splendori e miserie di un artista del fútbol festa selvaggia · 2017-05-04 · menotti preferisce...

8
Periodico livornese indipendente - Anno XII n. 126 - Maggio 2017 - OFFERTA LIBERA (stampare questo giornale costa 0,66 €) Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70% Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it Solo uno choc NIQUE LA POLICE T roppo spesso e troppo a lungo in politica ci si è affidati alla speranza dello choc salvifico. Un qualcosa che, magari avvenuto al di fuori dei nostri confini, si mostra così forte da essere in grado di terremotare una situazione stagnante frenando l’impoverimento culturale e materiale della società itali- ana. Negli ultimi decenni, fatte salve la sincronia temporale tra il ‘68 italiano ed europeo e quella del movimento noglobal, difficilmente lo choc esterno si è rivelato salvifico a sinistra. Anche perché l’Italia è, politicamente parlan- do, un laboratorio dotato di una sua propria originalità, si pensi a Berlusconi e Grillo, e più che di choc esterni questo paese ha mostrato di avere bisogno di idee praticabili all’interno. La difficoltà italiana di replicare movimenti come Podemos o Syriza, nella stessa scala in cui si erano implementati nel loro paese, mostra anche i caratteri dell’orig- inalità politica locale. A differenza dell’Europa core dove, fatte salve le spec- ificità locali e i differenti sistemi politici, tra SPD tedesca, socialisti francesi, La- bour e socialisti spagnoli, ad esempio, vi erano significativi tratti di somiglianza e quindi possibilità di socializzare le in- novazioni. Oppure guardando agli altri schieramenti, tra Dc tedesca, popolari spagnoli e gollisti il processo di omo- geneizzazione, grazie anche allo stes- so fattore di livellamento della sinistra europea ovvero quello bancario-finan- ziario, ha avuto significativi tratti alme- no fino alla crisi dei nostri anni. Insom- ma, l’Italia ha avuto, anche per riflesso del suo passato, dei tratti di originalità, di specificità rispetto agli choc politici del mondo globale. Oggi però questi tratti sono, soprattutto, caratterizzati, in tutti gli schieramenti non solo istituz- ionali, dalla mancanza di innovazione, di strategia e dall’incapacità di avere un profilo di società adatto ai cambiamen- ti che ci attendono. Verrebbe davvero da dire che questo paese ha bisogno di un forte choc esterno per reagire, per trovare una direzione di cambiamento altrimenti negata. Visto che, nella stag- nazione, si sta davvero decomponen- do. Certo, nel caso, ci sarebbe solo da scegliere. Choc da tassi di interesse in crescita, da crisi della valutazione del debito italiano, da bassa crescita, da austerità europea, da Brexit, da bolla ci- nese, da declino demografico, da guer- ra alle porte, da migrazioni, da bolla americana di qualche settore a rischio dal 2008? Ci sarebbe solo da scegliere, se le ipotesi del prossimo futuro fosse- ro prodotti del supermercato. Il punto è che ognuna di queste crisi avrebbe le potenzialità per far capire a questo paese, se avesse gli strumenti cognitivi giusti al momento giusto, che deve cambiare completamente asse. Fanta- politica? Gli choc esterni rischiano di esserci, la capacità di cambiare rischia di non esserci. Questa è la realtà con la quale bisogna fare i conti. Per cambiare sul serio. FRANCO MARINO C on l’arrivo della primavera e delle festività di Pasqua, Pa- squetta, 25 aprile e 1 maggio si riapre ogni anno il dibattito sulle aperture festive di supermercati e ipermercati. Ma col passare degli anni, al di là di polemiche ed in- teressi divergenti fra quei sogget- ti chiamati imprese, lavoratori e consumatori, esistono dati e ana- lisi che mettono dei paletti fissi su cui costruire un ragionamento? Sì. C’è un primo dato oggettivo: la grande distribuzione organizzata (Gdo), da quando il settore è stato liberalizzato, non sta aumentando la produttività tanto che il 2016 si è chiuso con un calo dello 0,6% in termini di consumi. Lo ha det- to Marco Moretti, presidente del Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali, sul Sole24Ore dello scorso 13 aprile dove ha fatto an- che un quadro quantitativo del set- tore Centri Commerciali: 360mila dipendenti diretti, 35mila negozi, 51 miliardi di fatturato e 1,8 mi- liardi di visitatori ogni anno. La liberalizzazione del 2012 e l’Europa. Oggi in Italia un nego- zio può restare aperto quanto e quando vuole, senza limiti legati ai prodotti venduti come avviene invece in altri paesi europei. Que- sta possibilità è stata introdotta dal decreto “Salva Italia” promosso dal governo di Mario Monti alla fine del 2011 ed entrato in vigore nel 2012, permettendo a negozi e supermercati di restare aperti 24 ore al giorno e tutti i giorni della settimana, domenica compresa, pagando i lavoratori quanto previ- sto dalla legge per il lavoro nottur- no e festivo (di solito il 30% in più della paga ordinaria). E nel resto d’Europa? A differenza di ciò che dicono i sostenitori del consumo h24, negli altri paesi europei, sep- pur la tendenza sia quella a limita- re il meno possibile le aperture nei festivi (come da Raccomandazio- ne del giugno 2014 del Consiglio dell’Unione Europea che chiede l’apertura del mercato e la rimo- zione dei vincoli), ci sono norme più stringenti. Intanto vediamo la normativa Ue: l’unico vincolo, contenuto nella direttiva europea sull’orario di lavoro (2003/88/ EC), è quello di concedere al di- pendente un giorno di riposo dopo sei di impiego, che però non ne- cessariamente deve cadere in un festivo. In Germania sono i Land che decidono il numero di giorni di apertura nei festivi. Ci sono però deroghe in cui è possibile l’apertu- ra illimitata specialmente in zone turistiche e nella zona di Berlino vicino a stazioni e centri. In Fran- cia non è permessa l’apertura nei festivi ma ci sono molte deroghe per aree metropolitane e posti tu- ristici. Sicuramente però l’apertura nei festivi non può essere sistema- tica ed automatica, infatti Ikea nel 2008 ha preso quasi mezzo milio- ne di euro di multa dal governo. In Gran Bretagna dal 1994 è con- sentita l’apertura domenicale ai negozi di più di 280 metri quadrati mentre per i festivi come Pasqua e Natale i vincoli sono più serrati an- che se sottoposti a possibili dero- ghe. In Spagna invece vige il limite di una domenica al mese, eccetto a dicembre, ma come negli altri pae- si ci sono molte deroghe a seconda delle località. Insomma in Europa la tendenza è simile alla nostra ma la normativa più stringente e la- scia in mano all’autorità pubblica il potere regolatorio. Intanto giace da 3 anni in Parlamento una leg- ge promossa dai 5 Stelle che pro- pone la limitazione all’apertura di 6 festivi su 12 ogni anno. Il dibattito politico. Fatto questo quadro normativo possiamo passa- re al dibattito più propriamente po- litico ed economico. Dai dati che emergono una cosa è certa: l’aper- tura indiscriminata non aiuta né i consumi né il lavoro. Fino ad oggi ha promosso una competizione selvaggia mirata soprattutto all’e- liminazione dell’avversario che però non ha aumentato i fatturati ma sottoposto a ulteriore pressio- ne sia il management che i lavo- ratori, scontentando tutti. Senza considerare che la competizione sfrenata sta avendo effetti anco- ra più devastanti sui fornitori, a partire dai produttori agricoli ma allargandosi anche all’industria alimentare ormai in balìa delle strategie commerciali della grande distribuzione. Visto che i consumi interni non crescono per la crisi economica e per le politiche di au- sterità, non rimane che grattare il fondo del barile del proprio com- petitore per sopravvivere rimanen- do aperto più a lungo. Ma si tratta di una visione disperata che nella liberalizzazione selvaggia lascia feriti sul campo. Basterebbe mette- re regole uguali per tutti in modo tale da razionalizzare la competi- zione evitando comportamenti ir- razionali. L’ultimo esempio è sta- to Carrefour che ha provato con le aperture notturne a frenare l’e- morragia delle perdite ma alla fine ha dichiarato 500 esuberi pochi... (continua a pagina 3) Festa selvaggia Le consuete polemiche sulle aperture festive dei centri commerciali portano con sé la fotografia di un settore dove impera la competizione selvaggia dal 2012 (decreti Monti) ma dove gli effetti delle aperture 24h e 7/7 su ricavi, lavoro e fornitori non sono affatto positivi. Dagli altri paesi europei fino alla nostra città il quadro appare chiaro e necessita di un cambiamento.

Upload: others

Post on 01-Jun-2020

3 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

Page 1: Splendori e miserie di un artista del fútbol Festa selvaggia · 2017-05-04 · Menotti preferisce un Houseman ubriaco piuttosto che un qualsiasi rincalzo sobrio. El Hueso corre poco

Periodico livornese indipendente - Anno XII n. 126 - Maggio 2017 - OFFERTA LIBERA (stampare questo giornale costa 0,66 €)Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70%

Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it

Pagina OttoAnno XII - n. 126 - Maggio 2017

CALCIO - Genio e sregolatezza dentro e fuori dal campo, l’argentino René Houseman può essere considerato a giusto titolo una delle ali destre che hanno fatto la storia del calcio

TITO SOMMARTINO

Era un’ala destra pura, non a caso sulla schiena portava

il numero 7. Era genio e srego-latezza. In campo faceva im-pazzire tutti con i suoi dribbling secchi (da qui uno dei suoi tanti soprannomi, Gambeta) e la capa-cità di sfornare assist e segnare con grande regolarità. Fuori dal campo amava alzare il gomito e se l’alcool ne ha minato la salu-te, l’ossessione per la bella vita gli ha svuotato il conto in banca. Per molti, in patria, era il… migliore. Ma non stiamo parlando di Geor-ge Best, bensì di colui che qualcu-no ha definito il talento argentino più puro dopo il dio del calcio.René Houseman, nome francese e cognome anglofono, nasce a La Banda, nella provincia interna di Santiago del Éstero. Con i geni-tori si trasferisce da bambino a Bajo Belgrano, una delle periferie più povere di Buenos Aires. Una vita subito in salita per lui che da piccolo era soprannominato Cer-do (maiale) perché non aveva ac-qua corrente per lavarsi. “Quan-do sembrava che potesse piovere portavo con me una saponetta”, raccontò in un’intervista”. Già da giovanissimo è costretto ad abbandonare la scuola per dare una mano alla famiglia ma l’e-vidente e smisurato talento che Houseman mostra col pallone tra i piedi sulle strade e sui campetti di periferia non passa inosserva-to. I primi ad accorgersene sono i dirigenti di una delle due squadre del barrio. Non quelli dell’Excur-sionistas, di cui è acceso tifoso, bensì degli acerrimi rivali del De-fensores de Belgrano. La carrieraIn due anni brucia tutte le tappe: passa in pochi mesi dalle giovani-li alla prima squadra, in seconda serie, e dopo 16 gol e altrettanti assist in 38 partite viene chiamato all’Huracán da un giovanissimo allenatore dall’occhio lungo che scriverà la storia del calcio argen-tino, César Luís Menotti. Che il giorno del suo debutto in Prime-ra dirà di lui: “Questo ragazzino smilzo e allampanato che avete visto oggi, diventerà la stella del calcio argentino”.Appena un anno più tardi sarà l’u-nico (insieme al suo compagno di club Carrascosa) a salvarsi nella deludente esperienza ai Mondia-li tedeschi. 3 gol in 6 partite non saranno sufficienti alla Seleción albiceleste, partita tra le favoritissi-me, a superare la seconda fase del torneo. Quattro anni più tardi, al contrario, sebbene sulla panchi-na sedesse proprio El Flaco, nel vittorioso (e tristemente famoso) mondiale argentino Houseman fa solo da comprimario. È di fatto il dodicesimo uomo e viene manda-to in campo a 15-20 minuti dalla fine per cambiare la gara o aprire in due le ormai stanche difese av-versarie.L’alcolAd una lettura più approfondita, il suo ruolo di comprimario di lusso ai Mondiali del ’78 è invece indicativo dell’assoluta grandez-

