storia dell'africa

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UNISU UNIVERSITA’ TELEMATICA NICCOLÒ CUSANO DISPENSA CORSO DI STORIA ED ISTITUZIONI DELL’AFRICA A.A. 2011-2012 PROF.SSA MARIA EGIZIA GATTAMORTA / PROF. STEFANO SILVIO DRAGANI 1

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storia dell'Africa

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Page 1: Storia dell'Africa

UNISU

UNIVERSITA’ TELEMATICA NICCOLÒ CUSANO

DISPENSA

CORSO DI STORIA ED ISTITUZIONI DELL’AFRICA

A.A. 2011-2012

PROF.SSA MARIA EGIZIA GATTAMORTA / PROF. STEFANO SILVIO DRAGANI

1

Page 2: Storia dell'Africa

agg. 30.06.2012PROGRAMMA

Cattedra di Storia ed Istituzioni dell’AfricaProf.ssa Maria Egizia Gattamorta

Corso Mografico: Prof. Stefano Silvio Dragani1° Modulo Le indipendenze africane

Prima decolonizzazione e seconda decolonizzazioneNeopatrimonialismo e personal ruleInstabilità politica e regimi autoritariCrisi, conflitto e crollo dello Stato

2° modulo Dall’Organizzazione per l’Unità Africana all’Unione Africana

L’OUA negli anni ’60-‘70L’OUA negli anni ’80-‘901999-2002 nasce l’Unione Africana: caratteri distintiviNEPADAfrican Standby Force

3° Modulo L’Africa nella politica internazionale

I rapporti Unione Africana-Unione EuropeaI rapporti Africa-Cina I rapporti Africa-IndiaI rapporti Africa-GiapponeI rapporti Africa-IranI rapporti Africa-TurchiaI rapporti Africa-USA I rapporti Africa-Regno UnitoI rapporti Africa-FranciaI rapporti Africa-America LatinaI rapporti Africa-RussiaI rapporti Africa-Israele

4° Modulo Le sfide alla sicurezza e alla stabilità dell’Africa Corso Monografico a cura del Prof. Stefano Silvio Dragani

La Corruzione in AfricaIl Traffico di stupefacenti in AfricaIl Terrorismo in AfricaIl fenomeno della pirateria nel Golfo di Guinea e al largo delle coste somale

5° Modulo Trend e prospettiveSviluppo del settore petroliferoGood governance come fattore chiave per lo sviluppo e la sicurezza in AfricaA quando una “Primavera Africana?”

*Parte consegnata in data 30 giugno (da portare a partire da esami di 13 luglio) *Parti finali che saranno

pubblicate a breve *E’ obbligatoria la visione di almeno 1 Tavola Rotonda (al momento si trovano quella sulla

pirateria, sulla fame e carestia in Africa, sulla Libia)

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Page 3: Storia dell'Africa

L’Africa indipendente

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Page 4: Storia dell'Africa

Africa – luglio 2011

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Page 5: Storia dell'Africa

Union du Maghreb Arabe (UMA)

Paesi Membri

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Page 6: Storia dell'Africa

Economic Community of West African States (ECOWAS in inglese)

Communauté Economique des Etats de l’Afrique de l’Ouest (CEDEAO in francese)

Paesi Membri

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Page 7: Storia dell'Africa

Intergovernamental Authority on Development (IGAD)

Paesi Membri

NB:

1) L’Eritrea (ammessa nel 1993 e sospesa nel 2007) ha fatto domanda

di reintegro nel luglio 2011 ma al gennaio 2012 attende ancora risposta

2) L’indipendenza del Sud Sudan (luglio 2011) ha comportato

l’ammissione formale del neonato stato africano all’IGAD nel Summit

Straordinario di Addis Abeba del 25 Novembre 2011

7

Page 8: Storia dell'Africa

East African Community (EAC)

Paesi Membri

8

Page 9: Storia dell'Africa

South African Development Community (SADC)

Paesi Membri

9

Page 10: Storia dell'Africa

Common Market for Eastern and Southern Africa (COMESA)

Paesi Membri

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Page 11: Storia dell'Africa

Communauté Economique des Etats de l'Afrique Centrale (CEEAC in fr)

Economic Community of Central African States (ECCAS in ingl)

Paesi Membri

Angola

Burundi

Cameroun

Repubblica Centrafricana

Congo

Repubblica Democratica del Congo

Gabon

Guinea Equatoriale

Sao Tomé e Principe

Tchad

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Page 12: Storia dell'Africa

Community of Sahel-Saharan States (CEN-SAD)

(Communauté des Etats Sahélo-Sahariens in francese)

Paesi Membri

Egitto, Libia, Marocco, Tunisia

Benin, Burkina Faso, Tchad,Cote d’Ivoire, Gambia,Ghana, Liberia,

Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone, Guinea Bissau, Togo

Repubblica Centrafricana

Djibouti, Eritrea, Somalia, Sudan

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Page 13: Storia dell'Africa

Diagramma delle diverse organizzazioni africane

e

“partecipazione incrociata” dei paesi

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Page 14: Storia dell'Africa

Primo modulo

LE INDIPENDENZE AFRICANE

� Prima decolonizzazione e seconda decolonizzazione

� Neopatrimonialismo e personal rule

� Instabilità politica e regimi autoritari

� Crisi, conflitto e crollo dello Stato

Testi consigliati per la seguente parte: -capitolo IV del volume “Il leone e il cacciatore-Storia dell’Africa sub-sahariana” di Anna Maria Gentili – Ed Carocci

-capitolo X del volume “Africa: la storia ritrovata”, di Giampaolo Calchi Novati e Pierluigi Valsecchi– Ed Carocci

-Capitoli II e III del volume “L’Africa” di Giovanni Carbone - Ed. il Mulino

- oppure un capitolo specifico di un qualsiasi testo delle scuole superiori

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Page 15: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 1 -2 “PRIMA DECOLONIZZAZIONE E SECONDA DECOLONIZZAZIONE”

La decolonizzazione e l’indipendenza dei territori africani ed asiatici sono considerati eventi

rivoluzionari del XX secolo, avvenimenti di portata mondiale che moltiplicano il numero degli

soggetti nell’ambito di fora internazionali e comportano nuovi bilanciamenti nell’assunzione di

decisioni di portata mondiale. Tali processi avviano un percorso innovativo, in cui i nuovi soggetti

sperimenteranno diverse forme di governo, vivranno forme politiche instabili, registreranno

l’emergere di regimi militari o forme autoritarie individuali. In tale sede sarà approfondita la parte

relativa agli Stati sub-sahariani nonché la fragilità delle loro istituzioni. Il cammino intrapreso, in

alcuni casi fu travagliato e sanguinoso, di certo forgiò gli animi delle leadership locali più o meno

pronte ad affrontare la delicata fase di “sganciamento” dalle potenze coloniali.

L’utopia che diventa realtà

La decolonizzazione è una realtà complessa e globale: si sviluppa quasi simultaneamente laddove

c’era stato un potere coloniale (sia in Africa che in Asia), è incoraggiata dai mutamenti indotti dal

termine della II Guerra Mondiale, ha dei caratteri propri delle varie aree in cui avviene, è un

fenomeno che supera di gran lunga i progetti di autonomia ipotizzati dalle grandi potenze coloniali

del tempo. Come notato da Giampaolo Calchi Novati, “per i nazionalisti dei paesi afroasiatici, il

termine stesso di ‘decolonizzazione’ è inadeguato, in quanto il processo di liberazione non è solo il

distacco da un mondo considerato come un ‘prius’, ma è una restaurazione nazionale che stabilisce

per quanto possibile una continuità con la propria storia: una rivoluzione in senso proprio”. Il

fatto che il passaggio all’indipendenza avvenga in tempi più o meno rapidi comporta la mancanza di

preparazione adeguata della classe politica, l’uso dell’anticolonialismo come “collante” dell’unità

nazionale, lo scontro tra quanti avevano goduto dei privilegi dell’epoca coloniale e chi voleva

valorizzare una gestione più moderna.

La decolonizzazione investì le regioni africane in diverse fasi. Per prima decolonizzazione si

intende quella delle aree occidentali e centrali francofone dei primi anni ’60 nonché quella delle

aree anglofone; per seconda decolonizzazione si intende quella che riguarda le ex colonie

portoghesi (Guinea Bissau, Capo Verde, Mozambico e Angola). Negli anni a seguire si realizzano i

processi di distacco rimanenti (Zimbabwe, Namibia, Eritrea e da ultimo lo scorso luglio 2011 il Sud

Sudan).

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Page 16: Storia dell'Africa

Di seguito una tabella esemplificativa delle indipendenze degli Stati africani.

ANNO PAESE1951 Libia1956 Sudan

MaroccoTunisia

1957 Ghana1958 Guinea1960 Cameroun

TogoMaliSenegalMadagascarRepubblica Democratica del Congo (ex Zaire)Somalia Benin (Dahomey)NigerBurkina Faso (Alto Volta)Cote d’IvoireChadRepubblica CentrafricanaCongo BrazzavilleGabonNigeriaMauritania Mali

1961 Sierra LeoneTanganika

1962 Rwanda BurundiAlgeriaUganda

1963 ZanzibarKenya

1964 MalawiZambia

1965 Gambia1966 Botswana

Lesotho1968 Mauritius

SwazilandGuinea Equatoriale

1974 Guinea Bissau1975 Mozambico

Capo VerdeComoreAngolaSeychelles

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Page 17: Storia dell'Africa

1977 Djibouti1980 Zimbabwe1990 Namibia1993 Eritrea2011 Sud Sudan

Secondo Giovanni Carbone , “nonostante le trasformazioni istituzionali e la formale acquisizione

della piena sovranità, l’indipendenza dei paesi africani fu fin da principio un processo incompleto”.

Lo storico ritiene infatti che continuò sotto varie forme l’ingerenza dei grandi attori internazionali:

in alcuni casi vi fu la piena partecipazione ad organizzazioni delle ex potenze coloniali come il

Commonwealth o la comunità della francofonia, oppure vi fu la presenza di contingenti militari; in

altri casi si registrò l’intromissione o l’influenza delle istituzioni finanziarie internazionali.

Analizziamo nel dettaglio tre casi collegati a tre potenze coloniali distinte: Kenya, Congo Belga,

Senegal. Ognuno di essi presenta delle particolarità ed è legato a uomini-simbolo della storia

africana dell’ultimo cinquantennio.

Nel Kenya la decolonizzazione assunse dei toni drammatici, poiché parallelamente al partito Kenya

African Union fondato dal leader nazionalista Yomo Kenyatta1, si sviluppò il movimento dei Mau-

Mau che voleva ottenere l’indipendenza e riprendere la terra data ai bianchi, attraverso l’utilizzo di

metodi violenti. La repressione inglese fu molto forte nel periodo 1952-1955 e comportò anche

l’arresto di Kenyatta. Nel 1960 venne creata la Kenya African National Union (KANU), formazione

che vinse le elezioni del febbraio 1961. Il Kenya ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel

dicembre del 1963.

Il Congo Belga non era stato preparato dall’amministrazione belga all’indipendenza e non era

pronto per tale cambiamento che si rivelò traumatico. Come notato da Anna Maria Gentili, “il

sistema coloniale belga , autocratico e paternalista, aveva seguito nel dopoguerra una politica di

poche e scarse riforme rivolte a forme di condivisione del potere con gli africani urbanizzati ai

livelli più bassi dell’amministrazione: solo nel 1957, in seguito ai disordini provocati dagli effetti di

una gravissima recessione a Léopoldville (Kinshasa) si cominciò a considerare l’eventualità

dell’indipendenza. (…) dal 1950 esisteva un partito, l’Association des Bakongo pour le mantien de

de l’Unité et l’expansion et la défense de la langue kikongo (ABAKO), nata come associazione

culturale della popolazione bakongo, guidata da Joseph Kasavubu. L’agitazione a favore

dell’indipendenza si sviluppò in tutte le province anche come conseguenza, nel 1958, di quanto

stava avvenendo nel vicino Congo Brazzaville che si avvicinava alla piena autonomia sia pure nel

1 Vedi nota biografica di Yomo Kenyatta

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Page 18: Storia dell'Africa

quadro della Comunità francese”. In tale anno Patrice Lumumba2 fondò il Mouvement National

Congolais (MNC), un movimento nazionale contro ogni forma tribale e separatista . E’ Lumumba

che grazie al contatto con altri partiti africani porta il Congo al di fuori dei suoi confini e lo collega

con “il movimento d’emancipazione che sta scuotendo tutta l’Africa”. Nel 1959 si formarono altri

gruppi politici che però rimanevano radicati al territorio come ad es. la Confederation des

associations du Katanga (CONAKAT). Durante le elezioni del 1960 il Movimento di Lumumba

ottenne il maggior numero di seggi alla Camera ed al Senato. Inseguito ad una rapida successione di

avvenimenti, il governo di Bruxelles decise di accordare l’indipendenza allo Zaire per il 30 giugno

1960: Bruxelles tentò prima di affidare l’esecutivo a Joseph Kasavubu, poi di fronte a problemi di

maggioranza, scelse Patrice Lumumba. In base a quanto definito, Kasavubu fu nominato Presidente

della Repubblica e Patrice Lumumba divenne Primo Ministro. In qualità di Premier, Lumumba

decretò l’africanizzazione dell’esercito e raddoppiò la paga dei soldati. Il Belgio rispose a tale

mossa inviando le sue truppe nel Katanga per proteggere i connazionali e supportare la secessione

di tale regione.

L’equilibrio si spezzò rapidamente: il 4 settembre 1960, il Presidente Joseph Kasavubu annunciò la

revoca del mandato a Lumumba e ai ministri nazionalisti. Il giorno dopo, Joseph Ileo venne

nominato nuovo Primo Ministro. Fu un momento molto drammatico per il Paese.

Un insieme di fattori aveva portato a tale situazione di massima tensione, tra di essi

l’ammutinamento della Forza Pubblica congolese contro le autorità belghe ma soprattutto la

secessione del Katanga, l’11 settembre 1960. La Gentili evidenzia che “le grandi imprese minerarie

ed in particolare l’Union Minère appoggiarono la secessione. Su richiesta del governo legittimo

intervennero le Nazioni Unite, che tuttavia agirono con un’ambigua neutralità che finì per tornare

a vantaggio della distruzione della legittimità costituzionale e per consegnare il paese ad un capo

militare, Mobutu, che si presentava come garante del mantenimento degli interessi occidentali” .

Lumumba, convinto di rimanere in carica grazie al sostegno del governo e del parlamento, revocò a

sua volta il presidente Kasavubu. Lumumba venne arrestato il 10 ottobre 1960 ma con l’aiuto di

alcuni colleghi formò un governo clandestino diretto da Antoine Gizenga. Tentata la fuga il 27

novembre, Lumumba venne scoperto dopo qualche giorno, arrestato nuovamente il 2 dicembre

(benché avesse chiesto protezione ai soldati ghanesi del contingente ONU), mandato a Leopoldville

e poi al campo militare Hardy de Thysville. Il giovane leader venne fucilato il 17 gennaio 1961,

durante un trasferimento nella regione del Katanga, con la complicità delle autorità locali e dei

mercenari belgi.

2 Vedi nota biografica di Patrice Lumumba

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Page 19: Storia dell'Africa

Il Katanga venne riconquistato con l’intervento dei Caschi blu delle Nazioni Unite alla fine del

1961, ma fu una vittoria effimera poiché riprese la guerra di secessione fino al 14 dicembre del

1963.

Tra il 1962 ed il 1964 il Congo visse una situazione di rivolta continua che si tramutò in guerra

civile. Solo con il golpe del Gen. Mobutu il 24 novembre 1965 si pose fine a tale fase di disordini.

Il Senegal ed il Sudan Francese (attuale Mali) si unirono nella federazione del Mali nel gennaio del

1959 (in una prima fase aderirono anche l’Alto Volta e il Dahomey, che si ritirarono però nel mese

di marzo). Tale federazione -presieduta da Leopold Sedar Senghor3 e da Modibo Keita4- ottenne

l’indipendenza nel 1960, ma a causa di divergenze politiche tra Senghor e Keita nonché per

l’ostilità mostrata da alcuni paesi dell’area occidentale (Costa d’Avorio in particolare), si sfaldò

nell’estate dello stesso anno.

Per quanto concerne la fase della cosiddetta “seconda decolonizzazione” essa, si riferisce in

particolare all’indipendenza delle colonie portoghesi (Guinea Bissau, Mozambico, Capo Verde ed

Angola). Tale momento storico è collegato alla fase discendente e poi alla caduta del regime

militare portoghese di Antonio Oliveira Salazar (aprile 1974).

Anche in questo caso lo sganciamento dalla madrepatria fu improvviso, non preparato

adeguatamente. Ciò da un lato comportò la fuga dei coloni portoghesi e dall’altro le scelte avventate

di alcune formazioni che arrivarono al potere e lo gestirono in modo esclusivo, senza alcuna forma

di concertazione, ispirandosi unicamente ai principi del socialismo scientifico.

Come nota Giovanni Carbone, nel caso del Frente de Libertaçao de Moçambique (FRELIMO)

mozambicano, esso “si pose in un rapporto antagonistico non solo con le opposizioni politiche

interne, totalmente bandite, ma anche o con tutti quei gruppi o quelle categorie sociali che

identificava come ‘nemici della rivoluzione’. I primi a pagare le conseguenze dell’impeto

modernizzatore del FRELIMO furono la minoranza bianca, i piccoli commercianti, i capi

tradizionali, le chiese e, in parte e benché maggioritaria, la stessa popolazione contadina. La

trasformazione profonda della società mozambicana aveva i suoi punti focali nelle

nazionalizzazioni e nella mobilitazione sociale (…) Un ruolo centrale venne assegnato ad

un’industria pubblica pesantemente sovvenzionata, mentre tutte le attività agricole dovevano

svolgere una funzione di sostegno. Terra, industrie e scuole –incluse quelle di origine missionaria –

erano state nazionalizzate subito dopo l’indipendenza (…) L’insieme di queste politiche suscitò

un’immediata reazione a livello regionale e una, più graduale ma non meno dirompente, a livello

3 Vedi nota biografica di Leopold Sedar Senghor 4 Vedi nota biografica di Modibo Keita

19

Page 20: Storia dell'Africa

interno. La combinazione di queste reazioni avrebbe generato e sostenuto un conflitto civile più che

decennale. L’emergere della ‘minaccia comunista’ sulla porta di casa spinse i regimi razzisti della

Rhodesia del sud (oggi Zimbabwe) e, a partire dai primi anni ’80, del Sud Africa a sponsorizzare

un movimento di guerriglia in territorio mozambicano (…) Armati e finanziati oltre confine, i

ribelli della Resistençia Naçional Moçambicana (RENAMO) iniziarono ad operare in territorio

mozambicano dalla seconda metà degli anni ’70, con operazioni volte a sabotare le infrastrutture

economiche del Mozambico e a minarne la coesione sociale e stabilità politica ”

Parlando degli anni della decolonizzazione, non si può fare a meno di ricordare i grandi

“Protagonisti africani” degli anni ‘60-‘70, che ebbero una visione politica e combatterono per essa

fino a perdere in alcuni casi la propria vita.

Le aspettative dell’indipendenza vennero elaborate da alcuni giovani leader e vennero proposte

come vere e proprie strategie di sviluppo. In tal senso devono essere lette la negritudine di Léopold

Sedhar Senghor, l’umanesimo di Kenneth Kaunda 5, l’ujamaa di Julius Nyerere6, il mobutismo di

Mobutu Sese Seko7. Tali linee privilegiavano, a seconda dei casi locali, o l’iniziativa privata o la

comunità tradizionale o l’economia pianificata.

Negli anni ’60 Kaunda, Senghor e Nyerere furono i promotori di una “via africana al socialismo”;

negli anni ’70 fu invece la volta di Samora Machel8 e Agostino Neto9 che proposero di tornare al

marxismo leninismo per superare le difficoltà che si ponevano per lo sviluppo socio-economico dei

singoli Stati.

In modo antitetico a tali tesi si svilupparono negli stessi anni sistemi ad impronta capitalista in

Kenya, Nigeria, Cote d’Ivoire, Cameroon, Gabon e Malawi. In tali Paesi venne promossa la libera

iniziativa e si diede vita ad un capitalismo di Stato.

5 Vedi nota biografica di Kenneth Kaunda6 Vedi nota biografica di Julius Nyerere7 Vedi nota biografica di Mobutu Sese Seko8 Vedi nota biografica di Samora Machel9 Vedi nota biografica di Agostinho Neto

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Page 21: Storia dell'Africa

BREVI NOTE BIOGRAFICHE

Yomo Kenyatta (1889-1978), protagonista della scena politica kenyota del XX secolo. Figlio di

un contadino di etnia kikuyu, ricevette l’educazione di base in una scuola missionaria e completò gli

studi universitari a Londra, grazie al sostegno della Kikuyu Central Association (KCA). Nel suo

percorso accademico ebbe l’opportunità di studiare a Mosca per un anno e di seguire antropologia

sociale con Bronislaw Malinowsi alla London School of Economics. Nel 1945 collaborò

all’organizzazione del V Congresso Panafricano a Manchester, assieme a Kwame Nkrumah (figura

politica di spicco del Ghana) . Tornato in Kenya, nel 1946 assunse la leadership della Kenya Africa

Union (KAU). Tra il 1948 ed il 1951 fece un viaggio all’interno del paese, illustrando la sua

posizione rispetto alla restituzione delle terre date ai coloni bianchi ed alla conquista

dell’indipendenza entro 3 anni. Nel 1951 ebbe inizio la rivolta dei Mau Mau, movimento radicale

anticoloniale. Nell’ottobre 1952 venne decretato nel paese lo stato di emergenza e Kenyatta fu

arrestato con l’accusa di essere un membro dell’organizzazione dei Mau Mau. Al termine del

processo, nell’aprile del 1953, Kenyatta fu punito con 7 anni di prigione di lavori forzati. Lo stato di

emergenza venne tolto nel 1960 e dopo le numerose petizioni popolari Kenyatta venne rilasciato

nell’agosto del 1961. Nelle elezioni del 1963, il partito del KANU (Kenya Africa National Union,

che promuoveva uno stato unitario per il Kenya) guidato da Kenyatta sconfisse il KADU (Kenya

Africa Democratic Union, che promuoveva uno Stato etnico-federale). Nel giugno del 1963,

Kenyatta divenne primo Ministro e nel dicembre dello stesso anno proclamò l’indipendenza

nazionale; nel 1964 assunse l’incarico di Presidente, incarico che mantenne fino alla sua morte

nell’agosto del 1978.

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Page 22: Storia dell'Africa

Patrice Lumumba (1925-1961). è considerato un simbolo della politica congolese. Dopo aver

ottenuto l’educazione primaria in una scuola cattolica di missionari e in una scuola tenuta da

protestanti svedesi perfezionò la sua formazione a livello personale. Lavorò in una società

mineraria nel Sud Kivu fino al 1945 e come giornalista a Leopoldville (ora Kinshasa) e

Stanleyville (attuale Kisangani).

Tali lavori gli permisero di comprendere l’immensa ricchezza dell’ex Zaire sotto il punto di vista

minerario, ricchezza che l’amministrazione coloniale aveva nascosto alla popolazione locale.

Nel 1955 Lumumba creò l’Association du Personnel Indigène de la Colonie (APIC) ; nel

1956 venne incarcerato per un anno. Uscito dal carcere riprese l’attività politica. Nell’ottobre

del 1958 fondò il Mouvement National Congolais (MNC, vicino alle correnti cattoliche e

social-democratiche belghe) e nel dicembre partecipò alla Conferenza Panafricana di Accra

dove conobbe Kwame Nkrumah. Note le parole pronunciate in tale occasione “Malgrado le

frontiere che ci separano, abbiamo la stessa coscienza, le stesse preoccupazioni di fare del

continente africano un continente libero , felice, sgombro dal dominio coloniale. Siamo felici

di constatare che questa Conferenza si è fissata come obiettivo: la lotta contro i fattori interni

ed esterni che costituiscono un ostacolo all’emancipazione del nostro paese e

all’unificazione dell’Africa. Tra questi fattori, si trova il colonialismo, l’imperialismo, il

tribalismo e il separatismo religioso che tutti, costituiscono un ostacolo serio al fiorire di

una società africana armoniosa e fraterna".

Nel 1959 il MNC assieme ad altre formazioni indipendentiste organizzò una riunione a Stanleyville.

Dalla sommossa che ne seguì, Lumumba fu arrestato e nel gennaio del 1960 condannato a 6 mesi di

prigione ma liberato dopo qualche giorno, grazie all’organizzazione di un incontro promosso dal

governo belga con le formazioni indipendentiste. Salito al potere, dopo l’indipendenza del Congo vi

rimase fino al settembre del 1960. I drammatici avvenimenti che seguirono tra ottobre e dicembre,

portarono al suo assassinio nel gennaio del 1961. I numerosi studi fatti in questo cinquantennio,

hanno evidenziato il ruolo belga nell’uccisione del giovane leader congolese nonché l’intenzione

della CIA di eliminare colui che avrebbe potuto portare il Congo sulla via del comunismo.

Uomo di grande carisma, definito da Jean Claude Willame il “profeta disarmato”, Lumumba fu un

nazionalista che sottolineava l’importanza dello Stato-nazione.

Leopold Sedar Senghor (1906-2001), poeta e politico senegalese, considerato l’ideologo

della “negritudine”, Presidente della Repubblica dal 1960 al 1980. Dopo aver svolto gli studi

primari e secondari in patria, ottenne una borsa di studio che gli permise di seguire il percorso

universitario in Francia. Qui si laureò nel 1935 ed iniziò a lavorare come insegnante negli istituti

22

Page 23: Storia dell'Africa

liceali. Durante la 2° guerra mondiale combatté con l’esercito francese, venne fatto prigioniero dai

tedeschi nel giugno del 1940 a La Charité sur Loire e rilasciato nel 1942 per motivi di salute. Nel

1946 divenne deputato dell’Assemblea francese come rappresentante del Senegal, nel 1948 fondò il

Bloc Démocratique Sénégalais con cui vinse le elezioni nel 1951 come deputato d’Oltre-mare.

A fine anni ‘50-inizio anni ’60, Senghor fu un forte sostenitore del federalismo degli stati africani,

ex colonie francesi. Nel gennaio del 1960 spinse per la costituzione della Federazione del Mali, che

raggruppava Senegal, Sudan francese (odierno Mali), Dahomey (attuale Benin) ed Alto Volta

(attuale Burkina Faso). Questi ultimi due paesi si ritirarono a distanza di un mese. Senghor guidò la

federazione come Presidente dell’Assemblea Federale e Modibo Keita come Presidente del

Governo ma le divergenze su alcuni temi portarono ben presto allo scioglimento della Federazione.

Il Senegal proclamò l’indipendenza nell’agosto del 1960 ed il Sudan Francese nel settembre

successivo.

Senghor restò al massimo vertice delle istituzioni senegalesi fino al 1980, scampando anche ad un

attentato nel marzo del 1967. Durante il ventennio al potere garantì un sistema multipartitico e fu

garante della democrazia.

Ritiratosi a vita privata al termine del 5° mandato presidenziale, morì in Francia nel dicembre 2001.

Come detto inizialmente, Senghor è considerato - assieme al poeta martinicano Aimé Césaire -uno

dei massimi esponenti della “negritudine”. Tale concetto promuove la riscoperta nonché la

riappropriazione della cultura africana, rivendicando con orgoglio la propria differenza. Secondo le

parole dello stesso Senghor, “La negritudine è un fatto obiettivo:una cultura. É l’insieme dei valori

economici e politici; intellettuali e morali, artistici e sociali, non solo dei popoli d’Africa nera, ma

anche delle minorità nere d’America, vedi anche d’Asia e d’Oceania”.

Felix Houphouet Boigny (1905- 1993) non è un semplice leader carismatico: è un uomo di

grande realismo politico, senza alcuna debolezza per ideologie vaghe. La posizione della Côte

d’Ivoire – paese considerato il gioiello dell’Africa Occidentale - è legata alla sfida che Houphouet

Boigny lancia alla sinistra nazionalista agli inizi degli anni ’60. Secondo lo statista ivoriano, solo

un’economia di mercato avrebbe assicurato lo sviluppo delle economie africane; solo un rapporto di

dipendenza con la metropoli avrebbe garantito un quadro politico-economico solido e capace di

garantire sicurezza ad entità statali ancora deboli e arretrate.

Nato a Yamoussoukro nel 1905 da una famiglia di notabili tribali, Houphouet Boigny frequenta la

scuola missionaria nella città natale, poi la scuola normale di William Ponty a Goree (in Senegal,

destinata a formare le istitutori, medici e quadri dell’Africa occidentale francese). Nel 1925 ottiene

23

Page 24: Storia dell'Africa

il diploma della scuola di medicina di Dakar ed esercita la professione di medico fino al 1940.

Come capo tribale esercita funzioni amministrative con la qualifica di chef de canton.

Nel 1944 fonda il Syndacat Agricole Africain (associazione che riunisce i piantatori africani con

almeno 2 ettari di caffè o 3 ettari di cacao), riunendo 20.000 aderenti in poco tempo.

Livello di istruzione non comune per i suoi tempi, posizione di preminenza tribale, rapporto con

l’amministrazione francese, attività di piantatore: sono elementi che segneranno l’attività di

Houphouet Boigny e che gli conferiranno una ricchezza di esperienze e di rapporti sociali

determinanti. Houphouet Boigny conosce il mondo rurale e allo stesso tempo comprende e

influenza il mondo tribale.

Nel 1945 il governo francese decide di far partecipare le sue colonie all’assemblea costituente ed

organizza l’elezione di 2 deputati in Cote d’Ivoire (uno dei coloni e l’altro dei locali). Houphouet

Boigny è eletto nel novembre 1945 ed è poi nominato membro della Commissione dei territori

d’oltre mare.

Con la costituzione della IV Repubblica è rieletto deputato, sempre membro della Commissione dei

territori d’oltre mare e membro della Commissione del regolamento e del suffragio universale.

Nel 1946 fonda il Parti Democratique de la Côte d’Ivoire- con l’aiuto dei gruppi di studio comunisti

di Abidjan, ereditando e sviluppando a livello politico i problemi affrontati dal Syndicat Agricole a

livello corporativo (le loro consapevolezze, le loro debolezze, le loro rivendicazioni). La lotta

politica ivoriana non nasce, in tal modo, grazie ad un’elite urbana ma investe interessi e gruppi

estesi a livello di base sul territorio. Dopo il Congrès de Bamako (18 ottobre 1946), il PDCI diviene

una sezione territoriale di un nuovo partito interafricano: il Rassemblement Démocratique Africain

(RDA). Houphouet Boigny giustifica l’alleanza con il partito comunista perché unico modo per far

ascoltare la propria voce.

Tra il 1947 ed il 1959 Houphouet Boigny assume diversi incarichi ufficiali nell’esecutivo francese.

Nel 1960 dopo l’accesso all’indipendenza degli stati francofoni, Houphouet Boigny diventa

Presidente della Côte d’Ivoire. Con tale ruolo, inizia a promuovere dei cambiamenti nella struttura

nazionale: trasforma il ruolo dell’Assemblea nazionale e propone una nuova carta costituzionale. Il

suo atteggiamento nei confronti degli oppositori è fermo e non esita ad escludere dalla scena

politica né i comunisti, né i franco-massoni, né i rappresentanti dell’ideologia marxista-leninista.

In particolare, Houphouët-Boigny è determinato a schiacciare il Front Populaire Ivoirien creato da

Laurent Gbagbo e Francis Wodié del Parti ivoirien des Travailleurs.

La sua politica volta al liberalismo, alla modernizzazione delle infrastrutture, alla facilitazione

degli investimenti stranieri permette una crescita sostanziosa del PIL e una prosperità economica

senza precedenti né paragoni nell’area tra gli anni ‘60 e ‘80. Si parla di “miracolo ivoriano” ma in

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Page 25: Storia dell'Africa

realtà è una crescita totalmente dipendente dall’esterno e non comporta un vero sviluppo locale. Le

prime manifestazioni di malcontento iniziano alla fine di anni ’80 e Houphouet Boigny non esita ad

utilizzare l’uso della forza.

Alla sua morte, nel 1993 si genera una fase di drammatica instabilità che vede protagonisti Laurent

Gbagbo, Alassane Dramane Ouattara, Henri Konan Bedié e Robert Guei.

Interessante notare la posizione di Houphouet Boigny rispetto alla politica continentale: pur non

essendo contrario in assoluto all’idea dell’unità, si è mostrato da sempre contrario alla proposta

lanciata da Kwame Nkrumah circa la creazione degli Stati Uniti d’Africa ed ha appoggiato l’idea di

una cooperazione mirata.

Per le scelte politiche nette e per l’allineamento costante rispetto alle posizioni di Parigi, Houphouet

Boigny è stato considerato nell’ultimo cinquantennio “l’uomo della Francia in Africa”.

Modibo Keita (1915- 1971), esponente politico del Mali, fu Presidente della Repubblica dal

1960 al 1968. Fu uno dei teorici del socialismo africano e uno dei promotori del panafricanismo.

Kenneth Kaunda (1924, vivente), esponente politico dello Zambia, Presidente della

Repubblica dal 1964 al 1991. Ideatore del cosiddetto “umanesimo zambiano” (teoria che combinava

il socialismo sovietico con i principi tipici della cultura africana); negli anni ’70 ha promosso una

politica di forte sviluppo scolastico nazionale; si è schierato a sostegno dei movimenti di liberazione

nazionale dell’Africa australe negli anni ’70-80; è stato un convinto sostenitore del Movimento dei

Non-Allineati.

Julius Nyerere (1922-1999), economista e politico del Tanganika e poi della Tanzania,

Presidente dal 1964 al 1985. Fondatore del Tanganyka African National Union (TANU) nel 1954, fu

sostenitore dell’indipendenza del Tanganyka e più tardi dell’unione con l’isola di Zanzibar. Fu

nominato Presidente della neonata Tanzania e promosse un progetto di sviluppo di stampo

socialista, caratterizzato da un processo di collettivizzazione del sistema agricolo nazionale, detto

“ujamaa”, cioè “famiglia estesa, comunità”. Obiettivo di tale scelta era quello di valorizzare le

risorse nazionali (sia naturali che umane). L’ujamaa si configurò come un “socialismo rurale” ed

una “strategia di sviluppo dal basso”.

Nyerere fu un sostenitore del panafricanismo e tra i fondatori dell’OUA nel maggio 1963. Assicurò

il sostegno logistico a molti partiti di liberazione nazionale, quali l’African National Congress-ANC

ed il Pan Africanist Congress (PAC) sudafricani, il Frente de Libertaçao de Moçambique-FRELIMO

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Page 26: Storia dell'Africa

mozambicano, lo Zimbabwe African National Liberation Army-ZANLA di Robert Mugabe. Tra le

sue attività a fine incarico, si ricorda la mediazione nel conflitto del Burundi nel 1996.

Mobutu Sese Seko (1930-1997), esponente politico della Repubblica Democratica del Congo,

Capo dello Stato dal 1965 al 1997. Personaggio controverso, instaurò un regime autoritario,

promosse una politica di ruberie e corruzione che portarono il paese al collasso economico. Alla sua

morte, la sua fortuna venne calcolata pari ad un valore compreso tra i 5 ed i 6 miliardi di US$ e

lasciò un debito pubblico equivalente a 13 miliardi di US$. Inizialmente sostenuto dagli Stati Uniti

(in chiave anti-sovietica) e dai partner occidentali (in particolare la Francia), negli ultimi anni le sue

scelte suscitarono forti critiche anche a livello internazionale.

Nel 1967 fondò il Mouvement Populaire de la Révolution che gli permise di monopolizzare il

potere. Il suo compito era quello di diffondere le idee del Presidente-fondatore, conosciute come

“mobutismo”. Tale dottrina si basava su tre punti: nazionalismo (volto all’indipendenza economica,

si sviluppò attraverso un programma di africanizzazione), rivoluzione (ripudio di capitalismo e

comunismo, “né destra né sinistra”), autenticità (ritorno alla cultura tradizionale).

Costretto ad aprire al multipartitismo nel 1990 nella speranza di mantenere saldo il controllo, fu

abbattuto dalle forze di Laurent Desire Kabila, supportate dalle truppe rwandesi e ugandesi (maggio

1997). Morì in esilio in Marocco nel 1997.

Samora Machel (1933-1986), politico mozambicano, Presidente dal giugno 1975 all’ottobre

1986. Da giovane simpatizzò con le teorie marxiste e nel 1962 entrò nel Frente de Libertaçao de

Moçambique–FRELIMO. A partire dal 1969 divenne comandante in capo dell’esercito del

FRELIMO. Salito alle massime cariche del potere nel 1975, promosse la nazionalizzazione delle

piantagioni, fece costruire scuole ed ospedali. Assicurò il suo sostegno ai movimenti rivoluzionari

in Zimbabwe e Sud Africa. Morì in circostanze sospette in un incidente aereo il 19 ottobre 1986, al

ritorno in patria da una conferenza internazionale cui aveva partecipato in Zambia. Secondo recenti

studi la sua morte sarebbe stata pianificata dai servizi segreti sudafricani e sovietici.

Agostinho Neto (1922-1979), poeta e politico angolano, Presidente dal 1975 al 1979. Eletto

Presidente del Movimento Popular de Libertaçao de Angola-MPLA nel 1962, promosse intensi

contatti all’estero con la finalità di ottenere un sostegno alla sua guerra contro la potenza coloniale

portoghese. Divenuto Presidente dell’Angola, promosse una politica di avvicinamento all’Unione

Sovietica, ai paesi del blocco orientale e a Cuba. Con il passare del tempo instaurò una dittatura sul

modello marxista-leninista, represse ogni forma di contestazione e limitò la libertà d’espressione.

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Page 27: Storia dell'Africa

Punì violentemente gli autori di un tentato golpe nel maggio del 1977. Morì a Mosca dove si era

recato per cure mediche.

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Page 28: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 3

“NEOPATRIMONIALISMO E PERSONAL RULE”

Nel momento in cui gli africani ottennero il controllo delle istituzioni, pochi di loro possedevano

risorse di particolare entità. I regimi coloniali non avevano coinvolto i locali nei processi di

accumulazione delle ricchezze, anzi li avevano esclusi relegandoli in un secondo piano rispetto agli

imprenditori francesi o inglesi. Come nota Giovanni Carbone “l’accesso diretto o indiretto alle

risorse statali e al settore pubblico divenne per molti un obiettivo prioritario e scarsamente

surrogabile (…) La mancanza di mezzi propri delle elite politiche e, più in generale, la povertà del

contesto sociale in cui esse si trovavano a operare contribuirono dunque a promuovere una risoluta

corsa all’accaparramento e una diffusa personalizzazione nell’uso delle risorse statali. Lo stato

divenne pertanto un fulcro quasi imprescindibile per le aspirazioni di migliorare il proprio status

sociale e benessere economico. Le classi politiche dominanti dei paesi africani emersero non tanto

a partire da una posizione di preminenza nella sfera delle attività economiche, ma

fondamentalmente attraverso l’esercizio del potere politico”.In tale contesto le regole normalmente

utilizzabili per il funzionamento delle istituzioni nonché delle burocrazie furono distorte da logiche

patrimoniali. Il termine “neopatrimonialismo” indica proprio una gestione arbitraria della cosa

pubblica, una combinazione di istituzioni moderne e logiche patrimoniali. Nell’ambito della politica

e dell’amministrazione prevalsero gli elementi personali e privati su quelli informali e pubblici.

Carbone nota che “se la distorsione del regolare funzionamento delle strutture statali a vantaggio

di esigenze private non è naturalmente una prerogativa esclusiva dei paesi africani, il ricorrente

riferimento all’esistenza di veri e propri regimi neopatrimoniali sottolinea il grado di penetrazione

e prevalenza che tali pratiche hanno rapidamente acquisito nella quasi totalità del continente”.

Ogni paese ha impresso un carattere proprio all’uso arbitrario e personale della cosa pubblica. Si

possono fare gli esempi di Idi Amin in Uganda, Mobutu nello Zaire, Babangida in Nigeria. In alcuni

casi, tali pratiche hanno portato proprio alla distruzione delle strutture statali. Ci sono però anche gli

esempi della Costa d’Avorio in cui Houphouet Boigny pur applicando tali pratiche ha permesso

comunque di rafforzare le istituzioni statali, o casi come quello del Botswana in cui tale metodo è

stato per lo più controllato. A parte quelle che possono essere sfumature, quella che può essere

definita una “sindrome” è comune a tutti i paesi africani. Gli studiosi hanno dato diversi nomi al

fenomeno: Richard Joseph ha parlato di “politica delle prebende”, altri parlano di

“informalizzazione della politica”, altri di “politica del ventre”.

I leader hanno un “pesonal rule”, sono al di sopra della legge, possono usufruire delle risorse

secondo loro piacimento e sono legittimati da reti clientelari e legami personali.

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Page 29: Storia dell'Africa

Emerge il “Presidente” che supera la figura del capo del governo. Interessante la distinzione fatta

dagli studiosi Jackson e Rosberg che hanno creato proprio delle tipologie, distinguendo tra:

a) il Presidente-Principe (ad es. Leopold Sedar Senghor in Senegal o Kenneth Kaunda in

Zambia che manipolano i loro gruppi clientelari, però si pongono al di sopra delle parti)

b) il Presidente-Profeta (ad es. Kwame Nkrumah in Ghana, Julius Nyere in Tanzania che hanno

un carisma proprio che gli permette di avere un disegno preciso del paese oltre che del

continente e lo trasmettono alle comunità)

c) il Presidente-Autocrate (ad es. Houphouet Boigny in Costa d’Avorio, Omar Bongo in

Gabon, Mobutu in Zaire sono come un re assoluto, che non accetta altri poteri),

d) il Presidente-Tiranno (ad es. Idi Amin Dada in Uganda, Jean Bedel Bokassa in Repubblica

Centrafricana, in cui il capo ricorre alle violenze più efferate e promuove abusi consapevoli)

In tale quadro, si pone in modo difficile il “dopo”, il modo con cui il leader sopravvive a se stesso.

Infatti il capo ha creato incertezze e ha tolto chiarezza sulla successione. Da qui la frequenza di

epurazioni, golpe, lotte intestine tra gruppi. Un dato fornito da Carbone chiarisce il quadro: “dei

101 leader sub sahariani che tra il 1960 ed il 1999 sono stati estromessi attraverso golpe militari o

con altre modalità extralegali, circa i due terzi hanno finito per essere esiliati, imprigionati o

uccisi”.

I processi di appropriazione della cosa pubblica possono anche essere stati diversi da paese a paese,

ma in comune ci sono stati trasferimenti da conti pubblici a privati in banche svizzere,

l’assegnazione di appalti, il pagamento di tangenti. In alcuni casi si è creata una spirale, un circolo

vizioso: il leader e il suo entourage accaparravano di diritti ma tale fenomeno si riproponeva alla

base su scala ridotta. Poliziotti, infermieri chiedevano soldi in cambio di prestazioni di favore. La

corruzione è diventata prassi abituale, accettata e generalizzata ad ogni aspetto della vita. Seppur

criticata, la corruzione ha ricoperto un ruolo centrale permeando tutte le attività economiche delle

società locali. Seppure si approfondirà il tema della corruzione successivamente, in tale sede è

importante sottolineare alcuni aspetti del fenomeno, storici ed antropologici. Il noto studioso

francese Jean Pierre Olivier de Sardan ha individuato alcune “dinamiche della corruzione”,

obbligazioni sociali che creano delle relazioni e aspettative: esse riguardano il ruolo degli

intermediari o meglio di contatti utili per portare avanti una pratica amministrativa; l’uso di un

“petit cadeaux” inteso come forma di obbligo morale; il dovere di solidarietà al proprio gruppo di

appartenenza. Carbone nota che “l’individuo che si sottrae a questi “doveri”- ricevere e ascoltare

le richieste di chi arriva dal villaggio, presenziare e contribuire al ritrovo degli ex compagni di

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Page 30: Storia dell'Africa

collegio, pagare il biglietto al segretario di una sezione rurale del partito- viene sottoposto a forti

pressioni da parte del gruppo. E nel caso perseveri nell’ignorare ciò che ci si attende da lui, la sua

reputazione può essere compromessa (...) corruzione e clientelismo finiscono in questo modo per

essere intimamente collegati. Coloro che sono nella posizione di poter estrarre o controllare

determinate risorse statali sono i primi ad avere modo di ridistribuirne una parte attraverso la

costruzione di reti clientelari ”. Si crea una piramide in cui c’è il capo, l’uomo forte al vertice più

alto e poi si sviluppano in modo informale delle alleanze. Il cliente assicura sostegno per avere un

bene futuro o per beneficiare di eventi che ruotano intorno al vertice della struttura. Carbone è

molto attento nel segnalare che “la capacità effettiva delle reti clientelari, come meccanismi

redistributivi che trasferiscono gradualmente risorse dalle elite ai clienti appartenenti ai livelli più

bassi , resta una questione controversa”. Alcuni studiosi (come Chabal e Daloz) sono del parere

che “le pressioni sociali tendono a imporre una significativa redistribuzione delle risorse di cui i

leader tengono il controllo”, mentre altri (come Van De Walle) sostengono che “il coinvolgimento

dei gradini inferiori della scala sociale nelle clientele è per lo più simbolico, poiché di fatto a esse

non viene elargito nulla”.

Gli effetti sulle ricchezze pubbliche dei sistemi neopatrimoniali e clientelari sono devastanti: si

creano nuove burocrazie, aziende parastatali, la maggior parte degli impieghi formali sono nel

settore pubblico. Inoltre le ricchezze (minerarie, ad esempio) vengono nazionalizzate, messe a

“gestione africana” (vd caso Zaire, Nigeria). Altro aspetto della “predazione” delle economie è

quello dei trasferimenti di risorse dai settori rurali a quelli industriali (vd Ghana).

Gli apparati statali crescono a dismisura ed il risultato è che l’indebitamento pubblico raggiunge

livelli impensati, mettendo a rischio i sistemi economici e rendendoli più esposti verso

l’indebitamento estero.

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Page 31: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 4“INSTABILITÀ POLITICA E REGIMI AUTORITARI”

Nell’Africa degli anni ’70 chi resta fuori dal potere non gode minimamente del servizio pubblico.

Tutte le risorse vengono parcellizzate per ricompensare le reti del leader. I gruppi si contrappongono

in un gioco a somma zero: chi vince prende tutto ed esclude il perdente.

Carbone nota che in tale fase storica “la politicizzazione delle diversità etniche e la polarizzazione

dello scontro politico si combinarono nei paesi africani con l’assenza di precedenti esperienze

democratiche, la debolezza della società civile, l’elevata e diffusa povertà, la sproporzione tra le

aspettative di intervento statale e le effettive capacità di risposta delle nuove istituzioni. Il risultato

fu, per la quasi totalità dei paesi africani, il rapido abbandono dei regimi formalmente democratici

che erano stati frettolosamente istituiti dalle potenze coloniali al momento delle indipendenze. La

preservazione delle istituzioni multipartitiche fu l’eccezione anziché la regola (…) Con poche

eccezioni, i regimi multipartitici vennero sistematicamente eliminati e sostituiti con regimi a partito

unico o con regimi militari”.

Prima di tutto si assiste alla destrutturazione delle istituzioni partecipative ed alla centralizzazione

del potere nelle mani di poche persone. Chi dissente, o è costretto all’esilio o è ucciso. Si realizza il

“sistema a partito unico”, in cui il partito risente per lo più dell’influsso della dottrina socialista.

Di fatto però non si eliminano le difficoltà vissute sul terreno e quindi il risultato fino a metà degli

anni ’90 è quello di periodi di grande instabilità.

L’instabilità si caratterizza o attraverso le guerre civili (basti pensare al Katanga in Congo o al

tentativo di secessione del Biafra in Nigeria) o attraverso i colpi di stato militari (vd Nigeria) .

Il golpe militare comporta una manovra breve, fatta da un corpo speciale, che va a sostituire il

gruppo al potere. Le forze armate divengono protagoniste della storia africana: i militari che

sembravano esclusi al momento delle indipendenze a distanza di pochi anni diventano “arbitri” tra

le parti in conflitto.

Anna Maria Gentili nota che in Dahomey l’esercito intervenne in tale ruolo tra il 1963 ed il 1965; in

Congo Brazzaville nel 1963 (per favorire un nuovo regime civile), in Alto Volta nel 1966 (per

prendere il potere direttamente). “Se all’inizio degli anni ’60 l’intervento militare in politica si

caratterizza ancora come intervento equilibratore, reggenza temporanea, alla metà degli anni ’60 i

colpi di Stato militari prendono connotati decisamente politici. Proprio dal 1966 gli interventi

militari in politica dilagano come l’epidemia di una malattia infettiva”. Solo 12 Stati africani (su

54) non hanno mai avuto l’interruzione del potere civile per intervento dei militari.

Carbone segnala 47 casi di golpe ed un numero ingente di atti destabilizzanti sventati dai governi in

carica tra il 1958 e la fine degli anni ’70; 17 golpe avvengono tra il 1966 ed il 1970. La regione

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Page 32: Storia dell'Africa

occidentale risente particolarmente di tale fenomeno. Lentamente, solo negli anni ’90 riprende

un’alternanza al potere regolata dal voto (anche se non sempre “free and fair”).

E’ importante notare che -dopo la fase del golpe- per lo più i regimi militari sono stati propensi ad

operare come i regimi civili che li avevano preceduti. La maggior parte ha adottato

un’organizzazione di partito unico in cui è emerso un “singolo protagonista”. Inoltre hanno

adottato l’uso del clientelismo come meccanismo per raccogliere il supporto politico e l’uso della

coercizione per controllare o eliminare l’opposizione. Grande è stato poi l’impegno per migliorare il

proprio status economico. Il Generale Sani Abacha al potere in Nigeria dal 1993 al 1998 si è

appropriato di una cifra pari a 6 miliardi di US$ .

E’ paradossale il fatto che in Africa sub sahariana si siano sviluppate due tendenze antitetiche: da

un lato –come si può vedere nella tabella in basso- il potere è stato longevo ed è tramandato in

alcuni casi di padre in figlio (vd famiglia Bongo in Gabon, Eyadema in Togo), dall’altro c’è stato un

frequente cambiamento di governanti attraverso dei golpe militari.

Longevità dei leader africani al potere

Paese Presidente Partito di appartenenzaCamerun Ahmadou Ahidjo

Presidente del Cameroun dal 1960 al 1982

Primo Ministro dal 1958 al 1959

Union Nationale Camerounaise

(UNC)

Costa d’Avorio Houphouët-Boigny

Presidente dal 1960 al 1993

Syndicat agricole africain (SAA)

Rassemblement démocratique

africain (RDA)

Parti démocratique de Côte d’Ivoire

(PDCI)Gabon Omar Bongo

Presidente dal 1967 al 2009

Vice Presidente dal 1966 al 1967

Parti Démocratique Gabonaise

(PDG)

Gambia Dawda Jawara

Primo Ministro dal 1962 al 1970

Presidente dal 1970 al 1994

People Progressive Party (PPP)

Guinea Ahmed Sékou Touré

Presidente dal 1958 al 1984

Rassemblement Démocratique

Africain (RDA)

Lesotho Leabua Jonathan

Primo Ministro dal 1965 al 1986

Basotho National Party (BNP)

Malawi Hastings Kamuzu Banda

Presidente dal 1966 al l994

Primo Ministro dal 1964 al 1966

Malwi Congress Party (MCP)

Mali Moussa Traoré Union Déocratique du Peuple

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Page 33: Storia dell'Africa

Presidente dal 1968 al 1991 Malien (UDPM)Senegal Leopold Sédar Senghor

Presidente dal 1960 al 1980

Section Francaise de

l’Internationale Ouvrièr (SFIO)

Bloc démocratique Sénégalais

(BDS)

Bloc Populaire Sénégalais (BPS)

Union progressiste sénégalaise

(UPS)

Parti Socialiste (PS)

Somalia Siyad Barre

Presidente dal 1969 al 1991

Somali Revolutionary Socialist

Party (SRSP)

Tanzania Julius Nyerere

Presidente della Tanzania dal 1964 al 1985

Presidente del Tanganyka dal 1962 al 1964

Primo Ministro del Tanganyka dal 1961 al

1962

Chama cha Mapinduzi

Tanganyka African national Union

(TANU)

Togo Gnassingbé Eyadéma

Presidente dal 1967 al 2005

Rassemblement du Peuple Togolais

(RPT)

Zaire Mobutu Sese Seko

Presidente dal 1965 al 1997

Mouvement Populaire de la

Révolution (MPR)

Zambia Kenneth Kaunda

Presidente dal 1964 al 1991

United National Independence Party

(UNIP)

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Page 34: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 5-6“CRISI, CONFLITTO E CROLLO DELLO STATO”

Gli anni ’90 fanno registrare una diffusione dei conflitti in Africa, nonostante il fatto che le due

superpotenze USA-URSS non utilizzino più il continente in modo indiretto attraverso delle “guerre

per procura”, che siano venute a termine le guerre di liberazione nazionale nella regione australe e

che il Sudafrica gestisca pacificamente i primi anni della fine dell’apartheid.

Giovanni Carbone nota che “l’allargamento del conflitto è avvenuto prevalentemente lungo due

direttrici: quella del contagio tra i piccoli paesi della costa dell’Africa occidentale e quella che ha

attraversato il cuore stesso del continente -il Congo Kinshasa (ex Zaire) – partendo dall’Angola

per arrivare al Sudan, due paesi già alle prese con conflitti pluridecennali”.

Ma quale tipo di conflitto si intende? Il riferimento è alla guerra civile, vale a dire “un conflitto

armato che vede da una parte le autorità di uno stato formalmente sovrano e dall’altra attori non

statuali (per lo più movimenti ribelli o partiti politici, ma anche formazioni emerse dall’esercito)

che a esse si oppongono, facendo un uso organizzato della violenza, con l’obiettivo di modificare

qualche aspetto dello status quo sociale, politico o economico, inclusa una possibile alterazione dei

conflitti territoriali”

Gli Stati a cui fa riferimento lo studioso italiano sono Liberia, Sierra Leone, Repubblica

Democratica del Congo, Sudan ed Angola.

In tale sede si esamineranno i conflitti di Liberia (1989-1996) e Sierra Leone (1991-2002) perché

collegati strettamente e le due guerre del Congo (1996-1997 e 1998-2003, quest’ultima conosciuta

come la “guerra mondiale africana”, per l’intervento di più soggetti nelle operazioni belliche).

a) Liberia – Guerra civile (1989-1996)

In Liberia, la guerra civile (1989-1996) iniziò con l’insurrezione del National Patriotic Front of

Liberia (NPFL) di Charles Taylor contro il malgoverno del Presidente Samuel Doe, poi degenerò e

si trasformò in una guerra tra potenti leader ribelli. Nell’ultima fase i combattimenti non solo

mirarono ad avere un ricambio di potere ma furono orientati al controllo delle risorse locali. Il

conflitto fu sanguinoso e violento, caratterizzato da arresti arbitrari, torture e violenze inaudite.

Alcuni studiosi vi distinguono 4 fasi : Dicembre 1989-Dicembre 1990; Ottobre 1992-Luglio 1993;

Settembre 1994-Agosto 1995; Aprile-Giugno 1996.

La prima fase (Dicembre 1989-Dicembre 1990) è quella dell’offensiva portata dagli uomini del

NPFL -attraverso le linee di confine della Costa d’Avorio- nella Contea di Nimba e dell’intervento

delle Forze Armate Liberiane nello scontro. Le operazioni belliche provocarono oltre 160.000

rifugiati in Guinea e Costa d’Avorio, nonché 135.000 sfollati all’interno della Liberia stessa. In tale

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Page 35: Storia dell'Africa

periodo ci fu una frattura all’interno del NPFL e la creazione dell’Independent National Patriotic

Front (INPFL) promosso da Prince Johnson (leader ribelle, un tempo alleato di Taylor). Nell’agosto

1990 le forze dell’ECOWAS Cease Fire Monitoring Group (ECOMOG) arrivarono a Monrovia e ne

presero il controllo, separarono le fazioni e fecero firmare un cessate il fuoco a Bamako (novembre

1990) che , pur tra mille difficoltà, venne mantenuto per due anni. La neutralità di ECOMOG fu da

subito compromessa: grazie al suo aiuto, l’INPFL catturò ed uccise il Presidente Samuel Doe (il

Sergente Maggiore che aveva preso il potere con un golpe contro l’ex Presidente Tolbert nel 1980 e

per 9 anni aveva governato il Paese in modo autoritario nonché brutale, assieme ad una ristretta

cerchia di uomini a lui fedeli).

ECOMOG creò una zona neutrale e contribuì ad un instaurare un Governo di Transizione che

escludeva i capi delle formazioni ribelli o i loro rappresentanti ed era totalmente dipendente dal

Gruppo di Monitoraggio ECOWAS per la sua sopravvivenza. Il NPLF di Charles Taylor si rifiutò di

riconoscere tale esecutivo e stabilì il suo quartier generale a Gbarnga (capitale della Contea di

Bong).

La seconda tappa (Ottobre 1992-Luglio 1993) comprende il lancio inaspettato di un’azione contro

Monrovia da parte del NPLF (chiamata “Operation Octopus”), la fuga di 200.000 persone dalla

capitale, il collasso della fazione dell’INPFL guidata da Prince Johnson, il nuovo intervento di

ECOMOG, il consolidamento delle posizioni dello United Liberation Movement of Liberia for

Democracy (ULIMO, formazione creata da rifugiati liberiani Mandingo in Sierra Leone nel 1991).

Nel 1993 l’ECOWAS richiese un supporto più sostanzioso alle Nazioni Unite, visto il proliferare di

formazioni ribelli e la difficoltà nel gestire un controllo efficace su di esse.

Il terzo momento (Settembre 1994-Agosto 1995) si riferisce all’inizio dell’offensiva di alcune

formazioni (Liberian Peace Council-LPC, Lola Defence Force-LDF, un sottogruppo dell’ULIMO e

le stesse Forze Armate Liberiane) contro Gbaranga, la roccaforte del NPLF.

Sul fronte diplomatico l’ECOWAS, presieduto in quell’anno da Gerry Rawlings (Presidente del

Ghana) dimostrò un certo pragmatismo, abbandonò l’idea di un governo civile di transizione,

favorendo il coinvolgimento di Taylor e dei leader delle fazioni principali nel Consiglio di Stato.

Nel settembre del 1994 gli Accordi di Akosombo scoraggiarono la formazione di nuovi gruppi sul

terreno; nell’agosto dell’anno successivo gli Accordi di Abuja promossero un nuovo Governo di

Transizione cui prese parte anche Charles Taylor.

Nel novembre 1995 venne firmato un ennesimo accordo di cessate il fuoco ma la situazione rimase

tesa e di fatto il processo di pace tardò a portare risultati concreti.

L’ultima fase del conflitto (Aprile- Giugno 1996) concerne l’assalto da parte degli uomini di Taylor

e di Kromah (leader di una fazione dell’ULIMO, l’ULIMO-K) contro Monrovia. Nel maggio 1996

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Page 36: Storia dell'Africa

le parti firmarono un nuovo cessate-il-fuoco e ECOMOG spiegò i suoi uomini nella capitale,

riprendendo dopo qualche mese il controllo di alcune aree di periferia della capitale. Nell’agosto

venne firmato il secondo Accordo di Abuja e ECOWAS minacciò di portare davanti ad un Tribunale

di Guerra quanti lo avessero violato, imponendo sanzioni mirate.

Il lavoro di disarmo e smobilitazione si rivelò molto ostico. Le elezioni si tennero nel luglio 1997:

Charles Taylor si assicurò la vittoria con il 75% delle preferenze e divenne ufficialmente il Capo

dello Stato il 2 agosto 1997.

La guerra civile liberiana, che ha comportato la morte di oltre 300.000 persone nonché il problema

gravoso di oltre 1 milione di rifugiati nelle aree limitrofe, è stata una delle più cruenti dell’area

occidentale africana. Inizialmente le truppe di Charles Taylor furono percepite con favore dalla

comunità locale, vessata dal regime imposto per 9 anni da Samuel Doe. Ben presto però la

popolazione si rese conto dei metodi altrettanto crudeli e dei loschi commerci ( vendita di armi in

cambio di pietre preziose, in particolare dei cosiddetti “diamanti insanguinati della Sierra Leone”)

promossi da Taylor e dai suoi seguaci.

b) Sierra Leone – Guerra civile (1991-2002)

c) Le due guerre del Congo (1996-1997 e 1998-2003)

IN VIA DI DEFINIZIONE

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Page 37: Storia dell'Africa

Secondo Modulo

DALL’ORGANIZZAZIONE PER L’UNITÀ AFRICANA (OUA)

ALL’UNIONE AFRICANA (UA)

� L’OUA negli anni ’60-‘70

� L’OUA negli anni ’80-‘90

� 1999-2002 nasce l’Unione Africana: caratteri distintivi

� NEPAD

� African Standby Force

Testi Consigliati per la seguente parte:“L’Africa sud-sahariana nella politica internazionale”, di Arrigo Pallotti e Mario Zamponi, Ed Le Monnier (2010) - capitolo II, V, XIV, XV, XVIII

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Page 38: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 7-8“L’OUA NEGLI ANNI ’60-‘70”

L’OUA negli anni ‘60 (PPT 7)

L’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) nacque con la firma da parte di 32 Stati africani della

Carta di Addis Abeba il 25 maggio 1963, con gli obiettivi di:

- promuovere l’unità e la solidarietà degli Stati Africani

- coordinare ed intensificare la cooperazione tra gli Stati e gli sforzi per ottenere una vita migliore

per i popoli africani

- difendere la loro sovranità, la loro integrità territoriale e indipendenza

- sradicare tutte le forme di colonialismo dall’Africa

- promuovere la cooperazione internazionale, avendo il dovuto riguardo per la Carta delle

Nazioni Unite e la Dichiarazione dei Diritti Umani.

La sua creazione fu accompagnata da grande ottimismo e speranza, sostituite però ben presto dalla

disillusione in seguito al confronto con le prime crisi continentali.

Nonostante le numerose debolezze, l’organizzazione panafricana ha avuto un ruolo significativo -

quantomeno come forum di dibattito e come arena di confronto– per un quarantennio.

