difesa e sicurezza di EADS, Cassidian, ha recentemente sviluppato un nuovo sistema radar denominato “Smart Radar” (Smart = Scalable Modular Aerospace Radar Technology) destinato ad essere imbarcato su vettori aerei allo scopo di effettuare sorveglianza al suolo con un alto livello di accuratezza. Il sistema, recentemente testato con successo sui cieli della Germania e del Canada, sfrutta una nuova tecnologia radar ad altissima risoluzione, e consentirà il monitoraggio continuo ed efficace di ampie aree, identificando bersagli stazionari e tracciando quelli in movimento. L’architettura modulare del sistema consentirà di disporre di un vastissimo spettro di impiego dello stesso che, peraltro, risulterà imbarcabile su una molteplicità di vettori aerei oggi disponibili,

sia con pilota, sia senza. Il tutto nell’ottica di soddisfare a pieno i requisiti operativi dei possibili diversi utilizzatori che potranno dunque configurare il sistema, sia da un punto di vista software sia hardware, in tempi brevissimi ed ottenendo un adattamento dello stesso alle proprie specifiche esigenze. Il sistema viene reso inoltre disponibile in uno chassis indipendente, dotato anche di sistema di raffreddamento dedicato, il tutto per renderlo di fatto immediatamente “plug and play” su qualsivoglia vettore aereo impiegato. Il sistema in analisi sfrutta nello specifico la tecnologia AESA (AESA = Active Electronically Scanned Array), ovvero una specifica nuova tecnologia sviluppata da Cassidian e rappresentante lo stato dell’arte odierno in materia.

SISTEmA SORvEGLIANzA AL IN REAL-TImE by CASSIDIAN

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Il quadro geopolitico odierno rende attuale una minaccia di tipo così detto asimmetrico, ovvero una provocazione identificata in forme di attacco non convenzionali, attuate facendo uso di tecniche inusuali tra cui spiccano, come noto, modalità di azione prettamente terroristiche. Alla minaccia asimmetrica testé descritta, cui le forze regolari delle diverse nazioni del mondo occidentale stanno rispondendo con l’implementazione di idonee strategie d’azione e contestuale riorganizzazione dello strumento militare, si associa oggi la minaccia asimmetrica derivante dalla così detta “cyber war”. In un mondo, infatti, in cui la tecnologia fa ormai da padrona, insinuandosi nella vita quotidiana della moderna società e, a maggior ragione, in tutte le applicazioni di carattere militare e di sicurezza, un eventuale attacco a tale sistema metterebbe in ginocchio l’organizzazione di uno stato e contestualmente il suo sistema di difesa con dirette e gravi ripercussioni sulla sicurezza della popolazione. In tale contesto, terroristi, “stati canaglia”, nonché nazioni emergenti appartenenti per lo più al mondo orientale, stanno sviluppando modalità di aggressione rientranti appunto in quella che definiamo “cyber war”. Da questo tipo di guerra deriva una reazione da parte delle nazioni del mondo occidentale che devono dunque tutelarsi da tale minaccia riorganizzando il proprio impianto difensivo il quale deve essere adeguatamente strutturato ed “equipaggiato”. Contestualmente dunque, anche per quanto attiene la

dottrina di combattimento su vasta scala, è in corso un progressivo sostanziale cambiamento/adeguamento del modus operandi sul campo di battaglia. Si registra un passaggio dalla così detta dottrina “Air Sea Battle” alla evoluta “Air Sea Cyber Battle”. Forze navali, aeree e terrestri operano impiegando tecnologie avanzatissime per le quali la componente “cyber” assume un ruolo chiave. Proprio tale sezione deve essere tutelata da eventuali specifici attacchi ad essa indirizzati i quali potrebbero, senza l’esplosione di alcun colpo, mettere in ginocchio intere formazioni da combattimento, siano esse navali, aeree o terrestri. Di pari passo dunque con lo sviluppo di nuove tecnologie, devono evolvere adeguati sistemi di difesa, nonché specifiche modalità di impiego degli stessi, al fine di contrastare attacchi informatici. Questi ultimi sono potenzialmente molto più probabili e numerosi poiché molto più facili da portare a termine rispetto ad azioni condotte con l’impiego di armi, siano esse convenzionali o “sporche”. È inevitabile, dunque, un incremento del successivo potenziale economico del “cyber market”, ovvero del mercato industriale in cui si inseriscono tutte le nuove tecnologie a “base informatica”. Sia quelle finalizzate all’espletamento di specifiche funzioni nell’ambito della difesa e sicurezza, sia quelle specificatamente sviluppate allo scopo di difendere i cyber sistemi implementati da eventuali attacchi informatici come quelli oggetto del presente report.

LA DOTTRINA “AIR SEA bATTLE” EvOLvE NELLA “AIR SEA CybER bATTLE”

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RECON RObOTICS. CONTRATTO PER 1000 mICRO RObOTS PER LO uS ARmy.

Lo scorso 27 giugno la Recon Robotics, Inc., leader mondiale nella progettazione e costruzione di micro-robots destinati all’impiego in campo militare e di law enforcement, ha annunciato di aver siglato un contratto del valore di quasi 14 milioni di dollari circa la fornitura allo US Army di 1.000 micro robots “lanciabili”. In altre parole robot di piccole dimensioni, trasportabili agevolmente, anche nello zaino di un operatore e, all’occorrenza, lanciabili a distanza nell’area designata per effettuare una ricognizione. La linea d’azione operativa prevede che ciascun team di 4/5 uomini dislocato sul campo, specie in aree urbane, venga equipaggiato con uno di questi robot da ricognizione al fine di fornire alle unità sul campo immediata capacità di acquisizione e valorizzazione informazioni. Queste ultime saranno utili sia al fine di portare a termine la missione assegnata, sia a scongiurare eventuali imboscate perpetrate dalle forze ostili con l’impiego di IED. Il robot oggetto della fornitura è il Throwbot.xt, del peso di soli 550 grammi e in grado di fornire immagini video, complete di audio, delle aree esplorate, il tutto con la massima silenziosità.

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PhANTOm EyEuAv AD IDROGENO

È recente la notizia proveniente dagli USA che rende nota l’effettuazione di nuove ed efficaci prove di volo sperimentali del drone da ricognizione denominato Phantom Eye, presentato già nel 2010, e tuttora ancora in fase di sviluppo e perfezionamento. Le particolarità principali di tale velivolo senza pilota sono quelle di impiegare l’idrogeno come combustibile e avere un’estesa e insolita apertura alare. Il Phantom Eye vanta, infatti, un’apertura alare di 45 metri, ben 7 metri in più di un Boeing 757. Esso è propulso con due motori ad elica da 150 cavalli ciascuno, che mettono il velivolo in grado di rimanere in volo per ben 4 giorni consecutivi trasportando un carico pagante (sensori di vario genere) del peso di circa 200 kg. La notevole autonomia del velivolo ne consentirà l’impiego in ricognizioni a lungo raggio, oppure in funzione di supporto tattico prolungato per l’acquisizione d’informazioni utili allo svolgimento di operazioni al suolo. Le foto pubblicate consentono di apprezzare le eccezionali proporzioni dell’apertura alare del Phantom Eye, dimensioni fino ad oggi abbastanza inusuali per un drone destinato all’impiego militare.

I Ministeri della Difesa italiano e israeliano, e nello specifico i Segretari Generali dei due dicasteri, hanno recentemente firmato un importante accordo di cooperazione nel settore della tecnologia militare. L’intesa consentirà alla italiana Finmeccanica di stipulare contratti per un valore di circa 850 milioni di dollari i cui proventi saranno a beneficio di società quali: Alenia Aermacchi, Telespazio e SELEX Elsag. Nel dettaglio l’accordo sottoscritto prevede la fornitura ad Israele da parte di Finmeccanica di 30 velivoli modello M-346 destinati all’addestramento avanzato. La fornitura di tali velivoli nello specifico, peraltro completi di servizio di manutenzione, logistica, simulatori e addestramento consentirà un incasso di circa 600 milioni di dollari da parte di Alenia Aermacchi. Gli aerei in oggetto andranno a sostituire gli A-4 Skyhawks

oggi in servizio presso la Forza Aerea israeliana. La consegna del primo esemplare di M-346 è prevista per la metà del 2014. Contestualmente, come controparte dell’accordo, le FF.AA. italiane potranno

impiegare il sistema satellitare ottico ad alta risoluzione israeliano denominato OPTSAT-3000. L’impiego di tale avanzato sistema di acquisizione informazioni consentirà l’effettuazione di importanti operazioni di monitoraggio dell’attività al suolo, nell’ottica di acquisire informazioni propedeutiche alla conduzione di operazioni sia su piccola che vasta scala..

INTESA ITALIA-ISRAELE.CONTRATTI PER FINmECCANICA.

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AROUND THE WORLD

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SPRAY ANTIAGGRESSIONEMACE - PEPPER GUN SILVERLa Pepper Gun dell’azienda Mace è uno dei migliori dispositivi anti-aggressione non-letale oggi disponibili.La forma a pistola consente di colpire il bersaglio in modo molto più semplice e veloce. Sfiorando il grilletto si aziona automaticamente anche un Led ad alta luminosità, rendendo la Pepper Gun estremamente funzionale anche in condizioni di luce scarsa.La pratica sicura dorsale risulta molto comoda e veloce, nell’ inserimento che nel disinserimento, sia ai destri che ai mancini.Disponibile in quattro colori viene venduta in un kit che contiene, oltre la pistola, una cartuccia di OC, una cartuccia da addestramento e le batterie per il Led. Grazie alle bombolette di ricambio può essere usata sia per difesa che per allenamento in un numero illimitato di volte.

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Secondo funzionari dell’intelligence americana e araba, alcuni agenti della CIA stanno operando nel sud della Turchia aiutando gli alleati a decidere quali guerriglieri oppositori al di là del confine riceveranno le armi per combattere il governo siriano. I funzionari dicono che fucili automatici, granate, munizioni e qualche arma anticarro vengono fatte passare per la maggior parte attraverso

il confine turco tramite una rete di intermediari tra cui i Fratelli Musulmani, pagati da Turchia, Arabia Saudita e Qatar. Un alto funzionario americano ha detto che agenti della CIA sono stati al sud della Turchia per diverse settimane, in parte per tenere le armi lontane dalle mani di guerriglieri alleati con Al Qaeda o altri gruppi terroristici. L’ amministrazione Obama ha detto

che non sta fornendo armi ai ribelli, ma ha anche riconosciuto che i paesi confinanti alla Siria l’ avrebbero fatto. Lo sforzo dei gruppi clandestini d’ intelligence è l’ esempio più dettagliato e noto del limitato supporto americano per la campagna militare contro il governo siriano. È anche parte del tentativo di Washington di aumentare la pressione sul presidente siriano Bashar al-

di eric schMitt

La CIaHa aMMESSODI aIUTaREL’OPPOSIZIONESIRIaNaINVIaNDOaRMaMENTI

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Assad, che ha recentemente incrementato la repressione mortale contro i civili e le milizie che combattono il suo potere. Con la Russia che pone il suo veto ad una fase più aggressiva contro il governo di Assad, gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno preferito rivolgersi alla diplomazia e all’ aiuto degli sforzi degli alleati, armando i ribelli per forzare Assad a lasciare il potere. Contribuendo al rifornimento dei gruppi ribelli, l’ intelligence americana operante in Turchia spera di sapere di più sulla crescente e mutevole rete di oppositori in Siria e stabilire nuovi legami. “Funzionari della CIA sono sul posto e provano a cercare nuove fonti e nuove persone da reclutare”, dice un funzionario dell’ intelligence araba regolarmente informato dalla controparte americana. Funzionari americani e agenti della CIA in pensione hanno detto che l’ amministrazione sta valutando ulteriori aiuti ai ribelli, come la fornitura di immagini satellitari e altri dettagli sulla

posizione e gli spostamenti delle truppe governative siriane. Dicono che l’ amministrazione sta valutando se aiutare gli oppositori a costituire una rudimentale servizio di intelligence, ma ancora non è stata presa nessuna decisione relativa a tali misure o addirittura intraprendere azioni più aggressive, come mandare direttamente agenti CIA in Siria. Con l’arrivo di nuovi armamenti sempre più potenti, sia per il governo siriano che per gli oppositori, il conflitto interno in Siria rischia di intensificarsi in maniera significativa. Il presidente Obama ed i suoi migliori collaboratori stanno cercando di fare pressione sulla Russia per frenare la spedizione di armi, elicotteri d’ assalto, verso la Siria, il loro principale alleato in Medio Oriente. Ci piacerebbe vedere la fine della vendita d’ armi al regime di Assad, perché crediamo abbiano dimostrato che usano il loro esercito solo contro la

loro popolazione civile”, ha detto Benjamin J. Rhodes, consigliere di strategie della comunicazione per la sicurezza nazionale, dopo che Obama e la sua controparte russa, Vladimir V. Putin. Il portavoce della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e della CIA non hanno lasciato commenti su operazioni di intelligence di supporto ai ribelli siriani, alcuni dettagli di quello che è stato riportato la scorsa settimana dal Wall Street Journal. Fino ad ora, diplomazia ed aiuti umanitari è stata la politica pubblica dell’ amministrazione sul caso Siria. Il Dipartimento di Stato, ha detto che il segretario, Hilary Rodham Clinton, si sarebbe incontrata con il corrispettivo russo, Sergey V. Lavrov, al margine di un meeting dei ministri degli esteri dell’ Asia Pacifica a San Pietroburgo, Russia. La conversazione privata si sarebbe concentrata, almeno in parte, sulla crisi in

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Siria. Il Dipartimento di Stato ha autorizzato 15 milioni di dollari in aiuti non letali, come forniture mediche e apparecchiature per la comunicazione per i gruppi di opposizione civile in Siria. Il Pentagono continua a mettere a punto una gamma di operazioni militari su richiesta di Obama agli inizi di marzo per la pianificazioni di emergenze del genere. Martin E. Dempsey, presidente del Joint Chief of Staff (Stato Maggiore Congiunto), al tempo ha detto ai senatori che le opzioni in esame includevano ponti aerei umanitari, sorveglianza aerea dell’ esercito siriano, e la creazione di una no-fly zone. Inoltre i militari hanno elaborato un piano su come le truppe della coalizione dovrebbero proteggere le consistenti scorte di armi chimiche e biologiche siriane nel caso in cui una vera e propria guerra civile minacci la loro sicurezza. Ma alti funzionari dell’amministrazione hanno sottolineato negli ultimi giorni che l’ opzione militare non è considerata. “A questo punto qualsiasi cosa riguardante la Siria sarebbe ipotetico in casi estremi”, ha detto questo mese ai

giornalisti il generale Dempsey. Da marzo, quello che è cambiato è l’ afflusso di armi e munizioni verso i ribelli. Secondo membri del Sirian National Council e altri attivisti, l’ aria sempre più feroce e gli attacchi d’ artiglieria del governo mirano a contrastare le forze opposte, sempre più armate e coordinate. Questi attivisti hanno dichiarato lo scorso mese che veicoli dell’ esercito turco hanno consegnato armi anticarro al confine dove poi sono stati contrabbandati in Siria. La Turchia ha ripetutamente negato, affermando che stavano solo inviando aiuti umanitari all’ opposizione, in gran parte via i campi di rifugiati vicino al confine. Questi attivisti dicono che gli Stati Uniti erano stati consultati riguardo questo trasferimento di armamenti. Analisti militari americani hanno offerto opinioni contrastanti sul fatto che tali armamenti abbiano compensato i vantaggi dell’ esercito siriano, militarmente superiore. “I ribelli stanno cominciando a capire come battere i carri armati”, ha detto Joseph Holliday, ex ufficiale dell’ esercito americano in Afghanistan ed ora ricercatore che monitora il Free Sirian Army per l’ Institute for the Study of War di Washington. Ma un alto funzionario americano che riceve report d’ intelligence secretati

dalla regione ha comparato le armi dei ribelli alle “cerbottane” contro l’ armamento pesante del governo e i suoi elicotteri d’assalto. Il Sirian National Council, il maggior gruppo di opposizione in esilio, recentemente ha iniziato ad organizzare le unità sparse sul territorio che combattono sotto il nome del Free Sirian Army in una forza sempre più coesa. Funzionari del consiglio nazionale hanno detto che circa 10 consigli di coordinamento militare sparsi nelle province del paese stanno ora condividendo tattiche e altre informazioni. La città di Homs è un’ eccezione, gli manca questa organizzazione perché i 3 principali gruppi militari non sono uniti. Jeffrey White, analista per la difesa al Washington Institute for Near East Policy, registra i video e gli annunci dei sedicenti battaglioni ribelli e ha detto che ora ci sono 100 formazioni ribelli, contro le circa 70 di due mesi fa, di dimensioni che variano da pochi combattenti ad un paio di centinaia. “Quando il regime vuole andare da qualche parte e piazzar il pacchetto giusto di forze, lo può fare”, ha detto il signor White. “Ma l’ opposizione sta alzando il costo di queste operazioni”.

Fonte: www.nytimes.com

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Una candida neve ammantava le cime delle aspre montagne afghane laddove il comandante di un carro sovietico T-62 scrutava, con evidente preoccupazione, le pendici circostanti. Il suo possente mezzo apriva una colonna motorizzata di fanteria che aveva ricevuto l’ordine di entrare nella valle del Panshir per purificarla dai ribelli. In pochi minuti il pesante corazzato sovietico fu sobbalzato da una forte esplosione che ne incendiò i serbatoi, i camion che lo seguivano, frenarono bruscamente e, avvertito il pericolo, i fanti saltarono giù dai laterali per schierarsi in posizione di copertura. Un attimo prima che i militari toccassero terra, dai declivi innevati, si scatenò un inferno di fuoco: proiettili di AK 47 e razzi RPG seminarono il panico tra i soldati i quali cercavano invano un riparo. Era il tragico epilogo di un ennesimo tentativo russo di penetrare attraverso una delle più temute roccaforti dei mujaheddin, il Panshir, la valle del grande Ahmad Shah Massud.

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GLI STUDENTI GUERRIERI

ALEBANIDI PAOLO PALUMBO

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L’Afghanistan di Massud

Per raccontare dei talebani non possiamo prescindere da descrivere brevemente le gesta di Massud, loro fiero oppositore durante gli anni in cui presero il potere. Massud non era un islamista, non dimostrò mai simili

inclinazioni, tuttavia ha rappresentato un momento fondamentale della storia afghana e il suo operato serve a comprendere meglio l’ascesa del

mullah Omar e dei suoi seguaci. Fu, infatti, la lotta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan a costituire uno degli elementi edificanti del fondamentalismo islamico afghano e a renderne salde le fondamenta. Nel 1978, la ribellione al regime comunista di Kabul (retto dal partito

di etnia pashtun Khalq “Popolo”) mise in apprensione il presidente sovietico Leonid Brezhnev il quale, un anno dopo, intimorito dalle diserzioni di massa

che stavano falcidiando l’esercito della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, decise di inviare l’Armata Rossa per riequilibrare le sorti del paese. L’arrivo di un esercito straniero aggravò notevolmente le tensioni all’interno di un territorio già diviso, frammentato in mille tribù e incerto sul proprio destino. L’unica cosa sulla quale la maggioranza degli afghani concordava era l’odio verso i russi i quali non si preoccupavano troppo della loro immagine: la loro presenza segnò, effettivamente, un’escalation di violenza perpetrata a danno delle popolazioni civili. Una dopo l’altra le valli del paese caddero sotto il giogo sovietico: alcune furono conquistate con le armi, per altre bastò semplicemente corrompere i capi tribù per ottenerne il favore. Gli oppositori del regime erano cacciati come bestie feroci: una volta catturati venivano incarcerati nella terribile prigione di Pol-i Charkhi e barbaramente torturati dalla polizia segreta di Najibullah, fedele al presidente Babrak Karmal. In mezzo a questa grande confusione un solo uomo e alcuni suoi fraterni collaboratori fecero la differenza. Arroccato nell’angusta, ma florida valle del Panshir (ricca di miniere di smeraldi), Ahmad Shah Massud e i suoi fedeli, cominciò una lunga e tenace resistenza contro i carri armati sovietici che, a più riprese, tentarono di violare il suo territorio. Massud, uomo colto e lungimirante, era un convinto anticomunista anche se il suo pensiero e modus operandi ricalcava le gesta del rivoluzionario cinese Mao. Nella sua mente albergava un modello organizzativo statale evoluto che, dopo la sua tragica morte il 9 settembre 2001, non fu mai più preso in considerazione da nessun leader afghano. Il suo potere, esercitato entro i confini della sua valle, era ripartito su tre canali: guerra (retto dal generale Fhaim), amministrazione civile (Younos Qanuni responsabile della gestione pratica della resistenza) e rapporti con l’estero (dottor Abdullah, responsabile delle relazioni con gli altri paesi). Il pensiero religioso, tenuto in grandissima considerazione

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Il Leone del Panshir Massud: un condottiero lungimirante, capace e intelligente. Fu lui a guidare il suo paese contro l’occupazione sovietica degli anni Ottanta. Cadde vittima di un attentato ordito da al-Qaeda il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attacco terroristico alle Twin Tower di New York.

Guerriglieri mujaheddin armati di tutto punto con AK 47 e RPG. La loro tattica mordi e fuggi mandò nel caos l’intero stato maggiore sovietico che non seppe mai porre rimedio alle scorribande della resistenza afghana.

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da Massud, era confidato ai mullah i quali però non intervenivano in modo decisivo nelle sedute di governo. Le contingenze del momento facevano del ministero della guerra il primo pensiero del giovane condottiero afghano: con la testa coperta dal celebre pakol (tipico copricapo afghano arrotolato) soleva viaggiare da un capo all’altro della valle per dirigere le imboscate e le operazioni contro le piazzeforti russe. Le strade percorribili dai mezzi ruotati sovietici non erano molte, lunghe file di blindati e corazzati si snodavano attraverso le strette carrabili del Panshir: Massud attendeva con pazienza, lasciava che le colonne si addentrassero profondamente nella valle, dopodiché colpiva duro e implacabile, in qualsiasi momento del giorno o della notte, senza lasciare via di scampo. La sua tattica mordi e fuggi mandò letteralmente nel panico lo stato maggiore sovietico al quale non restava che rifarsi, vigliaccamente, sui contadini e le donne inermi. La resistenza afgana disseminava le strade con ordigni esplosivi improvvisati (gli odierni IED) che avevano un padre costruttore, il maestro Adb-ul Wahid il quale adoperava cariche di dinamite interrate e mimetizzate con tutto quello che trovava. Neppure l’arrivo degli elicotteri e dei temuti spetsnaz (forze speciali russe) mutarono l’andamento della guerra; ogni giorno che passava Massud diventava sempre più forte, mentre i sovietici erano prossimi al collasso. L’attitudine organizzativa di Massud ebbe forti ripercussioni sullo stesso movimento dei mujaheddin la cui organizzazione non fu lasciata al caso. Tutto il Panshir venne diviso in zone militari (sette zone per ventidue “basi”) alle quali furono assegnati dei contingenti di mujahid. L’unità base che presidiava i villaggi erano le quarar-gah dette anche le “fisse”: questi erano semplici contadini-guerrieri i quali, oltre a lavorare quotidianamente i raccolti, provvedevano alla difesa dei propri campi e delle abitazioni. A un grado superiore si trovavano gli zorbati (tiratori) che a differenza dei primi erano soldati professionisti

esentati dal lavoro agricolo. Il loro raggio d’azione andava ben oltre i confini abitativi estendendosi per oltre 30 km. Le vere forze speciali di Massud – se così le possiamo chiamare – erano i motharrek, i “mobili” ai quali venivano commesse le operazioni più difficili e a “lungo raggio”. Proprio i motharrek costituirono il primo nucleo dell’esercito afghano dell’Alleanza del Nord che affiancò le Special Forces americane e inglesi durante l’operazione Enduring Freedom. La vera chiave di lettura per comprendere l’ascesa del movimento talebano sta proprio in questi anni: la guerra in Afghanistan si collocava, infatti, nel grande scenario politico della “Guerra Fredda” dove si fronteggiavano russi e americani. Quale grande occasione dunque per la Casa Bianca di vedere

il rivale sovietico aggrovigliato in una sorta di Vietnam senza via d’uscita? L’unico modo per accelerare il tracollo del Cremlino era quello di finanziare con armi e denaro la resistenza di Massud e degli altri combattenti, usando infiltrati della CIA e intermediari pakistani (appartenenti all’ISI – Inter Services Intelligence). Come vedremo, l’azione dei servizi segreti americani, guidati al tempo da William Jospeh Casey, creò un pericoloso cortocircuito tra l’Afghanistan, il mondo islamico e l’occidente; gli Stati Uniti dimostrarono ancora una volta scarsa prudenza e un forte impaccio nel trattare questioni riguardanti culture diverse dalla loro.

Il crollo sovietico e il caos afghano

La forza principale comandata da

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Sentieri impervi, terreno brullo e rara vegetazione: queste sono le caratteristiche del territorio afghano, dove i guerriglieri possedevano la loro casa. Era, dunque, impossibile per i sovietici scovare i loro nascondigli o solo immaginare da dove sarebbe potuta partire l’imboscata.

Dopo gli attacchi contro le colonne motorizzate russe, i mujaheddin raccoglievano più armi e munizioni possibili per rimpinguare il loro misero arsenale.

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Il nucleo di resistenza messo in piedi da Massud diventò l’embrione da cui scaturì l’esercito afghano dell’Alleanza del Nord, che fu di estremo aiuto alle forze speciali dell’ISAF nel corso della guerra contro i talebani.

Il termine peridentificare i guerriglieri

afghani può essere scritto in diverse maniere da

mujahidin a mujaheddin, così come il termine mullà

o mullah, afgano o afghano: sono comunque tutti termini

utilizzati in modocorretto.