za del calciatore. Houseman era alcolizzato ormai da anni e la sua dipendenza lo aveva portato più volte a saltare allenamenti o arri-vare ubriaco alla partita. È passata alla storia quella contro il River Plate del 22 giugno 1975 quando El Hueso Houseman si presentò ne-gli spogliatoi del Huracán in con-dizioni pietose dopo le celebrazio-ni del primo compleanno di suo figlio. Dopo molte docce fredde e svariati caffè, Houseman scen-de in campo da titolare. Menotti preferisce un Houseman ubriaco piuttosto che un qualsiasi rincalzo sobrio. El Hueso corre poco e male ma al 40° segna un gol meraviglio-so. Si lancia in profondità superan-do in velocità i due centrali del Ri-ver, scarta il portiere della nazio-nale Fillol e insacca. Dopo di che si accascia a terra simulando un infortunio. “Non ne potevo più”, rivelò a carriera finita. “Bramavo solo di rientrare a casa e mettermi sotto le coperte”. I tifosi salutaro-no la sua uscita dal campo cantan-do un coro che lo avrebbe accom-pagnato per tutta la sua carriera: “Y chupe, chupe, chupe… no deje de chupar… el Loco es lo más grande del fútbol nacional!” (“Che beva, beva, beva, non smetta mai di bere, il Loco è il più grande del calcio nazionale”).Il suo talento cristallino vedrà la luce del tramonto ben prima di quando sarebbe scoccata l’ora del suo naturale declino. Anche il suo portafogli cominciò presto a svuo-tarsi. L’ossessione per la bella vita porta i suoi amici e i tifosi dell’Hu-racán, per i quali resta un idolo as-soluto, ad organizzare nell’anno 2000 una partita di beneficenza tra vecchie glorie del suo amato club e

rivelato che quando Perón morì, durante il Mondiale di Germania ’74, pensò seriamente di abbando-nare il ritiro per tornare in Argen-tina e presenziare ai funerali. “Fu il líder máximo di tutti gli argentini. Non come quel figlio di puttana di Videla”.Bandiera e banderuolaMa Houseman è anche un per-sonaggio ambiguo e controverso, tanto che molti adesso lo chia-mano “il voltagabbana”. Colpa dell’alcol, secondo alcuni. Fino a 15 anni fa non faceva mistero di idolatrare Maradona e odia-re Passarella. “Maradona? Il più grande di sempre”, diceva. “Solo Messi si avvicina a lui ma a Leo gli manca qualcosa per arrivare al suo livello”. Poi bastò che Mara-dona parlasse male di Riquelme perché cambiasse diametralmen-te pensiero: “Maradona è un cic-cione infame che odia tutti. Ama solo se stesso. Dice che ci sono dei codici di comportamento che devono essere rispettati? È peggio degli sbirri. Che torni in Arabia a rubare soldi e non metta più pie-de qua”. E poi: “Messi è molto meglio di Maradona, ma anche Cruyff e Pelé lo sono”. Marado-na gli rispose in un’intervista tv senza proferire parola ma facendo il segno della croce con l’indice e il medio della mano.Di Daniel Passarella, capitano e leader incontrastato dell’Argenti-na ’78, ha collezionato le seguenti dichiarazioni: “Non capisce nien-te di calcio”, “È un coglione”, “Quando giocava era un perso-naggio disgustoso”, “Uno spac-ca-spogliatoio”, “Un bastardo”. “Quando ebbi bisogno mi voltò le

una selezione di stelle nazionali in cui gli vengono donati i proventi dell’intero incasso.Fuori dal campoHouseman non ha mai fatto mi-stero di considerarsi un uomo di sinistra seppur non sia mai stato attivista di movimenti, associa-zioni o partiti politici. Quando gli hanno chiesto perché avesse accet-tato la convocazione al Mondiale del ’78 ha risposto che se avesse saputo cosa stava accadendo nel Paese avrebbe rifiutato la convo-cazione. Jorge El Lobo Carrascosa, capitano della nazionale albiceleste e dell’Huracán, quindi suo com-pagno di squadra, la convocazione però la rifiutò proprio per moti-vi politici. Per l’anniversario dei trent’anni del Mundial fu però uno dei pochissimi calciatori di quell’Argentina a partecipare alla marcia organizzata da Las madres de Plaza de Mayo. Una breve cam-minata che dalla famigerata Esma arrivò fino allo stadio Monumen-tal che intendeva riabilitare i gio-catori e perdonarli per aver accet-tato la convocazione. In un’intervista a El Gráfico del 2002, quando l’Argentina era in piena crisi economica, giustifi-cò l’ondata di espropri proletari che colpirono le grandi catene commerciali. “Cosa volete, che la gente muoia di fame? Se non avessi sfondato col calcio e avessi avuto bisogno li avrei saccheggiati anch’io i grandi magazzini”. Ma non ha mai partecipato ad alcun cacerolazo. “Condivido – disse un giorno - ma mi vergogno a scende-re in piazza con un mestolo e un tegame”.Peronista convinto, El Hueso ha

spalle: gli chiesi un piccolo aiuto economico per seppellire mia ma-dre e si rifiutò”. Solo pochi anni più tardi la riconciliazione: “Pas-sarella? È il numero uno. Come persona e come un calciatore. Mi ero arrabbiato per quella storia del funerale di mia madre ma Da-niel mi rispose così perché il suo River aveva appena perso in casa col Newell’s ed era comprensibil-mente arrabbiato. Un giorno noi campioni del mondo del ’78 ci siamo ritrovati nel ristorante che Passarella aveva con Gallego. Mi si avvicinò per parlarmi e io nel dubbio avevo già afferrato il col-tello. Ma si scusò subito”.Ma facciamo un passo indietro, l’ultimo. Houseman conclu-de la sua carriera con la maglia dell’Excursionistas, la squadra che amava sin da bambino. In re-altà la sua carriera El Hueso l’ave-va chiusa da tempo. Appesantito e già alcolizzato, con i Villeros gio-ca appena 24 minuti. Un omag-gio per niente dovuto e scontato data la sua militanza nel Defen-sores de Belgrano. I cui tifosi, in-fatti, non la prendono benissimo definendolo, così come si fa con quelli importanti, “persona non grata”. Insomma, un po’ Best, un po’ Garrincha, un po’ Corbatta. Ma non certo un esempio di coeren-za e fedeltà. In due parole, René Houseman.

Splendori e miserie di un artista del fútbol

Solo uno chocNIQUE LA POLICE

Troppo spesso e troppo a lungo in politica ci si è affidati alla speranza

dello choc salvifico. Un qualcosa che, magari avvenuto al di fuori dei nostri confini, si mostra così forte da essere in grado di terremotare una situazione stagnante frenando l’impoverimento culturale e materiale della società itali-ana. Negli ultimi decenni, fatte salve la sincronia temporale tra il ‘68 italiano ed europeo e quella del movimento noglobal, difficilmente lo choc esterno si è rivelato salvifico a sinistra. Anche perché l’Italia è, politicamente parlan-do, un laboratorio dotato di una sua propria originalità, si pensi a Berlusconi e Grillo, e più che di choc esterni questo paese ha mostrato di avere bisogno di idee praticabili all’interno. La difficoltà italiana di replicare movimenti come Podemos o Syriza, nella stessa scala in cui si erano implementati nel loro paese, mostra anche i caratteri dell’orig-inalità politica locale. A differenza dell’Europa core dove, fatte salve le spec-ificità locali e i differenti sistemi politici, tra SPD tedesca, socialisti francesi, La-bour e socialisti spagnoli, ad esempio, vi erano significativi tratti di somiglianza e quindi possibilità di socializzare le in-novazioni. Oppure guardando agli altri schieramenti, tra Dc tedesca, popolari spagnoli e gollisti il processo di omo-geneizzazione, grazie anche allo stes-so fattore di livellamento della sinistra europea ovvero quello bancario-finan-ziario, ha avuto significativi tratti alme-no fino alla crisi dei nostri anni. Insom-ma, l’Italia ha avuto, anche per riflesso del suo passato, dei tratti di originalità, di specificità rispetto agli choc politici del mondo globale. Oggi però questi tratti sono, soprattutto, caratterizzati, in tutti gli schieramenti non solo istituz-ionali, dalla mancanza di innovazione, di strategia e dall’incapacità di avere un profilo di società adatto ai cambiamen-ti che ci attendono. Verrebbe davvero da dire che questo paese ha bisogno di un forte choc esterno per reagire, per trovare una direzione di cambiamento altrimenti negata. Visto che, nella stag-nazione, si sta davvero decomponen-do. Certo, nel caso, ci sarebbe solo da scegliere. Choc da tassi di interesse in crescita, da crisi della valutazione del debito italiano, da bassa crescita, da austerità europea, da Brexit, da bolla ci-nese, da declino demografico, da guer-ra alle porte, da migrazioni, da bolla americana di qualche settore a rischio dal 2008? Ci sarebbe solo da scegliere, se le ipotesi del prossimo futuro fosse-ro prodotti del supermercato. Il punto è che ognuna di queste crisi avrebbe le potenzialità per far capire a questo paese, se avesse gli strumenti cognitivi giusti al momento giusto, che deve cambiare completamente asse. Fanta-politica? Gli choc esterni rischiano di esserci, la capacità di cambiare rischia di non esserci. Questa è la realtà con la quale bisogna fare i conti. Per cambiare sul serio.

FRANCO MARINO

Con l’arrivo della primavera e delle festività di Pasqua, Pa-

squetta, 25 aprile e 1 maggio si riapre ogni anno il dibattito sulle aperture festive di supermercati e ipermercati. Ma col passare degli anni, al di là di polemiche ed in-teressi divergenti fra quei sogget-ti chiamati imprese, lavoratori e consumatori, esistono dati e ana-lisi che mettono dei paletti fissi su cui costruire un ragionamento? Sì. C’è un primo dato oggettivo: la grande distribuzione organizzata (Gdo), da quando il settore è stato liberalizzato, non sta aumentando la produttività tanto che il 2016 si è chiuso con un calo dello 0,6% in termini di consumi. Lo ha det-to Marco Moretti, presidente del Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali, sul Sole24Ore dello scorso 13 aprile dove ha fatto an-che un quadro quantitativo del set-tore Centri Commerciali: 360mila dipendenti diretti, 35mila negozi, 51 miliardi di fatturato e 1,8 mi-liardi di visitatori ogni anno. La liberalizzazione del 2012 e l’Europa. Oggi in Italia un nego-zio può restare aperto quanto e quando vuole, senza limiti legati ai prodotti venduti come avviene

invece in altri paesi europei. Que-sta possibilità è stata introdotta dal decreto “Salva Italia” promosso dal governo di Mario Monti alla fine del 2011 ed entrato in vigore nel 2012, permettendo a negozi e supermercati di restare aperti 24 ore al giorno e tutti i giorni della settimana, domenica compresa, pagando i lavoratori quanto previ-sto dalla legge per il lavoro nottur-no e festivo (di solito il 30% in più della paga ordinaria). E nel resto d’Europa? A differenza di ciò che dicono i sostenitori del consumo h24, negli altri paesi europei, sep-pur la tendenza sia quella a limita-re il meno possibile le aperture nei festivi (come da Raccomandazio-ne del giugno 2014 del Consiglio dell’Unione Europea che chiede l’apertura del mercato e la rimo-zione dei vincoli), ci sono norme più stringenti. Intanto vediamo la normativa Ue: l’unico vincolo, contenuto nella direttiva europea sull’orario di lavoro (2003/88/EC), è quello di concedere al di-pendente un giorno di riposo dopo sei di impiego, che però non ne-cessariamente deve cadere in un festivo. In Germania sono i Land che decidono il numero di giorni di apertura nei festivi. Ci sono però deroghe in cui è possibile l’apertu-