Sin dalle prime fasi del vertice di Addis Abeba fu chiara la contrapposizione tra chi voleva

un’organizzazione continentale forte dotata di ampi poteri e chi era restio a cedere la sovranità

nazionale: nella fase dei lavori si cercò un compromesso politico che soddisfacesse entrambe le

parti.

Due sono stati i principi più discussi dell’organizzazione: quello di non interferenza10 e quello

dell’intangibilità delle frontiere11 .

Secondo la carta costitutiva, l’OUA si basava su una struttura precisa composta da:

- l’Assemblea di Capi di Stato e di Governo (supremo organo dell’Organizzazione)

- il Consiglio dei Ministri (composto dai Ministri degli Esteri o da quelli designati dai singoli

governi, con il compito di preparare i lavori dell’Assemblea)

- il Segretariato Generale (composto da un Segretario Generale nominato dall’Assemblea e dal

suo staff)

- la Commissione di Mediazione, Conciliazione ed Arbitrato (con il compito di promuovere la

risoluzione pacifica delle controversie tra i membri; mai funzionante nella pratica perché non

consultata in alcuna occasione da uno Stato africano).

10 Il principio di non interferenza ha permesso ai membri dell’OUA di non schierarsi apertamente contro dittatori sanguinari e di non scendere in guerra per mettere fine a violenze efferate11 Il principio di intangibilità delle frontiere ha comportato l’accettazione delle linee di confine esistenti al momento dell’indipendenza, nonostante ci fosse una corrente revisionista favorevole alla rettifica delle frontiere; principio giustificabile con l’intenzione dei padri fondatori di dare stabilità ed assicurare la pace nel continente.

38

Page 39: Storia dell'Africa

Come notato da Norman Padelford, “le istituzioni dell’OUA erano concepite per promuovere la

cooperazione, non per imporla, e per spronare alla collaborazione, non per punire chi vi si

opponeva”.

Le prime sfide negli anni ’60 contro cui si confrontò l’Organizzazione e che evidenziarono tutte le

sue debolezze, furono:

a) la crisi del Congo (1963-1964)

b) la secessione del Biafra (maggio 1967- gennaio 1970)

c) la Unilateral Declaration of Independence della Rhodesia (novembre 1965)

a) La crisi del Congo (1963-1964)

Il Congo aveva ottenuto l’indipendenza dal Belgio nel 1960 ma i primi eventi avevano dimostrato le

difficoltà nel percorrere un percorso di normalizzazione nazionale (vd. uccisione del Primo Ministro

Lumumba e sponsorizzazione belga della secessione della provincia mineraria del Katanga)

Dal 1963 il Congo si confrontò con una nuova crisi. Le forze leali al defunto Premier Lumumba si

riunirono nella formazione del Conseil National de Liberation (CNL) e lanciarono un attacco al

governo del Primo Ministro Cyrille Aduola. Quest’ultimo si dimise a causa dell’incapacità del suo

governo a gestire la situazione e Moise Tshombe fu nominato Primo Ministro nel luglio 1964. Per

reprimere le crisi, Tshombe si affrettò a chiamare mercenari della Rhodesia e del Sud Africa,

nonché a richiedere l’aiuto militare a USA e Belgio.

Tale nomina provocò uno shock all’interno dell’OUA non solo perché Tshombe era ritenuto

colpevole o comunque coinvolto nell’assassinio di Lumumba ma anche perché aveva provocato

una escalation della crisi, coinvolgendo anche truppe mercenarie straniere. Seguì una guerra civile,

in cui il CNL fu sostenuto da URSS e Cina mentre il governo congolese fu supportato dagli stati

Uniti. L’Assemblea dei Capi di Stato e di Governo del 1964 nominò una commissione guidata dal

Presidente kenyota Yomo Kenyatta per riconciliare le due parti, ma tale iniziativa non ebbe esito

positivo. Ugualmente l’OUA tentò con poca fortuna di ottenere il ritiro dei mercenari, formare un

nuovo governo provvisorio e di organizzare le elezioni.

L’OUA mostrò la sua impotenza e palesò le sue divisioni rispetto al giudizio su Tshombe e rispetto

al possibile invio di una forza militare africana nel paese.

b) la secessione del Biafra (maggio 1967- gennaio 1970)

Nel gennaio del 1966 alcuni ufficiali Igbo organizzarono un golpe, venne ucciso il Primo Ministro

Tafawa Balewa e salì al potere il Generale Aguiyi-Ironsi (leader degli Igbo che avevano organizzato

39

Page 40: Storia dell'Africa

il colpo di stato). Nel Luglio dello stesso anno una nuova operazione di ufficiali del Nord comportò

l’eliminazione di Aguiyi e l’ascesa del Generale Gowon. Il governatore militare dell’Eastern

Nigeria, il ten. Col. Odumegwu Ojuku dichiarò l’indipendenza della regione e la creazione dello

Stato del Biafra (maggio 1967). Nella sanguinosa guerra che seguì tra il governo federale e il

Biafra morirono circa 1 milione di persone. Tale conflitto rappresentò una questione delicata per

l’OUA perché contrapponeva il principio dell’inviolabilità dei confini e il diritto

all’autodeterminazione dei popoli. L’OUA si dimostrò molto cauta perchè voleva evitare nuove

secessioni e cercò di convincere gli stati membri a supportare il governo centrale nigeriano e isolare

gli unici 4 stati che avevano manifestato il sostegno al soggetto secessionista. Durante l’incontro di

Kinshasa del settembre del 1967, l’Assemblea dei Capi di Stato decise di inviare in Nigeria una

missione consultiva, guidata dall’Imperatore Haile Selassie. La delegazione che si recò in Nigeria

nel novembre 1967 fu accolta in modo brusco da Gen. Gowon, che escluse ogni compito di

mediazione. La linea scelta dall’ OUA, ribadendo l’essenzialità del mantenimento dell’unità del

paese, suscitò critiche da parte del governo del Biafra. La mediazione venne tentata nei primi mesi

del 1968 dal Commonwealth ma si concluse ancora una volta con un fallimento. Tra aprile e

maggio 1968, il Biafra venne riconosciuto da Gabon, Costa d’Avorio, Tanzania, Zambia

adducendo delle motivazioni umanitarie. In realtà c’era l’interesse recondito della Francia che

influiva su due grandi partner africani per spaccare ed indebolire la forza del gigante nigeriano. Nel

settembre 1968 l’Assemblea dell’OUA di Algeri sancì l’appoggio al Gen Gowon e condannò la

scelta secessionista.

Nel gennaio 1970 il Biafra si arrese.

Con l’invio della missione consultiva, l’esperienza del Biafra dimostrò che l’OUA interferiva negli

affari interni di un suo paese membro. Cosa ancor più grave fu che l’OUA si era dimostrata palese

sostenitrice del governo federale e così facendo aveva rinunciato alla sua imparzialità.

c) la Unilateral Declaration of Independence della Rhodesia (novembre 1965)

La crisi della Rhodesia non scoppiò improvvisamente nell’autunno del 1965, c’erano stati dei

sintomi evidenti di malcontento negli anni precedenti. La richiesta di indipendenza dei coloni era

iniziata nel momento della dissoluzione della Federazione della Rhodesia e del Nyasaland (marzo

1963) ed era basata sulla costituzione del 1961 che garantiva ai bianchi l’auto-governo di fatto.

Concretamente, tale richiesta si scontrava contro le intenzioni del premier britannico, Harold

Wilson, che non voleva concedere l’indipendenza alle colonie in cui c’era una minoranza bianca al

potere, a meno non ci fosse una “majority rule”. Il partito del Rhodesian Front di Ian Smith si

oppose a tale linea con la Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza, ricordando il contributo dato

40

Page 41: Storia dell'Africa

nei conflitti mondiali. La Comunità internazionale criticò tale atteggiamento e le Nazioni Unite

autorizzarono le sanzioni.

L’OUA mostrò tuta la sua costernazione e organizzò un Meeting straordinario del Consiglio dei

Ministri per discutere la faccenda. In tale occasione, il Consiglio “minacciò di interrompere tutte le

relazioni con il Regno Unito se esso non avesse represso la ribellione e restaurato la legge e

l’ordine entro il 15 dicembre 1965”. Né il Regno Unito né la Rhodesia rispettarono tale ultimatum e

i membri dell’OUA si divisero su cosa fare. Solo 9 stati implementarono la risoluzione del

Consiglio (tra cui Ghana, Tanzania, Algeria, Mali e Guinea Conakry). In tale frangente, Nyerere e

Nkrumah , che avevano visioni diverse rispetto all’OUA, fecero fronte comune contro Londra ma

tale riavvicinamento fu di breve durata dal momento che Nkrumah venne eliminato dal potere con

un golpe il 24 febbraio 1966 e a distanza di pochi giorni il paese riprese i rapporti diplomatici con il

partner europeo.

Il tema dell’UDI di Ian Smith fu al centro dei lavori anche nell’incontro OUA di Addis Abeba nel

1966 , ma ancora una volta la richiesta di Nyerere ai suoi colleghi per condannare la posizione di

Londra non ottenne il risultato auspicato.

In tale questione sono da puntualizzare alcuni elementi. Prima di tutto la posizione dell’OUA

rispetto all’UDI ha contribuito all’isolamento del regime di Ian Smith ma non è stata risolutivo, in

secondo luogo è stata palese l’indecisione dei paesi membri dell’Organizzazione se rompere o meno

i rapporti con Londra e ciò ha palesato le sue debolezze. Discutibile appare anche la validità legale

del Consiglio dei Ministri in quanto il Consiglio non aveva il potere di vietare o meno un

comportamento degli Stati membri.

L’OUA negli anni ’70 (PPT 8)

Superate le crisi degli anni ’60, l’OUA incontra nuove sfide sul suo cammino nel decennio

successivo. E’ in questo periodo che nasce la questione del Sahara Occidentale (che porterà al ritiro

del Marocco dall’OUA nel 1984), nonchè il contrasto tra Tanzania e Uganda, ma soprattutto è in

questa fase che l’Organizzazione fornisce il suo sostegno alle lotte di liberazione nazionale (in

particolare nella regione australe).

Per quanto attiene i rapporti tra Tanzania e Uganda, il golpe di Idi Amin nel gennaio del 1971

contro il Presidente Milton Obote non venne ben accolto dal Presidente tanzano Nyerere. le

relazioni non migliorarono quando nel 1972 un gruppo di ugandesi (che aveva ottenuto asilo in

Tanzania) tentò di invadere il paese natale. Per rappresaglia, l’aviazione del governo di Kampala

bombardò due cittadine del paese confinante e solo un intervento di mediazione di Siad Barre

permise la firma di un accordo di pace tra le due parti nell’ottobre del 1972.

41

Page 42: Storia dell'Africa

A distanza di 6 anni si ricrearono nuove condizioni conflittuali, quando Idi Amin ordinò l’invasione

della striscia del Kagera Salient . Dapprima la Tanzania difese l’area poi contrattaccò sul territorio

nemico. Preoccupata dall’allargamento del conflitto (la Libia era intervenuta a fianco dell’Uganda),

l’OUA tentò invano una mediazione prima tramite i buoni uffici del Presidente sudanese Nimeiri,

poi attraverso una commissione specifica. Nyerere chiese un’aperta condanna da parte dell’OUA

dell’invasione sul Kagera Salient, condanna che però non arrivò. La guerra continuò fino al 10

aprile del 1979 quando Kampala fu conquistata e Idi Amin fu costretto all’esilio.

Quanto accaduto aveva dimostrato ancora una volta l’impotenza dell’Organizzazione nel

mediare tra le parti o comunque nell’esprimere una ferma condanna rispetto all’invasione di

un paese membro.

Per quanto concerne il sostegno alle guerre di liberazione nazionale, nell’aprile del 1969 si era

svolta un Conferenza in Zambia in cui i partner dell’area orientale e centrale avevano adottato il

cosiddetto “Manifesto di Lusaka”. In tale documento i leader optavano per una transizione pacifica

e, solo qualora non fosse riuscita, l’appoggio alla lotta armata. Il documento venne ampliamente

dibattuto nell’Assemblea dei Capi di Stato del 1969 e del 1970.

In tale frangente c’era grande incertezza rispetto al comportamento da tenere con il Sud Africa. I

presidenti Houphouet Boigny (della Costa d’Avorio) e Banda (del Malawi) proposero un dialogo

con Pretoria ma a tale ipotesi si oppose fermamente la Tanzania. All’interno dell’OUA prevalse

quest’ultima linea e si escluse la possibilità “di una base per un dialogo significativo con il regime

razzista del Sud Africa”.

Nel 1974, di fronte al tentativo del Presidente sudafricano Vorster di coinvolgere Zambia , Tanzania,

Mozambico e Botswana per una soluzione negoziale per l’indipendenza della Rhodesia, l’OUA

dimostrò la sua volontà di mediazione tra Ian Smith ed i partiti nazionalisti locali. Solo nel caso in

cui fosse fallito il dialogo, sarebbe stata ripresa la lotta armata dalle formazioni locali ed il pieno

sostegno ad essa da parte dell’Organizzazione.

42

Page 43: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 9-10“L’OUA NEGLI ANNI ’80-‘90”

IN VIA DI DEFINIZIONE

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Page 44: Storia dell'Africa

LEZIONE N.11-12“1999-2002 NASCE L’UNIONE AFRICANA: CARATTERI DISTINTIVI”

L’Unione Africana (UA) è l’organizzazione panafricana, nata sulle ceneri dell’Organizzazione per

l’Unità Africana (OUA, la struttura fortemente voluta dall’Imperatore etiopico Hailé Selassié ed

inaugurata ad Addis Abeba il 25 maggio 1963).

Spesso sottovalutato dagli osservatori esterni, il movimento panafricano ha avuto una

rivitalizzazione alla fine degli anni ’90 grazie all’impegno del Colonnello Gheddafi e del Presidente

Bouteflika. Diversi i motivi a sostegno di tale interesse: il leader libico sentiva l’esigenza di

“sdoganare” la Giamahirya araba libica e riproporla nei fora internazionali, mentre il leader algerino

aveva urgenza di attirare investimenti stranieri per rilanciare l’economia nazionale.

Diverse sono state le tappe che hanno sancito la nuova struttura, destinata a correggere le

imperfezioni della precedente OUA. In occasione del 1mo vertice straordinario di Sirte (settembre

1999) fu proposto dalla Libia di lanciare gli “Stati Uniti d’Africa”; al 36mo Summit di Lomè (Togo,

luglio 2000) una parte di Stati membri si astenne dalla firma perché convinta della necessità di una

fase di passaggio graduale verso una struttura federale e perché timorosa che una tale iniziativa

potesse indebolire la propria sovranità nazionale o la capacità di agire indipendentemente; al 2°

vertice di Sirte (marzo 2001) venne adottato il trattato di creazione dell’Unione Africana; solo in

occasione del vertice di Lusaka (Zambia, luglio 2001) venne dato il via definitivo al progetto su

modello europeo.

Il lungo iter per arrivare all’UA ed i problemi sottesi nel processo, si possono comprendere

soffermandosi sull’iniziale denominazione –“Stati Uniti d’Africa”- che avrebbe espresso la volontà

di pervenire in breve tempo all’ambizioso progetto di un “solo Governo guida”. Tale idea era

contrastata dai governi moderati (guidati da Sud Africa e Nigeria), che ne riscontravano

l’irrealizzabilità immediata sia per problemi interni al continente sia per dinamiche specifiche degli

stati membri. Solo un approccio più modesto e concreto durante il 2° vertice di Sirte (partendo dalla

riorganizzazione funzionale dell’apparato dell’OUA) permise nel 2001 una convergenza di intenti.

Il varo ufficiale della nuova organizzazione panafricana venne sancito a Durban (Sud Africa) nel

luglio 2002.

L’UA è l’organizzazione per la promozione dell’integrazione socio-economica del continente. Essa

si basa su una visione comune di un’Africa unita e forte, sulla necessità di costruire una partnership

tra i governi e tutti i segmenti della società civile, per rafforzare la solidarietà e la coesione tra i

popoli africani. In tale ottica, la promozione della pace, della sicurezza e della stabilità del

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Page 45: Storia dell'Africa

continente sono considerati come prerequisiti per l’implementazione dell’agenda dell’Unione, ai

fini dello sviluppo e dell’integrazione locale

La struttura dell’Unione è articolata e complessa. Come risulta dalla sua Carta fondamentale e/o da

integrazioni successive, l’UA è formata da:

-l’Assemblea, composta dai Capi di Stato e di Governo e considerata organo supremo dell’Unione.

Tra i suoi compiti si distinguono: la determinazione delle politiche comuni dell’Unione, lo

stabilimento delle priorità e l’adozione del programma annuale; il monitoraggio

dell’implementazione delle politiche e delle decisioni dell’Unione; l’accelerazione dell’integrazione

politica e socio-economica del continente; la decisione di intervento in uno stato membro su

richiesta del medesimo per restaurare la pace e la sicurezza; la nomina del Presidente della

Commissione, il suo/la sua/i suoi vice Presidenti, i Commissari nonché la determinazione delle loro

funzioni ed i termini dell’incarico;

- il Consiglio Esecutivo, composto dai Ministri o da autorità designate dai governi degli stati

membri. Esso coordina e prende decisioni sulle politiche nelle aree di interesse comune degli stati

membri; è responsabile nei confronti dell’Assemblea. Tra i suoi compiti si segnalano: la

preparazione delle sessioni dell’Assemblea; il coordinamento e l’armonizzazione delle politiche,

delle attività e delle iniziative dell’Unione; la promozione della cooperazione e del coordinamento

con le Comunità Economiche Regionali, la Banca Africana di Sviluppo ed altre istituzioni africane;

- il Parlamento Panafricano, è stato inaugurato nel marzo 2004 a Midrand (Johannesburg, Sud

Africa). Ogni Stato membro dell’UA ha 5 deputati eletti o nominati dai propri Parlamenti nazionali.

Tra le varie attività espletate, si ricorda: il lavoro per l’armonizzazione ed il coordinamento delle

leggi degli stati membri; la possibilità di fare raccomandazioni finalizzate a contribuire al

raggiungimento degli obiettivi dell’OUA e della Comunità Economica Africana; l’incoraggiamento

della “good governance”, l’ “accountability” e la trasparenza;

- la Corte Africana di Giustizia, è l’organo incaricato delle questioni civili, in particolare con

riferimento alla protezione dei diritti umani ed al consolidamento del buon governo in Africa. Essa

si è fusa con la Corte Africana dei diritti dell’uomo e dei Popoli ed ora è conosciuta come “Corte

Africana di Giustizia e dei Diritti Umani”. Tra le sue funzioni si ricordano quella della preparazione

di documentazione, studi e ricerche sulle questioni dei diritti umani in Africa nonché quella

dell’interpretazione delle norme della Carta istitutiva dell’Unione;

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Page 46: Storia dell'Africa

- la Commissione, costituisce il segretariato dell’Unione Africana ed ha un ruolo centrale. Essa

rappresenta l’Unione e ne difende gli interessi; prepara i piani strategici e gli studi per il Consiglio

Esecutivo; elabora, coordina, promuove e armonizza programmi e politiche con le Comunità

Economiche Regionali (RECs). La sua azione è guidata dal rispetto per la diversità ed il lavoro di

gruppo; dalla trasparenza e dall’accountability; dall’integrità ed imparzialità; dall’efficienza e dalla

professionalità; dall’informazione e dallo scambio di conoscenze. Essa è composta da 1 Presidente,

1 Vice-Presidente, 8 Commissari ed 1 Staff di supporto.

I Commissari sono responsabili di 8 portafogli riguardanti i temi: Pace e Sicurezza; Affari Politici;

Infrastrutture ed Energia; Affari Sociali; Risorse Umane, Scienza e Tecnologia; Commercio ed

Industria; Economia Rurale ed Agricoltura; Affari Economici;

- il Comitato dei Rappresentanti Permanenti, incaricato di preparare il lavoro del Consiglio

Esecutivo. Tra le sue funzioni si ricordano: la preparazione di regole di procedura e la loro

sottomissione al Consiglio Esecutivo; le raccomandazioni nelle aree di comune interesse dei

membri, particolarmente su questioni nell’agenda del Consiglio Esecutivo;

- 7 Commissioni Tecniche Speciali, responsabili della preparazione di progetti e programmi

dell’Unione nonché della loro sottoposizione al Consiglio Esecutivo. Esse concentrano la loro

attenzione sull’economia rurale e le questioni agricole; sugli affari monetari e finanziari; sul

commercio, le dogane e le questioni migratorie; sull’industria, la scienza e la tecnologia, l’energia,

le risorse naturali e l’ambiente; sul trasporto, le comunicazioni ed il turismo; sulla sanità, il lavoro e

gli affari sociali; sull’educazione, la cultura e le risorse umane;

- il Consiglio per la Pace e la Sicurezza, composto da 15 membri. Esso è considerato uno strumento

per prevenire, gestire e risolvere i conflitti. Al fine di assumere le sue responsabilità per lo

schieramento delle forze di pace e le missioni di intervento rapido così da garantire l’assistenza nei

casi di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’Umanità. Il suddetto Consiglio potrebbe

consultare un Panel di Saggi che comprende 5 illustri personalità africane, incaricate di dare il loro

parere su questioni particolarmente difficili da risolvere;

-3 istituzioni finanziarie promosse per facilitare il commercio all’interno del continente:

la Banca Africana degli Investimento,

il Fondo Monetario Africano,

la Banca Centrale Africana;

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Page 47: Storia dell'Africa

- il Consiglio Economico, Sociale e Culturale, considerato il veicolo per costruire una forte

partnership tra i governi e tutti i segmenti della società civile africana. Lo statuto lo definisce come

“un organo consultivo dell’UA composto da diversi gruppi sociali e professionali”. Tra i suoi

compiti si ricordano: la promozione di un dialogo continuo tra tutti i segmenti dei popoli africani su

questioni riguardanti l’Africa ed il suo futuro; una forte partnership tra i governi e tutti i segmenti

della società civile (donne, giovani, diaspora, sindacati, settori privati)

- la Commissione sulla Legge internazionale, incaricata -tra l’altro- di intraprendere azioni correlate

alla codifica ed al progressivo sviluppo del diritto internazionale nel continente africano, con

particolare attenzione alle leggi dell’Unione; assistere nella revisione dei trattati esistenti, assistere

nell’identificazione delle aree in cui sono richiesti nuovi trattati e preparare delle bozze apposite;

condurre studi su questioni legali di interesse dell’Unione e dei suoi Stati membri;

- il Consiglio Consultivo sulla Corruzione, ha il compito –tra l’altro- di sviluppare e promuovere

l’adozione di codici di condotta dei funzionari pubblici; promuovere ed incoraggiare l’adozione e

l’applicazione di misure anticorruzione nel continente; preparare la documentazione sulla natura e

lo scopo della corruzione e gli illeciti ad essa correlati in Africa; sviluppare metodologie per

analizzare la natura e la misura della corruzione in Africa, disseminare l’informazione e

sensibilizzare il pubblico sugli effetti negativi della corruzione e dei reati ad essa collegati; dare

indicazioni ai governi su come affrontare tale fenomeno e quanto ad esso collegato nelle

giurisdizioni nazionali.

Bandiera dell’Unione Africana

Dopo la presentazione della struttura nel suo insieme, è importante dire che sono gli incontri annuali

dei Capi di Stato e di Governo ad attirare maggiormente l’attenzione internazionale sull’Unione

Africana. Tali eventi sono organizzati solitamente nel mese di gennaio e nel mese di luglio; negli

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Page 48: Storia dell'Africa

incontri di gennaio si sceglie la presidenza di turno annuale, anche se la candidatura di un paese è

precedente e si bilancia con logiche regionali. Nonostante i Summit focalizzino l’attenzione su un

tema preciso, sono sempre le questioni contingenti ad avere il sopravvento (terrorismo, emergenza

siccità in Corno d’Africa, crisi locali). Si ricordano:

-il 18mo Summit UA “ Promuovere il commercio intra-africano ” (Addis Abeba, 23-30 gennaio

2012), nel cui ambito è stato nominato il Presidente del Benin Thomas Yayi Boni come

Presidente di turno annuale. Durante gli incontri non è stato raggiunto l’accordo per la nomina

del nuovo Presidente della Commissione e si è quindi deciso di prolungare il mandato

dell’attuale Presidente Jean Ping fino all’incontro ufficiale di luglio 2012. Non è stata infatti ben

accolta la proposta della nomina di Nkosazana Dlamini-Zuma (Ministro degli Interni del Sud

Africa). Secondo alcuni Stati membri ciò avrebbe eccessivamente favorito il Sud Africa e gli

avrebbe fornito una buona “rampa di lancio” per ottenere un posto al Consiglio di Sicurezza

delle Nazioni Unite. D’altra parte lo stesso Sud Africa si è opposto alla conferma di Jean Ping,

in quanto ritenuto eccessivamente debole nei confronti delle varie crisi e rivolte che si sono

registrate nell’ultimo anno nel continente. Interessante notare che durante l’apertura dei lavori, il

Presidente della National Committee of the Chinese People's Political Consultative Conference,

Jia Qinglin, ha portato il saluto del Presidente Hu Jintao. Nel messaggio è stata ribadita da parte

di Pechino “la volontà di continuare a lavorare a fianco dell’Africa per costruire -sulla base dei

risultati raggiunti- la partnership strategica Cina Africa e portarla ad un livello più alto”.

XVIII Summit dell’Unione Africana (gennaio 2012)

- il 16mo Summit UA “ Verso una più grande unità ed integrazione attraverso valori condivisi ”

(Addis Abeba, 24-31 gennaio 2011), in cui nell’agenda dei lavori è stata data grande attenzione

alle crisi somala, ivoriana e sudanese; gli eventi del Nord Africa sono stati trattati nei diversi

incontri ma non ne è stato fatto riferimento nella dichiarazione finale per volontà del Presidente

della Commissione, Jean Ping. Molto criticato da alcune organizzazioni non governative è stato

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Page 49: Storia dell'Africa

il passaggio della presidenza di turno alla Guinea Equatoriale di Teodoro Obiang Nguema, Stato

africano in cui vengono sistematicamente effettuate violazioni dei diritti umani. La scelta è stata

tuttavia giustificata con esigenze di rotazione regionale;

- il 15mo Summit UA “ Salute materno-infantile e sviluppo in Africa ” (Kampala, 19-27 luglio

2010). Grande attenzione è stata rivolta al tema della sicurezza, al conflitto somalo, alla

questione sudanese, alla food security ed alle infrastrutture. I partecipanti hanno concordato

nell’invio di altri 2000 peacekeepers in Somalia per fornire un rinforzo all’African Union

Mission in Somalia (AMISOM). Il Presidente ugandese Museveni (reduce dal duplice attacco

terroristico a Kampala l’11 luglio, rivendicato da combattenti collegati ad Al Shabab, in cui

erano morte 74 persone ed una decina erano rimaste ferite) si è detto convinto che il terrorismo

può e deve essere vinto ma che è essenziale un’azione congiunta da parte dei partner africani.

Sono state criticate fortemente le azioni terroristiche nel Corno d’Africa e nella zona sahelo-

sahariana;

- il 13mo Summit UA “ Investire nell’Agricoltura per la crescita economica e la sicurezza

alimentare ” (Sirte, 24 giugno-3 luglio 2009), nel cui ambito è stato deciso di trasformare la

Commissione dell’Unione Africana in Autorità come primo passaggio in vista dell’integrazione

regionale. Durante gli incontri, i Capi di Stato hanno adottato una risoluzione in cui hanno

ribadito di non essere disposti a collaborare con la Corte di Giustizia Internazionale nel caso del

mandato di arresto nei confronti del Presidente sudanese El Beshir ;

13mo Summit UA (Sirte, 2009)

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Page 50: Storia dell'Africa

- l’8° Summit “ Scienza, tecnologia e ricerca scientifica per lo sviluppo ” (Addis Abeba, 22-30

gennaio 2007). In tale occasione è stato eletto John Kufuor del Ghana come Presidente di

turno annuale, essendo stata scartata l’offerta sudanese, considerata “ingombrante” per il

dramma darfuriano. Il Sudan ha mal sopportato tale decisione, attribuendo a pressioni

esterne la scelta dei partner. Sono stati nominati 5 saggi per coadiuvare il Consiglio per la

Pace e la Sicurezza. Sul fronte somalo è stata ben accolta la proposta del Presidente somalo

Yusuf di organizzare una Conferenza di riconciliazione nazionale, ma si è registrata una

scarsa disponibilità da parte dei paesi africani all’invio di propri uomini a sostegno

dell’African Union Mission in Somalia (AMISOM)

Fatta questa breve presentazione sull’UA, quali sono i caratteri distintivi rispetto all’OUA?

In una pubblicazione del 2010 di Mario Zamponi e Arrigo Pallotti, i due studiosi italiani notano che:

“continuità e discontinuità con l’esperienza storica dell’OUA emergono neel Constitutive Act dell’UA. La continuità è rappresentata dal riferimento ai principi dell’uguaglianza sovrana tra gli Stati membri, del rispetto dei confini ereditati dal colonialismo e della non interferenza negli affari interni di un paese, che fin dal 1963 hanno costituito i pilastri della diplomazia africana. La discontinuità più forte è rappresentata dal ruolo attribuito all’UA nella prevenzione e risoluzione dei conflitti e nella promozione del rispetto dei diritti umani e del consolidamento delle pratiche democratiche in Africa. ( ) L’articolo 30 del Constitutive Act prevede che ‘i governi che acquisiranno il potere tramite mezzi incostituzionali non potranno partecipare alle attività dell’Unione’. Inoltre all’UA è stato conferito il ‘diritto di intervenire in un paese membro […] nel caso si verifichino circostanze particolarmente gravi, vale a dire: crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e una grave minaccia all’ordine legittimo per ripristinare la pace e la stabilità’ (…) Continuità e discontinuità rispetto all’esperienza passata delle relazioni tra i paesi africani sono inevitabilmente emerse anche nel funzionamento dell’UA. L’UA ha infatti incontrato forti ostacoli nella promozione della democrazia all’interno dei Paesi membri, in particolare a causa delle spaccature politiche tra gli stessi governi africani sulle azioni da intraprendere nel contesto delle crisi che di volta in volta sono scoppiate e delle resistenze che gli attori direttamente coinvolti hanno opposto all’intervento della diplomazia africana. Mentre la sospensione di un paese dalle attività dell’UA nel caso di un colpo di stato è diventato un provvedimento di routine, la posizione dell’UA nei casi di Zimbabwe e Sudan ha esposto l’organizzazione a forti critiche”.

In relazione alle altre differenze chiave tra le due strutture, si può ricordare che l’UA è concepita

come una unione di popoli piuttosto che di leader africani e che anche le donne (che non avevano

avuto un minimo ruolo durante i 39 anni di esistenza dell’ OUA) hanno una posizione riconosciuta.

L’inserimento di principi come la democrazia, l’uguaglianza di genere, la good governance e lo

stato di diritto appaiono come elementi innovatori e rivoluzionari.

Sfortunatamente, a 10 anni di distanza dal varo dell’UA, si può dire che anche la nuova struttura ha

mostrato le debolezze della vecchia: problemi di corruzione, problemi di gestionedelle vicende

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Page 51: Storia dell'Africa

interne con una logica di “due pesi e due misure” (si ricordi come è stata trattata la crisi ivoriana e

come invece è stata trattata lacrisi libica, come al Presidente Gbagbo si sia ingiunto immediatame di

lasciare il potere e come invece il leader libico –grande sostenitore finanziario dell’UA- sia stato

giustificato fino all’ultimo momento e sostenuto nel suo attaccamento al potere), problemi di

protezione palese di alcuni leader e non di altri (Omar el Beshir e Robert Mugabe sono considerati

personaggi illustri, baluardi contro le ingerenze critiche degli occidentalia), problemi di

protagonismo e lotta per il potere (si pensi alla nomina rinviata del Presidente della Commissione

nel gennaio 2012, in seguito alla posizione contrapposta del gabonese Jean Ping e della sudafricana

Nkosazana Dlamini-Zuma)

Interessante notare la stretta collaborazione tra l’Unione Africana e le Regional Economic

Communities, vale a dire le organizzazioni regionali africane

Il sito dell’Unione Africana cita:

• la CEN SAD - Community of Sahel-Saharan States

• la COMESA - Common Market for Eastern and Southern Africa

• l’EAC - East African Community

• l’ECCAS - Economic Community of Central African States (conosciuta in francese come

CEEAC, Communauté Économique des États de l'Afrique Centrale)

• l’ECOWAS - Economic Community Of West African States (conosciuta in francese come

CEDEAO, Communauté Économique Des États de l'Afrique de l'Ouest)

• l’IGAD - Intergovernmental Authorithy on Development

• la SADC - Southern African Development Community

• l’AMU – Arab Maghreb Union (conosciuta in francese come UMA, Union du Maghreb

Arabe)

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Page 52: Storia dell'Africa

CEN SAD

La Community of Sahel-Saharan States è stata fortemente voluta dal leader libico Muammar

Gheddafi ed è stata fondata a Tripoli il 4 febbraio 1998, con la partecipazione di Burkina Faso,

Chad, Libia, Mali, Niger, Sudan). Nel corso degli anni hanno aderito anche Repubblica

Centrafricana, Eritrea, Djibouti, Gambia, Senegal, Egitto, Marocco, Nigeria, Somalia, Tunisia,

Benin, Togo, Cote d’Ivoire, Guinea Bissau, Liberia, Ghana, Sierra Leone, Comore, Guinea, Kenya,

Mauritania, Sao Tomé e Principe.

Mappa area CEN SAD

Tra i suoi obiettivi si ricordano:

-lo stabilimento di una unione economica globale, basata sull’implementazione di un piano di

sviluppo della comunità che è complementare ai singoli piani di sviluppo nazionali degli stati

membri e che comprende vari settori: agricoltura, industria, energia, sanità, cultura;

-la rimozione di tutte le restrizioni che ostacolano l’integrazione degli stati membri attraverso

l’adozione di misure necessarie che assicurino: a) il libero movimento di persone, capitali ed

interessi, b) il diritto di stabilimento, ownership ed esercizio di un’attività economica; c) il libero

commercio e movimento di beni, merci e servizi;

- la promozione del commercio all’estero attraverso una politica di in investimenti negli stati

membri;

- la garanzia di diritti, vantaggi e obbligazioni ai cittadini dei paesi firmatari, in conformità con le

previsioni delle rispettive costituzioni

- l’armonizzazione di sistemi educativi, pedagogici, scientifici e cultrali dei vari cicli di educazione.

Lo statuto prevede i seguenti organi della Comunità:

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Page 53: Storia dell'Africa

-la Conferenza dei Capi di Stato

- il Consiglio Esecutivo

- il Segretariato Generale

- la Banca per lo sviluppo ed il Commercio

- il Consiglio economico, sociale e culturale

Chiaramente la scomparsa di Gheddafi dalla scena africana ha fortemente condizionato nell’ultimo

anno le attività della CEN SAD.

Nella riunione di Rabat del Consiglio Esecutivo nel giugno 2012, il Marocco ha cercato di ereditare

la guida dell’Organizzazione e di rilanciarla, consolidando i legami di amicizia e solidarietà con gli

altri partners (si ricorda che il Marocco ha un profilo particolare nelle organizzazioni regionali: è

uscito dall’Unione Africana alcuni anni or sono, mentre fa ancora parte dell’Unione del Maghreb

Arabo anche se proprio i suoi contrasti con l’Algeria hanno impedito lo sviluppo dell’iniziativa

maghrebina negli ultimi 20 anni). Durante gli incontri, i partecipanti dei paesi aderenti alla CEN

SAD hanno ribadito l’impegno nella lotta contro il terrorismo, la criminalità transfrontaliera (in

particolare, traffico di armi e droga) ed i movimenti separatisti. E’stato proposto di creare un

Consiglio di sicurezza dell’organizzazione ma non è stato chairito come saranno reperiti i fondi.

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Page 54: Storia dell'Africa

COMESA

Logo del COMESA

L’idea di una Common Market for Eastern and Southern Africa risale a metà degli anni ’60. Tappa

essenziale è stata l’adozione della Dichiarazione di Intenti e di Impegni per lo Stabilimento di

un’Area Peferenziale di Commercio, in occasione della Conferenza di Lusaka il 21 dicembre 1981.

Motivo della fondazione di quest’Area preferenziale era quello di trarre vantaggio da un mercato

più grande, di condividere l’eredità comune ed il destino della regione, di permettere una più ampia

cooeprazione economico-sociale, con l’obiettivo di creare una comunità economica. La

trasformazione dell’Area in un Mercato Comune si è avuta in occasione della firma di un Trattato il

5 novembre 1993 a Kampala (Uganda), ratificato nel 1994 a Lilongwe (Mali).

Della COMESA essa fanno parte: Burundi, Comore, Repubblica democratica del Congo, Djibouti,

Egitto, Eritrea, Etiopia, Kenya, Libia, Seichelles, Madagascar, Malawi, Mauritius, Rwanda, Sudan,

Swaziland, Uganda, Zambia, Zimbabwe

La struttura prevede:

- l’Auotrità del COMESA, composta dai Capi di Stato e di Governo;

- il Consiglio dei Ministri;

- la Corte di Giustizia;

- il Comitato dei Governatori delle Banche Centrali;

- il Comitato intergovernativo;

- dodici Comitati tecnici;

- il Comitato Consultivo della Comunità d'Affari e di altri Gruppi;

- il Segretariato diretto da un Segretario Generale , nominato dall'Autorità per un periodo di cinque

anni;

- la Banca per il Commercio e lo Sviluppo del COMESA (a Nairobi, Kenya)

- la cd. “Stanza di Compensazione” del COMESA (a Harare, Zimbabwe)

- l'Associazione delle Banche Commerciali del COMESA (ad Harare, Zimbabwe)

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Page 55: Storia dell'Africa

- l’Istituto Conciario del COMESA (in Etiopia)

- la Società di Riassicurazione

- la Federazione di associazioni nazionali di donne nel mondo degli affari nell’Africa orientale e

meridionale

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Page 56: Storia dell'Africa

EAC

Mappa dei paesi membri dell’EAC

L’East African Community è l’organizzazione intergovernativa che mira ad ampliare ed

approfondire la cooperazione nei settori politico, economico e sociale tra gli stati membri dell’area

orientale e con le altre comunità regionali. Essa comprende Kenya, Uganda, Tanzania (i tre membri

iniziali), Burundi e Rwanda (che hanno aderito nel 2007) .

La Comunità à stata varata con la firma del Trattato istitutivo il 30 novembre 1999.

Essa comprende i seguenti organi:

- il Summit dei Capi di Stato e di Governo, le cui decisioni sono prese per consenso. Esso discute le

questioni che gli vengono sottomesse dal Consiglio e qualsiasi altro affare di cui possa essere

interessata la Comunità. Tra le sue funzioni, si ricordano quelle che riguardano le indicazioni della

linea generale da seguire; l’esame dei rapporti che gli sono sottoposti; la revisione dello stato della

sicurezza, della pace e della good governance all’interno dell’EAC;

- il Congiglio dei Ministri, si riunisce due volte all’anno; tra le funzioni assegnatigli si ricordano

quelle dell’implementazione delle decisioni e delle direttive del Summit, della presa in

considerazione del budget dell’EAC, dello studio delle misure che devono essere prese da ogni

partner per promuovere il raggiungimento degli obiettivi dell’EAC;

- la Commissione di Coordinamento, tra le cui funzioni si ricorda quella della sottomissione di volta

in volta di rapporti e raccomandazioni al Consiglio, sia su propria iniziativa sia su richiesta del

Consiglio, nell’ambito dell’implementazione del Trattato; del ricevimento e dell’esame dei rapporti

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Page 57: Storia dell'Africa

da parte delle Commissioni settoriali; della richiesta ad qualsiasi Commissione settoriale di fare

delle investigazioni su temi specifici;

- le Commissioni settoriali sono responsabili per la preparazione di un programma di

implementazione generale e lo stabilimento delle priorità rispetto al proprio settore; monitorano e

revisionano l’implementazione dei programmi dell’EAC; sottomettono rapporti e raccomandazioni

alla Commissione di Coordinamento di propria iniziativa e su richiesta della Commissione di

Coordinamento;

- la Corte di Giustizia, la cui più grande responsabilità è assicurare l’aderenza alla legge

nell’interpretazione ed applicazione di ogni norma nell’ambito del Trattato;

- l’Assemblea Legislativa, tra le sue funzioni annovera quelle del dibattito e approvazione del

budget dell’EAC, dell’esame dei rapporti annuali sulle attività della Comunità, della discussione di

tutte le questioni pertinenti all’EAC, del collegamento con i Parlamenti nazionali degli Stati membri

su questioni collegate all’EAC;

- il Segretariato è il principale ufficio esecutivo, è designato dal Summit e ha un incarico di durata

quinquennale. Esso si compone di un Segretario Generale, alcuni vice Segretari Generali (il cui

numero è determinato dal Consiglio dei Minstri) ed un Consigliere della Comunità

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Page 58: Storia dell'Africa

ECCAS

Logo della ECCAS

Il Trattato istitutivo della Economic Community of Central African States (ECCAS anche

conosciuto come CEEAC nell’acronimo francese) è stato firmato nel 1983 a Libreville, ma tra il

1992 ed il 1998 l’organizzazione non è stata funzionante a causa di problemi dei suoi membri

(mancati pagamenti delle proprie quote).

Fanno parte della ECCAS: Angola, Burundi, Cameroun, Repubblica Centrafricana, Congo

Brazzaville, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Guinea Equatoriale, Sao Tome & Principe

eTchad.

L’obiettivo dell’Organizzazione è la promozione ed il rafforzamento di una cooeprazione armoniosa

ed uno sviluppo dinamico ed equilibrato nei settori economico-sociale, in particolare nell’industria,

nei trasporti e nelle telecomunicazioni, nell’energia, nell’agricoltura, nelle risorse naturali, nel

turismo, nell’insegnamento, nella scienza e nella tecnologia.

Le istituzioni previste dal Trattato fondamentale sono:

- la Conferenza dei Capi di Stato e di governo, organo supremo che definisce la politica

generale e le grandi linee della Comunità, orientando ed armonizzando le politiche dei vari stati

membri;

- il Consiglio dei Ministri, incaricato di formulare raccomandazioni riguardo alle azioni che

devono essere promosse per raggiungere gli obiettivi della Comunità;

- la Corte di Giustizia (non ancora operativa), incaricata di assicurare il rispetto del diritto

nell’interpretazione del Trattato istitutivo della Comunità e decidere delle controversie di cui

può essere informata;

- il Segretariato Generale, principale organo esecutivo che stabilisce annualmente il programma

d’azione della Comunità, prepara ed esegue le decisioni e le direttive della Conferenza ed i

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Page 59: Storia dell'Africa

regolamenti del Consiglio, assicura la promozione dei programmi di sviluppo e i progetti

comunitari;

- la Commissione Consultiva che studia ed istruisce – sotto la responsabilità del Congilio dei

Ministri- le questioni ed i progetti che gli vengono sottoposti

- Comitati Tecnici Specializzati creati in settori specifici.

L’ECCAS è il focal point del NEPAD (New Partnership for Africa’s Development, programma

dell’UA adottato in Zambia nel luglio 2001 che si propone di promuovere la “rinascita” del

continente nel 21mo secolo sulla base dei concetti di “ownership” e “partnership”) nell’Africa

centrale. In tale quadro, l’ECCAS ha istituito un Coordinamento regionale di messa in opera e dei

seguiti di tale partenariato per lo sviluppo dell’Africa nella regione centrale del continente.

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Page 60: Storia dell'Africa

ECOWAS

Mappa degli Stati membri dell’ECOWAS

L’Economic Community Of West African States (ECOWAS anche conosciuta come CEDEAO

nell’acronimo francese) è l’organizzazione della regione occidentale africana, fondata nel 1975.

L’obiettivo è quello di promuovere l’integrazione economica in tutti campi dell’attività economica,

in particolare dell’industria, dei trasporti, delle telecomunicazioni, dell’energia, dell’agricoltura,

delle risorse naturali, del commercio, delle questioni monetarie e finanziarie, delle problematiche

sociali e culturali.

Ne fanno parte 15 Stati: Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Cote d'Ivoire, Gambia, Ghana, Guinea,

Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo.

Secondo quanto stabilito, la sua struttura prevede:

- la Commissione (precedentemente conosciuta come Segretariato);

- il Parlamento, considerato un forum per il dialogo, la consultazione ed il consenso per i

rappresentanti dei popoli dell’Africa occidentale al fine di promuovere una vera integrazione. Si

Compone di 115 seggi;

- la Corte di Giustizia;

- la Banca per gli Investimenti e lo Sviluppo.

L’ECOWAS è considerata una delle comunità regionali più sviluppate. Negli ultimi anni si è

dimostrata molto energica nel rispetto dell’apllicazione del diritto e dei principi democratici in Stati

che vivevano pericolose crisi interne come Togo, Cote d’Ivoire e Guinea Conackry. Non sempre i

suoi interventi o le sue misure hanno portato i risultati auspicati.

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Page 61: Storia dell'Africa

IGAD

Mappa dei paesi membri IGAD

L’Intergovernmental Authority on Development (IGAD) è stata creata nel 1996 come superamento

dell’Intergovernmental Authority on Drought and Development (IGADD) varata nel 1986. Tale

struttura era stata promossa da Djibouti, Kenya, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan e Uganda per

reagire alla siccità ed altri disastri anturali della regione orientale. L’Eritrea aveva aderito a tale

gruppo nel 1993. L’ammodernamento dell’Organizzazione ha portato ad un’espansione della

cooeprazione regionale ed a una nuova struttura.

L’IGAD è composta da diversi organi:

- l’Assemblea dei Capi di Stato e di Governo, che fissa le politiche che devono essere

implementate;

-il Consiglio dei Ministri, che aiuta ad approvare i programmi di lavoro ed il budget annuale;

- la Commissione degli Ambasciatori, che si riunisce quando c’è bisogno di fornire dei suggerimenti

al Segretario Esecutivo;

- il Segretariato che aiuta ad implementare progetti e programmi che sono stati approvati.

Le ostilità mai celtate tra Etiopia e Eritrea nonché quelle tra Sudan e Sud Sudan hanno spesso

ostacolato più volte i lavori dell’Autorità. Da ricordare anche che l’IGAD ha più volte tentato

-senza successo- di mediare tra le parti somale in conflitto.

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Page 62: Storia dell'Africa

SADC

Mappa dei paesi membri della SADCLa Southern African Development Community (SADC) è nata nell’aprile 1980 a Lusaka come

raggruppamento di 9 stati con il nome di Southern African Development Coordination Conference

(SADCC).Inizialmente il suo scopo era quello di coordinare progetti di sviluppo per ridurre la

dipendenza economica dal Sud Africa negli anni dell’apartheid. I membri fondatori erano: Angola,

Botswana, Lesotho, Malawi, Mozambique, Swaziland, Tanzania, Zambia e Zimbabwe.

Il passaggio e la trasformazione da Conferenza a Comunità dello Sviluppo si registra nell’agosto

1992, a Windhoek (Namibia).

Attualmente aderiscono alla SADC: Angola, Botswana, Repubblica Democratica del Congo,

Lesotho, Madagascar, Malawi, Mauritius, Mozambico, Namibia,Seychelles, Sud Africa, Swaziland,

Tanzania, Zambia e Zimbabwe.

La SADC, che ha il quartier generale a Gaborone (Botswana), è una delle organizzazioni regionali

africane più funzionanti.

La SADC si propone di promuovere –attraverso sistemi produttivi efficienti- una crescita

economica sostenibile ed equa, nonchè uno sviluppo socio economico, una cooperazione ed

integrazione più profonde; good governance, pace e sicurezza durevoli nel tempo così che la

regione possa risultare un player competitivo e forte nell’economia mondiale oltre che nel

panorama delle relazioni internazionali.

La SADC prevede per il suo funzionamento 8 organi:

- il Summit annuale dei Capi di Stato e di Governo, incaricato della direzione politica e del

controllo delle funzioni della Comunità;

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Page 63: Storia dell'Africa

-la Troika formata dal Presidente in carica, dal futuro Presidente e dal Presidente uscente, con

l’obiettivo di dare continuità alle linee politiche adottate;

- il Consiglio dei Ministri, organo che si riunisce 4 volte all’anno, comoposto dai Ministri degli

Esteri e di Pianificazione Economica. Esso è incaricato di sorvegliare sul funzionamento della

SADC;

- il Tribunale, che giudica delle eventuali dispute ed assicura il rispetto de trattato istitutivo;

- l’Organo addetto alla Politica, alla Difesa ed alla Cooperazione nell’ambito della sicurezza;

- il Segretariato, istituzione esecutiva, responsabile dell’amministrazione dei programme e della

pianificazione

- i Comitati Nazionali, formati dalle parti del governo, settore privato e società civile. La loro

funzione è quella di fornire spunti per le politiche e strategie, nonchè sorvegliare l’esecuzione dei

programmi;

- il Comitato dei Funzionari di alto livello, incaricato di fornire assistenza tecnica al Consiglio dei

Ministri.

Nell’ambito di tale organizzazione si distingue il ruolo di traino del Sud Africa, che ha mediato –

con più o meno successo- e continua a mediare per le crisi in Madagascar e Zimbabwe.

In particolare nei confronti dello Zimbabwe, si è registrato un cambio di metodo nel passaggio di

funzioni dal Presidente Thabo Mbeki (accusato di essere troppo morbido nei confronti di Robert

Mugabe e della linea adottata dallo ZANU PF) a quella del Preside Jacob Zuma.

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Page 64: Storia dell'Africa

AMU/UMA

Mappa dei paesi facenti parte dell’AMU

“Yazirat al Magrib” è l’espressione araba che significa “Isola dell’Occidente”, la regione dove

“tramonta il sole”. Essa comprende da ovest ad est : Mauritania, Marocco, Algeria, Tunisia e Libia.

Tali Stati, seppur profondamente diversi l’uno dall’altro, hanno un substrato comune, identificabile

nella sovrapposizione dell’elemento arabo su quello berbero, nella lingua comune nonché nel fatto

che le loro società poggiano su economie molto simili. Questi elementi -oltre a quello del fattore

religioso comune - hanno determinato , specie dopo il periodo coloniale, una spinta all’integrazione

regionale.

Nonostatnte i numerosi punti in comune, solo dopo anni di esperimenti, il 17 febbraio 1989 è stato

firmato a Marrakech (Marocco) il Trattato Istitutivo dell’Unione del Maghreb Arabo, primo vero

tentativo della sponda sud del Mediterrano di emulare la costruzione comunitaria, per raggiungere

una piena integrazione economica e politica.

La struttura prevede:

- il Consiglio Presidenziale, considerato l’organo supremo, composto dai Capi di Stato.Le sue

decisioni sono assunte all’unanimità;

- il Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri, che prepara i summit ufficiali;

- il Consiglio Consultivo, composto da 10 membri di ciascun stato;

- il Comitato per la Sorveglianza delle misure d’integrazione;

- il Segretariato generale;

- la Corte di Giustizia.

Problemi interni degli stati membri (golpe in Mauritania, le pretese egemoniche del Col Gheddafi) e

le ostilità tra Algeria e Marocco hanno frenato per anni lo sviluppo dell’Unione. Una breve fase di

rilancio si è avuta negli anni 2002-2003, favorita da quello che è stato chiamato “lo sdoganamento

libico” e la sospensione delle sanzioni ONU nei confronti di Tripoli; dal nuovo corso algerino

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Page 65: Storia dell'Africa

inaugurato dal presidente Bouteflika con il varo della politica di Riconciliazione nazionale algerina;

dalla successione al trono alaouita di Re Mohammed VI.

Secondo quanto stabilito dal Trattato istitutivo, l’Unione sipropone:

- il consolidamento dei rapporti fraterni che legano gli Stati membri ed i loro popoli; la

realizzazione del progresso e del benessere delle comunità nonché la difesa dei loro diritti;

- la realizzazione progressiva della libera circolazione di beni eservizi, di merci e di capitali tra gli

Stati aderenti;

- l’adozione di una politica comune in tutti i settori. Nel reparto economico, tale linea mira ad

assicuare lo sviluppo industriale, agricolo e commerciale degli Stati membri.

Nonostante gli sforzi, non si sono registrati risultati concreti in questi 23 anni e l’Unione resta

ancora una pura utopia.

Le rivolte nordafricane e la cd “primavera araba” del 2010 hanno ulteriormente bloccato le attività

dell’Unione.

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Page 66: Storia dell'Africa

LEZIONE N.13

“NEPAD”

“Ownership” e “partnership”: sono questi i principi che guidano la New Partnership for Africa’s

Development, il progetto lanciato nel 2001 in ambito africano con l’obiettivo di promuovere la

“rinascita africana”. Presentata come “un framework strategico dell’Unione Africana per lo

sviluppo socio economico, è al tempo stesso sia una visione che una struttura politica per l’Africa

del XXI secolo”. La NEPAD si è posta sin dalle prime fasi come un intervento radicalmente nuovo,

promosso dagli stessi leader africani per affrontare sfide poste dall’economia globale e dalle stesse

debolezze intrinseche al continente: povertà, sottosviluppo, fame, corruzione, deficit

infrastrutturale.

La NEPAD eredita i frutti delle discussioni degli anni ’90 e soprattutto gode di un anno particolare

ricco di dibattiti di alto livello e fortunate concomitanze. Come nota infatti Prince Mashele, nel

1999 il Presidente algerino Abdelaziz Bouteflika fu nominato a capo della Presidenza dell’OUA;

nello stesso anno il Presidente nigeriano Olusegun Obasanjo fu designato come responsabile del

G77 (organizzazione nata nel giugno del 1964, originariamente con 77 paesi membri in via di

sviluppo); sempre nel 1999 il Presidente sudafricano Thabo Mbeki svolse la funzione di guida del

Movimento dei non allineati. A seguito della richiesta a Bouteflika e Mbeki di sviluppare delle

strategie di risposta per le sfide continentali, venne presentato il Millennium African Recovery

Programme (MAP) , programma a cui contribuì -seppure in tono minore- anche Obasanjo.

Parallelamente, il Presidente senegalese Abdoulaye Wade lavorò all’Omega Plan, piano focalizzato

sullo sviluppo e sulle insufficienti infrastrutture africane.

La NEPAD, inizialmente chiamata New African Initiative, nasce come fusione dei due suddetti

documenti. Presentata al summit di Lusaka nel luglio 2001, venne perfezionata ed adottata

nell’ottobre 2001 al 37mo summit OUA di Abuja .

La documentazione originale è divisa in una parte introduttiva che fotografa la realtà e le condizioni

in cui vivono gli africani ed in un programma di azione vero e proprio.

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Page 67: Storia dell'Africa

La NEPAD richiama ad un capovolgimento di questa situazione anomala, cambiando la relazione

che ne è alla base. I padri della NEPAD sono convinti dell’opportunità storica per mettere fine al

flagello del sottosviluppo che colpisce il continente. Sulla base della consapevolezza del ruolo che

può svolgere l’Africa nel mondo, grazie all’immensità delle sue risorse (minerarie, ecologiche,

culturali) viene fatto espresso invito a tutti i popoli africani di prendere coscienza della propria forza

e responsabilità per favorire la “rinascita africana”. Gli autori chiedono “a tutte le genti di

accettare la sfida di attivarsi a supporto dell’iniziativa, mettendo a tutti i livelli, strutture per

l’organizzazione, la mobilitazione e l’azione pratica”.

Per quanto riguarda il Programma d’Azione, esso specifica che la “NEPAD è prevista come una

visione di lungo periodo di un programma di sviluppo guidato dagli africani e di loro proprietà”.

Gli obiettivi di lungo termine enunciati nel framework dell’iniziativa, possono così riassumersi:

sradicamento della povertà, posizionamento dell’Africa sul sentiero della crescita sostenibile e dello

sviluppo, arresto della marginalizzazione del continente, promozione del ruolo della donna in tutte

le attività.

Per quanto attiene gli scopi specifici (“goals”), nel documento sono individuati:

- il dimezzamento della povertà entro il 2015;

- il dimezzamento della quota delle persone che vivono in estrema povertà tra il 1990 ed il

2015;

- l’iscrizione di tutti i bambini alla scuola primaria entro il 2015;

- l’avanzamento verso l’uguaglianza di genere ed il rafforzamento del ruolo/responsabilità

delle donne, eliminando le disparità di genere nell’iscrizione alla scuola primaria e

secondaria entro il 2005;

- la riduzione dei tassi di mortalità infantile e dei bambini di 2/3 tra il 1990 ed il 2015;

- la riduzione dei tassi di mortalità materna di ¾ tra il 1990 ed il 2015;

- l’assicurazione dell’accesso dei servizi sanitari per la natalità entro il 2015 a tutti coloro che

ne hanno bisogno;

- l’implementazione di strategie nazionali per lo sviluppo sostenibile entro il 2005, come

l’inversione della perdita delle risorse ambientali entro il 2015.

La strategia è volta a raggiungere 4 risultati.

- crescita economica, sviluppo ed incremento dell’occupazione;

- riduzione della povertà e dell’ineguaglianza;

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Page 68: Storia dell'Africa

- diversificazione delle attività produttive, accresciuta competitività internazionale,

ampliamento delle esportazioni;

- accresciuta integrazione africana.

Nel documento si specifica che l’Africa non raggiungerà gli International Development Goals e il

7% di crescita annuale del PIL se non sarà fatto qualcosa di nuovo e di radicale.

Il Programma identifica delle condizioni per lo sviluppo sostenibile, collegate ad iniziative di Pace,

Sicurezza, Democrazia e Governance Politica (che si propongono di promuovere condizioni di

lungo termine per lo sviluppo e la sicurezza) e ad un’iniziativa economica e della cd. “corporate

governance” (che si propone di dare priorità alla capacity-building dello Stato, essenziale nel

promuovere la crescita economica, lo sviluppo e l’implementazione dei programmi di riduzione

della povertà).

Il documento analizza quindi le priorità settoriali che devono guidare gli interventi:

- infrastrutture

- tecnologie dell’ informazione e della comunicazione (ICT)

- energia

- trasporto

- acqua e impianti fognari

- riduzione della povertà

- educazione

- fuga dei cervelli

- sanità

- agricoltura

- ambiente

- cultura

- piattaforme di scienza e tecnologia

Punto fondamentale del documento della NEPAD è quello in cui si sottolinea la necessità che gli

africani negozino “una nuova relazione con i partner dello sviluppo” (intesi come paesi

industrializzati e organizzazioni multilaterali). Saranno, quindi, mantenute le partnership precedenti

(sono citate in tal senso la Nuova Agenda delle Nazioni Unite per lo Sviluppo in Africa negli anni

’90; il Piano d’Azione del Summit Africa-Europa; la Partnership strategica con l’Africa della Banca

Mondiale; i cd. Poverty Reduction Strategy Papers-PRSPs, del Fondo Monetario Internazionale;

l’Agenda per l’Azione del Giappone; l’Atto di Crescita ed Opportunità per l’Africa / African

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Page 69: Storia dell'Africa

Growth Opportunity Act-AGOA degli Stati Uniti; il Global Compact dell’Economic Commission

for Africa delle Nazioni Unite) ma ad esse viene dato nuovo respiro e nuova profondità. Il

documento è chiaro: “L’appello è per una nuova relazione che prenda come punto di partenza i

programmi del paese. La nuova relazione dovrebbe disporre obiettivi di performance e standard

mutualmente concordati, sia per i donatori che per i beneficiari. Molti casi dimostrano

chiaramente che il fallimento dei progetti non è causato solo da una debole performance dei

beneficiari, ma anche da cattivi consigli forniti dai donatori”.

Se questa è la struttura della NEPAD, è importante mettere in luce i principi che la guidano. Essi

sono riassumibili in:

- ownership, intesa quale presa di coscienza e di responsabilità dei popoli africani;

- partnership con gli attori/donatori stranieri;

- partnership tra i protagonisti africani;

- ancoraggio dello sviluppo del continente alle risorse locali;

- accelerazione dell’integrazione regionale e continentale;

- promozione della competitività;

- promozione del cambiamento del rapporto con il mondo occidentale sviluppato;

- good governance come requisito base per la pace, la sicurezza, lo sviluppo politico e socio-

economico sostenibili.

Ciò sta ad indicare che gli africani propongono un piano basato sul riconoscimento delle proprie

responsabilità, su una diversa logica di partnership, sulla volontà di cambiare rapporto con il mondo

sviluppato, sulla consapevolezza che solo un sistema di buon governo può essere la base per la

pace, la sicurezza, lo sviluppo politico e socio-economico sostenibili nel tempo.

E’ chiaro che un programma così ambizioso ha bisogno di alcuni partner, disposti a finanziare

determinate iniziative ed accompagnare la rinascita continentale. Tra i partner della NEPAD si

segnalano:

-la UN Economic Commission for Africa (UNECA)

-l‘African Development Bank (ADB)

- la Development Bank of Southern Africa (DBSA)

- l’Investment Climate Facility (ICF)

- l’Office of the UN Special Adviser on Africa (OSAA)

- l’Institute for Security Studies (ISS, noto centro di ricerca sudafricano fondato nel 1991 che

promuove ricerche ed analisi nel settore della Human Security)

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Page 70: Storia dell'Africa

- il World Food Programme (WFP)

- la Food and Agriculture Organization (FAO)

- l’AfricaFertilizer.org (forum telematico globale creato per promuovere uno scambio di

informazioni su vari aspetti dei fertilizzanti, sulla fertilità del suolo e le questioni agricole che hanno

un impatto sull’Africa; l’obiettivo è quello di utilizzare le informazioni per promuovere la cd.