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Massud nel nord del paese era composta principalmente da afghani di origine Tagika, Uzbeka o Turkmena, lo stesso capo mujahidin era un tagiko anche se a lui questa definizione piaceva poco. A sud come nella maggior parte dell’Afghanistan l’etnia dominante che guidava la ribellione contro i russi era pashtun la quale, a sua volta, era divisa in due grandi blocchi: i pashtun durrani – a sud – che avevano come punto di riferimento la città di Kandahar e i pashtun ghilzai schierati nella parte orientale con centro a Kabul. L’impegno finanziario e militare della CIA passava attraverso il Pakistan: erano, infatti, gli uomini dell’ISI a smistare il denaro americano e in questo ebbero sempre un rapporto privilegiato con i pashtun durrani. La politica di Washington si concretò nel 1986 con tre decisioni importanti, manovrate abilmente dall’Agenzia di Casey: in primo luogo gli americani accordarono ai mujahidin dei consulenti militari, in seconda battuta vendettero alla resistenza una grossa partita di missili antiaerei Stinger (in totale 900 unità) e, cosa molto grave, foriera di future sciagure, concedettero all’ISI di arruolare i mussulmani islamisti di tutto il mondo

per combattere una “jihad globale” contro il demone sovietico, una sorta di “internazionale mussulmana”. Da quel momento in poi il Pakistan divenne il punto d’incontro del radicalismo islamico: un luogo sicuro e protetto dove tutti i “soldati di Allah” potevano riunirsi e addestrarsi insieme per poi valicare i confini a combattere i sovietici. I campi di addestramento sorti vicino a Peshawar e lungo la linea Durand divennero un centro di scambio importantissimo nel quale i

rappresentati della Lega Mussulmana, dei Fratelli mussulmani e integralisti palestinesi fondarono una causa comune, un’ideologia totalizzante della jihad che per il momento riguardava solo la Russia, ma che ben presto toccò tutto il mondo occidentale. Non a caso “molti di questi radicali” – ricorda Ahmed Rashid nel suo volume dedicato ai talebani – “davano per scontato che se la jihad afgana era riuscita a sconfiggere una delle superpotenze, l’Unione Sovietica,

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I talebani erano giovani studenti delle madrase i quali, guidati dal Mullah Omar, intrapresero la conquista del paese per riportarlo alle origini e purificarlo dalla corruzione in cui era caduto dopo l’invasione sovietica. L’idea di un rigido ritorno al passato era perseguita con rigidità e violenza: i talebani si macchiarono, infatti, di efferati delitti contro chi decideva di non abbracciare il loro vaneggiante progetto.

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essi avrebbero potuto sconfiggere anche l’altra, gli Stati Uniti, nonché i propri regimi” (Rashid, p. 168). Il primo campo d’addestramento promosso dal giovane saudita Osama bin Laden a Khost era stato finanziato anche con dollari americani! L’errore più grave commesso dalla Casa Bianca avvenne quando i sovietici lasciarono il suolo afghano: da quel momento in poi gli Stati Uniti abbandonarono Kabul al proprio destino, rinunciando a un piano futuro, politico ed economico, che scongiurasse l’ascesa al potere dei fondamentalisti. Quando gli ultimi carri russi si ritirarono, gli americani avrebbero potuto far sentire il loro peso con aiuti finanziari, magari

rafforzando la posizione di Massud il quale aveva dimostrato grandi qualità non solo in campo militare, ma anche politico. Non avvenne nulla di tutto questo e l’Afghanistan sprofondò in uno dei periodi più bui della sua tormentata storia. Grazie ad un’abile mossa politica salì al potere Mohammad Najibullah il quale, con grande destrezza, seppe riciclare la sua immagine proponendosi come un vincitore. Sarà proprio lui la prima vittima della furia talebana nel 1996.

L’arrivo dei talebani

La fine dell’invasione sovietica e il governo “fantoccio” di Najibullah aveva

riacutizzato gli antagonismi all’interno del complesso sistema tribale afghano. Massud, che era stato il vero vincitore della guerra, e i suoi mujahidin avevano accondisceso alle volontà del nuovo presidente in cambio di una sua formale promessa di dimissioni entro una certa data. I capi mujihad rimasti a Kabul furono traviati molto presto alla cultura politica: persero il vigore e il coraggio dimostrato in battaglia, stabilendo una sorta di potere ambiguo fatto di continui soprusi ai danni della gente. In mezzo a questo caos emerse un gruppo di studenti formatisi principalmente nelle madrase del Pakistan, giovani pashtun appena ventenni che della guerra conoscevano

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Nell’Afghanistan post invasione russa rimase sul territorio un’ingente quantitativo di armi automatiche, bombe e soprattutto mine. Durante la guerra i sovietici disseminarono i campi dei contadini di pericolose mine antiuomo che causarono numerose mutilazioni a donne, vecchi e bambini.

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poco, se non le gesta dei loro padri o di Massud; con il Corano stretto tra le mani apprendevano lezioni di vita dai loro massimi esponenti, i mullah, i quali condannavano con rabbia quanto stava accadendo nel paese. Secondo i mullah, non vi era alcuna legge da approvare, nessun uomo da votare poiché le risposte a qualunque interrogativo erano già trascritte nel Corano, scaturivano dalla religione del profeta il quale, attraverso la loro predicazione, indicava la retta via a tutti i buoni mussulmani. Loro, i taliban (plurale di talib=studente) non avevano alcuna preparazione culturale se non quella coranica, non conoscevano il mondo, tantomeno lo

avevano visito, la loro concezione della vita era ristretta alla sharia, tuttavia sentivano in loro una missione, ossia quella di riportare ordine in uno paese sbriciolato e corrotto dalle rivalità interne dei “signori della guerra”, da un modo di vivere impuro, che non lasciava spazio alla fede. Queste poche, ma robuste, convinzioni, unite a una guida spirituale sicura, costituirono il motore del movimento talebano che in pochi anni soggiogò gran parte dell’Afghanistan. Unici baluardi contro questa inarrestabile avanzata erano alcuni veterani mujahidin come Massud, affiancato da Mohammad Ismail Khan (ultimo difensore di Herat) e Abdul Rashid Dostum i quali organizzarono una forte, ma quanto vana, resistenza agli studenti del mullah Mohammed Omar, leader indiscusso del movimento. Omar poteva, inoltre, contare sul supporto del governo di Islamabad (retto prima da Benazir Bhutto, poi da Namaz Sharif) e in particolare dai vertici dell’ISI il quale supponeva – facendo un grossolano errore – che l’aiuto ai talebani avrebbe fruttato un futuro controllo dell’Afghanistan in funzione anti Indiana. Tra i sostenitori della marcia talebana vi era, incredibilmente, anche l’amministrazione Clinton che intravedeva interessanti prospettive contro l’acerrimo nemico iraniano, soprattutto in previsione della costruzione di un gasdotto in Asia centrale che non fosse

passato dall’Iran. Il 26 settembre 1996 diversi pick-up Toyota – forniti dall’Arabia Saudita – carichi di uomini barbuti armati di Ak-47 fecero ingresso a Kabul. La prima azione concreta del governo talebano fu la brutale esecuzione di Najibullah, successivamente promulgarono la sharia nel senso più stretto, inimmaginabile anche per il resto delle comunità mussulmane nel mondo. Le donne furono segregate e bandite da tutti i posti di lavoro, fu vietata ogni forma di tecnologia, i bambini furono ritirati dalle scuole, gli ospedali chiusi (poiché buona parte del personale era femminile), gli uomini dovevano obbligatoriamente farsi crescere la barba di una certa misura, mentre tutte le organizzazioni internazionali che operavano sul suolo Afghano furono allontanate. Il mullah Omar spegneva definitivamente la luce a un paese che già viveva nell’ombra!

Il Signore del Destino

“Amir-ul Momineen”, questo è l’appellativo che i talebani hanno dato al mullah Omar il quale consacrò la sua immagine al mondo mussulmano avvolgendosi intorno al mantello di Maometto. Era lui, il Signore del Destino, lo stesso uomo che durante la guerra contro i sovietici ebbe la sventura di perdere un occhio e oggi è il fiero appartenente di una generazione mutilata, nel vero senso della parola.

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Nato nel 1962 a Zadeh, Mohammed Omar era figlio di poveri contadini i quali non avevano alcuna posizione di rilievo all’interno della loro tribù, il clan pashtun degli Hotaki; a 19 anni partecipò alla guerra contro l’Armata

Rossa dove ebbe un ruolo marginale poiché i capi mujaheddin erano tutti uomini più anziani di lui. Alla fine del conflitto scelse la madrasa di Singesar quale suo rifugio spirituale e proprio in quel piccolo villaggio nacque la sua leggenda; egli, insieme ad alcuni suoi fedeli compagni, fu il primo a ribellarsi alle angherie dei comandanti mujaheddin, oramai fuori controllo e dediti al banditismo. La strada che lo portò a Kabul era disseminata di cadaveri mussulmani (spaventoso fu il massacro di Mazar nel quale i talebani avevano sparato su donne, vecchi e bambini lasciando i corpi allo scoperto per ben sei giorni), un fatto certamente non atteso in nessuna pagina del Corano il quale recita che non si devono assassinare i propri correligionari. La visione del mondo di Omar era circoscritta, confinata alla sola legge islamica e il suo obiettivo era quello di ricondurre l’Afghanistan alle origini, ai tempi del Profeta. Ad esempio, il simbolo della non cultura talebana fu l’abbattimento dei due colossi buddisti di Bamiyan del II secolo d.C. , un monumento imponente, simbolo di una civiltà millenaria, ma ai loro occhi vergognoso e blasfemo. Siamo sicuri che il Corano prescrivesse anche questo? Secondo la maggioranza dei mussulmani no. Agli occhi del suo popolo, Omar manteneva

comunque le sue promesse: aveva disarmato i signori della guerra, fiaccato temporaneamente il traffico di droga e riportato l’ordine in tutto il paese dando un’energica spallata alla prepotenza dei “Signori della guerra”. Lo stato talebano riconosceva potere decisionale al mullah e alla Suprema Shura che aveva base a Kandahar composta da dieci membri coadiuvati dai capi militari, dagli anziani delle tribù e dagli ulema. Al fianco di questo monolite centrale c’erano la Shura di Kabul (dove risiedevano anche i ministri, poi decaduta) e la Shura militare. Il complesso territorio afghano era invece controllato dai governatori ai quali Omar non accordava mai troppa indipendenza. La struttura militare dei talebani non è ancora oggi molto chiara; l’afflusso di combattenti è garantito dalla coscrizione obbligatoria, anche se tutto l’esercito non ha mai superato le trentamila unità. I talib non ricevono un retribuzione governativa, bensì è il comandante a dover preoccuparsi della loro paga; i soli stipendiati sono i soldati professionisti ai quali vengono affidati i pochi strumenti tecnologici a disposizione: carri armati e artiglieria in particolare. L’ostracismo nei confronti delle altre etnie, i divieti imposti agli organismi delle Nazioni Unite e non ultime le notizie circa i maltrattamenti alle donne, avevano creato un muro divisorio tra il mullah Omar e la comunità internazionale che non volle saperne di riconoscere il nuovo governo. Il nodo centrale della questione talebana sta tutto in una errata e distorta interpretazione dell’Islam, un fatto rilevante che ha creato un’esclusione dai rapporti con altri paesi mussulmani. L’Afghanistan, prima dell’arrivo di Omar, non aveva mai palesato alcuna volontà islamista perseguendo una politica di tolleranza nei confronti di tutte le etnie del paese. La jiahd non imponeva di far saltare in aria case, uccidere donne e bambini o massacrare innocenti nel nome di Maometto, tantomeno se le vittime appartenevano alla stesso credo. Le azioni dei talebani erano e sono dunque un’anomalia sia per il mondo

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I talebani non sono un’organizzazione di terroristi, tuttavia sono diventati i loro principali protettori e confidenti: la commistione tra i due elementi ha forti legami, soprattutto collegati al mercato internazionale di stupefacenti dal quale sia l’Afghanistan, sia i terroristi traggono i loro profitti.

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arabo, sia per alcuni pashtun. Molti afghani credono, infatti, che sotto il nome di “guerra santa” si nasconda semplicemente la volontà di fare una barbara pulizia etnica di non-pashtun!

I talebani e il terrorismo

Questa traballante profondità ideologica e la violenza arbitraria hanno fatto del movimento talebano un terreno fertile per un’infiltrazione terrorista dissimile da quella presente in altri paesi mussulmani. È bene specificare che i talebani non sono un gruppo di terroristi: essi non hanno mai condotto azioni all’interno o al di fuori del loro paese che li indentificasse come tali. La loro forte commistione con il terrorismo è un fatto successivo alla loro presa di potere e si riconosce con la figura di Osama bin Laden il quale – come abbiamo visto – si muoveva in Pakistan e in Afghanistan già al tempo della guerra contro l’URSS. Il mullah Omar avvicinò nuovamente bin Laden dopo la prima guerra del Golfo quando il saudita, deluso dal comportamento del suo governo colpevole di aver chiamato gli americani sul proprio territorio, emigrò a Jalalabad mettendosi sotto protezione della shura locale. Negli anni Novanta, bin Laden attirò l’attenzione del mondo intensificando la sua lotta contro gl’imperialisti con nuovi attentati tra cui quello al World Trade Center di New York (1993), in Tanzania e in Kenya nel 1998; come risposta a questa recrudescenza la Casa Bianca nel 1996 aveva approvato l’Anti-Terrorism Act nel quale venivano confiscati i beni ai terroristi. Osama bin Laden stava diventando un personaggio scomodo sia per il mondo islamico, sia per i sauditi stessi i quali temevano di dover riconoscere una tangibile commistione tra lui e la famiglia reale. Il mullah Omar aprì così le porte al “perseguitato” bin Laden, ma non con l’intento di proteggerlo, bensì per farne un oggetto di trattativa con gli americani al fine di ottenere il riconoscimento internazionale del proprio regime. Lentamente questo obiettivo venne meno e tra bin Laden

e Omar si instaurò un rapporto di profonda amicizia e sostegno economico inscindibile. I talebani, supportati da Al Qaeda, avevano anche ripreso la produzione di oppio che rappresentava gran parte dell’introito nazionale. Il punto di svolta avvenne l’11 settembre 2001: l’attentato alle Torri Gemelle avrebbe segnato il destino del mondo, ma soprattutto dei talebani i quali non sarebbero scampati alla vendetta americana. Il mullah Omar non poteva accettare le condizioni imposte dal presidente americano George W. Bush per il semplice motivo che bin Laden era un’ospite, quindi sacro, e consegnandolo avrebbe violato il Pashtunwali il codice di comportamento tradizionale della tribù. L’operazione Enduring Freedom

aprì l’ennesima lacerazione per l’Afghanistan il quale fu invaso da una forza multinazionale che aveva come obiettivo principale la caccia a bin Laden e la sua organizzazione. Anche in questo caso l’amministrazione Bush non dava prova di interessarsi molto al destino del paese, l’unico scopo era scovare e distruggere le basi da cui erano partiti i dirottatori dei voli “assassini”. Le possibilità di resistere a una forza simile erano del tutto vane, così il mullah Omar, con una leggendaria e rocambolesca fuga in moto, evitò la cattura per riparare in Pakistan.

La Shura di Quetta e le reti talebane

Dopo l’attacco americano del 2001, il

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Osama Bin Laden ha trascinato in guerra l’intero Afghanistan. Dopo l’attentato dell’11 settembre, il giovane saudita si rifugiò presso il mullah Omar il quale gli garantì protezione e rispetto. Le motivazioni che muovevano i talebani cambiarono prospettiva grazie all’infiltrazione dei terroristi di al-Qaeda i quali trovarono terreno fertile nel fanatismo manifestato dai giovani studenti di Omar.

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direttivo pashtun dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan trovava una nuova sede operativa al di là della linea Durand, a Quetta (Baluchistan). Li si erano trasferiti il mullah Omar e il suo governo e da quella piccola città continuano ancora oggi a manovrare le forze che regolarmente punzecchiano l’ISAF e i suoi referenti locali. Malgrado la perdita di contatto con la propria capitale, il potere di Omar è ancora molto saldo, soprattutto nella parte meridionale del paese, nei dintorni della città di Kandahar e nei distretti di Lashkar Gah e Gereshk a Helmand. La Shura di Quetta agisce, infatti, come una vera e propria autorità ombra la quale impone la sua volontà attraverso l’invio di governatori che minacciano e ricattano le popolazioni locali: alcune preferiscono proteggere i talebani, altre (in minoranza) negano qualsiasi aiuto, accogliendo il sostegno alleato. A Quetta, il mullah Omar sovrintende e predispone quelle che i pashtun chiamano Kamin (imboscate) essenzialmente contro i convogli alleati, i capi della ANP (Afghan National Police) e i soldati dell’ANA (Afghan National Army) il cui contributo, dapprima deludente, ha iniziato a dare qualche risultato positivo. Un altro obiettivo delle rappresaglie talebane sono i membri dell’NDS (National Directorate of Security) una sorta di servizio segreto afghano il cui operato – considerato di ottimo livello, il migliore in tutto il paese – offre considerevoli vantaggi agli americani. In stretta connessione con la Shura di Quetta operano altre due organizzazioni le quali, negli ultimi tempi, hanno dimostrato tutta la loro pericolosità: si tratta della rete di Haqqani e la rete di Hezb-e Islami Gulbuddin, entrambi gruppi storici nella lotta antisovietica degli anni Ottanta. La rete di Haqqani, una delle più attive, mantiene il controllo del nord Waziristan con il suo quartier generale a Miramshah, città-sede dell’11° Corpo dell’esercito Pakistano. Non c’è quindi da stupirsi se molti appartenenti a questa compagine siano ex soldati alle forze armate pakistane; Hafiz Gul Bahadur, capo dell’organizzazione,

è inoltre tra i principali protettori di Al Qaeda. Il termine “rete” descrive perfettamente il tipo di avversario che le forze dell’ISAF devono fronteggiare: mentre in Iraq gli insorti agivano essenzialmente lungo tre valli che confluivano tutte verso il centro di Baghdad, in Afghanistan l’azione dei talebani non ha confini apparenti e si estende a macchia di leopardo. Per questo motivo le forze alleate hanno sviluppato una serie di programmi che coinvolgessero le forze locali per un controllo del territorio più capillare: da questa necessità è stata istituita la Afghan Local Police subordinata alla polizia e al ministero dell’interno. Il problema maggiore, tuttavia è che la Shura di Quetta fornisce molte più assicurazioni del governo di Kabul: è significativo, infatti, come la giustizia, la sicurezza e il commercio siano sempre “ufficiosamente” nella mani dei talebani, giacché il governo di Karzai – all’interno del quale serpeggia ancora molta corruzione – non ha la forza e l’autorevolezza politica per imporsi. Alla luce di quanto sopra decritto, che è solo la superficie di un problema ben più profondo e complesso, molti si chiedono se esiste una via d’uscita per le forze internazionali da questo dedalo di conflitti. Una risposta approfondita

prenderebbe molte pagine, tuttavia il bilancio generale della missione ISAF appare quanto mai incerto e tutt’oggi al centro di un dibattito tra le forze politiche coinvolte. Innanzi tutto chi credeva che l’amministrazione americana democratica portasse a una forte riduzione del contingente militare si sbagliava di grosso; proprio il presidente Barak Obama, nel 2009, ha incrementato lo sforzo in quella direzione evitando lo stesso errore commesso negli anni Ottanta. Obama ha dunque aumentato il numero di soldati, di consulenti militari per l’ANA, e lo sforzo per un maggiore sviluppo economico e una distribuzione più capillare degli aiuti militari e umanitari. La politica, in un certo senso scellerata, attuata da Donald Rumsfeld il quale tendeva a dare la caccia solo ai terroristi, è stata definitivamente abbandonata: l’Afghanistan non è l’Iraq e i talebani non sono arrendevoli come gli iracheni, hanno inoltre un tessuto sociale diverso. I talebani, poi, hanno dimostrato maggiore scaltrezza evitando di inimicarsi la popolazione con autobombe o stragi di massa. I soldati dell’ISAF, certamente, recitano la parte principale di questo nuovo “Grande Gioco”, proprio come

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L’impegno quotidiano delle forze dell’ISAF ha un duplice aspetto: il primo è di proteggere la popolazione e assicurare loro un minimo di

assistenza su diversi aspetti della loro vita, il secondo è la lotta contro i talebani, i terroristi e il traffico internazionale di oppio.

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secoli addietro i soldati inglesi. Lontani dai tavoli della politica e assoggettai alle decisioni altrui, ogni giorno i nostri ragazzi salgono su un autoblindo per pattugliare la “Ring Road”, arrivare nei villaggi, portare il loro aiuto e garantire la loro protezione. I nostri ragazzi conoscono bene le potenzialità di un nemico avvezzo alla guerriglia, che conosce ogni pietra di casa sua e che sa come e quando colpire. A loro, ai ragazzi del nostro esercito, va il merito di aver compreso, senza manuali e senza la protezione di pesanti bombardieri, che per vincere questa “guerra” molte volte è necessario mettere da parte il fucile e stendere coraggiosamente una mano.

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Le fonti

Per comprendere a 360° il movimento dei talebani è fondamentale la lettura di Ahmed Rashid, Talebani. Islam, petrolio e il Grande scontro in Asia centrale (Milano, 2002); su Massud e la guerra in Afghanistan degli anni Ottanta centrale è la biografia di Michael Berry, Massud. Il leone del Panshir (Milano, 2002); sul Mullah Omar si veda la biografia di Massimo Fini, Il Mullah Omar (Venezia, 2011); sulla politica militare molto utile è Michael E. O’Hanlon-Hassina Sherjan, Afghanistan. La guerra infinita (Roma, 2010). Per la stesura dell’articolo ho anche consultato alcuni studi americani molto interessanti pubblicati dall’Institute for the Study of War come quello di Jeffrey Dressler, The Haqqani network (Washington, 2012) e Frederick W. Kagan-Kimberly Kagan, Defining success in Afghanistan (2011). Di grande utilità è stato anche Gretchen Peters, Crime and Insurgency in the Tribal Areas of Afghanistan and Pakistan (edito dal CTC Combating Terrorism Center di West Point, 2010). Per finire sulla nostra missione in Afghanistan un volume molto bello è quello di Gian Micalessin, Afghanistan, ultima trincea (Milano, 2009) oppure i ricordi di Mario Renna, Ring Road (Milano, 2011). Una splendida memoria fotografica che aiuta a comprendere con le immagini il teatro afghano è il libro fotografico Folgore - Afghanistan 2011. (Corno Editore Milano, 2011).

Oppio: il principale sostentamento dell’Afghanistan. La lotta contro il

terrorismo inizia dalla distruzione di queste enormi piantagioni e della loro

trasformazione in produzioni legali, utili a sfamare la popolazione.

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Per i lettori di TACTICAL NEWS Magazine

LE GRANDI COLLANE IN DVD E BLU RAYLE GRANDI COLLANE IN DVD E BLU RAYVIETNAM in HDDurata: 260’ Non è la guerra che conoscete. È la guerra che hanno combattutoNon è la guerra che conoscete. È la guerra che hanno combattuto.

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della gara per il primato nei cieli.

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distanza e di individuare obiet-tivi terrestri fino a 24 mila metri

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capacità di affrontare il combat-timento manovrato con qualsiasi

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SPECIAL EQUIPMENT GAMMA MK2

MADE IN ITALY ALLO STATO DELL’ARTE

DI GIUSEPPE MARINO FOTO MARCO ANTONIO GARAVENTA

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Il primo prototipo del plate carrier denominato Gamma, nasce circa tre anni fa, nel laboratorio di progettazione della genovese Special Equipment. Il tutto al fine di rispondere all’esigenza di sviluppo di un plate carrier di nuova concezione, con caratteristiche tali da migliorare e completare l’ottimo prodotto già in precedenza immesso sul mercato: il Pirate Body Armor, già in passato recensito sulle pagine di questa stessa rivista. Le specifiche sulla base delle quali è stato sviluppato il Gamma, prevedevano inizialmente la realizzazione di un plate carrier dotato di: sistema a sgancio rapido – requisito indispensabile per equipaggiamenti di questo tipo destinati a operazioni marittime – estrema compattezza, dunque possibilità di eccellente capacità di movimento, specie in ambienti ristretti, accorgimenti costruttivi specifici atti a consentire l’agevole drenaggio di acqua e aria. Tutte caratteristiche di un prodotto destinato da attrezzare operatori impiegati in operazioni di assalto navale. Al fine di realizzare un prodotto davvero specializzato e in grado di soddisfare a pieno le specifiche esigenze

proprie dei diversi possibili ambienti operativi, lo sviluppo del Gamma ha portato, in seconda battuta, alla realizzazione di due versioni, ciascuna delle quali ottimizzata per un determinato tipo di ambiente operativo e dunque profilo di missione. Nello specifico sono state sviluppate la versione Maritime e Land. La prima, specificatamente concepita per operazioni subacquee e più in generale di assalto navale, presenta particolari soluzioni atte a facilitare l’operare in ambiente marino/fluviale. Tra esse dunque, in aggiunta alle caratteristiche già menzionate: una robustissima struttura in cordura 1000D; kit di connessione con respiratore ARO Caimano, nelle sue diverse versioni; un completo set di tasche dedicate aventi specifiche costruttive perfettamente analoghe a quelle adottate per la realizzazione del plate carrier. In ragione dell’eccellente qualità del prodotto testé descritto, della elettiva destinazione d’uso ad operazioni di assalto navale, oggi il Gamma Maritime è stato adottato ufficialmente dal GOI (Gruppo Operativo Incursori) della Marina Militare. A tal proposito è

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Vista complessiva del plate carrier Gamma MK2

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opportuno evidenziare come la versione in dotazione al GOI abbia ulteriori specifici accorgimenti e soluzioni costruttive che rendono il prodotto finale parzialmente differente dalla versione di serie e contestualmente ottimizzato per soddisfare le particolarissime esigenze del Reparto. Per quanto riguarda la versione Land, nel 2012, la produzione è arrivata alla versione MK2, peraltro oggetto centrale della presente trattazione e dunque ritratto nelle foto di dettaglio presenti sulle pagine di questo articolo. Il Gamma Land MK2 rappresenta oggi, di fatto, la massima evoluzione del modello originale. Esso è realizzato con una robustissima struttura in cordura 1000D avente, nelle porzioni a contatto col corpo dell’operatore, una rete traspirante quale fodera interna. Quest’ultima, infatti, essendo dotata di elevata capacità traspirante, è in grado di incrementare sensibilmente la comodità nelle lunghe sessioni d’impiego del plate carrier riducendo conseguentemente l’affaticamento dell’operatore, incrementandone le capacità operative.Sempre con l’obiettivo di migliorare la vestibilità del prodotto e la comodità per l’operatore, al fine di completarlo, sono stati sviluppati ulteriori specifici dispositivi accessori quali: imbottiture per le spalle amovibili e migliorate in termini di forma e materiali impiegati; imbottiture laterali realizzate in rete tridimensionale traspirante predisposte per il fissaggio con velcro nella parte interna (a contatto del corpo dell’operatore) delle alette del plate. Focalizzando

l’attenzione nello specifico, sulle innovative imbottiture per l’interno delle alette, è opportuno osservare come siano state progettate per assolvere a molteplici funzioni. Le principali sono: contribuire alla stabilizzazione del carico; funzione antishock in caso d’impatto laterale, sia dovuto a una generica causa esterna sia da un colpo di arma da fuoco, auspicabilmente arrestato dalle protezioni balistiche installate nelle alette del plate carrier. Alette che nel Gamma MK2, oltre ad essere di dimensioni maggiorate rispetto la versione precedente, in modo da consentire l’inserimento di protezioni balistiche con superficie protettiva utile maggiore, sono dotate di apposita tasca interna per permettere un posizionamento saldo e ottimale delle piastre balistiche inserite. La stabilità del carico, favorito come accennato dalle imbottiture laterali in rete tridimensionale, è migliorato anche grazie a una robusta fascia elastica ventrale che fa aderire sulla porzione inferiore della schiena dell’operatore la protezione balistica dorsale. Il Gamma, in tutte le sue versioni, nascendo in origine come sistema destinato all’ambiente marino, mantiene la funzione di sgancio rapido.