ra illimitata specialmente in zone turistiche e nella zona di Berlino vicino a stazioni e centri. In Fran-cia non è permessa l’apertura nei festivi ma ci sono molte deroghe per aree metropolitane e posti tu-ristici. Sicuramente però l’apertura nei festivi non può essere sistema-tica ed automatica, infatti Ikea nel 2008 ha preso quasi mezzo milio-ne di euro di multa dal governo. In Gran Bretagna dal 1994 è con-sentita l’apertura domenicale ai negozi di più di 280 metri quadrati mentre per i festivi come Pasqua e Natale i vincoli sono più serrati an-che se sottoposti a possibili dero-ghe. In Spagna invece vige il limite di una domenica al mese, eccetto a dicembre, ma come negli altri pae-si ci sono molte deroghe a seconda delle località. Insomma in Europa la tendenza è simile alla nostra ma la normativa più stringente e la-scia in mano all’autorità pubblica il potere regolatorio. Intanto giace da 3 anni in Parlamento una leg-ge promossa dai 5 Stelle che pro-pone la limitazione all’apertura di 6 festivi su 12 ogni anno. Il dibattito politico. Fatto questo quadro normativo possiamo passa-re al dibattito più propriamente po-litico ed economico. Dai dati che emergono una cosa è certa: l’aper-

tura indiscriminata non aiuta né i consumi né il lavoro. Fino ad oggi ha promosso una competizione selvaggia mirata soprattutto all’e-liminazione dell’avversario che però non ha aumentato i fatturati ma sottoposto a ulteriore pressio-ne sia il management che i lavo-ratori, scontentando tutti. Senza considerare che la competizione sfrenata sta avendo effetti anco-ra più devastanti sui fornitori, a partire dai produttori agricoli ma allargandosi anche all’industria alimentare ormai in balìa delle strategie commerciali della grande distribuzione. Visto che i consumi interni non crescono per la crisi economica e per le politiche di au-sterità, non rimane che grattare il fondo del barile del proprio com-petitore per sopravvivere rimanen-do aperto più a lungo. Ma si tratta di una visione disperata che nella liberalizzazione selvaggia lascia feriti sul campo. Basterebbe mette-re regole uguali per tutti in modo tale da razionalizzare la competi-zione evitando comportamenti ir-razionali. L’ultimo esempio è sta-to Carrefour che ha provato con le aperture notturne a frenare l’e-morragia delle perdite ma alla fine ha dichiarato 500 esuberi pochi... (continua a pagina 3)

Festa selvaggiaLe consuete polemiche sulle aperture festive dei centri commerciali portano con sé la fotografia di un settore dove impera la competizione selvaggia dal 2012 (decreti Monti) ma dove gli effetti delle aperture 24h e 7/7 su ricavi, lavoro e fornitori non sono affatto positivi. Dagli altri paesi europei fino alla nostra città il quadro appare chiaro e necessita di un cambiamento.

Mensile. Sede: via dei Mulini, 29Direttore Responsabile: Paola Chiellini

Tipografia: SaxoprintRegistrazione del Tribunale di Livorno

n° 5/06 del 02/03/2006

Page 2: Splendori e miserie di un artista del fútbol Festa selvaggia · 2017-05-04 · Menotti preferisce un Houseman ubriaco piuttosto che un qualsiasi rincalzo sobrio. El Hueso corre poco

internazionale Anno XII, n. 126 7stile liberoMaggio 2017

coreano che il suo sostegno non è scontato né incondizionato. Pechino comunque non vedrebbe certo di buon grado un cambio di regime in Corea del Nord che gli farebbe trovare ai suoi confini un governo ostile. E le fanfaronate di Trump non tengono conto del fat-to che dopo anni di esportazioni negli USA i cinesi hanno una tale quantità di riserve in valuta statu-nitense e controllano una percen-tuale cosi rilevante del debito di Washington che nel caso di una grave controversia internazionale potrebbero mettere sul lastrico gli amici di oltreoceano. Una mossa che sarebbe comunque autole-sionistica perché un crollo del dol-laro avrebbe conseguenze gravis-sime anche sull’economia cinese. E la Corea del sud sarebbe dis-posta a fare da bersaglio alle

testate nuclari dei vicini del nord dopo l’eventuale attacco statunitense, prima che il potenziale militare di Pyong-yang venisse com-pletamente azzerato? Questa complessa rete di interdipen-denze lascerebbe pre-

vedere che come in passato anche stavolta il rischio di una guerra aperta sia molto improbabile, ma quante volte a scatenare le guerre sono stati proprio dei pazzi con le loro provocazioni e controprovo-cazioni?

NELLO GRADIRÀ

Al 38° parallelo, a cavallo del confine tra le due Coree,

c’è l’edificio dove ai tempi della guerra negli anni ‘50 si svolsero le trattative di pace. Ogni giorno alla stessa ora alcuni funzionari di organismi internazionali ar-rivano dal lato sud e depongono sul tavolo la documentazione per la firma dell’armistizio. Perché com’è noto la guerra non è mai formalmente terminata e dopo quasi settant’anni siamo ancora in regime di tregua. I nordcoreani ignorano la proposta, che giudi-cano solo propaganda, e il giorno dopo la storia si ripete.L’aneddoto è divertente ma la guerra di Corea non fu uno scherzo. Morirono milioni di per-sone e probabilmente se l’anno precedente l’Unione Sovietica non avesse fatto esplodere la sua prima bomba atomica gli USA avrebbero regolato la questione come avevano fatto con il Giap-pone nel 1945. E le due Coree continuano a vi-vere il clima della guerra fredda. A nord la paranoia dell’invasione ha generato una nefasta combi-nazione tra la dottrina dell’au-tosufficienza (yuche) e quella del “prima l’esercito” per cui le scarse risorse del paese finiscono in buona percentuale nelle spese militari. A sud corruzione e forti disuguaglianze vengono alla luce appena si gratta la superficie del

mito neoliberista della tigre asiatica.In questo quadro gli esperimen-ti nucleari che la Corea del Nord ogni tanto azzarda, sparando mis-sili che il più delle volte fanno cilecca, fanno comodo un po’ a tutti da quelle parti. Servono per riportare l’attenzione dell’opinione pubblica su questa zona del mon-do e ottenere aiuti dai potenti al-leati, Cina e Stati Uniti, che sono i veri protagonisti di questa contesa. Già ai tempi dell’amministrazione Obama gli Stati uniti avevano cerca-to di disimpegnarsi dalla palude me-diorientale per rivolgere l’attenzione all’estremo oriente dove è diventato di importanza vitale contenere la crescente influenza di Pechino ma i loro maggiori alleati nella regione,

Arabia Saudita e Israele, sono riusciti a evitare che si sganciassero del tutto. I primi passi del nuovo presidente usa Donald Trump in politica estera hanno abbondantemente superato la soglia del ridicolo. Prima un lan-cio di missili contro una base siriana semideserta (visto che prima del lancio erano stati avvertiti i russi che sono i migliori alleati del governo di Damasco), e qui da notare anche la gaffe di Trump che ha dichiarato “ho lanciato 56 missili contro l’Iraq”. Dopo che i sondaggi hanno rivelato un pauroso calo di popolarità l’ec-centrico tycoon ha pensato bene di rispolverare un nemico apparente-mente abbordabile e sempre adat-tissimo a ricoprire il ruolo di “stato canaglia” ogni volta che a Wash-

ington ne hanno bisogno. Però c’è stata subito la figuraccia sulla potentissi-ma “Armada” navale che Trump ha detto di aver in-viato nelle acque coreane, salvo poi scoprire che il gruppo di navi a cui faceva riferimento si stavano diri-gendo nella direzione op-posta per partecipare a una manovra congiunta con la Marina australiana.La cosa veramente stupe-facente è quindi leggere sulla stampa ufficiale che tra i due contendenti è il presidente nordcorea-no Kim Jong Un a essere considerato il pazzo del-la situazione. Verrebbe

spontaneo farsi una bella risata e riproporre la vecchia citazione

di Marx secondo cui la storia si ripete due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Da parte sua la Cina recentemente alle Nazioni Unite ha condannato uno dei test nucleari di Pyongyang facendo capire al governo nord-

ESTREMO ORIENTE - Nuovi timori per la crisi internazionale

Corea: ma il pazzo chi è?Kendrik Lamar - To Pimp A But-terfly (2015) In Italia la canzo-ne di protesta vive e sopravvive di anacronismi fuori dalla storia, figlia delle salme ammuffite di Guccini e com-pany o delle rab-biose invettive di qualche punk fuori tempo mas-simo: tutto rispet-tabile ma proba-bilmente inade-guato ai tempi. To Pimp A But-terfly è la canzo-ne di lotta nell’a-merica di oggi, la voce di chi è an-cora oppresso, il sale sulle ferite ri-aperte tra la stra-

da e le istituzioni. E’la voce di Compton che si fa universale. Odd Future - The OF Tape Vol.2 (2012) Negli anni ‘10 il passaggio da fe-nomeno web a mainstream è im-mediato. Ed è surreale vedere come un immaginario malato, da baby gang, ricco di eccessi e riferi-menti triviali riesca a diventare di massa e universalmente accettato. Nel mixtape di Odd Future tutti sono protagonisti ma emergono i fenomeni veri: Tyler, The Crea-tor, col suo immaginario minima-le ed oscuro e Frank Ocean l’au-tore che è riuscito a portare la musica R’n’B e soul nel terzo mil-lennio. Nel parlare di Odd Future è ovvio fermarsi a discutere di omofobia e misoginia: in OFW-GKTA colpisce perchè cruda e esibita, in molta musica indie è sottotraccia. Prima di buttare la croce su ragazzini dei sobborghi americani è opportuno (e neces-sario) uccidere il maschio alfa (o beta, se siamo hipster sensibili) che ci portiamo dietro da sempre. Tommy Genesis - World Vision (2015) La cosa più entusiasmante degli ultimi anni sono le infinite possi-bilità, la diffusione capillare, al-meno nel mondo occidentale di stili, culture, immagini e mode. Per fortuna continuo ad esaltarmi quando dal niente (da soun-dcloud, in realtà) viene fuori qual-cuno che sintetizza tutto e lo ri-getta nella rete diventando, in niente, un fenomeno da qualche milione di visualizzazioni. Ed è possibile farlo parlano esplicita-mente di sesso, religione e tutto quello che può entrare nella vita di un’adolescente canadese. Re-sterà qualche anno e ce ne scorde-remo, insieme a molte altre cose. Per ora è in loop. Playlist: http://bit.ly/2o3Gc3L