“rivoluzione verde” di cui hanno bisogno centinaia di milioni di piccoli coltivatori)

- il Council on Health Research for Development (COHRED, organizzazione non governativa, il

cui obiettivo principale è quello di rafforzare la ricerca per la sanità ed i sistemi di innovazione, con

una particolare attenzione sui paesi a basso/medio reddito)

- la Global Alliance for Improved Nutrition

- il Forum for Agricultural Research for Africa (FARA, organizzazione sotto cui si riuniscono

molteplici soggetti specializzati nel settore agricolo, che promuove ricerca e sviluppo)

- il Department of International Development del governo del Regno Unito

- l’Africa Renewal Online (sito promosso dalla sezione africana del Dipartimento di Pubblica

Informazione delle Nazioni Unite, che propone aggiornamenti ed analisi circa le questioni con cui si

confronta il continente)

- lo United Nations Development Programme (UNDP)

Dal quadro presentato sopra, emerge chiaramente che le aree del NEPAD riguardano:

- l’agricoltura e la sicurezza alimentare

- il cambiamento climatico ed il management delle risorse

- l’integrazione regionale e le infrastrutture

- lo sviluppo umano

- la governance economica e la cd “Corporate governance”

- questioni trasversali (Genere, ICT, etc…)

Ma come ha lavorato concretamente in questi anni la NEPAD? Per quanto attiene i programmi

lanciati nel suo ambito, si ricordano:

- il Comprehensive Africa Agriculture Development Programme (CAADP), per lanciare una

“rivoluzione verde” nel settore agricolo

- il Programma Scienza e Tecnologia

- il Pan African Infrastructure Development Fund (PAIDF) per finanziare grandi progetti

infrastrutturali

- il NEPAD E-School Programme, lanciato nel 2003 per assicurare nell’arco di 10 anni computer e

accesso ad internet alle scuole primarie e secondarie

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Page 71: Storia dell'Africa

L’Agenzia NEPAD

Nel corso degli anni, i responsabili africani hanno cercato di apportare alcuni cambiamenti nel

rapporto tra NEPAD e Unione Africana, che permettessero un funzionamento più efficace. In

occasione della 14ma Assemblea dell’Unione Africa ad Addis Abeba (febbraio 2010) è stato deciso

di integrare la NEPAD all’interno dell’organizzazione continentale nonché di sostituire il

Segretariato della NEPAD con una vera e propria Agenzia (NEPAD Planning and Coordinating

Agency, NPCA). Obiettivo di tale scelta è stato quello di facilitare e coordinare l’implementazione

dei programmi continentali e regionali, i singoli progetti, oltre che mobilitare più concretamente

risorse e partners

La struttura della suddetta Agenzia prevede l’ufficio del Chief Executive Officer (CEO) e di 5

Direzioni (Direzione per la Strategia e Pianificazione; Direzione per lo Sviluppo del Programma;

Direzione per il Coordinamento e l’implementazione del Programma; Direzione per la

Comunicazione, la Partnership, la Mobilitazione delle Risorse; Direzione per i cd “Corporate

Services” che supportano concretamente il funzionamento della struttura)

La NPCA è chiamata a fare un lavoro di sensibilizzazione del basso-medio ceto sociale così da

ottenere un supporto di base alla NEPAD; a lavorare attivamente con i diversi finanziatori nello

sviluppo delle iniziative, ad ottimizzare le risorse, a rafforzare le partnership esistenti e crearne delle

nuove.

All’iniziale euforia sono seguite le prime difficoltà, dovute al reperimento di fondi (64 miliardi di

US$ all’anno), alla capacità di identificare progetti validi, al coinvolgimento della società civile e

alla presentazione/visibilità del programma.

I supporter, tra cui Wiseman Nkuhlu (presidente del comitato pilota della NEPAD e consigliere

economico dell’ex Presidente sudafricano Thabo Mbeki nel 2000-2004) hanno fatto notare

inizialmente che i risultati non si sarebbero potuti vedere subito ma sul lungo periodo.

Il sociologo sudafricano Jimi Adésinà ha dichiarato che la “NEPAD è un documento guidato da una

lettura squisitamente sudafricana delle sfide di sviluppo che l’Africa deve affrontare” ed ha messo

in luce il ruolo svolto dall’ex Presidente sudafricano Thabo Mbeki.

Alcuni critici hanno identificato la NEPAD come un qualcosa di vecchio messo in un nuovo

contenitore, vale a dire una sostanza già conosciuta organizzata con sembianze nuove.

L’analista economica Dot Keet (South Africa's Alternative information and development centre e

Centre for Southern African Studies all’ Università di Western Cape) ha riscontrato due debolezze

fondamentali nella NEPAD: c’è una grande insistenza sull’importanza di creare un contesto adatto

agli investimenti stranieri, a cui però non corrisponde una riflessione adeguata sui meccanismi da

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Page 72: Storia dell'Africa

attivare per proteggere le popolazioni locali da conseguenze negative derivanti da operazioni

finanziarie straniere; c’è una grande valorizzazione della liberalizzazione del commercio, ma non si

pensa che essa ha causato deindustrializzazione, declino economico e crisi sociale africana.

Oltre a questi punti di vista specifici più o meno a sostegno della NEPAD, si può dire che le critiche

si sono incentrate su uno scetticismo da parte della società civile e su una sua mancanza di

partecipazione nella fase iniziale; sulle critiche per la mancanza di fondi; sui giudizi negativi di

alcuni leader per lo sperpero di risorse; sulla mancata visibilità dell’iniziativa e problemi del sito a

fornire informazioni in modo puntuale.

African Peer Review Mechanism (APRM)

Una delle principali iniziative intraprese nell’ambito della NEPAD è stata la creazione dell’ African

Peer Review Mechanism (APRM), programma adottato su base volontaria dai vari membri

dell’Unione Africa, per promuovere e rafforzare alti standard di governance, fortemente voluto

come meccanismo di automonitoraggio.

L’APRM riconosce che il controllo esterno, se esercitato da altri paesi africani in un’ottica di

reciprocità, può dare impulso positivo ed indurre le classi dirigenti ad un comportamento virtuoso.

Il sistema è complesso e ben congeniato, con obiettivi chiari ed inequivocabili: aiutare i paesi

membri a migliorare la propria governance.

L’APRM è guidato dall’APRM Forum costituito dai Capi di Stato e di Governo dei paesi che

volontariamente si sono sottoposti al sistema.

Il Forum è supportato da un Panel di illustri personalità, da un Segretariato tecnico, da un Team

addetto alla Revisione del paese sottoposto all’esame.

Il processo di APRM prende in considerazione quattro aree:

- democrazia e good governance politica

- gestione economica

- corporate governance

- sviluppo socio-economico.

Viene prodotto inizialmente un rapporto nazionale di autovalutazione ed un programma di azione

che si basa su un questionario che prende in considerazione i 4 temi suddetti; i documenti sono

trasmessi al Segretariato tecnico; il Team di esperti visita il Paese di riferimento ed incontra alcuni

stakeholder nazionali per verificare il consenso nazionale sul rapporto di autovalutazione,

confrontandosi con diversi interlocutori. Viene quindi preparata una relazione trasmessa al Forum,

insieme al documento di autovalutazione.

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Page 73: Storia dell'Africa

A livello nazionale, vi sono poi Focal Point (stabiliti subito dopo che il Paese aderisce al

Meccanismo, responsabili per la gestione del processo e per aggiornare i Capi dello stato circa i

progressi nazionali nelle materie oggetto di esame); una Commissione Nazionale (incaricata di

indicare una linea di direzione per l’implementazione dell’APRM); un Segretariato Nazionale

dell’APRM (che fornisce supporto tecnico-amministrativo alla Commissione Nazionale); Istituzioni

di ricerca tecnica (che assumono la responsabilità per eseguire il questionario APRM).

Al momento hanno aderito all’APRM 31 Stati (tra cui Angola, Cameroon, Egitto,Etiopia, Gabon,

Liberia Mali, Malawi , Mozambico, Nigeria, Rwanda, Senegal, Sudan, Sud Africa, Tanzania, Togo,

Uganda, Zambia).

Tra il gennaio 2006 ed il gennaio 2011, 14 stati si sono sottoposti al controllo (tra cui: Ghana,

Kenya, Sud Africa, Uganda, Mali, Mozambico)

Pur non mancando difficoltà nell’applicazione dell’APRM, tuttavia è positivo il fatto che alcuni

governi abbiano accettato di sottoporsi a tale meccanismo, incentivati soprattutto dalla possibilità di

avere un’immagine esterna rispettabile, funzionale all’ottenimento di maggiori aiuti internazionali.

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Page 74: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 14“AFRICAN STANDBY FORCE”

La prevenzione, la gestione, la risoluzione dei conflitti, il post-conflict management sono alcuni dei

principi cui si è ispirata l’Unione Africana (UA) per organizzare la sua ristrutturazione interna dopo

il 2001. Tali elementi sono stati infatti ritenuti fondamentali per trainare lo sviluppo e la “rinascita”

del continente nel nuovo millennio.

Somalia, Sudan, Rwanda, Repubblica Democratica del Congo e Angola sono stati tragici

insegnamenti dell’ultimo trentennio che hanno evidenziato alcuni dati: le debolezze intrinseche

africane e le velleità del periodo post indipendenza; il peso continuo nelle singole dinamiche

nazionali di ingerenze esterne (sia occidentali che regionali); la porosità e fluidità dei confini;

l’incapacità di reagire con i propri mezzi a scontri violenti tra gruppi, tramutatisi spesso in

sanguinose guerre civili e pulizie etniche. A ciò si aggiunga che la presenza di missioni ONU in

territorio africano (vd la Mission des Nations Unies pour le Referendoum dans le Sahara

Occidentale-MINURSO, Mission de l' Organisation des Nations Unies en République démocratique

du Congo-MONUC, United Nations Mission in Ethiopia and Eritrea -UNMEE) non ha fornito del

resto un serio contributo al ristabilimento della pace, sia per debolezza del mandato, sia per la

composizione delle truppe (accusate di collusione con potentati locali e di violenze fisiche sulla

popolazione locale), arrecando spesso profondi danni al ristabilimento del dialogo tra le parti

belligeranti.

Per tali motivi si è sentita la necessità di prospettare delle strutture da utilizzare come “argine”, con

una capacità di “drenaggio”, impedendo il più possibile il ripetersi di atti di ferocia indiscriminata.

E’ su tali premesse che negli ultimi anni sono state proposte diverse iniziative all’interno e a

supporto dell’UA, quali la creazione di un responsabile per la Pace e la Sicurezza all’interno della

Commissione (organo trainante dell’organizzazione panafricana), il varo di un Consiglio per la

Pace e la Sicurezza coadiuvato da un Comitato dei Saggi (di recente creazione quest’ultimo), un

Comitato degli Stati Maggiori Africani Riuniti, la promozione di una mirata Architettura di pace e

sicurezza Africana (APSA), il lancio di una Forza Panafricana in attesa (African Standby Force

con la dizione inglese, e Force Africaine en Attente nella corrispettiva versione francese).

In tale sede interessa soffermarsi su quest’ultima iniziativa, African Standby Force, il cosiddetto

gruppo continentale di “peacekeepers permanenti”, che potrebbero essere chiamati ad agire

rapidamente (a seconda dei casi entro 30 o 14 giorni dall’avviso) per arginare crisi e violenze,

prevista inizialmente per il 2010.

Per quanto riguarda la dimensione, si parla di circa 25.000 uomini, suddivisi in cinque brigate

regionali (EASBRIG-East Africa Standby Brigade, SADCBRIG – Southern Africa Stanby Brigade,

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Page 75: Storia dell'Africa

NASBRIG-North Africa Regional Standby Brigade, ECOBRIG- Ecowas Standby

Brigade/WESTBRIG, CASBRIG Central Africa Stanby Brigade), più o meno corrispondenti alle

cinque maggiori comunità economiche regionali. Ognuna di esse sarebbe quindi chiamata a fornire

un numero di soldati, di poliziotti e di personale civile specializzato, pronti ad operare in teatri

particolarmente difficili, in cui si sonno sviluppate dinamiche conflittuali.

Per quanto concerne i compiti sono stati individuati sei possibili scenari: 1. avviso militare

UA/regionale per una missione politica; 2.missione di osservazione regionale ambito UA/regionale

schierata con una missione delle Nazioni Unite; 3.missione di osservazione autonoma

UA/regionale; 4. forza di mantenimento della pace dell’UA/regionale in virtù del capitolo VI delle

Nazioni Unite e missioni di dispiegamento preventivo (e consolidamento della pace); 5.forza di

mantenimento della pace dell’UA per missioni di mantenimento della pace multidimensionali

complesse; 6.intervento dell’UA in caso di genocidio o in situazioni in cui la Comunità

Internazionale non interviene rapidamente.

Per i primi quattro scenari si prevede un dispiegamento entro 30 giorni dal mandato UA, per la

quinta missione un dispiegamento integrale della Forza entro 90 giorni con la componente militare

pronta entro 30 giorni, mentre per l’ultimo scenario si ipotizza un dispiegamento degli uomini entro

14 giorni.

Ad oggi tutto il progetto è in fieri e l’unico avanzamento in quella che si potrebbe chiamare una

“lungimirante iniziativa” è stata la nomina del Generale Sekouba Konaté come “High

Representative of the African Union for the Operationalization of the African Standby Force” nel

dicembre 2010. L’incarico è stato dato al noto Generale della Guinea Conakry in un momento

cruciale della formazione della Forza speciale, in cui sono state già affrontate le prime due tappe per

la formazione delle brigate e per l’adozione dei documenti di base ma resta l’ultima parte da

completare. Per il periodo 2011-2015 è stato previsto il coordinamento dei vari soggetti, la

mobilitazione del supporto politico/finanziario/logistico per rendere operativa l’ASF.

Sin dal 2006-2007 sono emerse numerose perplessità ad un primo esame del progetto. E’ stato

chiaro da subito che non c’era la minima omogeneità di standard tra le truppe, né era ipoteticamente

raggiungibile nel breve periodo, la qual cosa avrebbe potuto richiedere grandi sforzi (in termini di

costi, di organizzazione e di operatività nel breve periodo) per la creazione effettiva di una forza

multinazionale; l’ipotesi del sesto scenario (intervento in caso di genocidio) richiedeva e richiede

una expertise molto dettagliata e particolare, di differente levatura e preparazione rispetto a quella

utile negli altri casi; il Marocco era ed è ancora al di fuori dall’iniziativa (non facendo parte

dell’Unione Africana a causa del riconoscimento concesso dall’Organizzazione alla Saharaui Arab

Democratic Republic); alcuni Paesi-membri sovrapponevano e sovrappongono la loro

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Page 76: Storia dell'Africa

partecipazione a due brigate (vedasi il caso dell’Angola e della Repubblica Democratica del Congo

entrambi nella CASBRIG e SADCBRIG); l’Egitto, pur non facendo parte dell’Unione del Maghreb

Arabo ha partecipato in questi anni alla brigata dell’Africa del Nord; non tutte le brigate hanno

potuto disporre di centri di eccellenza qualificati e già funzionanti come nel caso dalla SADCBRIG

(che ha potuto utilizzare il segretariato della SADC a Gaborone). Altra incertezza ha poi riguardato

il numero dei componenti della forza, insufficienti rispetto alla tipologia del territorio africano, la

porosità dei suoi confini e la sua geografia.

Non indifferente è stata e resta la questione dei costi, non essendo chiaro chi dovrebbe sopportare

l’intero onere (i singoli paesi, l’Unione Africana o un fondo ad hoc dei Paesi Occidentali).

Per quanto riguarda l’obiettivo finale, dietro l’iniziativa che riguarda un’ambiziosa operazione

militare c’è la reale volontà politica di tutto il continente. Non è chiaro tuttavia se l’Africa – o

meglio l’Unione Africana- sia pronta ad agire con uguali pesi e misure in tutte le sue aree. In tal

senso gli avvenimenti del 2011 (la logica “dei due pesi e delle due misure” applicata dall’UA nei

confronti delle crisi libica e ivoriana) negherebbero tale possibilità.

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Page 77: Storia dell'Africa

Terzo ModuloL’AFRICA NELLA POLITICA INTERNAZIONALE

� I rapporti Unione Africana-Unione Europea

� I rapporti Africa-Cina

� I rapporti Africa-India

� I rapporti Africa-Giappone

� I rapporti Africa-Iran

� I rapporti Africa-Turchia

� I rapporti Africa-USA

� I rapporti Africa-Regno Unito

� I rapporti Africa-Francia

� I rapporti Africa-America Latina

� I rapporti Africa-Russia

� I rapporti Africa-Israele

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Page 78: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 15-16“I RAPPORTI AFRICA-UNIONE EUROPEA”

Il rapporto Africa-Europa si presenta come un quadro frammentato, caratterizzato da una vicinanza

geografica, da complesse relazioni bilaterali post-coloniali e da interessi commerciali non sempre

convergenti.

Da un lato un continente frazionato dalla geografia (l’area a nord e quella sub-sahariana

rappresentano due mondi completamente diversi) e dalla storia (la presenza straniera ha inciso

notevolmente sulla divisione dei confini naturali) che con difficoltà ha costruito un percorso

unitario dalle ceneri delle indipendenze; dall’altro una potenza economica mondiale, che si è

costruita a partire da un decennio dal termine della seconda guerra mondiale, coagulando le forze

inizialmente di sei paesi fondatori (Italia, Francia, Germania, Lussemburgo, Belgio, Paesi Bassi),

ampliandosi nei decenni successivi a nord e a sud, quindi ad est dopo un quarantennio, sempre più

costretta a guardare oltre il Mediterraneo per garantire la sua sicurezza e il suo benessere.

Gli articoli 131-136 del trattato istitutivo della CEE nel 1957 sono alla base dei rapporti tra le due

entità. In particolare l’art. 131 recita:

“Gli Stati membri convengono di associare alla Comunità i paesi e i territori non europei che mantengono con il Belgio, la Francia, l’Italia e i paesi Bassi delle relazioni particolari. Questi paesi e territori, qui di seguito chiamati “paesi e territori”, sono enumerati nell’elenco che costituisce l’allegato IV del presente Trattato.Scopo dell’Associazione è di promuovere lo sviluppo economico e sociale dei paesi e territori e l’instaurazione di strette relazioni economiche tra essi e la comunità nel suo insieme.Conformemente ai principi enunciati nel preambolo del presente Trattato, l’associazione deve in primo luogo permettere di favorire gli interessi degli abitanti di questi paesi e territori e la loro prosperità in modo da condurli allo sviluppo economico, sociale e culturale che essi attendono”.

Facendo un percorso a ritroso nel tempo, una prima divisione sommaria e semplificatrice permette

di identificare i canali attraverso cui si è sviluppato il legame Africa-Europa:

- per quanto concerne i rapporti con i paesi nordafricani, il rapporto privilegiato strettamente

bilaterale è stato “messo a sistema” negli anni ’90 con la creazione del gruppo 5+5 (Francia, Italia,

Malta, Portogallo, Spagna per la parte europea e Algeria, Libia, Mauritania, Marocco, Tunisia per

la parte africana) ma soprattutto con il varo del processo partenariale di Barcellona (novembre

1995), finalizzato alla costruzione di un’area euro-mediterranea, comprensiva per quanto riguarda

l’oggetto del presente studio dei paesi maghrebini del nord Africa oltre che di quelli della sponda

orientale del Mashreq. La proposta francese dell’Unione per il Mediterraneo (luglio 2008) più che

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Page 79: Storia dell'Africa

facilitare ha ostacolato nei fatti il processo di raccordo tra le due sponde. L’acuirsi della crisi

mediorientale (2009-2011) nonchè la “primavera araba” del 2011 hanno comportato nell’ultimo

anno il congelamento delle iniziative Europa-Nord Africa.

- per quanto attiene i paesi sub-sahariani, l’Europa ha creato con essi un rapporto ad hoc.

Dapprima con la convenzione di Yaoundè (20 luglio 1963) aperta a 18 ex colonie cui venivano

offerte condizioni privilegiate; successivamente attraverso le quattro convenzioni di Lomé (1975,

1980, 1985, 1990) , e l’Accordo di Cotonou ( giugno 2000). Nel 1975 tutti i paesi africani vengono

inclusi nel gruppo degli ACP (Africa, Caraibi e Pacifico);

- per quanto riguarda il Sud Africa (considerato il colosso della regione australe ed un

protagonista indiscusso della scena continentale), l’Europa ha avuto un rapporto parallelo con tale

attore, concretizzatosi con il Trade and Development Agreement (firmato nel 1999 ed entrato in

vigore nel 2004), poi sfociato nella EU-South Africa Strategy nel 2007.

All’andamento tortuoso del rapporto con i paesi africani ha certamente contribuito la caduta del

muro di Berlino ed il crollo dell’impero sovietico con i suoi satelliti. Considerati un tempo dei

territori di retrovia, in cui si confrontavano indirettamente le forze del mondo occidentale e quelle

del blocco comunista orientale, nel periodo successivo al termine della Guerra Fredda i paesi

africani hanno perso valore aggiunto e sono stati abbandonati al loro destino. Il nuovo millennio,

con gli attentati alle Torri Gemelle, con l’economia globalizzata, la crisi dei rapporti tra mondo

occidentale e mondo islamico, li ha riportati drammaticamente alla ribalta. La “primavera araba”

del 2011 ha obbligato i partner europei a rivedere vecchie alleanze e a riflettere sui supporti dati ai

leader al potere negli ultimi 30 anni.

L’Africa oggi è un continente con cui l’Europa deve necessariamente costruire un percorso

congiunto, sia per motivi di sicurezza, sia per motivi strettamente economici, sia per esigenze

industriali.

A livello concettuale le relazioni sono variate nel tempo e si sono diversificate. Non si parla solo in

un’ottica di cooperazione allo sviluppo e di commercio: ora si lavora su un rapporto partenariale

con obblighi e responsabilità reciproche. Viene meno così il vecchio paternalismo dell’Europa

verso l’Africa.

Quello che è diventato chiaro è che non si può pensare a mantenere una posizione centrale europea

senza considerare le esigenze dell’Africa (da considerare un importante partner economico, ricco

di risorse energetiche, con cui vincere sfide globali), ma che d’altra parte non si può garantire lo

sviluppo di questo continente senza garantire il rispetto della legge, dei diritti umani e dei principi

che attengono alla good governance.

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Page 80: Storia dell'Africa

I vertice euro-africano (Il Cairo, 3-4 aprile 2000)

Il 2000 è stato indubbiamente l’anno di passaggio fondamentale nell’evoluzione dei rapporti

Africa-Europa, non tanto per riscontri concreti immediati quanto per il tipo di discorsi che si sono

iniziati a fare in quel periodo e per le dinamiche che si sono innescate a livello governativo e non.

In quello che è definito “black continent”, nel 2000 si fa strada il concetto di ownership, vale a dire

la presa di coscienza africana delle responsabilità locali, si pensa ormai al passaggio dall’OUA ad

una nuova struttura su modello della costruzione europea, capace di superare gli errori del passato

e di valorizzare i singoli apporti regionali, si raccolgono i frutti del vertice di Sirte del 1999

(fortemente voluto da Gheddafi) che punta alla costruzione degli Stati Uniti d’Africa.

Parallelamente nello stesso periodo, l’Europa si consolida e porta a frutto –faticosamente- i

processi per l’ampliamento ad est.

Al Cairo, il 3-4 aprile 2000 si incontrano per la prima volta i leaders di 52 paesi a sud del

Mediterraneo e quelli di 15 Stati membri europei. Gli argomenti da discutere sono numerosi, il

summit è di grande rilevanza mediatica ma al termine dei lavori appare come una kermesse per le

esternazioni dei soliti protagonisti e ancora una volta sono predominanti i vincoli dei legami

bilaterali.

Molto probabilmente l’evento soffre della mancanza di volontà di affrontare frontalmente i

problemi e dell’eccessivo tentativo di blandire il leader libico Gheddafi, tornato come protagonista

attivo sulla scena internazionale dopo lo sdoganamento dell’Aprile 1999. Il presidente della

Commissione europea, Romano Prodi, insiste nel dire che “il dialogo con la grande Giamahiria

libica deve essere più di un confronto” ed i leader europei inseguono il Colonnello per far

includere le compagnie petrolifere dei loro paesi nell’assegnazione delle commesse relative al

petrolio e gas libici.

Di fatto non si affrontano in modo risolutivo i veri nodi del rapporto, quali il peso del debito, la

debolezza degli investimenti esteri nel continente africano, rinviando a sedi appropriate la

discussione di tali tematiche.

I due documenti finali prodotti al termine dei lavori (Dichiarazione e Piano d’Azione) sono

retorici, fanno una foto della realtà ma non hanno la forza di proiettare lo sguardo verso il futuro e

se lo fanno vengono traditi dalle scelte politiche e da fattori contingenti degli anni a venire (il

riferimento è indubbiamente al terremoto prodotto nelle relazioni internazionali dall’11 settembre

2001).

Per quanto riguarda la Dichiarazione , si articola in una introduzione e 5 parti inerenti alla:

- cooperazione e integrazione economiche a livello regionale;

- integrazione dell’Africa nell’economia mondiale;

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Page 81: Storia dell'Africa

- diritti dell’uomo, principi e istituzioni democratici, buon governo e stato di diritto;

- consolidamento della pace, prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti;

- questioni relative allo sviluppo.

Il Piano d’Azione si sviluppa con un preambolo seguito da 6 capitoli:

- questioni economiche;

- integrazione dell’Africa nell’economia mondiale;

- diritti dell’uomo, principi ed istituzioni democratici, buon governo e stato di diritto;

- consolidamento della pace, prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti;

- questioni relative allo sviluppo

- meccanismo dei seguiti.

La retorica regna sovrana, laddove le parti si impegnano ad esempio “a rafforzare il sostegno al

processo di cooperazione e integrazioni regionali in Africa”, oppure “a favorire i programmi di

integrazione volti ad aumentare l’efficienza mediante l’eliminazione degli ostacoli agli scambi,

agli investimenti ed ai pagamenti transfrontalieri nonché a conseguire uno spazio economico

armonizzato” (punto 2. Piano d’Azione).

Si cerca di dare una nuova dimensione strategica alla partnership tra Africa e Europa in uno spirito

di uguaglianza, rispetto e cooperazione ma le intenzioni formali si arenano di fronte ai primi

ostacoli. Segno più evidente è lo slittamento dell’incontro dei capi di stato e di governo dal 2003 al

2007.

Obiettivi lodevoli quelli cui si fa riferimento ma non concreti. A chi attribuire la responsabilità di

ciò? Certamente ad entrambe le parti. I leader europei accusano il malfunzionamento dei sistemi

africani e puntano il dito sulla corruzione endemica senza pensare che essi stessi sono spesso

chiamati in causa in questo gioco alla dispersione delle risorse, a loro volta gli omologhi africani

continuano a chiedere soldi imputando i malesseri continentali agli effetti di catastrofi naturali o a

vecchi sfruttamenti, non pensando invece alla responsabilità della classe dirigente nella sottrazione

dei fondi pubblici destinati alla spesa sociale.

II vertice euro-africano (Lisbona 8-9 dicembre 2007)

L’incontro di Lisbona (8-9 dicembre 2007) rappresenta sia un punto di arrivo che di avvio. Di

arrivo poiché si situa all’interno di un percorso e ne è la tappa finale, di avvio perché inaugura

veramente una nuova era nei rapporti Europa-Africa.

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Page 82: Storia dell'Africa

Gli anni che separano la conferenza portoghese da quella egiziana dell’aprile 2000 sono stati densi

di avvenimenti per entrambi i protagonisti: nel 2001 c’è stato il varo del Nepad (New Partnership

for African Development); nel 2002 i leader africani hanno inaugurato l’Unione Africana, le

organizzazioni regionali hanno acquistato una loro identità e un ruolo specifico nella mediazione di

alcuni conflitti regionali (in particolare l’ECOWAS); il Summit G8 di Kananaskis ha adottato

l’Africa Action Plan; nel febbraio 2004 è stata lanciata la Commissione Blair per l’Africa, che ha

prodotto un documento e lo ha reso noto nel marzo 2005; il G8 di Gleneagles del luglio 2005 ha

confermato l’impegno per il continente africano, garantendo la duplicazione dell’aiuto per il 2010,

la cancellazione del debito di 18 paesi più poveri nel mondo (di cui buona parte sono africani) ed

identificando l’African Partnership Forum come soggetto responsabile per monitorare il rispetto

degli impegni assunti; l’UE ha adottato nel dicembre 2005 una strategia specifica per l’Africa nel

maggio 2006 c’è stato il 6° meeting EU-Africa Ministerial Troika a Vienna e ad Addis Abeba

nell’ottobre successivo il meeting delle due Commissioni per monitorare l’evoluzione del processo

in atto. Tutte queste sono tappe determinanti per passare ad un vero rapporto tra partners di uguale

spessore, per superare una “logica top-down” (dall’alto verso il basso) e concordare ad una cd.

“joint strategy” (strategia congiunta).

Il vertice di Lisbona è una pietra miliare, un momento storico da cui si dipana un processo che

richiede trasparenza ed impegno da entrambe le parti, una nuova logica per affrontare sfide

transfrontaliere.

Per la prima volta si incontrano protagonisti di pari livello; l’Africa viene tratta come un

interlocutore unico e si presenta come tale; si fissano 8 settori tematici su cui lavorare

congiuntamente (pace e sicurezza; governance democratica e human rights; commercio,

integrazione regionale e infrastrutture; Millennium Development Goals; energia; climate change;

migrazione, mobilità, occupazione; scienza, società dell’informazione e spazio), al di là del solito

tema “aid and development”; viene presentato un Action Plan 2008-2010 con azioni prioritarie per

ogni singola area; vengono coinvolti anche attori non statali (attori economici del settore privato,

società civile, fondazioni, associazioni e agenzie specifiche, istituti di ricerca, uffici tecnici), con

un ruolo propositivo.

Gli africani si impegnano a superare la logica del vittimismo e della colpevolizzazione, a

identificare seriamente bisogni e a predisporre le forze in campo, lasciano alle spalle un

atteggiamento passivo e si pongono come partner reattivo e propulsivo; gli europei passano da una

logica di aiuto a pioggia ad un “lavoro con”.

Entrambe le parti sono consapevoli delle esperienze passate e consce della necessità di un nuovo

approccio programmatico, richiesto dalle sfide del mondo globalizzato.

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Page 83: Storia dell'Africa

Oltre a questo approccio programmatico e alla consapevolezza, emerge chiaramente la volontà di

una shared vision (vale a dire una visione condivisa).

Il punto 4 della Joint Strategy è chiaro al riguardo:

“The purpose of this Joint Strategy is to take the Africa-EU relationship to a new, strategic level with a strengthened political partnership and enhanced cooperation at all levels. The partnership will be based on a Euro-African consensus on values, common interests and common strategic objectives. This partnership should strive to bridge the development divide between Africa and Europe through the strengthening of economic cooperation and the promotion of sustainable development in both continents, living side by side in peace, security, prosperity, solidarity and human dignity”.

Quello che ruota all’esterno –la polemica relativa a Mugabe e Bashir, l’atteggiamento di rifiuto di

Gordon Brown nei confronti di Mugabe, gli annunci clamorosi di Gheddafi- ha poca importanza.

Per la prima volta si mette su carta un impegno ad andare oltre le barriere storiche, a dare un nuovo

impulso ad una relazione da sempre difficile, a rafforzare il dialogo ed indirizzarlo su un percorso

preciso. L’impegno preso comporta la volontà di fare fronte insieme a rischi comuni (terrorismo,

criminalità organizzata, traffico di esseri umani, pandemie), a raggiungere “common goals” (quali

sviluppo, stabilità e sicurezza), ad agire congiuntamente in molteplici settori (dall’ICT allo spazio,

dai diritti umani al cambiamento climatico).

L’Europa del XXImo secolo si pone in una prospettiva diversa rispetto all’Africa, consapevole

della presenza di altri players attivi nel continente (USA, Cina, Giappone, India, Malaysia,

Indonesia, Turchia), memore del fatto di essere ancora un protagonista degli interscambi

commerciali, certa di poter fornire un contributo originale nella formazione, convinta di poter

superare la logica di donor-ricevente e di poter intraprendere un percorso caratterizzato da sfide,

interessi e benefici futuri condivisibili.

III vertice euro-africano (Tripoli, 29-30 novembre 2010)

Il vertice di Tripoli (29-30 novembre 2010), focalizzato sul tema “Investimenti, crescita economica

e creazione di posti di lavoro”, porta alla luce le divergenze profonde tra i partner europei ed

africani, su temi importanti quali gli Accordi di Partneriato Economico (APE) ed il cambiamento

climatico. Anche se vengono prodotti due documenti ufficiali- una Dichiarazione Comune e un

Piano d’Azione 2011-2013- è palese l’ambiguità dei discorsi, l’incomprensione tra le parti, la

minaccia sempre pronta da parte di Gheddafi di trovare nuovi interlocutori al posto dell’Unione

Europea.

Nonostante il fatto che vengano ribaditi la determinazione dei presenti a cogliere nuove

opportunità e l’impegno per portare avanti il lavoro avviato nel 2000 al vertice del Cairo e

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Page 84: Storia dell'Africa

proseguito nel 2007 a Lisbona, manca la volontà di portare a compimento determinati progetti e di

fatto manca la determinazione per far avanzare un dialogo concreto. Il riferimento agli sforzi

concertati per mettere fino al conflitto in Somalia o alla cooperazione Unione Europea-Unione

Africana in ambito G20 ed Nazioni Unite sono pure formalità che rispondono ad un’esigenza degli

organizzatori, ma non di certo ai problemi concreti tra i due gruppi.

Lo stesso escamotage utilizzato per l’assenza di Omar El Bashir nei due giorni del Summit

(ritenuta inopportuna per il mandato d’arresto della Corte Internazionale di Giustizia, per crimini

di guerra e contro l’umanità in Darfur), e la sua successiva partecipazione alla riunione del

Consiglio di Pace e Sicurezza dell’Unione Africana alla fine dei lavori con gli europei, indica il

tentativo dei leader africani di continuare un loro percorso parallelo e di voler continuare a

proteggere -oltre l’evidenza- uomini simbolo per la storia africana (come ad es. El Bashir o

Mugabe) ma colpevoli di atti violenti e genocidi ari.

I problemi concreti, come ad es. il confronto franco sulle politiche migratorie o il lavoro per i

giovani, restano marginali; altri ancora come il traffico di stupefacenti non vengono neppure messi

sul tavolo delle discussioni. Si preferisce piuttosto condannare “qualsiasi cambiamento

incostituzionale di governo” ma non fare riferimento a questioni concrete.

Di fatto, al Summit prevalgono le pretese retoriche di Gheddafi (spesso confuse e disordinate, non

sempre condivise dagli altri partner africani come il Botswana) e non le linee di accorti “artigiani”

quale potrebbe dirsi Jean Ping (presidente della Commissione dell’Unione Africana, attento

diplomatico e uomo estremamente pragmatico), secondo il quale “nell’era della connessione

inestricabile delle economie nazionali, l’Africa resta determinata a consolidare con l’Europa

un’alleanza strategica”

Il bilancio del Summit è ambiguo, di certo insufficiente per affrontare le sfide che si pongono di

fronte ad Unione Africana ed Unione Europea nel settore lavoro, investimenti, economia e

sicurezza.

Più della Dichiarazione, risulta di qualche interesse il Piano d’Azione 2011-2013. Riconoscendo le

interdipendenze tra le due aree ed il lavoro promosso nel 2007 con la EU-Africa Joint Strategy, il

Piano focalizza l’attenzione sul funzionamento delle seguenti partnership:

- Pace e sicurezza

- Governance democratica e diritti umani

- Integrazione regionale, commercio e infrastrutture

- Millennium Development Goals (MDGs)

- Energia

- Cambiamento climatico e Ambiente

84

Page 85: Storia dell'Africa

- Migrazione, Mobilità ed Impiego

- Scienza, Società dell’Informazione e Spazio

Per quanto attiene le Politiche Migratorie vengono fatte affermazioni classiche ma poco

sostanziali, quali ad es.

“The Africa-EU Partnership on Migration, Mobility and Employment aims to provide

comprehensive responses to migration and employment challenges, in the interest of all

partners, and with a particular focus on creating more and better jobs for Africa, on

facilitating mobility and free movement of people in Africa and the EU, on better

managing legal migration between the two continents, on addressing the root causes of

migration and refugee flows, on the conditions of and access to employment, on the fair

treatment of all migrants under applicable international law, on finding concrete

solutions to problems posed by irregular migration flows and trafficking of human

beings and to ensure that migration and mobility work for development. All these

orientations should be addressed in a balanced and comprehensive way. These

objectives were already set out in the Action plan 2008-2010 and will continue to steer

this Partnership, also in the Action plan 2011-2013.(…)

(…) The new action plan will have two main strands: (1) enhancing dialogue, and (2)

identifying and implementing concrete actions, both of them encompassing the inter-

regional continental and intercontinental dimension of the partnership. The major

challenge for the period 2011-2013 will be to further strengthen and enrich the

political and policy dialogue on migration, mobility and employment as well as tertiary

education issues between the two continents, whilst encompassing dialogues and

cooperation taking place on national and regional levels.(…)

(…) In the area of employment, the dialogue will focus on strategies and initiatives

targeting job creation and sustainable and inclusive growth, acknowledging the role of

relevant stakeholders,including social partners and the private sector. Furthermore, the

dialogue will focus on the questions related to the implementation of the Ouagadougou

Action Plan and the global 'Decent Work Agenda' with special emphasis on the

creation of more, more productive and better jobs in Africa and the link to social

protection as well as to the informal and social economy.

Per ciò che concerne le iniziative specifiche e le attività, si rinvia a 12 proposte (tra cui:

un’iniziativa sul traffico umano, un osservatorio sulla migrazione, un’iniziativa sul mercato

del lavoro non meglio specificata, fora regionali e sub-regionali sul lavoro, un’Università

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Page 86: Storia dell'Africa

panafricana) attribuendo ad un gruppo di lavoro congiunto di monitorare l’implementazione

dell’Action Plan e valutare i risultati raggiunti.

I cambiamenti avvenuti nell’area nord africana nel 2011 inevitabilmente “indirizzeranno e forse

faciliteranno” i lavori del prossimo Summit EU-Unione Africana previsto per il 2013 in Belgio.

Tuttavia, in tale frangente, l’Europa sarà chiamata a mostrare lungimiranza politica e anche ad

accettare cambiamenti politici poco convincenti (il riferimento è ai risultati delle elezioni egiziane

e tunisine), che potrebbero creare sconcerto o mettere a rischio rapporti bilaterali preferenziali

consolidati nel tempo.

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Page 87: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 17-18-19-20

LEZIONE N. 17I RAPPORTI AFRICA-CINA (1/4)Negli ultimi anni si sono moltiplicati i contatti politici e commerciali tra il continente africano e gli

attori del’estremo oriente asiatico. Cina, India, Giappone in poco tempo hanno acquisito uno “status

preferenziale” nei rapporti con i singoli paesi e con l’intera regione nel suo insieme, in nome di una

rafforzata cooperazione Sud-Sud e di un concreto sviluppo di interessi reciproci. Ad essi si

potrebbero aggiungere anche Malaysia, Indonesia, Corea del Nord e Corea del Sud che hanno

promosso approcci ugualmente significativi anche se di minor rilievo.

Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non sono più controparti indiscutibili con cui promuovere

affari e sperimentare nuovi partenariati. I legami sempre più frequenti e qualificati con nuovi i

interlocutori dell’estremo oriente aprono oggi un ventaglio di possibilità per l’Africa, chiamata a

decidere in prima persona per il proprio futuro, a selezionare partners con cui fare affari e gettare le

basi per uno sviluppo sostenibile nel tempo.

Come si qualificano le relazioni con i players orientali? Ci sono delle differenze di approccio nelle

varie linee politiche messe in atto? Quanto può essere pericoloso il “drago cinese”? Pechino è il

protagonista capace di gestire il nuovo “scramble for Africa” del XXI secolo oppure questa è una

diceria malevola, basata sulle supposizioni di esperti eccessivamente pessimisti? Le possibilità

offerte al black continent da India e Giappone possono essere più costruttive sul lungo periodo?

Scopo delle prossime lezioni è quello di analizzare brevemente il contesto delle relazioni afro-

asiatiche ed evidenziare gli elementi salienti della suddetta cooperazione.

Cina -Africa: una reale win-win situation?

Mentre la dirigenza di Pechino promuove con insistenza la tesi di una win-win situation tra paesi in

via di sviluppo, sono in molti gli esperti che cercano di allertare le leadership africane circa il reale

rischio proveniente dall’estremo oriente circa una rinnovata forma di imperialismo nel XXI secolo.

Effettivamente sono sempre più evidenti i segnali di una costante influenza -o meglio, di una

crescente interferenza- della Cina nelle questioni locali. In cambio di cash, prestiti a basso tasso di

interesse o donazioni, il “drago” si assicura l’acquisizione di risorse energetiche essenziali per il suo

sviluppo industriale. In realtà il petrolio è solo uno dei fattori di interesse: rame, carbone, gas,

legno, alluminio, ferro, metalli preziosi sono ulteriori risorse indispensabili per proiettare in modo

vincente il competitor asiatico nell’economia globalizzata.

In quale modo è possibile spiegare e comprendere questo connubio? Dietro di esso si nasconde una

precisa strategia? Quali i protagonisti dello slancio di Pechino?

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Page 88: Storia dell'Africa

Diversi sono i fattori che accomunano i 54 partner africani ed il player orientale, fattori che

possono leggersi nel passato, nel presente e nel futuro e che concorrono a delineare un quadro ben

definito:

- esperienze coloniali che hanno indubbiamente forgiato una sensibilità comune;

- reciproco disinteresse mostrato in particolare da alcuni governanti circa il rispetto della

democrazia;

- incontro tra domanda africana e offerta cinese (il vasto spazio africano rappresenta per la

quantità e la tipologia, un mercato attraente per prodotti cinesi a basso costo e di bassa

qualità);

- necessità economiche convergenti: l’elemento energetico, disponibile in grandi quantità in

Sudan, Angola, Gabon e Nigeria rende questi paesi particolarmente attraenti agli occhi di

Pechino, o meglio delle compagnie petrolifere come la China National Petroleum

Corporation (CNPC);

- volontà di far pesare il numero dei paesi in via di sviluppo nei grandi fora internazionali, di

sottolineare le loro esigenze e affermare i loro diritti, permettendo l’affermazione di un

nuovo ordine internazionale.

Fondamentali per varare programmi appaiono gli scambi di visita ufficiali di alte personalità dello

Stato (presidente e premier, responsabili dei dicasteri degli esteri, della difesa, degli affari

economici, della cooperazione) o, dei leader dei partiti al governo.

In tal senso è interessante notare che dal 1963 al settembre 2004, 92 esponenti cinesi hanno svolto

149 missioni in Africa; 459 personalità africane di 51 Stati hanno svolto 609 visite in Cina.

Da parte cinese sono stati determinanti alcuni passaggi storici: il periplo di Chou En Lai in 10 Stati

africani (dicembre 1963/gennaio 1964); la visita del Presidente Jang Ze Min in 6 Stati (maggio

1996); la visita del Presidente Hu Jintao in Egitto, Gabon e Algeria (29 gennaio-4 febbraio 2004), la

missione del Premier Wen Jabao in Egitto, Ghana, Congo, Angola, Uganda, Tanzania, Sud Africa

(18-24 giugno 2006). Tappe formali, a cui sono seguiti momenti d’incontro sostanziali con firma di

accordi di cooperazione (come ad es. la visita del vice Premier, Zeng Peijang, in Angola in

occasione della quale sono stati firmati 9 accordi di cooperazione il 24-26 febbraio 2005).

Non a caso è ormai istituzionalizzata a inizio anno la prima tappa all’estero del Ministro degli Esteri

cinesi nel continente africano, proprio ad indicare l’importanza riconosciuta al continente

dall’amministrazione cinese.

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Page 89: Storia dell'Africa

Per maggior chiarezza può essere utile un quadro dettagliato di alcune delle visite più significative

dal 2006 considerato l’Anno della Cina in Africa ad oggi:

2006 “Anno della Cina in Africa”

-Visita del Ministro Esteri Li Zhaoxing in Capo Verde, Senegal, Liberia, Mali, Nigeria, Libia (15-22 gennaio 2006)

-Visita del Presidente Hu Jintao in Marocco, Nigeria, Kenya (24-29 aprile 2006)

-Premier Wen Jabao in Egitto, Ghana, Congo, Angola, Uganda, Tanzania, Sud Africa (18-24 giugno 2006)

2007

-Visita del Ministro Esteri Li Zhaoxing in Benin, Guinea Equatoriale, Guinea Bissau, Ciad, Repubblica Centrafricana,

Eritrea e Botswana (gennaio 2007)

- Visita del Presidente Hu Jintao in Cameroon, Liberia, Sudan, Zambia, Namibia, Sud Africa, Mozambico, Seychelles

(febbraio 2007)

2008

- Ministro Esteri Yang Jeichi ha effettuato tour diplomatico (7-11 gennaio 2008) con la visita in Sud Africa, RDC,

Burundi ed Etiopia

2009

-Visita del Ministro del Commercio Chen Deming in Kenya, Zambia, Angola (12-19 gennaio)

-Visita del Ministro Esteri Yang Jiechi in Malawi (13-21 gennaio) in Uganda, Rwanda, Malawi, Sud Africa

- Visita del Presidente Hu Jintao in Mali, Senegal, Tanzania e Mauritius (10-17 Febbraio)

2010

-Visita del Ministro degli Esteri Yang Jeichi in Kenya, Nigeria Sierra Leone, Algeria e Marocco (5-14 gennaio)

2011

- Visita del Ministro degli Esteri Yang Jeichi in Zimbabwe, Gabon, Chad , Guinea e Togo (9-16 febbraio)

Come anticipato precedentemente, sono molteplici gli interessi della Cina in Africa e quindi viene

svolta un’azione incisiva a largo raggio. Politica ed economia si supportano vicendevolmente per

rendere effettiva la tanto decantata cooperazione sud-sud.

Qualora si volessero identificare nel dettaglio i protagonisti dell’azione cinese in Africa, si può fare

una prima distinzione tra attori governativi e non governativi.

Dal punto di vista istituzionale, è stata significativa la strategia promossa negli ultimi anni dal

binomio Ju Hintao e Wen Jabao, coadiuvato dai vari ministri degli esteri Yang Jiechi e del

commercio Chen Deming.

Se questi sono i responsabili politici cinesi, i veri artigiani e responsabili del rafforzamento delle

relazioni sino-africane sono indubbiamente i tecnici delle direzioni competenti presso il Ministero

degli Esteri cinese, l’ex Direttrice Xu Jinghu, l’ex Direttore del Dipartimento Africa Zhang Ming e

l’attuale Direttore del Dipartimento Africa Lu Shaye.

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Page 90: Storia dell'Africa

In tale excursus non si può poi dimenticare il supporto fornito dall’Università di Pechino e da alcuni

think thank specializzati nelle relazioni internazionali. In tal senso è fondamentale il ruolo di He

Wenping, Direttrice del Dipartimento Studi Africani all’Accademia delle Scienze Sociali di

Pechino.

Altro protagonista di rilievo il Partito Comunista Cinese, in particolare il suo ufficio di affari

internazionali. La lotta per l’indipendenza è stata un collante valido per gettare le basi per

un’amicizia duratura e costruttiva.

C’è poi la parte imprenditoriale: quella delle compagnie di Stato (China National Petroleum

Corporation - CNPC, China Petrochemical Corporation SINOPEC, China State Construction

Engineering Corporation - CSCEC, China National Machinery and Equipment Corporation

-CNMEC) e degli imprenditori privati che si sono affermati recentemente.

Quale la strategia nel corso degli anni della collaborazione sino-africana e -soprattutto- in cosa

consiste?

Si possono distinguere alcuni momenti fondamentali, che si sono evoluti con l’andare del tempo.

Negli anni ’60 c’è stato soprattutto un interesse politico da parte di Pechino, animato dal supporto ai

movimenti per la liberazione contro il padrone coloniale occidentale; negli anni ’80 c’è stata una

trasformazione, spinta dall’interesse economico in virtù della nascente forza industriale cinese; nel

decennio successivo, in virtù dell’inserimento di Pechino in mercati abbandonati dalle potenze

occidentali, c’è stato l’ancoraggio al continente africano con l’aggancio ai paesi petroliferi; a partire

dal 2000 è iniziata la 4a fase, caratterizzata dalla diretta concorrenza ai giganti economici

occidentali e dalla presenza capillare e multiforme nel continente africano.

Gli scambi commerciali, segnale evidente di un rafforzamento delle relazioni tra attori

internazionali e più che altro di una convergenza di interessi sono passati da 817 milioni di dollari

nel 1979 a 10 miliardi di dollari nel 2000, giungendo a 127 miliardi di dollari nel 2010.

Relazioni Cina-Africa in Cifre – Commercio (1950-2010)

- Nel 2005, applicazione della “tariffa 0” per 190 prodotti esportati da 28 paesi- Creazione di una Camera di Commercio a Pechino- Scambi commerciali in $1950…………………………………………………………………...12 milioni di $1979………………………………………………………..…..……….817 milioni $2000………………………………………………………..….………..10 miliardi $2002……………………………………………………………………..12 miliardi $2004………………………………………………………….……….....29,5 miliardi $2005 ………………………………………………………….…………39, 6 miliardi $2006………………………………………………………………..……55 miliardi $

2007……………………………………………………………..………72,6 miliardi $ 2008……………………………………………………….…..……..….106, 8 miliardi $ 2010……………..……………………………………………….……….127 miliardi $

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Page 91: Storia dell'Africa

Per quanto riguarda gli investimenti diretti cinesi in Africa12, vero indicatore di una politica di lungo

respiro e prospettiva, la quota risulta deludente, considerata rispetto a quanto investito ad esempio

in USA nello stesso periodo.

Secondo dati UNCTAD, alla fine del 2005 il totale degli IDE cinesi in Africa era di 1,3 miliardi di

dollari e secondo fonti del Ministero del Commercio Estero cinese nel 2007 gli IDE sarebbero stati

pari a 6,64 miliardi di dollari tra il 2000 ed il 2007.

Cifra questa che induce a qualche perplessità rispetto all’azione diplomatica pressante dell’ultimo

ventennio.

12 Vedasi: “ASIAN FOREIGN DIRECT INVESTMENT IN AFRICA: Towards a New Era of Cooperation among Developing Countries”, http://www.unctad.org/Templates/Webflyer.asp?intItemID=1397&docID=8120

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Page 92: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 18

I RAPPORTI AFRICA-CINA (2/4)Quali sono i partner strategici di Pechino? Quale la condizione di base per cui si possa sviluppare

la win win situation? Come si è struttura la cooperazione sino Africana?

Nella dialettica Cina-Africa, le controparti sono logicamente i vari capi di stato africano, conosciuti

per il loro attaccamento al potere, particolarmente noti per gestire dei regimi dispotici; leader

criticati per le modalità con cui vengono affrontate le crisi interne; ribelli nei confronti dei legami

francofoni o -all’opposto- fedeli alleati di Parigi .

In tale contesto spiccano alcuni partners africani “strategici”: Sudan, Angola, Zimbabwe

Sud Africa, Nigeria sono divenuti ormai interlocutori privilegiati con cui promuovere affari e con

cui “fare blocco” alle Nazioni Unite.

Nel 2008, l’interscambio con l’Angola è aumentato del 79,3% rispetto al 2007 e si è attestato su

25,3 miliardi di dollari; con il Sud Africa si è registrato un aumento del 26,9 % rispetto all’anno

precedente con un valore pari a 17,8 miliardi $; con la Nigeria si sono raggiunti 7,2 miliardi $ (+

43,3% rispetto a 2007 ) mentre con il Sudan il valore delle merci scambiate è stato di 8,1 miliardi $

(+ 43,3% rispetto a 2007).

Per il Sudan, lo special envoy Amb Liu Gujin, ha seguito con attenzione sia il processo del Darfur,

sia l’indipendenza del Sud Sudan e attualmente è molto attento a seguire la risoluzione della disputa

petrolifera tra le due regioni.

Il riconoscimento di una sola Cina è elemento fondante della collaborazione, anche se tale principio

si sta ammorbidendo nell’ottica di “inglobare” gli ultimi partners restii e isolare definitivamente

l’isola ribelle, riconosciuta al momento da soli 23 paesi a livello mondiale.

Al momento sono considerati al di fuori dei rapporti privilegiati quattro paesi che continuano ad

avere relazioni con Taiwan:

- Gambia

- Swaziland

- Burkina Faso

- Sao Tomè

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Page 93: Storia dell'Africa

I leader cinesi hanno pensato ad un’architettura particolare, quella di un forum Cina-Africa

(FORUM ON CHINA-AFRICA COOPERATION - FOCAC ), un grande contenitore in cui si

gestiscono le molteplici tematiche d’interesse, una piattaforma per promuovere una consultazione

collettiva, rafforzare il dialogo e sviluppare meccanismi di cooperazione.

Secondo gli ideatori cinesi, i principi fondamentali sono la cooperazione pragmatica, l’uguaglianza

e il mutuo beneficio.

Si sono già svolti 4 Forum:

1° Forum Cina-Africa (10-12 ottobre 2000)

2° Forum Cina-Africa (15-16 dicembre 2003)

3° Forum Cina-Africa (3-5 novembre 2006).

4° Forum Cina-Africa (8-9 novembre 2009)

5° Forum Cina-Africa (previsto per 2012)

Il 3° Forum in particolare ha avuto un grandissimo rilievo e ha sancito definitivamente un’alleanza

sul lungo periodo tra Pechino e i partecipanti africani. L’invito e la grande adesione di presidenti e

capi del governo ha permesso di dare massima ufficialità all’incontro, configurandolo come il 1°

Summit sino-africano.

La Dichiarazione finale ed il Piano d’Azione (2007-2009) adottati al termine dei lavori, hanno

sancito una win-win situation, concretizzata dalla stipula di importanti contratti commerciali per un

valore globale di quasi 2 miliardi di dollari e nell’impegno assunto per raddoppiare il volume degli

scambi commerciali e accrescerli fino a 100 miliardi di dollari nel 2010 (obiettivo già superato nel

2008)

Impegni assunti in occasione del 3° Forum Cina-Africa (3-5 novembre 2006)

• 3 miliardi di dollari in prestiti preferenziali•2 miliardi di dollari in crediti all’esportazione•Fondo di 5 miliardi di dollari per impresi cinesi che investono nel continente•Costruzione di un Centro Congressuale per UA•Cancellazione dei debiti dei Paesi HIPC tra quelli che riconoscono “una sola Cina”•250+190 beni esonerati da ogni tipo di tassa esportazione•Creazione di 5 zone di cooperazione economica e commerciale in Africa•Raddoppio Borse di studio per studenti africani (dai 2000 a 4000 studenti africani in Cina)•Impegno per Training di 15000 professionisti•Invio di 100 senior esperti in ambito agricolo•Costruzione di 30 ospedali e 30 centri di prevenzione e cura della malaria•Costruzione di 100 scuole rurali in Africa

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Page 94: Storia dell'Africa

•Impegno per portare scambi commerciali a 100 miliardi dollari nel 2010•Cancellazione del debito dei paesi HIPC (Heavily Indebted Poor Countries) e LPD (Least Developed Countries)

Di grande importanza per l’evoluzione dei programmi promossi in ambito FOCAC, è stato il

documento “China-Africa Policy Paper” (12 gennaio 2006) che ha fissato le linee guida della

collaborazione nel XXI secolo.

Per quanto attiene il 4° Forum, dedicato al tema: “Deepening the new type of China-Africa

Strategic Partnership for sustainable development”, ha fornito l’occasione formale per “rinnovare

l’amicizia” delle due parti, per dimostrare che tutti gli impegni assunti nell’ultimo vertice del

novembre 2006 sono stati rispettati, per esaltare i dati della win win situation, tuttavia sono emersi

anche dei fattori interessanti da prendere in considerazione in un’ottica di lungo periodo.

La Dichiarazione finale ed il Piano d’Azione 2010-2012 indicano un percorso preciso, a cui tener

fede nonostante la crisi economico-finanziaria globale.

Politica, economia, cooperazione allo sviluppo, scambi culturali: ogni settore è monitorato con

attenzione. La Cina continua a sostenere finanziariamente il continente.

Tale supporto si traduce in alcune misure specifiche:

- prestito di 10 miliardi di dollari a un basso tasso d’interesse,

- training per 20.000 addetti in diversi settori

- costruzione di 50 scuole di amicizia,

- la concessione di un rilevante numero di borse di studio (5.500 entro il 2012)

- cancellazione dei debiti maturati entro la fine del 2009,

- fondo di un miliardo di dollari destinato a concedere prestiti alle piccole e medie imprese

locali,

- eliminazione graduale dei diritti di dogana sul 95% delle importazioni provenienti dai paesi

africani meno avanzati.

L’impegno congiunto nel documento viene assicurato nella richiesta per un equo bilanciamento del

G20, nel supporto di riforme che rendano le Nazioni Unite più efficienti e le istituzioni finanziarie

internazionali maggiormente inclusive. Il raggiungimento dei Millennium Development Goals

(MDGs), la tutela dell’ambiente, la lotta al cambiamento climatico, lo sforzo per il progresso della

scienza e della tecnologia sono altrettanti capitoli su cui esercitare un coordinamento delle

posizioni.

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Page 95: Storia dell'Africa

Nel caso della protezione dell’ecosistema e della biodiversità, se è apprezzabile l’impegno

innovativo - sfortunatamente - esso risulta tuttavia formale, poiché sono ben note le responsabilità

delle industrie cinesi, accusate da organizzazioni non governative ambientaliste di provocare

l’inquinamento delle falde idriche africane (attraverso lo scarico di sostanze nocive nelle acque) o di

promuovere un disboscamento selvaggio.

Quali gli elementi negativi della collaborazione?

La presenza cinese infatti comporta non solo “cash” e aiuti per la cooperazione ma anche divisione

e sbilanciamento interno.

In tal senso si può parlare di problemi arrecati alla sopravvivenza delle piccole industrie locali

africane e vendita dei prodotti africani, messe in serio pericolo dall’ immissione sul mercato locale

di prodotti a basso costo e molto spesso scadenti.

C’è poi il rischio di una disoccupazione locale africana in aumento a causa della presenza di

lavoratori cinesi portati dalla madre patria (operai regolari e irregolari, a volte anche fuoriusciti

dalle prigioni).

Non si possono inoltre ignorare i problemi legati all’inquinamento ambientale, causati da una

deforestazione selvaggia (in Gabon, Repubblica Democratica del Congo e Ghana), oppure dalla

produzione industriale incurante dell’emissione di gas nocivi. Anche per il settore ittico la forzata

razzia delle risorse potrebbe arrecare gravi danni all’ecosistema africano in un prossimo futuro.

Infine l’impatto maggiore dell’attivismo cinese si traduce troppo spesso in creazione di rendite tra le

classi dirigenti africane, favorendo la pratica della corruzione per non parlare della scarsa

trasparenza nella gestione di contratti miliardari che finisce per incentivare pratiche che allontanano

i paesi africani dalla good governance.

ELEMENTI NEGATIVI DELLA COLLABORAZIONE SINO-AFRICANA

•Sopravvivenza delle piccole industrie locali africane e vendita dei prodotti africani

•Disoccupazione locale africana in aumento a causa di presenza lavoratori cinesi

•Problemi inquinamento ambientale

•Rendite a classi dirigenti corrotte

•Scarsa trasparenza negli affari

Alla luce di questi elementi, la Cina rappresenta un’opportunità per la rinascita africana

oppure è la riproposizione di nuovo “padrone“ interessato a depredare le ricchezze africane?

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Page 96: Storia dell'Africa

L’esperienza induce a credere che la realtà sia nel mezzo e che non possa essere demonizzata

l’azione cinese come anche non possa essere considerata esclusivamente arricchente per il

continente africano.

Trattare con la Cina oggi può considerarsi un ottimo affare per molti governi africani ma è

importante un atteggiamento critico e responsabile, capace di porre dei freni all’insistenza e di

rispondere negativamente ad eventuali diktat di Pechino. Il secondo passo è poi quello dell’utilizzo

proficuo delle risorse, così che da creare un ciclo virtuoso economico-finanziario. Alla luce del

contesto specifico, sulla base dei dati forniti da prestigiose ONG specializzate su cattiva gestione

dei fondi e corruzione, tale step appare ancor più di difficile realizzazione rispetto al precedente.

Recentemente l’Africa ha iniziato a far sentire i suoi dubbi ed il suo malcontento, non più attraverso

lo sciopero nelle miniere (come accaduto in Zambia) o attraverso la voce dei sindacati del settore

tessile(vedasi caso specifico in Sud Africa) .

I dubbi sono espressi ad alto livello. In tal senso si può ricordare l’affermazione di René N’Guetta

Kouassi (capo del dipartimento affari economici dell’Unione Africana) fatta nel settembre 2009

secondo cui “Africa must not jump blindly from one type of neo-colonialism into Chinese-style neo-

colonialism”. Tale atteggiamento è in pieno contrasto con l’entusiasmo e la cieca fiducia che

serpeggiavano in occasione del varo del I FOCAC nel 2000. Non è di poco conto questa

consapevolezza, poiché negli anni passati è apparso un atteggiamento remissivo dall’interno.

L’Africa è stata reattiva, non attiva. L’Africa ha risposto alle avances cinesi, applaudendo

all’intraprendenza orientale e svendendo parallelamente le proprie risorse naturali.

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Page 97: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 19-20

“I RAPPORTI AFRICA-CINA” (3/4 e 4/4)

IN VIA DI DEFINIZIONE

97

Page 98: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 21-22

“I RAPPORTI AFRICA-INDIA”

Un nuovo partner si delinea, silenzioso ma efficace, sulla scena africana: l’India. Non solo dunque

all’orizzonte le richieste e le offerte di Stati Uniti, Cina, Europa, Giappone, Russia ma anche le

proposte da parte del colosso asiatico subcontinentale.

Diverse le direttrici su cui si sono strutturate le relazioni: l’Indian Ocean Rim Association for

Regional Cooperation (IOR-ARC), l’inziativa India-Brasile-Sud Africa (IBSA), il Forum India-

Africa.

Quale l’origine di questo rapporto “apparentemente” nuovo? Come si sta sviluppando? A difesa nei

confronti di chi? A vantaggio di chi? Potrebbe essere questo il vero binomio per innescare

meccanismi virtuosi volti ad una crescita del continente africano, veritiera e sostenibile nel tempo?

I primi segnali possono essere certamente riconosciuti nei legami creati in occasione della

Conferenza di Bandung, arricchiti poi dal sostegno fornito da Nuova Delhi ai movimenti di

liberazione e alla lotta contro l’apartheid del regime bianco di Città del Capo e Pretoria.