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A sinistra: Vista frontale del plate carrier su cui risultano fissati porta caricatori per sistema AR e per pistola. La possibilità di inserire, in una tasca realizzata come marsupio sul fronte del plate, un porta caricatore triplo per

arma lunga, consente il posizionamento sui pals frontali di un ulteriore porta caricatore multiplo da 3 o 4 posti. La capacità di trasporto munizioni risulta dunque sensibilmente incrementata rispetto a sistemi di tipo convenzionale privi di tale soluzione costruttiva. La foto in questione permette inoltre al lettore di apprezzare come le dimensioni

e forme ottimizzate del Gamma consentano un’agevole impiego anche di una combat belt attrezzata quale quella indossata dall’operatore fotografato.

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Nella versione MK2, il rilascio del plate carrier, in altre parole la scissione dello stesso nelle sue principali parti costitutive, avviene per mezzo della trazione di una maniglia posizionabile, a scelta, su una delle due spalle del plate. Tale maniglia è collegata a un unico cavo funzionante da fulcro strutturale dell’intero sistema.Il sistema a sgancio rapido consente anche di attagliare il Gamma alle misure corporee dell’operatore. Sebbene il plate carrier sia disponibile nelle tre taglie (Small, Medium e Large), queste ultime sono per lo più dipendenti dalla dimensione delle protezioni balistiche installate e dunque, solo in seconda analisi, relative dalla corporatura dell’operatore. Il sistema a sgancio rapido, come già asserito, è un requisito fondamentale per un sistema di buffetteria destinato a personale operante in campo navale/fluviale, ad

ogni modo la funzionalità ed importanza di tale sistema si palesa anche in occasione del ferimento di un operatore, qualunque sia il teatro di impiego. In una situazione caratterizzata dal ferimento di un operatore, lo sgancio rapido del sistema consente la rapida, completa e agevole rimozione del plate carrier facilitando l’intervento da parte del personale medico e paramedico. Allo stesso modo, per gestire un eventuale operatore ferito e favorirne lo spostamento rapido sul terreno, il Gamma MK2 è dotato di una robustissima maniglia recupero operatore realizzata in cordura. Essa è fissata sulla parte posteriore del plate con lunghe cuciture che bloccano la stessa su tutta la lunghezza del dorso in modo da ottenere un’ottimale ripartizione dello sforzo di trazione e una maggiore resistenza. Il Gamma MK2 è

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predisposto per un ottimale trasporto e contestuale integrazione al proprio interno dei principali sistemi di comunicazione oggi in dotazione agli operatori delle forze speciali. Grazie alla presenza di specifici comparti dedicati, e idonei passaggi di cavi elastici e fascette hook&loop, gli operatori hanno la possibilità di collocare comodamente l’apparto radiotrasmittente in dotazione e fissare poi funzionalmente e stabilmente tutti i cablaggi accessori. Allo scopo di fornire al cliente finale un prodotto completo e un vero e proprio sistema integrato di trasporto equipaggiamento e protezione individuale, idoneo per operare nei tre “ambienti” – terra, acqua, aria – il Gamma MK2 può essere ultimato, oltre con l’installazione di protezioni balistiche (fornite dalla stessa Special Equipment), anche con una gamma di accessori progettati e realizzati in modo da specializzare e ottimizzare il set up del plate carrier in accordo con l’ambito operativo selezionato. Nello specifico i principali accessori in questione, oltre le tasche porta caricatori, pouche

mediche ed utility generiche, constano di: un sistema di ancoraggio per l’arma lunga, tasca ottimizzata per contenere un lancia granate stand alone o fucile calibro 12 compatto, zainetto porta idratatore a sgancio rapido impiegabile anche indipendentemente (la Special Equipment, salvo diverse richieste del cliente, fornisce il sistema completo di un idratatore Source da 3 litri), tasche accessorie sviluppate con specifiche tali da garantire i livelli di ritenzione e funzionali necessari per l’aereo lancio, kit ARO, ovvero kit per installazione del respiratore subacqueo comunemente in uso alle forze speciali (il kit ARO è installabile comunque su tutte le versioni del Gamma). La Special Equipment caratterizza la propria produzione di serie con l’implementazione di continue e progressive migliorie tecniche, frutto dei feedback provenienti dagli operatori dispiegati negli attuali teatri operativi. Uno dei punti di forza dell’azienda genovese è proprio la continua evoluzione tecnologica e funzionale della gamma di prodotti, in linea con le richieste provenienti

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direttamente dal campo. La ricerca e il collegamento diretto con gli utenti, insieme a un’intensa attività di prove tecniche, sperimentazioni e test sul campo, consente la massima cura del particolare e la crescente ottimizzazione, nell’ottica di tendere al conseguimento dello stato dell’arte tecnologico e funzionale per i prodotti sviluppati. Oltre all’attività di graduale ottimizzazione e miglioramento, la Special Equipment sviluppa delle vere e proprie varianti dei propri prodotti realizzate “ad hoc” per soddisfare le specifiche esigenze di alcuni reparti e/o distaccamenti operativi. Partendo dunque da un prodotto base, possono essere sviluppate delle versioni realizzate grazie a pacchetti di customizzazione concordati con il committente. In linea con tale modus operandi e policy commerciale, come in precedenza accennato, è stata sviluppata e creata la variante del Gamma su specifiche richieste dal GOI (Gruppo Operativo Incursori) della Marina Militare, ottimizzata ovviamente per operare in ambiente marino, in accordo con le procedure operative

del Reparto (non in vendita al pubblico). Il Gamma MK2, prodotto originale completo, ha costituito la piattaforma di partenza da cui è iniziato lo sviluppo e la realizzazione del così detto sistema ADRA. In pratica un sofisticato completo sistema plate carrier per trasporto equipaggiamento e protezione individuale evoluto su peculiari specifiche richieste da parte del 17° Stormo dell’Aeronautica Militare. Il sistema ADRA è stato concepito per consentire la massima operatività nei tre principali possibili ambienti tipici delle operazioni speciali: aria, terra e acqua.Poiché sistema completo, oltre alla possibilità di installare gli accessori sviluppati per specializzarne l’impiego e già elencati nella descrizione del Gamma MK2, l’ADRA viene fornito con ulteriori componenti aggiuntivi. Tra essi: un set di piastre di livello IV, delle soft armour di livello III A, una combat belt avente anche funzioni di protezione individuale giacché predisposta per l’alloggiamento di specifiche protezioni balistiche, un completo set di tasche specifiche

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A destra: Vista laterale del Gamma MK2. E’ possibile apprezzare le generose dimensioni delle alette del plate carrier. Soluzione adottata al fine di offrire la massima superficie protettiva utile per i fianchi dell’operatore. Le alette in parola infatti consentono l’agevole inserimento al loro interno sia di protezioni soft armour che piastre balistiche, entrambe di dimensioni sostanzialmente maggiori rispetto allo standard fino ad oggi diffuso. Per alloggiare al meglio le protezioni balistiche, le alette del plate sono dotate di appositi vani atti a contenere e fissare le piastre balistiche. Dal punto di vista della possibilità di trasporto equipaggiamento, le ampie superfici con pals MOLLE delle alette consentono il fissaggio di numerose tasche e/o porta caricatori incrementando così sensibilmente la capacità di carico generale del plate carrier.

Sotto: Foto in cui è possibile apprezzare le caratteristiche fisico - funzionali dello zainetto amovibile fissato sul retro del plate carrier e fornito come accessorio del sistema Gamma MK2. La zaino in questione, fornito completo di bretelle per impiego anche stand alone, consente l’ottimale trasporto di un idratatore da 3 litri nonché materiali ed equipaggiamenti vari. Le cinghie trasversali velcrate di cui risulta dotato inoltre consentono la massima compattazione e stabilizzazione dell’equipaggiamento in esso inserito. Il fissaggio dello zainetto al dorso del plate carrier avviene con un sistema a sgancio rapido che consente dunque una agevole rimozione dello stesso qualora l’operatore ne abbia esigenza, ad esempio in occasione dell’imbarco su un veicolo.

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Particolare del vano installato nella parte alta frontale del plate carrier. Tale tasca è stata specificamente realizzata per consentire un agevole posizionamento al suo interno dei cablaggi del sistema di comunicazione individuale in dotazione. Al fine poi di consentire un migliore posizionamento e collegamento dei suddetti cavi agli apparati asserviti, il comparto in parola risulta inoltre dotato di specifici passaggi cavi opportunamente posizionati e dimensionati.

Primo piano di alcune asole elastiche posizionate opportunamente ed in numero copioso su diverse porzioni del plate carrier. L’installazione di tali asole, che risultano elastiche solo nelle ultime versioni del Gamma, è stata motivata dal voler consentire un posizionamento e fissaggio ottimale di cablaggi e tubi idratazione. Specie i primi molto sovente presenti in quantità copiosa sui moderni tactical vest.

Particolare del sistema effettivo di sgancio rapido del plate carrier. Il dispositivo di sgancio infatti prevede una maniglia, posizionabile a scelta su ciascuna delle spalle del plate, collegata ad un unico resistente cablaggio fungente da fulcro strutturale per l’intero sistema. Il sistema a sgancio rapido integra anche il sistema di regolazione/attagliamento del sistema alla corporatura dell’operatore. Tale regolazione viene ottenuta vincolando il cablaggio testè citato ad una delle diverse asole rinforzate di cui ciascuno dei componenti del sistema risulta dotato. Il tutto appare ben visibile in foto. L’utilizzo di un cablaggio unico semplifica sensibilmente il sistema rispetto ai plate carrier di precedente realizzazione. Detta semplificazione comporta una maggiore affidabilità del sistema che risulta peraltro anche più facilmente riconfigurabile a seguito di un rilascio rapido del plate carrier.

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Fotografia in cui appaiono evidenti le dimensioni delle ampie superfici velcrate destinate al fissaggio del plate carrier una volta indossato. Nella porzione inferiore della foto risulta inoltre visibile la cintura ventrale elastica di cui il sistema risulta dotato. Quest’ultima ha funzione di stabilizzazione del carico nonché compressione delle piastre dorsali sulla schiena dell’operatore, garantendo in tal modo una migliore protezione della zona lombare.

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realizzate secondo i requisiti del committente e finalizzate a diversi impieghi. In analogia con il sistema sviluppato per il GOI, anche il sistema ADRA non è in vendita al pubblico. Così come osservabile in alcune delle foto presenti sulle pagine di questo articolo, le dimensioni e forme ottimizzate del Gamma MK2 consentono un agevole porto e impiego di una combat belt, componente dell’equipaggiamento oggi sempre maggiormente diffuso tra gli operatori professionisti e peraltro fornita come elemento del sistema ADRA. Contestualmente, le caratteristiche dimensionali del Gamma, oltre a renderne agevole l’uso in ambienti ristretti, permettono al personale con esso equipaggiato di operare in modo efficace

anche all’interno di veicoli. Situazione, quest’ultima, frequentissima negli attuali teatri operativi. Sempre con lo scopo di favorire l’imbarco su veicoli, lo zainetto accessorio del Gamma, destinato prevalentemente

al trasporto di un sistema d’idratazione, è stato concepito per agevolare un rapido svincolo dal dorso del plate carrier. Tutti i plate carrier prodotti dalla Special Equipment possono essere realizzati in differenti colorazioni e mimetismi, sebbene dunque in questo momento il Multicam sia il pattern mimetico più richiesto, è possibile richiedere la realizzazione del Gamma MK2 impiegando cordura con uno specifico bagno di colore e dunque con mimetismo rispondente alle esigenze del cliente finale.

Primo piano di un’imbottitura amovibile realizzata in rete tridimensionale traspirante progettata per il montaggio, a mezzo velcro, all’interno delle alette del plate carrier. L’imbottitura in parola consente una migliore stabilizzazione del carico nonché, in primis, una funzione anti shock in caso di impatto di un colpo d’arma da fuoco sulle protezioni balistiche dei fianchi.

Foto in sequenza che illustrano le modalità di inserimento di una soft armour e di una piastra balistica all’interno del vano realizzato all’interno delle alette del plate carrier aventi generose dimensioni. Soluzione costruttiva, quest’ultima, finalizzata all’ottenimento della massima superficie protettiva utile per il fianco dell’operatore. Contestualmente ne deriva anche una maggiore superficie utile per fissaggio tasche e accessori MOLLE compatibili.

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DI MARCO STRANO

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L’elicottero rappresenta oramai uno strumento fortemente radicato nelle organizzazioni che svolgono funzioni di polizia. Il suo impiego è estremamente versatile e spazia dalle attività di controllo del territorio al trasporto di personale in fase operativa. La visione dall’alto garantisce infatti degli indubbi vantaggi offrendo degli elementi conoscitivi che sfuggirebbero a una osservazione effettuata al livello della superficie terrestre. Ma a fronte di tali vantaggi l’elicottero presenta alcuni rischi per l’incolumità del personale, come testimoniato dagli incidenti che dal primo dopoguerra hanno interessato i reparti volo delle forze di polizia italiane, oltre a questo bisogna tenere in considerazione i costi elevati di acquisto dei mezzi, di manutenzione e di carburante. La polizia newyorkese ha stimato un costo per i suoi elicotteri che pattugliano la città di circa 500 dollari/ora. Per questi motivi le polizie dei Paesi più avanzati del mondo stanno progressivamente introducendo nei loro reparti, dei droni radiocomandati, piccoli velivoli senza pilota in grado di effettuare riprese e di trasmetterle a terra in tempo reale. Il loro costo di acquisto (1000-5000 euro) è bassissimo e quello di esercizio è praticamente nullo e si riducono a zero i rischi per il personale operante. Per pilotarli non è necessario il lungo e costoso iter formativo necessario per gli elicotteri veri e hanno il vantaggio di essere assolutamente silenziosi e pressoché invisibili quando volano a qualche centinaio di metri di quota. Ovviamente i droni non possono sostituire completamente gli elicotteri con pilota a bordo ma il loro impiego puo’ ridurre in maniera consistente le missioni destinate alla semplice osservazione aerea con immediati e tangibili vantaggi nell’ambito della spending rewiew. L’UGL Polizia di Stato ha attivato in tal senso un gruppo di studio, coordinato dallo scrivente, per analizzare le possibilità di impiego dei droni in ambito investigativo e della prevenzione del crimine. Il gruppo ha attivato una partnership con alcune associazioni di settore tra

cui l’EDPA (European Drone Pilots Association) che studia i profili dei possibili piloti operatori di polizia, e l’ICAA (international Crime Analysis Association) che studia le applicazioni dei droni in ambito forense. Obiettivo del gruppo di lavoro è la realizzazione di un report da consegnare entro la fine del 2012 ai vertici della Polizia di Stato per una valutazione su tale materia.

VELIVOLI A CONTROLLO REMOTO

Da molti anni ormai sentiamo parlare di aerei da ricognizione senza pilota, teleguidati o con profili di volo pre-programmati (UAV: Unmanned Aerial Vehicle) o più correttamente Remotely Piloted Air System (RPAS), sono nati principalmente per ovviare alla perdita o cattura del pilota in caso di abbattimento sul suolo nemico e sono utilizzati in ambito militare per spiare il nemico, osservare gli spostamenti delle truppe ecc, inviando in tempo reale video e immagini ad una base terrestre. Eserciti di tutte le nazionalità da molto tempo infatti progettano, sviluppano e acquistano aerei da ricognizione senza pilota, teleguidati o con profili di volo pre-programmati che compaiono continuamente come prototipi nelle fiere del settore assieme a nuove tecnologie compatibili con questi nuovi e sempre più futuristici mezzi. Ma pochi governi possono permettersi l’acquisto e il costoso mantenimento di questi mezzi. Ad esempio l’aereo teleguidato da ricognizione Global Hawk pesa 3851 kg ha una velocità di crociera di 650 km/h un’autonomia in volo di 36 ore e una quota di servizio di 19812 m circa 20.000 metri s.l.m., e ogni singolo pezzo costa 120 milioni di dollari. A questa categoria appartiene il famoso predator, un velivolo in dotazione anche all’Aeronautica Militare italiana. I droni Predator sono stati impiegati in Afghanistan e in Pakistan già dal 2001, nella Striscia di Gaza nel 2008 e in Libia nel 2011 per attaccare le forze di Muammar Gheddafi e per proteggere i ribelli. Ultimamente però si stanno

Dott. Marco StranoResponsabile Ricerca

scientifica e Formazione professionale dell’UGL

Polizia di Stato

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sviluppando anche progetti paralleli a basso costo molto interessanti per scopi civili di videosorveglianza e intelligence, come elicotteri radiocomandati in grado di montare videocamere HD e qualsivoglia congegno elettronico. I microelicotteri RPAS possono infatti essere utili per il controllo del territorio da parte delle forze di polizia, che in tutto il mondo li stanno testando per ottenere immagini aeree ad alta risoluzione in diversi scenari operativi. Sono velivoli molto piccoli e leggeri ma che consentono anche il volo strumentale con il GPS e con la trasmissione delle immagini di volo a una postazione remota. Le videocamere di cui dispongono, anche se molto piccole e leggere, sono in grado di scattare foto e girare filmati in alta definizione trasmettendo le immagini alla stazione a terra via radio in tempo reale. Apparecchi di questo genere vengono già molto utilizzati dalla polizia statunitense in sostituzione del normale pattugliamento con elicottero e i risultati sembrano essere soddisfacenti. Di certo l’utilizzo dei droni è più economico e discreto rispetto al fratello maggiore con pilota a bordo. La polizia inglese qualche anno fa ha impiegato sperimentalmente dei droni al Festival di Musica Popolare in Weston Park dove si sono riunite

circa 90.000 persone. Il drone spia ha monitorato con successo i parcheggi e le persone e grazie anche alle immagini raccolte sono state arrestate 62 persone trovate in possesso di droga o sorprese a forzare macchine. I droni vengono inoltre già utilizzati con successo per il controllo degli stadi, del traffico, delle emissioni chimiche biologiche e radioattive presenti nell’aria ecc. Questi mezzi possono essere usati anche per la sorveglianza di sospetti e di aree dove si ritenga venga prodotta droga o dove l’impiego di personale potrebbe essere rischioso per la sua incolumità o facilmente individuabile. In ambito umanitario sono stati impiegati anche per l’individuazione delle mine anti-uomo, ma l’elenco è molto lungo e ancora in via di sviluppo. A partire dal 2011, con l’arrivo in Europa di componentistica cinese a basso costo ma di elevata qualità, la diffusione di droni autocostruiti (in kit o su progetto singolo) o venduti già pronti al volo è notevolmente aumentata. L’attività professionale e di sperimentazione con tali strumenti è arrivata alla portata di chiunque abbia un minimo di risorse e spirito di iniziativa. Si tratta prevalentemente di multirotori elettrici con diametro variabile da 50 cm a un metro e con peso inferiore ai 10 kg. In Italia i droni

sono giunti all’attenzione del grande pubblico grazie ai Carabinieri che il 6 giugno 2001 hanno fatto volare un quadricottero elettrico radiocomandato a controllo remoto sopra gli schieramenti di militari a Piazza di Siena. Le immagini in full-HD, trasmesse anche dal TG1, sono apparse suggestive e hanno mostrato con la visione dall’alto la perfetta organizzazione e disciplina dei reparti schierati. Le riprese, effettuate con la collaborazione di una nota azienda del settore specializzata in robotica aerea e terrestre, sono state fatte a parecchie decine di metri di altezza, con il drone in perfetto hovering pilotato dagli operatori attraverso la telecamera di bordo con speciali occhiali 3D. Più di recente, nel maggio 2012, in occasione del terremoto che ha sconvolto l’Emilia Romagna, sono state trasmesse dalla televisioni delle immagini girate con l’ausilio di uno speciale drone fornito da un altra nota azienda, che nonostante il forte vento ha volato sulle zone colpite dal sisma fornendo utili informazioni a chi coordinava le operazioni di soccorso. Le località filmate dall’alto sono state Buonacompra, Finale Emilia e Sant’Agostino su cui il drone ha effettuato numerose missioni finalizzate alla stima dei danni e all’individuazione di situazioni di pericolo connesse al rischio di crolli. AEREI ED ELICOTTERI: IMPIEGHI DIVERSI

I droni aerei hanno un impiego elettivo per il pattugliamento (patrol) di zona ad alta quota (sopra i 300 metri) a medio-lungo raggio e per la ricognizione (anche aerofotogrammetrica) di area operativa. Possono utilizzare motori elettrici, a scoppio e a turbina. Necessitano solitamente di una pista di decollo ma alcuni di loro (piccoli e leggeri) possono anche essere lanciati da catapulte o addirittura a mano. Gli aerei vengono solitamente impiegati per controllare

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Gli UAV (Unmanned Aerial Vehicle) o più correttamente Remotely Piloted Air System (RPAS), sono nati principalmente per ovviare alla perdita o cattura del pilota in caso di abbattimento sul suolo nemico e sono utilizzati in ambito militare per spiare il nemico, osservare gli spostamenti delle truppe ecc, inviando in tempo reale video e immagini ad una base terrestre

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una vasta zona operativa e hanno il limite di non potersi concentrare su un obiettivo. Nella pianificazione delle missioni aerofotografiche con aerei-droni devono essere determinate le strisciate con un certo margine di sovrapposizione (overlap) con la strisciata vicina per garantire la copertura completa ed eventualmente la stereoscopia. I droni elicotteri hanno un impiego elettivo a bassa quota (sotto i 300 metri) e per la copertura di aree ridotte. Questi strumenti normalmente montano diversi motori elettrici (multirotori) e possono volare se le condizioni meteo lo consentono ed effettuare riprese diurne e notturne su obiettivi determinati o su aree limitate per estensione. I droni multirotore (quadricotteri, esacotteri ecc.) sono piccoli e discreti (oltre una certa quota praticamente invisibili) e particolarmente adatti quindi a operazioni riservate. Hanno motorizzazioni diverse in base allo scopo. Quelli per attività di intelligence in ambiente urbano normalmente sono dotati di silenziosi motori elettrici. Per operazioni in ambiente di campagna ad alta quota possono essere utilizzati anche velivoli monorotore con motore a scoppio e addirittura a turbina. Montano a bordo sensori ed apparati di ripresa, e attraverso un sistema di comunicazione radio, l’operatore

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I droni aerei hanno un impiego elettivo per il pattugliamento (patrol) di zone ad alta quota (sopra i 300 metri) a medio-lungo raggio e per la ricognizione (anche aerofotogrammetrica) di aree operative

L’autore di questo articolo, il Dott. marco Strano Responsabile Ricerca Scientifica e Formazione professionale dell’UGL Polizia di Stato.

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può vedere a grande distanza ciò che viene sorvolato e manovrare da terra gli apparati. L’autonomia dei velivoli elettrici varia da 12 minuti a 60 minuti in base al carico portato e all’impiego e raggiungono velocità molto elevate. Tra le tecnologie di navigazione disponibili per questi velivoli sono disponibili piattaforme inerziali basate sul sistema GPS che permettono di pianificare voli strumentali automatici. IMPIEGO DEI DRONIIN ATTIVITÀ INVESTIGATIVA

La visione dall’alto fornisce dei particolari che la visione a livello del terreno mantiene celati e che possono offrire un enorme vantaggio in fase tattica. Il vantaggio tattico fornito dall’aerofotografia e dal telerilevamento satellitare è legato infatti all’opportunità di poter usufruire delle informazioni in tempo reale orientando la propria azione. Ad esempio, in un’azione

di patroling alla ricerca di soggetti ostili in una determinata area, la loro individuazione dall’alto può orientare la pattuglia a terra verso una determinata direzione. Con la diffusione dei microdroni il supporto aereo di intelligence può divenire ora individuale. L’operatore predispone il drone e lo invia dove i suoi occhi non possono vedere. Tale impiego prevede soprattutto missioni di volo a corto raggio (entro circa un kilometro) a causa della distanza di trasmissione delle immagini. La possibilità per l’operatore della sicurezza o del soccorso di avere a disposizione, nella dotazione tattica individuale, un piccolo drone che in caso di necessità possa essere rapidamente fatto decollare e possa trasmettere a terra delle preziose informazioni non è più quindi fantascienza. In passato la visione dall’alto in operazioni tattiche era possibile prevalentemente attraverso fotografie scattate da aeroplani o mediante immagini

satellitari. L’impiego di tale materiale in fase operativa era quindi possibile solo in un contesto altamente organizzato e in scenari militari con elevata aero-cooperazione. Ora, con la diffusione di droni leggeri e di facile pilotaggio, si prospetta nel mondo investigativo l’opportunità di divenire autosufficiente per quanto riguarda la copertura aerea. Il drone consente, ad esempio, in maniera discreta ed efficace, di acquisire informazioni precise sulla zona e sull’area dove sarà svolta un’attività di polizia. Può essere utilizzato sia in scenari di campagna che in contesti urbani. Le immagini, assai più dettagliate di quelle ottenibili da un sistema satellitare standard (es. google) possono evidenziare particolari utilissimi sulle vie di accesso al target, su veicoli e soggetti che stazionano nelle vicinanze. Le attività di acquisizione video non necessitano con tale sistema della presenza nell’area di operatori che svolgono

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Il drone

consente, ad esempio

di acquisire informa-

zioni precise sulla

zona e sull’area dove

sarà svolta un’attività

di polizia

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sopralluoghi cosa che avviene nelle attività investigative classiche ma che possono esporre, specie in contesti ad alto tasso di criminalità, ad essere individuati. Questo genere di missione prevede la collocazione del campo di decollo a una distanza di sicurezza dall’area operativa e un sorvolo

a quota di sicurezza (stealth) con attività di scanning. MISSIONI SEARCH AND RESCUENEI CASI DI PERSONE SCOMPARSE

Il drone consente di esplorare (con profilo di missione scanning) vaste zone alla ricerca di persone anche se sono prive di conoscenza. La visione dall’alto (diurna e notturna) è utile per individuare l’individuo scomparso o le tracce del suo passaggio. Di notte l’utilizzo dell’infrarosso e della termografia possono segnalare un soggetto in difficoltà (anche se celato dalla vegetazione). Il drone può inoltre spingersi in luoghi impervi e pericolosi (es. un crepaccio) e verificare la presenza di persone incrementando il livello di sicurezza del personale operante. E’ in corso a tal proposito una sperimentazione congiunta tra i ricercatori dell’European Drone Pilots Association (EDPA), Swissmissing e

ICAA (International Crime Analysis Association) sulle attività di ricerca di persone scomparse in area di campagna impiegando cani da mantrailing insieme a una squadra di supporto dotata di un drone multicottero. Obiettivo è verificare la possibilità di coprire un’area di

ricerca più vasta e di sperimentare l’utilizzo dei droni per ispezionare luoghi particolarmente impervi e pericolosi per i soccorritori. I cani impegnati nella sperimentazione, forniti dalla prestigiosa organizzazione Swissmissing, hanno anche una microcamera montata sul collare che trasmette le immagini al campo base e consente ai ricercatori di “guardare con gli occhi del cane” durante gli esperimenti. E’ stato annunciata, per il 21 settembre 2012, la presentazione del progetto nel corso di un importante convegno internazionale che si terrà al Castello di Albereto (Rimini). Si tratta del “mantraling workshop” tenuto da Kevin Jhon Kocher, Presidente dell’International Bloodhound Training Institute, Chad Carpenter e Andreas Vogel, conduttori di cani poliziotto americani con la presenza tra i relatori del Dott. Michele Penta, responsabile della sezione persone scomparse del Ministero dell’Interno.