LUIS VEGA

Parlare oggi di musica rap o di cultura hip-hop significa rac-

contare la più rilevante sottocultu-ra urbana che, partendo dalle stra-de dei quartieri USA arriva nelle radio mainstream, nei centri so-ciali della fine degli anni 80, tor-na in strada e finisce in rete. Signi-fica semplificare un linguaggio che ha le proprie radici nelle feste di strada del Bronx, si trasforma in appartenenza e diventa imma-gine. Non è possibile in poche ri-ghe raccontare la densità di temi e il portato culturale di quello che è l’ultimo linguaggio comune col-lettivo, al di fuori della politica, di tutte le generazioni nate dagli anni ‘80 in poi. Nasce nel degrado suburbano come occasione di ri-scatto e diventa denuncia sociale e politica. E’ sperimentazione uma-na, sociale e, soprattutto, musica-le. Spesso quando si parla di Hip-Hop si parla di cultura, di poesia urbana, di arte visiva, di impatto sui giovani e si tralascia quello che, forse, è l’aspetto più interes-sante: la vastità di sperimentazio-ni musicali e liriche che solo un linguaggio aperto e che nasce dal basso può offrire. Da quando l’Hip-Hop diventa mainstream (da subito, praticamente) nell’im-maginario collettivo è musica nera fatta da piccoli criminali di quartiere che mirano a soldi, mac-chine, droga, donne e tutto quello che può venire in mente ad un giornalista di Libero. Al limite ne-gli anni ‘10, per chi guarda MTV tra una serie tv e l’altra, il rap è Bello Figo, il ragazzino qualun-que che provoca senza arte. Per chi lo vive è identità e riscatto, op-pure moda. Ma questo accade per ogni sottocultura che diventa di massa: chi muove i capitali è sem-pre ricettivo e pronto a trasforma-re e massificare tutto quello che è cultura e può diventare merce. La forma di resistenza non è necessa-riamente restare underground: spesso si resta underground anche da massificati. La rete, anche li-vornese, è piena di ragazzini che aspirano ad essere i nuovi Ice T (o, da provinciali, i nuovi Guè Pe-queno) raccontando di quanti grammi muovono alla settimana. Non esiste soluzione e, probabil-mente, ognuno è libero di vivere la propria sottocultura come pre-ferisce: far parte della crew più politica della città, cercare di fare la musica più bella possibile o scrivere le rime più pesanti (o leg-gere) del caso. E’ superficiale l’at-teggiamento divisivo nei confron-ti dell’ Hip-Hop: da un lato è roba fatta da neri ricchi ascoltata da bianchi della classe media, dall’al-tro è politica o è “la CNN del ghet-to”. La questione è più sfaccetta-ta: il rap, come ogni cosa che fa parte della vita di chiunque, è tutto questo. E’ politico ed è sva-

go. E’ profondo ed è superficiale. Non ha senso oggi inquadrare un fenomeno di massa in categorie so-ciali, politiche e musicali, di 30 anni fa. Quando un fenomeno si fa storia diventa senso comune e col-lettivo: a quel punto si può solo an-dare a cercare quello che c’è di buo-no e di meno buono senza dover inserire ogni aspetto in un fenome-no globale cheha mutato così tante forme da non essere nemmeno più riconoscibile. Negli anni molti arti-sti rap hanno prodotto opere che sono rimaste. E’ inutile parlare di The Message o di SxM, è meglio raccontare quelle che, almeno per il pubblico più mainstream (quello che non segue Vice o Pitchfork) sono rimaste in disparte. Perchè è necessario rimettere al centro del discorso la musica rap come territo-rio di sperimentazione artistica. Qui sotto qualcuno che ci ha prova-to o che ci prova ancora. A Tribe Called Quest - People’s Instinctive Travels and the Paths of Rhythm (1990) Alla fine degli anni ottanta l’hip hop era ancora una creatura figlia delle innovazioni sonore di Grand-master Flash e della poesia di stra-da di Jil Scott Heron: Chuck D raccontava l’aggregazione come un diritto di rivolta (Party For Your Ri-ght To Fight). ATCQ raccontavano la vita quotidiana dei ragazzi afroa-mericani di NY, quella vita non pie-na di sola rabbia e distante dalle invettive dei N.W.O. E’ l’esplora-zione del lato conscious e giocoso. E’ calore e colore, è jazz e non solo funk. E’ giocare con le parole e non solo cercare la punchline. E’ musica che oggi sarebbe da nerd. E’ sem-plicemente il più bel disco rap degli anni ‘90, il momento che qualcuno si ricorda che esiste anche l’amore. Negli anni a venire molti pagheran-no il giusto tributo a questo lavoro. Brand Nubian - One For All (1990)

Per un non anglofono il disco di de-butto dei Brand Nubian dovrebbe stare, di diritto, nella top 10 dei mi-gliori dischi rap di sempre. Funky ed energico, con i giusti appunti R’n’B potrebbe uscire tra due anni ed essere comunque attuale. Sopra questo c’è Grand Puba (Maxwell Dixon), per chi scrive il miglior MC degli anni 90, oscurato da figu-re più imponenti e importanti. One For All, però, vive di contraddizio-ni. Le stesse che tutto il movimento hip-hop americano (e di riflesso mondiale) è destinato a portare con sé: la misoginia e il sessismo, que-stioni irrisolte e radicate nella cul-tura hip-hop, machista anche nelle sue incarnazioni più illuminate e il rapporto con la religione, dove l’I-slam viene visto come occasione di riscatto sociale per tutta la popola-zione afroamericana. Un aggrega-tore ovviamente infinitamente più potente rispetto alla politica. One For All è e resta un capolavoro, sta a chi ascolta vivere e risolvere i cor-tocircuiti che crea. Common – Resurrecion (1995) Agli inizi degli anni’90 il problema principale dell’Hip-Hop, già feno-meno mondiale mainstream, era quello di mantenere integrità har-dcore e credibilità di strada cercan-do, nel frattempo, di diventare la next big thing: l’Hip-Hop parlava di Hip-Hop. Common Sense (Lonnie Rashid Lynn) si tira fuori da que-sto: non con la tecnica di Nas o Ra-kim ma solo con la conspevolezza di avere qualcosa da dire. In quei casi il linguaggio scelto è relativo: è solo urgenza creativa. Resurrection è I Used To Love H.E.R.: la più bella e sentita riflessione sulla dire-zione che ha preso e prenderà la musica e la cultura Hip-Hop. Antipop Consortium - Tragic Epilogue (2000) Per andare avanti occorre uccidere i padri. Via il soul, il funk e l’R’n’B. Rime asettiche su loop post apoca-

littici. Tragic Epilogue, primo al-bum del collettivo newyorkese è Anti-Pop, è elettronica che cerca di essere avanguardia. Probabil-mente l’importanza di questo di-sco è più nel concetto che nella re-alizzazione ma resta una pietra di paragone per chi cerca una strada diversa. cLOUDDEAD – cLOUDDEAD (2001) Con la diffusione della rete l’Hip-Hop entra nelle case dei nerd bian-chi della provincia americana. Musica indipendente, nel 2001, si-gnifica post- rock. Ogni riferimen-to al passato viene meno, cLOUD-DEAD è Hip-Hop solo per il rap-ping (trasfigurato e distorto). E’ ambient e lo-fi, distante dalla vo-glia di grandezza della vecchia scuola e più vicino a Autechre che a Afrika Bambaataa. Doseone, Why? e Odd Nosdam portano l’Hip-Hop in una dimensione nuo-va che vuole essere avanguardia: non è più solo urgenza creativa ma diventa lucido nichilismo e rinno-vamento. Kanye West - My Beautiful Dark Twisted Fantasy (2009) Kanye è un genio e MBDTF è il capolavoro HH degli ultimi dieci anni. Potrei finire qui. Il personag-gio Kanye West però è troppo in-gombrante per poter essere giudi-cato solo per i dischi: costante-mente al centro di tutti i nuovi media il suo ego smisurato lo ha, probabilmente a ragione, messo contro tutto e tutti. Per molti artisti è facile separare la persona dalla sua arte, quando si parla di Kanye no, quasi mai. Facendo così si ri-schia di perdere un disco enorme, radicalmente hip-hop che, però, abbraccia tutto quello che di bello è stato prodotto negli anni. Un la-voro neoclassico e magniloquente, d’avanguardia se non fosse l’e-spressione più profonda della cul-tura di MTV.

L’ultima sottocultura mainstreamSUONI - Viaggio casuale nell’immaginario e nella cultura Hip-Hop

2

PRENSA LATINA (*)

Appena poche ore dopo l’ap-provazione della discussa

riforma costituzionale in Tur-chia che concederà ampi poteri al futuro presidente, le garanzie costituzionali hanno comincia-to a soffrire un grave deteriora-mento. Durante la campagna sia l’opposizione che le delegazioni di osservatori internazionali del Consiglio d’Europa e della OSCE hanno denunciato intim-idazioni, parzialità dei media e forti restrizioni alla possibilità di realizzare eventi pubblici a dan-no dei sostenitori del NO, con-trari al governo.Dopo il voto i timori che fosse-ro messi in atto brogli elettorali sono stati confermati quando il Consiglio Superiore Elettorale (YSK) ha deciso, poco prima che si chiudessero le urne, di ac-cettare come valide schede senza il timbro ufficiale previsto dalla legge in Turchia.Ufficialmente i risultati han-no dato una vittoria di stretta misura al governo, con il 51,4% dei voti. La differenza tra i due schieramenti è stata di 1.380.000 voti, ma la missione OSCE ri-tiene che il numero delle schede fraudolente potrebbe raggiunge-

re i 2 milioni e mezzo, e le critiche sono state particolarmente gravi in quanto la missione ha dichiarato che il voto “si è svolto in un ambi-ente politico in cui sono state lim-itate le libertà fondamentali”.Alla richiesta di un’indagine im-parziale sui risultati sia il presiden-te Erdogan sia alcuni ministri han-no risposto in modo dispregiativo e con accuse contro gli osservatori internazionali di non essere obiet-tivi e di perseguire fini politici. Da parte sua il YSK il giorno dopo il voto ha chiuso le denunce di brogli negando qualsiasi ulteriore procedimento, nonostante la sua decisione di validare le schede sen-za timbro sia illegale. La gravità di questa sentenza deriva dal fatto che, pur essendo una violazione flagrante della legge, non è pos-sibile fare ricorso presso nessun tribunale superiore né presso la Corte costituzionale, anche se la maggioranza dei membri del YSK sono stati designati dal partito di governo.Alle manifestazioni e alle azioni di

protesta svoltesi in tutto il Paese le autorità han-no risposto con un’on-data di arresti contro politici, leader socia-li e mediattivisti per mancato rispetto delle istituzioni e per “incita-mento all’odio e oltrag-gio a pubblici ufficiali”.E anche con la negazi-one di diritti e libertà fondamentali come ad Antep, nel sudest del Paese, dove il governa-tore ha proibito per un mese qualsi-asi tipo di dichiarazione pubblica, marcia, distribuzione di volantini, raccolta di firme e attività politica e sociale. Un altro esempio del rapido dete-rioramento delle garanzie demo-cratiche nel Paese è stato l’arresto del documentarista e attivista per i diritti umani italiano Gabriele del Grande, mentre alla frontiera con la Siria realizzava interviste a rifu-giati.Le autorità hanno parlato della mancanza dell’accredito speciale

richiesto ai giornalisti in alcune zone della Turchia, per cui è stato inviato a un centro di internamento per stranieri in attesa del rimpatrio forzato che normalmente avviene nel giro di 48 ore. Tuttavia il gior-nalista è stato trasferito in un sec-ondo centro ad un altro estremo del Paese e messo in isolamento senza la possibilità di incontrare l’avvo-cato, i funzionari del consolato o i familiari.Provvedimenti che di per sé rappre-sentano una violazione della stessa legge turca, compresa quella sullo stato di emergenza in vigore nel Paese, per la quale si può trattenere

una persona per un massimo di cinque giorni. Quando dopo dieci giorni di de-tenzione il viceconsole italiano e un avvocato hanno cercato di far visita a Del Grande le autorità hanno negato questa possibilità, anche se ciò rappresenta una vi-olazione flagrante della Conven-zione di Vienna.Gli abusi contro i giornalisti tur-chi o stranieri sono aumentati a dismisura dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016, aggravati dall’as-senza delle garanzie processuali dovuta allo stato d’emergenza.Con l’approvazione della ri-forma costituzionale appare all’orizzonte un futuro più arbi-trario e dispotico, e lo stesso Er-dogan si è premurato di ricordar-lo personalmente quando giorni fa, in riferimento all’arresto del corrispondente di Die Welt, il giornalista turco-tedesco Deniz Yücel, ha dichiarato che finché lui sarà presidente non uscirà di galera, dimenticandosi che finora sono i tribunali a decid-ere dell’innocenza o della colpe-volezza delle persone.

(*) Traduzione e adattamento per Senza Soste di Nello Gradirà

Fine dello Stato di dirittoTURCHIA - Riforma costituzionale o colpo di Stato?