E’ tuttavia con gli anni ’90, con l’affermazione di una forte industria nazionale indiana bisognosa di

energia, petrolio e gas che si sono rafforzate le interdipendenze. Non solo. Sarebbe ingiusto non

riconoscere il ruolo di una potenza coloniale in comune che ha tessuto un simile background e

quello della diaspora asiatica, la presenza di una numerosa comunità nelle isole e nei Paesi africani

bagnati dall’Oceano Indiano. Tanzania, Kenya, Mozambico, Sud Africa e Madagascar

rappresentano un terreno in cui sono miscelate culture e tradizioni indo-africane.

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Page 99: Storia dell'Africa

E’ proprio su questo humus culturale che si basa l’Indian Ocean Rim Association for Regional

Cooperation. Promossa nel 1990 dal ministro degli Esteri sud africano Pik Botha e poi supportata

dal presidente Mandela nel ‘94- ‘95, l’idea venne fatta propria dai governanti indiani sia perché

dopo il crollo dell’Unione Sovietica sentivano necessario un ricollocamento del Paese nel nascente

mondo multipolare, sia perché vedevano crescere una rivalità con il Pakistan all’interno del South

Asian Association for Regional Cooperation (SAARC), sia perché dovevano rispondere al rifiuto di

partecipazione all’Asia Pacific Economic Cooperation Group (APEC). Dove promuovere

collaborazioni se non nell’Oceano Indiano, considerato il back yard e al tempo stesso lo spazio

vitale per esternare le proprie potenzialità ed espandere il proprio mercato? Tra i primi membri

sostenitori nel 1995 si distinsero Kenya, Mauritius, Sud Africa.

Ad essi poi se ne aggiunsero altri fino ad arrivare all’attuale numero di 19 Stati aderenti

all’iniziativa13. L’iniziativa è stata lanciata formalmente nel marzo 1997.

Seppur meritevole come progetto, sfortunatamente nel tempo si è andato affievolendo l’interesse

iniziale e ad oggi non sembrano riscontrarsi risultati eclatanti. Diverse esigenze esterne si sono

sovrapposte negli anni, come ad esempio l’impegno di Mbeki per progetti continentali e regionali,

quali il varo dell’Unione Africana, della New Partnership for African Development, il

rafforzamento della Southern African Development Community (SADC). A ciò si aggiunga, come

notato dal noto studioso Alex Vines in un articolo pubblicato dalla Chatam House nell’aprile 2008,

l’assenza di un marcato coordinamento tra il Working Group ed i capi delle singole missioni

diplomatiche, la mancanza di uno staff tecnico capace di imprimere un processo dinamico nel

Segretariato Generale, la scarsa programmazione di meeting regionali annuali.

L’eterogeneità dei partecipanti non ha favorito il raggiungimento di obiettivi comuni, tuttavia

proprio nella molteplicità degli attori (dal Bangladesh all’Iran, dall’Australia all’Oman) deve essere

vista al tempo stesso la ricchezza del processo in atto.

Più ristretto di numero e più concreto il Forum IBSA. L’incontro del G8 di Evian nel 2003 ha dato il

via ad una cooperazione triangolare tra India-Brasile e Sud Africa. A Brasilia nel giugno 2003

l’incontro dei ministri degli Esteri ha sancito l’avvio di una collaborazione sud-sud tra attori

rilevanti. E’ chiara la convergenza di interessi: l’India sembra orientata a confrontarsi con potenze

continentali forti, con leader impegnati a 360° quali Thabo Mbeki e Jacob Zuma (per il Sud Africa),

Luis Inacio e Delma Youssef (per il Brasile) da Silva, ma ancor più appare interessata a lavorare

congiuntamente su progetti di alta tecnologia industriale; il Brasile si propone di rafforzare la sua

13 Attualmente fanno parte dell’Organizzazione: Australia, Bangladesh, Emirati Arabi Uniti, India, Indonesia,Iran, Kenya, Madagascar, Malaysia, Mauritius, Mozambico, Oman, Singapore, Seychelles, Sud Africa, SriLanka, Tanzania, Thailandia, Yemen.

99

Page 100: Storia dell'Africa

immagine al di là dell’America Latina e di sperimentare nuove linee politiche commerciali; il Sud

Africa cerca un partner alternativo alla Cina, potenza con cui inizia a ravvisare i primi attriti.

L’obiettivo comune è quello dell’impegno per la riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni

Unite e per l’ampliamento del G8 a nuovi partners (in particolare Brasile, Cina, India, Messico e

Sud Africa). Fare fronte comune nella più grande organizzazione mondiale ed entrare tra le grandi

potenze economiche del pianeta sono le due direttrici per rispondere alle sfide della globalizzazione

e non sopperire dinnanzi ad esse. Altra esigenza evidente risulta quella di implementare il

commercio trilaterale,

Ad oggi si sono svolti 5 summit IBSA (settembre 2006 a Brasilia, ottobre 2007 a Pretoria, ottobre

2008 a New Delhi, aprile 2010 a Brasilia, ottobre 2011 a Pretoria).

La cooperazione riguarda il settore agricolo, commerciale14, educativo, energetico, scientifico e

tecnologico, commerciale e dei trasporti. E’ al vaglio l’ampliamento al reparto sanitario e a quello

della difesa.

II IBSA Summit nel 2007 V IBSA Summit 2011

Canale preferenziale è indubbiamente il Forum India-Africa. Il primo India-Africa Forum Summit

(IAFS) si è svolto l’8-9 aprile 2008 a New Delhi. Ad esso hanno partecipato 14 capi di Stato

africani, tra cui quelli di Etiopia, Ghana, Kenya, Repubblica Democratica del Congo, Senegal, Sud

Africa, Tanzania, Uganda, oltre a vice presidenti ed esponenti governativi di alto rango.

In occasione del Summit sono stati adottati due documenti: la Dichiarazione di Delhi ed il

Framework per la Cooperazione. Se la Dichiarazione rappresentava un atto politico di grande

lucidità in cui si registravano posizioni comuni per la riforma delle Nazioni Unite (elemento chiave

e sempre presente), per la difesa dell’ambiente, per l’approccio alle scelte promosse in ambito WTO

nonché per un impegno comune contro il terrorismo internazionale, il Framework disegnava invece 14 Si specifica che il commercio trilaterale è passato da 2,6 mlrd di US$ nel 2002 a 11,9 mlrd di US$ nel 2009

100

Page 101: Storia dell'Africa

nuovi spazi per un lavoro congiunto tra pari con grande lungimiranza e prospettiva d’insieme. Sette

erano i capitoli su cui veniva rilanciata un’azione sinergica: cooperazione economica (nei settori

dell’Agricoltura, del Commercio, degli Investimenti, delle Piccole e Medie Imprese), cooperazione

politica (indirizzata alla pace e alla sicurezza, al ruolo della società civile e a quello della good

governance), Scienza e Tecnologia (rivolta per lo più all’Information and Communication

Technology-ICT), cooperazione nello sviluppo sociale (diretta a educazione, acqua e sanità, cultura

e sport, sradicamento della povertà), Turismo, Infrastrutture, Media e Comunicazione.

All’insegna del pragmatismo e della concretezza, il primo ministro indiano Manmohan Singh

nell’occasione del I Forum annunciò un regime di preferenze tariffarie (Duty Free Tariff Preference

Scheme) per le esportazioni di 50 Paesi meno sviluppati (di cui 34 africani) ed il raddoppiamento

del volume dei crediti dai 2,15 miliardi di dollari a 5,4 miliardi di dollari nel quinquennio

successivo.

L’obiettivo del Forum era quello di raddoppiare nel giro di pochi anni gli scambi commerciali, che

nel 2008 si attestavano sui 30 miliardi di dollari15.

Il II India Africa Forum Summit (II IAFS) si è svolto il 24-25 maggio 2011. L’evento, focalizzato

sul tema “Per un partenariato rafforzato: una visione condivisa”, si è svolto ad Addis Abeba. Nella

dichiarazione finale le parti hanno riaffermato “il loro impegno per il multilateralismo ed il

rafforzamento della struttura democratica delle Nazioni Unite per accrescere la partecipazione dei

paesi in via di sviluppo al processo decisionale” ed hanno anche insistito per il rafforzamento

Africa-India nell’ambito del G77; hanno sottolineato l’importanza cruciale di una riforma urgente e

globale delle Nazioni Unite; hanno condannato il terrorismo sotto ogni forma e manifestazione;

hanno riconosciuto l’importanza di focalizzare le forze sulla minaccia posta dalla pirateria al largo

delle coste somale ed hanno chiamato alla cooperazione tutti gli Stati; hanno sottolineato la volontà

di andare oltre i legami bilaterali e rafforzare i partenariati anche a livello di Unione Africana e

organizzazioni regionali; hanno stabilito che il III IAF Summit si svolgerà in India nel 2014.

15 Si ricorda che il commercio bilaterale India Africa è passato da 25 mlrd di US $ nel 2006-2007 a 53,3 mlrd di US$ nel 2010-2011 secondo quanto dichiarato da Rajiv Kumar (Segretario Generale della Federation of Indian Chambers of Commerce and Industry (Ficci) all’ India-Africa Business Partnership Summit del 12-13 ottobre 2011 a Hyederabad. In particolare, le esportazioni indiane verso l’Africa sono passate da 10,3 mlrd di US$ nel 2006-2007 a 21,1, mlrd di US$ nel 2010-2011 ; le importazioni indiane dall’Africa sono passate da 14,7 mlrd US$ nel 2006-2007 a 32,2 mlrd US$ nel 2010-2011. L’obiettivo è quello di raddoppiare i 53 mlrd US$ nei prossimi 5 anni.

101

Page 102: Storia dell'Africa

I IFSA Summit 2008 II IFSA Summit 2011

Tecnologia e farmaci indiani a basso costo contro petrolio africano potrebbero essere le monete

dello scambio. Perché questa collaborazione? Quale il motivo ultimo? Certamente l’acquisizione di

risorse petrolifere non è da poco, tuttavia l’avvicinamento ed il coinvolgimento del black continent,

dall’esterno sembra essere in funzione anti-Cina (nonostante le dichiarazioni ufficiali del premier

indiano). La collaborazione con il governo di New Delhi sembra maggiormente costruttiva e basata

sul rispetto delle regole democratiche, ormai salde e rafforzate nel tempo. Potrebbe essere questa la

vera alleanza utile per mettere in moto sul lungo periodo un processo virtuoso essenziale per il

continente africano.

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Page 103: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 23“I RAPPORTI AFRICA-GIAPPONE”

Oltre a Cina e India, anche il Giappone ha promosso dei contatti forti con il continente africano,

promuovendo la Tokyo International Conference on African Development nel 1993.

Tale organizzazione punta in particolare sul concetto di “aiuto allo sviluppo” e per tale motivo si

avvale del supporto di altri co-organizzatori e partners. La filosofia infatti è quella di mobilitare il

supporto internazionale per iniziative africane di “sviluppo”. Non aiuti a pioggia, in questo caso, ma

responsabilizzazione degli africani, facendo leva sui principi di ownership e partnership.

Tra i co-organizzatori si trovano l’Ufficio dello Special Adviser per l’Africa del Segretario

Generale, lo United Nations Development Programme (UNDP) e la World Bank; tra i partners

invece l’Unione Africana, il New Partnership for African Development, lo United Nations Industrial

Development Organization (UNIDO), la United Nations Coonference on Trade and Development

(UNCTAD), alcuni donors internazionali, la West Africa Rice Development Association

(WARDA), il TICAD Civil Society Forum.

Si sono già svolti quattro incontri ufficiali:

•TICAD I (5-6 Ottobre 1993)•TICAD II (19-20 Ottobre 1998)•TICAD III ( 27-28 Settembre 2003)•TICAD IV (28-30 Maggio 2008).

La Tokyo Declaration on African Development, adottata in occasione dell’incontro iniziale del 1993

rappresenta il testo base di tutta l’architettura. Essa prevede l’impegno dei partecipanti (distinti tra

membri TICAD e paesi africani) a favorire le riforme politiche ed economiche nel continente, a

promuovere la cooperazione regionale e l’integrazione. Il ruolo del settore privato viene considerato

vitale per un “sustainable development”, pertanto viene incoraggiata l’attività imprenditoriale e

preso l’impegno da parte africana per rendere più agevole il sistema amministrativo, legale e

finanziario.

103

Page 104: Storia dell'Africa

Degna di attenzione la messa a disposizione dell’ esperienza asiatica dell’ultimo trentennio. In tal

senso vengono evidenziati nel punto 23 della Dichiarazione alcuni policy factors che hanno favorito

una buona performance, in particolare:

- l’applicazione razionale di politiche macroeconomiche e il mantenimento della stabilità

politica;

- la promozione della produzione agricola attraverso la ricerca tecnologica e le innovazioni,

come solide basi per lo sviluppo socio-economico;

- l’investimento di lungo termine nell’educazione e lo sviluppo delle risorse umane come

priorità della strategia di sviluppo;

- politiche di mercato ed export-led per avanzare ed adattare i modi di produzione per

aumentare e opportunità per il commercio e la crescita economica;

- le misure per stimolare il risparmio e la formazione di capitale

- il rafforzamento del settore privato come meccanismo di crescita e sviluppo;

- l’implementazione rapida della riforma terriera.

Altro documento essenziale è l’Agenda for Action del 1998 che, nell’ottica di favorire la riduzione

della povertà e l’inserimento del black continent nell’economia globale, individua obiettivi

condivisi e segna delle linee d’azioni comuni dei partecipanti all’iniziativa. Coordinamento

rafforzato, cooperazione regionale ed integrazione, cooperazione sud-sud sono ritenuti approcci

essenziali per ottimizzare i flussi dell’Aiuto pubblico allo sviluppo messi a disposizione dei partners

africani.

In questo testo vengono considerate due tematiche essenziali: la prima riguarda il ruolo delle donne

ed il loro contributo per combattere la povertà; la seconda sottolinea l’importanza del management

ambientale. Desertificazione, degradazione del terreno, deforestazione, biodiversità sono ritenuti

elementi imprescindibili per uno sviluppo sostenibile nel tempo.

Interessante l’ancoraggio al NEPAD che si è registrato nel terzo incontro, un modo per venire

incontro pragmaticamente alle nuove esigenze per il rilancio dell’Africa (promosso tra il 2001 ed il

2002 con il varo della nuova struttura dell’organizzazione panafricana e con il progetto New

Partenrship for African Development).

Dal quarto incontro di Yokoama (28-30 maggio 2008) focalizzato sul tema “Toward a vibrant

Africa: a continent of hope and opportunity” sono scaturiti:

•il Piano d’Azione di Yokoama

•la Dichiarazione di Yokoama

104

Page 105: Storia dell'Africa

In questa sede sono state riconosciute tre aree prioritarie interconnesse: spingere la crescita

economica, assicurare la Human Security , indirizzare le tematiche ambientali ed il Climate Change.

Preso atto che sviluppo e pace procedono parallelamente, i partecipanti hanno auspicato un’equa

spartizione dei dividendi della pace ed hanno posto grande enfasi su meccanismi quali l’African

Peace and Security Architecture (APSA) e l’African Peer Review Mechanism (APRM), considerati

elementi sostanziali dell’impegno africano per una rinascita economica, sociale e politica.

Tra gli impegni assunti, si ricordano:

• la duplicazione dell’ aiuto pubblico da 900 milioni dollari a 1,8 miliardi dollari entro il 2012

•la garanzia per la concessione di 10 miliardi di dollari per promuovere una crescita economica

collegata alla tutela ambientale

•il Meccanismo dei Seguiti di Yokoama, volto a monitorare l’implementazione delle iniziative e

l’impatto sullo sviluppo africano

•la promessa di dare visibilità ai programmi per l’Africa in occasione del vertice G8 (Hokkaido

Toyako, 7-9 luglio 2008).

Per quanto concerne la struttura, la TICAD ha al suo interno diversi organismi che permettono di

perseguire le finalità preposte:

•Asia-Africa Trade and Investment Conference (AATIC)

•Asia-Africa Investment &Technology Promotion Centre (AAITPC)

•Africa-Asia Business Forum (AABF)

•Afrasia Business Council

•Africa-Asia SME Network (TECHNONET Africa)

•TICAD Exchange Network

•TICAD-Africa IT Initiative

La caratteristica più evidente della TICAD è quella della concretezza. In tal senso sono numerosi i

progetti su cui si sta lavorando in questo momento, tra cui: l’iniziativa per valorizzare il ruolo delle

donne coltivatrici in Nigeria (con UNDP, UNIFEM e alcune ONG nigeriane); l’avvio della messa in

produzione del NERICA (“new rice for Africa”) che attraverso la collaborazione di esperti e

produttori ha permesso di creare un tipo speciale di riso nutriente e facilmente coltivabile con le

temperature africane; i progetti per affrontare il digital divide in Cameroon, volti a facilitare agli

studenti dell’Università di Yaoundé l’accesso ad Internet.

105

Page 106: Storia dell'Africa

COMPARAZIONE AZIONE ATTORI ESTERNI ESTREMO ORIENTE

Alla luce di quanto emerso, è chiaro che ci sono dei differenti approcci di Cina, India e Giappone.

La Cina è senza dubbio il player più aggressivo, capace però di dare segnali concreti (costruzione di

infrastrutture ed edifici) in breve tempo. Nonostante i vantaggi evidenti, sul lungo periodo potrebbe

rivelarsi dannoso per gli africani aver ceduto oggi alle avances di Pechino.

I più sensibili alla minaccia incombente sono i ceti operai, le minoranze di cui si soffocano i diritti,

le opposizioni più o meno deboli. Non per nulla, alcuni gruppi ribelli armati, esclusi dal potere (e

quindi dalla spartizione delle risorse) hanno già rivendicato i loro diritti. Ad esempio, la ripresa

delle ostilità nel nord del Kivu, secondo quanto rilasciato in un’intervista rilasciata dal Generale

Nkunda nel novembre 2008, sarebbe stata dovuta proprio alla firma di un accordo da parte del

Presidente Kabila con i responsabili cinesi. L’intesa nel dettaglio ha stabilito lo sfruttamento delle

risorse minerarie locali in cambio di un lauto pagamento: 10 milioni di tonnellate di rame svenduti a

9 miliardi di dollari, logicamente a vantaggio dell’elite al potere e non delle popolazioni bisognose

della regione. Questo potrebbe essere solo un input all’azione di altri gruppi sovversivi presenti in

ognuna delle cinque regioni africane.

Se ad oggi è stata attore esterno non direttamente coinvolto, la Cina potrebbe risentirne a breve. Il

rapimento di alcuni tecnici in Nigeria ed in Etiopia è un segnale che indica la possibilità di pagare

in prima persona il pegno per una politica spregiudicata. Allearsi e supportare a livello interno ed

internazionale regimi dispotici, potrebbe quindi non rendere più il risultato auspicato.

L’India è probabilmente in grado di offrire un partenariato vincente: le basi si chiamano tecnologia,

chimica e farmaceutica ma soprattutto regole ed esempio di democrazia.

Anche il Giappone, che ha scelto un’altra linea portata avanti con altri soggetti, può garantire un

supporto concreto per lo sviluppo del continente ma richiede un impegno preciso, non solo

elargizione di risorse minerarie.

Negli ultimi due casi non si parla solo di relazioni commerciali si parla di costruire insieme

qualcosa e di porsi delle regole.

Tutto è ora nelle mani degli stessi africani, che sono chiamati a decidere se sfruttare il momento

conveniente per il continente o meno. Solo loro, chiamati ad interloquire da pari a pari con una

pluralità di interlocutori (occidentali e orientali) potranno rinviare ogni decisione e subire

passivamente quello che appare più conveniente oggi oppure optare per un impegno che richiede

sforzi (aggiustamento delle proprie economie, trasparenza, good governance, lotta alla corruzione,

106

Page 107: Storia dell'Africa

management razionale delle risorse) ma che porterà uno sviluppo sostanziale alle prossime

generazioni.

Solo dopo aver preso questa decisione si potrà parlare di rinascita o di “scramble africano del XXI

secolo”.

107

Page 108: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 24-25“I RAPPORTI AFRICA-IRAN”

Un nuovo partner intraprendente e dinamico si profila sulla scena africana: l’Iran. Il tipo di rapporto

che il governo di Teheran si propone di instaurare con i 54 Stati del continente è mirato, poiché

intende “palesemente” raggiungere diversi obiettivi:

1) stabilire la sua influenza politica e compattare un asse antioccidentale;

2) approfondire i legami con gli attori che possono assicurare uranio per alimentare le sue centrali

nucleari;

3) promuovere i suoi interessi economici e rafforzare una rete di relazioni che gli permetta di

“bypassare” le sanzioni delle Nazioni Unite oltre alle critiche di alcuni potenti player occidentali;

4) esportare la “rivoluzione islamica” attraverso le organizzazioni islamiche iraniane o centri

culturali attivi nella propaganda sciita;

5) stabilire una presenza fisica (per terra o per mare) in aree posizionate in punti strategici (come ad

esempio all’ingresso del Mar Rosso);

6) creare dei “corridoi” navali o terrestri che possano essere utilizzati per fare contrabbando di armi

e supportare gruppi terroristi.

Per tali motivi, negli ultimi anni sono state interessanti le sinergie con Nigeria, Sudan, Uganda e

Zimbabwe, ma anche quelle con Algeria, Mauritania, Mali, Senegal, Cote d’Ivoire, Kenya, Eritrea e

Djibouti.

In tutti i suddetti casi, è stata utilizzata la strategia del soft power, vale a dire una miscela fatta di

cultura, diplomazia, economia e difesa proposta costantemente in occasione di visite ministeriali.

Di seguito gli sviluppi recenti con alcuni paesi-chiave di questo rapporto Iran-Africa, quali Sudan,

Kenya, Eritrea, Nigeria e Zimbabwe.

108

Page 109: Storia dell'Africa

Per quanto concerne il caso del Sudan, esso è ritenuto un partner fondamentale da Teheran per la

sua posizione geografica a “cerniera” tra il mondo arabo, quello dell’Africa Nera ed il Nord Africa.

Alla base del legame, c’è un “collante” profondo che si rifà a questioni politico-securitarie e

ideologiche-religiose da quando l’attuale Presidente sudanese Omar Al Bashir prese il potere nel

1989. Di fatto, l’operazione venne influenzata dalla rivoluzione iraniana del 1979 ed un suo grande

sostenitore fu Hassan el Turabi che voleva stabilire un modello sunnita sulla base della rivoluzione

sciita iraniana e voleva porsi come un “Khomeini regionale”. Nonostante la rottura che si è generata

tra Al Bahir e Al Turabi negli anni ‘90, il contatto con la leadership di Teheran è continuato, come

evidente dalle visite in Sudan del Presidente Akhbar Hashemi Rafsanjani con una delegazione di

150 persone nel 1991, del Presidente Mohammad Khatami nell’ottobre 2004, del Ministro della

Difesa Mostafa Mohammed Najjar nel marzo 2008, del Presidente del Parlamento Ali Larijani nel

marzo 2009, del Presidente Ahmadinejad nel settembre 2011.

La caratteristica peculiare del Sudan è quella di essere un’area di transito per l’invio di armi

destinate ai combattenti della Striscia di Gaza (in particolare Hamas) ed ad alcune organizzazioni

radicali in Nord Africa.

Il Presidente Ahmadinejad (sinistra) accolto dal Presidente Bashir (destra) a Khartoum (settembre 2011)

Tale collegamento è stato denunciato negli anni passati in diverse occasioni dal Presidente egiziano

Hosni Mubarak e da alcuni uomini del suo establishment, in quanto percepito come una

cospirazione contro il proprio Stato ed un modo per sfruttare la causa palestinese a proprio

vantaggio.

Per ciò che riguarda il Kenya, l’elezione di Ahmadinejad nel 2005 e la riconferma nel 2009 ha

portato un avvicinamento tra le due parti come dimostrato dalla visita del Premier Odinga a Teheran

nell’aprile 2008, nel maggio 2009 e nel marzo 2011, contraccambiata dalla missione del Presidente

iraniano a Nairobi nel febbraio 2009. In questo caso coincide da un lato l’interesse del partner

africano di approfittare dell’esperienza nucleare del player del Golfo e di trovare risorse alternative

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Page 110: Storia dell'Africa

di energia per la domanda di elettricità, dall’altro la volontà di Teheran di rafforzare intese per

rompere l’isolamento internazionale a cui è soggetto ormai da anni.

Il Premier Odinga (sinistra) accolto dal Presidente Ahmadinejad (destra) a Teheran (marzo 2011)Oltre agli interessi energetici (l’Iran nel 2009 forniva circa 80.000 barili di petrolio al giorno al

Kenya) è importante ricordare che tra i due Paesi vi è un profondo legame culturale-religioso,

abitando in Kenya circa 500.000 di fedeli sciiti (su un totale di 4 milioni di credenti islamici, che

corrispondono al 10% della popolazione che è di circa 43 milioni di abitanti).

Il legame con l’Eritrea deve essere letto sotto una duplice lente: la sinergia con il Presidente

Afewerki (un punto di riferimento “contro l’egemonia dell’Occidente”) ed il collegamento con il

Mar Rosso. Durante una visita del leader eritreo a Teheran nel Maggio 2008 sono stati firmati

accordi di cooperazione tra i due paesi per implementare il commercio e gli investimenti. In tale

occasione, la presenza dei due ministri degli esteri ha suggellato l’impegno “a lavorare

congiuntamente per raggiungere la sicurezza e la stabilità nel Corno d’Africa”

Il Presidente Afewerki (sinistra) accolto dal Presidente Ahmadinejad (destra) in Iran nel maggio 2008

Molto forti appaiono anche i legami con la Nigeria. Risale al gennaio 2005 la visita di Khatami in

Nigeria e la firma di un Memorandum con l’allora Presidente Obasanjo. In tale occasione la Export

Development Bank iraniana accordò 38 milioni di US$ al Ministero dell’Energia e dell’Acciaio. In

tal caso il partner africano cerca un interlocutore che gli permetta di superare il deficit di elettricità e

110

Page 111: Storia dell'Africa

la controparte è interessata nel proporre l’energia nucleare come modo economico per superare tale

difficoltà.

Interessante la forma di “intesa attenta” da parte della Nigeria, emersa in diverse occasioni. In uno

studio per l’American Enterprise Institute del 2010, la studiosa Charlie Szrom nota che -nonostante

siano state negate delle collaborazioni nell’ambito nucleare tra il 2005 ed il 2008- nell’ottobre 2008

l’ex Ministro della Scienza Grace Ekpiwhre ha riconosciuto l’esistenza di un accordo che avrebbe

coinvolto l’Iran per fornire tecnologia nucleare civile alla Nigeria; a distanza di un mese il Direttore

della Nigerian Atomic Energy annunciò che la Nigeria non avrebbe usato espatriati nello sviluppo

del suo programma nucleare e chiarì che la collaborazione con il partner del Golfo sarebbe stata

solo finalizzata a scopi civili. Altro caso è quello del voto della Nigeria a favore delle sanzioni del

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro l’Iran nel giugno 2010, sostenendo che non “era

comprensibile la mancata cooperazione dell’Iran con l’Agenzia dell’Energia Atomica se i suoi

obiettivi erano pacifici”.

Nell’ambito dell’incontro dei paesi D8- Developing Eight Countries (Bangladesh, Egitto, Indonesia,

Iran, Malesia, Nigeria, Pakistan,Turchia), Ahmadinejad si è recato nel luglio 2010 in Nigeria. In tale

occasione si è appellato agli islamici locali, cercando di valorizzare i legami culturali-religiosi

I due partner sono legati da un Trattato di commercio preferenziale firmato nel 2006, una Road

Mapper la cooperazione economica stipulata nel 2007 ed una successiva normativa bancaria

comune mirata ad agevolare le transazioni.

Incontro D8 in Nigeria (luglio 2010)

Paradigmatico è poi il caso dello Zimbabwe: vendita-acquisto di uranio e posizione di difesa nei

confronti delle sanzioni internazionali, sono i due fattori che dal 2005 hanno contribuito a creare

l’asse Harare-Teheran.

Robert Mugabe e Mahmud Ahmadinejad in questi 7 anni hanno sviluppato un blocco comune,

intorno all’idea della Cooperazione Sud-Sud.

Le loro forze ed i loro interessi sono complementari: il leader dello Zimbabwe African National

Union –Patriotric Front (ZANU-PF) si trova nella condizione di dove sfruttare le vaste riserve di

uranio del distretto di Kanyemba (160 miglia a nord di Harare, circa 450.000 tonnellate di minerale

111

Page 112: Storia dell'Africa

di uranio) per rispondere alla drammatica crisi economica in atto nel paese, il leader dell’Alliance of

Builders of Islamic Iran ha la possibilità di pagare in petrolio la materia prima per far lavorare il

reattore di Isfahan e sviluppare il progetto nucleare a scopo civile.

Attorno a questo “nucleo duro” si sono sviluppati poi interessi commerciali: nei settori

dell’agricoltura, dell’industria manifatturiera, della tecnologia, del tessile, del turismo, delle

infrastrutture dei trasporti.

La sintonia tra i due partner in questi anni è stata completa perché ha avuto come collante un

nemico comune, vale a dire il blocco occidentale, in particolare USA e Regno Unito.

Numerose le visite di alto livello a testimoniare l’amicizia reciproca: nel novembre 2006 Mugabe ha

visitato Teheran; il 3-4 Settembre 2007 una delegazione dello Zimbabwe ha partecipato alla

sessione ministeriale dei diritti umani del Movimento dei Non allineati a Teheran; il 25 settembre

2007 si è svolto l’incontro Mugabe-Ahmadinejad in margine ai lavori dell’Assemblea Generale

delle Nazioni Unite in cui i due leader hanno chiaramente parlato del “bisogno dell’unità dei paesi

in via di sviluppo contro il neocolonialismo americano e britannico”; nel gennaio 2010 il numero

due dell’Ambasciata iraniana in Zimbabwe, Javad Dehghan, ha dichiarato l’ampliamento delle

relazioni già esistenti in tutte le aree della cooperazione ed ha offerto assistenza umanitaria per

“rafforzare le relazioni fraterne tra le due nazioni”; il 10 marzo 2010 sono stati annunciati piani di

collaborazione nel settore energetico in occasione dell’incontro a Teheran tra Didymus Mustasa

(Ministro di Stato per gli affari presidenziali dello Zimbabwe) e Masoud Mir Kazemi (Ministro

iraniano del petrolio); il 22-23 aprile 2010 il Presidente Ahmadinejad si è recato ad Harare per l’

inaugurazione della 51ma esizione della Zimbabwe International Trade Fair (ZITF) di Bulawayo; il

17-20 maggio 2010 il Presidente Mugabe ha partecipato al 14mo summit G15 a Teheran

confermando apertamente il supporto di Harare per il programma nucleare iraniano;

Il presidente Mugabe (sinistra) riceve il Presidente Ahmadinejad(destra) ad Harare (aprile 2010)L’approccio seguito da Mugabe si sviluppa intorno alla Far East Policy (vale a dire il tentativo di

cercare collaborazioni ad est con Cina, Corea del Nord ed Iran per cercare uno sdoganamento

112

Page 113: Storia dell'Africa

internazionale e garantirsi la sopravvivenza economica), la linea di Ahmadinejad ruota intorno alla

retorica della lotta contro il “satana occidentale”.

Tali politiche hanno un peso rilevante a livello formale ma si scontrano con le opposizioni interne.

In occasione della visita di Ahmadinejad in Zimbabwe dell’aprile 2010, il Primo Ministro

Tsvangirai (esponente del partito Movement for Democratic Change-MDC) e i responsabili del suo

partito si sono rifiutati di accogliere all’arrivo il leader e la sua delegazione. Il movimento ha

parlato di “scandalo politico colossale” che avrebbe potuto aumentare la tensione all’interno del

paese, danneggiandolo ulteriormente nella sua immagine esterna.

I responsabili del MDC hanno attaccato chiaramente il leader iraniano rispetto al tema dei diritti

umani ed hanno affermato chiaramente che “invitare l’uomo forte iraniano ad un forum degli

investimenti è come invitare le mosche a curare la malaria”.

Per dimostrare la serietà del suo impegno, il Presidente Mahmoud Ahmadinejad ha promosso il 14-

15 settembre 2010 a Teheran l’organizzazione del Forum Iran-Africa, mezzo necessario per

istituzionalizzare i rapporti, per razionalizzarli e ordinarli in una struttura ben precisa. All’evento

hanno partecipato una quarantina di capi di stato e di governo africani, convinti di poter valorizzare

le risorse nazionali grazie all’aiuto di progetti infrastrutturali e finanziamenti messi a disposizione

dal generoso partner iraniano, criticato e demonizzato dall’Occidente.

Molto apprezzati sono stati in tale occasione i discorsi di Abodulaye Wade (allora presidente del

Senegal) e di Bingu Wa Mutharika (allora capo dello Stato del Malawi e Presidente di turno

dell’Unione Africana, defunto nell’aprile 2012). I due leader hanno sottolineato la loro disponibilità

a rafforzare questo nuovo capitolo della cooperazione sud-sud, mentre Ahmadinejad ha evidenziato

la grande comunanza di valori e la speranza per un futuro migliore, ricordando che “non ci sono

limiti all’espansione di una mutua cooperazione al massimo livello”.

Forum Iran-Africa (Teheran, 14-15 settembre 2010)

113

Page 114: Storia dell'Africa

Sono numerosi gli esperti che notano una forza dirompente del binomio che potrebbe incrinare o

mettere a serio rischio vecchie alleanze, con gli Stati Uniti, o con i partners europei (Regno Unito o

Francia). Il timore è che partner come il Senegal, l’Uganda e la Mauritania stiano percorrendo “un

doppio binario”, allettante ma ricco di insidie.

Posti di fronte ad una scelta, i partner africani chi sceglierebbero tra Washington e Teheran? Pur

notando il carattere rivoluzionario del nuovo “asse”, l’apprezzata rivista “The Economist” in un

articolo del 2010 ebbe a notare che i paesi africani difficilmente avrebbero messo a repentaglio i

saldi legami con l’Occidente.

Nonostante i vantaggi diretti che potrebbero avere i detentori del potere ed i gruppi a loro vicini,

essi stessi si rendono conto dei rischi in cui possono incorrere proseguendo con uno di quelli che è

definito “Stato canaglia”. A ciò si deve aggiungere, l’emergere lento di una coscienza critica delle

opposizioni africane come anche delle organizzazioni non governative che avvertono i pericoli di

certe scelte, potenzialmente capaci di mettere a repentaglio l’immagine del proprio paese a livello

internazionale.

Interessante sottolineare piuttosto che, proprio sul terreno africano, potrebbero contrapporsi le

ambizioni iraniane ed israeliane. Tel Aviv teme molto le strette relazioni di Teheran con Khartoum

ed Asmara, in quanto paesi che potrebbero minacciare la sua sicurezza o attraverso l’invio di armi

ad Hamas o il supporto di operazioni terroristiche. La visita del Ministro degli Esteri Lieberman in

Africa nel settembre 2009 è stata funzionale ad arginare l’attività del “nemico” ed a rafforzare i

saldi legami con alcuni partner africani (Etiopia, Ghana, Kenya, Nigeria ed Uganda).

114

Page 115: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 26“I RAPPORTI AFRICA-TURCHIA”

Le relazioni Turchia-Africa devono essere lette alla luce del “ri-orientamento” della politica estera

operato dal governo di Ankara nell’ultimo decennio (in virtù della mancata risposta positiva da

parte delle istituzioni di Bruxelles circa l’ingresso nell’Unione Europea) e della “ricerca di un

nuovo ruolo” all’interno della politica globale. L’artefice del cambio deve essere considerato Ahmet

Davutoglu (dal 2002 al 2009 in qualità di consulente del Primo Ministro e dal 2009 come Ministro

degli Esteri), che ha saputo leggere le sfide del nuovo secolo e valutare le possibili sinergie con i

diversi attori internazionali.

Lo studioso Mehmet Ozkan ha individuato 3 fasi del rapporto Turchia Africa: la 1° fase si sviluppa

dalle relazioni che l’Impero Ottomano ha con il continente lungo tutto il IXX secolo fino allo

stabilimento della Repubblica Turca del 1923 e si presenta molto articolata e dinamica; la 2° fase si

svolge dal 1923 al 1998 e registra un calo nei rapporti multi-bilaterali; la 3° fase va dal 1998 ai

nostri giorni e si qualifica come il periodo del “revival” delle relazioni, partito dall’adozione da

parte della Turchia del documento “Opening up to Africa Policy”.

In realtà, all’interno di questo “revival” sarebbe preferibile distinguere tra il rilancio degli anni

1998-2005 e la vera e propria “offensiva” dal 2005 in poi. E’ infatti nel 2007 che si organizza il

primo Turkey-Africa Trade Summit, nel 2008 che viene lanciato il Turkey-Africa Summit , si

moltiplicano gli scambi di visite di alto livello ed il ruolo di mediazione della Turchia nella crisi del

Darfur si distingue in modo evidente.

La partecipazione africana al 1° Turkey-Africa Summit (Istanbul, 18-21 Agosto 2008), non di

massimo rango, né omogenea (dall’Africa sono arrivati solo 6 Capi di Stato, 5 Vice Capi di Stato,

6 Primi Ministri, per il resto Ministri e ali funzionari ministeriali) indica che gli invitati del black

continent non avevano ben compreso inizialmente la finalità dell’evento né tantomeno le intenzioni

del partner ospitante, essendo anche attratti da altre partnership proposte con vigore dagli attori

dell’estremo oriente.

L’incontro dell’agosto 2008, focalizzato sul tema “Solidarity and Partnership for a Common

Future”, si è concluso con l’adozione della “Istanbul Declaration” e del “Turkey Africa Partnership

Framework Document”. In quest’ultimo documento i partner si sono impegnati ad approfondire:

- la cooperazione intergovernativa;

- il commercio e l’investimento;

- l’agricoltura, l’agrobusiness, lo sviluppo rurale, il management delle risorse idriche e

l’attività delle Piccole e Medie Imprese;

- la sanità;

115

Page 116: Storia dell'Africa

- la pace e la sicurezza

- l’infrastruttura, l’energia ed il trasporto;

- la cultura, il turismo e l’educazione;

Per assicurare l’implementazione dei programmi e delle politiche concordate dalla Turchia ed i

partner africani presenti, è stato concordato un meccanismo dei seguiti che prevede di organizzare

un Summit ogni 5 anni, di pianificare una Ministerial Review Conference tra un Summit e l’altro,

di svolgere dei meeting di Senior Officials di revisione ed implementazione dei programmi, nonché

incontri settoriali Ministeriali e di alti funzionari. Il prossimo Summit si svolgerà in Africa nel 2013.

Come da programma, il 16 dicembre 2011 si è svolta ad Istanbul la Turkey-Africa Partnership

Ministerial Review Conference , preceduta il giorno prima da un High Level Preparatory Meeting.

In tale occasione, il Ministro Davutoğlu ha confermato l’intenzione di “Creare una cintura di

stabilità, sicurezza e prosperità attorno alla Turchia” ed ha garantito il pieno impegno del suo

Paese affinché ciò avvenga.

Nel proporre tale iniziativa, la Turchia ha cercato di valorizzare alcuni punti di forza che le sono

propri, come ad esempio il fatto di non aver avuto una presenza coloniale in Africa; il fatto di essere

posizionata in un punto favorevole d’incrocio tra Europa, Africa e Asia, molto vantaggioso per i

commerci internazionali; il fatto di avere in comune con alcuni partner africani la religione islamica

(fattore identitario, questo, assolutamente determinante).

L’obiettivo è quello di dinamizzare i rapporti commerciali e di moltiplicare il valore degli scambi

che ad oggi, è di molto inferiore rispetto a quello con Cina e India.

Dalla seguente tabella si deduce che l’interscambio è passato da 3,5 miliardi di US$ nel 1997, a

15,7 miliardi di US$ nel 2010. Il “salto quantitativo” è avvenuto nel 2006 (12 miliardi di US$ nel

2006), in concomitanza con l’ottenimento da parte della Turchia dello status di Osservatore

nell’ambito dell’Unione Africana, con il lancio del 2005 come “Anno dell’Africa”, con le visite del

Presidente Erdogan in Sud Africa ed Etiopia.

Commercio bilaterale Turchia-Africa (1997-2010) cifre espresse in milioni US$

Export di

Turchia

1997 2000 2002 2004 2006 2008 2009 2010

1.234 1.373 1.697 2.968 4.566 9.062 10.179 9.3Import di

Turchia

1997 2000 2002 2004 2006 2008 2009 2010

2.197 2.714 2.696 4.820 7.405 7.770 5.700 6.4Fonte: http://www.dtm.gov.tr

Nel 2010, i mercati più interessanti per le esportazioni turche sono stati: l’Egitto ( 2,2 miliardi di US

$), la Libia (1,9 miliardi di US $), l’Algeria (1,3 miliardi di US$), la Tunisia (713 milioni di US$), il

116

Page 117: Storia dell'Africa

Marocco (624 milioni di US$) ed il Sud Africa (369 milioni di US $). Le vendite si sono

concentrate su macchinari e prodotti plastici.

Sempre nello stesso anno, i mercati più attraenti per la Turchia ai fini delle importazioni sono stati

l’Algeria ( 2,2 miliardi di US$), l’Egitto (926 milioni di US$), il Sud Africa (889 milioni di US$), la

Nigeria (602 milioni di US$) e la Libia (425 milioni di US$). Per lo più la Turchia ha importato

minerali, pietre preziose, metalli, cacao, ferro e acciaio.

E’ evidente la convergenza di interessi: nell’ottica di Ankara aprire nuovi mercati a sud del

Mediterraneo significa ridurre la dipendenza dai partner europei (che negli ultimi 2-3 anni hanno

vissuto una profonda crisi economico-finanziaria); dal punto di vista degli Africani significa avere

un nuovo interlocutore, poter contare su un “paladino” islamico nel cuore ma laico nelle forme, che

ha registrato tassi di crescita tra il 6% ed il 9% nell’ultimo decennio.

Centrale si è dimostrato il ruolo della TUSKON Turkish Confederation of Businessmen and

Industrialists (vale a dire la Confindustria locale) che ha promosso incontri tra industriali e missioni

di imprenditori turchi interessati ad operare nella regione africana. In un numero della rivista

“Nigrizia” di dicembre 2011, è stata riportata la posizione di Rizanur Meral (presidente della

TUSKON) secondo il quale “sono molti gli imprenditori turchi che pensano all'Africa come

‘ancora di salvataggio’ ”. Per la Confindustria turca, quello sub-sahariano è il mercato in più rapida

crescita nei prossimi 10 anni. Sempre “Nigrizia” ha ricordato che “Le imprese turche sono

impegnate, in particolare, nelle infrastrutture e in campo edilizio. In Nigeria, la Eser Construction,

oltre a realizzare strade nello stato di Osun (nella regione sud), è stata chiamata a migliorare le

ferrovie del paese con un progetto di 230 milioni di dollari. Sono sempre imprenditori turchi quelli

che stanno costruendo l'ospedale di Abuja. E la Nigerian-Turkish Nile University (Ntun) della

capitale è figlia di un progetto turco-nigeriano”.

Le visite di alto livello hanno evidenziato il crescente interesse di Ankara nei confronti del cd. black

continent. Oltre a quella precedentemente accennata del 2005 del Premier Erdogan in Sud Africa ed

Etiopia, è opportuno ricordare le sue missioni in Sudan (2006), in Somalia, Etiopia, Egitto, Tunisia,

Libia e Sud Africa (2011). A ciò si aggiungano quelle del Presidente Abdullah Gul in visita in

Egitto, Tanzania e Kenya (2009), in Cameroun e Repubblica Democratica del Congo (2010).

Anche l’apertura di nuove rappresentanze diplomatiche è un segno molto importante: negli ultimi 4

anni sono state aperte 15 nuove ambasciate turche nel continente (in Ghana, Cameroon, Cote

d’Ivoire, Angola, Mali, Madagascar, Uganda, Niger, Chad, Tanzania, Mozambico, Guinea, Burkina

Faso, Mauritania e Zambia), con annesse le strutture della cooperazione.

117

Page 118: Storia dell'Africa

La disponibilità mostrata dalla Turchia nella mediazione per il Darfur merita una riflessione a

parte. Molti studiosi hanno parlato di una “passive quiet diplomacy” utilizzata nei confronti di

Khartoum, intendendo per passive quiet diplomacy un modo di discutere i problemi con gli altri

partner attraverso un approccio pacifico e di ascolto. In realtà i leader di Ankara hanno applicato il

principio del rispetto della sovranità (in linea con la politica dell’Unione Africana adottata per la

regione occidentale sudanese dal 2003 ad oggi), e -pur rigettando l’applicazione del termine

“genocidio” (poco conveniente rispetto a passate azioni perpetrate dall’Impero Ottomano e dai

Giovani Turchi nei confronti del popolo armeno)- hanno espresso in modo franco le loro

osservazioni al Presidente El Bashir “in incontri a porte chiuse”.

Da un lato gli interessi politici e gli imperativi economici con il mondo arabo e con l’Africa, hanno

indotto il Premier Erdogan ed il Ministro degli Esteri Davutoglu a non prendere una posizione forte

e di contrasto con Khartoum, dall’altro, il desiderio di ritagliarsi un ruolo da giocatore esterno ha

comportato una “critica privata”, facente leva sui rapporti economici e sugli aiuti elargiti negli

ultimi anni.

Seppur lodevole nella finalità, la Turchia ha sbagliato a non fornire un’adeguata informazione ai

media internazionali e a non dare una spiegazione delle sue intenzioni alla società civile. In tale

contesto si deve anche ricordare che la Turchia ha co-presieduto con l’Egitto l’“International

Donor’s Conference for the Reconstruction and Development of Darfur” il 21 Marzo 2010 al Cairo.

Altro “teatro operativo africano” che ha visto la Turchia particolarmente attiva, è stato quello della

Somalia: dal 21 al 23 maggio 2010 Istanbul ha infatti ospitato una conferenza atta a fornire un forte

supporto al Processo di Pace di Djibouti ed al Governo di transizione di Mogadiscio; nell’ambito

dell’OIC- Organization of Islamic Cooperation ha inoltre promosso un meeting d’emergenza

nell’agosto 2011 per discutere degli aiuti alla Somalia, colpita dalla siccità e dalla carestia,

raccogliendo 201 milioni di US$.

Quanto fatto ad oggi è indubbiamente significativo ma se la Turchia vorrà approfondire i legami

con il continente africano, oltre al canale commerciale dovrà lavorare anche nel settore culturale. A

tal fine, potrebbe rivelarsi utile all’esecutivo di Ankara promuovere un avvicinamento delle società;

far conoscere meglio le rispettive lingue, storie e culture; favorire scambi di studenti universitari e

sostenere incontri tra studiosi delle due aree. Ciò significherebbe fare un salto qualitativo e

permetterebbe un inserimento a pieno titolo tra i numerosi interlocutori che si presentano, oggi,

nella regione sahariana.

LEZIONE N. 27-28“I RAPPORTI AFRICA-USA”

118

Page 119: Storia dell'Africa

I rapporti Africa-USA hanno subito un’evoluzione nell’ultimo trentennio: se durante la guerra

Fredda il “black continent” era considerato uno scacchiere in cui gli USA si confrontavano

indirettamente con l’Unione Sovietica, dopo la caduta del Muro di Berlino c’è stato un progressivo

disinteresse con la riduzione degli aiuti e della presenza americana.

L’esperienza somala (fine 1992-inizio 1994) fu vissuta dagli Stati Uniti come un grave errore, che

rafforzò la convinzione del necessario allontanamento da una regione intesa come “potenziale fonte

di problemi”. La diplomazia di Wahington non fece nulla per bloccare il genocidio in Rwanda e la

disponibilità di Bill Clinton si limitò ad organizzare una conferenza sull’Africa alla Casa Bianca il

26-27 giugno 1994, nonché a mandare Jesse Jackson come inviato speciale nella regione

occidentale africana per cercare una soluzione alla crisi della Sierra Leone nel maggio 2000.

Durante gli anni della Presidenza Clinton (1993-2001), la linea adottata in Africa fu soprattutto

quella del multilateralismo; vennero messe in luce questioni chiave relative allo sviluppo

(degradazione ambientale, rischi per la salute pubblica); aumentò il ruolo e l’influenza di

organizzazioni non governative attive in Africa (ad es. Global Coalition for Africa, African-

American Institute, Carter Center, Africare); venne promosso il disegno di legge dell’African

Growth Opportunity Act (AGOA), poi trasformato in legge nel maggio 2000, secondo la logica del

“trade not aid”.

Il cambio di tendenza della politica americana sarebbe avvenuto a distanza di poco tempo, non per

programmazione mirata o disegno politico specifico ma per “forzatura” della storia.

A pochi mesi dalle elezioni presidenziali, il candidato repubblicano George Bush aveva infatti

espresso la mancanza di interesse nei confronti dell’Africa da parte del suo partito: di fatto, il

continente era nella parte bassa della lista delle priorità degli USA. Fu solo l’11 settembre 2001 a

modificare velocemente tale percezione: la frattura con il mondo arabo comportò un’attenzione

verso aree alternative produttrici di petrolio; la minaccia del terrorismo globale ed il suo network

indusse a rivedere la presenza ed i programmi militari americani nelle regioni del Sud del mondo,

dove carenze strutturali (povertà, debole governance, corruzione, scarso controllo del territorio da

parte del potere centrale) venivano percepite come una potenziale minaccia, in quanto terreno fertile

per lo sviluppo di organizzazioni radicali islamiche.

Commercio, ricerca di nuove fonti petrolifere e lotta al terrorismo hanno guidato di fatto la politica

americana in Africa nell’ultimo decennio.

Sulla base di tale assunto, di seguito verrà fatta una breve presentazione dell’AGOA, di alcune

iniziative militari americane in Africa ed infine di AFRICOM.

119

Page 120: Storia dell'Africa

L’AGOA mira a facilitare l’accesso negli Stati Uniti di determinati prodotti africani (ad oggi circa

7000) – a condizione che non danneggino la produzione nazionale- a tariffa zero o a tariffa ridotta,

provenienti da un preciso numero di paesi africani, eleggibili secondo standard ben precisi.

L’eleggibilità di un paese beneficiario dipende dal fatto che esso abbia fatto o stia facendo progressi

verso lo stabilimento di un’economia di mercato ed il pluralismo politico; che abbia fatto degli

sforzi per combattere la corruzione; che abbia promosso politiche per ridurre la povertà, rendere

accessibile le cure sanitarie e le opportunità educative ai suoi cittadini; che non sia coinvolto in

azioni che mettono in pericolo la sicurezza americana ed i suoi interessi di politica estera; che non

sia implicato in violazioni di diritti umani e non assicuri supporto al terrorismo. La lista annuale dei

paesi coinvolti nell’iniziativa dipende dalle condizioni politiche locali: alcuni Stati sono stati

rimossi per brevi periodi (vd Guinea, Madagascar, Niger nel 2009 a seguito di rivolgimenti interni)

e poi reinseriti dopo aver avviato un processo di normalizzazione politica interna.

Al 2012 risultano beneficiari dell’AGOA:

Angola Ghana NigeriaBenin Guinea RwandaBotswana Guinea Bissau Sao TOmé e PrincipeBurkina Faso Kenya SenegalBurundi Lesotho SeychellesCameroon Liberia Sierra Leone Capo Verde Madagascar Sud AfricaChad Malawi SwazilandComore Mali TanzaniaCongo Mauritius TogoDjibouti Mauritania UgandaEtiopia Mozambico ZambiaGabon NamibiaGambia NigerFonte: www.agoa.info

Da un rapido esame della tabella è evidente che: 1) in tale lista non rientrano i paesi del Nord Africa

con cui gli Stati Uniti perseguono un altro tipo di rapporto e fanno rientrare in una diversa categoria

(quella dei MENA Middle East and North African Countries); 2) non sono inseriti Stati come

Eritrea, Sudan e Zimbabwe nei confronti delle cui leadership al potere permangono perplessità, se

non contrasti (più o meno palesi).

Inizialmente l’AGOA era prevista fino al 2008, poi nel 2004 il Congresso americano decise di

prorogarla al 2015.

Le importazioni americane in seguito al varo dell’AGOA si sono diversificate. Tra i prodotti

significativi acquistati risultano: gioielli, frutta e noci, succhi di frutta, prodotti in pelle, prodotti

plastici, pasta di cacao.

120

Page 121: Storia dell'Africa

Nel 2010 i paesi maggiormente beneficiari dell’AGOA sono risultati in primis Nigeria, Angola,

Sud Africa, Congo e Chad, quindi Gabon, Repubblica Democratica del Congo, Lesotho, Kenya,

Cameroon e Mauritius.

A parte l’AGOA, un quadro più generale dei rapporti commerciali USA-Africa sub-sahariana

permette di dire che le esportazioni americane (per lo più macchinari e motoveicoli) sono passate da

14,29 miliardi di US$ nel 2007 a 17,06 miliardi di US$ nel 2010; le importazioni dall’Africa

(petrolio, gas, platino, diamanti, cacao) sono passate da 67,35 miliardi di US$ nel 2007 a 65,01

miliardi US$ nel 2010 (di cui 44 miliardi di US$ nell’ambito dell’AGOA).

Commercio bilaterale USA-Africa sub-sahariana (miliardi US$)

Export/Import 2007 2008 2009 2010US exports 14,29 18,47 15,15 17,06US Imports 67,35 86,05 46,90 65,01Fonte: US Department of Commerce

Nella lista dei paesi africani acquirenti di prodotti made in USA si distinguono Sud Africa (41,6%),

Nigeria (29,8%) , Angola (9,5%), Ghana (7,3%), Etiopia (5,6%), Benin (3,4%) , Kenya (2,7%) ;

nella lista dei paesi fornitori si segnalano Nigeria (46,9%), Angola (18,4%), Sud Africa (12,6%),

Gabon (3,4%).

Per quanto concerne le iniziative militari americane in Africa si segnalano:

Area orientale:

- l’East African Counter-Terrorism Initiative (EACTI), stabilito nel giugno 2003 come programma

del Dipartimento di Stato, provvede a fornire agli stati-chiave dell’area orientale africana la

formazione militare per rafforzare la sicurezza sulle coste, le linee di frontiera terrestri, gli

aeroporti;

- la Combined Joint Task Force, Horn of Africa (CJTF-HOA) è una task force che combina

assistenza alla sicurezza con programmi umanitari che mirano a combattere il terrorismo, a ridurre

le condizioni che portano al terrorismo, a convincere le popolazioni a dare un supporto nella guerra

al terrorismo.

Area Occidentale:

- la Pan-Sahel Initiative (PSI) promossa tra il novembre 2002 ed il marzo 2004 con un budget di

oltre 7,75 milioni di US$ (alcune fonti parlano di 8,4 milioni di US$), si proponeva dir assicurare

assistenza a Chad, Niger, Mali e Mauritania nella formazione del personale militare, al fine di

121

Page 122: Storia dell'Africa

migliorare la sicurezza nelle loro aree di confine ed impedire movimenti/collegamenti di gruppi

terroristi nelle aree nazionali.

- la Trans-Sahel Counter-Terrorism Initiative (TSCTI) - nata inizialmente con un budget di 16

milioni di US$ nel 2005, con l’obiettivo di portare tale quota a 30 milioni di US$ nel 2006 e a 100

milioni di US$ all’anno fino al 2011- l’iniziativa era finalizzata a sconfiggere organizzazioni

terroriste, rafforzare e istituzionalizzare la cooperazione tra le forze regionali; promuovere la

governance democratica, discreditare l’ideologia terrorista e rafforzare i legami bilaterali militari

con gli Stati Uniti. La TSCTI ampliava l’ottica delle’area seguita dalla PSI, coinvolgendo

Mauritania, Mali, Chad, Niger, Nigeria Senegal, Marocco, Algeria e Tunisia.

La creazione di AFRICOM, il comando militare americano che focalizza la sua attenzione su tutto

il continente (ad eccezione dell’Egitto che rientra sotto lo US CENTCOM-Central Command) ha

aperto un nuovo capitolo focalizzato sulla sicurezza nella collaborazione USA-Africa.

Lo US Africa Command AFRICOM è stato attivato il 1° ottobre 2007 ed è divenuto operativo il 1°

ottobre 2008. E’ stato comandato dal Gen William E. Kip Ward dal 1° ottobre 2007 al 9 marzo

2011; dal 9 marzo 2011 è diretto dal Gen Carter F Ham .

Secondo quanto riportato dalla documentazione di AFRICOM, l’intento è duplice: 1) proteggere il

territorio americano, i cittadini statunitensi all’estero e gli interessi nazionali dalle minacce

transnazionali che emanano dal continente africano; 2) attraverso un impegno sostenuto, permettere

ai partner africani di creare un ambiente della sicurezza che promuova stabilità, favorisca la

governance, incoraggi lo sviluppo.

Le attività, i piani e le operazioni di AFRICOM sono centrate su due principi guida che riconoscono

che: 1) un continente africano sicuro e stabile è nell’interesse nazionale americano; 2) sul lungo

periodo saranno gli africani stessi i più abili a cogliere le sfide per la loro sicurezza.

I compiti più importanti di AFRICOM sono:

- dissuadere o sconfiggere Al Qaeda e qualsiasi altra organizzazione estremista che opera in Africa;

- rafforzare le capacità di difesa degli stati-chiave africani e dei partner regionali. Attraverso

l’impegno costante e mirato, aiutare gli africani a costruire istituzioni di difesa e forze militari che

siano capaci, durevoli, subordinate all’autorità civile, rispettose della legge, impegnate a garantire il

benessere dei cittadini. Accrescere la capacità degli stati-chiave nel contribuire alle attività militari

regionali ed internazionali, finalizzate a preservare la pace e a combattere le minacce transnazionali

alla sicurezza;

- assicurare l’accesso americano all’Africa ed attraverso il suo territorio, a supporto delle richieste

globali;

122

Page 123: Storia dell'Africa

- essere preparati, come parte di un approccio governativo nel suo insieme, ad aiutare a proteggere

gli stati africani dalle atrocità di massa. La qual cosa comporta che il modo migliore per far ciò sia

l’impegno intenso e prolungato con i militari africani;

- qualora ricevute istruzioni, assicurare il supporto militare agli sforzi di assistenza umanitaria.

La localizzazione di AFRICOM ha comportato un acceso dibattito tra i partner africani, che si sono

rifiutati di ospitare la struttura. Per tale motivo, al momento la sede è a Stoccarda (Germania).

Gli avvenimenti degli ultimi anni (la pirateria al largo delle coste somale, la presenza di Al Shabab

in Somalia, di Boko Haram in Nigeria, di Al Qaeda nel Maghreb Islamico in un’area che copre

parte dello spazio maghrebino e parte dello spazio saheliano, il terrore seminato dal Lord’s

Resistance Army nella regione centrale africana) hanno evidenziato i rischi che corre l’Africa,

tagliata da un’asse est a ovest in cui si raccordano formazioni terroriste collegate all’islam radicale e

al Al Qaeda, che vogliono islamizzare forzosamente le aree in cui operano e sovvertire l’ordine

istituzionale. Non è un rischio fine a se stesso, in quanto il territorio può essere utilizzato come base

per l’organizzazione di attentati nell’area al di là del Mediterraneo (vale a dire l’Europa) ed oltre

Oceano (cioè negli Stati Uniti).

Non è più solo la Somalia il “black hole” africano: Nigeria, Mali e Nord Africa vivono drammatiche

fasi storiche che potrebbero facilmente degenerare, provocando un effetto domino di instabilità.

Proprio per questo motivo, l’amministrazione di Barack Obama si muove con estrema cautela in

Africa perché è consapevole della sua importanza per la sicurezza e la prosperità della comunità

internazionale, per gli Stati Uniti in particolare. Good governance, lotta alla corruzione, sviluppo

economico, valorizzazione delle risorse umane sono tasselli attraverso cui è possibile formare

l’Africa del XXI secolo. In occasione della sua visita in Ghana nel luglio 2009, il Presidente

americano ha sottolineato con forza che “L’Africa non ha bisogno di uomini forti ma di istituzioni

forti”, e proprio sulla base di tale convinzione si sta adoperando per promuovere un rafforzamento

della capacità istituzionale africana.

123

Page 124: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 29“I RAPPORTI AFRICA-REGNO UNITO”

Il Regno Unito è stato un attore determinante per la storia africana degli ultimi due secoli.

Nell’applicazione del suo sistema coloniale, basato sull’“indirect rule”, il Regno Unito ha

dimostrato grande spirito pragmatico ed adattamento alle realtà locali. Questo approccio ha segnato

profondamente tutte le vicende politiche delle colonie britanniche negli anni successivi alle

indipendenze ed è poi stato alla base delle nuove forme di collaborazione tra le parti.

Per comprendere gli elementi caratteristici del rapporto Regno Unito-Africa nell’ultimo

cinquantennio è interessante tornare indietro nel tempo e capire quale è la logica alle sue radici. In

tal senso può essere utile riflettere su quanto scritto dalla storica Anna Maria Gentili sulla fase

coloniale:

“L’indirect rule derivava da una concezione del tutto opposta all’ideale universalista; non partiva dalla premessa che fosse possibile e si dovesse dovunque operare per la necessaria ed ineluttabile evoluzione di tutte le società verso un’omogenea civilizzazione. Metteva invece in primo piano il primato e l’esclusività della diversità culturale, di razza, lingua e istituzioni sociali. La dominazione britannica distingueva perciò nettamente tra governo coloniale e la costruzione di ‘native administrations’ in ciascun territorio che funzionassero per mezzo di istituzioni tradizionali. (…) Compito del governo coloniale doveva essere di promuovere azioni e programmi di benessere economico e sociale, per mezzo appunto dell’uso delle consuetudini, garantite dalla gestione dei capi legittimamente considerati tradizionali.La nozione di ‘native administration’ contemplava una notevole misura di libertà d’azione per le autorità indigene, riconosciute e rimodellate secondo le suddivisioni amministrative e le funzioni che il governo coloniale centrale ed i ‘district commissionerrs’, i funzionari locali ritenevano potessero rispondere all’esigenza di massimizzare risparmio di fondi ed efficienza amministrativa.La colonizzazione britannica in molte parti del mondo aveva costruito un diversificato corpus di esperienze, sicchè lo status delle dipendenze britanniche più che dalla teoria legale dipendeva dalla stratificazione di rapporti, negoziati, trattati e dalle circostanze storiche della loro incorporazione in colonie e protettorati. La tradizionale elasticità del costituzionalismo britannico lasciava dunque spazio a diverse forme di governo nelle dipendenze (…)”

Spartizione dell’Africa, con indicazione dei territori facenti parte a vario titolo dell’impero britannico (1885-1914)

124

Page 125: Storia dell'Africa

Pragmatismo ed adattamento sono dunque le caratteristiche dell’asse verticale che si sviluppa dal

Sud Africa all’Egitto, in cui si trovano colonie, mandati e protettorati, aree sulle quali si sviluppano

diverse forme di controllo da parte del Regno Unito. Ma pragmatismo e adattamento si prolungano

nel tempo e divengono gli elementi peculiari del rapporto tra Londra e le capitali africane anche

dopo le indipendenze.