I primi risultati della sperimentazione in corso, ideata da Marco Strano e Andrea Pastori e sviluppata dagli esperti dell’Edpa in collaborazione con Ivan Schmidt presidente della prestigiosa organizzazione no profit svizzera Swissmissing, sono molto promettenti. L’impiego congiunto di droni e di cani da mantrailing nella ricerca di persone scomparse in aree di campagna e in particolare in zone impervie e pericolose per i soccorritori presenta numerosi vantaggi operativi a fronte di costi estremamente contenuti. Lo studio, sponsorizzato in questa fase iniziale dalla ditta milanese Tecnospy, specializzata nella progettazione e fornitura di tecnologie investigative, utilizza un drone dotato di telecamera convenzionale e di termocamera FLIR che segue in volo il cane da mantrailing e segnala al conduttore la presenza dello scomparso precedentemente individuato dal cane. Questa tecnica, su cui alcuni esperti americani hanno già manifestato grande interesse, potrebbe rappresentare per il futuro del “search and rescue” un settore di grande sviluppo. Il cane da mantrailing è anch’esso dotato nel collare del sistema di un sistema di visione remota (lo SPYDOG, realizzato da Tecnospy) che invia le immagini ai soccorritori e che vengono comparate sperimentalmente con quelle inviate dal drone che sorvola la zona. DIVENTARE PILOTA DI DRONE PER COMPITI INVESTIGATIVI

Pilotare un drone multielica o un aereo-drone in uno scenario investigativo o di intelligence è comunque un’attività professionale complessa che necessita di addestramento, di esperienza e di affidabilità. Questi strumenti possiedono infatti un’avionica sofisticata e anche sistemi elettronici di “aiuto” al volo ma sono leggeri e delicati. I Droni elettrici multielica (quadricotteri, esacotteri ottocotteri ecc.) in parte si stabilizzano autonomamente e la loro rotta può

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Uno dei cani impegnati nella sperimentazione SEARCH and RESCUE , forniti dalla prestigiosa organizzazione Swissmissing.

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essere anche programmata con un computer. Ma per poterli utilizzare in sicurezza e ottenere soprattutto una buona qualità di immagini (foto e video) è necessaria una notevole sensibilità ai comandi che si acquisisce dopo molte ore di volo. Per pilotare in uno scenario tattico questi micro-velivoli è necessaria quindi una idonea formazione e per questo l’EDPA supporta l’organizzazione di appositi training (destinati a chi già è in grado di governare discretamente un velivolo in tutti gli scenari) e rilascia (con esami teorico-pratici) degli speciali attestati di competenza professionale che certificano la capacità di effettuare attività di volo in uno scenario operativo oltre che doti etiche e di riservatezza del pilota. Sia per le fasi di addestramento

base che per quelle avanzate (e per il mantenimento della familiarità con il velivolo) risulta molto utile ed economico inizialmente l’addestramento con i simulatori di volo dell’ultima generazione, appositamente studiati per prendere confidenza con i droni multi rotori. Questi programmi prevedono anche la possibilità di training con simulazione della vista in prima persona (telecamera a bordo) e della telemetria di volo. I piloti dei droni devono quindi essere appositamente addestrati per poter garantire le operazioni in assoluta sicurezza. In Italia l’organizzazione che rilascia attestati di competenza specifici per il pilotaggio operativo di droni in attività investigativa, di intelligence e nel soccorso, è l’European Drone

Pilots Association con il patrocinio scientifico dell’ICAA e supportata dall’azienda toscana TECNODRONE e da quella milanese TECNOSPY, specializzata in tecnologie investigative. La certificazione viene rilasciata gratuitamente dall’EDPA a seguito del superamento di un esame teorico/pratico presso una delle sedi autorizzate e la dimostrazione di aver frequentato idonei corsi di formazione (riconosciuti dall’Associazione). La prova in volo prevede l’effettuazione di almeno 4 missioni standard diurne e notturne in cui vengono simulate le tipiche situazioni di impiego del velivolo in supporto all’investigazione e a un team di soccorritori. Coloro che superano l’esame ricevono un diploma, una tessera plastificata di pilota di drone, la patche ricamata, il

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L’EDPA (European Drone Pilots Association), è nata nel 2011 avvalendosi del proprio bagaglio culturale e investigativo e appoggiandosi all’esperienza professionale e di intelligence dell’ICAA (International Crime Analysis Association), in collaborazione anche con l’UGL Polizia di Stato e con alcune ditte specializzate.

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manuale operativo e il libretto di volo dove vengono segnate le missioni effettuate. L’EDPA provvede inoltre a segnalare i piloti brevettati alle istituzioni e agli enti potenzialmente interessati all’impiego professionale dei droni (Magistratura, Forze di Polizia, Investigatori privati, Protezione civile e alle organizzazioni di pubblico soccorso. LA NORMATIVA ESISTENTE SULL’IMPIEGO PROFESSIONALE DEI DRONI La normativa sull’impiego di droni multicotteri di ridottissimo peso (entro i 20 kg) della tipologia di quelli progettati e utilizzati dai piloti EDPA e utilizzati per attività di polizia giudiziaria e per operazioni

di soccorso non è stata ancora completamente definita in Italia. Alcune indicazioni potrebbero essere inferite dalla normativa sull’aeromodellismo considerando però che nelle missioni effettuate su mandato della Polizia Giudiziaria e della Magistratura sono possibili numerose deroghe. L’EDPA ha attivato un apposito gruppo di studio in materia. In linea di massima esistono attualmente in Italia delle aree dove il volo di qualsiasi oggetto anche a bassissima quota è interdetto, in particolare quelle aeroportuali. Nei contesti urbani non sono ancora stati emessi divieti ma la tendenza internazionale è quella di controllare molto i rischi per la popolazione. L’EUROPEAN DRONE PILOTS ASSOCIATION L’EDPA (European Drone Pilots Association), è nata nel 2011 e avvalendosi del proprio bagaglio culturale e investigativo e appoggiandosi all’esperienza professionale e di intelligence dell’ICAA (International Crime Analysis Association), in collaborazione con l’UGL Polizia di Stato e con alcune ditte specializzate (Tecnodrone, Tecnospy ecc.), ha deciso di progettare e sperimentare

strumentazioni e tecnologie a basso costo ma soprattutto di formare operatori professionali in grado di utilizzare dei droni in appoggio ad attività di intelligence, di investigazione e per il settore search and rescue. L’Associazione ha realizzato un apposito manuale operativo dei piloti EDPA che contiene gli strumenti teorici del programma addestrativo e le schede operative per la pianificazione delle missioni. Contiene inoltre le indicazioni per le più comuni missioni in ambito investigativo e gli standard tecnici e giuridici per l’impiego dei droni in questo delicato settore. E’ stato realizzato da alcuni dei soci EDPA esperti in varie discipline: strategie di indagine, pianificazione delle missioni, filosofia costruttiva dei droni, trasmissioni radio, metereologia e tecniche di ripresa aerea. Il testo è corredato dai documenti ufficiali EDPA compreso il codice etico. Il manuale non è in vendita nelle librerie ed è disponibile per i soli soci EDPA e ICAA in occasione di seminari e incontri dell’Associazione. L’iscrizione all’EDPA avviene on-line attraverso il sito dronepilots.weebly.com, è gratuita e subordinata alla presentazione di un curriculum professionale.

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DI GIUSEPPE MARINO

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LA NUOVA SUPER COMPATTA DI BERETTA USA

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La pistola Beretta Nano, presentata lo scorso anno sul florido mercato armiero degli Stati Uniti d’America, racchiude in se tutte le principali caratteristiche tecnologiche e progettuali di ultima generazione nel campo della ideazione e costruzione delle pistole semiautomatiche super compatte destinate al porto occulto per difesa personale. La pistola super compatta di casa Beretta USA (l’arma viene e verrà infatti integralmente costruita negli USA, ad eccezione dei caricatori) si incentra su un fusto polimerico modulare che, in linea con le affermatissime tendenze attuali in campo di armi corte, consente rapide ed agevoli modifiche dell’interfaccia anatomica dell’arma oltre a facilitarne le operazioni di smontaggio e manutenzione ordinaria. Facilità ed intuitività d’uso, oltre che possibilità di porto occulto ottimizzata, sono state le linee guida base adottate nelle fasi di progettazione dell’arma che risulta infatti di agevolissimo porto e, grazie alla totale assenza di parti sporgenti e spigoli vivi, perfetta per una fluida e sicura estrazione. Nell’ottica di realizzare un’arma

ergonomicamente performante, idonea all’uso da parte sia di operatori destri che mancini, il pulsante sgancio caricatore risulta agevolmente reversibile e dunque settabile a piacimento dell’utilizzatore. Il fusto dell’arma, come già asserito, concepito in un’ottica modulare, risulta leggero, resistente e viene realizzato, come ormai sovente accade nelle moderne semiauto, con tecnopolimeri rinforzati (a mezzo di fibra di vetro), la cui tecnologia di lavorazione ha raggiunto ormai lo stato dell’arte. Nel fusto polimerico viene poi “affogato” un sub-chassis in acciao in cui alloggia a sua volta il gruppo di scatto a doppia azione con percussore interno ed avente, peraltro, una sicura a leva direttamente imperniata sul grilletto. Un sistema di scatto che si configura come molto simile a quello della austriaca Glock e che in questo caso viene associato ad un peso di scatto considerevolmente elevato, scelto ad hoc in fase progettuale per soddisfare in pieno le esigenze di porto per difesa dell’arma. Carrello e canna realizzati in acciaio 4140, sono trattati superficialmente con un trattamento anti corrosione denominato Pronox.

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Anche il sistema di mira della Beretta Nano, basato su 3 dot ad alta visibilità, risulta settabile/regolabile facilmente a scelta dell’operatore. Quest’ultimo infatti, con estrema facilità e celerità, può procedere alla regolazione della tacca di mira al fine di soddisfare le proprie specifiche esigenze in termini di acquisizione tacca - mirino e bersaglio. L’arma, al momento disponibile in calibro 9x19 mm, è dotata di un caricatore della capacità di 6 colpi (realizzato in metallo e con pad in materiale plastico) cui si può aggiungere un ulteriore colpo camerato in canna, per un peso totale di arma carica pari a soli 500 grammi. Le dimensioni dell’arma, caratteristica ovviamente peculiare per una pistola elettivamente destinata al porto occulto, prevedono una canna rampata basculante di 78 mm, inserita in un carrello lungo 143 mm e spesso 22 mm. Completa il quadro dimensionale dell’arma un’altezza pari a soli 106 mm. A breve, ovvero all’inizio del prossimo autunno, la “piccolissima” di casa Beretta dovrebbe essere disponibile anche sul mercato italiano con un prezzo prossimo ai 600 euro.

Modello: Beretta NanoCalibro: 9x19 mmLunghezza totale: 133 mmAltezza: 106 mmSpessore: 22 mmLunghezza canna: 78 mmLunghezza linea di mire: 124 mmMire: tre dot, a basso profiloFusto: tecnopolimero con chassis interno in acciaioMateriale carrello: acciaio 4140Finitura superficiale: PronoxCapacità serbatoio: 6+1Peso scarica: 500 gPrezzo indicativo: 600 euro

SCHEDA TECNICA

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MAFIAE RIFIUTIUN AFFARE CHE FRUTTAALLE ORGANIZZAZIONICRIMINALI 20 MILIARDIDI EURO ALL'ANNO

DI T.COLONNELLO GDF MARIO LEONE PICCINNI

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I numeri della dark economyA Treviolo, tranquillo e laborioso centro in provincia di Bergamo, viene sottoposto a sequestro il cantiere in cui dovevano sorgere due scuole elementari, una palestra, una ludoteca ed un’area giochi, qui la Magistratura orobica scopre 45 tonnellate di scorie di fonderia, contenenti tracce di cromo esavalente, una pericolosa sostanza tossica e cancerogena. Quello del polo scolastico in costruzione di Treviolo è solo un caso, uno dei tanti, che testimoniano l’esistenza di qualcosa di assolutamente grave, l’operatività di criminali disposti a tutto in nome del profitto, anche di smaltire sostanze velenose sotto una scuola elementare e di trasformare un’area destinata a dei bambini in una pericolosissima “polveriera ecologica”. Le ecomafie rappresentano oggi l’esempio di come i gruppi criminali italiani siano camaleontici e quindi perfettamente strutturati per diversificare i propri affari, pilotando le proprie bramosie su settori diversi e tra di essi anche poco attinenti; è il caso della camorra campana, tradizionalmente forte nel controllo del territorio ove gestisce in monopolio l’attività di spaccio di stupefacenti, il mercato del racket ed il florido business dall’illegale riciclo di rifiuti. L’ecomafia è un fenomeno gestito in oligopolio da gruppi criminali duttili e con forti ramificazioni transnazionali, in grado di congiungere organizzazioni dislocate su aree lontanissime del pianeta e di movimentare agevolmente milioni tonnellate di rifiuti pericolosi su strada, su rotaie o via mare, da un punto all’altro del globo. Da un punto di vista finanziario, nel 2010 l’azienda ecomafia ha realizzato introiti che si aggirano sui 19,3 miliardi di euro; i crimini cosiddetti ambientali sono stati 30.824, 84 violazioni al giorno, 3,5 reati ogni ora. 2 milioni le tonnellate

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ambientali segnalati dagli organi inquirenti.

Una criminalitàd’impresa senza scrupoliUn enorme banchetto quello della cosiddetta “rifiuti s.p.a.”, cui sono interessate e prendono parte le principali consorterie criminali nazionali, come ‘ndragheta, camorra, sacra corona unita, mafia siciliana.Le maggiori holding criminali mafiose, le sole capaci di movimentare tonnellate di rifiuti da smaltire utilizzando il trasporto su strada, su rotaia o rotte marittime che arrivano sino alla lontana Cina. Le consorterie malavitose hanno identificato nell’ecomafia un business estremamente ricco, sovente molto più dei tradizionali traffici come usura, racket, narcotraffico, contrabbando, sfruttamento della prostituzione.Nel complesso sarebbero ben 290 i clan della criminalità organizzata coinvolti nel milionario business, un affare in cui risultano sempre più spesso coinvolti i cosiddetti “colletti bianchi”, soggetti impegnati socialmente o politicamente, insospettabili che rivestono ruoli

di rifiuti pericolosi sequestrati dalle Forze di Polizia e dalla Magistratura, 540 gli ettari di terreno cementificati in violazione delle norme sull’edilizia, 4.520 le infrazioni accertate nel settore agroalimentare, 26.500 i nuovi immobili illecitamente edificati e circa 216 i milioni di euro fatturati dal mercato illegale dell’archeologia.Ben il 41% dei reati del settore ecomafia sono riconducibili all’abusivismo edilizio ed al ciclo illegale di rifiuti (come utilizzo e realizzazione di discariche abusive, illecite procedure di raccolta, trasporto, trattamento, riciclaggio o smaltimento); il 19% dei reati è relativo ai reati contro la fauna, il 16% agli incendi dolosi ed il 15% ad illeciti nel settore agroalimentare.In Campania si concentra il 12,5% dei reati ambientali nazionali, con 3.849 illeciti, 4.053 soggetti denunciati, 60 arresti e 1.216 sequestri. Seguono altre regioni in cui forte è la presenza di organizzazioni mafiose, come Puglia (accertati 30.824 reati ambientali, denunciati 25.934 responsabili e tratti in arresto 205 soggetti), Calabria e Sicilia. Nell’Italia Nord Occidentale, infine, si concentra circa il 12% dei reati

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apicali all’interno di strutture politiche locali, che gestiscono aziende o amministrano porzioni di territorio. Sono questi ultimi i “burattinai”, coloro che muovono le fila invisibili di una tragica pratica che sta devastando interi territori criminalmente inquinati e contaminati da rifiuti illegalmente riversati o sotterrati. L’ecomafia è un business che nasce probabilmente nel lontano 1982, anno in cui entrò in vigore la normativa sul trattamento dei rifiuti speciali, da allora le organizzazioni criminali cominciarono a dedicarsi al traffico ed allo smaltimento illecito di rifiuti.Uno stralcio di alcune conversazioni telefoniche tra malavitosi, riprese e pubblicate da alcuni media, può rendere l’idea di come il crimine organizzato sia attratto e fortemente interessato al particolare e florido business: “…buttiamoci sui rifiuti: trasi munnizza e niesci oro…”; letteralmente, “buttiamoci nel traffico dei rifiuti: entriamo immondizia e ne usciamo oro”. L’attività criminale in materia ambientale frutta oggi alle organizzazioni malavitose miliardi di euro, un traffico dalle dimensioni

Nel 2010 l’azienda ecomafia ha realizzato introiti che si aggirano sui 19,3 miliardi di euro; i crimini cosiddetti ambientali sono stati 30.824, 84 violazioni al giorno, 3,5 reati ogni ora.

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impressionanti in grado di celare alle attività di monitoraggio degli organi di controllo oltre 14 milioni di scorie tossiche e rifiuti pericolosi.Alleanze, patti ed intrecci con i cosiddetti colletti bianchi sono alla base della riuscita del business, le organizzazioni criminali riescono ad infiltrare attività imprenditoriali legali ubicate sul territorio e ad ottenere da queste ultime collaborazione e coperture, proponendo in cambio enormi cifre di denaro o percentuali sui guadagni illecitamente conseguiti.Oggi i gruppi criminali palesano una mentalità imprenditoriale particolarmente aggressiva ed efficace, aggrediscono il mercato da approcciare con strutture societarie affiancate da rinomati uffici legali e da professionisti come consulenti e commercialisti. Una vera e propria holding del crimine, capace di stipulare alleanze con gruppi tradizionalmente considerati rivali o con organizzazioni malavitose straniere. Il prezzo più alto lo pagano evidentemente le ignare popolazioni, soprattutto quelle che vivono a ridosso delle aree contaminate dall’illegale occultamento, sotterramento o sversamento di scorie tossiche e rifiuti; è in queste aree che si registrano i tassi tumorali più alti e la percentuale di difetti congeniti maggiore. Si tratta di danni spiegabili con anni di pratiche di sversamenti di rifiuti estremamente nocivi per la salute umana; la fascia più colpita è quella dei bambini, notoriamente non in possesso di capacità fisiche di difesa da tali agenti altamente dannosi ed aggressivi. Le indagini dimostrano come le consorterie mafiose e criminali investono sempre in modo più convinto ed imponente nel settore ambientale; ciò avviene in virtù dell’elevato ritorno economico che garantisce tale tipologia di business, l’assenza di particolare specializzazione richiesta per l’organizzazione dei traffici ed il basso tasso di rischio delle attività illegali.

La filiera del network criminale si sviluppa essenzialmente in pochi step: il trasporto, lo stoccaggio lo smaltimento. Camorra e ‘ndragheta principalmente hanno affinato tecniche e modalità davvero efficaci, “assoldando” ed affiliando aziende, società ed imprenditori “puliti”, che nella gran parte dei casi sono attivi ed operativi da tempo nel settore dello smaltimento, depurazione o messa in sicurezza di scorie nucleari o rifiuti tossici. Un business fortemente conteso e seguito con interesse da agguerrite organizzazioni dislocate principalmente nel sud Italia ma con capillari ramificazioni anche nel versante settentrionale della Penisola, cui sembra non creare timori l’istituzione di organi di controllo come la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e l’Osservatorio ambiente e legalità. Oggi la holding “rifiuti s.p.a.”, è scalfibile anche grazie a specifici strumenti investigativi statuiti solo recentemente dall’ordinamento giuridico nazionale, il riferimento è relativo, nello specifico, al D.Lgs. 152 del 2006, il quale ha introdotto

il reato di “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”, dilatato i tempi di prescrizione dello specifico reato e riconosciuto la possibilità per Magistratura e Forze di Polizia di poter adoperare strumenti di indagine specifici come le intercettazioni telefoniche, ambientali ed informatiche. In tale ottica, particolarmente rilevante il dato relativo all’attività di contrasto nello specifico comparto dei rifiuti tossici del 2010: Magistratura e Forze di Polizia hanno concluso positivamente 29 indagini, segnalato 76 soggetti giuridici coinvolti (enti, società ed aziende), denunciato 597 responsabili e tratto in arresto 61 soggetti. La sensibilità al pernicioso fenomeno è quindi elevata, così come dimostrato dalle parole dello stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nell’ambito di un messaggio inviato al presidente nazionale di Legambiente; il Capo dello Stato ha sottolineato come “…l’espansione delle ecomafie, specie nello sfruttamento del ciclo dei rifiuti, nell’abusivismo edilizio a carattere speculativo e nella sofisticazione dei prodotti agricoli è sempre più insidiosa. Su tali

Il prezzo più alto lo pagano le ignare popolazioni, soprattutto quelle che vivono a ridosso delle aree contaminate dall'illegale occultamento, sotterramento o sversamento di scorie tossiche e rifiuti

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responsabili in virtù della difficile ricostruzione tecnica dei fatti e degli effetti da questi prodotti; si è difatti in presenza di iter che si prestano a dar vita a lunghissime controversie processuali, con consequenziale dilungamento delle procedure di richiesta di reintegrazione del danno subito. L’elevazione dello spessore criminale delle consorterie, calabresi e campane principalmente, comporta sempre più sovente l’utilizzo delle cosiddette “navi a perdere”, ovvero di imbarcazioni di grande stazza ma di scarso valore economico, dette navi carrette del mare, illecitamente colmate di rifiuti pericolosi, di scorie tossiche o di materiali radioattivi che attraversano i mari sino a che venire abbandonate lungo le coste di Paesi cosiddetti in via di sviluppo o poveri o vengono fatte inabissare al largo per poi richiedere risarcimenti alle compagnie assicurative. Estremamente diffusi sono poi lo sversamento a cielo aperto su terreni destinati all’allevamento o alle culture agricole ed il ritombamento delle cave nel ciclo illegale degli inerti. Molto utilizzata risulta essere la movimentazione di materiale tossico e radioattivo su container montati su navi, tir o camion; in tal caso la camorra ha dimostrato di essere in grado di garantire la buona riuscita dei traffici manovrando efficacemente tutte le fasi del processo. Gli organi di controllo vengono corrotti al fine di ottenere controlli “guidati” nei porti o siti di arrivo e di partenza, l’organizzazione criminale è poi idoneamente strutturata per gestire le fidejussioni

fenomeni la vigilanza istituzionale deve essere particolarmente attenta per evitare pericolose forme di collegamento tra criminalità interna e internazionale, distorsioni del mercato e rischi per la salute dei cittadini… la sensibilità a questo pericolo è alta tra magistrati e forze dell’ordine, ma deve crescere ancora di più tra i giovani, con la cultura del rispetto e della tutela dell’ambiente…”. Si tratta di un delitto che comporta effetti devastanti sull’ambiente, sull’economia e quindi sulla salute dei cittadini. Le investigazione delle forze di polizia operanti sul territorio fanno emergere il quadro di una criminalità “standardizzata” su pochi ma efficaci modus operandi, si tratta di tecniche note nelle modalità di esecuzione, ma difficili da individuare nella fase propedeutica delle investigazioni di polizia giudiziaria. Frequentissimi i casi di illecito sotterramento ed occultamento di rifiuti o scorie tossiche in buche scavate in terreni normalmente destinati all’agricoltura, fino al livello di falda. Si tratta di una pratica criminale che genera peraltro danni gravissimi per la salute di coloro che vivono vicini ai siti contaminati e per coloro che invece, pur trovandosi a distanza dal luogo infettato, inconsapevolmente acquistano e consumano prodotti agricoli, come frutta e verdura, derivanti dai terreni avvelenati. Le ecomafie sono peraltro di fatto favorite dalla difficoltà di determinare le responsabilità sia penali che civili a carico dei

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e procedere al riciclaggio del denaro illecitamente realizzato. Attraverso la perfetta contraffazione delle bolle di accompagnamento e la falsificazione dei documenti e formulari di trasporto, i rifiuti vengono illegalmente conferiti in discariche in cui dovrebbero essere sversati solo dopo specifici processi e lavorazioni, che pur risultando da un punto di vista documentale, in realtà non sono mai stati eseguiti. Vi è infine la tecnica del girobolla, ovvero la contraffazione o alterazione dei formulari di trasporto dei centri di stoccaggio o di compostaggio, che una volta “ripulite” e riclassificate le scorie ed i rifiuti, li scaricano su terreni a cielo aperto o in fosse, in riporti e terrapieni di opere pubbliche, ovvero li mischiano con i prodotti lavorati in cementifici o in impianti di conglomerati bituminosi. Da un punto di vista normativo con riferimento agli strumenti giuridici di contrasto, va evidenziato che l’articolo 11 della Legge n. 136/2010, “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”, ha introdotto le Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (articolo 260 D.Lgs. 152/2006) nel novero dei reati contemplati dall’art. 51 comma 3 bis del Codice di Procedura Penale (reati di criminalità organizzata); una soluzione che permette una lotta efficace all’ecomafia, anche mediante il ricorso a strumenti investigativi solitamente impiegati nella lotta alla mafia tradizionalmente intesa (come quello dell’aggressione dei patrimoni illeciti e la confisca dei beni). La soluzione sta quindi nell’aggredire e confiscare i beni delle consorterie criminali e nell’affrontare l’ecomafia con la medesima decisione con la quale si affrontano le organizzazioni mafiose.