Una guerra aperta appare improbabile

ma c’è l’incognita Trump

Page 3: Splendori e miserie di un artista del fútbol Festa selvaggia · 2017-05-04 · Menotti preferisce un Houseman ubriaco piuttosto che un qualsiasi rincalzo sobrio. El Hueso corre poco

per non dimenticare6 3interniMaggio 2017

sacrarono 2.523 persone. Il 21 maggio, dopo aver atteso che il monastero fosse gremito per una celebrazione, Maletti bloccò le uscite e fece passare per le armi più di trecento reli-giosi. 129 giovani diaconi, che sul momento erano stati rispar-miati, furono fucilati il 27 mag-gio. Oltre ai monaci vennero as-sassinate almeno altre 2000 per-sone. Ma l’illusione di aver paci-ficato l’Etiopia con il terrore si scontrò ben presto con la realtà: nell’estate del 1937 la ribellione esplose nelle regioni centro set-tentrionali. Nel 1941 il patetico ma sanguinario impero di Mus-solini verrà travolto dall’offen-siva della resistenza appoggiata dalle truppe inglesi. Nel dopo-guerra nessuno verrà condan-nato per i crimini di guerra in Etiopia. Il macellaio Graziani, prima di morire di morte natura-

le nel 1955 tro-verà anche il tempo di darsi alla politica attiva come presidente del MSI. Nel 2012 il sindaco del suo paese na-tale, Affile, in Ciociaria, vol-le dedicargli un monumen-to, suscitando

lo sdegno della comunità inter-nazionale. Mentre in Italia la polemica più accesa si focalizzò sull’utilizzo di fondi pubblici per la sua costruzione.

NELLO GRADIRÀ

Il 5 maggio del 1936 le trup-pe italiane al comando del

maresciallo Badoglio entravano in Addis Abeba e il 9 maggio davanti a una folla plaudente Mussolini proclamava l’Impe-ro. L’avventura in Etiopia più che per ragioni economiche era stata condotta per impressionare l’opinione pubblica nazionale e internazionale. C’era da vendi-care lo smacco di Adua, la bat-taglia che nel 1896 aveva messo la parola fine all’”imperialismo straccione” dell’Italia liberale. E c’era anche la ricerca di una rivincita verso potenze come In-ghilterra e Francia i cui imperi coloniali si estendevano su inte-ri continenti. L’Italietta fascista aveva affrontato quella guerra con un enorme dispiegamento di uomini e mezzi: circa 200 aerei, quasi mezzo milione di soldati e centomila ascari tra eri-trei, somali e libici. E poi i gas: fosgene, iprite e altri agenti chi-mici letali che vennero utilizzati massicciamente contro l’eserci-to nemico e soprattutto contro la popolazione locale. Ultimata la conquista si scatenò la repres-sione più spietata contro la resi-stenza: l’8 luglio 1936 Mussolini ordinò di “iniziare e condurre sistematicamente politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni compli-ci”. Questa repressione odiosa e l’assenza di un progetto politico fondato sulla conoscenza del territorio e dei preesistenti po-

teri locali (mancavano perfino gli interpreti) ebbero l’effetto di accre-scere l’ostilità della popolazione. Il 19 febbraio del 1937, durante una celebrazione ad Addis Abeba, due giovani eritrei lanciarono alcu-ne bombe a mano di scarso poten-ziale contro il palco delle autorità. Morirono quattro italiani e tre etiopici. Il viceré Rodolfo Grazia-ni venne ferito non gravemente da centinaia di schegge. Vennero bloc-cate le vie di fuga e i carabinieri cominciarono a sparare sulla gente presa dal panico. Il giorno stesso le squadracce scatenate dal segreta-rio del fascio Cortese misero a fer-ro e fuoco la città, con il consenso di tutta la comunità italiana. An-che i giornalisti italiani presenti ri-masero inorriditi: persone investite

o legate ai camion e trascinate fino alla morte, donne frustate, uomini evirati, bambini schiacciati con gli stivali, gole tagliate, alcuni squar-tati e lasciati morire o appesi o ba-stonati a morte. Non mancarono furti e rapine a danno di stranieri. I fascisti non accettavano l’idea che gli autori dell’attentato fossero due giovani isolati (ancora latitanti), e la repressione proseguì colpen-do gli ambienti più vivaci della società locale. 45 uomini furono fucilati il 26 febbraio e altri 26 nei giorni successivi. Dal 3 al 15 mar-zo i fucilati furono 145. Graziani ormai in preda a una vera e propria follia omicida propose la distru-zione di interi quartieri della città e la deportazione degli abitanti. Mussolini accettò solo in parte

la proposta. Centinaia di persone vennero deportate all’Asinara, al-tre nel campo di concentramento allestito a Danane (Somalia). Le vittime successive furono gli in-dovini, i cantastorie e gli stregoni, che secondo Graziani “andavano perfidamente diffondendo tra que-ste popolazioni primitive ignoranti e superstiziose le più inverosimili notizie circa futuri catastrofici av-venimenti”. Ne furono assassinati settanta. Particolarmente invisi agli occupanti erano i religiosi copti del monastero di Debra Li-banos, considerato il centro pro-pulsore della resistenza. Sulla base di una documentazione falsa sul loro coinvolgimento nell’attentato Graziani dette ordine al generale

Maletti di fucilare tutti i monaci. Lungo la strada tra da Addis Abe-ba e Debra Libanos le truppe di Maletti incendiarono 115.422 tu-cul, tre chiese e un convento e mas-

MAGGIO 1937 - 80 anni fa la strage fascista di Debra Libanos in Etiopia

Italiani brava gente

Anno XII, n. 126

TRASPORTO AEREO - Lassismo, abbandono di un settore strategico, soldi dei contribuenti sperperati

Alitalia: una vertenza esemplare

diritti dei lavoratori, oppure ci sarà una soluzione reaganiana tricolo-re magari attutita dalla domestica mediazione di Cgil-Cisl-Uil. Non è certo la prima volta che Alitalia entra in crisi nè il primo rischio fal-limento (la compagnia è già fallita tre volte). E non è nemmeno il pri-mo piano lacrime e sangue propos-to ai lavoratori, ricordiamo quello storico del 2008, o la prima riduzi-one significativa di posti di lavoro, stipendi, garanzie contrattuali e diritti che viene proposto alla for-za lavoro. Alitalia ha visto un lento declino negli anni tra gli anni ‘90 e gli anni 2000, quando Prodi ha cer-

cato di fonderla prima con KLM e poi con Air France (sia per rac-cogliere capitali che per far opera-re alle compagnie straniere la dis-missione di personale). Un declino causato sia dalle mutazioni globali del traffico aereo che dalla tragica autoreferenzialità del management pubblico (la compagnia di bandiera è stata letteralmente saccheggiata da DC e PSI prima e dal ceto polit-ico della seconda repubblica poi). Infine, con la ristrutturazione del 2008 (costata una quota significa-tiva di forza lavoro, circa 10.000 persone e diritti) Alitalia passò, dietro un significativo contributo

pubblico, concordato tra Berlusconi e Vel-troni, a una cordata bipartisan di impren-ditori italiani. Una volta esaurito l’ef-fetto “benefico” di questi contributi, la stessa Alitalia, dopo altro sacrificio di la-voro e diritti, è pas-sata ad una cordata mista italiani-Etihad. E’ evidente che con una serie di falli-menti alle spalle, di ristrutturazioni che hanno portato a li-cenziamenti e perd-ita di diritti, il refer-endum sul “nuovo” accordo, quello del

2017, non poteva che portare a un no. Si trattava dell’ennesimo accor-do accompagnato al patibolo dalla Cgil con altri 1.000 licenziamenti, decurtazioni di stipendio, diritti, turn-over etc. Tutto con una sola prospettiva: due-tre anni di nuo-va situazione con ristrutturazione (con sacrifici) successiva quando banche e finanza l’avrebbero rich-iesto. E con una situazione tutta da chiarire. Infatti, Alitalia da decenni non è più considerata la Compag-nia di bandiera e paradossalmente le maggiori sovvenzioni pubbliche sono arrivate alle low cost, prima fra tutte Ryanair che oggi è il mag-

giore operatore in Italia. Tutto è iniziato quando Alitalia era sot-to controllo pubblico e continua anche oggi che è privata. Ed è accaduto senza che i vari gover-ni abbiano mai detto una parola sul fatto che Ryanair, tra l’altro, non paghi le tasse in Italia, paghi gli stipendi del personale italiano all’estero e non applichi lo statu-to dei lavoratori. Un lassismo is-tituzionale e politico che è costa-to decine di migliaia di posti di lavoro, l’abbandono di un settore strategico e soldi dei contribuenti sperperati a palate in operazioni strampalate. In poche parole chi tuona contro i lavoratori che han-no votato contro l’accordo (basta leggere Repubblica che parla di lavoratori che vorrebbero “suc-chiare dalle mammelle pubbli-che”) fa finta di non vedere che i finanziamenti pubblici, per il traffico aereo, ci sono, sono con-sistenti e vanno a compagnie che non pagano nè tasse nè stipendi in Italia (tra l’altro poco tempo fa il primo canale tedesco ha fat-to un servizio da manuale sulle condizioni capestro dei contratti di lavoro Ryanair). Come è risa-puto, in queste condizioni, una parte consistente dei lavoratori chiede la rinazionalizzazione di Alitalia. Vedremo come andrà a finire. Se con un Reagan alla am-atriciana oppure con soluzioni diverse.

TERRY MCDERMOTT

Se vogliamo entrare nell’im-portanza delle vertenze del

traffico aereo, bisogna tornare indietro ai “dorati” anni ‘80, quelli del primo liberismo an-imale che cominciava a farsi seriamente spazio nel mondo occidentale. Questo perchè la vertenza dei controllori di volo americani contro l’amministra-zione Reagan è qualcosa di più di uno spartiacque simbolico nella storia delle relazioni sinda-cali americane. Il 5 agosto 1981, infatti, a seguito di una vertenza tra lavoratori del settore e stato federale americano, Ronald Rea-gan in persona licenziò 11.000 controllori di volo. Fu l’avvio di una stagione di disfatte per i sindacati americani ma anche di una liberalizzazione brutale del traffico aereo che finirà, negli anni ‘90, per coinvolgere l’Europa. Si era infatti aperta la stagione della compressione completa del costo del lavoro, e delle libertà dei lavoratori, nel traffico aereo, scatenando quel-la sinergia tra banche, finanza e compagnia aeree che è cresciuta enormemente fino ai giorni nos-tri. La vertenza Alitalia, comun-que vada, andrà letta attraverso queste lenti. O, almeno nel nos-tro paese, si riuscirà a invertire la tendenza all’annichilimento dei

ORLANDO SANTESIDRA

La storia dell’arte è una storia di profezie. Affinché queste

profezie possano diventare com-prensibili devono però giungere a maturazione quelle circostanze che l’opera d’arte spesso ha precorso di secoli o anche solo di anni. Non c’è una premessa migliore di quella affidata alle parole di Walter Benjamin per introdur-re la storia dell’opera che ha modificato il concetto stesso di arte, aprendo un nuovo, provo-catorio immaginario. N e w York, aprile 1917. Un trenten-ne originario di Blainville, mi-nuscolo paese dell’Alta Nor-mandia, acquista un orinatoio al negozio di idraulica e appa-recchi sanitari J.L. Mott Iron Works, sulla 118a strada. Porta l’oggetto nel suo studio, afferra il pennello e lo firma con data e pseudonimo: R. Mutt 1917. La sua destinazione è una co-lossale mostra di arte moder-na al Grand Central Palace, la più imponente mai realizzata negli Stati Uniti. Gli organiz-zatori sposano una linea alta-mente democratica e accettano chiunque sostenga la quota di partecipazione, fissata alla cifra di 6 dollari. All’inaugurazione saranno presentati 1200 artisti. Ma non lui, R. Mutt, nome di battesimo Marcel Duchamp.