Secondo James Mayall, a partire dal momento in cui si ritira dalle colonie africane, il Regno Unito

adotta un approccio per trasformare le eredità imperiali “da responsabilità a risorse vantaggiose”,

sentendo il bisogno di creare una rete di “relazioni speciali” anche se di più basso profilo rispetto

alle precedenti.

Nel corso degli anni ‘70, i governi di Londra operano con le loro ex colonie attraverso rapporti

bilaterali privilegiati ed attraverso il Commonwealth, pur nella consapevolezza negli anni ’80-’90

che l’Africa rappresenta una fonte di problemi piuttosto che un’opportunità.

Finita la fase della Guerra Fredda, gli esecutivi conservatori del Regno Unito (guidati da Margaret

Thatcher e John Major) seguono con particolare attenzione le vicende europee e su di esse

proiettano (in modo vigile) forze e risorse. Ciò comporta inevitabilmente la riduzione degli aiuti a

favore del continente africano (a tal riguardo, Paul Williams parla di una riduzione del 18% per il

budget africano tra il 1994 ed il 1997) e la chiusura di sedi diplomatiche in Africa.

E’ solo con il governo laburista di Tony Blair (dal maggio 1997 al giugno 2007) che i temi africani

rientrano nell’agenda britannica. La creazione nel febbraio 2004 di una Commissione ad hoc, voluta

dallo stesso Primo ministro britannico, quale organo tecnico consultivo a supporto del Piano

d’azione per l’Africa del G8 nonché delle iniziative varate in ambito europeo, induce in quegli anni

a ben sperare per la promozione di nuove politiche a favore del continente.

La “Commission Blair” presenta il Rapporto finale “Our Common Interest” nel marzo 2005. Il

documento è frutto del lavoro di 17 Commissari (tra cui spiccano illustri personalità della Nigeria,

dell’Uganda, del Ghana, del Sud Africa, della Tanzania, della Cote d’Ivoire, dell’Etiopia e del

Botswana) che hanno partecipato a tre incontri ufficiali e a numerose conferenze settoriali con

esponenti del mondo della finanza e della società civile africana. L’obiettivo è quello di promuovere

nuove idee per lo sviluppo ed implementare gli impegni assunti con l’Africa.

Commission for Africa (2005)

125

Page 126: Storia dell'Africa

Seppur nato in un’atmosfera di grande euforia, il Rapporto presenta numerose zone d’ombra. Nel

documento c’è la percezione di un cambiamento in atto nel continente, c’è il richiamo alla

responsabilità locale ed a una migliore governance, c’è l’ampliamento di impegno finanziario da

parte dei Paesi ricchi, ma viene fatta semplicemente una foto della realtà africana al 2005 e viene

riconosciuta la disponibilità dei Paesi ricchi ad aumentare le risorse destinate in assistenza allo

sviluppo (con una variazione dall’ 0,25 allo 0,7 % del Pil).

All’epoca della sua pubblicazione, molti critici notarono che il Rapporto della Commissione Blair

era semplicemente un tentativo di realismo politico di un leader che voleva riguadagnare consensi

all’interno del partito laburista dopo la guerra in Iraq e che voleva dare un segnale “di divisione di

sfere di competenza” all’Amministrazione americana (secondo tale ipotesi, il Grande Medio Oriente

sarebbe preso sotto l’ala protettrice di Washington, mentre l’Africa passerebbe sotto la copertura di

Londra), ma di fatto non apportava un qualcosa di nuovo e vantaggioso per lo sviluppo del

continente.

Nel settembre 2010, la Commissione ha pubblicato un secondo Rapporto “Still Our Common

Interest”in cui sono stati esaminati i risultati degli ultimi 5 anni, sono state identificate le sfide e le

opportunità future per il continente africano e sono state fatte nuove raccomandazioni. Nonostante i

progressi registrati in diversi settori per il raggiungimento dei Millennium Development Goals, è

stata messa in luce la grave debolezza della riforma nel reparto commerciale.

Parlando della relazione in essere tra la Gran Bretagna e l’Africa, non si può dimenticare il ruolo del

Commonwealth. Tale associazione volontaria di 54 paesi (19 facenti parte dell’Africa, 8 dell’Asia, 3

delle Americhe, 10 dei Caraibi, 3 dell’Europa ed 11 del Pacifico) in cui vivono 2 miliardi di

persone, è presentata come una struttura in cui i membri “si supportano vicendevolmente e

lavorano insieme verso gli obiettivi condivisi della democrazia e dello sviluppo”.

Logo del Commonwealth

Il lavoro dell’associazione volontaria è finalizzato a costruire istituzioni democratiche forti nei paesi

membri; a consolidare le politiche ed i sistemi che supportano la crescita economica degli aderenti;

a contribuire allo sviluppo di società in cui gli individui abbiano accesso ad un alto livello di

educazione, senza alcun riguardo al genere, all’età, allo status economico o all’etnia; a promuovere

e supportare lo sviluppo economico-sociale all’interno dei paesi membri, specialmente i più piccoli

e meno sviluppati; a prevenire e risolvere i conflitti; a supportare lo sviluppo dei sistemi sanitari

126

Page 127: Storia dell'Africa

nazionali; a favorire lo sviluppo umano; a sostenere lo stato di diritto; a garantire il rispetto dei

diritti umani.

Tra le azioni prioritarie dell’organizzazione si ricordano: l’incoraggiamento all’adozione di

normative a tutela dei diritti umani; l’assistenza -attraverso la formazione del personale- alle

commissioni nazionali che operano per la tutela dei diritti umani e l’aiuto alle agenzie attive nel

medesimo settore; la creazione di un network di soggetti (governativi e non) che promuovano la

condivisione dell’informazione relativa a programmi per la tutela dei diritti umani.

Sostanzialmente si può dire che il Regno Unito nell’ultimo ventennio ha promosso la pace nel

continente (inviando truppe nazionali in operazioni sotto bandiera ONU, provvedendo alla

formazione di personale di polizia ed all’addestramento delle truppe africane) ma lo ha fatto con

budget limitati ed in modo selettivo (è rimasto, ad esempio, estraneo al genocidio rwandese perché

il paese era al di fuori della sua sfera di influenza); ha sostenuto la “good governance” e la

prosperità economica (supportando ad esempio il New Partnership for Africa’s Development-

NEPAD, lanciato dagli stessi africani nel 2001); ha incoraggiato la democrazia, promuovendo paesi

come la Nigeria e la Sierra Leone e colpendo invece – attraverso sanzioni- paesi come lo Zimbabwe

(con cui ha un rapporto difficile da lungo tempo) in cui non è garantito il rispetto dei diritti

dell’uomo e prevale un regime dispotico.

I governi laburisti sono stati più attivi rispetto a quelli conservatori nel proporre un ventaglio di

azioni per l’Africa, ma è anche vero che proprio durante la loro guida sono aumentate le vendite di

armi al continente.

Il ritorno ad un governo conservatore guidato da David Cameron (dal maggio 2010) ha registrato un

atteggiamento volitivo nella politica africana: basti pensare alla presa di posizione nei confronti

della Libia a partire dal febbraio 2011, nonché alla missione ufficiale del luglio 2011 in Sud Africa

volta a rilanciare il messaggio che il commercio -e non l’aiuto- è la chiave della prosperità africana.

Di fatto si percepisce la volontà ed il bisogno da parte del governo britannico in carica di

impegnarsi nel continente, sia perché qui si trovano economie che stanno crescendo del 5% ed in

cui si può investire, sia perché l’Africa sta divenendo un interlocutore prezioso per il rifornimento

di fonti energetiche, sia perché quest’area è ormai divenuta l’ultima frontiera vicina all’Europa in

cui si sta combattendo la battaglia contro il terrorismo internazionale di matrice islamica.

127

Page 128: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 30-31“I RAPPORTI AFRICA-FRANCIA”

Quando si parla del rapporto tra i grandi protagonisti internazionali e l’Africa - nonostante la

comparsa sulla scena internazionale di dinamici player asiatici- il punto di riferimento, resta sempre

la Francia. Tale attore è stato indiscutibilmente protagonista attivo della storia africana degli ultimi

200 anni: dalla fase coloniale(assieme al Regno Unito ed in misura minore alla Germania, al

Portogallo e più tardi all’Italia) ad oggi.

Di fatto la Francia ha influenzato notevolmente la storia degli Stati Africani attraverso:

1) l’adozione nel periodo coloniale di un sistema fondato sul principio dell’assimilation con la

creazione di due macroaree (la federazione dell’Africa Occidentale Francese –AOF che

raggruppava le 8 colonie della Mauritania, del Senegal, del Sudan francese divenuto Mali,

Guinea, Cote d’Ivoire, Niger, Alto Volta divenuto Burkina Faso, Dahomey divenuto Benin; e la

federazione dell’Africa Equatoriale Francese-AEF che riuniva Gabon, Medio Congo divenuto

poi Congo Brazzaville, Oubangui-Chari divenuto poi Repubblica Centrafricana, Tchad) più il

Madagascar;

2) il comportamento avuto tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 nella fase della

decolonizzazione;

3) la ricerca forzosa di un “rapporto condizionante” dal 1955-1960 in poi.

Pur tralasciando la fase coloniale del XIX secolo, prima di proseguire nell’approfondimento dei rapporti Francia-Africa è importante capire i delicati anni di passaggio compresi tra il 1956-1960.A tal fine appare illuminante quanto scritto da due noti africanisti, Calchi Novati e Valsecchi, nel volume intitolato “Africa: la storia ritrovata” del 2005:

“La Francia tentò, senza molto successo, di facilitare l’accesso all’indipendenza dei suoi possedimenti dell’Africa nera architettando un’istituzione che ripetesse i compiti assolti dal Commonwealth per i possedimenti inglesi. La Comunità franco-africana ideata da De Gaulle nel 1958 per l’ultimo passaggio della decolonizzazione fu poco più di una finzione ed ebbe comunque vita breve (…) Tutto il tormentato processo di decolonizzazione dell’AOF e AEF è stato un dosaggio non sempre limpido fra la concessione dell’autonomia ai territori africani e il mantenimento di una qualche forma di controllo da parte di Parigi.Già nel corso della guerra il generale De Gaulle, alla ricerca come capo delle Francia libera di alleati contro la Germania e i collaborazionisti di Vichy, promise alle colonie africane il passaggio dall’assimilazione all’associazione (Conferenza di Brazzaville, 1944)(…) Nel 1956, fu varata una legge-quadro che istituiva nell’AOF, nell’AEF e nel Madagascar governi autonomi.(…)Le divisioni statuite dalla legge del 1956 trovarono una sanzione nell’esito del referendum costituzionale indetto nel 1958 al via della Quinta Repubblica fondata da De Gaulle (…). Il referendum del 1958 in teoria permetteva di scegliere fra l’indipendenza immediata ed una forma di autonomia condizionata entro l’istituenda Comunità franco-africana, rimandando ancora l’emancipazione piena dei territori africani. Solo la Guinea votò in massa per l’indipendenza. Il capo del suo governo, Sekou Touré, un sindacalista con propensioni per il marxismo, disse con fierezza a De Gaulle durante la sua visita a Conakry che il popolo della

128

Page 129: Storia dell'Africa

Guinea preferiva la libertà nella penuria alla ricchezza nella servitù. (…) Il passaggio all’indipendenza fu brusco perché il governo francese accettò il verdetto ma interruppe dall’oggi al domani tutte le relazioni con la Guinea indipendente, ritirando i tecnici e revocando ogni forma di assistenza. L’esempio della Guinea doveva essere penalizzato affinché nessuno avesse l’ardire di imitarlo. Con l’eccezione della Guinea, il responso del referendum diede ragione alla Francia: ci furono forzature, forse qua e là i risultati furono aggiustati o distorti (qualche sospetto fu espresso a proposito del voto del Niger) ma nel complesso il ‘sì’ vinse con facilità. I governi in carica – un ceto politico ben inserito nelle logiche di potere interne alle società locali che svolgeva mansioni burocratiche sotto l’ala della Francia preparandosi alla transizione – disponevano di sufficiente forza persuasiva per far passare le consegne di voto, loro e di Parigi.Per l’indipendenza dell’Africa francese era solo questione di anni o addirittura di mesi”

E’ in questi anni che nasce la necessità per alcuni politici africani di mantenere i rapporti privilegiati

con la Francia anche dopo l’indipendenza, parallelamente al bisogno di Parigi di garantirsi fonti di

approvvigionamento privilegiate. Da questo momento, la Francia è costretta ad inventarsi un nuovo

modo per conservare il suo controllo sull’area a Nord ed sud del Sahara.

Si possono distinguere quattro pilastri del complesso rapporto Francia-Africa nell’ultimo

cinquantennio:

1) la “françe-afrique”;

2) i summit Africa-Francia;

3) l’Organizzazione della Francofonia;

4) la linea adottata dagli ultimi 4 Presidente in carica all’Eliseo.

1) Il termine françe-afrique (coniato dal Presidente ivoriano Houphouet Boigny nel 1955 e molto

utilizzato negli anni ’90 per denunciare le degenerazioni e gli scandali della V Repubblica francese)

indica il carattere occulto delle relazioni Francia-Africa, una sorta di diplomazia sotterranea, un

sistema caratterizzato da pratiche di sostegno a dittature e golpe militari (da parte francese) ma

anche da storni di fondi pubblici e finanziamenti a partiti politici francesi (da parte africana).

L’obiettivo è quello di creare un legame capace di mantenere i vantaggi reciproci.

L’uomo chiave a cui De Gaulle lascia manovra libera nelle questioni africane è Jacques Foccart,

personaggio occulto per alcuni versi, potentissimo responsabile della “cellula africana dell’Eliseo” e

profondo conoscitore del mondo africano. E’ Foccart, il “Monsieur Afrique” che avvia e perpetua

questo nuovo sistema in cui sussiste una dipendenza di fatto dei paesi africani in una prima fase dal

1960 al 1974, poi in una seconda fase dal 1986 al 1997.

129

Page 130: Storia dell'Africa

Jacques Foccart, “Monsieur Afrique”

La françe-afrique permette alla Francia di avere sempre l’accesso alle materie prime del continente;

di mantenere un “ruolo di potenza mondiale”, di avere un flusso di finanziamenti illeciti per i suoi

partiti, derivante da trasferimenti poco chiari e corruzione nei paesi africani.

Seppur in diverso modo, tutti gli Stati dell’area francofona (dal nord al centro africa) sono

interessati dal suddetto fenomeno:, Algeria, Marocco, Tunisia, Mauritania, Niger, Mali, Benin,

Togo, Cote d’Ivoire, Gabon, Congo Brazzaville, Cameroun, Repubblica Centrafricana.

Nascosta dalla tutela“dell’interesse di stato”, nel corso degli anni si è creata una rete di personaggi

occulti, uomini d’affari, rappresentanti militari, tra cui si possono ricordare Maurice Robert

(direttore del Service de Documentation Extérieure et de Contre-Espionnage-SDECE in Africa),

Robert Bourgi (avvocato franco-libanese), Patrick Balkany (deputato francese dell'Union pour un

mouvement populaire, sindaco di Levallois-Perret, amico del Presidente Sarkozy), Yvon Omnès (ex-

ambassadeur de France à Yaoundé), Francis Lott ( ex-ambasciatore francese in Cote d’Ivoire), Jean

Guion (ex consigliere di francois Mitterrand e grande amico del Presidente burkinabè Blaise

Compaoré), Charles Debbasch (già professore di diritto divenuto consigliere della famiglia

Eyadema in Togo), Georges Ouegnin (anziano direttore del protocollo della presidenza ivoriana,

ben introdotto in Congo Brazzaville ed alla presidenza della Banca Africana di Sviluppo)

130

Page 131: Storia dell'Africa

Patrick Balkany Robert Bourgi

Non estranei alla logica della françe-afrique, anzi ad essa strettamente collegati, sono gli accordi di

cooperazione militare tra i diversi partner africani e la Francia, spesso completati da clausole

segrete.

Nonostante sia stato definito un capitolo chiuso diverse volte, la rete d’influenza nelle vecchie

colonie permane nell’ombra ancora oggi, perché legato alle ambizioni della “Francia imperiale”,

una Francia il cui profilo mondiale è legato al nucleare, al seggio permanente al Consiglio di

Sicurezza delle Nazioni Unite, alla posizione in Europa ed alla sua capacità di essere uno degli

estremi dell’asse che domina l’Unione (“asse franco-tedesco”), alla sua influenza in Africa.

2) I Summit Africa-Francia hanno permesso di istituzionalizzare i rapporti tra le parti, dare loro

dignità formale ed offrire un nuovo quadro di dialogo tra la Francia e l’Africa francofona.

Significativa la definizione che diede del 1mo Summit nel 1973, il Ministro degli Affari Esteri

Michel Jobert: “La cooperazione franco-africana, così sovente messa sotto caricatura, costituisce

certamente un elemento di progresso e stabilità nel mondo attuale”

Di seguito la lista degli incontri:

I Summit, Parigi (novembre 1973), focalizzato sul tema della riforma della cooperazione

II Summit, Bangui (marzo 1975), focalizzato sul tema del dialogo Nord-Sud

III Summit, Parigi (maggio 1976), focalizzato sul tema dello sviluppo

IV Summit, Dakar (Aprile 1977), focalizzato sul tema dei crescenti pericoli per l’Africa

V Summit, Parigi (maggio 1978), focalizzato sul tema della sicurezza e dello sviluppo

VI Summit, Kigali (maggio 1979), focalizzato sul tema delle relazioni euro-africane

VII Summit, Nizza (maggio 1980), focalizzato sui temi dell’economia, dello sviluppo e della

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Page 132: Storia dell'Africa

cooperazione

VIII Summit, Parigi (novembre 1981), focalizzato sui temi della solidarietà e dello sviluppo

IX Summit, Kinshasa (ottobre 1982), focalizzato sul tema del dialogo Nord-Sud rispetto alla crisi mondiale

X Summit, Vittel (ottobre 1983), focalizzato sul tema dell’integrità del Chad e la sicurezza alimentare in Africa

XI Summit, Bujumbura (dicembre 1984), focalizzato sui temi dell’autosufficienza alimentare e lo sviluppo coordinato

XII Summit, Parigi (1985), focalizzato sui temi delle difficoltà economiche dell’Africa e dell’indebitamento crescente

XIII Summit, Lomè (novembre 1986), focalizzato sui temi dello sviluppo, dell’apartheid, del Tchad e della sicurezza

XIV Summit, Antibes (dicembre 1987), focalizzato sui temi delle materie prime, del debito e della regione australe africana

XV Summit, Casablanca (dicembre 1988), focalizzato sui temi della distensione est-ovest, del debito e dei conflitti regionali

XVI Summit, La Baule (giugno 1990), focalizzato sul tema delle sfide con cui si sarebbe confrontata l’Africa nel corso dell’ultimo decennio del XXmo secolo.

Storica la precisazione del Presidente Mitterrand durante tale incontro: “Noi non vogliamo più intervenire negli affari interni. Per noi questa forma di sottile colonialismo che consisterebbe nel fare una lezione continua agli stati africani e ai loro dirigenti, è una forma di colonialismo perverso. Sarebbe come credere che ci sono dei popoli superiori, che dispongono della verità e altri che non sono più capaci, quando invece conosco gli sforzi di tanti dirigenti che amano i loro popoli, e che intendono servirli, anche se non allo stesso modo di quanto si svolge sulle rive della Senna o del Tamigi”.

In tale occasione si decise di legare l’aiuto allo sviluppo all’apertura democratica. In tal modo si costrinsero i dittatori africani a modificare i loro paradigmi e a non fare dell’aiuto della Francia un’assicurazione perenne per il mantenimento del regime.

XVII Summit, Libreville (ottobre 1992), focalizzato sul tema della solidarietà, intesa quale esigenza maggiore per uscire dalla crisi

XVIII Summit, Biarritz (novembre 1994), focalizzato sul tema di una solidarietà accresciuta per uno sforzo in favour della crescita e dello sviluppo

XIX Summit, Ouagadougou (dicembre 1996), focalizzato sul tema del buon governo e dello sviluppo

XX Summit, Parigi (novembre 1998), focalizzato sulla sicurezza in Africa

XXI Summit, Yaoundè (gennaio 2001), focalizzato sul tema del confronto dell’Africa con le sfide della mondializzazione

XXII Summit, Parigi (febbraio 1973), focalizzato sul tema di un nuovo partenariato Africa-Francia

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Page 133: Storia dell'Africa

XXIII Summit, Bamako (3-4 dicembre 2005), focalizzato sul tema della gioventù africana

XXIV Summit, Cannes (15-16 febbraio 2007) focalizzato sul tema dell’Africa e l’equilibrio del mondo

XXV Summit, Nizza (31 maggio -1 giugno 2010), focalizzato su alcuni temi politici (quelli dell’Africa nella governance mondiale, del rafforzamento della pace e della sicurezza, del clima e dello sviluppo) e su alcuni temi economici (tra cui quelli delle modalità attraverso cui facilitare l’accesso delle imprese ai finanziamenti, dell’individuazione delle risorse per l’Africa del futuro, della mobilitazione dei migranti per la creazione di imprese e investimenti nel continente africano)

XXV Summit Africa-Francia (Nizza, 2010)

L’organizzazione dell’evento di Nizza è stata finalizzata – a detta del Presidente Sarkozy- alla

rifondazione delle relazioni franco-africane. Il responsabile dell’Eliseo ha inoltre espresso la

volontà di costruire un rapporto “senza complessi” e “volto al futuro”. Tra i vari impegni presi nel

2010 da Parigi, spicca quello della lotta al terrorismo e di un contributo di 300 milioni di euro nel

periodo 2010-2012 per formare 12.000 soldati africani attivi nelle forze di mantenimento della pace,

nonché quello della promozione del ruolo dell’Africa durante le presidenze francesi del G8 e del

G20.

Alcuni osservatori hanno parlato di una “nuova strategia francese” verso il continente, altri hanno

sottolineato la chiara consapevolezza della Francia di essere ormai uno tra i tanti interlocutori

dell’Africa

Secondo quanto fissato nella dichiarazione finale del Summit di Nizza, il prossimo incontro si

dovrebbe tenere in Egitto nel 2013.

3) l’Organizzazione della Francofonia (OIF) è l’istituzione fondata sulla lingua francese e sui valori

comuni delle genti che la condividono (oltre 1 miliardo di persone, tra quanti vivono in paesi

francofoni e coloro che conoscono la lingua). L’organizzazione, fondata nel 1970 sulla base del

trattato di Niamey, è composta da 56 paesi membri e da 19 paesi osservatori.

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Page 134: Storia dell'Africa

La struttura istituzionale dell’OIF prevede un Segretario Generale (dal 2003 è in carica Abdou

Diouf, già Presidente del Senegal); un organo consultivo rappresentato dall’Assemblea

Parlamentare della francofonia; un organo politico che prende decisioni, la Conferenza di Capi di

Stato e di Governo (meglio conosciuta come Summit dei Capi di Stato e di governo, che si riunisce

ogni 2 anni); un organo che dà continuità ai Summit, la Conferenza ministeriale della francofonia

(cui partecipano i Ministri degli Esteri o della francofonia), il Consiglio Permanente della

francofonia incaricato di preparare il lavoro dei Summit e di seguire la fase successiva della messa

in opera delle decisioni prese.

Gli obiettivi dell’OIF, fissati nel 1997 e rivisitati nel 2005 sono:

- instaurazione e sviluppo della democrazia

- prevenzione, gestione e regolamento dei conflitti, sostegno allo Stato di diritto ed ai diritti

dell’uomo;

- avvicinamento delle popolazioni attraverso una mutua conoscenza

- rafforzamento della solidarietà dei popoli attraverso azioni della cooperazione in vista della

promozione dell’educazione e della formazione

A latere degli obiettivi, in occasione del Summit di Ouagadougou del 2004 è stato adottato un piano

decennale che fissa alcune missioni, quali: la promozione della lingua francese e la diversità

culturale e linguistica; la promozione della pace, della democrazia e dei diritti dell’uomo;

l’appoggio all’educazione, alla formazione, all’insegnamento superiore e la ricerca; lo sviluppo

della cooperazione a servizio dello sviluppo sostenibile

Il XIV Summit si svolgerà nell’ottobre 2012 a Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo)

Manifesto del IX summit della francofonia (Kinshasa 2012)

4) La linea adottata dagli ultimi 4 Presidenti in carica all’Eliseo è l’ultimo elemento per

comprendere l’evoluzione della politica africana della Francia degli ultimi anni.

Francois Mitterrand (in carica al vertice dello Stato dal 1981 al 1995) ha avuto dei rapporti con il

continente“poco chiari”, definiti addirittura “ambigui” da taluni esperti. Inizialmente apprezzato in

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Page 135: Storia dell'Africa

quanto socialista e portatore di una nuova visione nei confronti della regione a nord ed a sud del

Sahara, è stato proprio sotto la sua presidenza (e quindi con il suo “placet”, oltre che con la

complicità del presidente ivoriano Houphouet Boigny e del togolese Eyadema) che nel 1987 è stato

assassinato Thomas Sankara (presidente dell’Alto Volta, divenuto Burkina Faso). Cosa ancor più

grave e difficilmente perdonabile, è stato sotto la sua presidenza che si è svolto il genocidio

rwandese nel 1994 senza alcuna sua forma di mediazione tra il presidente assassinato Juvenal

Habyarimana ed il Fronte Patriottico Rwandese (allora guidato dall’attuale Presidente ruandese Paul

Kagame). A suo merito viene però ricordata la messa in moto del processo di democratizzazione

dell’Africa. Determinante in tal senso è stato il Summit Africa-Francia a La Baule del 20 giugno

1990 in cui Mitterrand ha condizionato l’aiuto allo sviluppo all’apertura politica dei vari regimi.

Uomo che ha suscitato inizialmente grandi speranze, ha deluso i suoi sostenitori facendo spesso

ricorso alle pratiche tipiche della françe-afrique.

Il Presidente Mitterrand al XVI Summit Africa-Francia (La Baule, giugno 1990)

Jacques Chirac (in carica all’Eliseo dal 1995 al 2007), detto anche “Chirac l’Africano”, ha

sviluppato dei rapporti eccessivamente personali con gli omologhi africani e paternalistici. Durante

gli anni del suo potere, le truppe francesi sono intervenute diverse volte in Africa (ad es. in Chad, in

Repubblica Centrafricana, in Repubblica Democratica del Congo), ma l’intervento più significativo

è stato quello in Cote d’Ivoire. La grave crisi politica scoppiata nel settembre 2002 in quello che un

tempo era considerato il “gioiello dell’Africa occidentale”, ha spinto la Francia a mandare le sue

truppe per tutelare i connazionali ed i cittadini europei presenti. I rapporti tra Chirac e l’allora

Presidente ivoriano Gbagbo non sono stati mai buoni. Diverse le ragioni al riguardo: l’appartenenza

a campi politici opposti, ma soprattutto i tentativi di Gbagbo di aprire il mercato nazionale ad altri

attori stranieri.

Chirac è stato indubbiamente un grande conoscitore del continente, un uomo che ha traghettato le

relazioni franco-africane nel delicato periodo successivo alla guerra fredda ma soprattutto è stato

colui che ha tentato di difendere in modo estremo gli interessi nazionali francesi in Africa.

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Page 136: Storia dell'Africa

Il Presidente francese Chirac con i Presidenti Blaise Compaoré, Omar Bongo, Paul Biya et Denis Sassou

Nicholas Sarkozy (Presidente francese dal 2007 al 2012) ha fatto pensare ad un cambiamento dei rapporti Africa-Francia ma solo in una primissima fase. Il discorso fatto a Dakar a fine luglio 2007, in occasione di una visita ufficiale all’Università Cheikh-Anta-Diop ha deluso ed indignato la maggior parte degli africani. L’uomo che nella fase pre-elettorale aveva parlato “della necessità di voltare pagina definitivamente dei segreti e delle ambiguità con i partner africani, del bisogno di sbarazzarsi di reti di altri tempi, di emissari che non hanno altro mandato se non quello che si inventano loro stessi” si è presentato in Senegal utilizzando stereotipi e pregiudizi. Esemplificativi alcuni passaggi del famoso discorso:

“ L’Africa ha la sua parte di responsabilità nella propria infelicità (…) La colonizzazione non è responsabile di tutte le difficoltà attuali dell’Africa. Non è responsabile delle guerre sanguinose che gli africani si combattono tra di loro. Non è responsabile dei genocidi. Non è responsabile dei dittatori (…) Per il meglio come per il peggio, la colonizzazione ha trasformato l’uomo africano e l’uomo europeo (…) Sono venuto per dirvi che in voi, giovani d’Africa, ci sono due eredità, due saggezze, due tradizioni che si sono combattute a lungo: quelle dell’Africa e dell’Europa (…) Il dramma dell’Africa deriva dal fatto che l’uomo africano non è entrato nella storia (…) Il problema dell’Africa è che vive troppo il presente nella nostalgia di un paradiso perduto dell’infanzia (…) In questo immaginario dove ogni cosa rincomincia ogni giorno, non c’è spazio né per l’avventura umana né per l’idea del progresso(…) Il problema dell’Africa è di restare fedele a se stessa senza restare immobile (…) La realtà dell’Africa è una demografia troppo forte per una crescita economica troppo debole (…) La realtà dell’Africa è una grande dispersione di energia, di coraggio, di talenti e di intelligenza. La realtà dell’Africa è che è un grande continente che ha tutto per riuscire e che non riesce perché non arriva a liberarsi dei suoi miti (..) Solo voi, giovani d’Africa, potete concretizzare la Rinascita di cui l’Africa ha bisogno perché voi soli ne avete la forza. Vi sono venuto a proporre questa Rinascita (…) Giovani d’Africa, voi volete la democrazia, la libertà, la giustizia, il diritto? Tocca a voi decidere. La Francia non deciderà al vostro posto.”

Nel discorso emerge una visione paternalistica tipica del XIX secolo, un’Europa forte che aspira

alla libertà e alla giustizia contrapposta ad un continente africano che resta ancorato ad un’età

primordiale e mitica.

La Presidenza Sarkozy solo formalmente ha parlato di “rottura con il passato” ma concretamente ha

mantenuto le caratteristiche del sistema della françe-afrique.

Sintomatica di tale linea anche la missione in Repubblica Democratica del Congo, Congo

Brazzaville e Niger nel maggio 2009: dove la volontà di “portare nuove idee” , attraverso una

136

Page 137: Storia dell'Africa

“cooperazione pratica” ha invece nascosto lo sviluppo di grandi interessi economici (sfruttamento

del deposito di uranio di Imouraren in Niger da parte della compagnia francese AREVA).

Per quanti esempi si possano portare, l’operazione più eclatante dell’applicazione di vecchi schemi

è quella registrata con la Libia dove -dopo una piena intesa tra gli anni 2007 e 2009- Parigi ha

sostenuto l’operazione per eliminare Gheddafi nel 2011, ha supportato in modo mirato un cambio di

potere e ha facilitato la presenza delle proprie imprese. L’operazione non ha tuttavia considerato gli

effetti devastanti in primis sulla stessa Libia (guerra civile) e poi sulla regione limitrofa (il ritorno in

Mali dei mercenari toureg assoldati fino al 2011 da Gheddafi) , provocando in tal modo una

pericolosa crisi destabilizzante per l’intera area del Sahel.

Il Presidente Sarkozy ed il leader Gheddafi (dicembre 2007)

L’elezione del Presidente Francois Hollande nel maggio 2012 ha creato molte speranze nelle forze

all’opposizione nei singoli paesi africani e molte paure tra le elite al potere. Di fatto, Hollande, non

ha una grande conoscenza dell’Africa (ad esclusione di brevi esperienze in Algeria e Somalia) e

quindi non è legato a vecchie logiche. Si presenta come “un enigma” per gli interlocutori africani,

ma soprattutto come un leader le cui decisioni potrebbero pesare significativamente per quanto

riguarda le vicende nordafricane e quelle saheliane dei prossimi mesi. Induce a ben sperare il fatto

che abbia scelto collaboratori preparati per occuparsi della regione africana: Kofy Yamgnane (uomo

politico franco-togolese), Thomas Melonio (già quadro dell’Agenzia francese di Sviluppo), Kader

Arif (esperto di sviluppo), Pierre Shapira (conoscitore delle tematiche israeliane e dei rapporti tra i

paesi ACP e l’Unione Europea), Puria Amirshai (Segretario nazionale del Partito Socialista per la

cooperazione, la francofonia e lo sviluppo).

Il 2012 metterà subito a dura prova la sensibilità alle questioni africane di Hollande: gli sviluppi in

Nord Africa ad un anno di distanza dalla primavera araba, la crisi in Sahel, l’instabilità nelle regioni

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Page 138: Storia dell'Africa

orientali congolesi inevitabilmente comporteranno scelte delicate da parte del nuovo Presidente

francese.

In questa fase storica, la Francia è chiamata a razionalizzare e rimodellare la sua presenza in Africa,

ponendo nuove basi per lo sviluppo di relazioni bilaterali reciprocamente vantaggiose, dando il

massimo valore alle aspirazioni democratiche dei popoli della regione, partecipando alla formazione

delle forze militari nazionali e coadiuvandole nel contrasto alla lotta contro il terrorismo.

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Page 139: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 32“I RAPPORTI AFRICA-AMERICA LATINA”

Una convergenza di interessi ed una salda cooperazione Sud-Sud in molteplici campi nonché la

volontà di approfondire il legame naturale tra Africa e Sud America: sono questi gli elementi

qualificanti i vertici Africa-South America (ASA).

Ad oggi si sono svolti già due Summit – il primo ad Abuja il 26-27 novembre 2006, il secondo a

Isla Margarita (Venezuela) nei giorni 26 e 27 settembre 2009- ed il 3° vertice è in programma a

Malabo nel maggio 2012.

In occasione del primo Summit di Abuja, i Capi di stato e di governo di 12 paesi sudamericani

(Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Guyana, Paraguay, Peru, Suriname, Uruguay

e Venezuela) e di 53 paesi africani, hanno adottato due documenti: una Dichiarazione Finale ed un

Piano d’Azione. Le parti si sono impegnate a promuovere iniziative congiunte nei settori della pace

e della sicurezza, della democrazia, dell’agricoltura e dell’agro-business, del management idrico,

del commercio e degli investimenti, della tecnologia, dell’energia e del turismo, della scienza, della

sanità, dell’educazione, dell’ambiente, delle questioni di genere, dello sviluppo istituzionale a

contrastare la povertà.

La novità del vertice è stata quella di aver istituzionalizzato e razionalizzato i rapporti Africa –Sud

America, di aver tracciato un percorso preciso ed aperto canali di dialogo tra leader protagonisti

(Lula Sa Silva, Chavez, Gheddafi, Obasanjo) delle rispettive aree e promotori di alleanze inedite,

atte a rispondere alle sfide della globalizzazione.

Il secondo vertice ASA si è svolto a Isla Margarita (Venezuela) nel settembre 2009. L’evento ha

fornito l’occasione per revisionare il lavoro compiuto dagli 8 gruppi di lavoro costituiti in occasione

del primo Summit di Abuja (commercio, investimenti e turismo; infrastrutture, trasporti, settore

minerario ed energia; pace e sicurezza; agricoltura e ambiente; educazione e cultura; affari sociali e

sport; scienza, tecnologia e comunicazioni, institution-building e public administration) e per varare

ulteriori iniziative.

Il Presidente Hugo Chavez –che ha accolto con grandi onori gli omologhi Luis Inacio Lula Da

Silva, Cristina de Kirchner, Rafael Correa, Evo Morales, Michelle Bachelet, Muammar Gheddafi,

Abdoulaziz Bouteflika, Robert Mugabe,Teodoro Obiang Nguema, Jacob Zuma – ha proposto di

elevare gli 8 gruppi di lavoro a commissioni ministeriali, di fare del BANCOSUD (banca bi-

regionale, con 20 miliardi di capitale iniziale, incaricata di finanziare i progetti nei due continenti)

139

Page 140: Storia dell'Africa

una struttura di finanziamento, di creare una corporazione mineraria capace di valorizzare lo

sviluppo dei popoli sudamericani ed africani.

I partecipanti all’evento si sono detti a favore di un nuovo sistema finanziario, fondato su istituzioni

regionali e su una logica di sviluppo.

Nella Dichiarazione finale, i Capi di Stato e di Governo hanno insistito sull’importanza di rafforzare

l’alleanza Sud-Sud, sia per resistere alle crisi finanziarie sia per esprimente una voce più forte a

livello internazionale.

Di seguito alcuni passi particolarmente significativi della Dichiarazione suddetta:

“CONDENAMOS el terrorismo en todas sus formas y manifestaciones y rechazamos cualquier relación entre el terrorismo y una cultura, etnia, religión o pueblos en específico. Hacemos énfasis en la importancia de combatir el terrorismo por medio de la cooperación internacional activa y eficiente en el marco de las organizaciones regionales pertinentes y las Naciones Unidas, basados en el respeto de los objetivos y principios de la Carta de las Naciones Unidas y de conformidad estricta con los principios del Derecho Internacional y los derechos humanos. TAMBIÉN COMPARTIMOS la convicción de que recurrir al pago de rescate por terrorismo deberá ser condenado y tipificado como delito. (…)

RECONOCEMOS que la crisis financiera y económica actual es estructural. Por ende, nos comprometemos a fomentar los cambios que sean necesarios con el fin de permitir el stablecimiento de una nueva arquitectura financiera internacional, que se base en un proceso democrático de toma de decisiones, incluyendo una participación equilibrada de todas las artes concernientes y tomando en cuenta los puntos de vista y las perspectivas de los países en desarrollo. Además destacamos la necesidad de evitar que las pérdidas producto de dichas crisis sean transferidas a los países en desarrollo, por medio de la implementación de diversos mecanismos de protección financiera. Concordamos en que, con el propósito de acelerar la creación de la nueva arquitectura financiera internacional propuesta, es necesario fortalecer los sistemas regionales, a través de la promoción de instituciones financieras y monetarias favorecedoras desde una visión de solidaridad, cooperación, desarrollo regional endógeno y de la formación de sociedades más democráticas, justas e igualitarias en el marco del respeto a la independencia y soberanía nacionales.(...)

ACORDAMOS consolidar nuestros esfuerzos para el intercambio de experiencias en lo referente al desarrollo y uso universal de fuentes de energía y ahorro de energía por parte de los gobiernos y los pueblos de ambas regiones, en particular, fuentes de energía limpias, renovables y alternativas, con miras a extender su difusión y utilización sustentable, así como a alcanzar la máxima eficiencia en sus usos, de conformidad con los aspectos económicos, sociales y ambientales pertinentes, lo que contribuiría a la transformación económica y social de los países de América del Sur y África. Considerando la posibilidad del uso de combustibles fósiles en el futuro, ambas regiones cooperarán en temas relacionados con la producción y uso sostenible de combustibles fósiles en especial petróleo y gas. (...)

140

Page 141: Storia dell'Africa

NOS COMPROMETEMOS a aumentar la cooperación energética entre América del Sur y África con el fin de contribuir con el crecimiento industrial, el desarrollo de infraestructura de energía, el intercambio y la transferencia de tecnologías, la reducción de los costos de transacción y la capacitación de recursos humanos, con el propósito de lograr la meta estratégica de seguridad e integración energética. (…)

AUNAREMOS esfuerzos para emprender iniciativas de cooperación e intercambio de experiencias orientadas a la construcción de las capacidades científicas, tecnológicas e institucionales de los sistemas nacionales de CTI (ciencia, tecnología e innovación) y a la formulación e implementación de políticas para el desarrollo sustentable y el progreso social de ambas regiones, con miras a fomentar la integración y el acercamiento de las comunidades científicas suramericanas y africanas que promuevan la generación, transferencia y apropiación social del conocimiento científico y técnico. A este respecto, y con el fin de promover la inclusión social, nos comprometemos a fomentar el uso de tecnologías de la información y la comunicación (TIC), así como otras tecnologías, con miras a facilitar oportunidades de educación, salud y mejores condiciones de vida para la población. (…)

RECONOCEMOS la incidencia del analfabetismo como factor de exclusión social en el desarrollo de nuestros países. Por ende, acordamos consolidar esfuerzos, desde una perspectiva de igualdad

social y de género, para contribuir con la erradicación de este flagelo, a través del intercambio y la promoción de prácticas exitosas en el campo de la enseñanza de la lectura y escritura con miras a alcanzar las Metas de Desarrollo del Milenio. (...)

MANTENEMOS el compromiso de intercambiar expertos y desarrollar proyectos conjuntos de investigación sobre la contribución de la Diáspora Africana a la cultura de los pueblos de América del Sur, y apoyamos el avance en los arreglos para la 2ª Cumbre de la Diáspora de la Unión Africana, que se realizará en el futuro próximo. (…)”

Durante il 2° Summit ASA a Isla Margarita, il leader libico ha proposto la creazione di una NATO

del SUD (OSAN), intesa non come azione terrorista, bensì come mezzo per colmare il vuoto di

presenza negli organismi internazionali. Gheddafi ha dichiarato “Noi dobbiamo creare una NATO

per il Sud. Non è un’azione bellicista. Noi abbiamo i nostri diritti (…) L’America del Nord è legata

in tutti i settori all’Europa, quando invece c’è un vuoto nell’Atlantico del Sud. Noi dobbiamo creare

un’alleanza per poter garantire un’azione storica e strategica che permetta di colmare questo

vuoto”.

A latere di tale proposta, ambiziosa ma poco concreta e non inserita nella dichiarazione finale, il

rappresentante nordafricano ha criticato il sistema delle Nazioni Unite e ha biasimato le potenze

141

Page 142: Storia dell'Africa

militari che hanno posto le mine terrestri nei paesi in via di sviluppo nel Sud del mondo, impedendo

l’utilizzazione delle mine terrestri a scopo difensivo da parte dei paesi poveri.

Jean Ping (Presidente della Commissione dell’Unione Africana), riconoscendo il valore storico

dell’incontro, ha sottolineato “il bisogno di andare al di là della retorica, perchè è in gioco la

credibilità della cooperazione Sud-Sud”.

In realtà, visto dall’esterno, il 2° ASA è stato un esercizio che ha sottolineato i temi sensibili del

momento e non uno sforzo per dare un contributo qualitativo alla discussione in corso a livello

internazionale. A parte le proposte concrete, riguardanti la creazione di PETROSUD

(multinazionale del petrolio che avrebbe dovuto garantire a tutti i partner l’accesso alla preziosa

risorsa energetica), TeleSUD (emittente televisiva, mezzo essenziale per favorire una vera

integrazione tra le parti), l’Università del SUD (per garantire la formazione di milioni di giovani

delle due regioni del sud del mondo) ed il suddetto BANCOSUD, l’incontro venezuelano è stato per

buona parte pura eloquenza.

Molto probabilmente è la stessa iniziativa a porsi più come una crociata contro i grandi attori

internazionali (protagonisti- nel bene e nel male- della storia africana e sudamericana) che come un

progetto da costruire tra le due aree sul lungo periodo

Gheddafi e Chavez non sono stati capaci di sganciarsi dal loro atteggiamento critico verso il mondo

occidentale, che hanno demonizzato e utilizzato come mezzo per giustificare la loro guida assoluta.

Anche in occasione del vertice, il leader venezuelano ha firmato 8 accordi energetici con alcuni

paesi sudafricani (tra cui Mauritania, Africa del Sud, Sudan, Capo Verde, Guinea Equatoriale, Sierra

Leone e Niger), con l’obiettivo di porre l’oro nero come “ elemento collante” del Sud del mondo.

Molti analisti hanno messo in evidenza che il 2° Summit ASA ha fatto intravedere le due linee che

si profilano all’orizzonte della politica sudamericana: da un lato quella del Presidente venezuelano

che spinge alla contrapposizione con l’imperialismo occidentale dall’altro quella dell’ex Presidente

brasiliano Lula Da Silva, fautore dell’incremento degli scambi commerciali tra i due continenti.

Di fatto il Brasile–in particolare negli anni di presidenza Lula da Silva (gennaio 2003-

gennaio2011)- ha promosso la concretezza della “diplomazia del business” e ha visto crescere il suo

commercio con i partner africani da 6 miliardi di dollari nel 2002 a 36 miliardi di dollari nel 2008.

Va da sé che è importante diversificare i partners e gli investimenti per muoversi all’interno

dell’economia globalizzata, ma serve anche un progetto politico per coagulare forze e proporre

alternative all’ordine mondiale.

142

Page 143: Storia dell'Africa

Il 3° Summit ASA che si svolgerà a Malabo nel maggio 2012 fornirà l’occasione di verificare se i

leader sudamericani e africani riescono effettivamente a proporre un progetto sul lungo periodo.

Sin da ora è possibile dire che i toni delle discussioni saranno diversi e che parteciperanno –almeno

per la parte nordafricana – paesi che hanno subito il profondo cambiamento della “primavera araba”

del 2010.

L’assenza di Gheddafi –che fortemente nell’ultimo decennio ha proposto l’Africa come un blocco

unito - non passerà inosservata, sia perché dovrebbero venire meno posizioni esacerbate nei

confronti del mondo occidentale, sia perché cadranno inevitabilmente i “finanziamenti a

pioggia”che in questo anni la Giamahiriya libica aveva lautamente promesso ed elargito all’interno

del continente.

D’altro canto, la probabile assenza di Chavez (malato gravemente da mesi) come anche la

partecipazione di nuovi leader del Brasile e della Colombia meno interessati alla tematica o

comunque più attenti alle dinamiche nazionali, avranno inevitabilmente il loro peso nel corso dei

lavori.

143

Page 144: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 33“I RAPPORTI AFRICA-RUSSIA”

Il rapporto tra la Russia ed il continente africano ha radici profonde nel tempo, anche se non si è

sviluppato con un andamento regolare.

Lo studioso Vladimir Shubin (vice direttore dell’Institute for African Studies, Russian Academy of

Sciences) nota che sebbene la Russia non abbia mai avuto legami coloniali in Africa, si è registrata

sin dal Medio Evo una forte interazione tra l’ex superpotenza mondiale e l’area sahariana. I

movimenti di commercianti, marinai e pellegrini hanno facilitato i contatti, trainando le relazioni

ufficiali tra la Russia zarista ed i vari protagonisti del black continent.. Da qui l’apertura dei

consolati al Cairo ed ad Alessandria della Russia zarista alla fine del XVIII secolo e lo stabilimento

di relazioni diplomatiche con l’Etiopia ed il Transvaal nel 1898. Contatti si sono registrati anche

dopo la rivoluzione del 1917 e dopo la formazione dell’URSS.

Legami molto più stretti si sono sviluppati dopo il 1950, nel momento in cui iniziava a serpeggiare

la voglia di indipendenza nella vasta area a sud del Mediterraneo. Un sostegno mirato, quello del

Cremlino, finalizzato a supportare la lotta contro l’imperialismo, ad esportare il verbo socialista ed

ad utilizzare la regione africana per un confronto indiretto con gli Stati Uniti. Da qui il sostegno alle

lotte di liberazione, il training e la formazione di esponenti africani del Sud Africa, dell’Angola, di

Capo Verde e del Mozambico.

Il crollo del Muro di Berlino ed il collasso del sistema sovietico hanno comportato inevitabilmente

delle ripercussioni a livello bilaterale. Nella sua fase iniziale di gestione del potere, Boris Yeltsin si

è svincolato da impegni gravosi e si è liberato di quella che era stata percepita nel trentennio

precedente come “un’assistenza obbligata”.

Shubin ritiene che per i primi anni ’90, l’Africa sia stata percepita come un black hole e sottolinea

come i media sovietici abbiano assecondato la volontà del Cremlino, contribuendo a dare una

immagine negativa del continente e mettendo in risalto le sue debolezze.

E’ solo con la fine degli anni ’90 e con i primi anni del XXI secolo, per necessità di nuove fonti

energetiche ma anche in virtù di una revisione della politica estera della Federazione, che Mosca si

è riaffacciata nell’area. Secondo lo studioso russo, dal Concept of the Foreign Policy of the Russian

Federation (firmato da Vladimir Putin nel giugno del 2000) emerge che pur non essendo l’Africa

una priorità per l’attore orientale europeo, un decennio fa si è delineata una chiara volontà di

promuovere l’interazione e la disponibilità ad assistere il partner africano nella risoluzione dei

conflitti locali.

L’intenzione di Mosca è stata confermata durante la visita di Igor Ivanov in Libia (luglio 2001),

Egitto (novembre 2001) e Sud Africa (dicembre 2001).

144

Page 145: Storia dell'Africa

Storiche e significative sono state ritenute le visite de 2006 fatte dal Presidente Putin in Algeria

(marzo), Sud Africa e Marocco (settembre), in quanto compiute per la prima volta da un leader

post-sovietico nel continente africano. In ognuna delle tappe si sono riscontrati elementi di novità e

di salvaguardia della tradizione. Ad Algeri sono stati stipulati accordi volti ad ottenere una fornitura

russa di armi sofisticate ed attrezzature militari per un ammontare di circa 7.5 miliardi di dollari ed

è stato cancellato il debito contratto dall’Algeria con l’Unione Sovietica tra il 1965 ed il 1985, pari a

4.7 miliardi di dollari; in questo caso l’elemento innovativo è stato dato dalla conclusione di 14

contratti in materia di energia, volti all’esplorazione delle riserve di gas e petrolio nord africano,

nonché alla loro valorizzazione.

La visita in Sud Africa è stata motivata da importanti impegni di tipo politico, ma ancor più

economico. Accomunati dal lavoro congiunto negli anni dell’apartheid, dalla formazione politica

offerta dall’Unione Sovietica agli esponenti dell’African National Congress-ANC di Nelson

Mandela, i due paesi hanno superato più o meno brillantemente l’impatto successivo alla caduta del

comunismo e al crollo del sistema di segregazione razziale. Entrambi sono ora impegnati nel

rafforzamento delle istituzioni democratiche e nella ridefinizione della propria identità post-

sovietica, ma sono anche sostenitori di posizioni “originali”, non modulate sul pensiero americano:

basti pensare alle vicende relative al nucleare, della ricerca e dell’uso di medicinali anti-retrovirali,

del sostegno più o meno mascherato a Rogue States o Stati con cui la comunità occidentale ha

interrotto o “congelato” ogni tipo di rapporto diplomatico (Iran, Sudan e Zimbabwe).

Diversi i temi in agenda per gli incontri a Città del Capo: un esame delle relazioni politiche ed

economiche e l’impegno per la loro necessaria implementazione (gli scambi commerciali sono di

gran lunga inferiori al potenziale tra i due paesi, come testimoniato dall’interscambio nei primi dieci

mesi del 2005 che ha registrato un flusso di importazioni dalla Russia per un valore complessivo di

18 milioni di dollari e di esportazioni sudafricane per circa 106 milioni di dollari); il follow-up del

Summit G8 per quanto riguarda il Piano per l’Africa; l’uso pacifico del nucleare; gli sviluppi

regionali in ambito SADC; i processi di risoluzione pacifica dei conflitti ed i contributi di soggetti

esterni, la riforma delle Nazioni Unite.

A latere degli impegni istituzionali, la firma di Accordi significativi, chiari indicatori di una

crescente collaborazione tra i due partners, tra cui si segnalano: un trattato di amicizia e

partenariato, intese nell’ambito della sanità, della protezione dei diritti della proprietà intellettuale,

nell’ambito della cooperazione aero-spaziale per fini pacifici3, accordi per l’estrazione in Sud

Africa di manganese ed alluminio ad opera di compagnie russe, nonché per l’assistenza tecnica

necessaria allo sviluppo di una capacità nucleare sudafricana entro il 2010.

145

Page 146: Storia dell'Africa

Certamente, per gli operatori economici, il documento più interessante è stato quello concluso tra

l’azienda sudafricana di estrazione e lavorazione di diamanti, De Beers, ed il colosso russo Alrosa.

In base alle intese raggiunte, la compagnia africana si è impegnata ad acquistare dal partner europeo

diamanti grezzi per un valore di 500 milioni di euro nel 2006, 420 milioni nel 2007 e 340 milioni

nel 2008.

La missione a Casablanca è stata orientata al pragmatismo. In tale occasione le due parti si sono

impegnate a rafforzare le relazioni bilaterali e la cooperazione nel settore del gas e dell’elettricità.

Determinante è stato l’annuncio della compagnia russa Atomstroiexport, dato la settimana prima

degli incontri di alto livello, che “avrebbe potuto fare” un’offerta di appalto per costruire il primo

impianto nucleare in Marocco (evento che si è verificato nell’arco di pochi mesi). Durante questa

tappa sono stati conclusi inoltre numerosi accordi nel settore della pesca, della giustizia, del

turismo, della comunicazione, della sanità e del settore bancario. Le suddette intese hanno avuto un

duplice obiettivo: bilanciare le relazioni russo-algerine e garantire le basi per accrescere

l’interscambio commerciale (passato da 400 milioni di dollari nel 2001 a 1 miliardo di dollari nel

2005). Molto importante è stato considerato il ruolo del Business Council russo-marocchino

costituito nel giugno precedente in occasione della visita a Mosca del Ministro degli Affari Esteri

marocchino Mohamed Benaissa.

Di grande rilievo è stato il tour del Presidente Medvedev in Egitto, Nigeria, Namibia ed Angola

(23-26 giugno 2009). In questo frangente, il segnale chiaro è stato dato dalla delegazione di 400

imprenditori che ha accompagnato il responsabile del Cremlino. Due sono stati i temi al centro delle

discussioni: la vendita di armi da parte di Mosca e la vendita di gas-petrolio da parte degli attori

africani. La tappa del Cairo ha permesso di riproporre il ruolo di Mosca in Medio Oriente e di

firmare degli Accordi di Partenariato strategico, ma soprattutto ha identificato l’Egitto come base in

Nord Africa per la vendita di armi; la visita ad Abuja è stata funzionale ad un accordo di

cooperazione, che ha garantito l’accesso di Gazprom alle riserve di metano nel Delta del Niger e gli

ha permesso di creare la società Nigaz assieme alla Nigerian National Petroleum Corporation; la

missione in Namibia è stata finalizzata allo sfruttamento dei giacimento di uranio locale; la trasferta

a Luanda è stata funzionale alla firma di 6 accordi di cooperazione, nonché ad ottenere il

coinvolgimento di imprese russe nella produzione di greggio in cambio ad un impegno di Mosca

per la modernizzazione di industrie tessili e del settore delle telecomunicazioni del partner africano

Visite ufficiali degli esponenti politici russi in Africa

2000……………………Vassily Sredin (Vice Ministro Esteri) visita il Sud Africa2001……………………Igor Ivanov (Ministro Esteri) visita Libia, Egitto e Sud Africa2002……………………Mikhail Kasyanov (Premier) partecipa all’Earth Summit a Johannesburg. 2006……………………Vladimir Putin (Presidente) in Algeria (marzo), Sud Africa (Settembre) e Marocco

146

Page 147: Storia dell'Africa

…………………………(settembre)2009……………………Dmitri Medvedev (Presidente) visita Egitto, Nigeria, Namibia e AngolaFonte: Stampa internazionale

Per comprendere la valenza dei rapporti bilaterali può essere utile una lettura speculare delle visite

dei leader africani in Russia. In questo caso è importante ricordare che molti dei dirigenti locali

hanno ricevuto la formazione a Mosca e non hanno mai interrotto il contatto con le istituzioni che

hanno garantito loro assistenza durante gli anni delle lotte per la liberazione.

Visite ufficiali di leader africani in Russia1997…………………………………..Mubarak compie una visita ufficiale a Mosca 1998 e 2006………………………......Eduardo Dos Santos compie una visita ufficiale a Mosca1998…………………………………..Sam Nujoma compie una visita ufficiale a Mosca1998…………………………………..Tabo Mbeki compie una visita ufficiale a Mosca2001………………………………….Omar Bongo compie una visita ufficiale a Mosca2001………………………………….Olusegun Obasanjo compie una visita ufficiale a Mosca2001………………………………….Melese Zenawi compie una visita ufficiale a Mosca2008………………………………….Abdelaziz Bouteflika compie una visita ufficiale a Mosca2010…………………………………Hifikepunye Pohamba compie una visita ufficiale a Mosca2010 e 2011………………………….Jacob Zuma compie una visita ufficiale a MoscaFonte: Stampa internazionale

Un studio del maggio 2011 preparato da Habiba Ben Barka per l’African Development Group Bank

mette in evidenza che l’importanza della Russia come partner commerciale con i paesi africani è

abbastanza minima se comparata con i rapporti gestiti da Unione Europea, Cina, India, Brasile e

Stati Uniti. Il commercio tra Russia e Africa ha infatti raggiunto 7,3 miliardi di US $ nel 2008

(sebbene abbia registrato un aumento vertiginoso nel giro di pochi anni visto che nel 1994 si era

raggiunto un livello di 740 milioni di US$).

La Russia è indubbiamente molto interessata a sviluppare collaborazioni con l’Africa nel settore

delle risorse naturali ma, come notato da Vladimir Shubin in un articolo del 2010, “a differenza di

Cina e India l’importazione di minerali non è una questione di vita o di morte per la sua economia,

quanto piuttosto una questione di convenienza. Molti minerali sono disponibili in Russia ma le

condizioni per l’esplorazione e l’uso stanno diventando sempre più difficili, perché si trovano in

aree remote come la Siberia e l’estrema area orientale che hanno un clima molto rigido. Il risultato

è che il 35% dei depositi minerali russi (incluso manganese, cromo, bauxite, zinco e stagno) stanno

perdendo la loro redditività commerciale”

Per tale motivo non sorprende che siano presenti nell’area sahariana importanti multinazionali come

Lukoil, Gazprom, Norilsk Nickel, Alrosa, Rusal e Severstal per investire in Algeria, Angola,

Botswana, Côte d’Ivoire, Egitto, Gabon, Guinea, Namibia, Nigeria e South Africa.

147

Page 148: Storia dell'Africa

Investimenti più importanti di compagnie russe in africaInvestitore Paese Settore industriale Valore annoNorilskNickel

South Africa Gold miningandprocessing

US$1.16billion

2004

NorilskNickel

Botswana Nickel miningandprocessing

US$2.5billion

2007

Sintez South Africa, Namibia,Angola

Oil, gas,diamonds andcopperexploration

US$10-50million

2006

Lukoil Côte d’Ivoire,Ghana Oil US$900million

2010

Rusal Nigeria Aluminum US$250million

Severstal Liberia Iron ore US$40million

2008

Gazprom Algeria Natural gasexploration

US$4.7billionandUS$7.5billion

2006

Alrosa Angola,Namibia,DRC

Diamondmining, andhydroelectricity

US$300-400million

1992

Rosatom Egypt Nuclear power US$1.8 billion 2010Fonte: "Russia’s Economic Engagement with Africa” - Africa Economic Brief, May, 2011

Altra sfera particolare dei rapporti economici Russia-Africa è quella del commercio di armi. E’ cosa

nota il coinvolgimento russo nell’equipaggiamento di varie forze armate continentali. Negli anni

’90 la situazione è cambiata perché –a causa della crisi economica - Mosca non ha più potuto fare

credito ai suoi partner in via di sviluppo ed ha richiesto il pagamento in contanti per gli acquisti.

Ciò ha comportato una perdita naturale di clienti, che si sono rivolti alle potenze occidentali. Shubin

nota che “negli anni recenti la situazione ha registrato un cambiamento e che dovrebbe essere

sottolineato che il governo russo ha rafforzato il controllo sugli affari delle armi e osservato

sanzioni e limitazioni imposte dalle Nazioni Unite”. E’ doveroso dire che tale posizione di pieno

rispetto per l’embargo imposto dal Consiglio di Sicurezza è stata più volte contestata da alcune

organizzazioni non governative che hanno invece accusato Mosca di continuare a vendere armi in

aree di guerra, ben consapevole delle violazioni dei diritti umani in aree specifiche (vedi caso

Darfur e rifornimento armi garantito all’esecutivo di Khartoum e Janaweed)

Molto importante è poi la cooperazione nel settore educativo. Grazie alle borse di studio in Russia,

migliaia di studenti africani posso lasciare i loro paesi ed assicurarsi un’esperienza all’estero.

148

Page 149: Storia dell'Africa

Seppure non sia ancora chiaro se la scelta di Mosca di tornare sulla scena africana dipenda più dalla

necessità di riaffermare la propria visione di un approccio multipolare alla politica internazionale,

dal bisogno di mantenersi un ruolo di mediatore affidabile o da esigenze economiche, diversi

analisti concordano nel dire che il rinnovato interesse della Russia per l’Africa scaturisce

dall’esigenza di contrapporsi a Pechino nello spazio sahariano. Se è pur vero che al momento ci

sono spazi di operatività diversi, in un prossimo futuro il partner asiatico potrebbe avventurarsi in

settori che non le sono propri (come ad esempio la tecnologia avanzata o le telecomunicazioni).

149

Page 150: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 34“RAPPORTI AFRICA-ISRAELE”

I rapporti tra Israele ed il continente africano sono stati altalenanti dagli anni ’50 ad oggi, ma

sempre ispirati al pragmatismo.

Si distinguono 4 fasi: la prima corrisponde agli anni 1957-1973, la seconda al periodo1973-1990; la

terza 1990-2009; la quarta da 2009 ad oggi.

Nella prima fase, definibile “di inaugurazione”, 1957-1973, Israele sostiene i paesi africani che

lottano per la propria indipendenza e si posiziona al 2° posto a livello mondiale per il trasferimento

di expertise ai paesi in via di sviluppo. Nel 1957 viene aperta l’ambasciata in Ghana e viene dato

l’avvio alla presenza ufficiale nella regione.

Israele ed il continente hanno diversi punti in comune: la lotta per veder riconosciuto un proprio

spazio e per veder tutelati i propri diritti, l’essere vittime della Storia coloniale e dell’olocausto, il

lavoro su un terreno difficile.