Fonte: rapporto “Ecomafie 2011” di Legambiente, recentemente presentato a Roma nella sede del CNEL alla presenza del vicepresidente della Commissione Antimafia.

Magistratura e Forze di Polizia hanno concluso positivamente 29 indagini, segnalato 76 soggetti giuridici coinvolti (enti, società ed aziende), denunciato 597 responsabili e tratto in arresto 61 soggetti.

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AFGHANISTAN

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Bala-Murghab: militari italiani camminano nel deserto in attesa di salire su un elicottero Black Hawk

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Herat - membro della Brigata Sassari in attività di controllo anti IED

Non temerai i terrori della nottene la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre,

lo sterminio che devastaa mezzogiorno

mille cadranno al tuo fiancoe diecimila alla tua destrama nulla ti potrà colpire.

Salmo 91, 5-7!

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Anziano afghano

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Roma Termini. Nella testa il caos metropolitano non confonde il frastuono degli elicotteri Black Hawk, ormai impresso nella mia mente. Il sapore della sigaretta, mentre attendo il treno per Fiumicino, accompagna i miei ricordi. L’attesa dilata il tempo senza spazio che mi fa riflettere sui volti, sulle persone e personaggi che presto mi troverò di fronte. Eppure ora sono qui a “guardare” discorsi tra ragazzi che sotto il peso di uno zaino, sorridono senza pensare. L’improvviso avvertimento del check-in mi fa ripiombare nella consapevolezza che tra poche ore to la suola dei miei anfibi toccherà una terra che da molto tempo sognavo di vivere al fianco dei nostri ragazzi impegnati nella missione di pace ISAF. Il tanto bramato decollo dell’AC-130 porta alla realizzazione dei miei desideri: Abu Dhabi, poi verso Herat e Camp Arena, vibrazioni che sfiorano il mio corpo fino alle sue parti più recondite; poi rumore, tanto rumore, i tappi nelle orecchie come metafora di quello che, la maggior parte delle persone, non vorrebbe mai sentire o provare sulla propria pelle, ma ci sono altri a farlo per loro. Un pesante sobbalzo mi avvisa dell’atterraggio sulla pista di camp Arena. Finalmente!

Guardo sulla coda al velivolo un’accecante luce bianca, intravedo silhouette che si muovono in controluce, oscillazioni di pesanti zaini che scendono le scale del velivolo. È il mio turno, percorro la rampa di fonte a me, dove alla sua fine trovo le mani tese del colonnello Lanni e del maresciallo Matera, i quali mi offrono il loro cortese benvenuto, con i visi coperti dagli occhiali da sole. La prima cosa che mi dicono è: “Non sarà facile, Non sarà una passeggiata” . In pochi minuti mi trasferiscono in sala stampa per incontrare il colonnello in capo della brigata “Sassari”, Lauro.

Qui trascorrono alcune ore impegnato nel primo briefing dove vengo messo al corrente di alcune importanti informazioni e mi viene consegnato il giubbetto antiproiettile e l’elmetto in Kevlar. Neppure il tempo di acclimatarmi e si parte subito per un’operazione di “demaining” nei pressi della base di Camp Arena. Terra, tanta terra su di me. La sabbia invade ogni anfratto del mio vestiario. Seguo l’operazione: scatto, sogno, parlo, chiedo, voglio capire. L’indomani prendiamo il primo elicottero direzione Bala-Murghab in direzione della FOB, la mia prima volta in una basa avanzata, gestita dal battaglione San Marco. Questo è il punto più vicino ai reali scontri a fuoco tra i talebani e l’avamposto italiano. Siamo di nuovo sui mezzi, direzione Cop Mono, avamposto che mi ricorda i tanti film sul Vietnam proiettati al cinema o in televisione. Cop Mono è il luogo che mi ha affascinato di più per la sua crudezza e realtà di vita, gestita da soldati i quali, quotidianamente in condizione estreme, difendono e tengono vivo lo spirito di una Cop. Qui c’è fango dappertutto, l’igiene personale

è al limite, ma a suo modo è un posto accogliente dove il caffé, fatto da una moka all’italiana, non manca mai. La mia sicurezza è garantita dal soldato “Mirko”, mi racconta i segreti della Cop e mi mostra come quest’ultima è difesa dagli attacchi giornalieri dei talebani, al suo fianco posso vedere con i miei occhi la vita dei ragazzi che dalla garitta, sempre con la mano sull’arma, tengono d’occhio il circondario fatto di terra brulla. Una terra faticamene arata e nutrita anche dai proiettili di AK 47 che, di tanto in tanto, sibilano nell’aria minacciosi. Avverto il fruscio di un drone, è il grande fratello aggiunto alla sicurezza della Fob che con i suoi occhi digitali osserva e assicura ogni instante di più la vita dei ragazzi. Da questo posto remoto vengo trasferito verso la base della Croce Rossa. In questo piccolo baluardo sanitario alcuni cittadini afghani si accalcano per ricevere cure di vario tipo: da una semplice influenza a veri e propri traumi o lesioni gravi. L’ambiente è freddo ed estremo, affollato, l’odore è acre, ma la tenda assicura un pò di calore alle mani intorpidite dal gelido inverno afgano: bambini e vecchi aspettano silenziosi, con un’umiltà dimenticata, il turno della loro visita.Per la prima volta vedo l’immagine di come un’arma da fuoco può ridurre la gamba di un civile innocente, ma colpevole di essere un semplice contadino. Dopo un’accurata visita sulla gamba infetta senza proferire un solo urlo di dolore, il contadino dovrà dire addio per sempre a un pezzo del suo piede. Dopo questa cruda esperienza saluto il mio amico Mirko, con la consapevolezza che forse non lo vedrò più: è stato un incontro unico che mai dimenticherò. È arrivato il momento di dirigersi verso un’altra storia.Carcere Herat. Vengo accompagnato al PRT (Provincial Reconstrution Team) italiano, che si occupa di lavori di genio civile, tra cui pozzi, scuole, strade e la rimessa in ordine dell’area femminile del carcere. Qui dalla sofferenza divampa un lampo di luce nella vita di queste donne, che hanno, grazie agli italiani, la possibilità di imparare un mestiere e vivere con i proventi del loro lavoro reso possibile grazie ad un accordo con un produttore locale di tappeti che ne compra i manufatti e li rivede su territorio nazionale ed estero. La visita al carcere è rapida e intensa, le maestranze afghane cercano di smorzare una realtà inequivocabile, che è il reale trattamento delle prigioniere le quali sono reticenti alle domande, evadono tutto con risposte vaghe, manifestando solo ipocrisia. Velocemente siamo ricondotti ai nostri mezzi e accompagnati ai nostri alloggi di Camp Arena. I giorni a me concessi per il mio lavoro sono finiti e dopo l’ennesimo pasto al fianco del maresciallo Matera, sono guidato al check-in in per riprendere l’AC130 che mi riporterà ad Abu Dhabi segnando la fine di questo mio primo viaggio in Afghanistan. Quello che porto con me è un indelebile ricordo fatto dello stesso inchiostro che porto tatuato sul mio corpo.

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COP MONO (Nord Afghanistan) membro della Brigata Sassari descrive il circondario e i suoi mille pericoli

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COP MONO (nord Afghanistan) territorio sotto il controllo della Brigata Sassari:• visione interna dell’area “letti”... in piedi il soldato Mirko• visione interna della COP, questo spazio è usato anche per cucinare• i ragazzi scherzano e costruiscono una sedia... è solo un gioco... una presa in giro...

l’ironia non manca mai, nemmeno nelle COP

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HERAT: membro della Brigata Sassari durante un operazione di controllo delle strade per la ricerca di

ordigni IED (IMPROVISED EXPLOSIVE DEVICE)

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BAQWA - membro del Battaglione San Marco scruta l’orrizzonte

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Elicottero Black Hawk riparte da Bala-Murghab dopo aver caricato dei militari

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Sopra: Centro della croce rossa nella FOB di Bala Murghab (nord Afghanistan) volti dei medici seriamente preoccupati per le condizioni cliniche del paziente.

Sotto: In volo su un AC130 DIREZIONE CAMP ARENA.

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COP MONO (nord Afghanistan) ritratto di un soldato Afghano che vive, lavora

e combatte nella COP MONO in coalizione con l’Esercito Italiano.

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L’istruttore: Marco Buschini. Marco Buschini nasce in Veneto nel 1965. All’età di 9 anni inizia a praticare assiduamente le arti marziali, ottenendo riconoscimenti agonistici a livello interna-zionale. Studia in Italia, Giappone e Stati Uniti.A 18 anni si arruola nella Polizia di Stato. A 30 anni

entra a far parte, in qualità di istruttore, del GOS (Grup-po Operativo Speciale) della Polizia di Stato.L’8 settembre

2002, durante un’operazione di Polizia, viene gravemente ferito, portando co-munque a termine con successo l’operazione, tanto da essere insignito di gradi per meriti straordinari e medaglia d’oro alle vittime del dovere. Nel 2004, in segui-to alle lesioni riportate viene posto in quiescenza e fonda l’A.S.O., l’Accademia di Sicurezza Operativa, insieme al suo maestro di tiro, collega e amico, Marte Zanette. Attualmente l’A.S.O. è una delle più importanti scuole in Italia per la formazione professionale degli addetti alla sicurezza pubblica e privata. Marco Buschini si è allenato presso maestri o istruttori in molti paesi stranieri, tra i quali Francia, Svizzera, Israele, Stati Uniti e Giappone.

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Peri lettori di

TACTICAL NEWS

Magazine

TIRO OPERATIVODI DIFESAUna guida ai fondamenti del tiro di difesa e operativo. Un prodotto rivolto a tutti i pos-sessori di pistole per difesa personale e ai professionisti della sicurezza. Essere in possesso di un’arma non vuole dire sapersi difendere. Nelle situazioni di pericolo si deve tener conto di molti fattori che possono alterare le percezioni e ave-re effetti negativi sul corpo e la mente.Quando si viene aggrediti non si ragiona lucidamente, il respiro diventa affannoso, i battiti cardiaci aumentano, le mani e le gambe tremano e sudano, e si può avere una diminuzione dell’udito e della vista. Queste cause ostacoleranno il normale uso dell’arma. Per questo motivo è im-portante conoscere bene le tecniche e allenarsi in modo efficace.

Argomenti trattati:• La nomenclatura dell’arma• Le norme di sicurezza• Singola e doppia azione• La sicura abbatticane• Il carico dell’arma• Lo scarico dell’arma• La condizione psicologica• Il tiro di pronta risposta• La posizione di ready• Il tiro in ginocchio• Il tiro disteso al suolo• Il tiro in movimento• Lo sfruttamento dei ripari• Il cambio caricatore in emergenza• Gli inceppamenti e i malfunzionamenti dell’arma

L’istruttore: Marco Buschini. Marco Buschini nasce in Veneto nel 1965. All’età di 9 anni inizia a praticare assiduamente le arti marziali, ottenendo riconoscimenti agonistici a livello interna-zionale. Studia in Italia, Giappone e Stati Uniti.A 18 anni si arruola nella Polizia di Stato. A 30 anni

entra a far parte, in qualità di istruttore, del GOS (Grup-po Operativo Speciale) della Polizia di Stato.L’8 settembre

2002, durante un’operazione di Polizia, viene gravemente ferito, portando co-munque a termine con successo l’operazione, tanto da essere insignito di gradi per meriti straordinari e medaglia d’oro alle vittime del dovere. Nel 2004, in segui-to alle lesioni riportate viene posto in quiescenza e fonda l’A.S.O., l’Accademia di Sicurezza Operativa, insieme al suo maestro di tiro, collega e amico, Marte Zanette. Attualmente l’A.S.O. è una delle più importanti scuole in Italia per la formazione professionale degli addetti alla sicurezza pubblica e privata. Marco Buschini si è allenato presso maestri o istruttori in molti paesi stranieri, tra i quali Francia, Svizzera, Israele, Stati Uniti e Giappone.

Il DVD contiene un libretto di 16 pagine che approfondisce alcuni argomenti trattati nel DVD.

Codice DVD: D&B6861

Durata: 40 minuti

PREZZO SPECIALE!

€ 14,90anziché € 19,90

TIRO OPERATIVODI DIFESA

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DI FABIO ROSSI FOTO DI MICHELE FARINETTI

MKE T94KL’MP5 KURZ DEL SULTANO

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L’MP5 KURZ DEL SULTANO

Alcuni mesi fa ricevevo la telefonata di un amico...“ho messo le mani su un gioiello a cui facevo la corte da molto tempo”. Svelato l’acquisto e fiutato il sicuro interesse da parte dei lettori gli proponevo di provarlo per TNM… immediata la risposta: anche subito!!!

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L’AZIENDAL’azienda MKE è il naturale erede storico delle fonderie e delle industrie armiere dell’Impero Ottomano del 15 ° secolo. Nei secoli le strutture cambiarono nome e vennero più volte rimodernate e nel 1950 riorganizzate sotto il nome di Makina Kimya Endüstrisi Kurumu. Furono indirizzate alla produzione della maggior parte delle attrezzature e degli strumenti destinati alle Forze armate turche ed anche a soddisfare le richieste del settore civile. In questo periodo storico l’azienda raggiunse l’apice dell’organizzazione con 18 sedi produttive e 18.000 unità di personale qualificato. Attualmente è l’azienda leader nel settore della difesa turca e può vantare una tecnologia moderna e di alta qualità. Il numero del

personale impiegato è stato ridotto a circa 7500 unità ma la produzione è sempre indirizzata a soddisfare le esigenze delle Forze Armate turche. La produzione comprende munizioni per armi leggere e pesanti, sistemi d’arma pesanti, artiglierie, bombe, mine, esplosivi e razzi, così come altri prodotti destinati al mercato civile, quali acciaio, ottone e contatori

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elettrici. MKE esporta i suoi prodotti in oltre 40 paesi. A coronare questo successo la concessione da parte della tedesca Heckler und Koch delle licenze per fabbricare “in loco” la maggior parte della loro produzione di armi militari tra cui anche la serie MP5, comprese le varianti civili commercializzate sotto la sigla T94.

STRUTTURA E FUNZIONAMENTOIl fusto dell’arma è formato da due parti principali: un upper receiver, ottenuto da uno scatolato in acciaio stampato ed un lower receiver, costruito in materiale tecnopolimerico ad alta resistenza con rinforzi in acciaio. Il primo è saldamente assemblato alla canna e la sua parte interna è adeguatamente

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sagomata per far scorrere l’otturatore. Il secondo, la cui struttura esterna forma l’impugnatura “a pistola” con il selettore sicura/fuoco e la guardia del grilletto, racchiude al suo interno il pacchetto di scatto. Inoltre, sono parte integrante dell’upper l’imbocco e l’alloggiamento del caricatore delle munizioni, serve da base di fissaggio per i congegni di puntamento e vi è ricavata la finestra di scorrimento del tiretto di armamento. Quest’ultimo, ad esaurimento dei colpi, blocca automaticamente l’otturatore in apertura sfruttando un incavo nella parte posteriore della finestra stessa. Si rammenta che la pistola mitragliatrice MP5 è sprovvista, in tutte le sue versioni, della leva dell’hold-open e che la manetta d’armamento, durante le fasi di sparo, essendo svincolata dal porta-otturatore, rimane saldamente ferma in posizione avanzata. La canna, prodotta direttamente dalla MKE in calibro 9x21 IMI, è forgiata in acciaio ed ottenuta per rotomartellatura, è lunga 115 millimetri con sei rigature destrorse aventi il passo di 450 millimetri ed è rifinita internamente con un trattamento di cromatura, che ne incrementa la durata nel tempo e la resistenza agli agenti atmosferici. L’esemplare in nostro possesso è dotato di calciolo in tecnopolimero, costituito in un solo pezzo, collassabile lateralmente, che ingloba il tappo di chiusura posteriore che, a sua volta, serve da sostegno per l’asta guida-molla. Il pacchetto di scatto, ad azione singola, è espressamente prodotto per il mercato civile in modo tale da non poter essere in alcun modo modificato per ripristinare l’eventuale funzionamento full-auto ed il peso per effettuarne lo sgancio è titolato in circa 2,5kg. Il sistema meccanico di funzionamento è identico a

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La canna

è forgiata in acciaio

ed ottenuta per roto-

martellatura, è lunga

115 millimetri con sei

rigature destrorse

aventi il passo di 450

millimetri

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quello presente sul “fratello nobile militare” ed è definito dagli esperti a “chiusura metastabile con ritardo di apertura a rulli”. Largamente utilizzato nelle produzioni armiere della tedesca Heckler & Koch e della spagnola Cetme, questo sistema permette di poter utilizzare otturatori nettamente più leggeri di quelli impiegati in altre PM a massa battente, andando ad influire, di conseguenza, sul peso finale dell’arma e sulla sua precisione, offrendo all’operatore un indubbio vantaggio tattico. La finitura delle parti esterne in acciaio è ottenuta con processi di fosfatazione e successiva verniciatura nera a caldo che, se da un lato non ne esalta il fascino estetico, né eleva sicuramente le caratteristiche di resistenza all’ossidazione che potrebbe essere causata dalle condizioni atmosferiche o dal contatto con aggressivi e solventi chimici. Il nostro esemplare è corredato da caricatori bifilari, sia da 15 che da 30 cartucce, che possono essere “sganciati” dal fusto tramite la leva posizionata, in posizione centrale, tra il caricatore stesso e la guardia del grilletto, oppure, mediante la pressione del pulsante collocato sul lato destro del fusto, immediatamente sopra alla predetta leva. I congegni di mira, inseriti alle opposte estremità dell’upper receiver, danno origine ad una linea di mira di 255mm e sono così composti: anteriormente un mirino a palo fisso protetto contro gli urti da un

anello e, posteriormente, da un tamburo girevole detto “a diottria rotante”, a quattro posizioni, ciascuna con una tacca di mira per differenti distanze di ingaggio. Come nella versione militare sono presenti le predisposizioni per poter abbinare gli specifici attacchi dedicati HK o generiche basi Picatinny per l’utilizzo dei vari modelli di ottiche o strumenti di visione che offre il mercato.

LE SICUREL’arma è dotata di tre dispositivi di sicurezza, uno manuale su cui interagisce l’operatore e due automatici:1•sicura manuale ordinaria sul fusto che blocca la

leva del grilletto. E’ posizionata sul lato sinistro del lower ed è azionabile per mezzo del dito pollice, mentre dal lato opposto è posizionato solo un avvisatore visivo; su entrambi i lati il numero 1 in rosso indica la posizione di fuoco e lo 0 in bianco la posizione di sicura inserita.

2•sicura automatica contro lo sparo prematuro, garantita dalla incompleta apertura dei rulli di bloccaggio nei relativi risalti che, quindi, non consentono al percussore di entrare in contatto con il fondello della munizione e poter effettuare lo sparo.

3•sicura automatica contro l’apertura prematura,

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garantita dal tempo che i predetti rulli di bloccaggio impiegano, al termine della pressione esercitata dai gas a seguito della partenza del proiettile, per ricollocarsi all’interno della testa dell’otturatore, svincolarlo e spingere indietro tutto il complesso.

SMONTAGGIOEssendo un’arma di concezione militare è stata studiata per essere disassemblata “sul campo” con estrema facilità, semplicità ed economia di movimenti. Operazione che può essere effettuata in pochi secondi rimuovendo i tre perni di blocco: 1•due collocati sullo snodo del calcio; il primo

all’altezza della parte posteriore dell’impugnatura a pistola ed il secondo sull’upper receiver subito dietro il tamburo delle tacche di mira; entrambi, una volta estratti, permettono di poter svincolare e quindi rimuovere il calcio stesso. Effettuata questa operazione si può procedere allo sfilamento del

blocco porta-otturatore e successivamente alla completa rimozione del lower receiver.

2•uno collocato nella parte anteriore dell’astina che, una volta rimosso, ne permette il disassemblaggio.

REPORT DELLE PROVEChe dire!!! L’arma ha avuto i natali in casa HK nel 1976, leggenda narra sia per equipaggiare il personale della Polizia Federale tedesca che operava a bordo di autovetture “undercover” che per la richiesta di un commerciante sudamericano di armi che voleva equipaggiare gli uomini adibiti alla sua sicurezza. Di fatto, è stata sicuramente progettata per situazioni di CQB in ambienti ristretti, operazioni clandestine o servizi speciali dove è richiesto l’impiego di armi leggere, con un elevato volume di fuoco e che possano essere facilmente trasportate od occultate. Non a caso molte aziende produttrici di buffetterie, come Eagle, Blackhawk e la nazionale Vega Holster, hanno

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FONDINA ASCELLARE DEDICATA PER HK MP5K

ARMADISASSEMBLATA

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VISTA SINISTRACON CALCIOLO APERTO

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a catalogo “imbracature” ascellari idonee al trasporto di quest’arma e dei relativi caricatori di scorta. L’esemplare in nostro possesso non ha smentito le aspettative. Il fatto di essere stato catalogato nel nostro paese come arma comune – pistola – al numero 17071 e grazie alle sue ridotte dimensioni e peso, che ne garantiscono un ottimo utilizzo in ambiente urbano, potrebbe essere agevolmente indirizzato all’utilizzo in servizio da parte di GPG, Polizie Locali o per la difesa abitativa. Abbiamo effettuato una sessione di prove a fuoco su distanze variabili tra i dieci ed i venti metri utilizzando 500 colpi Fiocchi 9x21 con palla ogivale ramata - Top Target - da 124 gr. Avvalendoci dei soli congegni di mira tradizionali e da posizione con arma imbracciata e calciolo aperto, sono state effettuate molte riprese, anche di pochi colpi, ricercando sia la precisione nel tiro cadenzato che in quello celere. Le rosate ottenute sono state soddisfacenti, tutte contenute nel diametro di circa 5/7 cm anche alla distanza maggiore. Successivamente abbiamo aumentato il numero dei target da ingaggiare, attingendoli in rapida successione con il doppiaggio del colpo; anche in questo caso i risultati ci hanno soddisfatto, anche se non è risultata sempre facile l’immediata acquisizione del bersaglio attraverso la tacca di mira. L’amico Alessandro, proprietario del “gioiello”, ci ha poi stupidi con un paio di rapidi “svuotamenti”

del caricatore evidenziando la celerità di fuoco a colpo singolo e quindi la reale inesistenza di rinculo e di rilevamento della volata. Cosa importante, da non sottovalutare, non abbiamo avuto alcun tipo di inconveniente dovuto a malfunzionamenti o inceppamenti, notoriamente possibili con maggiore frequenza su armi che utilizzano la chiusura metastabile a rulli. In conclusione ritengo che quest’arma abbia molti aspetti positivi, non ultimo quello ludico dell’appassionato tiratore e collezionista che, con la non modica cifra di circa 2.700 euro, potrà “giocare” con un’arma vista solo nelle serie televisive o nelle sapienti mani delle Special Forces.

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HK MP5K INSERITA NELL’APPOSITA VALIGETTA PER IL PORTO DISSIMULATO

PER IL PERSONALE ADIBITO ALLA PROTEZIONE DI SADDAM

HK MP5K CON FINITURE PREGIATE RITROVATA DALLE TRUPPE USA NELLE ARMERIE PRIVATE DI SADDAM HUSSEIN

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DI ALESSANDRO ZANIN

COLTELLI TATTICI COLTELLI TATTICI COLTELLI TATTICI COLTELLI TATTICI COLTELLI TATTICI COLTELLI TATTICI COLTELLI TATTICI CO

WARRIOR'SEDGE

LE LAME DEL GUERRIERO

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COLTELLI TATTICI COLTELLI TATTICI COLTELLI TATTICI COLTELLI TATTICI COLTELLI TATTICI COLTELLI TATTICI COLTELLI TATTICI CO

Inizia con questo articolo, un percorso a ritroso nel tempo, poiché nel tempo le lame da combattimento hanno sempre accompagnato il militare nel suo combattimento armato, per scoprire, o meglio, riscoprire che nel moderno panorama delle “LAME DA BATTAGLIA” ossia i Fighting Knives, molte volte i disegni e le forme dei coltelli del passato tornano prepotentemente alla ribalta, attirando intensamente la nostra attenzione.Progetti datati ma che per per via delle geometrie e delle forme davvero specializzate, per l’epoca di sviluppo, ma così avanzate nel loro disegno da fare da precursore a progetti attualissimi e funzionali, arricchiti e impreziositi dai materiali migliori disponibili oggi per la loro costruzione e ingegnerizzazione, con le

più moderne tecniche di disegno computerizzato. Nel dettaglio sto parlando di una delle lame che ha attirato anni fa la mia attenzione, che è la creatura di un fabbricante americano di fama mondiale, che merita tuttora la nostra stima e ammirazione per via della sua lungimiranza e visionaria progettualità riportata fino ai giorni nostri, sto parlando di AL MAR, Alfred Clark Mar, di cui parleremo ampiamente molto presto in un servizio a lui dedicato. Il coltello, " la sua creatura ", è il famoso "WARRIOR " nato dalla fervida mente di BOB TAYLOR e dal compianto MICHAEL ECHANIS, personalità uniche ed eclettiche nell’universo delle FORZE SPECIALI U.S.A. degli anni ’80 e della loro preparazione nel campo del CQB armato con coltello. Le loro teorie

e i loro studi sono tuttora insegnati a combattenti d’elite come i NAVY SEALS, con cui ho avuto modo di sperimentare personalmente anni fa. Per capire e “sentire sulla mano” la validità delle forme e la funzionalità legata ai movimenti di questo coltello, occorre avere esperienza nelle discipline marziali, ove il movimento del corpo è necessario al compimento ed alla riuscita delle tecniche di difesa o attacco. Nel CQB con coltello le movenze ed i vari katà sono pressoché identiche sia nel bastone che appunto nel coltello. In particolar modo nella disciplina del KALI Filippino e nel HWARANGDO Coreano dove da queste arti marziali, i reparti d’elite estrapolano le loro tecniche. Ho dovuto puntualizzare questo discorso poiché il WARRIOR

è stato concepito da artisti marziali in origine anni fa; ed è arrivato a noi oggi, riadattato e ripreso da una delle aziende più fertili nel nostro odierno panorama industriale. Mi riferisco alla SPYDERCO, grande nome nella coltelleria USA di grande livello e di grande progettualità, molto fervida nel creare sempre nuove forme alternative. Ad onor del vero, il WARRIOR di Spyderco è stato quantomeno un “omaggio” ad Al Mar; poiché SAL GLESSER deve molto a quest’ultimo. Gli iniziali contatti in Giappone per la scelta degli acciai esclusivi, o lo stesso brevetto del foro sulle lame ed il meccanismo front lock nei primi folders, sono dovuti all’amicizia e partnership dello stesso AL MAR, che ha condiviso sia con SAL GLESSER che con Spencer Frazer, Ceo delle SOG Specialties Knives

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negli anni ’80,l' esordio sul mercato insieme con LES DES ASIS, CEO delle Benchmade Knives, legato anche lui ad AL MAR; con cui ha condiviso alcuni SPECIAL PROJECTS. Anche questa volta l’influenza marziale è stata vitale per la creazione del Fighter Spyderco, ed è stato GUY RAFAELI a consigliare le piccole variazioni effettuate sul progetto originale di AL MAR. RAFAELI, cliente appassionato e artista marziale con incarichi di private security, è perfettamente a conoscenza delle problematiche che si riscontrano sul campo operativo, le comuni problematiche di chi è costretto a portare per lavoro un’arma da taglio o da fuoco che sia. Guy Rafaeli è intervenuto inizialmente sul peso del coltello, diminuendolo in modo drastico. Poi nella

forma stessa, e nella geometria della lama; infine sugli spessori e nella conformazione dell’impugnatura. Nello specifico, ora l’impugnatura è formata da due guancette fissate sul manico del coltello con rivetti; il materiale usato è un composto plastico esclusivo Spyderco definito solo con la sigla FRN, con un motivo che ricorda la geometria delle squame collocate in modo bi direzionale, per favorire la presa. Il pomo nella parte finale del coltello, ora è ricavato direttamente dalla barra che fa parte della lama stessa che può fungere da “skull cruscher” per i colpi diretti nel personal defence. La lama è, come tutto il coltello, alleggerita negli spessori e varia leggermente nelle sue geometrie; la sua forma è hollow-ground a lama liscia nella parte inferiore nel taglio primario, e nella parte superiore con la classica Spyder Edge seghettato per i primi ¾ del dorso nel taglio secondario. L’angolo della punta rispetto al polso è identico al disegno

di Al Mar, è stato quindi eliminato il controfilo superiore della lama, e la curva è stata addolcita nel suo insieme. L’acciaio della barra è stato un salto in avanti della Spyderco, che ha lavorato sul suo già collaudato H1 utilizzato per uso marino, rendendolo più idoneo all’utilizzo combat e migliorandolo sulla tenuta del filo e sulla resistenza agli shock per uso più estremo. Il coltello è un Full-Tang, la guardia è applicata a incastro. La robustezza è a tutta prova e la sensazione maneggiandolo con le varie prese, reverse grip, saber grip, ice pick, del knife-combat, è di controllo assoluto. Il coltello non scivola e rimane appiccicato nella presa della mano, anche con mani sudate o bagnate. Il peso è giusto nel suo insieme e non affatica i polsi nel maneggio e nei cambi di mano. Il fodero forse è l’unico punto debole; mi sarei aspettato una custodia dedicata in Kydex con fori e fessure per il porto multiposizione, invece è presentato

nell’ormai classico fodero SPEC-OPS universale con anima in plastica e finitura in cordura.