La sua non è un’opera d’arte, so-stengono i curatori in riunione e decidono di non mostrarla al pubblico. In realtà tra i curatori c’era anche lui, Duchamp, che si dimette immediatamente per protesta. Ritrova l’opera, nasco-sta dietro una parete e la porta via, trasferendola nello studio del fotografo Alfred Stieglitz. Sarà il suo scatto comparso nel numero di maggio della rivista The Blind Man a mostrare l’opera, prima che l’originale vada persa [1]. Adagiata su un piedistallo, come da prassi per le sculture, “Foun-tain by R. Mutt” è esibita in una doppia pagina accompagnata dal-la didascalia: “L’opera rifiutata dagli Indipendenti”. Accanto alla foto compare un commento alla scelta dei curatori della mostra, un vero e proprio manifesto della rivoluzione che sta per travolge-re l’arte moderna. «Che il signor Mutt abbia fatto o no Fontana con le proprie mani – si legge – non importa. Lui l’ha SCELTA. Ha visto un normale articolo quotidiano, l’ha posto in modo che il suo significato utilitaristi-co sparisse sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista – così ha

creato una nuova idea per quell’oggetto». E’ l’atto di nascita del ready made, l’e-sposizione di oggetti pre-levati dall’uso quotidiano a cui viene attribuito un nuovo senso attraverso una diversa collocazione o un particolare assem-blaggio. E non è per nien-te un fatto banale: mettere sul piedistallo quell’orina-toio ha lo scopo di attac-care l’autorità estetica del-la tecnica e dell’immagine dell’artista inarrivabile, separato dai comuni mor-tali, capisaldi dell’approc-cio all’arte ottocentesca promosso nelle accade-mie delle Belle Arti fran-cesi. L’attacco oltretut-to arriva da un’opera che non è arte, secondo i canoni dell’epo-ca, ma una riflessione sull’arte, accompagnata da una forte dose di “poetica della casualità”: pri-vilegio dell’artista non è fare, ma scegliere, più o meno a caso, un oggetto che dall’indifferenza pas-si all’attenzione collettiva. E così, se il concetto di arte era in qualche modo imposto e le-

gato ad elementi che precedono l’approccio dell’osservatore, il contributo di Duchamp serve a ridare forza allo spettatore, rom-pere la macchina celebrativa tipi-ca del museo e guardare ciò che arte potrebbe diventarlo semplice-mente allargando i confini dello sguardo in direzioni insolite. La rivoluzione è inarrestabile: esclusa la parentesi della Secon-

da Guerra Mondiale, quando si tornò a un nuovo realismo, a partire dal periodo della ri-costruzione, generazioni di artisti legittimati dalla poetica del gesto ispirata da Duchamp daranno il via negli Stati Uniti a un susseguirsi di espressioni artistiche di rottura. L’emigra-zione nel suolo statunitense ac-centuerà la crisi delle esperien-ze collettive, valorizzando con il supporto di ingenti capitali privati la ricerca individuale. Un percorso che culminerà nel-le varie anime del pop, in cui gli artisti, ancorati ai meccanismi del ready made duchampiano, riprenderanno i manufatti della quotidianità - insegne al neon, segnali stradali, manifesti, og-getti di consumo - disponendoli in cornici o piedistalli invisibili per raccontare i nuovi scenari urbani e far scricchiolare anco-ra vecchi e nuovi dogmatismi dell’arte.

[1] Oggi esistono 13 riproduzio-ni dell’orinatoio fatte costruire nel 1964 dal critico e gallerista italiano Arturo Schwarz, che ottenne l’esclusiva da Duchamp.

La profezia dell’orinatoio MAGGIO 1917 - 100 anni fa l’opera che rivoluzionò il rapporto tra arte, artista e pubblico

Il macellaio Graziani non fu perseguito e

nel 2012 il sindaco del suo paese gli dedicò un

monumento

(segue da pagina 1)... mesi fa. Prova del fatto che non sono le ore di apertura a fare la diffe-renza nella competizione. Esi-ste poi una questione politica e culturale. Nonostante la loro vocazione dogmatica verso il liberismo, i partiti cattolici e la Chiesa chiedono per le do-meniche e le festività, special-mente quelle religiose, limita-zioni per poter santificare le feste e dedicarsi alla famiglia. A livello sindacale ed a sinistra invece si punta il dito sul dirit-to di avere giorni festivi liberi fissi per poter organizzare la propria esistenza e non ren-derla totalmente dipendente dal lavoro. Poi c’è un proble-ma culturale, vale a dire il fatto che per molte organizzazioni politiche e imprenditoriali il fenomeno del consumo h24 è inarrestabile e va assecondato a tutti i costi. C’è chi addirit-tura come Scalfarotto, ex par-tecipante alle primarie del Pd, che chiama in causa il fatto che la famiglia “non tradizionale” abbia bisogno di fare acquisti nei festivi. Tuttavia il consu-mo h24, utile o compulsivo che sia, è stato indotto e so-stenuto dal modello culturale dominante ma anche dall’abi-tudine a trovare aperto tutto a qualunque ora. Una tendenza che il decreto Monti ha soste-

nuto ed alimentato. Ma il dibat-tito si dovrebbe spostare su un altro tipo di analisi da supportare con numeri. Se è ormai appurato che sul piano dei consumi/ricavi la liberalizzazione selvaggia non ha dato nessun beneficio al set-tore della Grande Distribuzione, come si pone il futuro del settore nei confronti della vendita onli-ne? Quali strumenti di regolazio-ne possono garantire entrambi i settori senza lasciare tutto alla guerra, alla competizione sfre-nata e ai conseguenti morti (dal punto di vista lavorativo) da la-sciare sul campo? Questo sarebbe già un argomento più interessan-te da supportare con dati e ana-lisi di prospettiva. Intanto non sarebbe male rivedere a livello

europeo tutta la normativa fisca-le per far pagare le tasse ai giganti della vendita online e farla fini-ta con paesi come l’Irlanda che fanno politiche fiscali aggressi-ve verso gli altri paesi UE. L’impatto sui territori. A Livor-no in materia di grande distri-buzione stiamo vivendo tutte le contraddizioni di questa fase del settore, accentuati anche dagli er-rori fatti dalle Amministrazioni comunali in termini urbanistici e strategici. Stiamo vivendo infatti la crisi di Unicoop Tirreno dovu-ta a fattori di scarsa competitivi-tà strutturale ed errori strategici con la fallita espansione verso il sud. Ma a Livorno Unicoop mo-stra anche le problematiche della grande distribuzione in termini

di ricavi e consumi. Nonostante il quasi monopolio a Livorno, Unicoop negli ultimi anni ha aperto altri due supermercati, Le-vante e Porta a Mare, dove però ha ricollocato gli esuberi degli altri negozi. Sintomo che anche al crescere del numero di negozi i consumi rimangono i soliti. Au-menta solo la competizione e la corsa ai prezzi che spreme ancora di più lavoratori e produttori ma non crea ricchezza e nemmeno risolve i problemi occupazionali. A intasare ulteriormente il setto-re l’anno prossimo arriverà Esse-lunga, il grande marchio che in questi anni ha gli indici migliori di efficienza e aumento dei fat-turati in Italia. Usiamo il verbo “intasare” perché Esselunga non porterà nessuna nuova ricchez-za in città ma andrà a prendersi la propria fetta a scapito di altri. Tutto legittimo, ci mancherebbe, così come le operazioni di mar-keting rispetto alle sponsorizza-zioni che hanno già annunciato. Purtroppo però Esselunga, come detto, andrà a saturare un merca-to già saturo anche per colpa di un’operazione, come quella Fre-mura-Nuovo Centro-Coop, volu-ta dalla vecchia amministrazione Pd e che “costrinse” gli attori in gioco a scegliere ancora Coop per coprire forse l’ultima fetta di mer-cato di distribuzione alimentare

in città. In questo modo, in un regime di semimonopolio, Esselunga (che aveva anche offerto di più per approdare a Nuovo Centro) è partita all’at-tacco per poter aprire il proprio punto vendita in un’altra zona trovando terreno fertile con la nuova amministrazione 5 Stel-le. Morale della favola: a causa di scelte passate forzate e sba-gliate, Livorno si ritroverà con un ennesimo superstore, addi-rittura dentro la città, che cau-serà un effetto domino. Anche con tutte le migliori intenzioni del mondo, che non stiamo qui né ad analizzare né a legitti-mare o delegittimare, l’impat-to sul territorio sarà negativo anche se qualcuno pensa che sia inevitabile per la situazione che si era venuta a creare con Coop. Rimane il fatto che forse solo i prezzi e quindi i clienti dei vari supermercati cittadini ne potranno beneficiare, ma la città in termini di ricchezza e lavoro scoprirà ben presto che tutti i segni più si compense-ranno con i segni meno. Non abbiamo mai letto da nessuna parte o visto territori rilanciar-si con i supermercati, soprat-tutto perché fanno parte di un sistema chiuso di circolazione di ricchezza. Saremmo felici di essere smentiti.

Festa selvaggia

Page 4: Splendori e miserie di un artista del fútbol Festa selvaggia · 2017-05-04 · Menotti preferisce un Houseman ubriaco piuttosto che un qualsiasi rincalzo sobrio. El Hueso corre poco

Livorno Livorno Anno XII, n. 126 Maggio 20174 5

devono pagare la differenza come se la avessero consumata. E’ una regola che disincentiva il risparmio di un bene come l’ac-qua, ma come azienda siamo obbligati dalla legge a chiedere tali conguagli. Sugli investimenti quello che il Forum denuncia è accaduto in alcune aziende di vari comuni italiani (anche in quelle interamente pubbliche), ma dagli atti che ho raccolto non è accaduto in Asa dove gli inve-stimenti non fatti sono stati poi sottratti dal conguaglio per man-cati volumi. Ogni riscontro su questo aspetto è rinvenibile nel decreto 40/2014 di AIT. Questione Solvay. Il gigante chimico della Val di Cecina ha sempre avuto un impatto deva-stante sulla quantità e la qualità dell’acqua di quei Comuni. Come pensate di limitarlo? Sono a conoscenza del problema e penso che le rivendicazioni di quei cittadini che protestano sia-no legittime. Da parte nostra ab-biamo spinto affinchè Solvay ri-spettasse gli impegni presi e con i 4,6 milioni che si era impegnata a dare li useremo per fare la dor-sale che arriva fino a Volterra e altri interventi per potenziare la rete in Val di Cecina. Per il resto è la Regione che semmai dovreb-be imporre a Solvay di non pren-dere l’acqua che spetterebbe pri-oritariamente ai cittadini, non lo possiamo certo fare noi. Stiamo aspettando le concessioni per po-ter emungere più acqua dalla Steccaia così da limitare il prelie-vo dai pozzi inquinati e di conse-guenza ridurre drasticamente i costi per rendere l’acqua potabi-le. Tutte le deleghe principali per la gestione dell’azienda le ha in mano Iren che vanta due mem-bri su tre del comitato di gestio-ne. Non le pare che il suo ruolo

in uno schema del genere sia marginale o determi-ni poco? E’ vero che le deleghe per fare la gestione dell’azien-da le hanno gli uomini di Iren, ma il mio è un ruolo di controllo. Sono il rap-presentate di tutti i sindaci in ASA e come tale devo vigilare sull’operato del partner industriale affin-chè questo operi nell’inte-resse di tutte le ammini-strazioni pubbliche servite e dei cittadini. Asa ha anche il 2,28% di quote del rigassificatore

OLT. Visto l’interessamento paventato di un fondo di inve-stimento anglo-australiano cosa pensate di fare con quelle quote? La linea strategica è quella di uscire gradualmente. Nei prossi-mi mesi vi saranno degli sviluppi sulla gestione delle controllate, OLT inclusa.