La guerra dei 6 giorni nel 1967 e quella dello Yom Kippur nell’ottobre 1973 provocano una frattura

diplomatica con la maggior parte del continente. Israele viene percepita come una potenza

conquistatrice, che si scontra con gli interessi del mondo arabo. Lo choc petrolifero del 1973 porta

inevitabilmente i paesi africani ad accrescere la loro dipendenza dai paesi produttori e ad

interrompere i rapporti con l’esecutivo di Gerusalemme.

In tale frangente, solamente il Malawi, il Lesotho, lo Swaziland mantengono inalterati i contatti con

Israele.

Da questo momento inizia la seconda fase, che si può definire di “chiusura” che , seppur con

sfumature diverse, si sarebbe sviluppata nel quarantennio successivo.

Il silenzio politico degli anni 1973-1990 non impedisce tuttavia lo sviluppo di scambi commerciali

che triplicano e si dimostrano molto fiorenti soprattutto con Nigeria, Kenya, Zaire, l’Etiopia,

Tanzania e Côte-d’Ivoire, né tanto meno intacca l’assistenza militare da parte di Israele.

Per quanto concerne i rapporti commerciali, da poco più di 30 milioni di US$ nel 1973, le

esportazioni israeliane in Africa passano a più di 75 milioni di US$ nel 1979.

Il grande lavoro di “raccordo silenzioso” viene fatto da incaricati d’affari israeliani presenti nelle

capitali di alcuni paesi africani sotto la copertura di ambasciate europee. Lo studioso Léon César

Codo nota che l’incaricato di interessi israeliano collocato ad Abidjan (con responsabilità per Cote

d’Ivoire e Gabon) lavora sotto la copertura dell’ambasciata del Belgio fino al 1986; l’incaricato

posizionato a Nairobi usufruisce della copertura della rappresentanza diplomatica della Danimarca,

l’inviato a Accra (con responsabilità per Ghana e Togo) utilizza la copertura dell’Ambasciata

svizzera. Con il passare degli anni, alcuni responsabili di imprese israeliane operanti in Africa

150

Page 151: Storia dell'Africa

svolgono addirittura funzioni di raccordo con Gerusalemme, sostituendo di fatto le figure mancanti

dei diplomatici.

In riferimento alla vendita di armi, alla fine degli anni ’70, circa il 35% dei trasferimenti di armi

israeliane si realizzano in Africa. Come riconosciuto dal professore Naomi Chazan (emerito di

scienze politiche e studi Africani all’Università ebraica di Gerusalemme), “Gli agenti del MOSSAD,

gli emissari militari ed un piccolo gruppo di uomini d’affari sostituivano i diplomatici in quanto

interlocutori privilegiati dei dirigenti africani e (principalmente) dei partiti dell’opposizione”. In

Côte d’Ivoire, Liberia, Zaire, Togo e Gabon dei specialisti della sicurezza affiancano i responsabili

del settore sicurezza ai vertici dello Stato.

In tale arco temporale non si può sottovalutare il significato simbolico del 1978, l’anno della svolta

con gli accordi di Camp David ed il riavvicinamento tra Egitto e Israele. Da tale data vengono

ristabilite le relazioni diplomatiche ufficiali con lo Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo)

nel 1982 , con la Liberia nel 1983, con la Côte d’Ivoire ed il Cameroun nel 1986, con il Togo nel

1987. All’inizio degli anni ‘90 (dopo la condanna dell’apartheid da parte di Israele nel 1987) anche

altri attori africani riprendono i contatti con l’esecutivo israeliano come ad es. il Kenya, la Guinea e

la Repubblica Centrafricana.

Tra il 1990 ed il 2009 si assiste alla terza fase, quella di un lento riavvicinamento delle parti.

A livello continentale gli scambi commerciali passano da 430 milioni di US$ nel 1990 a più di 2

miliardi di US$ nel 2008. Gli affari si sviluppano in molteplici settori, quali: l’agricoltura,

l’idraulica, la vendita di metalli preziosi, le tecnologie della comunicazione.

La visita del Ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, in Etiopia, Kenya, Ghana, Nigeria

e Uganda dal 2 al 10 settembre 2009 ha segnato il “grande ritorno” nell’area a sud del Sahara ed ha

aperto indiscutibilmente la quarta fase del rapporto Israele-Africa.

Accompagnato da una delegazione di uomini d’affari operanti nel settore agricolo, industriale,

infrastrutturale, chimico, della comunicazione e della sicurezza nonché da alti funzionari del

Ministero degli Esteri, del Ministero delle Finanze, della Difesa e del Consiglio Nazionale di

Sicurezza, Lieberman ha puntato a rafforzare e a valorizzare i rapporti con i partner africani anche

in vista di nuove aperture nella politica estera nazionale.

Nell’ambito della tappa etiopica, durante l’incontro con il Premier Meles Zenawi, Lieberman ha

riconosciuto il valore della comunità etiopica in Israele, considerata come un “ponte” tra i due Stati.

Importante è stata l’occasione dell’inaugurazione del Progetto d’Eccellenza nel settore agricolo di

Butajira, che vede anche la partecipazione di USAID.

In Kenya, Lierberman ha avuto colloqui con il Presidente Mwai Kibaki, il Premier Raila Odinga, il

Ministro dell’Acqua Charity Kaluki Ngilu ed il Ministro degli Esteri Moses Wetangula.

151

Page 152: Storia dell'Africa

Particolarmente significativa è stata la firma di un accordo volto ad accrescere la cooperazione

bilaterale nel management delle risorse idriche e l’introduzione di nuovi metodi di irrigazione. Sono

stati inoltre siglati accordi nel reparto della sanità, dell’educazione, dell’energia, dei servizi di

emergenza.

Per quanto concerne la sicurezza, i due partner hanno concordato l’importanza della collaborazione

nell’anti-terrorismo, per altro già sperimentata da fine anni ‘90.

In Ghana, Lieberman si è incontrato con il Presidente Atta Mills, il capo della Diplomazia Alhaji

Muhammad Mumuni ed il Ministro dell'Agricoltura Kwesi Ahwoi. In tale sosta è stato firmato un

accordo relativo alla pesca grazie al quale Israele si è impegnato ad aiutare il Ghana ad aumentare la

produzione ittica, sia in vista del consumo interno che per l’esportazione. Sono stati inoltre firmati

accordi volti a permettere una maggiore cooperazione nell’agricoltura, nell’educazione, nella

medicina, nel management dell’acqua e nel commercio.

Grande apprezzamento è stato rivolto da Lieberman per la partecipazione di soldati del Ghana nella

missione UNIFIL in Libano.

In Nigeria, il Ministro degli Esteri israeliano si è incontrato con l’omologo, con il responsabile della

Difesa e con i più alti vertici istituzionali. Oltre alla firma di molteplici accordi commerciali, è stato

siglato un memorandum con l’organizzazione regionale ECOWAS-Economic Community of

Western Africa States che ha sede ad Abuja. Le due parti si sono impegnate a lavorare

congiuntamente per ridurre la povertà e per preservare l’ambiente.

In Uganda, Lieberman ha avuto modo di parlare con il Presidente Museveni e con il capo della

diplomazia. La presenza all’inaugurazione di un evento economico ha voluto sottolineare

l’importanza che Gerusalemme attribuisce al paese, sia per i grandi traguardi imprenditoriali

raggiunti nell’ultimo decennio, sia in quanto piattaforma per il commercio con l’area centrale

africana.

In un’ottica di reciprocità, per quanto concerne le visite di Capi di Stato o di Governo in Israele,

sono indubbiamente da segnalare quelle del Presidente ugandese Museveni e del Premier kenyota

Raila Odinga nel novembre 2011 e quelle del Presidente sud Sudanese Salva Kiir nel dicembre

2011.

Da tali missioni e dai colloqui avuti con Netanyahu emerge chiaramente l’obiettivo degli attori

africani di attrarre nuovi investitori nel settore petrolifero, di rafforzare il settore della sicurezza

nazionale e di lottare contro il terrorismo radicale islamico.

Nell’area centro-orientale africana si sente fortemente la minaccia del terrorismo, degli attacchi

promossi dal movimento somalo degli Shabab e si teme il suo collegamento con Al Qaeda. Ciò ha

152

Page 153: Storia dell'Africa

accelerato un avvicinamento di interessi con Israele ed ha indotto a promuovere una “coalizione

contro il fondamentalismo” nell’Africa Orientale.

Uganda e Kenya avvertono particolarmente il pericolo, per via di posizioni assunte negli ultimi anni

e per il contributo fornito nella lotta internazionale al terrorismo. L’Uganda partecipa infatti con

5000 uomini alla missione AMISOM-African Union Mission in Somalia (operazione dell’Unione

Africana promossa nel 2007 che ha l’obiettivo di stabilizzare la situazione nel paese martoriato da

oltre un ventennio di guerra) ed il Kenya –che nell’ultimo decennio si è particolarmente adoperato

per mediare tra i vari clan somali- dall’ottobre 2011 ha addirittura lanciato l’ “Operazione Linda

Nchi” ufficialmente per respingere le incursioni dei terroristi nelle aree a confine ma anche per

supportare il governo federale di transizione di Mogadiscio contro gli Shabab.

Nel quadro dei rapporti privilegiati di Israele con l’Africa sub sahariana non può passare inosservata

la stretta collaborazione con il Sud Sudan. Lo storico supporto garantito agli uomini del Sudan

People’s Liberation Movement (SPLM) dagli anni ’80 si è formalizzato dopo l’indipendenza dal

Sudan settentrionale sancita nel luglio 2011. Non meraviglia quindi, che tra le prime visite

all’estero, il Presidente Salva Kiir abbia proprio voluto inserire la tappa israeliana . Tra i temi in

agenda trattati nell’incontro del 20 dicembre 2011, particolare attenzione è stata data

all’immigrazione clandestina africana verso Israele ed alle tecniche più moderne da usufruire per

valorizzare il management dell’acqua.

Seppure non ci siano ancora state missioni ufficiali dei vertici istituzionali, è bene ricordare che

sono stati già avviati dei contatti tra la Nigeria ed Israele per promuovere una collaborazione dei

servizi di intelligence e lavorare congiuntamente per sradicare il movimento radicale di Boko

Haram, considerato la sfida più pericolosa per la sicurezza nigeriana ed un fattore capace di mettere

seriamente in pericolo la stabilità dell’area occidentale africana.

153

Page 154: Storia dell'Africa

Quarto ModuloLE SFIDE ALLA SICUREZZA ED ALLA STABILITA’ DELL’AFRICA

(Corso Monografico a cura del Prof. Stefano Silvio Dragani)

� La Corruzione in Africa

� Il traffico di stupefacenti in Africa

� Il terrorismo in Africa

� Il fenomeno della pirateria nel Golfo di Guinea e al largo delle coste somale

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Page 155: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 35-36“LA CORRUZIONE IN AFRICA”

La corruzione è connessa direttamente alla sfera politica, in quanto è il frutto di sistemi politici

disfunzionali, così come il prodotto di particolari circostanze che vanno ricercate nella storia di un

paese ma ha effetti dirompenti sullo sviluppo economico e sociale di un paese. Fino agli anni ’90 vi

è stato un manifesto disinteresse da parte della teoria e dei policy makers. Addirittura negli anni ’60

la corruzione veniva vista come un male minore, che aveva la funzione di oliare i meccanismi

inceppati del mercato, a causa di sistemi statalisti dominati da burocrazie inefficienti. Tale punto di

vista era radicato anche nel mondo della ricerca, se si pensa che autori del calibro di Samuel

Huntington, famoso per la tesi sullo “scontro delle civiltà”, sosteneva che la corruzione poteva

avere un ruolo positivo sullo sviluppo.

Dopo una lunga maturazione della teoria, la svolta viene espressa ufficialmente nel 1996, con il

discorso di Wolfensohn (Presidente della Banca Mondiale) tenuto durante la riunione annuale tra

Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, che ha messo la lotta alla corruzione e la

good governance come elementi chiave dello sviluppo, svolta recepita dalla maggior parte delle

agenzie allo sviluppo nazionali e multilaterali. Alcuni studi econometrici hanno addirittura

quantificato la correlazione tra corruzione e la crescita economica: ad esempio, secondo lo studio

“The Effects of Corruption on Growth, Investment, and Government Expenditure” dell’economista

Paolo Mauro, pubblicato nel 1996, la diminuzione del tasso di corruzione del 23,8%

determinerebbe un aumento del PIL dello 0,5%. Considerando i livelli di corruzione in Africa, a

fronte di PIL modesti, è probabile che questa correlazione sarebbe maggiore nel suddetto

continente.

Secondo il nuovo paradigma, la corruzione ha un impatto negativo sulla crescita economica per

diversi motivi:

1. la politica economica è poco efficace in quanto i decision makers corrotti varano misure

non nell’interesse del paese, ma di gruppi particolari;

2. gli investimenti pubblici vengono decisi, non sulla base di valutazioni economiche che

mirano a quantificare in termini di accrescimento del reddito della comunità nazionale

(analisi costi-benefici), ma piuttosto dietro richiesta degli esecutori dei lavori, dietro

tangenti; inoltre nella fase esecutiva dei lavori i costi vengono incrementati artificialmente e

i proventi suddivisi tra corrotti e corruttori a tutto danno della comunità nazionale e

dell’erario;

3. la corruzione comporta una grave distorsione dei meccanismi di competizione sui vari

mercati dei beni, servizi e nel mercato del lavoro.

155

Page 156: Storia dell'Africa

Tutti questi elementi negativi sono purtroppo presenti nel continente africano. In stati deboli e con

apparati non sufficientemente preparati tecnicamente, o dove i parlamenti non sono in grado di

esercitare le loro funzioni di controllo, l’arbitrio di pochi diventa la regola. Soprattutto nel passato

si sono avvantaggiate dello stato di debolezza locale molte multinazionali straniere; emblematico il

caso de gruppo Fireston, che negli anni 60-70 è riuscita a monopolizzare il mercato dei pneumatici

in Kenya grazie alle tariffe protettive ottenute a colpi di tangenti dal governo keniota. Oggi questo

ruolo delle multinazionali occidentali nell’alimentare la corruzione , si è ridotto per effetto delle

normative OCSE che pongono dei limiti all’azione con sanzioni anche gravi alle grandi imprese

occidentali. In compenso i nuovi attori in Africa, come i cinesi, gli indiani, i malesi ed i brasiliani,

svincolati i dalle regole OCSE, hanno alimentato la corruzione soprattutto nel settore e estrattivo

con accordi segreti con le grandi compagnie petrolifere statali africane, controllate spesso dai poteri

politici locali. Se si guarda all’esperienza recente su come sono stati utilizzati i proventi petroliferi

non c’è da essere ottimisti per il futuro. Di fatto, lo Stato e le compagnie petrolifere governative

vengono utilizzate dalle elite locali come strumento di arricchimento privato.

In Angola, ad esempio tra il 1997 e il 2002 si sono volatilizzati dal budget proventi petroliferi per

circa $ 4,2 mld, cifra pari alla spesa sociale del governo angolano e dei donatori internazionali, per

lo stesso periodo; questo è accaduto in uno Stato dove quasi la metà dei bambini risulta essere

malnutrita.

In Nigeria, la cleptocrazia dilagante ha saputo avvantaggiarsi della rendita petrolifera in maniera

evidente. Soltanto per fare un esempio delle dimensioni delle sottrazioni all’erario, il Generale Sani

Abacha, decimo presidente del paese, si è appropriato di ingenti fondi pubblici e soltanto

recentemente, in seguito ad un’azione legale del nuovo governo per recuperarne almeno una parte,

sono stati scoperti fondi a suo nome o a parenti stretti, pari a $1,48 mld distribuiti in varie banche in

Svizzera, Liechtenstein e Lussemburgo, che si aggiungono a $ 1 mld consegnato volontariamente

dalla famiglia Abacha.

Secondo un rapporto della Commissione dell’Unione Europea il patrimonio depositato presso le

banche all’estero, frutto di sottrazione all’erario di paesi africani, è pari a più della metà dell’intero

debito estero dell’Africa.

Oltre alla cosiddetta grande corruzione, il continente africano è afflitto dalla corruzione diffusa o

piccola corruzione, che comporta anch’essa costi enormi alle economie di quei paesi. Si prenda

come esempio il sistema di prelievi illegali attraverso posti di blocco sulle grandi vie di

comunicazioni africane che incrementano costi e tempi nei trasporti stradali. Tra Bangui e Douala,

156

Page 157: Storia dell'Africa

ad esempio, un viaggio di 1.600 km per il quale occorrerebbero circa tre giorni, arriva a durare fino

a 7/10 giorni per i posti di blocco locali.

Tra Abidjan e Ouagadougou, circa 100 km di strada, i posti di blocco sono circa 65 con pagamenti

richiesti che variano tra i 1000 ed i 5000 FCFA.

Sulla Trans Sahelian Highway tra Ouagadougou e Niamey, 529 km di strada, i pagamenti richiesti si

aggirano intorno ai 150 $ per camion a pieno carico, mentre sulla rotabile tra Bangui e Douala il

costo dei posti di blocco raggiunge i 580 $.

Non sorprende, per citare un caso significativo, che spedire un’automobile dal Giappone ad

Abidjan, il costo comprensivo di assicurazione è di 1.500 $, mentre si sale a 5000 $ se la spedizione

avviene tra Addis Abeba e Abidjan

La piccola corruzione diffusa tra la polizia ed i bassi gradi della burocrazia finisce inoltre per

avere un costo maggiore sui soggetti deboli: le tangenti richieste dalla burocrazia rappresentano un

costo proporzionalmente maggiore sulle piccole imprese, mentre la piccola corruzione legata alla

fornitura di servizi pubblici costituisce una sorta di tassazione illegittima che pesa soprattutto sui

poveri. La corruzione legata all’evasione fiscale riduce la capacità di spesa dello stato e riduce la

qualità e quantità dei servizi, mentre le distorsione del sistema giudiziario finisce per danneggiare

soprattutto chi ha meno strumenti di pressione.

Il panorama africano è molto differenziato per la capacità di combattere la corruzione. Si riportano

qui di seguito alcuni dati in una tabella che indicano, con relativa graduatoria (esame di 178 paesi),

il livello di corruzione in alcuni paesi così come risultano dal Transparency Corruption Perception

Index 2010.

Livelli di corruzione in Africa

Meno corrotti Più corrottiBotswana (33) Guinea Equatoriale (168)Mauritius (39) Angola (168)

Capo Verde (45) Burundi (170)Seycelles (49) Chad (171)Sudafrica (54) Sudan (172)Namibia (56) Somalia (178)

povertà;

istituzioni deboli

mancanza a livello istituzionale di un sistema di check and balance e la debolezza e di un

sistema giudiziario realmente indipendente;

scarsa libertà dei media e debolezza della società civile;

157

Page 158: Storia dell'Africa

mancanza di reali competizioni elettorali (alternanza delle coalizioni al potere);

apparati dello Stato inefficienti.

Gran parte degli osservatori concordano su tutti questi punti, anche se vi è un certo dibattito su

alcuni di essi, come su quello della povertà. La povertà indubbiamente crea un incentivo alla

corruzione; basti pensare ai bassi salari dei funzionari e la necessità di integrarli con altri sistemi.

I mercati in paesi africani (scarsità di domanda) offrono meno possibilità alle imprese, che soffrono

comunque di scarsità di capitale e manodopera specializzata e quindi per ottenere profitti

ragionevoli utilizzano il metodo della corruzione per ottenere appalti a prezzi gonfiati.

Le famiglie ricorrono alla corruzione per ottenere servizi scarsi di prima necessità, come ad

esempio le medicine alle quali non avrebbero accesso in altra maniera, subendo così una sorta di

prelievo fiscale surrettizio che non va nelle casse dello stato ma nelle tasche dei burocrati. In linea

generale, in condizioni di povertà, la gente è concentrata sulla sopravvivenza di ogni giorno e non

ha l’energia o gli strumenti culturali per poter contrastare il fenomeno e chiedere una maggiore

responsabilità a chi governa la cosiddetta accountability. Alcuni critici fanno notare tuttavia che la

correlazione tra povertà e corruzione non sia così stretta, visto che paesi relativamente poveri come

il Botswana, Capo Verde, le Seychelles o Mauritius e lo stesso Sud Africa, risultano dagli indici

internazionali molto meno corrotti di paesi avanzati come ad esempio l’Italia che si pone al 67esimo

posto nell’indice di Transparency International.

Altro punto controverso è quello della repressione; quando la corruzione è sistemica e diffusa in

tutti i gangli sociali, secondo molti osservatori, la repressione ottiene scarsi risultati. Inoltre in molti

paesi africani la lotta alla corruzione diventa uno strumento di lotta politica: ogni colpo di stato

viene giustificato come unico mezzo per porre fine ad un regime corrotto, e dopo la presa del potere

con il pretesto della corruzione viene eliminata tutta la classe dirigente precedente.

Nei paesi democratici come la Nigeria, la lotta alla corruzione si è intrecciata sovente con la lotta

politica ed è servita ad indebolire fazioni scomode al potere, anche se a ben vedere, qualche

risultato positivo è stato ottenuto. Al contrario, l’esempio dell’azione di Rawlings in Ghana (che

peraltro conduceva un’azione in buona fede, con l’intento di risanare la società del suo paese), con

la sua violenta repressione del fenomeno (più di 700 esecuzioni), non ha raggiunto importanti e-

soprattutto - durevoli risultati.

Secondo Daniel Kaufmann, che ha lavorato per lunghi anni alla Banca Mondiale su questi temi, la

corruzione non è un problema etico, ma di organizzazione del sistema:

“A fallacy promoted by some in the field of anticorruption, and at times also by the international

community, is that one "fights corruption by fighting corruption"—through yet another

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Page 159: Storia dell'Africa

anticorruption campaign, the creation of more "commissions" and ethics agencies, and the

incessant drafting of new laws, decrees, and codes of conduct. Overall, such initiatives appear to

have little impact, and are often politically expedient ways of reacting to pressures to do something

about corruption, substituting for the need for fundamental and systemic governance reforms”.

In buona sostanza per Kaufmann, per combattere la corruzione si richiede la costruzione di un

diverso rapporto tra governanti e governati. Un rapporto che non deve essere costituito dalla

subordinazione dei cittadini sotto l’autorità, ma piuttosto dal controllo dei primi sulla seconda.

Gli sforzi della comunità dei donatori in Africa per ridurre i livelli di corruzione sono stati

molteplici, ma i risultati non sempre adeguati alle risorse devolute. Le regole e le norme che

definiscono illegale la corruzione esistono in tutti i paesi africani, ma nella quotidianità vengono

sostituite da un codice non scritto, al quale è difficile sottrarsi. Si tratta di norme di condotta tacite,

che regolano l’interazione tra individui (autorità e cittadini) e che rendono il fenomeno endemico e

sistematico. Questa situazione ha suscitato spesso l’interrogativo se esistano delle specificità

africane di ordine storico o culturale rispetto alla corruzione. Studi antropologici sulla corruzione in

Africa sono stati relativamente scarsi in termini quantitativi, ma significativi e approfonditi. Un

esame sintetico della letteratura in materia, svela stimolanti osservazioni: la corruzione in Africa

viene vista da alcuni come eredità delle società tradizionali nelle quali il rispetto per l’autorità

veniva associato con la pratica dei doni (senso di gratitudine per dei servizi ottenuti e forma

legittima di interazione sociale). Se la corresponsione di doni verso l’autorità tribale non era

percepita come fenomeno eticamente condannabile, la situazione cambia con le amministrazioni

coloniali. Queste infatti spesso si servivano dei capi tradizionali come interfaccia con le

popolazioni. I capi si avvantaggiavano materialmente della loro posizione, con una crescente

rapacità, visto il venir meno dei loro doveri di mantenimento di una certa stabilità sociale, garantita

comunque dalla repressione coloniale. La corruzione viene vista in questa ottica come effetto della

interazione, nel corso del tempo, di pratiche tradizionali, sistema di potere coloniale e processo di

modernizzazione, quindi come processo di “ibridizzazione” o combinazione di elementi diversi che

si rafforzano reciprocamente. Questo processo ha poi avuto un’influenza diretta nei nuovi stati post-

coloniali, per cui i nuovi regimi autoctoni hanno sviluppato una concezione neo-patrimonialistica

dello Stato (le autorità e le elite si appropriano delle risorse pubbliche; una parte viene dirottata nei

patrimoni privati, un’altra viene distribuita selettivamente tra i “clienti) che ha portato la corruzione

a raggiungere livelli patologici.

159

Page 160: Storia dell'Africa

Il seguente grafico della Banca Mondiale, che riporta i dati sulla capacità di controllo della

corruzione dei 10 paesi africani con più elevato PIL, più Botswana e Mauritius, mette in evidenza

alcuni elementi utili rispetto al tema della corruzione.

Sulla base di tale grafico si possono fare due considerazioni. La prima è che i paesi virtuosi non

hanno nulla da invidiare al resto del mondo, come appare chiaro dalla barra che rappresenta la

media mondiale per paesi in quella fascia di reddito, riportata sotto l’indice nazionale. La seconda

considerazione è che i paesi che si propongono con una cattiva prestazione in Africa, sono molto al

di sotto dell’indice medio di paesi a parità di reddito.

Negli ultimi anni tuttavia la situazione sembra in qualche modo migliorare, anche per la crescente

consapevolezza, non soltanto delle elites africane più illuminate consapevoli che la corruzione crea

danni immensi ai paesi africani, ma soprattutto per la reazione della gente comune che non sembra

più disposta a considerare la corruzione come un male inevitabile a cui rassegnarsi. Ad esempio in

Nigeria, considerato uno dei più corrotti paesi del mondo, anche a causa della sua ricchezza

160

Page 161: Storia dell'Africa

petrolifera e di gas naturale, ha mostrato che anche in un ambiente estremamente difficile, è

possibile reagire a condizioni di estremo degrado. Questo paese è riuscito a passare dal 132° posto

su 133 paesi nell’indice di corruzione (CPI) di Transparency International del 2003, al 121° posto

su 180 paesi nel 2008. I progressi, se non rivoluzionari, ma certamente significativi, sono stati il

frutto dell’impegno di Nuhu Ribadu presidente dell’ Executive Chairman Economic and Financial

Crimes Commission (EFCC). Nel corso del suo mandato l’EFCC ha indagato con successo

banchieri, governatori dello Stato federale, senatori e prominenti figure politiche, funzionari di

polizia e ministri. Per svolgere al meglio il suo compito la Commissione ha condotto migliaia di

inchieste ed effettuato 270 arresti, tra i quali uno dei suoi superiori, l’allora Inspector-General della

polizia nigeriana. Anche dopo la sua rimozione, avvenuta nel 2006 l’EFCC ha continuato ad

esercitare una discreta pressione sul potere politico e finanziario e Nuhu Ribadu è senz’altro

considerato un vero e proprio eroe popolare.

Il tasso di corruzione nelle economie petrolifere ed estrattive come prima fonte di reddito, risulta

comunque essere mediamente più elevato. In questi paesi le immense risorse finanziarie non

vengono utilizzate per investimenti produttivi, ma distribuite tra le elites del paese che alimentano

clientelismo per il consenso tra gruppi ristretti. In genere l’accountability media delle classi

dirigenti e molto bassa, con una evidente sottrazione delle risorse dal sistema economico destinabili

per la spesa sociale; e una selezione degli investimenti totalmente disfunzionali.

Dal punto di vista politico, la rendita prodotta dallo sfruttamento delle materie prime, secondo molti

studiosi, tende a preservare regimi totalitari che gestiscono tali risorse in maniera poco trasparente.

Le ineguaglianze sociali e geografiche tendono ad aumentare, così come i livelli di corruzione. In

queste circostanze, il rischio di conflitti interni diventa significativo con effetti che possono andare

da rivolte e guerre civili a violenza endemica, come sta avvenendo in Nigeria.

Allo scopo di migliorare la gestione delle risorse estrattive a vantaggio dei paesi produttori, sulla

base dei principi della trasparenza e della responsabilità finanziaria, è stata lanciata nel 2002 per

iniziativa del Governo britannico e con il successivo appoggio della Banca Mondiale nel 2003,

l’Extractive Industries Transparency Initiative (EITI). L’EITI, coinvolge nella gestione delle risorse

le società private, i governi, gli organismi internazionali e le agenzie per l’aiuto allo sviluppo, le

ONG e la società civile, con la creazione di un comitato che produce un programma di lavoro,

tenendo conto di tutti gli interessi coinvolti. Il miglioramento della governance relativa all’industria

estrattiva dovrebbe portare in ultima analisi ad una maggiore diversificazione delle economie

coinvolte e innescare processi di sviluppo sostenibili a tutto vantaggio delle popolazioni locali. Fino

ad oggi hanno aderito all’iniziativa 23 paesi dei quali 15 sono africani: Angola, Cameroon, Chad,

Congo Kinshasa, Congo Brazzaville, Guinea Equatoriale, Gabon, Ghana, Guinea, Mali, Mauritania,

161

Page 162: Storia dell'Africa

Niger, Nigeria, Sao Tome and Principe e Sierra Leone. Si tratta di un esercizio molto complesso che

richiede un lungo rodaggio per produrre i suoi effetti positivi, ma che fin da adesso mostra le

potenzialità future, soprattutto da un punto di vista finanziario. Il primo report EITI sulla Nigeria,

rilasciato all’inizio del 2006, ha riscontrato entrate per il governo in royalties e tasse, per un valore

annuale di $ 15 mld: una cifra molto elevata se la si compara al flusso degli aiuti allo sviluppo, che

per tutta l’Africa, per lo stesso periodo, è stato di $ 4,7 mld.

La gestione dell’EITI non risulta facile per numerosi motivi come ad esempio la debolezza delle

organizzazioni della società civile, la pervasività sociale dei regimi totalitari e la capacità delle elite

al potere di sottrarsi alla condizionalità dei donatori per via della loro indipendenza finanziaria e di

nuovi alleati come i cinesi.

Di seguito, alcuni esempi.

Nel 2000 il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e il governo angolano avevano firmato l’

accordo Staff Monitored Program (SMP) per realizzare tutta una serie di riforme economiche ed

istituzionali tra le quali il cosiddetto Oil Diagnostic, per monitorare i proventi petroliferi. Fino ad

allora la prassi angolana nella gestione finanziaria era stata assolutamente discutibile con ingenti

fondi dirottati per l’acquisto illegale di armi o spregiudicate operazioni finanziarie. I tentativi

successivi al 2000 per ridare un po’ di trasparenza alle procedure sono falliti per la resistenza del

governo angolano. Un rapporto estremamente critico del FMI sull’andamento delle riforme nel

paese, aveva poi di fatto portato alla rottura dei rapporti tra l’Angola e l’organismo internazionale.

Nel frattempo l’incremento del prezzo del petrolio e la concessione da parte della Cina di una linea

di credito di $2 mld. (portati successivamente a $9,5 mld) in cambio di importanti contratti nel

settore energetico e minerario, hanno consentito al paese africano di mantenere una posizione ferma

nei confronti del FMI, rivendicando il diritto di gestire la riforma economica con programmi

esclusivamente nazionali. Soltanto recentemente il FMI ha, con un secondo rapporto, molto più

edulcorato del primo, assunto un atteggiamento conciliatorio con il governo angolano, di fatto una

palese marcia indietro, per riprendere le relazioni interrotte.

Altro caso significativo è quello del Chad. La necessità di trovare uno sbocco sull’oceano atlantico

dell’importante produzione dei giacimenti di Doba nel sud del Chad richiedeva la costruzione di un

pipeline lungo 1078 kilometri per un costo di $4,2 mld.. Il consorzio per realizzare l’opera era

formato dai governi chadiano e camerunense e dalla Banca Mondiale come finanziatore e garante

dell’operazione e da tre multinazionali petrolifere, la Exxon (40%), Petronas (35%) e Chevron

(25%) per la sua realizzazione tecnica. La Banca Mondiale ha posto condizioni stringenti per la sua

partecipazione, in particolare sulla trasparenza sui proventi petroliferi e la loro destinazione ad

investimenti in infrastrutture economiche e sociali. Le condizioni dell’organismo internazionale

162

Page 163: Storia dell'Africa

sono state incorporate in una legge specifica approvata dal governo chadiano, che prevedeva la

costituzione di un comitato di controllo (il College de Control) di nove membri, con rappresentanti

anche della società civile, la creazione di un fondo per le generazioni future e indicazioni sulla

spesa, che di fatto lasciava alla discrezionalità del governo soltanto il 5% degli introiti petroliferi.

L’operazione era stata giudicata da molti osservatori positiva e molto al di sopra degli standard

africani, anche per le sue preoccupazioni di tipo ambientale nella realizzazione del oleodotto e per

un equo risarcimento delle comunità danneggiata nel corso della realizzazione dell’opera. L’intero

impianto, attento alla gestione ed alla trasparenza, tuttavia doveva incontrare presto serie difficoltà a

causa della cattiva implementazione della legge da parte dello stesso Governo chadiano. Il College

de Control in particolare ha visto la sua capacità operativa limitata da sottofinanziamento, ha subito

talvolta minacce, ed ha potuto contare su di uno scarso flusso di informazioni. Nel momento in cui

il petrolio ha iniziato a fluire nel Pipeline, il governo chadiano ha provveduto a cambiare le regole

del gioco incrementando da 5 al 30 % le spese discrezionali del governo. Il fondo per le future

generazioni è stato eliminato e dei fondi destinati a progetti infrastrutturali, gran parte è stata

destinata alla costruzione di strade, settore in cui il livello di corruzione è molto elevato, mentre

soltanto il 5,1% sono stati destinati all’istruzione e il 3,3% alla sanità. Lo scontro tra la Banca

Mondiale appoggiata dagli Stati Uniti ed il Governo Deby ha spinto quest’ultimo a minacciare

addirittura la chiusura dell’oleodotto e la possibilità di un ingresso massiccio dei cinesi in

sostituzione delle multinazionali occidentali. Infine si è giunti ad un accordo che di fatto sanzionava

tutte le richieste del governo chadiano. Se da un punto di vista della politica energetica e di politica

industriale il progetto costituisce un successo, con grande soddisfazione delle multinazionali

occidentali coinvolte, in primis la Exxon, anche grazie alla scoperta di nuovi giacimenti nell’area,

dal punto di vista di un management corretto e di una logica di sviluppo economico del Chad, i

risultati sembrano essere dunque del tutto negativi.

Interessante è anche quanto accaduto a Sao Tome and Principe dove, in previsione dell’inizio dello

sfruttamento di giacimenti off-shore si era affidato l’incarico di adattare i meccanismi EITI a Jeffrey

Sachs. In fase di implementazione è tuttavia prevalso l’interesse delle oligarchie corrotte locali e dei

$100 mil emessi dalle compagnie petrolifere per i diritti di prospezioni off-shore, ne sono restati da

utilizzar in piena trasparenza soltanto $15 mil..

Questi casi dimostrano sostanzialmente che, pur utili, gli interventi esterni risultano poco efficaci se

non si rafforza la consapevolezza da parte della leadership africana che soltanto attraverso una

migliore gestione delle risorse finanziarie ed una seria lotta contro la corruzione è difficile

immaginare la possibilità di uno sviluppo sostenibile in quei paesi. Tale consapevolezza può essere

163

Page 164: Storia dell'Africa

senz’altro rafforzata dall’azione dei cittadini, volta a reclamare un sistema diverso, attraverso la

capacità di fare sentire le proprie istanze.

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Page 165: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 37-38“IL TRAFFICO DI STUPEFACENTI IN AFRICA”

Da alcuni anni l’Africa sta diventando un crocevia significativo del traffico internazionale di

stupefacenti, in particolare della cocaina proveniente dall’America Latina. Le ragioni dello sviluppo

di nuove rotte attraverso l’Africa dipendono da diversi fattori, sia endogeni che esogeni alla realtà

africana. La preoccupazione delle autorità nazionali, delle organizzazioni regionali e della comunità

internazionale è crescente poiché le conseguenze dello sviluppo di questi traffici si riflettono su

un’ampia gamma di questioni: politiche, economiche, sanitarie e di sicurezza pubblica. La droga è

ormai un problema in Africa e rappresenta un ulteriore ostacolo allo sviluppo del continente. Lo

affermano diversi organismi internazionali incaricati della lotta al traffico di stupefacenti. Già nel

2001, un rapporto dell'Ufficio delle Nazioni Unite per la lotta alla criminalità (UNODC) affermava

che "grazie alla loro esperienza nel campo del contrabbando di hashish e di eroina, i cartelli della

droga dell'Africa occidentale cercano nuovi contatti in America Latina per estendere il traffico di

cocaina a tutta la regione dell'Africa sud-sahariana". Si tratta di una svolta fondamentale nella

strategia del narcotraffico mondiale che vede l'Africa diventare una delle aree "perno" per la

distribuzione di droghe in tutto il mondo. Fino ai primi anni '90 del secolo scorso, l'Africa era tenuta

ai margini delle rotte della droga. La svolta avviene nel 1993, quando vengono sequestrati in

Nigeria, 300 kg di eroina provenienti dalla Thailandia. È il segnale di un cambiamento che vede la

trasformazione di tanti contrabbandieri africani (per lo più nigeriani), da semplici trasportatori per

conto terzi in membri di gang capeggiate da africani, in grado di trattare da pari a pari con analoghe

organizzazioni di altri continenti. La presenza di queste organizzazioni criminali, il forte

inurbamento, la diffusione di una cultura edonistica sono tutti fattori che hanno creato le premesse

per un mercato africano della droga.

L'Africa quindi non è più solo un luogo di transito degli stupefacenti ma anche un terreno "vergine"

per lo spaccio della droga.

L'eroina in Africa

Secondo dati ONU, nel 2004 si è registrato un primo forte incremento del sequestro di eroina del

60% rispetto all'anno precedente. In particolare, l'eroina che passa per l'Africa è destinata in primo

luogo ai mercati europei e secondariamente a quello del Nord America.

165

Page 166: Storia dell'Africa

L'ammontare totale degli oppiacei sequestrati in Africa rimane tuttavia ancora modesto (0,3% del

totale dei sequestri a livello mondiale). Per quel che concerne l'uso di oppiacei in Africa, si nota un

aumento del loro consumo. Secondo gli esperti delle Nazioni Unite la crescita del consumo di

eroina deriva dal fatto che sono utilizzati come luoghi di transito dai narcotrafficanti, i quali però

non disdegnano di creare un mercato locale.

In Sudafrica, uno dei pochi Paesi africani che dispone di dati affidabili, fino ai primi anni del nuovo

millennio la richiesta di cure per abuso di eroina rappresentava solo l'1% del totale delle richieste di

cura per dipendenza da sostanze stupefacenti. Nel 2005 questa percentuale era gia' salita al 7%.

In tale contesto, si registra a un forte incremento dell'uso di eroina in alcuni Paesi come il

Mozambico, lo Zambia, il Kenya, la Tanzania e la Costa d'Avorio, mentre in altri l'aumento sarebbe

stato più contenuto (Sudafrica, Madagascar, Ghana, Liberia e Senegal).

Gli outsider nigeriani e i legami con il Tagikistan.

Recenti studi del 2010-2011 hanno evidenziato che nella complessa mappa della "distribuzione dei

traffici tra gruppi autoctoni" emergono i sodalizi nigeriani, stanziati da tempo in Tagikistan, la cui

attività appare funzionale alle penetrazione nel mercato cinese. Appare altresì evidente che le

strategie si stanno evolvendo con una regionalizzazione sempre più marcata dei traffici e con la

sempre minore presenza di gruppi autonomi basati su antichi vincoli familiari che stanno, seppure

lentamente, lasciando il posto ad organizzazioni più strutturate e forti.

Il dato più preoccupante è però quello della cocaina che transita dall'Africa in direzione

principalmente dell'Europa e, secondariamente, dell'America settentrionale.

L'importanza dell'Africa, e in particolare del West Africa, vista come uno dei punti di transito della

cocaina verso i ricchi mercati occidentali è stata dimostrato dal livello dei sequestri registrati negli

ultimi anni. I sequestri di cocaina nell'intera Africa sono infatti aumentati di tre volte tra il 2003 e il

166

Page 167: Storia dell'Africa

2004, mentre nello stesso periodo, i sequestri in Africa occidentale e centrale sono aumentati di sei

volte.

Tuttavia, secondo gli attuali dati disponibili, dal 2008 la stessa West Africa ha segnalato un

significativo declino passando dai 98 kg del 2002 alle 4.6 tonnellate del 2007 fino ad arrivare alle

2.3 tonnellate del 2008.

Ma i sequestri di cocaina in Africa rappresentano solo l'1% del totale mondiale Anche in questo

caso però questo dato è viziato dalla debolezza delle forze di polizia locali incapaci di intercettare la

maggior parte dei flussi di cocaina provenienti dal Sud America.

Nel 2004, ad esempio, il 50% dei sequestri di cocaina nel continente sono avvenuti in Africa

occidentale e centrale. La zona di passaggio più utilizzata dai trafficanti di cocaina è quella del

Golfo di Guinea, da dove la sostanza stupefacente è trasportata in Europa in piccole quantità dai

cosiddetti "muli", persone che si prendono il rischio di ingerire ovuli di cocaina con la speranza di

passare i controlli doganali negli aeroporti di destinazione. Negli ultimi anni anche nell'Africa

orientale è aumentato il quantitativo di cocaina sequestrata, indicando una tendenza ad utilizzare in

misura crescente quest'area come punto di transito per la cocaina destinata all'Europa e all'Asia.

I trafficanti di cocaina tendono a servirsi dell'Africa come punto di transito per due motivi. Il primo

deriva dal miglioramento dei sistemi di sorveglianza dispiegata dalle autorità locali e da quelle

statunitensi nell'area caraibica e centro americana , tradizionale rotta utilizzata dai trafficanti. Negli

ultimi anni sono sorte basi di sorveglianza statunitensi dalle Ande alle isole caraibiche. Anche le

autorità olandesi hanno intensificato la sorveglianza con pattugliatori aerei basati nelle isole di

Curaçao e Saint Martin.

Il secondo fattore è legato alla diminuzione del consumo di cocaina che si è registrato negli Stati

Uniti a fronte di un aumento della domanda in Europa. Se in Nord America vi è il più alto numero

di consumatori mondiali, la tendenza è quella della diminuzione della domanda. L'Africa è quindi

167

Page 168: Storia dell'Africa

una comoda e sicura rotta per i raggiungere un mercato in crescita. Come effetto collaterale inoltre

si è creato un mercato africano che sta registrando negli ultimi anni dei preoccupanti aumenti.

La cocaina nell'Africa occidentale

Il paese tradizionalmente interessato dal narcotraffico è la Nigeria. Qui infatti nel 1993 è stato

registrato il primo significativo sequestro di cocaina in Africa e le organizzazioni criminali

nigeriane sono oramai inserite a piano titolo nel sistema criminale globale e transnazionale.

L'affermazione delle mafie nigeriane deriva anche dall'appartenenza della Nigeria del

Commonwealth, che ha permesso di avviare strette relazioni commerciali con il subcontinente

indiano, produttore di oppio ed eroina e con il mondo anglosassone consumatore.

Alla fine degli anni '80, infatti, si registra un incremento importante nel ruolo di centro strategico e

nel 1992 i ritrovamenti di cocaina nell'aeroporto di Lagos sono così rilevanti che le autorità

nigeriane sospendono i voli diretti con Rio de Janeiro.

Da allora i trafficanti nigeriani sono considerati i principali vettori della droga,, una vera e propria

industria al servizio del commercio dell'eroina e della coca. Essi sono presenti in tutti i punti chiave

della produzione e del traffico delle droghe. Grazie ai connazionali residenti all'estero, hanno

formato clan criminali paragonabili a quelli colombiani, turchi e cinesi.

Uno dei Paesi dell'Africa occidentale dei quali si hanno statistiche affidabili sull'incremento del

traffico di cocaina è il Ghana. Secondo i dati diffusi dalle autorità locali, tra il 2003 e il 2004 i

sequestri di cocaina sono aumentati di 40 volte passando da 15 a 617 chili. La maggior parte della

cocaina sarebbe stata destinata al mercato britannico.

Si tratta di un dato significativo se si pensa che in termini percentuali, i sequestri di cocaina sono

aumentati del 18% a livello mondiale e del 4.000% in Ghana dal 2003 al 2004.

Nello stesso periodo in Africa i sequestri di cocaina sono aumentati di 3 volte passando dalle 1,1

tonnellate alle 3,6 tonnellate. Negli anni successi sono emersi altri fatti che dimostrano come il

Ghana sia diventato un importante punto di passaggio della cocaina nell'Africa occidentale. Nel

novembre 2005 la polizia del Ghana ha sequestrato 588 chili nel corso di una perquisizione di

un'abitazione a East Lagon.(Accra) Nell'aprile 2006 sono stati scoperti a bordo della nave MV

Benjamin che aveva attraccato nel porto di Tema ben 2.310 chili di cocaina La Guinea Bissau è un

altro dei Paesi divenuti punto di transito della cocaina dall'America Latina all'Europa come

dimostrato nel 2007 dalla scoperta di 674 chilogrammi di cocaina e all'arresto di alcuni

narcotrafficanti sudamericani.

168

Page 169: Storia dell'Africa

Africa Orientale: una situazione preoccupante

In Africa Orientale il Kenya è il principale punto di transito della cocaina. Nel solo 2004 sono stati

sequestrati 1,1 tonnellate di cocaina tra la capitale Nairobi e il centro costiero di Malindi. Oltre al

Kenya i Paesi dell'Africa Orientale interessati dal narcotraffico sono Etiopia, Botswana, Zambia e

Sudafrica. In questo ultimo Paese secondo il South African Instute of International Affairs (SAIIA),

vi sono 500mila persone che fanno uso di cocaina mentre un terzo degli adolescenti fa utilizzo di

stupefacenti. Secondo il centro studi sudafricani, nel Paese operano 300 organizzazioni criminali

internazionali coinvolte nel narcotraffico.

I Paesi della regione sono ormai diventati non solo una zona di transito ma anche un nuovo mercato

per gli stupefacenti e in particolare per la cocaina. Nello Zambia, ad esempio, l'80% della cocaina

che giunge nel Paese viene trasferita in Europa e il restante 20% viene consumato localmente.

L'Interpol ha lanciato l'allarme sul crescente consumo di stupefacenti in Africa.

Le condizioni climatiche della maggior parte dell'Africa sono favorevoli alla coltivazione di

cannabis. Si tratta di una coltivazione che permette un alto profitto all'agricoltore e necessita di un

lavoro meno intensivo rispetto alle altre. Intere famiglie di agricoltori possono così vivere in modo

decente e permettersi di comprare cibo e medicinali e di inviare i loro figli a scuola. La cannabis è

coltivata in Africa principalmente per il mercato locale, ma negli ultimi anni si è notato un aumento

dei traffici di cannabis originati dall'Africa sub-sahariana. Le maggiori coltivazioni di cannabis si

trovano nelle Comore, in Etiopia, Kenya, Madagascar, Tanzania e Uganda. In Kenya, la

coltivazione di cannabis ha un'antica tradizione ma negli ultimi anni è diventata prima una

produzione limitata al mercato locale, per poi trasformarsi in una vera impresa commerciale illecita

estesa alla dimensione internazionale. La cannabis è coltivata nella regione occidentale e in quella

del Monte Kenya, dove secondo alcuni rapporti vi sono circa 1.500 ettari coltivati a cannabis. Le

coltivazioni di droga sono nascoste tra quelle tradizionali destinate all'alimentazione, ma vi sono

anche coltivazioni più piccole in alcune aree protette della riserva naturale nazionale. Anche le

regioni costiere sono diventate produttrici di cannabis. Qui infatti si sono installati diversi

agricoltori provenienti dall'entroterra che vi hanno trovato aree fertili e poco sorvegliate dalla

polizia, e un mercato costituito dalla popolazione locale, dai turisti e dai residenti stranieri che

prediligono le coste del Paese.

Per quanto riguarda l'oppio, in passato sono state segnalate alcune coltivazioni in Kenya e lungo le

coste del Madagascar. Per quel che riguarda la produzione locale di droghe sintetiche, l'Africa

orientale è un punto di transito del methaqualone (Mandrax) proveniente dall'India e destinato al

mercato sudafricano.

169

Page 170: Storia dell'Africa

Negli ultimi anni la riduzione del Mandrax proveniente dall'India ha generato una produzione locale

di questa sostanza. Sono stati infatti scoperti laboratori chimici clandestini utilizzati per la

fabbricazione di questa droga sintetica in alcuni Paesi dell'Africa orientale e meridionale.Nei casi

dei laboratori scoperti in Kenya e Tanzania si trattava solo di piccoli centri dove la polvere di

Mandrax ancora proveniente dall'India viene trasformata in compresse, ma in altri casi ci si è trovati

di fronte a vere e proprie officine per la fabbricazione del Mandrax, con precursori chimici la cui

provenienza è rimasta sconosciuta. A questo proposito le sostanze che destano più preoccupazioni

sono le efedrine, pseudo-efedrine, l'anidride acetica e l'acido N-acetilantranilico (utilizzato nella

fabbricazione del Mandrax) e il pergamenato di potassio. La più famosa coltivazione di pianta

stupefacente locale è il khat, che è comunque una produzione legale in diversi Paesi dell'Africa

orientale. Il khat è coltivato soprattutto in Etiopia e Kenya e, in misura meno estesa, in Tanzania,

Comore e nella parte settentrionale del Madagascar. Viene esportato nei principali mercati dell'area

(Gibuti, Eritrea, Somalia, Somalia e Yemen), oltre che in Europa e nell'America settentrionale.

L'uso di khat continua ad espandersi nel Corno d'Africa e gioca un ruolo chiave nella continua

instabilità della Somalia, dove si calcola che la popolazione spende ogni anno 64 milioni di dollari

all'anno per acquistare il khat. Si tratta di una somma quasi doppia al totale degli aiuti internazionali

donati al Paese. Il khat non solo contribuisce a sconvolgere la società, creando persone affette dalla

dipendenza di stupefanti, ma ha anche un ruolo nel diffondere nel Paese le armi leggere, spesso

scambiate in cambio di una partita di droga. Tutti elementi che permettono di nascondere i traffici di

droga. Il Kenya ha il più grande porto commerciale della regione, Mombasa, che serve la maggior

parte dei Paesi privi di accesso diretto al mare, mentre l'aeroporto di Nairobi è uno dei più trafficati

dell'area. Le reti del narcotraffico utilizzano anche i porti di Dar-es-Salaam (in Tanzania), Gibuti,

Durban (in Sudafrica) e Maputo (in Mozambico) e stanno espandendo le loro attività anche in

Etiopia, Mauritius, Tanzania e Uganda. Questi ultimi Paesi sono usati come punti di transito per la

droga inviata in Kenya, Sudafrica e Africa occidentale e da queste aree in Europa e Nord-America.

La maggior parte delle sostanze stupefacenti arriva nella regione via mare, nascosta nei carichi dei

container trasportati dalle navi mercantili che solcano l'Oceano Indiano. In alcuni casi le navi dei

narcotrafficanti si incontrano in alto mare con battelli più piccoli, che riportano a terra il carico

illecito. Grandi quantità di eroina arriva così nella regione ma si fa ricorso anche a corrieri, uomini e

donne, che arrivano con voli commerciali, e agli invii per posta.

Tra i Paesi dell'Africa orientale interessati dal traffico e dal consumo di sostanze stupefacenti vi è

l'Uganda. Secondo un recente rapporto dell'UNODC, "l'Uganda è diventata il Paese leader nel

traffico e nel consumo di droga rispetto al resto degli Stati dell'Africa orientale". Tra le droghe

presenti nel mercato illecito ugandese vi sono la cannabis, l'eroina, la cocaina e il mandrax, oltre al

170

Page 171: Storia dell'Africa

khat. Secondo l'agenzia anticrimine dell'ONU, l'aumento del consumo di sostanze stupefacenti è

dovuto ai "due decenni di conflitti armati e di mancanza di legge che hanno gravemente

danneggiato l'infrastruttura delle forze dell'ordine".

Il rapporto osserva che le condizioni climatiche di tutto il territorio ugandese sono favorevoli alla

coltivazione di cannabis: "La coltivazione illecita della pianta è, però, rilevante in aree remote

delle regioni meridionale, occidentale, centrale, orientale e nord-orientale. Le dimensioni esatte

delle coltivazioni di cannabis non sono conosciute, ma si è notato un aumento della produzione di

cannabis soprattutto per l'esportazione". L'aeroporto di Entebbe è infine utilizzato come punto di

transito per l'invio di eroina e di mandrax dall'Estremo Oriente al Sudafrica.

CHI GESTISCE IL MERCATO INTERNAZIONALE DI COCAINA ?

In tale contesto, appare significativo evidenziare che a gestire il mercato risultano al vertice

principalmente le organizzazioni colombiane che stringono alleanze con quelle europee. A questi

sodalizi si aggiungono gruppi di origine caraibica (domenicani e jamaicani in particolare) noncheé

quelli del West Africa, presenti in maniera trasversale in Francia, Svizzera, Italia, Germania,

Olanda e Portogallo. Tra questi ultimi spiccano i sodalizi nigeriani ,che , soprattutto in Olanda,

gestiscono un proprio mercato che riforniscono attraverso corrieri aerei in partenza dalle Antille ,

dal Suriname, dal Peru' dalla Repubblica domenicana e dal Messico. I nord africani sono invece

presenti maggiormente nei Paesi mediterranei (Spagna, Francia e Italia)e in Olanda.

ll Sahel nuova frontiera del narcotraffico?

Dalle coste dell'Africa occidentale le organizzazioni di narcotrafficanti si stanno progressivamente

espandendo ai Paesi del Sahel, il cui ruolo strategico di cerniera tra l'Atlantico e il Maghreb, e

quindi il Mediterraneo, è apprezzato anche dai trafficanti di esseri umani e, probabilmente, dal

terrorismo internazionale. Anche il Burkina Faso non sfugge al fenomeno. All'inizio di aprile 2007,

49 chilogrammi di cocaina, per un valore di 10 milioni di dollari, erano stati intercettati dalla polizia

del Burkina Faso al confine con il Mali, quest'ultimo importante punto di transito per il traffico

degli esseri umani. Paesi come il Mali e il Niger sono da millenni attraversati da vie carovaniere,

che sono ora riconvertite per un uso criminale: traffico di esseri umani ma anche di armi, droga e

sigarette di contrabbando. Secondo l'ente anticrimine dell'ONU, i trafficanti importano la droga

nelle città costiere come Conakry, in Guinea, Dakar, in Senegal, e Lomé, in Togo, e poi la

trasportano nelle città dell'interno come Bamako, in Mali, e Ouagadougou, in Burkina Faso. Da

queste località la cocaina prosegue il suo viaggio fino all'Europa.

171

Page 172: Storia dell'Africa

Secondo il responsabile del Comitato contro i traffici illeciti di droga in Burkina Faso, occorre

coordinare gli sforzi tra le polizie degli Stati dell'area. "Vi è un bisogno urgente di riunire tutti gli

enti nazionali antidroga della regione per trovare il modo di cooperare tra di loro per cercare di

fermare le reti di criminali" ha detto sottolineano come la scarsa cooperazione transfrontaliera tra i

Paesi del Sahel e la mancanza di mezzi delle polizie locali costituiscono problemi aggiuntivi per

un'efficace azione di contrasto alle reti criminali.

Il mercato della cannabis

Mentre l'Africa è per ora solo un luogo di transito e un mercato residuale per droghe come cocaina

ed eroina, la principale produzione locale di sostanze stupefacenti è rappresentata dalla cannabis. La

coltura della cannabis è stata introdotta in Africa orientale dai mercanti arabi, persiani e indiani, nel

12esimo secolo. Da lì si è diffusa prima in Africa australe nel 15esimo secolo, poi in Congo e

Angola nel 19esimo secolo. Solo però dopo la seconda guerra mondiale la cannabis raggiunge

l'Africa occidentale, portata dei soldati nigeriani e ghanesi che combatterono con le truppe

britanniche in Birmania (attuale Myanmar), dove avevano preso l'abitudine di fumare la marijuana.

Questo fatto spiega perché nei Paesi dove la cannabis è conosciuta da più tempo, è utilizzata nella

medicina tradizionale, mentre in Africa occidentale è usata per scopi "ricreativi". Fino agli anni '80

però la produzione africana di cannabis rimase limitata. A partire da quegli anni si è però notato un

incremento notevole della superficie coltivata a cannabis per fini commerciali.

La produzione di questa sostanza si divide in tre categorie: l'erba di cannabis (fiori e foglie), resina

o hashish (secrezioni emesse dalla pianta durante la fase di fioritura) e olio di hashish, il meno

172

Page 173: Storia dell'Africa

utilizzato. Secondo il World Drug Report 2006 l'erba di cannabis è coltivata, per lo più illegalmente,

in 176 Paesi in tutto il mondo. L'Africa rappresenta il 27% della produzione mondiale e i principali

produttori sono Marocco (3.700 tonnellate), Sudafrica (2.200 tonnellate) e Nigeria (2mila

tonnellate).

Per quel che concerne l'hashish il principale produttore mondiale è il Marocco che rifornisce i

mercati nordafricani ed europei. Grazie all'impegno delle autorità marocchine negli ultimi anni si è

avuta una diminuzione della produzione locale di cannabis, cui corrisponde un aumento della

produzione in altri Paesi, dall'Asia occidentale (Afghanistan, Pakistan) all'Albania.

L'UNODC riconosce che dal 2003 il governo di Rabat ha condotto una campagna per stimare la

produzione di resina di cannabis nel Paese, in cooperazione con l'Agenzia anticrimine delle Nazioni

Unite. Secondo l'indagine effettuata nel 2003, la produzione di cannabis è stata di 3.060 tonnellate,

coltivata su 134mila ettari di terra nella regione del Rif (nord del Paese) da 96.600 famiglie di

contadini. L'indagine condotta nel 2004 ha registrato una diminuzione del 10% delle terre coltivate

a cannabis passati a 120.500 ettari con una produzione stimate di 2.760 tonnellate. Nel 2005 si è

notata una ulteriore diminuzione del 37% portando la superficie coltivata a cannabis a 72.500 ettari

mentre la produzione è diminuita a 1.070 tonnellate. Per quanto riguarda i sequestri di cannabis,

negli ultimi anni 12-15 anni si è registrato un aumento della percentuale mondiale dei sequestri nel

continente africano di questa sostanza. Mentre nel 1990 il 16% del totale mondiale dei sequestri di

cannabis avveniva in Africa, nel 2002 questo dato era salito al 20% per giungere il 31% nel 2004.

L'aumento dei sequestri di cannabis in Africa è determinato soprattutto dall'aumento dei controlli di

polizia e doganali effettuati dalla Nigeria e dal Sudafrica. Il principale mercato di consumo della

cannabis è l'Europa occidentale, e l'80% della cannabis consumata in Europa proviene dal Marocco,

passando per la Spagna e l'Olanda e da qui distribuita negli altri Paesi. Il terzo mercato mondiale di

consumo è rappresentato dai Paesi del Nord Africa, dove la cannabis proviene principalmente dal

Marocco. Parte della cannabis prodotta in Afghanistan e Pakistan inoltre va ad alimentare il mercato

dei Paesi dell'Africa orientale. Per quel che concerne le problematiche sociali legate al consumo

della cannabis, occorre ricordare che questa sostanza è la droga più diffusa ed usata a livello

mondiale. Si stima che nel 2004 ne abbiamo fatto uso 162 milioni di persone, pari al 3,9% della

popolazione mondiale tra i 15 e i 64 anni. In termini relativi (la percentuale di abitanti che fa uso di

cannabis rispetto ad altre sostanze stupefacenti) la cannabis è prevalentemente utilizzata in Oceania,

seguita da America del Nord e Africa. Dal 1992 in Africa inoltre si è notata una tendenza

all'aumento del suo consumo, in particolare in Algeria, Nigeria e Zambia.

È probabile che la tendenza all'uso di questa droga sia sottostimata in diversi Paesi dell'Africa che

non hanno una capacità di raccolta di dati adeguati per seguire il fenomeno. Secondo dati parziali si

173

Page 174: Storia dell'Africa

è notato negli ultimi anni un forte incremento dell'abuso di cannabis nell'Africa occidentale, in

quella orientale e in Nord Africa, in linea con la tendenza a livello globale di un'ulteriore espansione

del consumo di questa sostanza.

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Page 175: Storia dell'Africa

Droghe sintetiche

La produzione di droghe sintetiche è limitata in Africa, con l'eccezione del Sudafrica dove la

fabbricazione di metamfetamine e methaqualone è aumentata negli ultimi anni. I dati sulla scoperta

di laboratori clandestini confermano questa tendenza.

Si è infatti passato dalla scoperta e lo smantellamento di un laboratorio all'anno nel periodo 1995-

1999, ai 17 nel periodo 2000-2003, fino ai 28 smantellati nel solo 2004. Un altro dato che dimostra

l'incremento dell'uso di droga sintetiche in Sudafrica è quello dell'aumento dei sequestri di ecstasy:

nel 2004 si è avuto un incremento del 385% dei sequestri rispetto all'anno precedente.

Le droghe sintetiche inoltre facevano parte del programma di guerra segreta chimica e biologica

messa a punto dal regime dell'apartheid. Secondo le testimonianze raccolta durante il processo nei

confronti del responsabile del dottor Wouter Basson (definito "Dottor Morte" dalla stampa locale),

nell'ambito del cosiddetto "Project Coast" tra il 1992 e il 1993 i laboratori collegati ai servizi segreti

sudafricani avevano prodotto più di 900 chili di cristalli di ecstasy (pari a 73 milioni di pillole).

Alla luce di quanto sopra e’ possibile affermare che l'Africa non è più solo un punto di passaggio

della droga proveniente dall'America Latina e dall'Asia verso l'Europa e l'America Settentrionale,

ma è ormai diventata un mercato ancora forse "residuale", ma comunque non trascurabile per le reti

di narcotrafficanti.

175

Page 176: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 39-40“IL TERRORISMO IN AFRICA”

Negli ultimi anni, l’Africa è diventata il teatro di azioni terroristiche di gruppi collegati alla jihad

internazionale e di formazioni autoctone che mirano all’islamizzazione forzosa delle aree in cui

operano.