Il giudizio è comunque più che positivo su tutto l’insieme. Anzi direi che questo notevole coltello ha tutte le carte in regola per diventare un pezzo da collezione in breve tempo, poiché con esso è stato replicato uno dei più intriganti combat knives del panorama mondiale, basato sulla profonda conoscenza e abilità di mostri sacri quali Michael Echanis, e Bob Taylor insieme a Randy Wanner. Nella sua realizzazione ci saranno stati notevoli esborsi economici e saranno stati sicuramente vagliati i rischi nella produzione di un coltello davvero unico e particolare nel suo genere. A volte certe scelte coraggiose ma ponderate si rivelano un sicuro successo commerciale per un determinato target di clienti specializzati nel settore, dato che esistono solo collezionisti appassionati, ma operatori altamente addestrati che usano nel quotidiano oggetti del genere a cui affidare la propria vita. Al Mar insegna e SPYDERCO prende nota continuando a regalarci attrezzi professionali di alto livello, in onore del compianto amico che ha aperto la strada alla moderna coltelleria di alto livello, pensata per uso pratico sul campo. Un ringraziamento particolare al caro amico Rocco della coltelleria Pollini per la gentile disponibilità e per la sua costante ricerca di pezzi particolari e unici.

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I contenuti tecnici del presente articolo rappresentano le opinioni personali dell’autore, le stesse sono libera espressione del pensiero, che viene esposto per esclusivi fini culturali di settore. L’autore e TNM non sono responsabili dell’uso improprio o

fuori legge di quanto qui divulgato. Si rappresenta che la sola lettura dell’articolo non può sostituire l’addestramento pratico e l’assidua frequenza di un poligono di tiro sotto la guida di istruttori opportunamente qualificati.

Sergio GiacoiaDirettore di Tiro, Istruttore di Tiro e di Tecniche Operative. Formatore per la “Beretta Defence Shooting Academy”

DI SERGIO GIACOIA

IL PORTO DELL’ARMAIN CONDIZIONE OPERATIVA

(MUNIZIONE CAMERATA)

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“Conviene portare il “colpo in canna” o no?”, “Bisogna “camerare” la munizione prima di uscire per strada o solo quando si è di fronte ad un pericolo?”, “Il colpo in canna lo metto solo se ho deciso di sparare o anche se potenzialmente penso che potrei farlo? Ma poi se non serve più che faccio, lo levo subito o al rientro?”, “Se porto la munizione camerata devo poi, per sicurezza, tenere sempre la sicura inserita?”, “Ad una pistola che ha la munizione camerata, se cade, può partite un colpo accidentale?”, ecc., ecc. Spesso chi frequenta il “mondo delle armi” da difesa sente porre questi interrogativi; come da sempre circolano nei vari ambienti del tiro leggende su fatti, più o meno veritieri, gonfiati dal “passa parola”, a sostegno della tesi che sconsiglia di portare il “colpo in canna”, mentre altri racconti dicono esattamente il contrario! Ogni istruttore di tiro, nella sua carriera, ha dovuto certamente cimentarsi in spiegazioni inerenti a questo argomento: il colpo in canna si o il colpo in canna no? Su questo argomento tutti hanno espresso pareri, più o meno motivati, a favore o contro le due opzioni, ma quasi sempre senza avere un’adeguata competenza. Ancora oggi, almeno in Italia, gli “addetti ai lavori” continuano a porsi questa domanda, quella che sembra essere la “madre” di tutte le questioni sul tiro da difesa! È opportuno ricordare che in Italia tutti i corpi armati dello Stato e locali hanno un loro regolamento interno, che da indicazioni a tale proposito. Ad esempio alcune amministrazioni vietano espressamente di portare il “colpo in canna” (pertanto vi sono al loro interno operatori che, pur volendo, non possono usare questo espediente). Alcuni regolamenti interni di diverse polizie provinciali o comunali, pochissimi per la verità, impongono agli operatori la “munizione camerata”, mentre la maggior parte indicano il contrario; certi corpi di polizia locale addirittura sono disarmati, ma questa è un’altra storia. Altre pubbliche amministrazioni lasciano libertà di scelta ai loro dipendenti, l’unico suggerimento che viene dagli istruttori di tiro nelle scuole di formazione è che una volta deciso si deve fare sempre quello fino alla pensione, come se le persone fossero incapaci di cambiare e altrettanto incapaci di riadattarsi (qualcuno dice che “solo gli asini non cambiano mai idea”). Ovviamente per le guardie giurate la scelta è individuale, salvo alcuni istituti di vigilanza che danno delle loro

indicazioni a seconda delle convinzioni, spesso del tutto infondate, del direttore dell’istituto. Nel mondo dei detentori di porto d’armi da difesa la scelta è libera ma, di fatto, si seguono i consigli di questo o quell’altro amico che “ne sa di più” o si fa come dice l’istruttore di turno del poligono di paese, oppure si segue ciò che si è letto nell’ultimo articolo pubblicato da una rivista di settore. Queste premesse lasciano intendere che la confusione e l’ignoranza su questo argomento, peraltro di fondamentale importanza ai fini della sopravvivenza in un eventuale scontro armato, regna sovrana! Cercheremo, con molta umiltà, di fare chiarezza, una volta per tutte, sulla questione dalle pagine di TNM. Per sfatare ogni dubbio, diciamo subito che chi scrive

abbraccia appieno la linea di pensiero tattica/tecnica che suggerisce il porto dell’arma in “condizione operativa”, ossia sempre con la munizione camerata; l’arma va scaricata solo alla fine del porto (quando la si ripone in cassaforte o in altri luoghi idonei per la sua corretta custodia). Questo è l’indiscusso parere di tutte le grandi scuole di tiro occidentali. In effetti questa risulta essere,

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alla luce di numerosi studi ed esperienze sul campo, l’unica via percorribile per avere maggiori possibilità di sopravvivere in uno scontro a fuoco, nonché il solo metodo per far si che la percentuale di “incidenti di tiro” prima, durante e dopo una azione con armi da fuoco, si abbassi drasticamente. Le argomentazioni a sostegno di questa tesi sono molteplici, sia dal lato prettamente tecnico, sia da quello tattico. Il primo argomento che viene alla mente per supportare la convenienza dell’utilizzo del colpo in canna è, ovviamente, il fattore “tempo”, ovvero il fatto di arrivare più velocemente all’esplosione del primo colpo rispetto a chi invece deve impiegare tempo prezioso per camerare la munizione. La velocità di esecuzione, in determinate circostanze ad alto rischio, è fondamentale sia per la sopravvivenza, sia per la risoluzione positiva della situazione stessa. A volte pochi decimi di secondo possono fare la differenza tra la vita e la morte, pertanto l’imperativo tattico in un conflitto armato è quello di cercare di azzerare il tempo che intercorre tra il momento in cui si intuisce il pericolo imminente o già in atto, e l’istante in cui si spara il primo colpo verso il “bersaglio ostile”. Analizziamo lo scenario tipo che si presenta in una situazione del genere. In un brevissimo lasso di tempo il tiratore deve:1) rendersi conto di cosa sta succedendo2) che c’è un’aggressione armata in atto3) deve capire da dove arriva l’attacco e da chi è portato4) deve valutare se è legittimato all’uso della forza letale5) deve estrarre l’arma dalla fondina (sperando di

essere dotato di una fondina idonea all’estrazione rapida, cosa che in molte forze dell’ordine italiane è ancora purtroppo un’utopia)

6) dopodiché, deve individuare il soggetto ostile più pericoloso in quel frangente

7) deve quindi indirizzare la volata sul target individuato, tenendo presente che la scena nel teatro operativo cambia velocemente, e alla fine, se non ci sono intoppi di varia natura (inceppamenti, cadute accidentali, ferimenti)

8) può finalmente fare fuoco sperando di colpire per primo!

Quanto tempo è trascorso? Anche se stiamo parlando di manciate di secondi, forse decimi, sicuramente si tratta di un momento già di per se lungo nell’economia di una situazione del genere. Se a quanto sopra esposto aggiungiamo anche il maneggio che si deve fare per camerare una munizione, diventa facile intuire che i tempi si dilatano pericolosamente. A proposito di analisi delle tempistiche, ritengo opportuno citare un’importante studio statistico, condotto dall’F.B.I. non tanto tempo fa, diretto a comprendere la realtà dei conflitti a fuoco. L’Accademia di ricerche del “bureau” più famoso del mondo ha raccolto una serie di dati relativi a scontri a fuoco che hanno visto coinvolte le forze di polizia di circa 80 nazioni (tra cui anche il nostro

Paese) negli ultimi decenni. I risultati di questa indagine statistica hanno portato alla luce alcuni dati significativi se non proprio allarmanti, che dovrebbero far riflettere chi di dovere sulle tattiche e sui moduli addestrativi da adottare. Tra i vari dati il più interessante al nostro fine rivela che ben il 70 % dei conflitti a fuoco non dura più di tre secondi in tutto! Il 70% è una percentuale molto ampia! Dopo soli tre secondi (1.001 – 1.002 – 1.003: il tempo che ci si mette per leggere ad alta voce questi numeri) è già tutto finito, si possono contare i morti, i feriti e i sopravvissuti! Ma allora, tra tutte le cose che si devono fare in questi tre secondi (come abbiamo elencato sopra), siamo proprio certi di voler inserire anche una frazione da dedicare all’armamento della

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pistola, tra l’altro, sotto “stress da combattimento”?Essere “combat ready” significa anche avere l’arma già pronta per l’impiego. Non è concepibile che una persona messa di fronte a uomini armati e intenzionati a uccidere, per di più in condizioni di “stress da sopravvivenza” (con tutte le alterazioni psico-fisiche che ciò comporta, difficili da gestire), debba pure preoccuparsi di armare una pistola (gestualità motoria fine, che non sempre è così agevole in situazioni estreme come si crede comunemente) che potrebbe essere già pronta al fuoco (è stata costruita per poterlo fare), rendendogli così più facili quei momenti critici di vita. Tra i famosi “dieci errori fatali” causa di morte e/o ferimento in servizio (elenco che negli Stati Uniti si

trova, come monito e promemoria, all’ingresso di molti uffici di polizia, accanto al pannello che ricorda i nomi dei caduti affiancati dai loro distintivi) la causa numero nove recita: “che senso ha portare un’arma da fuoco che non è pronta (munizione camerata)?”, come dire che tra i vari motivi per cui sono morti o sono stati feriti i poliziotti, uno è che non portavano il colpo in canna!L’argomento “tempo” è il primo trattato a sostegno della tesi sull’opportunità di portare la munizione camerata, tuttavia ve ne sono molti altri, non meno importanti, che vanno nella stessa direzione; vediamo di analizzare i principali. C’è qualche “istruttore di tiro” che consiglia agli operatori di estrarre l’arma solo se si deve sparare: è evidente che costoro non sanno

C’è qualche “istruttore di tiro” che consiglia agli operatori di estrarre l’arma solo se si deve sparare: è evidente che costoro non sanno minimamente in che cosa consiste il lavoro delle forze dell’ordine,

salvo l’aver visto film e telefilm polizieschi.

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minimamente in che cosa consiste il lavoro delle forze dell’ordine, salvo l’aver visto film e telefilm polizieschi.Nell’arco della sua carriera un appartenente alle Forze dell’Ordine, estrae l’arma dalla fondina decine se non centinaia di volte per molteplici motivi: per fare “copertura” a un altro operatore, per intimare l’alt a uno o più persone sospette di gravi reati, a scopo intimidatorio, per indurre a gettare le armi a soggetti che hanno appena commesso un grave reato e sono armati o, infine, per controllare dei luoghi a rischio o “bonificare” ambienti e così via. Ricordiamo che l’estrazione più rapida è quella di avere l’arma già in mano, ogni volta che se ne ha la possibilità è sempre meglio avere la pistola già impugnata, pronta all’uso, qualora le cose dovessero mettersi male durante una situazione rischiosa. Questo vale anche per chi sente rumori sospetti al piano di sotto. Alla luce di quanto sopra descritto, pensate se ogni volta bisogna anche armare la pistola: la pistola si impugna per essere pronti al peggio, ma se non è armata non si è realmente pronti. Che senso ha, ad esempio, intimare di gettare le armi a qualcuno se non si ha un colpo in canna?Di conseguenza se non si porta il colpo in canna e dunque si deve armare la pistola, quando è finita l’esigenza operativa si deve levare il colpo dalla camera di munizione: tutto questo comporta un aumento della probabilità di colpi accidentali. Si pensi poi anche al semplice rumore che si fa nell’armare e al conseguente “allarme sociale” che si crea tra gli astanti o, nel caso della difesa abitativa, tra i probabili intrusi. Cosa accadrebbe dunque se si dovesse agire in silenzio per una attività operativa che lo richieda? Ed ancora, non è mai una bella sensazione sentire qualcuno che ti “scarrella” alle spalle, davanti o da qualsiasi lato, durante un’operazione. Tutti questi problemi non

esisterebbero se tutti avessero sempre la loro brava munizione là dove deve stare, cioè dentro la camera di munizione, tra l’altro, ci può stare in assoluta sicurezza anche da un punto di vista prettamente tecnico-ingegneristico, in quanto tutte le pistole moderne sono state concepite per essere armate. Non dimentichiamo che le armi sono dotate della “sicura automatica sul percussore” la quale permette allo stesso di colpire l’innesco della munizione solo a fine corsa del grilletto, in nessun altro caso potrebbe farlo, perchè c’è il “chiavistello blocco percussore” sempre inserito e che si disinserisce (permettendo la partenza di un colpo) solo premendo completamente la leva di sparo. Pertanto, se mettete un colpo in canna, lasciando anche il cane armato, e gettate l’arma a terra, in qualsiasi modo e da qualsiasi altezza, o se ci piantate chiodi nel muro, nessun colpo potrà mai partire! Ancora oggi ci sono possessori di armi i quali temono che una pistola armata se cade può sparare… non ci sono commenti! Per marcare ulteriormente, qualora ve ne fosse bisogno, quanto affermato in precedenza a proposito dell’aumento della possibilità di partenza di colpi accidentali se non si porta il colpo in canna, possiamo ritornare ad analizzare le famose statistiche dell’F.B.I. research academy. Lo studio portato avanti dai ricercatori americani ci da altri due importanti dati.Il primo è che oltre il 5 % dei decessi e dei ferimenti tra le forze dell’ordine sono stati causati dal cosiddetto “fuoco amico”. Anche se si fosse trattato solo dell’ 1 %, sarebbe stata comunque una percentuale altissima e assolutamente inaccettabile: non è plausibile che si debba morire in servizio a causa dell’incapacità di un collega! Il fatto è che questi incidenti, occorsi durante azioni dove si è fatto uso delle armi, si sono verificati in attimi precedenti o immediatamente successivi

Nell’arco della sua carriera un appartenente alle Forze dell’Ordine, estrae l’arma dalla fondina decine se non centinaia di volte per molteplici motivi: per fare “copertura” a un altro operatore, per intimare l’alt a uno o più persone sospette di gravi reati, a scopo intimidatorio, per indurre a gettare le armi a soggetti che hanno appena commesso un grave reato e sono armati o, infine, per controllare dei luoghi a rischio o “bonificare” ambienti e così via.

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all’azione, cioè a causa di maldestri maneggi di armamento (prima dell’azione) e scarico dell’arma (dopo l’azione), ma si sono verificati anche durante l’azione stessa, perché avendo il cane armato (Singola Azione) è bastata una leggera pressione accidentale sul grilletto per far partire il colpo fatale che ha ferito, nella migliore delle ipotesi, il collega o altri innocenti! Il secondo dato statistico interessante dice che ben il 98 % degli scontri a fuoco, tra quelli oggetto di studio, sono avvenuti in ambienti urbani. La scienza balistica ci insegna che negli scenari urbani la probabilità di deviazione delle ogive sparate (in Italia sono obbligatorie le palle blindate) è altissima a causa della morfologia urbana, dove regnano le superfici dure. Questo già di per se è un problema quando si spara volontariamente e nell’ambito della legittima difesa; non sarebbe quindi il caso di diminuire la probabilità di rimbalzi fatali causati da colpi partiti accidentalmente a causa di superficiali maneggi di carico e scarico delle armi o pressioni accidentali del grilletto con cane in singola azione, eseguiti da soggetti in condizione di stress? Che poi il problema del rimbalzo è comunque secondario rispetto alla percentuale maggiore di colpi accidentali che vanno a segno direttamente e sempre per le cause di cui sopra. Maneggiare un’arma in condizioni di stress è già problematico con il cane in Doppia Azione (pressioni di scatto vicine ai 5 kg), figuriamoci con il cane in Singola Azione (pressioni di scatto che variano tra il chilogrammo e mezzo e i due e mezzo): ci sono armi dove basta sfiorare il grilletto per far partire un colpo.La violazione della terza norma di sicurezza fondamentale (“non mettere il dito sul grilletto se non per sparare”) è sempre dietro l’angolo. Sembra che la tendenza del dito sul grilletto anche quando non ve ne sia bisogno (cioè quando non si deve sparare), sia un

“malattia” diffusissima tra i tutti quelli che maneggiano un’arma da fuoco. Una cosa è mettere per sbaglio il dito su un grilletto in doppia azione e un’altra è farlo in singola azione laddove lo sparo involontario è quasi certo. Chi non porta il colpo in canna, e in Italia sono purtroppo la stragrande maggioranza, all’occorrenza deve necessariamente armare la pistola: ammesso che riesca a farlo si troverà il cane in singola azione e dovrà gestire tutti gli atti successivi in questa condizione la quale, se non si è ben addestrati (moltissimi), può comportare seri problemi. Test e sperimentazioni cliniche hanno messo in evidenza che, in situazioni di stress, movimenti bruschi fatti dal soggetto sotto tiro, oppure se l’operatore si trova ad inciampare su un gradino, in una buca o semplicemente a mettere un piede in fallo (ma anche la condizione di stress stessa), possono indurre a una reazione neuro-muscolare involontaria, che comporta l’immediata contrazione dei muscoli scheletrici per un’ampiezza massima di 8 mm. Le pistole con sistema Doppia Azione/Singola Azione, genericamente hanno una corsa dello scatto di circa 15/18 mm e un relativo peso di scatto di circa 5.000 g nella funzione di Doppia Azione. Corsa che si riduce a circa 4/6 mm e a circa 1.500/2.500 g quando il sistema di scatto agisce in Singola Azione.Morale della favola, mentre con un carico di 5.000 g un colpo involontario è praticamente da escludere, poiché è impossibile esercitare una tale pressione “per sbaglio”, viceversa con una pistola armata, quindi in Singola Azione, può succedere che se il tiratore mette il dito sul grilletto, più o meno involontariamente, essendo la corsa dello scatto ampiamente sotto il limite del riflesso muscolare involontario di 8 mm, può verificarsi uno sparo accidentale! Alcuni anni fa il “Baltimora Police Department” cambiò le pistole in dotazione ai propri agenti in seguito al noto caso dell’uccisione fortuita di un sospetto di colore da parte di un poliziotto di quel dipartimento, anch’egli di colore, quindi la morte non fu causata da problematiche razziali (il noto “caso Baltimora”, ancora oggi oggetto di studio nelle accademie di tiro). Cosa accadde realmente? Un sospetto rimase ucciso da un’agente, che lo teneva sotto tiro intimandogli di gettare un oggetto che aveva in mano. L’agente inavvertitamente mise il dito sul grilletto e fece partire un colpo che uccise il soggetto davanti a numerosi testimoni: il fatto divenne motivo di gravi turbamenti dell’ordine pubblico. L’agente, che era palesemente in stato di stress, certamente sbagliò a mettere il dito sul grilletto, ma il punto è che il cane era armato perché l’operatore, non portando il colpo in canna, aveva dovuto armare la pistola per quella esigenza operativa. Se il cane fosse stato in condizione di Doppia Azione il nefasto evento non si sarebbe verificato! In seguito il dipartimento affinché non accedessero più tali incidenti, acquistò e distribuì ai propri dipendenti tutte armi che funzionavano solo in

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Doppia Azione. Nel tiro da difesa queste considerazione hanno una valenza di primo piano ed ecco perché le armi da difesa sono state progettate dagli ingegneri per essere in grado di portare la munizione in camera in assoluta sicurezza. Il porto dell’arma per difesa personale o per servizio è, dal punto di vista tattico e della sicurezza, solo con l’arma in “condizione operativa”: munizione camerata, cane abbattuto e sicura ordinaria manuale disinserita (per le armi in cui è presente) e, aggiungiamo, in una fondina ad estrazione rapida, ma con le idonee ritenzioni! Quello che invece credono i più è che sia azzardato portare il colpo in canna ignorando che proprio coloro che non lo portano sono i veri pericoli; tutto poi appellandosi a un senso della sicurezza falso e privo di ogni fondamento tattico e scientifico! Tra l’altro, il fatto di camerare la munizione al momento del bisogno, in frangenti generalmente concitati, ha avuto spesso come conseguenza che l’operatore, finita l’esigenza operativa, invece di provvedere alle procedure di scarico arma in sicurezza, abbia completamente dimenticato di aver camerato il colpo proseguendo nelle sue funzioni convinto di avere l’arma disarmata. Sappiamo di operatori che hanno espletato diversi turni di servizio con la munizione camerata e addirittura con il cane armato, prima di rendersi conto, con stupore, della condizione della propria pistola! Fatti gravissimi e di estrema pericolosità che accadono a coloro i quali hanno fatto la scelta di non portare il colpo in canna o costretti dai regolamenti. Chi, al contrario, porta sempre il colpo in canna, in qualsiasi situazione di emergenza o di potenziale pericolo, ha sempre l’arma pronta al fuoco e in condizione di sicurezza (vedi la sicura automatica sul percussore), ha il cane sempre abbattuto (quindi sempre in doppia azione), e alla fine dell’azione operativa, se non ha sparato, non deve fare altro che rimettere l’arma in fondina, oppure se ha sparato basta che riponga la pistola in fondina con il cane abbattuto. Di conseguenza non ha mai l’esigenza di preoccuparsi di fare un maneggio di scarico dell’arma se non a fine porto. Se le argomentazioni fin ora esposte non dovessero essere sufficienti, ne possiamo esporre altre.Ancora una volta ci vengono in aiuto le statistiche dell’F.B.I.: in media in un conflitto a fuoco vengono esplosi 3 colpi in tutto. Da questo dato si evince che il primo colpo è di fondamentale importanza ai fini dalla sopravvivenza: rimane vivo chi colpisce per primo e con efficacia. Ipotizziamo che il caricatore si dovesse staccare accidentalmente o che non funzionasse bene l’elevatore delle munizioni, un’eventualità rara, ma che può succedere; armando la pistola nessuna munizione salirà in camera di scoppio, lasciando il malcapitato per un attimo disarmato e costretto a un maneggio per risolvere il malfunzionamento.