FRANCO MARINO

Gli ultimi anni di Asa spa, l’a-zienda al 60% pubblica che

opera nel servizio idrico integrato (acquedotto, fognatura, depura-zione) sono stati abbastanza tra-vagliati e ricchi di novità. Prima c’è stato l’assalto del soggetto pri-vato, Iren, che voleva acquisire la maggioranza del pacchetto azio-nario, respinto dai sindaci di Li-vorno, Suvereto e Volterra con scontri e polemiche contro il bloc-co dei sindaci del Pd. Nelle ultime settimane invece la polemica con il Forum toscano per l’acqua pub-blica a causa dei conguagli in bol-letta. Nel mezzo il siluramento del vecchio presidente Del Nista, in quota Pd e Mps, e l’arrivo di Andrea Guerrini, il tecnico (pro-fessore di economia aziendale e management all’Università di Ve-rona) designato da Nogarin. Ab-biamo incontrato per un’intervi-sta proprio il presidente in carica da 6 mesi nella cosiddetta “Casa Rosada” di via del Gazometro. Che Asa hai trovato? Ho trovato un’azienda con punte di eccellenza sia nella dirigenza che in operai e tecnici. Mi ha col-pito trovare gente così preparata. Così come ho trovato un’azienda che dopo quelle maledette giorna-te senz’acqua del 2013 ha raddop-piato la rete che arriva da Filettole (Lucca) e costruito il nuovo serba-toio di Stagno. Anche i prossimi obiettivi da raggiungere sono am-biziosi: trovare soluzioni sulla questione fanghi e depurazione nell’ottica dell’economia circola-re. Sono fiducioso. Quindi tutto rose e fiori? Certo che no. Ho trovato eccessi e storture nella pianta organica con ruoli e settori inflazionati ed altri carenti di personale, procedure e flussi documentali da formalizza-re e snellire per rendere l’azienda più rapida nelle decisioni e conte-nere il tasso di conflittualità tra le aree. Ho trovato un’azienda sana dal punto di vista finanziario ed in utile, ma abbiamo difficoltà a pa-gare i canoni ai Comuni (i tubi sono di proprietà dei Comuni ed Asa deve pagare un canone, ndr) a cui dobbiamo dare circa 12 mi-lioni di euro ogni anno. E’ anche vero che è uno fra i canoni più ele-vati d’Italia perchè noi paghiamo ai Comuni 0,4 euro/mc mentre altre città 0,28-0,30. L’attacco di IREN è stato sven-tato, ma ora quali sono le pro-spettive di Asa? Ti rispondo con alcuni numeri. Asa ha un patrimonio netto di cir-ca 70 milioni quindi Iren ha un pacchetto di azioni che vale alme-no 30 milioni. Alla luce del qua-dro normativo regionale, nazio-nale e anche della situazione delle casse degli enti locali, chi acqui-sterebbe le quote a IREN? Vale la pena mettere in piedi un aziona-riato di cittadinanza per riscattare

una quota dal pacchetto di IREN? Può darsi, ma non so come i cittadi-ni risponderebbero di fronte alla ri-chiesta di sottoscrivere una quota

azionaria di ASA, alla luce di una spesa per il servizio idrico che è già molto elevata. Su questo fronte cre-do i Forum potrebbero fare da col-lettore tra gestore e comuni da un lato e cittadini dall’altro. L’unico strumento che i Comuni avrebbero sono le risorse dei canoni da utiliz-zare per acquisire le quote, ma allo stesso tempo sappiamo che le am-ministrazioni locali rinuncerebbero con difficoltà a quei canoni. In ogni caso ASA ripubblicizzata dovrebbe poi reclutare un management di qualità per evitare il ripresentarsi di modelli spericolati di gestione delle partecipate come quelli che portaro-no ASA al rischio di default oltre 10 anni fa. Il percorso di ripubblicizza-zione dunque esiste ma deve essere affrontato necessariamente attraver-so un dialogo fattivo tra tutti i sog-getti interessati. Qualcuno potrebbe portarti l’e-sempio di Torino dove i 5 Stelle, seppur in un contesto aziendale differente, hanno deliberato che inizieranno il processo di ripubbli-cizzazione. Smat a Torino era un spa 100% pub-blica, come Abc a Napoli, ed è di-

ventata ente di diritto pubblico. È stato fatto un atto politico e poi è stato sufficiente recarsi dal notaio a cambiare la forma giuridica della

società. Tale soluzione blin-da una società da attacchi di investitori esterni, ma a Li-vorno la situazione è diversa perché servono soldi per ac-quistare le quote del socio industriale. A mio avviso sa-rebbe già un obiettivo porta-re dal 60% al 75% il peso della parte pubblica all’inter-no di ASA, contenendo le quote di IREN. Però è anche vero che mer-cificare un bene come l’ac-qua e farci sopra utili non è giusto e non rispetta l’esito del referendum. In Asa facciamo il 2-3% di utile sui ricavi ma l’utile non viene distribuito e rimane in azienda a garanzia del mu-tuo. Publiacqua (Firenze) ad

esempio ha distribuito circa 12,6 milioni di euro di dividendi nel 2014, mentre Acea ATO 2 realizza circa il 15% di utile sul fatturato e i dividendi sono interamente distri-buiti ai soci. A Livorno per ora que-sta attitudine del gestore industriale non l’abbiamo ancora percepita perchè gli utili sono sempre stati reinvestiti in azienda. Con i miei collaboratori ho a lungo studiato l’impatto che i soci privati hanno nella gestione. Un nostro ar-ticolo pubblicato sulla rivista Mana-gement delle Utilities e delle Infrastrut-ture comparava il modello Toscano (fatto da aziende miste) con quello Veneto (fatto da aziende pubbliche) dimostrando che la presenza di un investitore privato in azienda costa in media 50-60 euro in più all’anno sulla bolletta delle famiglie per ga-rantire la remunerazione del capita-le che l’investitore stesso richiede, in termini di realizzazione di utili e distribuzione di dividendi. In Vene-to, invece, le aziende sono quasi tut-te pubbliche e il servizio costa meno sia per la minore remunerazione del capitale sia per il fatto che quei terri-tori hanno una maggiore disponibi-

lità di acque e quindi devono fare meno investimenti. Con 6,5 milioni di utili perchè Asa procede ugualmente ad una stretta sui salari dei lavoratori e non diminuisce le bollette? Perché, come detto, noi gli utili non li distribuiamo ma li teniamo in azienda a garanzia delle banche. Inoltre l’utile del 2016 deriva da si-tuazioni contingenti, non necessa-riamente destinate a ripetersi nei futuri esercizi. Venendo ai lavorato-ri e alle lavoratrici, credo che sia difficile ad oggi riconoscere ulterio-ri indennità o aumenti salariali, senza far perdere efficienza all’a-zienda o incappare in ulteriori au-menti tariffari. Penso sia invece ne-cessario migliorare la comunicazio-ne tra la direzione e i dipendenti, l’organizzazione del lavoro per mi-gliorare la qualità della vita lavora-tiva delle nostre squadre. In occasione dell’annunciato au-mento di 25 euro medie annue per vecchi conguagli il Forum Tosca-no accusa Asa di aver fatto solo il 53% degli investimenti previsti fra

il 2008 e il 2010 e solo il 38% di quelli del 2011. Ma nelle bollette li abbiamo già pagati interi. Quin-di paghiamo due volte? C’è un metodo di calcolo tariffario nazionale che ci obbliga a chiedere ai cittadini un conguaglio di 5,1 mi-lioni per mancati ricavi. Vale a dire che i cittadini hanno consumato meno acqua del previsto e quindi

Il mondo Asa dopo le scossePARTECIPATE - Intervista col Presidente Asa Guerrini, col quale abbiamo parlato del futuro dell’azienda

vadano al punto con determi-nazione.Traffico e incidenti. Vale la pena anche ripartire da una va-lutazione prudenziale dei dati sul traffico sia sopra che sotto le 3,5 tonnellate sarebbe oppor-tuno per calibrare la ristruttu-razione e la messa in sicurezza dell’Aurelia da Civitavecchia a Rosignano e risolvere il nodo della viabilità sulla litoranea costiera da Rosignano a Livor-no. Ad oggi a parte la consu-lenza sui flussi di cui si dice sia stata fatta per Sat non ci sono rilevazioni di Istat né di Aci che tendono invece a trattare dati relativi alla frequenza dei soli incidenti stradali. Sappiamo però che il CNR di Pisa fa da tempo delle analisi sulla viabili-tà come quella presentata a Li-vorno durante un convegno sul-

le Smart City dal Prof. Do-m e n i c o L a f o r e n -za, molto interessan-te e utile proprio su aspetti che ora inizia-no ad esse-re elemen-

to di riflessione strategico per migliorare le cose ed acconten-tare un numero di persone sem-pre maggiore andando a creare effetti diretti sull’economia dei luoghi.

JACK RR

La bocciatura dell’autostrada Tirrenica da parte del go-

verno che non la finanzierà più ha aperto nuove prospettive per quel tratto di strada come chie-dono da tempo comitati di cit-tadini e sindaci. Il nuovo orien-tamento è la messa in sicurezza della variante Aurelia, la Strada di Grande Comunicazione che da Quercianella passa per la Val di Cornia e la Maremma, come da anni chiedevano tutti coloro che erano contrari al grande pa-sticcio ed al grande spreco della autostrada SAT. La nuova Aurelia. La nuova eventuale Aurelia S.G.C. dovrà essere l’occasione per risolvere definitivamente i problemi di si-curezza, dovrà essere funzionale alle utenze di circolazione all’in-terno dei comuni e delle provin-ce oltre ad essere una grande oc-casione di promozione dei terri-tori su cui passa. La sua gratuità scongiura il fatto che i costi di passaggio gravassero soprattutto sui tantissimi pendolari che la utilizzano in un’area già parti-colarmente in crisi che avrebbe risposto solo impiegando più tempo, e rischiando davvero tanto, ritornando a frequentare nuovamente la vecchia Aurelia ormai divenuta in molti tratti a traffico urbano con relative limi-tazioni di velocità.Allo stesso tempo per il turista che raggiunge i luoghi in auto, la gratuità è un vantaggio gradito

in relazione alla spesa complessiva della vacanza che comunque non riguarda solo l’aspetto economico ma anche una buona impressione sul livello di servizi di base che il turista stesso si aspetta da un ter-ritorio. Lotto 0 e Romito. E il Lotto 0? Era un progetto ormai soppresso anche nel vecchio progetto autostradale a causa della mancanza di fondi, ma nel caso di una eventuale decisio-ne di fare opere ad alto costo come quella, vale a dire il collegamento in galleria tra Chioma e Livorno per evitare il Romito, la soluzione non potrebbe che essere un inve-stimento pubblico con un pedag-gio che copra l’ammortamento e la gestione dell’opera. Esistono esempi di tariffazione all’utente

con l’indicazione di quanto attual-mente sia stato coperto in termini finanziari in quel preciso istante in cui il ticket viene rilasciato. Senza comunque complicarci la vita esi-stono dei precedenti sia di realiz-zazione che gestionali molto inte-ressanti da valutare e ci riferiamo alla realizzazione e conseguente gestione della galleria del San Got-tardo dove gli importi tra l’altro erano ben superiori a tutta la rea-lizzazione autostradale da Grosse-to a Livorno compresa la S.S. 398 a “Piombino e il “Lotto 0“.Un volano turistico. La nuova Au-relia S.G.C. diviene oggi una vera scommessa di rilancio sia in ter-mini di sicurezza che di soddisfa-zione per cittadini e turisti i quali possono davvero far ingresso in un

percorso che li accompagna in un territorio costiero gra-devole che a sua volta deve seguire un programma di ri-qualificazione che lo integri in un piano coordinato. Deve fare questo la politica e pre-sto, molto presto, altrimen-ti si butteranno ancora una volta al vento le potenzialità che in sé non rappresentano niente. Una “super strada del vino S.G.C.” volendoci quasi scherzare però anche azzardando su quella che sa-rebbe un tentativo di legare il concetto di multimedialità a un’arteria di scorrimento sto-rica come l’Aurelia. Stiamo parlando di una strada che ha collegato Roma a Vada Vola-terrana nel II sec. d.C. la cui

origine in Roma risale al II sec. a.C., insomma roba da costruirci

un’evocazione senza precedenti e darle dei lineamenti di sviluppo davvero unici. I Sindaci dovran-no e potranno fare la differenza e senza cadere nella palude delle forme creando nuovi istituti che