In tale sezione verranno esaminati Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), Boko Haram, il Lord’s

Resistance Army, il caso somalo e Al Shabab, infine il fenomeno dei Mungiki.

a) AL QAEDA NEL MAGHREB ISLAMICO -AQMI Al Qaeda nel Maghreb Islamico-AQMI è l’attuale protagonista della campagna estremista che

continua a minacciare il Nord Africa. Ormai del tutto “commissariato” da Al Qaeda, il gruppo è

attualmente operativo nella regione berbera della Cabilia, nell'Algeria meridionale e, in misura

sempre più crescente, nel Sahel. E’ questa la nuova frontiera del regno di Al Qaeda: una sorta di

zona franca, estesa dall’Oceano Atlantico fino al Corno d’Africa, che passa per la Mauritania, Mali,

Niger, Burkina Faso, Ciad e Sudan. E’ la sponda meridionale del Sahara, tra le aree più povere al

mondo. Negli ultimi anni le infiltrazioni terroristiche in questa fascia sub-sahariana sono aumentate

esponenzialmente,complice la posizione strategica di cui il Sahel gode e la presenza di importanti

criticità come la porosità dei confini, le violenze settaria e l’instabilità politica. Oltre quattromila

chilometri di deserto separano il Mali dall’Algeria e dalla Mauritania, frontiere volatili e indifese,

dove tra i beduini in costante movimento possono trovare un rifugio sicuro gli operativi di Al

Qaeda. Proprio qui la “multinazionale del terrore” sta costruendo il suo avvenire: il Sahel è una

regione smisuratamente vasta e dimenticata dove è ideale indottrinare i combattenti jihadisti,

addestrarli all’uso di armi ed esplosivi, ospitare miliziani in fuga e progettare gli attentati da mettere

a segno contro l’Occidente. In questa terra di nessuno, “sancta sanctorum” di tutte le attività illecite

dell’Africa sub-sahariana, sono segnalati diversi campi d’addestramento: nelle zone isolate e remote

nel Mali settentrionale, sul massiccio del Tibetsi, lungo il confine del Chad con la Libia, ma anche

nella regione della Azaouagh, lungo il confine tra i Niger e l’Algeria.

Attività di addestramento quindi, ma anche di reclutamento: le bande fondamentaliste cercano

nuovi adepti lungo le rotte dell’immigrazione clandestina, soprattutto tra nigeriani e nigerini.

A garantire il denaro per equipaggiamenti ed armi è l’industria dei sequestri. A tal proposito, la

cronistoria del solo 2009 delinea una realtà certamente non rassicurante. L’anno si è aperto con il

rapimento, poi rivendicato da AQMI, di quattro turisti occidentali nella zona frontaliera tra il Mali e

il Niger. Tre di loro saranno liberati, mentre il cittadino britannico Edwin Dyer verrà barbaramente

ucciso il giugno successivo a fronte del rifiuto londinese di liberare il terrorista giordano

176

Page 177: Storia dell'Africa

AbuQatada, detenuto nelle carceri inglesi. Il 29 novembre 2009 vengono rapiti tre volontari

spagnolidell’ONG ‘Barcelona Acciò Solidària’, Albert Vilalta, Alicia Gomez e Roque Pascual.

Sequestrati dauomini armati in Mauritania, precisamente tra Nouadibou e Nouakchott, per il loro

rilascio sarebbe stato chiesto un riscatto di 5 milioni di dollari, unitamente alla liberazione di alcuni

detenuti jihadisti. Solo qualche giorno prima era stato rapito il cittadino francese Pierre Camatte a

Ménaka, nella parte orientale del Mali, poi rilasciato dopo tre lunghi mesi di prigionia.

Alla fine di dicembre 2009 AQMI rivendica un altro rapimento, quello dei due italiani, Sergio

Cicala e la moglie Filomen Kabouree, originaria del Burkina Faso, sequestrati assieme al loro

autista ivoriano nella Mauritania orientale, al confine con il Mali. La responsabilità è stata

rivendicata da Slah Abu Mohammed, presunto portavoce del gruppo, che in un messaggio diffuso

dalla tv satellitare Al Arabya considera il rapimento “una risposta ai crimini compiuti dall’Italia in

Afghanistan e in Iraq”.

E’ un meccanismo, quello dei sequestri, che fa leva sul coinvolgimento dei gruppi criminali locali.

La dinamica prevede che il rapimento dei turisti occidentali sia affidato alle bande armate

autoctone, che vendono poi gli ostaggi agli operativi di AQMI nel Sahel. A volte capita anche che il

sequestro sia opera di gruppi fondamentalisti locali che con la loro azione vogliono accreditarsi

presso l’organizzazione madre AQMI. Altre fonti di entrate riguardano anche il traffico di droga,

armi ed esseri umani: gli estremisti islamici si servono dei trafficanti locali, esperti conoscitori del

territorio, che guidano le varie rotte transahariane degli illeciti. Un connubio pericoloso, così come

emerge da varie risultanze processuali nonché da recenti arresti.

Nel dicembre 2009 le autorità del Ghana hanno fermato Oumar Issa, Harouna Touré e Idriss

Abelrahman, fondamentalisti originari del Mali accusati di finanziare AQMI attraverso il canale

della droga. Presumibilmente connessi ai cartelli del narcotraffico sudamericano, garantivano il

trasporto della cocaina destinata all’Europa al di là del deserto nordafricano. Un processo di

convergenza tra terrorismo e criminalità internazionale che ha dentro di sé i germi di una potenza

distruttiva, e che ha già manifestato la sua pericolosità in diversi scenari mondiali.

Una vera e propria sfida alla sicurezza insomma, con implicazioni sia locali che interregionali: non

a caso quando si parla del Sahel, lo si addita sempre più spesso come il “nuovo fronte” nella lotta al

terrorismo.

Già nel 2002 l’amministrazione Bush aveva lanciato la Pan Sahel Initiative, impulso alla

cooperazione militare intergovernativa con lo scopo precipuo di proteggere i confini e rafforzare la

stabilità regionale nel nord ovest africano, a cui ha fatto seguito la Trans-Saharian Counter

Terrorism Initiative, pianificata come una continuazione del precedente progetto.

177

Page 178: Storia dell'Africa

Che cos'è Al Qaeda nel Maghreb Islamico?

AQMI affonda le proprie radici nella guerra civile algerina, scoppiata nel 1991-1992 a seguito

dell'annullamento da parte dell'esercito algerino del secondo turno delle elezioni che avevano visto

il Fronte islamico di salvezza affermarsi e prepararsi al governo del Paese. I militanti islamisti,

organizzatisi in vari gruppi (di cui il Gruppo Islamico Armato-GIA era il più noto), lanciarono in

risposta al golpe militare una vera e propria insurrezione, affondando l'Algeria in una guerra civile

costata più di 150.000 vittime e terminata, gradualmente, solo pochi anni fa. Nel 1996 una fazione

del Gia guidata da Hassan Hattab, in dissenso con le tattiche del gruppo che vedevano un numero

altissimo di civili massacrati, decise di abbandonare l'organizzazione per fondare il Gruppo Salafita

per la Predicazione e il Combattimento (GSPC). Il GSPC si riproponeva di attaccare i militari e lo

stato algerino, senza prendere di mira la popolazione civile bensì cercandone il consenso e il

sostegno; tuttavia, ben presto il GSPC tornò sui propri passi, ricominciando a colpire anche civili.

In questo periodo, la guerra civile algerina cominciò la sua lenta diminuzione d'intensità, finendo

con la progressiva marginalizzazione del GSPC nell'Est del Paese, da dove il gruppo si limitava

ormai a lanciare le proprie imboscate contro l'esercito, mentre nel Sud un gruppo guidato da

Abderrazak El-Para trovava sostentamento tramite il contrabbando e il rapimento di turisti stranieri.

Il GSPC, ormai incapace di alimentare un conflitto a più alta intensità, ripiegò così in una nicchia

strategica dove le forze armate algerine erano incapaci di porre fine una volta per tutte

all'insurrezione islamista. In questo contesto di stallo strategico da entrambe le parti, nel 2006 il

GSPC ha ottenuto da Ayman al-Zawahiri la “benedizione” che ha permesso al gruppo di fregiarsi

degli obiettivi strategici e del nome di Al-Qaeda. Nasce così AQMI, che già fra la fine del 2006 e la

prima metà del 2007 si lancia in alcuni fra gli attentati più violenti degli ultimi anni: dapprima, nel

dicembre del 2006, vengono attaccati due autobus carichi di lavoratori e ingegneri stranieri all'opera

nel Paese; ad aprile 2007 due autobombe esplodono nel cuore di Algeri, vicino ad edifici

governativi. In modo simile, a dicembre dello stesso anno 17 lavoratori delle Nazioni Unite

vengono uccisi. Nel frattempo, il numero di imboscate aumenta, mentre attentati e rapimenti di

occidentali vengono registrati in Mauritania, Tunisia, Mali e Niger.

Propaganda e realtà

La ridefinizione del gruppo come succursale locale di Al-Qaeda ha chiaramente allertato numerosi

osservatori e governi occidentali, suscitando il timore che il Nord Africa e, in particolare, le aree di

difficile pattugliamento e sorveglianza del Sahel e del Sahara possano diventare una nuova base di

espansione del terrorismo islamista . In quest'ottica, dopo l'11 settembre 2001 gli Stati Uniti hanno

adottato due iniziative di cooperazione militare con i governi locali: la Pan-Sahel Initiative, lanciata

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Page 179: Storia dell'Africa

subito dopo l'11 settembre 2001 e che coinvolgeva i governi di Mali, Mauritania, Niger e Ciad;

successivamente, la Trans-Sahara Counter-Terrorism Initiative, ha sostituito il programma

precedente con un budget più ampio e con la partecipazione di ben 10 stati dell'area. Che

Washington abbia finanziato due programmi di cooperazione anti-terrorismo non è sorprendente,

visto che tutti i Paesi dell'area hanno in vari modi “sfruttato” la minaccia di Al-Qaeda per ottenere

sostegno militare e finanziario proprio dagli Usa. Molti analisti e rappresentanti governativi hanno

avuto gioco facile ad enfatizzare il collegamento con Osama Bin Laden negli Stati Uniti, dove la

sensibilità per il tema è per ovvi motivi molto alta. Tuttavia, è importante notare come l'affiliazione

dell'ex GSPC ad Al-Qaeda non abbia mai comportato altro che un'associazione nominale ed

ideologica fra le due organizzazioni. Non è mai stato provato alcun legame operativo o finanziario,

nonostante una parte della stampa abbia ipotizzato una relazione di questo tipo. AQMI ha adottato

un “brand” di successo, tentando così di rilanciare le proprie sorti, attirare nuovi adepti, ampliare il

proprio raggio d'azione ed innovare le proprie tattiche. Non è un caso che dal 2006 AQMI sia di

nuovo tornato sulle prime pagine dei giornali, minacciando i governi di tutta la regione e adottando

intensivamente la tattica degli attentati suicidi, precedentemente poco usata dal GSPC. La

regionalizzazione della minaccia terroristica è pertanto diventata una minaccia per la stabilità del

Nord Africa; tuttavia, ad un attento scrutinio anche questo rischio appare ampiamente

sopravvalutato. AQMI continua ancor oggi ad essere un'organizzazione principalmente algerina sia

nell'organico che nella propria tattica. Il numero di attentati registrati della regione è, infatti,

nettamente più basso di quelli avvenuti in Algeria; inoltre, a parte la Mauritania e di recente il Mali,

gli altri stati dell'area sono stati toccati solo marginalmente dalle attività terroristiche di questo

gruppo. Le stesse fila di AQMI sono ancora prevalentemente rinforzate da algerini, in un'ennesima

indicazione che il processo di internazionalizzazione dell'organizzazione è probabilmente ancora

lontano dall'essere completo. AQMI è ancora ampiamente incentrato sulle strutture dell'ex GSPC.

La natura profondamente “algerina” del gruppo fa sì che i rischi per l'Europa siano inevitabilmente

limitati, almeno al momento.

Si è parlato spesso di rischi per gli investitori stranieri nell'area, a seguito di una serie di comunicati

rilasciati da AQMI, in cui si annunciava l'allargamento degli obiettivi alla presenza occidentale in

Nord Africa. Eppure, a distanza di anni i danni causati alle imprese straniere nella regione sono

rimasti contenuti a pochi episodi; mentre le compagnie petrolifere e l'infrastruttura per l'estrazione e

il trasporto degli idrocarburi in Algeria è ancora immune da attacchi.

Allo stesso modo, la paura che AQMI potesse estendere le proprie operazioni in Europa, sfruttando

le reti di maghrebini emigrati in Francia, Germania e Italia non solo per ottenere del sostegno

finanziario, ma anche per compiere degli attentati nel cuore del Vecchio Continente, è rimasta finora

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Page 180: Storia dell'Africa

sulla carta: sebbene i servizi di sicurezza europei siano stati efficienti nello smantellare varie cellule

legate ad AQMI, non c'è stata traccia finora di piani mirati a colpire l'Europa.

Rischi reali e minacce immaginarie

Sottovalutare la minaccia terroristica in Nord Africa sarebbe profondamente sbagliato: finché

esisteranno diversi fattori oggettivi capaci di alimentare un diffuso senso di insoddisfazione e

delegittimazione delle istituzioni politiche esistenti nell'area, il rischio posto dal terrorismo islamista

come unica alternativa allo status quo rimarrà concreto. AQMI è un'organizzazione terroristica che

ha già dimostrato negli anni di poter concepire e realizzare attentati di fattura relativamente

complessa, colpendo fin nel cuore di Algeri; pertanto, non è possibile sminuire la minaccia posta da

questo gruppo, né è possibile escludere a priori un allargamento delle attività al resto della regione o

anche in Europa in futuro. Tuttavia, è importante anche saper distinguere la propaganda dalla realtà.

AQMI è pur sempre un'organizzazione che conta poche centinaia di militanti, divisi in vari comandi

sub-regionali; la decisione di affiliarsi ad Al-Qaeda va interpretata come un tentativo di uscire da un

angolo strategico in cui era stata costretta dalla graduale diminuzione d'intensità della guerra civile

algerina. Autori come Jeremy Keenan, un antropologo britannico che ha vissuto per anni nella

regione, sostengono persino che AQMI sia una creatura dell'elite militare algerina che da anni

controlla la scena politica nazionale da dietro le quinte, interessata a manipolare la minaccia

terroristica locale per riconquistare credibilità internazionale dopo la guerra civile, attirare

l'attenzione degli Stati Uniti, tenere il Paese in una condizione di perenne mobilitazione e trarre i

benefici di questa situazione. Benché manchino riscontri fattuali incontestabili per sostenere tale

tesi, è interessante notare come i governi locali abbiano spesso enfatizzato i rischi per la sicurezza,

così da ottenere una serie di vantaggi finanziari e militari nello scenario globale post-2001. In

questo contesto, si è detto che AQMI fosse finanziato da Bin Laden, che fosse diventata

un'organizzazione regionale capace di destabilizzare l'area e pronta a colpire in Europa; questi

rischi, benché reali, sono stati amplificati e, pertanto, meritano di essere ridimensionati quando si

guarda alla stabilità politica di questa regione.

b) BOKO HARAM

Seppur emerso nel 2002 il gruppo conosciuto anche come Jama’atul Ahl-Sunnati Lil Dawa’ati wal

Jihad ed identificato con il nome di Talebani Nigeriani, solo recentemente è stato percepito come

un vero pericolo nazionale, nei cui confronti è necessario predisporre una strategia mirata di lungo

periodo.

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Page 181: Storia dell'Africa

La setta, che crede negli insegnamenti del Corano e nella Sunna (detti e insegnamenti del Profeta

Maometto) e rifiuta l’educazione nonché i valori occidentali, ha come obiettivo l’imposizione di

una islamizzazione forzosa della Nigeria.

Pur avendo perso il leader fondatore, Ustaz Mohammed Yusuf , nel luglio 2009 e pur non avendo

una strutturazione precisa, il movimento ha intensificato recentemente le operazioni contro obiettivi

sia civili che militari ed ha ampliato il suo raggio d’azione espandendo progressivamente il proprio

teatro di azione da nord-est verso ovest e sud.

Il fenomeno Boko Haram, al di là delle questioni dottrinali islamiche e del radicalismo religioso,

può essere compreso pienamente soltanto se collocato all’interno di un contesto nel quale le lotte di

potere intestine al mondo musulmano nigeriano, lo scontro tra cristiani e musulmani e la frattura tra

nord e sud della Nigeria, l’azione e le caratteristiche del jihahdismo internazionale nel Sahel si

intersecano e sovrappongono a vicenda.

Boko Haram si è sviluppato negli Stati di Borno e Yobe, territori abitati dall’etnia musulmana

Kamuri, un popolo che riconosce come potere legittimo lo “Sheshu” (Emirato) di Borno, istituzione

la cui importanza è seconda soltanto al Sultanato di Sokoto, massima autorità spirituale per i 70

milioni di musulmani nigeriani. Sia il Sultanato che lo Sheshu non sono autorità politico

amministrative giuridicamente previste dallo Stato Federale Nigeriano, bensì strutture religiose

residuali del tempo della penetrazione islamica in Africa occidentale. Pur non avendo poteri

effettivi, entrambe le istituzioni esercitano una forte influenza culturale, e sociale, in un’area

dominata dall’Islam e dove vige la sharia.

Il Sultanato di Sokoto è controllato dall’etnia Hausa-Fulani, gruppo maggioritario nel nord del

paese. Attualmente lo Sheshu è governato della dinastia el-Kameni, mentre il Sultanato di Sokoto è

guidato da Muhammadou Saad Abubakar, della dinastia dei dan Fodio di etnia Fusani. Entrambe le

dinastie al potere, come spesso accade in Africa, sono espressione di determinati clan che

gestiscono poteri, risorse e privilegi a discapito di altri clan a cui questa prerogativa viene impedita

od assai limitata.

Boko Haram ha trovato grande seguito proprio tra i clan Kamuri esclusi dalla gestione del potere,

espandendo la propria influenza anche verso i clan Fulani. Le uccisioni del fratello dello Sheshu di

Borno il 1° giugno del 2011 e del religioso wahabita Ibrahim Birkuti una settimana più tardi,

testimoniano l’atteggiamento della setta verso sia l’Islam istituzionale sia i critici indipendenti.

Entrambi gli omicidi sono stati commessi da un commando in motocicletta.

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Page 182: Storia dell'Africa

L’obbiettivo finale di Boko Haram appare, quindi, soppiantare lo Sheshu di Borno come autorità

religiosa e politica dell’area e porsi come interlocutore islamico concorrente al Sultanato di Sokoto

e creare una leadership alternativa per i musulmani nigeriani.

La Nigeria, nonostante la divisione amministrativa che ha garantito l’effettività della Sharia nel

settentrione del paese, continua a soffrire di una profonda spaccatura economica e sociale tra il sud,

cattolico ed arricchito dagli ingenti introiti petroliferi e gasiferi, ed il nord, musulmano e

poverissimo. In questo contesto il contrasto tra musulmani e cattolici si aggrava a causa della lotta

sociale per la redistribuzione delle ricchezze. Gli episodi più cruenti avvengono negli Stati centrali

della federazione, aree di contatto e convivenza difficile tra le due confessioni e le molteplici etnie.

In quelle aree si vengono a scontrare i pastori musulmani in transumanza verso sud ed i contadini

cattolici che temono per lo stato delle propri raccolti, dando vita a lotte per i diritti di proprietà sulla

terra. Nel 2010 nella sola città di Jos, nel Plateau, ci sono state diverse settimane di scontri tra

cattolici e musulmani per un totale di 470 morti. A Natale una bomba esplosa durante le

celebrazioni della Natività causò 80 vittime. Il 7 maggio del 2011, in contemporanea con l’attacco a

Maiduguri, c’è stata un’esplosione ed uno scontro a fuoco presso il villaggio cristiano di Tafawa-

Balewa nello Stato di Bauchi. Boko Haram ha rivendicato tutti gli attentati ed è stata in prima linea

in tutti gli scontri a fuoco cavalcando così l’onda dello scontento popolare islamico verso i presunti

oppressori cattolici. L’elezione del Presidente cattolico Jonathan, avvenuta soprattutto grazie ai voti

del sud del paese, ha alimentato ulteriormente la retorica aggressiva della setta di Maiduguri, pronta

a far esplodere altri ordigni il giorno dell’insediamento presidenziale e soprattutto il giorno della

celebrazione dei 50 anni di indipendenza nazionale durante la parata d’onore nella capitale Abuja.

L’instabilità nigeriana e l’incremento delle attività di Boko Haram potrebbero rappresentare

un vasto mercato di opportunità per Al-Qaeda nel Maghreb Islamico?

Il braccio saheliano di al-Qaeda ha consolidato la propria strategia di sostegno e supporto logistico

a tutte le guerriglie insurrezionali anti-governative del Mali, della Mauritania, del Ciad e del Niger

spesso rappresentate da gruppi etnici minoritari o da minoranze discriminate come i Tuareg. In

questo senso AQMI assume i tratti di una sorta di “Internazionale della Guerriglia” priva di una

guida religiosa uniforme e di una gerarchia rigida. La questione religiosa si manifesta, dunque,

come la più classica delle coperture ideologiche. Pur mantenendo frequenti contatti con

l’estremismo arabico-mediorientale, AQMI si distingue per i metodi di finanziamento prossimi al

sistema criminale, quali la “zakat” (tassazione prevista dal diritto islamico per scopi caritatevoli o

connessi al sostegno di una causa ritenuta giusta) sui traffici di diamanti, armi ed esseri umani ed i

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Page 183: Storia dell'Africa

riscatti per prigionieri spesso stranieri. Per quanto riguarda Boko Haram, le convergenze con AQMI

sono molteplici. Innanzitutto il leader fondatore della setta di Maiduguri, Muhammad Yussuf, era un

nigeriano Kumuri addestrato in Yemen e che aveva militato nei gruppi del Sahel. Inoltre i clan

Kumuri che sostengono Boko Haram sono presenti anche in Niger ed in Ciad, lungo i porosi confini

dell’Africa occidentale e presso la regione dell’omonimo lago. Questi clan sono ampiamente

coinvolti nelle guerriglie dei rispettivi Stati di appartenenza e soprattutto potrebbero facilitare i

contatti tra Boko Haram ed AQMI. Un simile avvicinamento può essere testimoniato da i primi

segni di cambiamento di tattica operativa da parte della setta di Maiduguri: l’attentato suicida è un

“marchio di fabbrica” del jihahdismo internazionale, così come i rapimenti. Infatti il 13 maggio

2011 due impiegati industriali europei sono stati rapiti nella città di Birnin Kebbi, nello Stato del

Kebbi, da un commando in motocicletta appartenente a Boko Haram. Si trattava di due operai che

lavoravano ad Abuja, in un’area geografica mai colpita e fuori dai target dei guerriglieri del Mend

(Movement for Emancipation of Niger Delta).

I vantaggi di un’eventuale espansione alla Nigeria dell’influenza di AQMI sono legati alla ricchezza

dell’economia locale, ed alle opportunità offerte dal mercato nero di Abuja, il più grande crocevia di

traffici illegali della regione, al bacino di 70 milioni di musulmani che abitano il nord del paese ed

alla possibilità di destabilizzare lo Stato fulcro dell’Ecowas e del sistema di sicurezza e

cooperazione economica dell’Africa occidentale.

Se le rivoluzioni del mondo arabo ed i lenti tentativi di equilibrare il Maghreb dopo la caduta dei

faraoni e l’attuale Guerra Civile Libica sembravano aver ridimensionato il ruolo del

fondamentalismo islamico nel mondo africano, la duttilità operativa dell’AQMI e l’ingresso in teatri

di conflitti interetnici come quelli sub-sahariani e saheliani dimostrano, al contrario, come la

minaccia qaedista sia integra ed operante. La pacificazione del Maghreb passa necessariamente dal

controllo e dall’opposizione a quanto potrebbe svilupparsi in Nigeria, sia perché eventuali

movimenti di resistenza ai nuovi regimi africani mediterranei potrebbero usufruire di una vasta e

difficilmente monitorabile retrovia, sia perché una escalation del conflitto in uno dei maggiori paesi

produttori di petrolio al mondo causerebbe contraccolpi economici che costringerebbero la

comunità internazionale ad ulteriori consultazioni ed interventi.

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Page 184: Storia dell'Africa

C) LA FRAGILITA’ DELLA SOMALIA E LA NASCITA DI UN TERRENO

FERTILE PER LO SVILUPPO DI MATRICI TERRORISTICHE.

Recentemente l’illustre africanista Calchi Novati ha voluto in un breve ma significativo intervento

evidenziare alcune cause alla base della grave fragilità somala che consentono di meglio

comprendere non solo l’evoluzione storica , ma anche , se non soprattutto, la crescita e lo sviluppo

del fenomeno delle Corti Islamiche e del movimento militante e multiclanico noto come al-

Shabaab. All’origine della fragilità dello stato somalo, egli afferma, c’è il mancato trapianto degli

istituti dello Stato di tipo europeo-occidentale. La dedizione un po’ approssimata dell’Italia negli

anni dell’amministrazione fiduciaria (Afis) non ha rimediato a carenze che derivano dalla geografia,

dalla cultura e dalla storia. Ioan M. Lewis, lo studioso più accreditato di Somalia ha rivalutato

quell’impasto di omogeneità, consultazione e anarchia con la nozione di “democrazia pastorale”. Lo

stesso Lewis aveva scrutato soprattutto la realtà del nord, il territorio e il popolo dell’ex-Somaliland

britannico, ma certe strutture sono valide anche per il sud, l’ex-Somalia italiana. Le due Somalie,

del resto, si sono unificate al momento dell’indipendenza nel 1960. Il sistema parlamentare

trasmesso attraverso l’Afis (Amministrazione fiduciaria) ha retto per meno di un decennio. Sia

durante il semi-monopolio della Lega dei giovani somali che, dal 1969 in poi, durante il regime

militar-rivoluzionario di Siyad Barre il “potere” si è sempre dovuto misurare con la frammentazione

clanica senza contraddire, ma anzi presupponendolo come improbabile panacea, il mito del

pansomalismo. Con il progressivo deperimento del programma d’urto per cambiare dal profondo la

società, Siyad Barre non esitò a mettere l’amministrazione, l’esercito e quel poco di economia

formalizzata al servizio del clan suo e dei suoi, straripando ovunque con abusi e prelievi. Proprio

quello che l’ordinamento somalo non è disposto ad accettare. Lo Stato può assolvere funzioni di

regia e rappresentanza ma deve rispettare le prerogative dei clan nei loro ambiti rispettivi. La guerra

contro il regime negli anni ’80 fu combattuta da milizie su base clanica e alla sconfitta finale di

Siyad nel 1991 seguì senza soluzione di continuità una specie di guerra civile di tutti contro tutti. Lo

Stato aveva perduto il suo prestigio. Il tessuto della società era uscito sconvolto dalla guerra per lo

spostamento di popolazioni dalla boscaglia alla città e da un territorio all’altro mescolando e

confondendo sistemi di governo, modelli d’economia e codici valoriali. Il vecchio mosaico non si è

più ricomposto. Il potere era in mano ai detentori delle armi (i warlords) esautorando di fatto gli

anziani (gli elders). Un esempio quasi di scuola di “Stato fallito”. Solo nel nord, più compatto

culturalmente e con una più chiara predisposizione al commercio esterno per la vicinanza della

penisola arabica, c’è stata un’aggregazione di appartenenza e interesse in grado di promuovere un

governo relativamente stabile, che a livello regionale gode del patrocinio discreto dell’Etiopia senza

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Page 185: Storia dell'Africa

avere uno status ufficiale sul piano internazionale. Per la parte di Somalia che fa riferimento a

Mogadiscio sono stati creati per vie diplomatico-negoziali 14 o 15 governi che non sono mai riusciti

a controllare nulla.

L’ultimo, denominato Transitional Federal Government (Tfg), per indicare la sua provvisorietà e il

tentativo di razionalizzare in qualche modo l’autonomia dei clan, dopo un lungo stand-by all’ombra

dell’Etiopia è stato letteralmente trasportato nella capitale sui tanks di Addis Abeba alla fine del

2006. Nelle pieghe delle giurisdizioni a macchia di leopardo dei “signori della guerra” il solo fattore

di unitarietà è apparso, in un paese in pieno revivalismo religioso, il movimento conosciuto come

l’Unione delle Corti islamiche (UIC). Prima di formare una propria milizia e di conquistare la

capitale a metà del 2006, le Corti hanno agito per un decennio come un’autorità locale di basso

profilo impartendo la giustizia e provvedendo ai bisogni primari della popolazione. La concezione

dell’islam che prevale in Somalia rifugge (o rifuggiva) dall’integralismo; in compenso l’islam offre

una base “nazionale” al posto del settarismo clanico. L’avanzata del fondamentalismo per il tramite

dell’UIC si presentò al governo etiopico come l’occasione attesa per passare alla controffensiva. Il

presidente etiopico Meles Zenawi aveva qualche buon motivo per temere i rischi di quella presenza

ai confini dell’Etiopia (non solo per le sorti dell’Ogaden) e nel contempo voleva rendersi utile alla

war on terror di Bush nel teatro del Corno. Un governo sostenuto dal “nemico storico” della

Somalia divenne il bersaglio ideale per una resistenza generalizzata. Neppure la protezione dei

militari etiopici ha dato un minimo di consistenza al Tfg: il presidente Ahmed Abdullahi Yusuf,

alleato di Meles, si è dimesso e dal 2008 le forze armate etiopiche si sono ritirate. Il nuovo

presidente somalo è Sheikh Sharif Ahmed, alto esponente dell’UIC consegnatosi nel gennaio 2007

alle autorità del Kenya e affermatosi col tempo come il leader riconosciuto degli islamisti

“moderati”. I “duri” delle Corti continuarono a opporsi al dialogo puntando a una soluzione militare

secondo un’agenda di belligeranza e destabilizzazione a vasto raggio. Il perno del jiahdismo è

costituito dal movimento militante e multiclanico noto come al-Shabaab, a cui si attribuiscono

omicidi, rapimenti e attentati contro professionisti somali, operatori umanitari e religiosi cristiani in

un contesto che divulga la “cultura del martirio”. Sheikh ha perso ogni influenza sulle formazioni

che spadroneggiano in pressoché tutte le regioni centro-meridionali. Il potere del presidente non è

sicuro nemmeno a Mogadiscio. Il governo del Puntland si comporta come un’entità a sé e mantiene

collegamenti ambigui con la pirateria al largo delle sue coste. Gli estremisti sono appoggiati

dall’Eritrea che sfoga così il suo risentimento contro l’Etiopia per la mancata applicazione degli

impegni assunti dopo la guerra del 1998-2000. Con i parametri dello Stato convenzionale, la

Somalia non esiste più. La benevolenza con cui la popolazione aveva accettato l’attività delle Corti

islamiche –rule of law e welfare – è un lontano ricordo perché tutto è degenerato nella violenza. La

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Page 186: Storia dell'Africa

mancanza di un’autorità è una “colpa” se non previene le infiltrazioni delle reti terroristiche e i

traffici illeciti. Sia la politica d’attacco dell’Etiopia che i raids punitivi delle forze americane di

stanza a Gibuti non hanno risolto la crisi e forse l’hanno istigata per gli ovvi contraccolpi di queste

interferenze. La catena delle responsabilità è lunga e si riproduce nella reciproca incomprensione.

L’Unione africana ha distaccato una forza sul terreno composta in prevalenza da soldati ugandesi

più un reparto del Burundi mentre gli altri Stati che avevano offerto truppe non hanno mantenuto la

parola. Le Ong occidental hanno praticamente lasciato il territorio somalo per ragioni di sicurezza e

anche le agenzie dell’Onu sono sempre sul punto di gettare la spugna.

La crisi somala contaminerà l’intero Corno d’Africa?

Secondo la autorevole opinione di Padre Giulio Albanese, grande conoscitore delle vicende

africane, la recente cronaca del Corno d’Africa stava facendo emergere nuovi indicatori

estremamente preoccupanti. La dice lunga, egli afferma, la scesa in campo degli americani che

avrebbero deciso di utilizzare nel territorio somalo alcuni droni che avrebbero recentemente ucciso

almeno 25 civili e ferito altre decine di persone nel settore meridionale dell’ex colonia italiana. Ma

anche i francesi non starebbero alla finestra avendo deciso di fornire supporto logistico

all’operazione militare keniana in territorio somalo. È questo in effetti il dato “politico-militare” più

rilevante. Una strategia, quella messa a punto dal governo di Nairobi, che vorrebbe spazzare via gli

al-Shabaab, responsabili di morte e distruzione in Somalia. E se da una parte l’operazione militare

keniana pare studiata a tavolino, si acuisce il rischio di un’ulteriore escalation di rappresaglie da

parte degli estremisti islamici. L’iniziativa di Nairobi ha comunque irritato anche il governo

federale di transizione del presidente somalo Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, il quale ha ribadito la

sua opposizione alla presenza di truppe keniane sul proprio suolo. Lo stesso concetto è stato

espresso a chiare lettere dal primo ministro Ali Mohamed Abdiweli, il quale ha ricordato che gli

accordi pregressi con il vicino erano di ben altro tenore. Secondo il premier di Mogadiscio, le forze

armate di Nairobi avrebbero dovuto fornire, solo un’assistenza tecnico logistica per l’addestramento

dell’esercito, mentre ora i militari keniani sarebbero diventati una vera forza occupante. Tuttavia,

quando, il 16 ottobre 2011, le truppe keniane hanno cominciato a varcare il confine con la Somalia,

era chiaro alla maggioranza degli osservatori che non si sarebbe trattato di un semplice diversivo. Si

trattava piuttosto di una chiara risposta a recenti sequestri e uccisioni perpetrati dagli al-Shabaab sul

territorio keniano, con l’obiettivo, inoltre, di garantire l’incolumità dei profughi somali che in questi

mesi si sono insediati sul territorio keniano, in seguito di una carestia senza precedenti. A questo

punto viene spontaneo chiedersi se questa ennesima iniziativa militare, che pare coinvolgere sempre

più nazioni straniere, possa davvero servire al bene della regione, considerando l’ostracismo del

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Page 187: Storia dell'Africa

governo federale di transizione somalo. E cosa dire del fatto che in questi anni tutti gli eserciti

stranieri che hanno usato la mano forte contro le forze ribelli (gli ultimi sonno stati i militari di

Addis Abeba) hanno fallito? Da rilevare, inoltre, che nell’arco degli ultimi quindici giorni gli

estremisti somali hanno intensificato le loro azioni contro il Kenya, come peraltro già avvenuto in

passato con l’Uganda. Basti pensare al raid contro un bus nel Nordest, che ha causato, il 27 ottobre

2011, la morte di tutte le persone a bordo del mezzo. Si è trattato del terzo attentato sul territorio

keniano in meno di una settimana, dopo quelli compiuti a Nairobi con quattro morti. Sebbene gli al-

Shabaab non godano di ampio sostegno della popolazione somala, riescono di fatto a fare il bello e

cattivo tempo, approfittando delle divisioni interne al Paese. In effetti, la Somalia appare sempre più

parcellizzata in piccoli feudi sotto il controllo dei clan tradizionali e di un manipolo di agguerriti

“signori della guerra”, molte volte in lite tra loro. Intanto il governo di Nairobi ha già annunciato

che il prossimo passo sarà marciare verso Chisimaio. Una cosa è certa, la confusione regna sovrana,

non solo per la spregiudicatezza degli al Shabaab, ma anche per la curiosa strategia del presidente

Sheikh Sharif Sheikh Ahmed che, alla prova dei fatti, pare voglia mantenere lo “status quo”. Basti

pensare che in questi giorni avrebbe chiesto allo stato maggiore dei peeacekeeper dell’Unione

Africana di non attaccare alcuni quartieri di Mogadiscio in cui sono asserragliati gli estremisti

islamici. Qualcuno comincia addirittura a pensare che stia facendo il doppio gioco per i suoi

trascorsi nelle Corti islamiche. La “ciliegina sulla torta”, si fa per dire, l’hanno messa gli eritrei che,

secondo fonti non confermate, avrebbero fornito armi e munizioni agli al-Shabaab.

In tale contesto Padre Giulio Albanese sposa le tesi dell’ex inviato speciale italiano in Somalia

Mario Raffaelli secondo cui un intervento armato in questo momento potrebbe ottenere l’effetto

opposto, ovvero quello di rinsaldare il consenso della popolazione attorno agli Shabaab, che invece

era notevolmente diminuita negli ultimi tempi. E dire che una ricetta per uscire dalla crisi era stata

suggerita, in più circostanze, proprio da Raffaelli secondo cui la Comunità internazionale doveva

farsi interprete di un’iniziativa negoziale in cui la discriminazione nelle trattative non doveva essere

fra islamici “radicali” e “moderati”, ma tra chi rivendica un’agenda somala e chi persegue, invece,

altri interessi, poco importa se di matrice mediorientale o addirittura legati ad Al Qaeda,

interferendo nelle vicende somale. Solo in questo modo si sarebbero potute smascherare le

contraddizioni interne agli al Shabaab che costituiscono un’esigua minoranza rispetto ai milioni di

somali costretti a patire le loro angherie. Purtroppo ora le cose sembrano complicarsi ulteriormente

e la sensazione è d’essere giunti ad un vicolo cieco.

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Page 188: Storia dell'Africa

D) LORD’S RESISTANCE ARMY – CENNI

Una strage ignorata dal mondo e dai media, causata dal gruppo militare ugandese Lord’s Resistance

Army “Oggi pubblichiamo una non-notizia”. Così nel febbraio 2009 l'agenzia Fides riferiva il

bilancio dei massacri compiuti nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo da Natale al

febbraio 2009: oltre 900 morti. I massacri sono compiuti dall'armata dell'Esercito di Resistenza del

Signore (LRA) un gruppo ugandese cresciuto rapendo bambini e facendoli diventare soldati, guidati

dal fanatico Joseph Kony, di cui la Corte penale internazionale ha chiesto l'arresto per crimini

contro l'umanità. Da tempo l'LRA agisce non solo nel nord Uganda (dove si è costituito alla fine del

1986), ma anche in Congo, Sud Sudan e persino nella Repubblica Centrafricana. Una strage

ignorata anche dai media, quella perpetrata dall'LRA nell'Est del Congo. “Il mondo non se n'è

accorto” denuncia l'agenzia Fides “nonostante i puntuali rapporti pubblicati dalla stampa

missionaria”. Recentemente, ottobre 2011, Andrea Onori ha scritto che le brutalità e le violenze

contro i civili congolesi da parte dei Lord’s Resistance Army(LRA ) sembrano non avere mai fine.

Da anni, come detto, le agenzie internazionali per i diritti umani lanciano messaggi e richieste di

aiuto per frenare il noto gruppo ribelle ugandese che opera nella Repubblica democratica del Congo

(RDC), Sud del Sudan e Repubblica Centrafricana (CAR). Dalla loro nascita sfornano rifugiati e

morte. Ogni anno, con i frequenti attacchi diretti alle popolazioni, l’LRA costringe migliaia di

congolesi ad abbandonare le proprie abitazioni. Negli ultimi tempi, sono continuamente presi di

mira i villaggi del distretto di Dungu nel territorio di Haut-Uele ed altri territori e villaggi

circostanti. Dal settembre del 2007 la LRA ha ucciso quasi 3mila persone, rapito 755 bambini e

1.427 adulti. L’ Esercito di Resistenza del Signore (o Lord’s Resistance Army), costituito nel 1986, è

un gruppo ribelle di guerriglia di matrice cristiana. Il gruppo è guidato da Joseph Kony, che si

proclama il “portavoce” di Dio e medium dello Spirito Santo. Il gruppo afferma di voler istituire

uno Stato teocratico sulla base dei Dieci Comandamenti e della tradizione. L’LRA ed i suoi dirigenti

sono stati accusati dal Tribunale Penale Internazionale di aver attuato numerose violazioni dei diritti

umani, compresi omicidi, rapimenti, mutilazioni, riduzione in schiavitù sessuale di donne e

bambini, e il costringere i bambini a partecipare alle ostilità. Dall’agosto 2009, sono aumentate le

incursioni costringendo i profughi, già rifugiati in un territorio “potenzialmente sicuro”, di scappare

in continuazione. La popolazione si sposta per non ricevere attacchi diretti e improvvisi dell’LRA,

ostacolando la fornitura di aiuti tanto necessari per tutta la popolazione. In tale contesto, nell’ottobre

2011, la Francia, ha dichiarato che unitamente a, Unione Africana (UA) e Nazioni Unite stavano

riflettendo su come migliorare la lotta contro LRA. Fin dal dicembre 2010 anche gli Usa hanno

modificato la propria strategia. In particolare il Presidente Barack Obama, ha recentemente

annunciato di voler aiutare le truppe ugandesi contro i ribelli dell’Esercito di Resistenza del Signore

188

Page 189: Storia dell'Africa

E) IL TRIBUNALE DELL’AJA METTE IN LUCE L’INQUIETANTE FENOMENO DEI

MUNGIKI. UNA GANG TERRORISTICO CRIMINALE KENIOTA

Il 27 novembre 2011 Christopher Goffard, giornalista statunitense lancia sui media americani

l’allarme rappresentato dai Mungiki. Il nome significa “moltitudine” e potrebbe essere definito tra i

sodalizi più pericolosi al mondo. Un esercito -afferma sempre Goffard- in grado di terrorizzare il

Kenya. L’organizzazione è avvolta nel mito e nella speculazione e si stima che sia costituita da

almeno 100.000 persone.

In particolare, i Mungiki possono essere definiti come una setta politico-religiosa, segreta, con

spiccate propensioni al crimine anche efferato. Essi appartengono altresì ai kikuyu, principale

gruppo etnico keniota. Il sodalizio appare per la prima volta sulla scena politico-sociale all’inizio

degli anni ’80 proponendosi come portatore di un ritorno alle tradizioni anche ancestrali

(“Stripping women wearing miniskirts and trousers in public- Forcibly imposing female

circumcision -Raiding police stations to free their own members who were under police custody”).

I Mungiki, inoltre, appaiono disdegnare ogni forma di occidentalizzazione e tutti gli effetti del

colonialismo, nonché sembrano promuovere una ideologia caratterizzata da una retorica

rivoluzionaria.

Nei primi anni ’80 i Mungiki si propongono come milizia tesa a difendere i contadini kikuyo contro

i Masai e le forze governative, cercando di riproporre le “gesta” dei combattenti Mau Mau,

anch’essi di etnia kikuyo, che lottarono strenuamente negli anni ’50 contro le forze dell’Impero

coloniale britannico.

La rivolta dei Mau Mau – il Presidente Jomo Kenyatta con un leader dei “ribelli”

Negli anni ’90, dalle zone rurali, i Mungiki migrano nella capitale Nairobi , acquisendo in breve

tempo il controllo dei matatu (taxi privati) . Tale situazione determina la possibilità per la setta di

realizzare una organizzazione costituita da cellule composte ciascuna da 50 membri divisi in cinque

nuclei. L’organizzazione, grazie alla realizzata solida base economica, decide di ampliare il proprio

189

Page 190: Storia dell'Africa

raggio d’azione dedicandosi ai seguenti settori: smaltimento dei rifiuti;edilizia;racket e violenze a

sfondo etnico.

190

Page 191: Storia dell'Africa

LEZIONE N .41-42“IL FENOMENO DELLA PIRATERIA NEL GOLFO DI GUINEA E AL LARGO DELLE COSTE SOMALE”

Il fenomeno della pirateria

La crescita del fenomeno della pirateria negli ultimi anni evidenzia la crisi degli Stati e

dell'emergere di forze non statuali in grado di condizionare gli equilibri geo-politici, insieme alle

rotte commerciali marittime.

Il 2008 è stato un anno da record per la pirateria: 293 navi attaccate, 49 sequestrate,

889 membri di equipaggio presi in ostaggio e 21 uccisi.

Dal 1991, anno in cui venne creato l’IMB, l’Ufficio Marittimo Internazionale

nell’ambito della Commercial Crime Services (CCS), divisione speciale della Camera

di Commercio Internazionale, mai si erano registrati tanti attacchi. La fine della

Guerra Fredda ha ridotto i pattugliamenti delle marine e questo ha contribuito a dare

impulso alla pirateria moderna in un contesto che vede aumentato anche il volume del

commercio internazionale e dei traffici marittimi in particolare.

La mappa della pirateria

L’aumento esponenziale dei casi di pirateria è dovuto principalmente alla situazione in

Somalia e nel Golfo di Aden, dove sono state sequestrate nel 2008 42 navi e 815

membri degli equipaggi. Nella classifica dei Paesi con le acque più pericolose al

mondo, dopo la Somalia c’è la Nigeria, con quaranta abbordaggi registrati, cinque

sequestri e 29 marinai presi in ostaggio. Al settimo posto si colloca invece lo Stretto

di Malacca, fino a tre anni orsono considerato il luogo più insidioso del pianeta.

Durante la presentazione del rapporto annuale , il direttore dell’International Maritime

Bureau Pottengal Mukundan ha sottolineato come la pirateria nel 2008 abbia fatto un

salto di qualità. In particolare:

� i pirati evidenziano un più elevato livello di preparazione e dispongono di

migliori armamenti;

� alcune frange della pirateria hanno attivato collegamenti con la criminalità

organizzata;

� gli attacchi sono sempre più audaci e ambiziosi.

Ne è un caso evidente il recente sequestro della superpetroliera ‘Sirius Star ’, battente

bandiera liberiana , ma di proprietà saudita , presa dai predoni somali il 15 novembre

scorso al largo del Kenya e rilasciata solo il 9 gennaio 2009 . Nelle stive della

191

Page 192: Storia dell'Africa

superpetroliera erano stipati due milioni di barili di greggio per un valore di almeno

100 milioni di dollari .

Dal Golfo di Aden al Capo di Buona Speranza

I premi assicurativi per le navi da carico che intendono passare attraverso il Golfo di Aden

sono aumentati di ben dieci volte nel corso degli ultimi anni. Alcune flotte mercantili hanno

recentemente modificato le rotte e, per evitare il Golfo di Aden, passano per il Sud Africa,

doppiando il Capo di Buona Speranza (anche se questo comporta almeno 4 – 5 giorni in più di

navigazione). Questa fuga dal Mar Rosso sta producendo serie ripercussioni sul Canale di Suez ,

già alla prese con la crisi economico finanziaria mondiale. Per far fronte alla situazione nel 2008 i

ministri di 27 nazioni europee hanno approvato dei piani per una missione navale nel Corno

d’Africa per reprimere duramente il fenomeno della pirateria, che sta danneggiando anche il

programma alimentare mondiale (Pam), allestito dalle Nazioni Unite per fornire di aiuti umanitari la

Somalia. La filibusta del nuovo millennio, in sintesi, agisce in maniera diversa dalle scorrerie di una

delinquenza spietata che assaliva le proprie vittime con azioni feroci. Oggi la pirateria insegue per

lo “più bottini miliardari, estorce interi carichi ai mercantili, sorprendendoli con motoscafi veloci,

muniti di radar”.

La pirateria nel Golfo di Aden

Il 12 ottobre 2008 sul quotidiano “The East African” di Nairobi , l’ analista ugandese Charles

Onyango Obbo, nell’esaminare le cause alla base della esplosione del fenomeno della pirateria nel

Golfo di Aden, affermava che “senza un’economia funzionante e con una quantità infinita di

192

Page 193: Storia dell'Africa

persone impossibilitate a trovare lavoro, la pirateria diventa l’unica fonte di sopravvivenza per

alcuni somali”;

“la soluzione alla pirateria in Somalia non s’incontra in alto mare. Essa sta all’interno del

paese. La presenza delle forze etiopi in Somalia ha fatto crescere il risentimento nazionalista,

sviluppando l’estremismo e la continuazione del conflitto. Se gli etiopi se ne andranno, il governo

di transizione collasserà e gli islamisti ritorneranno al potere. Essi sono l’unica forza in grado di

gestire il ritorno dell’ordine in Somalia e possono soffocare la pirateria. Per gli interessi dei paesi

dell’Africa orientale c’è una sola possibile soluzione: che i mullah ritornino a Mogadiscio”

Il fenomeno della pirateria ha assunto dimensioni preoccupanti anche perché attraverso il Golfo di

Aden e le altre aree lungo la costa somala passa il 14% del trasporto mondiale di merci ed il 30% di

quello di petrolio. La minaccia alla sicurezza della navigazione nel Golfo di Aden , sta rendendo,

come detto, estremamente difficoltoso anche l’intervento del PAM (Programma Alimentare

Mondiale - WFP) atteso che il novanta percento degli aiuti alimentari arriva in Somalia via mare e

la pirateria marittima scoraggia i proprietari delle navi ad intraprendere nuovi viaggi.

In tale quadro l’11 dicembre 2008, a Nairobi, si è svolta una conferenza internazionale dedicata al

fenomeno della pirateria nel Golfo di Aden organizzata dalle Nazioni Unite.

In merito: l’inviato speciale pro-tempore delle Nazioni Unite in Somalia, Ahmedou Ould Abdallah,

introducendo i lavori del vertice ha evidenziato che il problema della pirateria è legato fortemente

all’assenza di pace e stabilità in Somalia; il portavoce della sezione keniana dell’Associazione dei

marittimi dell’Africa orientale, Andrew Mwangura, ha affermato che “non solo la pirateria non

poteva essere risolta con una soluzione militare, ma anche che era necessario indagare le cause

sociali ed economiche di questo fenomeno atteso che i pirati non possono essere definiti come

criminali”.

Modus operandi dei pirati del Golfo di Aden

Dall’analisi dei dati pubblicamente disponibili, è possibile affermare che i pirati:

- utilizzano piccole imbarcazioni, dotate di potenti motori fuoribordo, estremamente

maneggevoli;

- si servono, sempre più frequentemente, di una ‘’nave madre’’, per lo più pescherecci, al fine

di ampliare il proprio raggio d’azione;

- impiegano apparati di comunicazione e rilevazione satellitari;

- esercitano una attenta e continua vigilanza nelle acque del Golfo di Aden mediante

l’impiego dei citati natanti veloci;

193

Page 194: Storia dell'Africa

- sfruttano, nelle azioni di attacco, il fattore sorpresa e sono addestrati nel compiere gli

‘’arrembaggi’’ in tempi estremamente contenuti;

- non esercitano particolari vessazioni nei confronti dei membri degli equipaggi sequestrati.

Origine dei pirati.

I pirati provengono, in larga massima, dalle regioni somale del Puntland .

In tale contesto,aveva suscitato molte polemiche la notizia che quattro dei sei presunti pirati

arrestati dalla Francia dopo il sequestro, in aprile2008, della nave da crociera di lusso, le Ponant -

finito con la liberazione degli ostaggi -, appartenessero al clan Majarteen: il clan che controlla il

Puntland e da cui proveniva il presidente pro-tempore somalo Abdullah Yusuf Ahmed.

194

Page 195: Storia dell'Africa

La pirateria nel Golfo di Guinea

Secondo il Piracy Report 2008 dell’International Maritime Bureau, le acque della Nigeria

sono state classificate le più pericolose dopo quelle somale. Nel periodo in esame,

sono stati infatti registrati quaranta abbordaggi, cinque sequestri e 29 membri di

equipaggio presi in ostaggio.

In merito:

le Nazioni Unite cercano di affrontare la grave minaccia attraverso un approccio

regionale evidenziando alla comunità internazionale la necessità di aiutare l’Africa

Occidentale a rendere quelle acque sicure e supportando, attraverso la divisione

sicurezza IMO, numerosi stati del West Africa;

gli Usa ed alcuni Paesi europei stanno fornendo direttamente assistenza tecnica

alle strutture di controllo marittimo di Ghana, Nigeria e Liberia non solo al fine di

garantire le rotte del trasporto di gas e petrolio ma anche allo scopo di arginare il

crescente traffico marittimo di stupefacenti provenienti dall’America Latina,

transitante nel West Africa e diretto ad alimentare il mercato europeo;

il fenomeno del Mend nigeriano certamente non appare estraneo al problema della pirateria

anche per ragioni di politica interna . La situazione nel Delta del Niger, teatro operativo dei

movimenti antagonisti nigeriani, sembra oggi sospesa, tra un governo federale non privo di

contraddizioni e una galassia di gruppi ribelli che stenta a trovare una autorevole leadership. 16

Modus operandi dei pirati del Golfo di Guinea

Dall’analisi dei dati pubblicamente disponibili, è possibile affermare che i pirati:

utilizzano piccole-medie imbarcazioni, dotate di potenti motori fuoribordo, estremamente

maneggevoli;

16 Nigeria's MEND: A Different Militant Movement March 19, 2009 www.stratfor.com

195

Page 196: Storia dell'Africa

si servono, sempre più frequentemente, di una ‘’nave madre’’, al fine di ampliare il proprio

raggio d’azione;

impiegano apparati di comunicazione e rilevazione satellitari;

esercitano una attenta e continua vigilanza nelle acque della regione del Delta del fiume

Niger mediante l’impiego dei citati natanti veloci;

sfruttano, nelle azioni di attacco, il fattore sorpresa e sono addestrati nel compiere gli

‘’arrembaggi’’ in tempi estremamente contenuti.

I rischi per la comunità internazionale

La pirateria non è certamente un fenomeno nuovo, ma è stato a lungo sottostimato dalla

comunità internazionale che solo recentemente è corsa ai ripari nel tentativo di

arginare l’attuale escalation. Basti pensare che l’Unione europea ha ufficialmente

inclusa la pirateria tra le minacce emergenti solo nel dicembre 2008, in occasione della

presentazione del Rapporto sull’attuazione della Strategia di sicurezza europea.

La pirateria è oggi dettagliatamente codificata dalla Convenzione di Montego Bay del 1982 agli

articoli 100 ss. che riproducono, salvo alcune varianti, gli art. 14 ss. della Convenzione di Ginevra

del 1958. Ai sensi dell’art. 15 di Ginevra e 101 di Montego Bay si definisce pirateria:

1) Ogni atto di violenza illegittimo di detenzione e ogni depredazione commessi dall’equipaggio o

dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati, a scopo personale, e a danno:

in alto mare, di un’altra nave, altro aeromobile, o di persone o beni a bordo di questi;

196

Page 197: Storia dell'Africa

b) in luoghi non sottoposti alla giurisdizione di uno Stato, d’una nave, o di un aeromobile, o di

persone o beni.

2) La partecipazione volontaria all’impiego di una nave o di un aeromobile, svolta con piena

conoscenza dei fatti che conferiscono a detta nave o detto aeromobile l’attributo di pirata.

3) L’istigazione a commettere gli atti definiti ai numeri 1 e 2 come anche la facilitazione

intenzionale degli stessi.

Analisi dei rischi

In tale contesto, numerosi analisti internazionali affermano che i rischi associati alla pirateria

sono notevoli ed hanno almeno una duplice natura:

- economico-commerciale:l’area che va dalle coste nordorientali della Somalia fino al Canale

di Suez, passando per il Golfo di Aden e lo stretto di Bab-al-Mandab, riveste una rilevanza

strategica per l’economia mondiale. La recrudescenza della pirateria in questo settore ha avuto

molti effetti negativi, tra cui il sensibile calo del traffico nel Canale di Suez e l’aumento dei

premi assicurativi;

- di sicurezza: interna, atteso che la pirateria arricchisce i signori della guerra locali e

rinfocola le loro continue lotte intestine e internazionale per i suoi possibili legami con il

terrorismo.

-In sintesi, la pirateria nel Golfo di Aden , avendo assunto le caratteristiche di una minaccia

globale, necessita di una risposta altrettanto globale e potrà essere “estirpata” solo a

lungo termine con la fine del caos in Somalia e contrastata nel breve-medio periodo

attraverso sforzi congiunti della comunità internazionale che attualmente si stanno

concentrando prevalentemente in due direzioni, una operativa e l’altra giuridica.

197

Page 198: Storia dell'Africa

Quinto ModuloTREND E PROSPETTIVE

� Sviluppo del settore petrolifero

� Good governance come fattore chiave per lo sviluppo e la sicurezza in Africa

� A quando una “Primavera Africana?”

198

Page 199: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 43-44“SVILUPPO DEL SETTORE PETROLIFERO”

Tra il 1990 ed il 2004 la produzione petrolifera del continente africano è aumentata del 40%

passando da 7 milioni a 10 milioni di barili al giorno (m b/g). Attualmente secondo i dati dell’ U.S.

Geological Survey (USGS) l’Africa contribuisce a livello mondiale per il 12% della produzione

petrolifera, altre fonti parlano invece di un contributo pari al 10%. Gli esperti di settore concordano

comunque nel prevedere un aumento di tale quota fino al 15% verso il 2020.

Tali dati fanno sì che l’Africa sia più che mai al centro degli interessi dei grandi player mondiali, (in

particolare USA, Cina e India) interessati a promuovere il loro sviluppo industriale.

Il continente deve essere preso in considerazione tenendo conto che in vi sono due aree geopolitiche

nettamente distinte: l’Africa del Nord che rientra nello scacchiere del Grande Medio Oriente,

(regione soggetta alle note tensioni globali, difficilmente controllabili) e l’Africa sub-sahariana con

fattori di rischio del tutto diversi e certamente più limitati, se si escludono alcuni paesi “di frontiera”

come il Sudan e la Somalia. In linea di massima il rischio politico maggiore nell’Africa a sud del

Sahara è costituito da possibili conflitti interni determinati da una ineguale distribuzione dei

proventi dell’industria estrattiva. Si tratta di un fattore di rischio che se non del tutto ineliminabile,

può essere ridotto con una maggiore trasparenza finanziaria, con lo sviluppo di una maggiore

rappresentatività democratica e con una migliore governance attenta agli aspetti ambientali e

sociali.

L’Africa sub-sahariana sta assumendo un’ importante funzione di alternativa come fornitore di

materie prime energetiche favorendo così una strategia di diversificazione rilevante, soprattutto in

considerazione delle crescenti tensioni nella regione mediorientale.

Quali i motivi che spingono oggi verso il petrolio africano? In buona sostanza l’interesse delle

grandi compagnie petrolifere multinazionali, nell’Africa sub-sahariana è determinato dai seguenti

fattori

1. apertura degli stati produttori africani al mercato e assenza di minaccia negli ultimi anni di

possibili nazionalizzazioni nel settore (questa situazione favorisce l’entrata di nuovi attori

come le cosiddette compagnie indipendenti, sia americane che asiatiche);

2. sistema di regimi contrattuali e fiscali favorevoli che rendono più remunerativo e meno

rischiose le attività di esplorazioni e prospezioni;

199

Page 200: Storia dell'Africa

3. presenza di nuove tecnologie di prospezione e sfruttamento che consentono di utilizzare

risorse fino ad ora inesplorate perché troppo profonde e situate off-shore;

4. collocazione geografica favorevole per i trasporti marittimi soprattutto dal Golfo di Guinea e

Angola;

5. qualità del petrolio a basso contenuto di zolfo;

6. natura dei giacimenti, che -essendo off-shore- consentono una maggiore protezione da

eventuali attacchi terroristici.

L’Angola e la Nigeria sono ormai i due produttori africani leader, davanti all’Algeria ed in teoria

alla Libia (la cui produzione nel 2011 è stata fortemente danneggiata a causa della rivolte che hanno

portato alla caduta del regime di Gheddafi). L’Angola nel 2009 è divenuta il primo produttore con

una quota di 2 milioni barili al giorno (b/g); la Nigeria con una produzione di 1,9 milioni di b/g ha

visto la sua produzione calare nell’ultimo biennio.

Oltre ai suddetti Paesi, hanno una produzione di tutto rispetto la Guinea Equatoriale che dal 2004

produce 360.000 b/g; il Sudan che ha una produzione di 470.000-490.000 b/g (cifra che ha risentito

negativamente dell’indipendenza del Sud nel luglio 2011 e del mancato accordo petrolifero

successivo tra Nord e Sud), il Congo Brazzaville che estrae 240.000 b/g ed il Gabon che si attesta

sui 235000 b/g. Le recenti scoperte di giacimenti in Ghana e Uganda permetteranno nel breve

periodo di considerare anche il contributo di tali paesi nel panorama africano. Al fine di difendere in

modo ottimale i propri interessi e coordinare le proprie politiche, i partner africani hanno creato nel

1986 l’Association des Pays Producteurs Africains (APPA) .

Ma quali sono le tre linee seguite da USA, Cina e India per la spartizione delle risorse energetiche

africane?

Nigeria, Angola e paesi del Golfo di Guinea rappresentano i cardini della strategia americana per

l’accaparramento delle risorse energetiche africane. La sicurezza energetica è parte integrante della

sicurezza nazionale, essa deve essere quindi perseguita con pragmatismo e con ogni strumento utile

(compreso quello militare).

Diverse le affermazioni fornite dai responsabili politici statunitensi nell’ultimo ventennio, sia essi

democratici che repubblicani.

Se fu il Presidente Carter che nel 1980 preventivò l’uso di “any means necessaries, including

military force” (la cosiddetta “Dottrina Carter”) per assicurare il flusso del petrolio del Golfo

Persico, il Presidente Clinton qualche anno più tardi fece eco con “our nation cannot afford to rely

on any single region for our energy supplies”. Fu tuttavia solo con l’Amministrazione repubblicana

200

Page 201: Storia dell'Africa

che la “Dottrina Carter” venne estesa all’Africa. Il Vice Presidente Richard Chaney nel National

Energy Policy report nel maggio 2001 puntualizzò che“African oil tends to be of high quality and

low in sulphur, giving it a growing market share for refining Centres on the East Coast of the US”.

Indubbia nell’obiettivo appare anche la dichiarazione dell’Assistente Segretario di Stato per l’Africa

Walter Kansteiner fatta nel luglio 2002 , in occasione di una visita in Nigeria , secondo cui “ the

African oil is of strategic national interest to us and it will increase and become more important to

us as we go forward”. Se a ciò si aggiungono gli incontri del Presidente Bush a New York

nell’agosto dello stesso anno con i Capi di Stato di 10 paesi africani produttori di petrolio (tra cui

quelli di Cameroon, Guinea Equatoriale, Chad, Congo Brazzaville, Sao Tome & Principe), le

missioni del Segretario di Stato Colin Powell nel settembre 2002 in Angola e Gabon, nonché i più

recenti viaggi di Condoleezza Rice e di Jendayi E. Frazer nei Paesi del Golfo di Guinea , si può

facilmente comprendere che negli ultimi mandati sono stati moltiplicati gli sforzi per ancorare la

presenza di compagnie americane in alcuni paesi del continente, il tutto con l’obiettivo di creare le

basi per una partnership di lungo periodo.