Una risoluzione del problema che può avvenire ammesso che si abbia un livello di addestramento tale che consenta di farlo veloce senza incorrere in gravi rischi. Se invece si ha il proiettile già in canna, anche verificandosi questa tipologia di inconvenienti, almeno uno è disponibile al fuoco e sappiamo quanto sia importante anche un solo colpo! Ipotizziamo ora un altro brutto intoppo che potrebbe succedere in uno scontro armato: il ferimento del braccio o della mano deputata ad arretrare il carrello otturatore. In combattimento potrebbe accadere di essere feriti al braccio debole prima ancora di aver potuto armare la pistola, questo impedirà all’operatore ferito di poter rispondere al fuoco.La conseguenza potrebbe essere la morte! È vero che ci sono tecniche di armamento con arto ferito, ma non tutti le conoscono e comunque non è forse meglio evitare di ricorrere a espedienti che comportano lo spostamento dell’arma dalla linea di tiro e ulteriori maneggi che rubano tempo prezioso alla risposta all’aggressione? Tempo fa un operatore, attaccato proditoriamente da alcuni terroristi, fu colpito ai tendini del braccio sinistro utili a far “pinzare” le dita della mano: non riuscì così ad armare la pistola d’ordinanza e a rispondere al fuoco. Purtroppo fu colpito anche alla spina dorsale e ora è costretto su una sedia a rotelle! Un altro guaio a cui va incontro chi non porta il colpo in canna è quello che spesso succede a chi tenta di armare la pistola in velocità: inavvertitamente si possono mettere le mani sulla sicura manuale, inserendola accidentalmente, con la nefasta conseguenza che il grilletto va a vuoto essendo disconnessa la leva di collegamento tra quest’ultimo e il cane. L’operatore quasi certamente non se ne avvede e comincia istintivamente a “scarrellare” senza capire, essendo sotto stress, che sta solo espellendo munizioni, ma l’arma continua a non poter sparare. Anche qui la possibile conseguenza è la morte: in alcuni tragici casi furono trovate le munizioni a terra inesplose e l’arma con la sicura inserita in mano al deceduto. Alcuni anni fa il capo di una pattuglia scese dall’auto di servizio per controllare dei sospetti, ai quali era stato intimato l’alt. Appena mise i piedi sull’asfalto fu investito da una raffica di mitraglietta “Skorpion”; anche se ferito riuscì a impugnare la pistola d’ordinanza, ma nella concitazione del momento, per armarla, sbadatamente inserì la sicura ordinaria manuale, il grilletto si scollegò dal cane e non riuscì a rispondere al fuoco, colpito ancora cadde inerme. I terroristi vedendolo a terra, sia lui sia il suo gregario (anch’egli ferito gravemente), fuggirono senza dargli il colpo di grazia. Per fortuna i soccorsi arrivarono presto e dopo una lunga trafila di operazioni e riabilitazione ora è nuovamente in servizio. Tutto questo non è certo da imputare a chi ha fabbricato tali armi o al fatto che

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A volte pochi decimidi secondo possono fare

la differenza tra la vita e la morte l’imperativo tattico in

un conflitto armato è quello di cercare di azzerare il tempo

che intercorre tra il momento in cui si intuisce il pericolo e

l’istante in cui si sparail primo colpo.

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esiste una leva abbatti cane (fondamentale nelle armi da difesa), ma la colpa purtroppo è degli utilizzatori stessi che non sfruttano l’oggetto per come è stato progettato, cioè per portare la munizione camerata. Alcuni non portano il colpo in canna e mettono pure l’arma in sicura: tanto vale lasciarla a casa, è la stessa cosa! Se si tiene la sicura inserita o la si inserisce per errore, l’arma sarà certamente sicura… ma solo per i nostri aggressori! Chi non vuole correre questo rischio mortale non deve far altro che mettere il colpo in canna

prima di mettere l’arma in fondina e uscire; infatti, chi porta il colpo in canna non avrà mai il problema dell’inserimento accidentale della leva abbatti cane.Andiamo avanti. Si è già parlato del fattore tempo, ora vediamo il fattore distanze. Secondo gli studi accademici basati sulle reali esperienze, primo fra tutti la già citata opera dell’accademia di ricerche dell’ U.S. Federal Bureau of Investigation, le distanze tra gli avversari, in uno scontro armato, variano tra i 10 metri e i 50 centimetri, con una distanza media di 5 metri.Se l’aggressione è portata avanti a brevi distanze, da 50 cm a un metro circa, qualcuno dovrebbe spiegare come si può armare una pistola in uno spazio così ridotto da un avversario. Non c’è materialmente né l’intervallo né il tempo di farlo. Tutte le tecniche di tiro a corta distanza, non a caso, prevedono che l’arma sia già pronta al fuoco. In più, per armare una pistola

si deve necessariamente impugnarla mettendola davanti a se, ma a così brevi distanze, l’aggressore potrebbe agevolmente afferrarla o almeno tentare di farlo. In questi casi, infatti, l’arma va tenuta lontana dalla minaccia utilizzando delle tecniche ad hoc che ovviamente non contemplano il dover armare la pistola.

L’ ”Accademia di Sicurezza Operativa”, il noto ente di formazione professionale italiano, tra l’altro gestore della “Beretta Defence Shooting Academy”, ha condotto un’interessante

studio esperito attraverso una serie di interviste, documentate da riprese filmate, a operatori del comparto sicurezza, gravitanti nell’ambito della “Fervi Credo” (l’associazione ufficiale delle vittime del dovere).

Gli operatori intervistati erano tutti stati coinvolti in conflitti a fuoco in servizio uscendone con gravi danni fisici. Nessuno di loro portava la munizione camerata. Al termine del loro racconto, utilizzato come studio per questa tipologia di eventi, tutti gli intervistati hanno fatto la stessa considerazione, ossia che se avessero avuto l’arma pronta al fuoco, con il colpo in canna, probabilmente non avrebbero subito le gravi conseguenze dell’assalto criminale. Il consiglio per gli altri colleghi era: portate sempre il colpo in canna e avrete più probabilità di uscirne senza troppi danni! Possiamo dire ancora qualcosa: ipotizziamo una situazione di combattimento in strada nella

Ovviamente prima di qualsiasi conflitto a fuoco, l’operatore deve estrarre l’arma dalla fondina (sperando di essere dotato di una fondina idonea all’estrazione rapida, cosa che in molte forze dell’ordine italiane è ancora purtroppo un’utopia), nelle due foto l’eccelente fondina dell’azienda americana BlackHawk

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quale una persona viene aggredita con un coltello, con una mazza o altri oggetti atti ad offendere e portare alla morte (ad esempio, una coltellata ben piazzata sicuramente lo è), in questi casi si userà il braccio debole per parare l’attacco (gesto istintivo per chiunque al di la della conoscenza o meno di tecniche di difesa personale) e la mano forte andrà a impugnare l’arma, se non c’è la munizione camerata, come si potrà mai armare se l’altro braccio è impegnato a parare i colpi o a bloccare l’avversario? Ancora, se si sta

scortando qualcuno e all’improvviso vengono esplosi dei colpi d’arma da fuoco, bisognerà utilizzare il braccio che non impugna l’arma per difendere la persona che è con noi, ma allora o si difende lo scortato (che potrebbe essere anche una qualsiasi persona in nostra compagnia, un familiare, un amico) o si arma la pistola, magari se avessimo un terzo braccio potremmo usare quello! Andando più nello specifico, ci sono tecniche di difesa da minaccia armata che prevedono che in un’aggressione a distanza ravvicinata, con la mano debole si afferra velocemente l’arma dell’aggressore, spostandogli il vivo di volata su un’altra direttrice, e con la mano forte si estrae e si ingaggia a fuoco l’avversario. Se non si ha il colpo in canna come si possono realizzare queste tecniche? Se si porta una valigetta con valori (esempio classico) o se comunque si ha il braccio debole impegnato in una qualsiasi attività (per tenersi

in equilibrio, per reggersi o spostare qualcosa, mentre salgo una scala a pioli, nello scavalcare un muro, per tenere il volante dell’auto, per reggere qualcosa che non può essere abbandonato, ecc.), di fatto ci si trova nell’impossibilità di utilizzare la mano deputa all’armamento. Anche in tutti questi

casi la munizione già camerata è l’unica soluzione. Credo di aver dato una panoramica abbastanza esaustiva delle motivazioni che consigliano il porto dell’arma in “condizione operativa”; spero

di essere stato abbastanza chiaro, di non aver tralasciato nessuna argomentazione importante e soprattutto di aver dato un contributo pregnante al vecchio dibattito tra fautori e detrattori della munizione

camerata. Se dalla lettura di questo studio qualcuno dovesse liberamente trarre l’idea di cominciare a portare la munizione camerata è opportuno portarla sempre e non secondo del tipo di esigenza operativa, altrimenti si rischia che al momento fatidico il cervello va in confusione. Inoltre bisognerà addestrarsi all’estrazione senza armamento (il cervello, essendo stato condizionato ad armare sempre all’estrazione, potrebbe fare quello anche se l’arma è operativa) ed a sparare il primo colpo in doppia azione. È vero che le pistole possono sparare da sole… ma solo nei cartoni animati, infatti, nei cartoons è pericolosissimo mettere il colpo in canna!

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Il tIrocon

angolo dI

sItoDi Marco alberini,

foto Di Marco alberini e DaViDe PiSenti

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Uno dei fondamenti del tiro di precisione in cui constatiamo più perplessità da parte dei tiratori è il temuto “angolo di sito”.L’angolo di sito compare nella computazione del tiro quando il tiratore si trova a dover sparare a bersagli che non sono collocati sul suo stesso piano orizzontale; questo succede tipicamente, in ambito operativo, in un ambiente montano oppure quando ci si trova su un palazzo multipiano, elicottero, etc. etc. L’inclinazione che dovrà assumere l’arma per ingaggiare il bersaglio, collocato a monte o a valle del tiratore, si definisce dunque “angolo di sito”.L’impatto su un bersaglio posto in angolo positivo o negativo rispetto al tiratore, a parità di distanza, varia al variare dell’angolo. Solitamente un tiratore poco esperto in questa tipologia di tiri, viene facilmente tratto in inganno, ed è portato a fare una previsione errata di dove avverrà l’impatto, ipotizzando che in presenza di angolo positivo l’impatto avvenga

più in alto rispetto al punto mirato, mentre con un angolo negativo l’impatto avvenga più in basso.In realtà, sia che l’angolo sia positivo o negativo, l’impatto avverrà (in assenza di correzioni dell’alzo) sempre più in alto

rispetto al punto mirato. Tale fenomeno è da imputare, a condizioni atmosferiche costanti, alla sola forza di gravità terrestre.Per illustrare meglio il concetto, facciamo riferimento alla figura 1.Durante la compilazione della

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Lo strumento ACI (Angle Cosine Indicator) che indica il coseno del nostro angolo di tiro. In alternativa esiste l’ADI (Angle Degree Indicator) se si vuole l’indicazione in gradi.

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propria tabella balistica è dunque d’obbligo aggiungere una colonna dove riportare, per ciascuna distanza di ingaggio contemplata , la correzione da apportare sull’ottica al variare dei gradi di inclinazione verticale

della posizione del bersaglio rispetto al tiratore. Le correzioni da effettuare in funzione dell’ angolo di sito sono facilmente calcolabili mediante l’impiego di un software balistico. Questo offre il vantaggio dell’uso di algoritmi di

calcolo complessi e precisi, volti all’ottenimento di dati accurati e rispondenti alla realtà.Effettuare lo stesso calcolo senza l’ausilio di un software balistico, ma semplicemente sfruttando le classiche regole trigonometriche

SNIPER TRICKS SNIPER TRICKS SNIPER TRICKS SNIPER TRICKS SNIPER TRICKS SNIPER TRICKS SNIPER TRICKS SNIPER TRI

L’inclinazioneche dovrà assumere l’arma per ingaggia-re il bersaglio che si troverà a monte o a valle del tiratore si definisce dunque“angolo di sito”

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del coseno applicate alla distanza del bersaglio, come riportato in tanti vecchi manuali di tiro, non porta ad ottenere risultati altrettanto affidabili. Tali approssimazioni derivano dal fatto che i calcoli elementari geometrici del coseno, applicati alla balistica del proietto, hanno alla base delle ipotesi notevolmente semplificative. Esse sono, ad esempio, la

traiettoria rettilinea del proietto al posto della reale traiettoria parabolica nonché una velocità di volo del proietto costante al posto della reale velocità variabile. Pertanto i valori che saranno stimati, si baseranno su comportamenti del proiettile ideali ma non reali. Ovviamente, tanto maggiori saranno le distanze in gioco, tanto maggiori saranno le differenze ottenute tra il calcolo

approssimato e quello più preciso effettuato con i software balistici.Oggi giorno tutti i software balistici sfruttano un algoritmo noto come “funzione Sierra”, introdotto appunto dalla Sierra (casa produttrice di palle per munizionamento) intorno alla metà degli anni ’80, che consente la valutazione esatta della correzione per angolo di sito.Di fatto, analizzando tale funzione e volendo semplificare ed estremizzare il concetto, si può evidenziare come la pura e semplice operazione trigonometrica del coseno non sia idonea al 100% per il tiro di precisione a lunga distanza, bensì siano necessari algoritmi di calcolo ben più complessi per tenere opportunamente conto di tutti i fattori in gioco.Per esemplificare ancora meglio il concetto; ad angolo sito nullo (0° - tiratore e bersaglio sullo stesso piano), ad aumentare della distanza aumenterà l’azione della forza di gravità sul proietto. Supponiamo ora di trovarci ad una distanza dal bersaglio di 1000 metri e di stimare con un inclinometro un angolo di coseno pari ad 85, applicando la formula matematica semplificata: 1000 x 0,85 = 850 metri; a questo punto si dovrebbe regolare l’ottica come per tirare a 850 metri, commettendo un grave errore. Ciò si verifica poichè il tiro con angolo di sito indicato avrà la parabola del moto del proiettile di un tiro a 1000 metri e l’azione della gravità terrestre di un tiro a 850 metri, cosa ben differente dalla soluzione dell’operazione matematica del coseno. Ovviamente appare chiaro come queste considerazioni di carattere fisico non possono essere tenute in esame effettuando una semplice operazione trigonometrica, che risulta quindi essere non idonea a situazioni di tiro più complesse.

Per dimostrare l’inadeguatezza

T = tiratoreB0 = bersaglio posto ad angolo pari a 0B+ = bersaglio posto ad angolo di sito positivoG0 = proiezione sull’asse terrestre, dello spazio in cui influisce la gravità

sul tiro ad angolo pari a 0°G+ = proiezione sull’asse terrestre, dello spazio in cui influisce la gravità

sul tiro ad angolo positivo

Entrambi i bersagli si trovano a 1.000 metri di distanza dal tiratore. Come si può notare la proiezione sull’asse terrestre della forza di gravità, è inferiore per il tiro con angolo positivo (G+). Dunque la gravità terrestre agirà sulla nostra palla per un tratto inferiore nel caso del tiro inclinato, lasciando così “piu energia” alla nostra munizione, determinando una parabola meno arcuata sui 1.000 metri e lo spostamento del punto di impatto verso la parte alta del bersaglio.Se il tiro fosse verso un bersaglio con lo stesso angolo di sito ma negativo, la soluzione balistica non cambierebbe.

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dell’operazione trigonometrica del coseno nei nostri tiri con angolo di sito, portiamo questo esempio, utilizzando i dati balistici di una munizione in nostro possesso e ipotizzando condizioni meteo standard ICAO:

•utilizzandoilsoftwarebalistico,distanza di tiro 800 metri, impostiamo angolo con coseno di 0,70 corrispondente a quasi 45°, soluzione di tiro uguale a 5.4 MIL di alzo;

•orainveceutilizziamoilmetodoenunciato nei vecchi manuali di tiro, distanza 800 metri, coseno di 0,70, dunque 800 x 0,70 e risulta una distanza di 560 metri, soluzione di tiro per i 560 metri secondo la nostra tabella diventano 4.4 MIL.

Come potete notare risulta la differenza di 1.0 MIL, che a quella distanza sono 80 centimetri.Oggi giorno tuttavia, con gli strumenti di calcolo disponibili, per fortuna non si ha più

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Strumento “manuale” che affiancato alla canna della carabina, può indicativamente riportare l’angolo di tiro.

Telemetro Vectronix PLRF 10 C, ottimo strumento elettronico che oltre alle distanze accurate indica anche l’inclinazione di tiro.

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l’esigenza di disporre del coseno dell’angolo. E’ sufficiente infatti misurare l’angolo di sito ed inserire il dato in un software balistico per ottenere la precisa correzione da apportare al tiro. Sebbene alcuni software riportino tutt’oggi la funzione denominata “coseno” di fatto essi effettuano calcoli ben più complessi della semplice operazione trigonometrica per la valutazione della correzione per angolo di sito.Il coseno dell’angolo resta solo un dato di input impropriamente indicato, come unità di misura,

che il tiratore può inserire laddove disponga di uno strumento che lo rilevi direttamente (inclinometro in coseno) in luogo del semplice angolo.Fatte dunque tali considerazioni, volte ad analizzare la fisica alla base dell’effettuazione di un tiro a lunga distanza con angolo di sito, è opportuno descrivere quali sono gli strumenti oggi giorno disponibili per il rilievo dell’eventuale angolo. Essenzialmente esistono due tipologie di inclinometri, quelli meccanici e quelli elettronici.

Gli inclinometri meccanici sfruttano esclusivamente la forza di gravita e sono normalmente predisposti per l’installazione al lato dell’arma mediante una staffa per montaggio su slitta weaver (il più delle volte, specie su armi bolt action convenzionali, viene utilizzata la stessa slitta weaver impiegata per l’installazione dell’ottica) o per montaggio a lato dell’ottica con specifica staffa ad anello. Essi hanno una scala graduata in gradi o numeri rappresentanti il coseno dei diversi angoli sottesi dall’arma,

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Palmare TDS Nomad dotato di modulo GPS, equipaggiato con software balistico Field Firing Solution, interfacciato con il telemetro Vectronix PLRF 10 C. In questo modo il telemetro acquisito il target, riporta distanza ed inclinazione al software che, oltre alla soluzione balistica, è in grado di produrre una range card affidabile del campo di tiro.

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laddove puntata su un bersaglio con un certo angolo di sito. Sulla scala graduata scorre un indice il cui movimento è direttamente corrispondente all’angolo assunto dall’arma.Sempre per quanto attiene gli inclinometri di tipo “meccanico” è opportuno menzionare, a scopo informativo poiché trattasi di sistema analogico ormai obsoleto, il così detto “slope doper”, ovvero un semplice goniometro che sottende un angolo di 180° dotato di indice mobile.In considerazione del fatto che

lo slope doper è dotato di una superficie di appoggio piana, per rilevare l’angolo di sito di un bersaglio è sufficiente procedere come segue:•traguardareilbersagliocon

la propria ottica montata sull’arma;

•mantenendol’armainpunteriaappoggiare lo slope doper sopra la canna facendo in modo che le due superfici a contatto (canna e slope doper) restino perfettamente parallele tra loro;

•aquestopuntolaforzadigravità agente sull’indice mobile dello strumento farà in modo che detto indice si disponga perfettamente verticale indicando così sulla scala

graduata goniometrica l’angolo assunto dall’arma rispetto all’orizzontale.

Quest’ angolo risulterà ovviamente coincidente con l’angolo di sito. Gli inclinometri di tipo elettronico, invece, di fatto risultano integrati in sistemi più complessi quali computer palmari, destinati ad effettuazione di calcoli balistici, telemetri, e altri dispositivi elettronici complessi, aventi funzioni primarie diverse da quelle specifiche per il calcolo dell’angolo di sito. Tuttavia tali sistemi integrano questa funzione per fornire ai tiratori uno strumento il più completo e funzionale possibile, nonché

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Le munizioni Ruag, con certificazioni militari, sono al top della gamma rendendo sempre ottime prestazioni e grande affidabilità

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nell’ottica di consentire al tiratore di potersi recare sul campo con un numero sempre più ristretto di apparati sempre più performanti e completi.Ci riserviamo comunque di sconsigliare di fare affidamento su soluzioni economiche “tutto in uno”, dove il telemetro fungerà, oltre che per la sua funzione primaria di misuratore di distanze, anche per inclinometro e calcolatore balistico. Per esperienza possiamo affermare che difficilmente questi strumenti risultato affidabili, sia per la loro funzione primaria tanto meno per quelle secondarie.Strumenti di fascia alta come dei

telemetri Vectronix sono invece anche ottimi strumenti per la misurazione dell’angolo di sito, con la possibilità di essere anche interfacciati con idonei software balistici quali Field Firing Solution

e divenire così degli ottimi sistemi per l’ acquisizione di obiettivi e come fornitori di soluzioni di tiro. Tratteremo l’argomento acquisizione obiettivi e soluzioni di tiro in un apposito futuro articolo.

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Sopra: Marines durante il Mountain Scout Sniper Course, presso il Marine Corps Mountain Warfare Training Center, Bridgeport, California.

Sotto: Slope doper manuale indicante gradi e coseno relativo.

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Il cast del film, che prende spunto dall’omonimo videogame Atari del 1988, include Christian Boeving, Jon Campling, Mike Mitchell, Gerry Shanahan, Daniel Vivian e Tara Cardinal.

Diretto da: MARCO RISTORI & LUCA BONIProducer: UWE BOLL

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Un’arma batteriologica, sviluppata dal governo degli Stati Uniti per creare un super soldato, è la causa di un’epidemia in una piccola e tranquilla cittadina dell’Europa centro-orientale, Roznov. Tutti gli abitanti della cittadina sono stati infettati e trasformati in zombi. La città è in quarantena, ma il Governo vuole distruggerla per evitare la propagazione dell’epidemia. Il resto del mondo è all’oscuro di tutto. Il piano consiste nell’introdurre una bomba atomica nella centrale nucleare della città, fingendo un terribile incidente. Nessuno dovrà sapere la verità. Un commando di mercenari viene ingaggiato per portare a termine la missione. Il leader è Jack Stone, un ex soldato ora in carcere per aver ucciso commilitoni nel corso di una missione. Se riuscirà a portare a termine la missione sarà libero. Gli altri componenti sono mercenari. C’è un cecchino, uno specialista di esplosivi e un lottatore. Gli uomini dovranno raggiungere l’impianto nucleare, depositare la bomba e poi avranno solo 60 minuti per tornare all’aeroporto militare a fuggire con un elicottero. Il furgone di sicurezza con la bomba entra nella città infestata. Gli zombi sono ovunque. Una volta arrivato alla centrale nucleare, il commando scopre che la bomba non può essere rimossa dal furgone. Gli uomini si rendono conto di essere stati inviati a compiere una missione suicida, ma decidono di tentare di fuggire da quel maledetto paese. La battaglia è accesa. Orde di mostri contro un gruppo di uomini. Non c’è speranza. Chi sopravviverà?

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Buona qualitàe resistenza

Design accattivante

Resistenza alla corrosione

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Famosa in tutto il mondo per le sue linee di coltelli militari professionali, la casa italiana Extrema Ratio si affaccia al mondo dei multi-tool da tasca con la serie BF M1A1 e BF M1A2. Dimensioni e caratteristiche sono comparabili a quelle dei classici multi-tools della Wegner o Victorinox Swiss Army Knives, ma i prodotti ER si distinguono per la scelta dei materiali. Il BF M1A1 offre tre tools principali: lama drop point, lo scioglinodi ed il multi-tool comprensivo di apriscatole, apribottiglie e cacciavite piatto. La lama ed il multi-tool ruotano su rondelle di teflon e si bloccano mediante sistemi liner locks indipendenti con frame in acciaio inox, mentre lo scioglinodi mediante una semplice giunzione a scorrimento. I liner-locks, posti sullo stesso lato per facilitare la chiusura dei tools senza dover girare intorno per trovare quello che si desidera, sono molto sporgenti e presentano godronature pronunciate; la lama in apertura è ben salda e priva di giochi, a differenza dello scioglinodi che invece presenta qualche gioco laterale. Per chi ha le dita molto grandi, Il multi-tool potrebbe risultare un po’ difficile da estrarre, a causa del liner molto sporgente che riduce la presa, ma aprendo prima la lama oppure spingendo l’apribottiglie dal retro, l’operazione risulta semplificata; sicuramente, in entrambi i casi, una maggiore sporgenza del multi-tool avrebbe semplificato l’apertura. Caratteristica che contraddistingue i prodotti ER è la scelta dei materiali: l’acciaio utilizzato per la lama è l’N690Co, come tutti i prodotti ER; l’impugnatura è realizzata con guancette in alluminio Anticorodal anodizzato duro (lega di alluminio

contenente magnesio, rame e manganese caratterizzata da buone caratteristiche meccaniche e ottima resistenza alla

corrosione). La lama, con profilo clip point e biselli full flat, rende questo strumento un ottimo prodotto utility, consentendone

un utilizzo sia per le attività quotidiane ma anche per lavori più impegnativi, grazie ad uno spessore di 3 mm di acciaio N690Co

temprato a 58 HRc. L’apertura è facilitata dalla presenza di un thumb stud destrimano. Complessivamente ergonomico, con

una giusta larghezza che riempie bene la mano, il BFM1A1 è un coltello comodo da trasportare e da utilizzare, con materiali

e robustezza superiori alla media rispetto alla maggior parte dei produttori. La clip, ben realizzata e resistente, può essere

invertita per gli utenti mancini. L’estetica più accattivante ed una maggiore robustezza e resistenza, rendono questo

prodotto un ottimo concorrente tra i classici multi-tools tascabili. Sicuramente questo coltello sarà apprezzato dai

fans del design Extrema Ratio, che potranno acquistare un coltello versatile e meno costoso, rispetto a quelli proposti

dalla casa.

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SCHEDA TECNICALunghezza da chiuso: 10 cm Lunghezza da aperto: 17 cmPeso: 125 gTools:Cacciavite testa piatta, Apribottiglie, Apriscatole, ScioglinodiLama: Acciaio N690Co HRC 58Lunghezza: 7 cmSpessore: 3 mmImpugnatura:Alluminio AnticorodalSistema di chiusura: Liner-Lock (lama e multi-tool)

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26-28 OTTOBRE 2012

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GIUSEPPE GENOVALI

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UN UOMOE IL SUOSOGNO

nel cuore ricordi indelebili come tatuaggi. A sedici anni iniziava il Triathlon dove affrontò le sue sfide estreme con una forza d’animo insospettata per la sua età avendo il privilegio di allenarsi al fianco di grandi sportivi. Il suo nome si fa notare specialmente nella corsa dove ottenne le prime tangibili soddisfazioni: 5° classificato per i Mondiali del 1999 alle Canarie, 4° ai Mondiali in Belgio, argento e bronzo nel 2001/2002 ai Campionati Italiani di Duathlon, campione toscano di Acquathlon nel 2004. A diciotto anni si arruolò nella Marina Militare Italiana entrando a far parte delle Forze Speciali; in questo periodo fece suoi i profondi valori morali che sono tutt’ora la base della sua personalità. Durante il servizio ottenne vari brevetti speciali tra cui quello di salvamento e recupero in mare; fondamentali

professionalmente sono stati gli ultimi mesi di servizio svolto a Roma presso la sezione sicurezza del Raggruppamento Unità di servizio militare Forte Braschi (Rudmiles). Nulla sembrava potesse fermare la sua corsa professionale: entrò nei Reparti Speciali che si occupavano alla difesa personale, guida sicura, guida veloce, tiro pratico, tiro operativo, studio psicologico della minaccia terrorista e addestramento anti-sequestro. Questo percorso lo porterà a ricoprire ruoli determinanti nel Servizio Protezione della Famiglia dell’ex Presidente del Consiglio, del Colonnello Gheddafi e dell’imprenditore Gianni Agnelli. L’amore incondizionato per lo sport, la dipendenza dal voler sempre sfidare se stesso lo spingono a dedicarsi a molteplici discipline tra cui Muay Thai, Box Thailandese al Krav Maga, diventando

Giuseppe Genovali nasce nel 1970 a Viareggio, a pochi passi dal mare con il quale instaura da subito un rapporto speciale; fin da giovanissimo si sente più a suo agio in acqua che sulla terra ferma, era sempre in movimento, a tal punto che spesso marinava la scuola per dare sfogo alla sua incontenibile energia. Sua nonna diceva sempre che aveva l’argento vivo nel sangue e in effetti Giuseppe sembrava essere fatto di mercurio: duttile, forte e mai statico. I primi passi nell’attività sportiva li muoveva nella palestra di pugilato “Stadio dei Pini” appartenente a suo zio e dove sperimentò la vera disciplina che portava al sacrificio e al rispetto degli altri, benché avversari. Dove si forgiò, corpo e anima con sudore e devozione, fu però nell’officina di ferro battuto del padre Antonio; giorni di fatica che hanno lasciato segni sulle mani e

Di GOGO DELLA LUNA

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anche il preparatore atletico del campione del mondo di Thai Box Akkasrivorn, di alcuni piloti di Formula 1 e allenatore di stress fisico delle Forze Speciali Militari. Giuseppe si trasferì poi a Roma dove il destino gli fece incontrare Massimo Berretta e Carlo Cirrilli, i proprietari dell’Adventure Park: un’area meravigliosa

immersa nella pineta di Roma a soli 2 Km dal mare. Da questo incontro nacque più che una collaborazione, un’amicizia sincera: tra i nuovi soci si instaurò una fratellanza che li spingerà a creare il primo centro funzionale “SEAL EVOLUTION TRAINING”, unico a Roma per la preparazione fisica, aderente a quella in atto

nei Reparti Speciali.Il 27 novembre 2011 con il supporto dei “suoi fratelli” e grazie alla promozione della Under Armour Giuseppe Genovali si cimentò in un Test Finale Navy Seal, concludendolo con estremo successo in 4h e 46’ , superando la media degli allievi Seal equivalente a 6 h/8h. Grazie all’ottimo risultato

ottenne il riconoscimento dal comando Navy Seal Americano e il “Compiacimento” da un Sergente maggiore degli Incursori dell’Aeronautica italiana. Il suo ardente obbiettivo era aprire la prima Academy SEALFIT in Italia che sarà un monumento alla memoria di suo padre e agli insegnamenti morali

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appresi giorno dopo giorno, allenandosi nello sport e nella vita con la medesima serietà e devozione. Per capire l’essenza di un essere umano bisogna osservarlo mentre si mette alla prova nella sua passione; non tutti hanno un’attività in cui credono così fermamente da farne un oggetto d’amore per il quale si è pronti a sacrifici e rinunce. Il 17 giugno alle 7.00 Giuseppe Genovali partiva dall’Adventure Park per cimentarsi nella prova 1° corso GOI – S.E.T. Seal Evolution Training formata da esercizi che per molti hanno nomi incomprensibili. E’ stato un assaggio del corso Academy Seal Fit di 24 giorni che sosterrà a San Diego in Agosto e che gli conferirà il Diploma di istruttore SEAL, titolo non ancora acquisito da nessuno in Italia.La prima parte si è svolta con una corsa di 2500 metri dal Park alla “spiaggietta” dove lo aspettava lo Swim Combat: 50 Pull Up, 100 Push Up, 50 American Swing effettuati con kettlebell da 24 Kg, 1.000 metri nuoto; il tutto diviso in serie alternate, eseguite rigorosamente passando da un esercizio all’altro, dalla terra ferma al mare con la sicurezza di un coccodrillo. Mentre percorreva i 2.500 metri di ritorno, io arrivai al Park che era deserto e sembrava un elefante addormentato. Un immenso silenzio, gli alberi delicatamente accarezzati da un debole vento, il cielo che s’affacciava tra le loro fronde, per terra ombre dall’effetto camouflage.

ZERO SCUSE. Ed in alto, fissato ad una trave raggiungibile solo con la scalata di una lunga fune, il coltello del vincitore aspettava la sua presa.Dopo un po’ il rumore di macchine della polizia e vigili del fuoco annunciarono l’arrivo di Giuseppe che a passo alato varcava il cancello: un uomo solo con se stesso, in completa armonia col mondo. Trasbordava determinazione, trasudava concentrazione e il suo sguardo intercettato attraverso gli occhiali era quello di Achille che celebrava il suo Patroclo con la fatica che da una parte brucia i muscoli e dall’altra dona loro potenza. Il tempo di posare lo zainetto che lo zavorrava ed è ripartito per 5.000 metri su sterrato, calcando il terreno con gli anfibi. Passata la frescura del mare e dell’ora in cui la luna cede il passo al sole, l’aria era pesante di umidità e il caldo indossava l’armatura del nemico.Sotto la struttura in metallo dove gli attrezzi lo attendevano ha eseguito: 50 Snash con 2 kettlebells da 16 Kg, 50 Military Press con bilanciere di 50 Kg, 25 Ring Dip, 100 Push Rotex, 5 Rope Climb, 5.000 metri Rowing. Poi il BUD/S Camp, affrontato con un elmetto di protezione che sembrava una crudele corona di spine. Lo osservavo, con discrezione cercavo di infondergli un coraggio di cui non aveva bisogno e non ho sentito neanche mezza frase di sconforto uscire dalle sue labbra, solo la parola ‘caldo’ ripetuta come un mantra.

Tutto era pronto: gli attrezzi, gli integratori ordinati su una cassetta militare, il vogatore fermo come un coccodrillo pronto ad attaccare, un tavolo coperto dalla bandiera americana come fosse la tovaglia per un pic-nic patriottico, sopra di esso un paracadute dai colori italiani aperto come la tenda di un circo. Ovunque adesivi che ammonivano:

Giuseppe Genovali nasce nel 1970 a Viareggio, a pochi passi dal mare con il quale instaura da subito un rapporto speciale

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Eppure ha indossato di nuovo lo zainetto zavorrato con 10 Kg ed ha iniziato una corsa lunga 10.000 metri.Sicuramente chi lo ha visto avanzare a passo veloce, sudato, con i muscoli che gridavano in silenzio ha pensato fosse un masochista malato di vanità, ma il loro precoce commento si è subito vestito d’ammirazione e forse di sana invidia.Ultimo rientro al Park, il tempo di stringere con dolcezza le mani che gli venivano tese per congratulazione e, senza togliersi il peso dalla schiena, si è arrampicato sulla corda, ha liberato il coltello che lo aspettava, è sceso con agilità insospettabile dopo tanta fatica, lo conficcava per terra. Finalmente la stasi e una doccia improvvisata che aveva l’aria di un battesimo perché durante una lotta contro se stessi si muore tante volte.

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Sono passate 4 ore e 15 minuti dal primo all’ultimo passo di questo viaggio e se gli spettatori hanno avuto il lusso di osservare un uomo confrontarsi contro i propri limiti, nessuno potrà mai conoscere i pensieri che gli riempivano la mente: alcuni erano di certo tentazioni diaboliche a cedere, altri invece incoraggiamenti che provenivano da anime celesti, ricordi che acceleravano il battito cardiaco, desideri che potenziavano l’ultima trazione. Una cosa è certa: il muscolo che più beneficia di questo sport considerato estremo è il cuore, ma il motore di tutto è il cervello: tutto si deve alla capacità di controllare la comunicazione sinaptica che fa viaggiare l’impulso nervoso da neurone a neurone. Questi messaggeri chimici ordinano al corpo intero di non mollare, di resistere

Il premio era puramente simbolico, costituito da un ramoscello intrecciato come una corona, con il quale si cingeva la testa del vincitore, ma la vittoria aveva un enorme valore per l’atleta che, tornato a casa, era trattato da eroe e poteva rivestire importanti cariche nella vita sociale della città Stato di appartenenza.Omero, nella sua Iliade, ci commuove con la descrizione del funerale di Patroclo, amico e fratello di Achille, durante il quale si inducono delle competizioni sportive in onore del defunto. La fatica, il sudore, lo sforzo al di là del proprio limite erano, infatti, considerati sia un tributo per i compagni rubati dalla morte, sia il mantenere vivo il rapporto nonostante l’assenza.Ecco allora che l’esercizio fisico odierno ci appare pura vanità, scevro dagli

alla fatica e al dolore, di incoraggiare ogni cellula a lavorare all’unisono per raggiungere l’obbiettivo.Non sempre il tempo migliora le cose e se ora l’anima dello sport è spesso la cieca competizione, nell’antica Grecia era il fulcro della civiltà. Sebbene la ricerca della forma fisica tramite allenamenti titanici e ferrea disciplina fosse anche una preparazione per scontri bellici, essa aveva lo scopo primario di “costruire” uomini forti non solo nel corpo, ma soprattutto nella mente, uomini con un solido principio di onestà basato sulla devozione e il sacrificio. Non a caso le competizioni sportive erano dedicate agli Dei e per comprendere l’importanza attribuita a ciò, basti pensare che, in occasione dei giochi, venivano sospese anche le guerre con la cosiddetta “Tregua Sacra”.

Sotto la struttura in metallo dove gli attrezzi lo

attendevano ha eseguito: 50 Snash con 2 kettlebells da

16 Kg, 50 Military Press con bilanciere di 50 Kg, 25 Ring Dip, 100 Push Rotex, 5 Rope

Climb, 5.000 metri Rowing. Poi il BUD/S Camp, affrontato con

un elmetto di protezione che sembrava una crudele corona

di spine.

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ideali sacri di un tempo. Facilmente spiegabile è dunque la larga diffusione di palestre dove regna la musica che distrae da se stessi e dove il centro benessere è l’attrazione principale.Eppure, in un’oasi ai confini di Ostia, c’è una piccola Grecia antica: si chiama Adventure Park e l’avventura che promettono Giuseppe, Massimo e Carlo è un viaggio basato sulla fatica e sul rigore che porta chiunque, che sia un neofita o uno sportivo professionista, a cingersi con un ramoscello da vincitore perché attraverso l’allenamento da lui proposto si arriva alla conquista non solo di un fisico forte e flessibile ma anche di una mente capace di gestire le tante avversità che la vita ci propone. L’Adventure Park è dunque una vera palestra all’aperto con infinite possibilità d’allenamento: tra gli alberi si erigono la multifunzionale Sky Frame, una torretta per arrampicata, percorsi in altezza, la Zip Wire che da dieci metri di altezza ti fa scivolare in velocità per centoventi metri col cuore in gola e l’anima sorridente, un’area dedicata al Battlefield dove imparare cosa significhi lo spirito di gruppo, la concentrazione e i molteplici significati della parola ‘bersaglio’.Dal 1° al 23 Agosto, Giuseppe Genovali parteciperà ad un corso di addestramento presso la US/Navy Seal Academy in San Diego, California che gli conferirà la qualifica

di primo istruttore affiliato Seal in Italia. Nascerà quindi il primo distaccamento italiano dell’Accademia. Quest’uomo, e chi come lui si allena con rigore, devozione, sacrificio e onestà, non è un superuomo. Simone Weil, filosofa Francese, ha scritto un ritratto chiaro e toccante di chi vive portando avanti la

propria missione: “Una visione chiara del possibile e dell’impossibile, del facile e del difficile, delle fatiche che separano il progetto dalla messa in opera, basta a cancellare i desideri insaziabili ed i vani timori: da questo, e non da altro derivano la temperanza ed il coraggio, virtù senza le quali la vita è solo un vergognoso delirio.”

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Dal 1° al 23 Agosto, Giuseppe Genovali parteciperà ad un

corso di addestramento presso la US/Navy Seal Academy in San Diego, California che gli

conferirà la qualifica di primo istruttore affiliato Seal in Italia.

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Succede spesso che molte persone, dopo essere state coinvolte da episodi di natura criminale, corrono ai ripari acquistando un’arma per proteggersi, con la falsa convinzione di sentirsi più al sicuro. È assodato che ogni cittadino è libero di difendersi come crede nel rispetto della legge, ma una domanda dovrebbe accompagnarci nelle nostre scelte: in una situazione di rischio e stress siamo in grado di usare un’arma in maniera corretta, rispettando i canoni di sicurezza riguardanti noi stessi e chi ci circonda? Lo Staff di Alpha 22, avvalendosi dell’esperienza dei propri istruttori, considera importante la formazione delle persone in questo delicato ambito, alla ricerca di soluzioni che assicurino il detentore dell’arma e chi gli sta attorno. Da qui la creazione di un corso di tiro operativo difensivo per pistola, riservato a tutti coloro che desiderano acquisire le capacità di

base necessarie a gestire un’arma corta in situazioni di rischio. Negli ultimi tempi le pagine dei quotidiani e i media sono ricchi di avvenimenti riguardanti violenze di vario genere che coinvolgono inermi cittadini, tanto da rendere comune la parola sicurezza e da spingere ognuno di noi ad effettuare quelle misure preventive che permettono di tutelare la propria incolumità. Tuttavia, la nostra è anche una società che garantisce la prosperità e il bene dei propri cittadini ed è basata sul rispetto

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della vita altrui: benessere e rispetto condizionano la mente adattandola allo stato di “soggetto non a rischio”. Per cui, in una circostanza altamente stressante a livello emotivo, come potrebbe essere la sveglia di soprassalto nel cuore della notte, il cane che abbaia e le grida di nostra figlia impaurita, chi non è correttamente preparato può avere delle reazioni che se non condizionate e tenute sotto controllo, rischiano di condurre a decisioni sbagliate. Telefonare al 112, attivare il sistema d’allarme o radunare la famiglia in un’unica stanza, sono delle procedure di prevenzione e gestione basilari da attuare in una situazione di crisi: purtroppo però, la tensione emotiva abbinata alla scarsa conoscenza delle procedure stesse, possono portare alla scelta estrema di impugnare un’arma e di utilizzarla in modo errato, provocando danni collaterali difficilmente rimediabili. Partecipando al Corso di trio Operativo Difensivo di Alpha 22, di certo non si svilupperanno le doti di autocontrollo presenti in professionisti del settore e accresciute in anni di addestramento o situazioni reali, proprio perché queste capacità migliorano grazie al tempo e all’esperienza. Il nostro obbiettivo è quello di fornire, mediante una fase teorica e una pratica, una solida base da cui partire per lo sviluppo di una consapevolezza responsabile di ciò che si sta facendo. Nella sessione pratica del corso, alcuni esercizi semplici vengono abbinati ad altri più complessi, studiati per consentire agli istruttori di correggere gli allievi in tempo reale e contemporaneamente di mantenere il controllo necessario per garantire la sicurezza in tutte le operazioni.Il corso di tiro operativo difensivo non è riservato solo ai cittadini comuni, ma è stato pianificato anche per il personale in servizio presso gli enti statali. Mentre nel primo caso le misure di sicurezza riguardano la difesa della propria incolumità nelle circostanze nelle quali si può trovare un civile, nel secondo gli scenari cambiano decisamente, per cui viene attuato un programma differente e su misura, secondo le richieste dell’ente stesso.

CONTATTI:via Forni n° 20 - Albettone (VI)Orario d’apertura: da Lunedì a Domenica (escluso il martedì) dalle 09:00 alle 19:00.Mob. +39.339.6433720Mail: [email protected]

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LA BATTAGLIA D’ALGERIDEI SERVIZI SPECIALI FRANCESI 1955-1957Quando tra il 2000 e il 2001, prima con un’intervista rilasciata a “Le Monde” e successivamente con la pubblicazione del presente volume di ricordi sull’esperienza durante la guerra d’Algeria, il Generale in congedo Paul Aussaresses decise di rompere il silenzio e di esporsi in prima persona rivelando i “brutali” metodi repressivi utilizzati dall’esercito

francese (e dei quali egli fu uno degli esecutori) nella lotta ai ribelli del Fronte di Liberazione Algerino (FLN), la Francia fu investita da una forte (e falsa) ondata emotiva che preoccupò non poco i vertici militari. La domanda che allora ci si pose era perché, ad oltre 40 anni di distanza, uno dei fondatori dello SDECE (Servizio di Documentazione Estera di Controspionaggio), tra i responsabili di spicco dei servizi di intelligence che operarono in Algeria tra il 1955 e il 1957 e in prima linea nelle sanguinose

battaglie di Philippeville e di Algeri, rese noti particolari così sconvolgenti riguardanti l’uso sistematico, avvallato da ambienti governativi, della tortura e delle esecuzioni sommarie contro gli insorti. Da leggere...

AUTORE: Paul Aussaresses: è un generale in congedo dell’esercito francese. Nel 1942 si arruolò volontario nei Servizi Speciali con l’esercito della “Francia Libera” di De Gaulle. Dopo aver preso parte alla guerra d’Indocina, fu uno dei creatori dello SDECE. Nel 1955 fu assegnato alla 41ª Demi-Brigade paracadutisti a Philippeville in Algeria, in qualità di ufficiale del servizio informazioni. In tale ruolo collaborò attivamente, agli ordini del generale Jaques Massu, nella lotta contro il Fronte di Liberazione nazionale algerino.

EDITORE: Libreria Editrice Goriziana (stampato nel 2007)INFO: formato 14 x 21 – 152 pagine con 24 pagine fuori testo di foto in b/nLINGUA: italianoPREZZO: 22,00 euroDISPONIBILE PRESSO: www.ritteredizioni.com

THE RHODESIAN WAR A MILITARY HISTORYQuesto classico resoconto sulla guerra controrivoluzionaria in Rhodesia, rivisto e ampliato 25 anni dopo la prima edizione, viene considerato ancora oggi un manuale standard per lo studio della Contro-insorgenza, in particolare applicato all’attuale “guerra al terrorismo” in Iraq e Afghanistan. Il volume affronta i tre periodi principali della guerra: il primo dal 1965, quando le forze di sicurezza risultarono vincitrici; il secondo, dal 1972 al 1976, è quello della “guerra senza vincitori”; il terzo infine, l’intenso periodo dal 1976 al 1979, in cui i Rhodesiani bianchi, capeggiati da Ian Smith, vennero obbligati dai negoziati di Londra a cedere il potere politico agli insorti filomarxisti di Mugabe. Il libro esamina apparati militari e strategie di entrambi i contendenti, analizza con grafici nel dettaglio le operazioni nel bush, considera le pressioni internazionali (in particolar modo degli Stati Uniti) sugli Stati “non allineati politicamente” e gli effetti sociali della guerra sul territorio sia nei confronti dei bianchi che dei neri. Infine lancia uno sguardo sulle prospettive attuali.

AUTORE: Paul Moorcraft: è un ex “Senior Instructor” della Royal Military Accademy, giornalista che ha seguito sul campo la maggior parte dei conflitti nel continente africano. Ha lavorato in trenta diverse zone di guerre in Africa, Medio Oriente, Asia e Balcani. Nel 2003 è stato temporaneamente richiamato al ministero della difesa inglese, attualmente è direttore del Centre Foreign Analysis di Londra.Peter McLaughlin: è nato in Nord-Irlanda, ha vissuto fino al 1983 in Rhodesia. Durante la guerra ha servito in zona di operazioni come riservista nella British South Africa Police. Diventato professore, è stato direttore della British International School del Cairo.

EDITORE: Pen & Sword (stampato nel 2011)INFO: formato 15,5 x 23,5 – 208 pagine con 16 pagine fuori testo di foto in b/nLINGUA: inglesePREZZO: 25,00 euroDISPONIBILE PRESSO: www.ritteredizioni.com

francese (e dei quali egli fu uno degli esecutori) nella lotta ai ribelli del Fronte di Liberazione Algerino (FLN), la Francia fu investita da una forte (e falsa) ondata emotiva che preoccupò non poco i vertici militari. La domanda che allora ci si pose era perché, ad oltre 40 anni di distanza, uno dei fondatori dello SDECE (Servizio di Documentazione Estera di Controspionaggio), tra i responsabili di spicco dei servizi di intelligence che operarono in Algeria tra il 1955 e il 1957 e in prima linea nelle sanguinose

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SMALL WARSTEORIA E PRASSI DAL XIX SECOLO ALL’AFGHANISTANPubblicato per la prima volta nel 1896, “Small Wars” non solo rappresenta la sintesi delle vaste conoscenze (teoriche e pratiche, dirette e indirette) del suo autore, Charles Edward Callwell, ma è anche un riuscito tentativo di analisi

di una particolare forma di conflittualità assimilabile in parte a ciò che noi oggi chiamiamo guerriglia o guerra di contro insorgenza. Con il termine di Small Wars, si indicano tutte le tipologie di conflitto, tranne quelle in cui entrambi i contendenti sono truppe regolari. L’Autore combatté nelle guerre coloniali dell’800 dove furono innumerevoli le spedizioni di truppe regolari (essenzialmente europee) destinate a combattere rivolte nei paesi assoggettati. Small Wars è un classico del

pensiero militare e un testo quanto mai utile e valido alla luce del mutare delle forme della conflittualità: vi si trovano riferimenti a concetti e pratiche di quel modo di combattere irregolare che fa da sfondo a diverse teorie contemporanee come quelle dei conflitti a bassa intensità. Il testo di Callwell può essere considerato un anticipatore del grande dibattito sulla contro insorgenza che si è sviluppato in seguito a alle operazioni americane in Afghanistan e in Iraq. I contesti politici, culturali e tecnologici sono molto diversi, ma l’Autore con la sua esperienza e la sua analisi coglie gli elementi di fondo di una particolare forma di conflitto su cui oggi è quanto mai urgente e importante riflettere da una prospettiva sia strategica sia storica entrambi rintracciabili in Small Wars.

AUTORE: Andrea Beccaro: ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Scienze Strategiche presso l’università di Torino, occupandosi dell’operazione “Iraqi Freedom” e della strategia di contro insurrezione americana. E’ autore di diversi saggi sulle tematiche del conflitto , in particolare sulla sua trasformazione nel mondo contemporaneo e sul concetto di guerra irregolare pubblicati su varie riviste.

EDITORE: Libreria Editrice Goriziana (stampato nel 2012)INFO: formato 14 x 21 – 268 pagine LINGUA: italianoPREZZO: 28,00 euroDISPONIBILE PRESSO: www.ritteredizioni.com

ENCICLOPEDIA DELLE TECNICHE DI COMBATTIMENTONegli ultimi 50 anni, la potenza degli armamenti e la tecnologia della sicurezza hanno conosciuto uno straordinario sviluppo e, di conseguenza, le tattiche si sono dovute adattare a campi di battaglia dove il minimo errore può rivelarsi disastroso. I soldati e gli ufficiali degli eserciti professionali di oggi rappresentano quindi il personale combattente tatticamente più addestrato della storia. Anche in condizioni di grave inferiorità numerica, un reparto può prendere il sopravvento grazie a mobilità, capacità di manovra, potenza di fuoco, piazzamento e sorpresa, riuscendo a scompaginare e mettere in fuga il nemico. L’Enciclopedia svela e spiega in maniera esauriente le tattiche di combattimento, dall’uso di un fucile d’assalto e dal lancio di una granata, al controllo di un attacco aereo e di un bombardamento di artiglieria, all’uso di un’arma anticarro. Vengono rivelate tecniche particolari adottate dai reparti di élite, come le tattiche per il recupero di ostaggi, per infiltrarsi in territorio nemico e uscirne, per condurre un attacco anfibio, per sganciarsi e mettersi in salvo. Sono anche illustrate le tattiche messe in atto su terreno estremo, dal combattimento nelle regioni polari alle imboscate lungo le piste della giungla. Corredato da un gran numero di illustrazioni, il volume è l’opera di riferimento più completa, a livello divulgativo, sui criteri tattici, e costituisce anche una minuziosa indagine sul modo in cui agiscono i soldati nella guerra moderna.

AUTORE: Chris MacNab: ex-operativo del SAS inglese è esperto di survival, tema al quale ha dedicato circa 20 volumi di cui alcuni tradotti in lingua italiana dalle edizioni Mediterranee. E’ anche autore di innumerevoli romanzi ambientati nella comunità delle forze speciali. Vive in Galles dove svolge corsi sulla caccia in ambienti estremi.Will Fowler: lavora in campo giornalistico e si è specializzato in storia militare, questioni di attualità e tecnologia della difesa. Dal 1983 al 1990 è stato editore per conto dell’esercito inglese della rivista “Defence” e ha scritto 14 libri di argomento militare. Riservista dell’esercito inglese per quasi trent’anni, ha partecipato come volontario alla prima guerra del golfo nella 7ª Brigata corazzata.

EDITORE: Edizioni Mediterranee (stampato nel 2005)INFO: Brossura 17 x 24 cm. pag. 256 con 125 foto b/n e 115 illustrazioni b/n LINGUA: italianoPREZZO: 17,90 EURODISPONIBILE PRESSO: www.ritteredizioni.com

di una particolare forma di conflittualità assimilabile in parte a ciò che noi oggi chiamiamo guerriglia o guerra di contro insorgenza. Con il termine di Small Wars, si indicano tutte le tipologie di conflitto, tranne quelle in cui entrambi i contendenti sono truppe regolari. L’Autore combatté nelle guerre coloniali dell’800 dove furono innumerevoli le spedizioni di truppe regolari (essenzialmente europee) destinate a combattere rivolte nei paesi assoggettati. Small Wars è un classico del

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PERSONNEL RECOVERY- PRS (Prevent Resist Survive)- Risk Assessment - Urban & Rural Tactical Movement & Evasion

TRAININGS DEPLOYMENT CONSULTING

ROPE- Tactical Rope Access- Tactical Rappel, Climbing & Belay- High Angle Rescue- Mountain (Warfare) Training- Alpine Training (Summer/Winter)

MEDICINE- Tactical Medicine Training- Emergency Medicine Training- TEMS (Tactical Emergency Medical Support)

Maritime- Amphibious Training- Tactical Dive Training- Dive Medicine

www.tmr-training.de Norbert CianoKirchstrasse 171116 Gärtringen - Germany+49 177 / [email protected]

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