Indubbiamente l’11 settembre ha favorito tale indirizzo, rafforzando un fenomeno che aveva già

creato le sue basi con le crisi petrolifere degli anni ’70-‘80.

Nel 2015, secondo numerosi esperti, il 25% del petrolio necessario alle industrie americane,

potrebbe pervenire proprio dal black continent. Infatti da un lato va aumentando la richiesta

energetica americana, dall’altro prosegue la ricerca per la diversificazione geografica delle risorse e

parallelamente quella per lo sviluppo di nuovi fonti alternative. L’Africa sembra rispondere

completamente a queste esigenze.

ExxonMobil, ChevronTexaco, Devron, Ameralda Hess, Marathon, Unocal sono sempre più presenti

con nuove tecniche di esplorazione e con accordi privati per la sicurezza, convinti dei vantaggi

forniti dalla qualità del prodotto locale (petrolio leggero, come ad es. il Bonny light), della relativa

vicinanza geografica (un supertanker proveniente dal Golfo di Guinea può raggiungere New York in

una settimana) e ancor più dei vantaggi offerti nella spartizione dei proventi da parte dei governi (in

alcuni casi fino al 15% del guadagno totale).

La loro azione si scontra tuttavia con potentati locali e una forte corruzione, operata sia da parte di

funzionari governativi, sia da parte di privati. Come segnalato nei report annuali pubblicati da

Transparency International, diversi paesi africani sono coinvolti da questo fenomeno che detrae

dalle tesorerie statali almeno $140 miliardi ogni anno ed impedisce un sano sviluppo economico.

Come ovviare a tale problema? Ponendo numerose condizionalità politiche ed economiche in

accordi bilaterali e multilaterali, premendo per una maggiore trasparenza e accountability,

201

Page 202: Storia dell'Africa

incentivando il rispetto della legge e la santità dei contratti, trainando con iniziative multilaterali i

paesi più meritevoli .

Per quanto attiene alla Cina, l’acquisto del petrolio africano rientra in una logica più ampia dei

rapporti bilaterali, rapporti che si sono evoluti da fine degli anni ’50 ai giorni nostri.

Da Mao a Hu Jintao il cammino si è sviluppato e trasformato, cercando di far convergere le

esigenze di Pechino con quelle dei paesi africani, le prime, volte ad un pieno riconoscimento

internazionale ed all’esportazione degli ideali rivoluzionari, le seconde mirate inizialmente al

sostegno per l’indipendenza e, successivamente, all’aiuto economico.

Le numerose missioni diplomatiche/ministeriali annuali si concretizzano in Accordi commerciali di

alto livello ed in commesse notevoli per quanto riguarda l’inserimento delle compagnie petrolifere

di stato (China National Petroleum Corporation-CNPC, China National Offshore Oil Corporation-

CNOOC, China Petroleum and Chemical Coproration – SINOPEC) , valide per nuove

esplorazioni, trivellazioni, produzioni e sfruttamento delle risorse africane.

Quali i paesi particolarmente “curati” da Pechino? Certamente si distinguono Angola, Sudan,

Algeria, Nigeria, Congo ma non vengono disdegnati i rapporti con Etiopia, Guinea Equatoriale,

Namibia.

- Angola: è il partner petrolifero per eccellenza. Su oltre 7 mil b/g di petrolio totali che la Cina

ha importato nel 2005, ha preso circa 760.000 b/g dalla sola Africa, di cui 456.000 b/g

dall’Angola. Pechino è percepito come un alleato fidato che colma i vuoti delle istituzioni

internazionali e come un partner pronto a inserirsi rapidamente in gare internazionali. In

occasione dell’acquisizione dei diritti sul “Blocco 18”, la Cina è subentrata in fase finale di

trattative all’India, inizialmente prevista come acquirente favorito per acquisire la quota del

50% della Shell (valore di US $ 620 milioni).

- Sudan: è il partner più controverso, il rapporto più complesso che attira le critiche

internazionali. Nessuno può dire con certezza quanto la Cina abbia investito in Sudan negli

ultimi anni. Alcune voci fanno riferimento ad una cifra pari a US$20 mlrd, cui vanno

aggiunti prestiti e donazioni. Alcuni dati indicativi: nel 1996 la CNPC è entrata a far parte

della Greater Nile Petroleum Operating Company; nel 1998 la CNPC ha preso parte alla

costruzione del pipeline di 1500 km dai campi di Hegling e Unity al Mar Rosso; la stessa

compagnia sta costruendo con la China Petroleum Engineering Construction Group un

terminale di US$215 mil a Port Sudan;

- Nigeria: tra le numerose iniziative congiunte si segnalano la firma nel 2005 tra la CNOOC e

la Nigerian National Petroleum Corporation-NNPC di un contratto di US $800 milioni per

attribuire alla Cina 30.000 b/g, l’acquisto nel 2006 da parte della CNOOC del 45% del

202

Page 203: Storia dell'Africa

campo AKPO per oltre US$2 milioni, l’impegno cinese preso in occasione della visita

ufficiale del Pesidente Hu Jintao (aprile 2006) di investire US$4 milioni nel settore

petrolifero;

- Algeria: numerosi sono gli accordi stipulati negli ultimi anni tra i due partner. Tra i più

rilevanti si ricordano quello dell’ottobre 2002 con cui la SINOPEC ha investito con la

Sonatrach algerina US $525 milioni per sviluppare l’esplorazione e la messa in produzione

del campo petrolifero di Zarzaitine (da completarsi nel 2008); quello relativo alla

costruzione di una raffineria vicino Adrar nel luglio 2003; quello del dicembre 2003 tra

CNPC e Sonatrach con cui la compagnia cinese si è impegnata ad investire US$31 milioni

nei successivi tre anni per la prospezione di alcune aree algerine ricche di gas e petrolio.

Per quello che concerne l’India, in particolare la Oil and Natural Gas Corporation (ONGC) e il

TATA Group si sono distinte per il dinamismo dimostrato e per la validità dei progetti avviati nel

settore petrolifero africano. La ONGC Videsh Ltd, (OVL) -divisione che si occupa di esplorazione e

investimenti per la ONGC- ha effettuato la prima operazione importante nel 2003 in Sudan,

sostituendosi alla Talisman (compagnia canadese obbligata a ritirarsi dall’area a causa di pressioni

di alcune ONG nazionali, contrarie ad investimenti in un paese non rispettoso della tutela dei diritti

umani).

Nel gennaio 2005, la GNOPC ha prodotto 320.000 b/g. prontamente immessi sul mercato grazie ad

una pipeline che collega i giacimenti più ricchi del paese a Port Sudan.

Un’operazione commerciale condotta dalla OVL, particolarmente discussa, è stata quella relativa

all’acquisto del 45% dell’interesse nell’OML 130 (Oil Mining Lease), l’area offshore del Delta del

Niger in cui si trova il giacimento petrolifero AKPO (a 200 km dalla costa- ha riserve stimate pari a

600 milioni di barili di petrolio). Inizialmente la compagnia indiana si era impegnata per acquistare

una partecipazione del valore di US$ 2,3 miliardi di tale giacimento, poi si è ritirata, ufficialmente a

causa di un mancato nulla osta dato dall’esecutivo di Nuova Delhi per motivi legati al “rischio

dell’operazione”. Abilmente, in fase finale, si è re-inserita la CNOOC che in tal modo ha effettuato

la prima acquisizione di rilievo nel continente.

Tale operazione ha indotto a pensare ad “accordi sotterranei” tra i due partner asiatici, che

potrebbero aver predisposto una strategia precisa,volta ad affermare la presenza asiatica nel

continente.

203

Page 204: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 45-46“GOOD GOVERNANCE COME FATTORE CHIAVE PER LO SVILUPPO E LA SICUREZZA IN AFRICA”

Dagli anni ’90 la “governance” è considerata un fattore chiave per lo sviluppo sostenibile del

continente africano. Tale convinzione è particolarmente forte tra le democrazie occidentali e gli

organismi internazionali che sono impegnati dalla fine del secondo conflitto mondiale nelle

politiche di sviluppo. L’importanza della “governance” come elemento chiave per produrre

sviluppo sostenibile e stabilità politica, non è tuttavia unanimemente accettato a livello

internazionale, soprattutto quando vengono considerati nel concetto di “governance”, i rapporti

politici e sociali tra governanti e governati. In questi casi, soprattutto quando il concetto di “good

governance” viene inteso nel suo senso più ampio, e comprende anche lo sviluppo di istituzioni

democratiche e il rispetto dei diritti umani, questo viene criticato apertamente da alcune potenze

emergenti (come la Cina) e dalle autocrazie africane che non accettano cambiamenti radicali nei

loro paesi. Le difficoltà che incontra una “good governance” ad affermarsi nel continente africano

non sono tuttavia il frutto dell’opposizione teorica di chi non crede in essa; si tratta piuttosto del

fatto che quell’insieme di regole e di principi stentano a radicarsi in ambienti poco adatti al loro

sviluppo.

Ma cosa si intende per governance? Come si misura? C’è un modo per migliorarla? Come si pone

rispetto alla democrazia e alla sicurezza?

Formulare una definizione precisa e definitiva di “governance” non sembra cosa semplice, data la

fluidità insita nel termine e la forte generalità del concetto stesso.

La definizione più neutrale del termine “governance” è quella spesso formulata dalla Banca

Mondiale che definisce la governance come la “maniera in cui il potere è esercitato nel gestire le

risorse sociali ed economiche per lo sviluppo”. Tale definizione, così come è formulata nella sua

generalità, è neutrale da un punto di vista ideologico, in quanto non qualifica gli strumenti per

raggiungere il fine, vale a dire lo sviluppo (economico e sociale), ma chiarisce soltanto qual è

l'obiettivo da raggiungere attraverso una “good governance” e quali sono i meccanismi con i quali il

potere politico gestisce le risorse. Non è un caso che la stessa Banca Mondiale, ampliando la prima

generica definizione di governance, in qualche modo politicamente neutrale, per specificare meglio

le policy necessarie per raggiungere una buona governance economica e sociale, finisce per darne

una qualificazione più precisa e quindi per certi versi fortemente ideologica.

Così la Banca Mondiale ritiene che la governance di un paese per poter essere efficace necessita di:

“an efficient public service, an independent judical system and legal framework to enforce

contracts, the accountable administration of public funds, an independent public auditor

204

Page 205: Storia dell'Africa

responsible to a representative legislature, respect for the law and human rights at all levels of

government, a pluralistic institutional structure and a free press”. La Banca mondiale non soltanto

incoraggia i governi nazionali a creare un quadro legale e istituzionale caratterizzato da

responsabilità, trasparenza, informazione, predicibilità e competenza nella gestione delle politiche

pubbliche e dello sviluppo economico, ma collega queste azioni allo sviluppo democratico e al

rispetto dei diritti umani.

La United Nation Development Program (UNDP), nella sua definizione di Governance va più in là

della stessa Banca Mondiale nel conferire uno stretto legame tra aspetti economici e politici,

definendo nel documento “To Strengthen Governance through National Capacity Building. A

Strategy Paper for Sub-Saharan Africa” (1995) la governance come “a framework of public

management based on the rule of law, a fair and efficient system of justice, and broad popular

involvement in the process of governing and being governed. This requires establishing

mechanisms to sustain the system, to empower and give them real ownership of the process.”

Questa impostazione riflette il pensiero prevalente delle Organizzazioni Internazionali con

competenze di aiuto allo sviluppo e della maggioranza dei donatori, USA, Unione Europea e suoi

paesi membri, nonché Giappone, per i quali la buona governance viene intesa non soltanto in

termini di maggiore efficienza complessiva del sistema politico-amministrativo, ma collegata

direttamente allo sviluppo democratico come elemento sussidiario alla capacità istituzionale del

sistema di ottenere risultati visibili in termini di sviluppo economico e sociale. Secondo questa

dottrina la distinzione tra buona governance e sviluppo democratico non sussiste o è lasciata

all’ambiguità, in quanto si ritiene che le due cose siano direttamente e strettamente interdipendenti.

Qualche divergenza di opinione sorge soltanto nello stabilire se è il processo democratico a

determinare lo sviluppo di un’economia di mercato efficiente o viceversa, se lo sviluppo di un

sistema di mercato e della conseguente prosperità, facilitino l'affermazione della democrazia. Un

quesito che si risolve nella maggior parte dei casi con la conclusione che i due aspetti si rafforzino

vicendevolmente.

Democrazia e good governance richiedono regimi basati sul modello liberal-democratico che

protegge i diritti civili e politici, supportati da apparti amministrativi non corrotti e responsabili. Un

sistema politico siffatto è l'unico funzionale per creare le condizioni per economie di mercato libere

competitive. La prevalenza di democrazie liberali a livello globale e la prosperità così generata,

contribuirebbe infine ad un mondo più sicuro dove pochi sarebbero incentivati ad usare lo

strumento militare per affermarsi.

Date queste premesse, necessarie per sottolineare alcune implicazioni che la definizione di

governance può comportare, si può tentare una sintesi dei significati prevalenti che viene dato al

205

Page 206: Storia dell'Africa

termine. Per restare alle formulazioni più autorevoli, la governance fa riferimento al “complesso di

tradizioni ed istituzioni attraverso le quali l’autorità è esercitata in un paese”. Prevalentemente

questa non è intesa in senso autoritario e gerarchico, ma piuttosto come interazione di diversi

elementi.

In termini sintetici e cercando di evitare un’ impostazione “ideologica” possiamo dunque definire la

governance come “la capacità di un sistema di darsi delle regole condivise che consentano buone

politiche economiche, responsabilità delle classi dirigenti, lotta alla corruzione per consentire un

sistema di correttezza nella competizione tra aziende ed individui che premi i migliori, stabilità

politica, rispetto della legge”.

Per un ulteriore approfondimento del tema, di seguito saranno analizzati i rapporti tra governance e

sviluppo economico in Africa, governance e democrazia, governance e sicurezza.

Governance e sviluppo economico in AfricaSuccessivamente alla seconda guerra mondiale ed in misura ancora maggiore, nel periodo post-

coloniale intorno agli anni ’60, una delle maggiori questioni di politica economica internazionale

era rappresentata dal problema dello sviluppo dei paesi dell’Asia e dell’Africa senza il quale il

sistema economico internazionale sarebbe stato condannato ad una situazione di perenne dualismo

economico: da una parte i paesi avanzati, allora definiti industrializzati, dall’altra la gran massa di

paesi sottosviluppati.

Ingenti risorse finanziarie ed intellettuali vennero destinate dai paesi occidentali, i paesi ricchi,

insieme ad i grandi organismi internazionali, per innescare i processi più consoni al decollo

economico dei paesi africani ed asiatici, ma con scarso successo. Da un punto di vista dottrinale

inizialmente si cercò di adattare le principali teorie dello sviluppo alle realtà dei cosiddetti “paesi in

via di sviluppo” (PVS). I diversi fattori chiave individuati come determinanti dello sviluppo erano

in estrema sintesi i seguenti:

� Mutamento in agricoltura (incremento di produttività)

� Incremento del tasso di accumulazione del capitale

� Espansione del commercio mondiale

� Rivoluzione tecnologica

� Affermazione progressiva del laissez faire

� Fattori istituzionali e culturali

Nel corso degli anni ’70 e l’inizio degli anni ‘80 si opera una vera e propria frattura tra l’andamento

economico della maggior parte dei paesi asiatici e di quelli africani: Questi ultimi, che godevano di

206

Page 207: Storia dell'Africa

redditi medi in gran parte superiori a quelli asiatici negli anni ’60, riscontrano un vero e proprio

declino, mentre gran parte delle economie dell’estremo oriente, ma anche dell’Asia meridionale

iniziano un percorso di crescita sostenuta. Uno di motivi principali allora individuati per spiegare

questi diversi percorsi fu già allora la netta differenza di capacità istituzionale tra i paesi dell’Africa

e dell’Asia

Di questi, alla luce degli sviluppi successivi, si può constatare che forse il principale fattore era

l’ultimo, vale a dire quello dei fattori istituzionale e culturali in senso lato, comprendente la capacità

di gestire i processi sociali ed economici in maniera efficiente, quello che oggi noi definiremmo di

governante. Da un punto di vista pratico, il fattore governance allora venne tuttavia trascurato.

La profonda crisi degli anni ’80 in tutta l’Africa sub-sahariana con un crescente debito estero e un

declino economico generalizzato portò all’imposizione da parte dei grandi organismi internazionale

Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale delle politiche di Aggiustamento Strutturale -

Structural Adjustment Policy (SAP). Queste politiche,mirate sostanzialmente a ridurre

l’indebitamento dei paesi africani attraverso una riduzione della spesa pubblica, implicavano anche

il ritorno al mercato ed apertura verso l’estero ed il commercio internazionale delle economie del

continente. Tuttavia le riforme richieste erano spesso dolorose da un punto di vista sociale,con

effetti negativi sullo sviluppo umano (tagli nel sistema educativo, sanitario etc.) L’idea era che la

riduzione dell’intervento pubblico in economia non si sarebbe tradotta in una diminuzione dei

servizi pubblici offerti, in virtù dell’aumento dell’azione dei soggetti privati, che soddisfano i

bisogni della collettività attraverso l’organizzazione e la gestione del mercato o del quasi-mercato.

Un’impostazione corretta in strutture socio-economiche sviluppate, ma discutibile nel contesto

africano. Se i SAP hanno avuto successo in alcuni casi specifici, determinando un incremento del

PIL ed un’ inversione di tendenza del declino economico africano, hanno anche messo in evidenza

che l’anello mancante delle teorie dello sviluppo tradizionali andava proprio ricercato nel concetto

di buona governance.

I paesi africani infatti hanno iniziato a sperimentare l’effetto positivo dell’introduzione di regole di

buona politica economica per migliorare l’efficienza dei sistemi. Parallelamente negli anni ‘90 la

stessa Banca Mondiale e la più vasta comunità di accademici esperti e professionisti impegnati

negli aiuti allo sviluppo, si sono resi conto che le riforme potevano avere successo se queste, non

erano imposte esternamente, ma il frutto di un’azione endogena africana condotta dalle nuove classi

dirigenti. Per questi motivi l’attenzione si è spostata dagli aspetti puramente economici a quelli

politici ed istituzionali e quindi la governance ha iniziato ad essere percepita come uno degli

elementi distintivi e come fattore fondamentale di sviluppo nella dottrina prevalente. Dagli anni

’90 sia i grandi organismi internazionali che i paesi europei e gli Stati Uniti hanno destinato

207

Page 208: Storia dell'Africa

crescenti risorse verso i progetti finalizzati al miglioramento della governance in tutti i molteplici

aspetti che questo comporta nei paesi africani. Spesso gli aiuti vengono condizionati al

raggiungimenti di risultati positivi e alle performance che gli stati beneficiari raggiungono in

termini di capacità istituzionale,lotta alla corruzione, rispetto della legge e dei diritti umani.

Un elemento rilevante - e che sicuramente ha un carattere strategico per il concreto raggiungimento

di risultati positivi nei paesi africani è che alcuni aspetti delle politiche inizialmente imposte

dall’esterno, iniziano ad essere percepite in Africa in maniera positiva da un consistente numero di

leaders politici africani. Questa evoluzione positiva è il frutto di un percorso genuinamente africano

che a partire dalla fine degli anni ’80, ha visto crescere la consapevolezza, che soltanto una classe

dirigente africana responsabile e impegnata alla lotta contro la povertà ed a favore dello sviluppo

economico, possa fare la differenza.

I fattori che hanno determinalo questa evoluzione positiva sembrano essere i seguenti: la fine della

Guerra fredda con il progressivo disinteresse delle grandi potenze per l’Africa, manifestatosi anche

con una netta diminuzione degli aiuti internazionali, ha determinato un processo creativo in Africa

con una reazione da parte della parte delle più illuminate elites del continente. Le nuove leadership,

preoccupate di un progressiva marginalizzazione del continente africano, si rendevano conto che era

necessario lanciare un nuovo impulso innovativo basato sulla ownership africana, nella

consapevolezza che i problemi africani dovevano trovare soluzioni africane. L’atto fondante di

questo nuovo approccio è stata la risoluzione del luglio 2001 che ha dato l’avvio alla New

Partnership for Africa's Development (NEPAD), frutto di un’iniziativa congiunta dell’ex Presidente

del Sudafrica Thabo Mbeki, dell’ex presidente della Nigeria Olusegun Obasanjo, e del Presidente

algerino Abdelaziz Bouteflika; insieme al Presidente del Senegal Abdoulaye Wade. I principi

fondamentali sui quali si basa questo nuovo organismo sono essenzialmente, l’economia di mercato,

la buona governance, istituzioni democratiche, rispetto dei diritti umani e risoluzione pacifica dei

conflitti, principi percepiti come fattori chiave per lo sviluppo economico-sociale del continente.

Coerentemente, nel luglio 2002 a Durban in Sudafrica, nell’ambito della NEPAD, viene approvata

la Declaration on Democracy, Political, Economic and Corporate Governance che impegna gli

Stati partecipanti a sottoporsi, previa ratifica degli accordi sottoscritti, ad un meccanismo mirato al

monitoraggio per l’effettiva applicazione dei principi sottoscritti, il cosiddetto African Peer Review

Mechanism (APRM).

L’incontro di Durban ha una portata storica in quanto, non solo pone dei limiti al principio di

sovranità assoluta e di non-interferenza negli affari interni per i sottoscrittori degli accordi, ma

enuncia principi che non sono così unanimemente accettati a livello globale, se si escludono i paesi

208

Page 209: Storia dell'Africa

avanzati occidentali, come libertà individuali e democrazia. Sul piano teorico e dei principi una

parte consistente dei leader africani si pone quindi su posizioni vicine a quelle occidentali.

L’ APRM riconosce in buona sostanza che il controllo esterno, meglio se esercitato da altri paesi

Africani in un’ottica di reciprocità, può dare un impulso positivo e forzare in qualche modo delle

classi dirigenti ad un comportamento virtuoso che comunque ha dei costi in termini di interessi

personali e di parte.

Governance e democrazia

Come si è già accennato nel paragrafo introduttivo sulla definizione di Governance, la differenza tra

politiche di promozione della Governance e dello sviluppo della democrazia spesso tendono a

sovrapporsi.

Questa impostazione, diffusa a livello politico, da un punto di vista concettuale è del tutto arbitraria.

Il fatto che vi sia una stretta correlazione tra i due processi, non significa che si possano identificare

unitariamente.

Una doverosa distinzione va fatta al contrario sia per una pura questione teorica, ma soprattutto per

le implicazioni operative. Ciò è particolarmente importante in Africa dove le condizioni in termini

di livello dei redditi e struttura sociale sono molto diverse da quelle dei paesi europei.

Paul Collier, professore di economia ad Oxford e massimo esperto di Governance nei paesi a basso

reddito ed in particolare nei paesi africani, afferma che sebbene una governance disfunzionale

costituisce la ragione principale per la quale molti paesi non riescano ad uscire dal circolo vizioso

della povertà, la distinzione tra governi autocratici e democratici non è direttamente correlata tra

cattiva e buona governance. In altri termini egli afferma che vi sono regimi autocratici che possono

vantare ottime performance in materia di governance economica e di capacità istituzionale, mentre

vi sono molti esempi di paesi democratici, che a causa di politiche populistiche e clientelari

riducono molto la capacità del sistema di gestire in maniera efficiente l’economia di mercato. Per

Collier un’autocrazia illuminata ha maggiori probabilità di migliorare la governance economica di

un paese di quanto possa fare una democrazia disfunzionale:

“Dysfunctional governance is central to why some countries remain poor. Since 1991 Europe has

attempted to improve governance by promoting democratisation. Yet the distinction between

democratic and autocratic regimes does not relate closely to that between good and bad

governance. Whereas some autocratic regimes are plundering tyrannies, others are delivering

prosperity. Similarly, while some democratic regimes are disciplined by accountability, others are

mired in populism and patronage. Democracies only work well under certain conditions. A good

autocracy may be better able to put these foundations in place than a dysfunctional democracy. The

209

Page 210: Storia dell'Africa

path to a well-functioning democracy may not start from dysfunctional democracy, but from benign

autocracy”.

Se non esiste una correlazione diretta tra regime politico e sviluppo, la maggior parte degli

economisti è tuttavia concorde nell’affermare che lo sviluppo democratico tende a migliorare una

più equa distribuzione del reddito.

L’altro effetto positivo dei regimi democratici, oltre alle maggiori capacità di distribuire la ricchezza

prodotta, è la duttilità del sistema di fronte a gravi crisi economiche. La democrazia consente infatti

di negoziare la nuova distribuzione di responsabilità tra le parti coinvolte (sindacati, imprenditori,

burocrati), necessaria per superare la crisi stessa.

Per quanto concerne l’Africa, un elemento certamente positivo è costituito dal fatto che gli Stati

africani collettivamente, sia nell’ambito del NEPAD che in quello dell’Unione Africana, hanno

acquisito come propri principi in una logica di ownership, quelli relativi al rispetto dei diritti umani,

all’importanza dello sviluppo della società civile, e della lotta contro la corruzione. Se i ripetuti

richiami in tutti i documenti politici sottoscritti dalla maggior parte dei paesi africani al principio

della democrazia non corrispondono in molti casi a pratiche coerenti, tuttavia il solo fatto che

teoricamente si indichi autonomamente l’importanza di certi principi, in qualche modo distingue il

continente africano da altre aree mondiali dove tali principi non sono presi in considerazione

nemmeno in termini teorici (come ad esempio in Cina).

Governance e sicurezza

Tradizionalmente la Sicurezza era concepita come una garanzia degli stati nazionali da aggressioni

esterne, nonché del regime politico al potere dall’eversione interna. Se si guarda all’Africa, lo

statuto dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1963 aveva messo i piedi una struttura

normativa che principalmente andava incontro a queste esigenze, ponendo come principio chiave la

sovranità degli Stati membri e l’inviolabilità ed immodificabili delle frontiere. Le gravi crisi e

l’instabilità che hanno colpito l’Africa in questo mezzo secolo, che ha visto concentrati in questo

continente un altissimo tasso di conflitti e crisi umanitarie prodotte dall’uomo, e la constatazione

che si trattava prevalentemente di crisi interne, hanno portato alla formulazioni nuove dottrine che

vedono nell’elevata militarizzazione una delle cause primarie dell’instabilità africana. Una delle

conseguenze più evidenti di questa nuova prospettiva, è che l’instabilità interna agli stati viene

percepita come la più grave minaccia e di conseguenza si ritiene che la garanzia della sicurezza

debba essere destinata alla società nel suo complesso ed agli individui che ne fanno parte e non allo

Stato e ai regimi che lo rappresentano.

210

Page 211: Storia dell'Africa

L’idea che la sicurezza in Africa debba avere sempre più come riferimento gli individui piuttosto

che gli Stati è ormai un paradigma emergente in un’ottica di stabilizzazione globale.

Nell’esaminare le problematiche riferibili allo stretto rapporto tra governance e sicurezza, che

come si è visto coinvolgono la gestione complessiva dei rapporti politico-sociali, esistono ambiti

più specifici al fattore sicurezza che richiedono interventi mirati sugli apparati dello stato, sempre in

un’ottica di miglioramento della governance. Ci si riferisce in particolare alla riforma dei sistemi di

sicurezza nota nel’acronimo in inglese come SSR ovvero Security System Reform.

Com’è noto in gran parte dei paesi dell’Africa sub-sahariana gli apparati di sicurezza interna e le

forze di polizia soffrono di carenze strutturali sia di tipo quantitativo che qualitativo. La costante

presenza sul territorio in funzione di controllo è spesso carente o insufficiente. Alla scarsa presenza

sul terreno si aggiungono le carenze qualitative e la poca chiarezza della mission delle forze di

polizia. Spesso il reclutamento viene effettuato su basi etniche o clientelari. La fedeltà delle forze di

polizia è quindi rivolta verso le elites dominanti e il livello di impegno nel garantire la sicurezza del

singolo cittadino appare scarsa. Nei casi più gravi le forze di polizia rappresentano la minaccia

primaria verso i cittadini in aree di crisi o dove le attività dell’opposizione sono considerate una

minaccia per il regime al potere. Anche quando non sussistono motivi di carattere politico che

determinino lo scarso impegno delle forze di polizia nel garantire in maniera neutrale la sicurezza

dei cittadini, l’insufficiente preparazione professionale e la diffusa corruzione, fanno sì che le forze

di sicurezza non vengano considerate un soggetto a cui i cittadini si possano rivolgere per garantire

la propria incolumità o sfuggire ai soprusi della malavita organizzata.

Questa situazione determina uno scollamento tra popolazione ed istituzioni e vuoti nel controllo del

territorio, che in alcuni casi vengono riempiti da milizie di varia natura: da milizie collegata alla

malavita organizzata, corpi armati privati assoldati dalle multinazionali occidentali, o nelle aree di

crisi da milizie ideologizzate con possibili connessioni con il terrorismo internazionale.

Un esempio specifico può fornire la misura di questo fenomeno. In Nigeria la carenza delle forze di

polizia, soprattutto nel sud petrolifero, ha lasciato spazio a forti milizie private: le milizie del Delta

del Niger, oltre ad essere coinvolte in varie tipologie di traffici illegali, da quello delle armi a quello

della droga, forniscono i propri servizi a politici locali, un fenomeno inquietante che contribuisce ad

incrementare il caos generale. In questo contesto le compagnie petrolifere occidentali, così come le

classi abbienti nigeriane, fanno un esteso uso di corpi di polizia privati, che si sovrappongono così

agli apparati di sicurezza statali, sempre più inefficienti e screditati. Se si guarda alla più vasta area

dei paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea, la debolezza delle forze di polizia favoriscono

traffici illegali di materie prime, soprattutto preziosi e coltan, così come quello degli esseri umani,

della droga, con conseguenze immaginabili sul livello di sicurezza delle comunità locali. L‘illegalità

211

Page 212: Storia dell'Africa

diffusa, la debolezza delle istituzioni statali, l’elevata corruzione delle forze di polizia e la

delegittimazione dei governi costituiscono terreno fertile per l’inserimento di gruppi terroristici.

Dunque il pericolo di una contaminazione ideologica e di una radicalizzazione politica in paesi con

grandi porzioni o significative di abitati o minoranze consistenti di religione musulmana, dietro la

spinta del diffuso malessere sociale, esistono. Già oggi molte organizzazioni islamiche si

sostituiscono alle carenti strutture statali in molti paesi dell’area fornendo assistenza sociale ai

diseredati e sicurezza ai cittadini in aree dove gli apparati di polizia governativi, o perché

insufficienti, o perché corrotti dalla malavita organizzata, non espletano le funzioni proprie.

In questo contesto, la professionalizzazione delle forze di sicurezza dei paesi dell’Africa sub-

sahariana, non soltanto da un punto di vista tecnico, ma soprattutto dal punto di vista del controllo

democratico, è divenuta una priorità dei paesi donatori occidentali.

Proprio attraverso la riforma dei sistemi di sicurezza (SSR), operando sulla governance degli

apparati, si può cercare di ridurre la portata destabilizzante di una situazione che in alcuni paesi

rischia di determinare il fallimento degli Stati. Più specificamente attraverso la SSR si intende

incrementare la capacità degli Stati africani di far fronte alla vasta gamma dei bisogni relativi alla

sicurezza dei cittadini e della società in maniera coerente con le norme democratiche, solidi principi

di governance e rispetto dello stato di diritto.

I principali centri di monitoraggio della governance

Da quando si è affermata l'idea che la Governance costituisca un fattore fondamentale di sviluppo

economico-sociale tra i grandi organismi internazionali e i paesi donatori occidentali, sono stati

indirizzati grandi sforzi per monitorare le performance di ciascun paese in questo ambito.

La prima organizzazione a dedicarsi in maniera sistematica in questo esercizio è stata la Banca

Mondiale con i Worldwide Governance Indicators , un sistema di rilevazione completo che copre i

vari aspetti della governance e tutti i paesi. Altri sistemi di rilevazione hanno una copertura

internazionale, ma esaminano soltanto alcune componenti della Governance, come il Corruption

Perceptions Index, di Transparency International o l'Human Development Report dell'UNDP, o

ancora il Freedom House Index progettati per misurare componenti specifiche di buona

governance (rispettivamente corruzione, lo sviluppo umano e il rispetto per i diritti e le libertà

civili).

Per quanto riguarda gli indici focalizzati sul continente africano la Commissione Economica per

l'Africa delle Nazioni Unite (UNECA) ha fino ad ora pubblicato due apporti: l'African Governance

Report I (AGR I) e l'African Governance Report II (AGRII) il primo nel 2005 su 27 paesi africani

212

Page 213: Storia dell'Africa

ed il secondo su trentacinque paesi nel 2009. E' intenzione dell'UNECA continuare il monitoraggio

pubblicando un rapporto ogni due anni.

Ugualmente biennale è il rapporto preparato sotto la responsabilità di Robert I. Rotberg and Rachel

M. Gisselquist, “Strengthening African Governance, Index of African Governance - Results and

rankings” , preparato nell'ambito del Programma: “Intrastate Conflict and Conflict Resolution”

della Kennedy School of Government, dell'Harvard University e del World Peace Foundation.

Quest'ultimo progetto di ricerca si è andato a sovrapporre con l'Ibrahim African Index of African

Governance, basato anch'esso sugli studi di Rotberg e Gisselquist. Gli indici del 2007 e del 2008

sono stati infatti realizzati congiuntamente dalla Ibrhaim Foundation e dalla Kennedy School of

Government dell'Università di Harvard. Tuttavia dalla fine del 2008 le due istituzioni hanno cessato

di collaborare nonostante che ancora l'ultimo rapporto di Harvard, quello del 2009 sia stato

finanziato generosamente dalla Ibrahim Foundation, sostituita come partner, nel corso del 2009

dalla World Peace Foundation di Cambridge in Massachusetts.

L'ultima serie di indagini sulla governance in Africa sono il frutto del lavoro dell'Afrobarometro,

condotte nel corso del 2008 ed uscite nel maggio 2009, sullo stato di diciannove paesi africani.

L'Afrobarometro, finanziato da varie agenzie di cooperazione allo sviluppo occidentali, ha come

principali istituzioni di riferimento il Center for Democratic Development (CDD-Ghana), l'Institute

for Democracy in Sud Africa (IDASA) e l’Institut de Recherche Empirique en Economie

Politique( IREEP del Benin). Queste sono supportate dall’americana Michigan State University

(MSU), Department of Political Science e dal Democracy in Africa Research Unit del Centre for

Social Science Research dell'Università di Cape Town in Sud Africa.

In ultimo, con funzioni direttamente operative, di grande interesse sono le analisi ed il monitoraggio

su ventinove paesi africani che hanno aderito al Meccanismo africano di valutazione (APRM),

insieme ai rapporti di riesame prodotti dai paesi coinvolti nelle fasi più avanzate del meccanismo

che tuttavia sono al momento soltanto sette.

In tale sede, è interessante approfondire le caratteristiche degli indici africani di Harvard e della

Mo Ibrahim Foundation, nonché l’African Governance Report della United Nations Economic

Commission for Africa

Gli indici africani di Harvard e della Mo Ibrahim Foundation

Il rapporto del 2009 preparato sotto la responsabilità di Robert I. Rotberg and Rachel M.

Gisselquist, “Strengthening African Governance, Index of African Governance - Results and

213

Page 214: Storia dell'Africa

rankings” , preparato nell'ambito del Programma: Intrastate Conflict and Conflict Resolution della

Kennedy School of Government, dell'Harvard University e del World Peace Foundation risulta

essere molto simile a quello del 2010 della Ibrahim Foundation

Questo progetto di ricerca, cosi come anticipato, si è andato a sovrapporre all'Ibrahim African

Indexes of African Governance, basati anch'essi sugli studi di Rotberg e Gisselquist. Gli indici del

2007 e del 2008 sono stati infatti realizzati congiuntamente dalla Ibrahim Foundation e dalla

Kennedy School of Government dell'Università di Harvard. Tuttavia dalla fine del 2008 le due

istituzioni hanno cessato di collaborare, nonostante che ancora l'ultimo rapporto di Harvard, quello

del 2009 sia stato finanziato generosamente dalla Ibrahim Foundation, sostituita come partner, nel

corso del 2009 dalla World Peace Foundation di Cambridge in Massachusetts.

L’Indice di Harvard parte dal presupposto di misurare la capacità dei governi di fornire beni e

servizi ai cittadini ed esamina in maniera quantitativa i risultati. L’esercizio è eminentemente

statistico e prende in considerazione molte più variabili degli altri indici. A differenza di questi, il

metodo usato prevede di dare molto meno peso all’analisi qualitativa derivante dal giudizio e la

percezione degli esperti, considerati dal team del Kennedy Centre passibili di soggettività. Altra

differenza sta nel numero delle variabili prese in esame che è molto elevato e le aree di indagine che

comprende 5 categorie: Safety and Security; Rule of Law, Transparency, and Corruption;

Participation and Human Rights; Sustainable Economic Opportunity; and Human Development. Lo

scopo dell’analisi è operativa, proprio grazie al dettaglio con cui vengono esaminati i vari aspetti

della Governane le cui categorie vengono suddivise in sub-categorie come viene riassunto nella

tabella riportata qui di seguito.

Se si guarda ad esempio alla categoria più strettamente economica, la Sustainable Economic

Opportunity; non si esaminano la qualità regolatorie, ma direttamente gli effetti che la gestione

economica del paese può avere sulla popolazione, vale a dire gli indicatori economici, il livello

delle infrastrutture, mentre per lo sviluppo umano si esaminano i classici indicatori sociali sulla

sanità, istruzione e tassi di povertà e distribuzione del reddito. E’ evidente che questo metodo può

funzionare soltanto in quanto l’indice prende in esame i paesi del continente africano e non tutto il

mondo, come quello della Banca Mondiale. Un indice mondiale di questo tipo non farebbe che

correlare la ricchezza di un paese con la sua capacità di Governance.

I paesi analizzati sono quelli africani compresi quelli dell’Africa del Nord per un totale di 53.

214

Page 215: Storia dell'Africa

215

Page 216: Storia dell'Africa

Fonte: Robert I. Rotberg and Rachel M. Gisselquist, Strengthening African Governance, Index of African Governance - Results and rankings , A Project of The Program on Intrastate Conflict and Conflict Resolution, The Kennedy School of Government, Harvard University & The World Peace Foundation, 2009

216

Page 217: Storia dell'Africa

Fonte: Robert I. Rotberg and Rachel M. Gisselquist, Strengthening African Governance Index of African Governance - Results and rankings , A Project of The Program on Intrastate Conflict and Conflict Resolution at The Kennedy School of Government, Harvard University & The World Peace Foundation, 2009

217

Page 218: Storia dell'Africa

Nel complesso i dati di Harvard confermano la suddivisione tra paesi virtuosi e quelli con

situazione estremamente deteriorata, già citata esaminando i dati della Banca Mondiale. Questo è

un elemento importante in quanto nonostante le critiche sugli indici della governance diffusi in vari

ambienti, è evidente che pur usando metodologie radicalmente diverse il giudizio sui paesi non

cambia di molto, come si evince dalla tabella.

La Mo Ibrahim Foundation, fondata dal multimiliardario e magnate delle telecomunicazioni,

l’anglo-sudanese Mo Ibrahim, dichiara di puntare sul sostegno della capacità di leadership in Africa,

fattore chiave per migliorare la situazione economico-sociale del continente. Il principio su cui si

basa l’attività della fondazione è che senza buona governance non è possibili raggiungere risultati

significativi e sostenibili. Secondo la stessa Fondazione la raccolta di dati sulla governance in

Africa a cura della stessa è la più completa in termini qualitativi e quantitativi. L’indice, così come

quello di Harvard, dal quale questo deriva, misura sostanzialmente la capacita da parte dei governi

africani e dagli attori non statali di fornire beni e servizi pubblici ai cittadini utilizzando indicatori

relativi a quattro principali categorie: Sicurezza e Stato di diritto, Partecipazione dei cittadini e

diritti umani, Opportunità economiche sostenibili e Sviluppo umano come indicatore succedaneo

della qualità dei risultati ottenuti da una buona governance. Rispetto all’indice di Harvard questo

riduce dunque a quattro le categorie.

L’esercizio è supportato da istituzioni africane e attualmente realizzato in partnership con

Afrobarometer, il Centre for Democratic Development (CDD), Ghana, l’American University in

Cairo (AUC, Egitto), il Council for the Development of Social Science Research in Africa

(CODESRIA, Senegal), e l’Institut de Recherche Empirique en Economie Politique (IREEP,

Benin) .

I dati statistici sono presi da 24 istituzioni diverse e ponderati dagli analisti della fondazione, tanto

da far definire l’indice elaborato da quest’ultima: l’indice di tutti gli indici. Questi comprendono

tutti i paesi dell’Africa sub-sahariana più l’Africa del Nord. Poiché la Ibrahim Foundation è

un’istituzione privata non ha nessuna remora a pubblicare una graduatoria chiara ed

immediatamente leggibili che riportiamo qui di seguito.

218

Page 219: Storia dell'Africa

2010 Ibrahim Index of African GovernanceScored 0-100 where 100=best

1Mauritius 83,0 19 Mali 52,9 37 Nigeria 43,3

2Seychelles 78,5 20 Mozambique 52,1 38 Liberia 43,2

3Botswana 75,9 21 Burkina Faso 51,9 39 Togo 42,6

4Cape Verde 75,5 22 Malawi 51,7 40 Niger 42,3

5South Africa 71,5 23 Libya 51,5 41 Congo 42,06Namibia 67,3 24 Uganda 50,8 42 Angola 39,3

7Ghana 64,6 25 Swaziland 50,8 43 Guinea-Bissau 39,1

8Tunisia 62,1 26 Kenya 50,5 44 Côte d'Ivoire 36,8

9Egypt 60,5 27 Gabon 50,1 45 Guinea 35,6

10Lesotho 60,1 28 Madagascar 48,7 46 Equatorial Guinea 34,7

11São Tomé and Príncipe 58,2 29 Comoros 48,5 47 Sudan 32,9

12Benin 56,6 30 Djibouti 48,5 48 Central African Republic 32,713Morocco 56,6 31 Rwanda 47,2 49 Zimbabwe 32,7

14Senegal 56,3 32 Sierra Leone 46,0 50 Eritrea 31,8

15Algeria 55,2 33 Burundi 44,7 51 Congo, Democratic Rep. 31,1

16Tanzania 55,0 34 Cameroon 44,2 52 Chad 28,8

17Zambia 54,9 35 Ethiopia 43,5 53 Somalia 7,9

18Gambia 53,0 36 Mauritania 43,4

Fonte: Ibrahim Foundation, http://www.moibrahimfoundation.org/

Paesi virtuosi e situazioni degenerate come Eritrea, Repubblica Democratica del Congo e Somalia

confermano sostanzialmente il quadro della Banca Mondiale.

Emerge ugualmente dall’indice la profonda diversità di condizione tra i vari paesi africani: come

commenta Collier :dei 53 paesi esaminati:

“Although all share the same continent, from the perspective of governance, the best (the five

countries with scores over 70) are on a different planet from the worst (the 12 countries under 40).

There is nothing ‘African’ about poor governance, were the standards of the best to become general

Africa would be a well-governed region. And the best can become the general: governance is not

frozen”.

Per quanto riguarda l’analisi dinamica dei dati il trend complessivo sembra stagnante, mentre vi

sono grandi variazioni per tipologia e paesi. Dal lato negativo abbiamo paesi africani, dove la

Safety and Rule of Law ha riscontato un declino particolarmente significativo, rispetto al 2005.

Questo in netto contrasto con un netto incremento dei progressi in campo economico e sviluppo

umano e sanitario. Mediamente i cittadini africani appaiono meno poveri di 5 anni fa ma meno

sicuri. Grandi progressi sono stati fatti anche sulla condizione femminile, anche se per ora si tratta

soprattutto di miglioramenti riscontrabili nella legislazione e non ancora supportati da indagini sulle

condizioni effettive.

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Page 220: Storia dell'Africa

Per quanto riguarda i dati aggregati sulla governance tra il 2005 ed oggi secondo la fondazione è

nettamente migliorata la situazione in Angola, Liberia, e Togo, mentre è peggiorata in Eritrea e

Madagascar.

Un dato interessante che riporta soltanto la fondazione è la media per area geografica africana che

assegna il seguente punteggio: Africa del Sud in posizione migliore con 57 punti, seguita

dall’Africa del Nord con 55 punti e l’Africa Occidentale con 50 punti. Sotto la media continentale,

che è di 49 punti, l’Africa orientale con 45 punti e l’Africa centrale con 38 punti.

L’African Governance Report della United Nations Economic Commission for Africa L'African Governance Report della Commissione Economica per l'Africa delle Nazioni Unite

(UNECA) a differenza delle fonti sulla Governance fin qui esaminate, conferisce un peso molto

minore agli indici internazionali ed alla metodologia statistica, ma si basa soprattutto su survey e

opinioni di esperti africani. Come la Banca Mondiale evita di fornire un ranking aggregato per la

situazione generale di Governance, pur mettendo a confronto di volta in volta i paesi esaminati su

singole voci:

1. Political Governance - Governance politica

2. Economic Governance and Public Financial Management Governance economica e gestione

delle finanze pubbliche

3. Private-Sector Development and Corporate Governance in Africa - Sviluppo del settore

privato e la Corporate Governance in Africa

4. Institutional Checks and Balances - Controlli ed equilibri istituzionali

5. Effectiveness and Accountability of the Executive Efficacia e responsabilità dell’esecutivo

6. Human Rights and the Rule of Law - Diritti umani e Stato di diritto

7. Corruption in Africa – Corruzione in Africa

8. Building Institutional Capacity for Governance Costruire la capacità istituzionale per

migliorare la governance

Questi aspetti della Governance vengono esaminati utilizzando uno strumento analitico qualitativo

composto da tre componenti per ciascun paese: 1.uno studio paese basato sulle opinioni di 70-140

esperti. Questi vengono selezionati in modo tale da assicurare una larga rappresentatività dal punto

di vista della fascia di età, credo religioso ed appartenenza etnica, orientamento politico, status

sociale, genere e istruzione. Il panel così composto rappresenta sia il settore privato che quello

220

Page 221: Storia dell'Africa

pubblico; 2.un survey nazionale basato su nuclei famigliari (da 1300 a 3000 questionari)

rappresentati dai vari settori sociali; 3.un'analisi finale tenendo conto anche di fonti primarie e

secondarie.

Lo scopo di questo sforzo è eminentemente operativo: valutare i progressi e regressi della

Governance in Africa per proporre interventi di policy correttive.

Fino ad ora sono stati pubblicati due rapporti: l'African Governance Report I (AGR I) e l'African

Governance Report II (AGRII) il primo nel 2005 su 27 paesi africani ed il secondo su trentacinque

paesi nel 2009. E' intenzione dell'UNECA di continuare il monitoraggio pubblicando un rapporto

ogni due anni.

Rispetto alle analisi esaminate precedentemente l'UNECA arriva a conclusioni leggermente più

positive rilevando un leggero miglioramento della Governance in Africa. . L'indice aggregato per

tutti gli indicatori ha mostrato un modesto progresso del 2% rispetto alle rilevazioni del 2005. Gli

indicatori principali per il livello di rappresentanza politica e dell'indipendenza della società civile

non ha segnato nessun progresso, mentre un leggero miglioramento è stato riscontrato per quanto

riguarda i media e la libertà di stampa. Ugualmente qualche lieve progresso è stato osservato nel

campo del rispetto dei diritti umani, dello stato di diritto, della capacità istituzionale dell'esecutivo e

del potere giudiziario. Più pronunciate sono state le performance nell'area economica, come ad

esempio la capacità regolatoria in campo economico e fiscale. Piuttosto negativo è il trend in

materia di corruzione.

Riflessioni

La Governance in un paese è la capacità di un sistema di darsi delle regole condivise che producano

buone politiche economiche, responsabilità delle classi dirigenti, lotta alla corruzione per consentire

un sistema di correttezza nella competizione tra aziende ed individui che premi i migliori, e che al

contempo assicuri stabilità politica e rispetto della legge. Generalmente questo insieme di

caratteristiche si associano ad un regime democratico liberale, che assicura meglio di altri sistemi,

una distribuzione del reddito non troppo iniqua e una forte rappresentanza popolare. Nelle

democrazie occidentali queste caratteristiche si sono affermate in un lungo processo storico durato

secoli e sono profondamente radicate nei paesi nordici europei ed in quelli anglo-sassoni. E’

evidente che la constatazione da parte dei paesi donatori, avvenuta intorno agli anni ‘90 che la

governance potesse essere l’anello mancante alle teorie di sviluppo per determinare un processo di

crescita anche nei paesi in via di sviluppo o in quelli poveri, non poteva avere effetti immediati e

miracolosi. Anche perché i principi e le regole della governance, difficilmente possono essere

trapiantati in tempi brevi, in paesi come quelli africani dove, ad esempio, fino a poco tempo fa, il

221

Page 222: Storia dell'Africa

diritto di proprietà della terra era sconosciuto o dove i poteri tribali sono molto forti. Una parte

significativa di leader e di tecnocrati africani, alcuni di essi educati nelle migliori università

occidentali, hanno abbracciato con entusiasmo l’idea che la buona governance sia un fattore chiave

dello sviluppo sostenibile. Tale processo di diffusione in Africa dei principi e delle regole della

governance è stato relativamente rapido come testimoniano i contenuti di molte intese africane dal

NEPAD alle varie dichiarazioni in ambito Unione Africana. Ancor più significativo è stato l’avvio

di intese operative come l’African Peer Review Mechanism (APRM) che attraverso un meccanismo

di controllo tra pari, vale a dire tra governi africani, si cerca di incentivare il rispetto delle regole ed

i principi della good governance, senza interferenze delle democrazie occidentali.

L’esame dei principali strumenti internazionali ed africani di monitoraggio della governance in

Africa, induce a tre ordini di considerazioni:

1. le condizioni di partenza e le tradizioni del continente non sono molto incoraggianti;

2.l’analisi dinamica degli ultimi 10 anni mostra miglioramenti lenti e talvolta un andamento

non lineare, con brusche cadute di alcuni paesi, ma con grandi progressi di altri. Alcuni di

questi progressi sono poi particolarmente significativi, come è il caso del Rwanda che è

stato giudicato recentemente il paese che ha mostrato un tasso di riforme delle

regolamentazioni per il settore privato tra i migliori del mondo;

3.se il panorama generale mostra, accanto a situazioni fortemente degenerate, indicatori in

linea con la media mondiale a parità di reddito pro-capite, alcuni paesi africani, come

Mauritius, il Botswana, Capo Verde o lo stesso Sud Africa possono già vantare indicatori in

materia di governance talvolta migliori dei paesi avanzati con reddito pro-capite nettamente

superiore.

Queste considerazioni ci portano a concludere che dopo soltanto 10 anni che le leadership africane

hanno abbracciato il paradigma della buona governance, i risultati, se non entusiasmanti, possono

essere considerati incoraggianti. Anche perché il progresso in questo campo è necessariamente

lungo e lento, in considerazione delle molteplici variabili sociali che esso necessariamente implica.

La posizione critica espressa dai cinesi, supportata da alcune autocrazie africane, che la governance

ed in particolar modo le sue implicazioni politiche a favore della democrazia e del rispetto dei diritti

umani, sono una forma di interferenza negli affari africani, non sembra veritiera, ma piuttosto

strumentale. Ormai sono infatti molti i governi africani che anche in nome della ownwership stanno

lavorando seriamente per produrre cambiamenti sostanziali per i loro paesi.

222

Page 223: Storia dell'Africa

LEZIONE N. 47-48“A QUANDO UNA ‘PRIMAVERA AFRICANA?’ ”

La ventata di cambiamento che si è verificata in Nord Africa all’inizio del 2011, le rivolte promosse

dal basso che hanno fatto deviare -più o meno pacificamente- il percorso stabilito dai regimi al

potere in Egitto e Tunisia e che invece con la violenza hanno sovvertito il regime libico, inducono a

chiedersi se sia possibile “trasportare” tali esperienze anche nella vasta area a sud del Sahara. E’

lecito ipotizzare una “primavera africana” anche nella regione a Sud del Sahara? Ci sono le

condizioni adatte?In quali paesi? Quanti anni sono necessari per un cambiamento di sistema? C’è

un elemento particolare per riprodurre l’“effetto della Primavera Araba”?

Prima di tutto è importante dire che al di sotto della fascia sahariana mancano dei fattori strutturali

essenziali per un cambiamento di potere e c’è di fatto qualcosa che lo ostacola. In primis non c’è un

alto tasso di alfabetizzazione delle classi giovanili, come invece accade nella regione settentrionale

del continente; non c’è, o è comunque limitato, l’accesso ad internet; non c’è, o è comunque in

nuce, una classe media sviluppata. Se tutto ciò è assente, c’è invece un alto numero di etnie-

ammesso che tale termine possa continuare ad usarsi, cosa invece negata dall’antropologia

moderna- che detta le regole del gioco politico nazionale.

Le folle che hanno animato le proteste di Tunisi e del Cairo erano composte da studenti e

universitari che richiedevano un lavoro o comunque un cambiamento delle regole nel mondo

lavorativo; da giovani donne che rivendicavano un ruolo differente nella società. I diversi gruppi

reclamavano la libertà di scegliere rappresentanti nazionali, al di fuori di liste blindate in cui c’èra

-solo apparentemente - una pluralità di formazioni ma in cui -di fatto- un partito unico dominava la

scena politica.

Questi ragazzi erano padroni dei mezzi informatici e utilizzavano twitter e facebook per

organizzare i loro incontri e raduni di piazza, dimostrandosi padroni delle tecnologie dell’era

globale.

A gennaio-febbraio nelle piazze e strade di Tunisia ed Egitto sono scesi commercianti o titolari di

imprese familiari che denunciavano le difficoltà legate al loro quotidiano, si sono dati fuoco in

preda alla disperazione per non poter continuare la propria attività.

In tal senso si può ricordare che uno dei primi segnali che ha innescato la rivolta contro il regime di

Ben Ali è stato quello di Mohammed Bouazizi, il 26enne che il 17 dicembre 2010 si è dato fuoco a

Sidi Bouzid. Il suo gesto è esemplare perché con un atto estremo questo venditore ambulante ha

espresso l’inquietudine e la rabbia di tutta una generazione di maghrebini. Da qui è partito il via alle

rivolte decisive di gennaio che hanno portato alla fuoriuscita di Ben Ali dal contesto locale. E’ la

fascia di età compresa tra i 20 ed i 30 anni, quella che si confronta con una situazione economica

223

Page 224: Storia dell'Africa

disastrosa, con una disoccupazione crescente (ufficialmente in Tunisia si parla di un tasso di

disoccupazione pari al 14%, con valori più alti al di fuori della capitale e delle aree turistiche) e con

il carovita sempre più pressante.

Nei paesi del Sud del Sahara c’è un fattore da non sottovalutare: la presenza di centinaia di gruppi

etnici, non presenti nella fascia nordafricana (nel caso libico si parla di tribù ma è un caso a parte

che si è rivelato determinante nella rivolta contro il regime del Colonnello Gheddafi e che

rappresenterà una vera e propria sfida per la ricostruzione del paese).

Tali fattori (assenza nell’area sub-sahariana di un alto tasso di alfabetizzazione, assenza di un

diffuso accesso ad internet, mancanza di una classe media sviluppata, presenza di un numero

eccessivo di etnie) sono elementi che rendono difficile realizzare nel breve periodo “una primavera

africana”.

Qui, pur essendoci una grande voglia di cambiamento e stanchezza per i regimi che sono stati

ancorati al potere nelle ultime 2-3 decadi, le forze di opposizione non sanno contrapporsi in modo

compatto al partito dominante. La forte tensione cede il posto alla rassegnazione, le marce per

richiedere un cambio pacifico vengono fermate con la forza da una polizia centrale che non esita ad

utilizzare maniere forti (bastoni e manganelli, gas lacrimogeni) in piazza ed a servirsi di metodi

violenti in carcere nei confronti dei manifestanti arrestati.

Ci sono stati comunque segnali interessanti tra febbraio e luglio 2011, in particolare in Benin,

Burkina Faso, Senegal, Cameroun, Uganda e Malawi.

In Benin si sono svolte delle manifestazioni a Cotonou per protestare contro le modalità in cui era

stata gestita la fase prima del voto presidenziale (le consultazioni si sarebbero dovute svolgere il 27

febbraio, sono state rinviate una prima volta al 6 marzo ed infine si sono tenute il 13 marzo).

L’opposizione ha contestato la vittoria di Boni Yayi che avrebbe ottenuto il 53,13% delle preferenze

ma nulla è riuscita a fare per dimostrare le irregolarità del voto. Nulla hanno potuto fare anche le

formazioni minori nelle elezioni legislative del 30 aprile, ottenendo solo 30 dei 83 seggi del

Parlamento nazionale.

Più delicato è stato il caso del Burkina Faso. Il 20 febbraio è morto a Koudougou il giovane

studente Justin Zongo in seguito alle percosse in un commissariato locale. Le motivazioni di quanto

accaduto sono rimaste poco chiare. I giovani hanno manifestato in alcune città di provincia

(Koudougou, Poa, Koupéla, Ouahigouya, Pouytenga); si sono chiuse scuole e università; diversi

attivisti sono stati fermati dalle forze dell’ordine. Chrysogone Zougmoré, présidente del

Mouvement Burkinabe des Droits de l'Homme et des Peuples (organizzazione non governativa per

la tutela dei diritti dell’uomo) è stato chiamato a testimoniare il 10 marzo in una gendarmeria della

capitale perché ritenuto responsabile di aver incoraggiato le manifestazioni

224

Page 225: Storia dell'Africa

Il 14 aprile è stato poi il turno dei militari che si sono ammutinati nella capitale Ouagadougou e

sono usciti dalle caserme nell’est del Paese esprimendo la loro insoddisfazione nei confronti del

Presidente Blaise Compaoré e del trattamento riservato loro. Questa, secondo la stampa locale, è

stata una delle crisi più gravi registrate dall’avvento al potere di Compaoré (1987).

Nel caso del Senegal, la protesta nelle strade di Dakar si è fatta sentire il 23 ed il 27 giugno scorsi.

La popolazione ha espresso il suo malcontento nei confronti di un progetto di legge elettorale che

nelle consultazioni del febbraio 2012 agevolerebbe il Presidente Abdoulaye Wade ed il suo

entourage (in particolare il figlio Karim Wade, considerato il “delfino” pronto per l’incarico di vice

Presidenza) e per la mancata erogazione di energia elettrica per oltre 72 ore. Partiti

dell’opposizione, associazioni della società civile e gruppi di giovani hanno denunciato la deriva del

potere e sono riusciti a far ritirare almeno momentaneamente il progetto. La nascita del “ Movimento

23 giugno” ha rappresentato il punto più alto della protesta. La disponibilità al dialogo mostrata dal

Presidente in carica nei primi giorni di luglio, dopo il discorso ufficiale del 14 luglio è stata

giudicata piuttosto una sfida nei confronti dell’opposizione e di quanti intendono manifestare il loro

malessere. Wade ha dimostrato di porsi al di sopra delle istituzioni, di avere la massima fiducia in se

stesso e nella sua vittoria il prossimo anno. I temi più caldi -quali la disoccupazione, il rialzo dei

prezzi dei generi alimentari, i problemi di energia - non sono stati affrontati in modo appropriato. La

promessa di creare un “Alto consiglio per l’impiego e la formazione” non ha placato gli animi e non

ha soddisfatto i bisogni urgenti del popolo.

E’ evidente che nei tre casi suddetti – Benin, Burkina Faso e Senegal- non c’è stata una pressione di

movimenti radicali islamici a coadiuvare le proteste, però di esse deve essere compreso il senso

profondo, il malessere che attraversa l’Africa nelle sue varie regioni, da Nord a Sud.

Spostandoci dall’area occidentale verso altre regioni, è interessante considerare i casi di Cameroun,

Uganda e Malawi.

Nel caso del Cameroun, negli ultimi mesi si è assistito ad un tentativo di contestazione dal basso,

represso velocemente-e facilmente- dal potere centrale. Lo scorso febbraio l’opposizione ed alcune

organizzazioni non governative hanno organizzato una manifestazione a Douala contro il Presidente

Paul Biya (al potere da 29 anni), in occasione della commemorazione della rivolta del febbraio

2008. Ciò ha provocato subito l’intervento della Polizia e l’arresto di alcune decine di manifestanti.

Anche i tentativi di denuncia delle elezioni presidenziali (9 ottobre 2011) fatti dall’opposizione non

hanno avuto esito positivo: il voto -seppur fatto in un ambiente caotico, in cui sono state riscontrate

numerose irregolarità -ha riconfermato Paul Biya alla guida del Paese per un ennesimo mandato.

Nel caso dell’Uganda, lo scorso aprile sono state represse in diverse occasioni le manifestazioni

battezzate “walk to work”, guidate da due leader dell’opposizione Kizza Besigye (del Forum for

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Page 226: Storia dell'Africa

Democratic Change) e da Norbert Mao (del Democratic Party). Centinaia di persone che erano

scese in piazza per protestare contro l’aumento del costo della vita e dei beni di prima necessità

sono state disperse dalla Polizia con la forza o sono state incarcerate, con l’accusa di aver turbato

l’ordine pubblico. Il Presidente Yoweri Museveni (riconfermato al potere lo scorso febbraio 2011,

grazie ad elezioni truccate o comunque ritenute “poco trasparenti” dagli osservatori elettorali e

dall’opposizione) non ha esitato ad utilizzare le maniere forti per mettere a tacere il malcontento

popolare.

Per quanto attiene le proteste del 20-21 luglio 2011 a Blantyre e Mzuzu, che hanno indotto taluni

osservatori a parlare di una versione nazionale della “primavera araba”, esse non sono state il frutto

di istanze radicali bensì l’espressione di un malcontento generale nei confronti del Presidente Bingu

Wa Mutharika (al potere dal 2004), della politica economica del suo governo, del deterioramento

delle condizioni di vita e della crescente repressione interna.

Le manifestazioni sono state represse violentemente dalle forze dell’ordine (ci sono stati 250 arresti,

44 feriti e 18 vittime ), autorizzate dal Capo dello Stato a “utilizzare qualsiasi misura per reprimere

i dimostranti”.

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