VIABILITÀ - Prospettiva importante per la mobilità e per un alleggerimento competitivo nel settore turismo

La nuova vita della “nuova” Aurelia

Aprire la cassetta della posta è ormai divenuto causa di

stress ed ansia per molte fami-glie livornesi, soprattutto perché non capita mai di ricevere augu-ri o cartoline. Quello che capita, invece, è di ricevere tonnellate di pubblicità e bollette. Anni fa una delle bollette accettate con minor fatica era quella dell’acqua perché era l’unica che quasi tutti riuscivano a pagare senza tanti patemi d’animo. La maggior par-te delle volte si trattava di qualche migliaio di lire, poi qualche deci-na di euro. La cosa non sconvol-geva di certo il bilancio familiare. Invece, da qualche anno anche la bolletta dell’acqua è entrata a far parte degli incubi di gran parte delle famiglie. Siamo passati da poche migliaia di lire a cifre che variano da 50 a 100 € mensili a famiglia e se pensiamo che le bol-lette ASA sono trimestrali, que-ste si mangiano una bella fetta del bilancio familiare. La bolletta media di Asa, infatti, è 628 € an-nui (+80% negli ultimi 10 anni), fra le più costose di Italia (media italiana 376 € quella toscana 590 € - fonte Cittadinanzattiva 2016) e non solo a causa del fatto che il nostro territorio ne ha poca e

deve prenderla altrove. Com’è fatta la bolletta. Spulciando fra i dettagli dei consumi con relati-ve tariffe ci si perde. Esistono sca-glioni di tariffa per tipi e per quanti-tà di consumo, esistono quote fisse e tariffe differenziate per acqua, fognatura e depurazione. Le tariffe sono divise in scaglioni di consu-mo: il primo chiamato agevolato (30 mc/anno), il secondo base e poi iniziano le eccedenze. E spesso una famiglia arriva alle eccedenze. Ti

fanno sentire uno spre-cone, uno che l’acqua la butta via infischiando-sene che nel mondo in molti non hanno acces-so. Ed allora cerchi an-che di risparmiare come è giusto, ma ti accorgi che meno di così non puoi consumare, spe-cialmente se si tratta di una famiglia composta da 4 o 5 persone o an-che di più in questi tem-pi cupi dove le persone

continuamente perdono il lavoro e, ad esempio, tornano a casa dei ge-nitori. Di questo, però, le aziende del settore non si preoccupano, non considerando nel conto quanti oc-cupanti ha un’abitazione nonostan-te sia naturale che più sei più consu-mi, anche se sei attentissimo all’uso che fai dell’acqua. Senza avere pi-scine o giardini da annaffiare dob-biamo lavarci, fare docce, pulire, e rigovernare ed in un battibaleno ti ritrovi nella categoria “Eccedenze”:

prima eccedenza e seconda ecce-denza. Questo fa sì che il costo passi da € 0,41/mc a € 4,53/mc (passan-do anche per € 1,044 base e € 2,07 prima eccedenza). Senza considera-re “Fognatura e Depurazione” che ti fanno passare da € 1,61/mc a € 5,74/mc, più altre quote fisse. In-somma si fa molto presto ad essere catalogati come spreconi anche se siamo attentissimi. A proposito, la Solvay paga € 0,005/mc…Altri balzelli? Poche settimane fa i quotidiani livornesi hanno titolato: “ASA va a caccia di 5 milioni di euro per il recupero di investimen-ti fatti nel 2011. Si pagheranno in media 25 euro in più di conguaglio spalmati in quattro rate”. Adesso siamo nel 2017 ed i livornesi dovran-no pagare in più per investimenti del 2011 e poi magari dovranno aspet-tarsi altri balzelli per quelli fatti negli anni successivi? C’è da chiedersi se le tante famiglie livornesi che con-tinuano a pagare queste cifre e che magari abitano in palazzi senza au-toclave ed al 4° o 5° piano, in alcune zone della città dove la sera prima di cena ti arriva in casa un filo di ac-qua che neanche riesce ad attivare la caldaia, saranno contente di pagare

questi ulteriori balzelli. Una nuova proposta. Lo scorso 21 aprile su proposta dell’ammi-nistrazione livornese, i sindaci dei Comuni serviti da Asa hanno votato una proposta di “tariffa equa e solidale” che si basa su 4 punti: 1. il blocco dei distac-chi per le utenze domestiche che possono dimostrare la morosità incolpevole (licenziati in parti-colare); 2. Il superamento della tariffa prevalente nei condomini: ognuno dovrà pagare la parte variabile secondo la propria rea-le utenza; 3. Il rinnovo del siste-ma di calcolo della tariffa per le utenze domestiche residenti che deve comprendere il numero dei componenti familiari, per tutela-re le famiglie numerose; 4. Rico-noscere i primi 50 litri gratuiti di acqua come diritto fondamentale alle utenze domestiche residenti. Quattro punti giusti ed utili ma che dovranno passare l’esame dell’Autorità Idrica Toscana. Ve-dremo quanti diventeranno real-tà. Al momento la nostra acqua è a peso d’oro.

Senza Soste redazione

A peso d’oro

“Il sistema pubblico che

funziona costa meno di quello misto o privato,

ma servono dirigenti pubblici

capaci” ACQUA - Tra aumenti e balzelli la bolletta è diventata un problema

La nuova Aurelia, messa in sicurezza e gratuita,

non graverà sui pendolari e potrà essere un volano per il turismo

“In Asa ho trovato eccellenze ma

anche storture, l’acqua è cara ma gli aumenti sono dovuti per legge”

Page 5: Splendori e miserie di un artista del fútbol Festa selvaggia · 2017-05-04 · Menotti preferisce un Houseman ubriaco piuttosto che un qualsiasi rincalzo sobrio. El Hueso corre poco

Livorno Livorno Anno XII, n. 126 Maggio 20174 5

devono pagare la differenza come se la avessero consumata. E’ una regola che disincentiva il risparmio di un bene come l’ac-qua, ma come azienda siamo obbligati dalla legge a chiedere tali conguagli. Sugli investimenti quello che il Forum denuncia è accaduto in alcune aziende di vari comuni italiani (anche in quelle interamente pubbliche), ma dagli atti che ho raccolto non è accaduto in Asa dove gli inve-stimenti non fatti sono stati poi sottratti dal conguaglio per man-cati volumi. Ogni riscontro su questo aspetto è rinvenibile nel decreto 40/2014 di AIT. Questione Solvay. Il gigante chimico della Val di Cecina ha sempre avuto un impatto deva-stante sulla quantità e la qualità dell’acqua di quei Comuni. Come pensate di limitarlo? Sono a conoscenza del problema e penso che le rivendicazioni di quei cittadini che protestano sia-no legittime. Da parte nostra ab-biamo spinto affinchè Solvay ri-spettasse gli impegni presi e con i 4,6 milioni che si era impegnata a dare li useremo per fare la dor-sale che arriva fino a Volterra e altri interventi per potenziare la rete in Val di Cecina. Per il resto è la Regione che semmai dovreb-be imporre a Solvay di non pren-dere l’acqua che spetterebbe pri-oritariamente ai cittadini, non lo possiamo certo fare noi. Stiamo aspettando le concessioni per po-ter emungere più acqua dalla Steccaia così da limitare il prelie-vo dai pozzi inquinati e di conse-guenza ridurre drasticamente i costi per rendere l’acqua potabi-le. Tutte le deleghe principali per la gestione dell’azienda le ha in mano Iren che vanta due mem-bri su tre del comitato di gestio-ne. Non le pare che il suo ruolo

in uno schema del genere sia marginale o determi-ni poco? E’ vero che le deleghe per fare la gestione dell’azien-da le hanno gli uomini di Iren, ma il mio è un ruolo di controllo. Sono il rap-presentate di tutti i sindaci in ASA e come tale devo vigilare sull’operato del partner industriale affin-chè questo operi nell’inte-resse di tutte le ammini-strazioni pubbliche servite e dei cittadini. Asa ha anche il 2,28% di quote del rigassificatore

OLT. Visto l’interessamento paventato di un fondo di inve-stimento anglo-australiano cosa pensate di fare con quelle quote? La linea strategica è quella di uscire gradualmente. Nei prossi-mi mesi vi saranno degli sviluppi sulla gestione delle controllate, OLT inclusa.

FRANCO MARINO

Gli ultimi anni di Asa spa, l’a-zienda al 60% pubblica che

opera nel servizio idrico integrato (acquedotto, fognatura, depura-zione) sono stati abbastanza tra-vagliati e ricchi di novità. Prima c’è stato l’assalto del soggetto pri-vato, Iren, che voleva acquisire la maggioranza del pacchetto azio-nario, respinto dai sindaci di Li-vorno, Suvereto e Volterra con scontri e polemiche contro il bloc-co dei sindaci del Pd. Nelle ultime settimane invece la polemica con il Forum toscano per l’acqua pub-blica a causa dei conguagli in bol-letta. Nel mezzo il siluramento del vecchio presidente Del Nista, in quota Pd e Mps, e l’arrivo di Andrea Guerrini, il tecnico (pro-fessore di economia aziendale e management all’Università di Ve-rona) designato da Nogarin. Ab-biamo incontrato per un’intervi-sta proprio il presidente in carica da 6 mesi nella cosiddetta “Casa Rosada” di via del Gazometro. Che Asa hai trovato? Ho trovato un’azienda con punte di eccellenza sia nella dirigenza che in operai e tecnici. Mi ha col-pito trovare gente così preparata. Così come ho trovato un’azienda che dopo quelle maledette giorna-te senz’acqua del 2013 ha raddop-piato la rete che arriva da Filettole (Lucca) e costruito il nuovo serba-toio di Stagno. Anche i prossimi obiettivi da raggiungere sono am-biziosi: trovare soluzioni sulla questione fanghi e depurazione nell’ottica dell’economia circola-re. Sono fiducioso. Quindi tutto rose e fiori? Certo che no. Ho trovato eccessi e storture nella pianta organica con ruoli e settori inflazionati ed altri carenti di personale, procedure e flussi documentali da formalizza-re e snellire per rendere l’azienda più rapida nelle decisioni e conte-nere il tasso di conflittualità tra le aree. Ho trovato un’azienda sana dal punto di vista finanziario ed in utile, ma abbiamo difficoltà a pa-gare i canoni ai Comuni (i tubi sono di proprietà dei Comuni ed Asa deve pagare un canone, ndr) a cui dobbiamo dare circa 12 mi-lioni di euro ogni anno. E’ anche vero che è uno fra i canoni più ele-vati d’Italia perchè noi paghiamo ai Comuni 0,4 euro/mc mentre altre città 0,28-0,30. L’attacco di IREN è stato sven-tato, ma ora quali sono le pro-spettive di Asa? Ti rispondo con alcuni numeri. Asa ha un patrimonio netto di cir-ca 70 milioni quindi Iren ha un pacchetto di azioni che vale alme-no 30 milioni. Alla luce del qua-dro normativo regionale, nazio-nale e anche della situazione delle casse degli enti locali, chi acqui-sterebbe le quote a IREN? Vale la pena mettere in piedi un aziona-riato di cittadinanza per riscattare

una quota dal pacchetto di IREN? Può darsi, ma non so come i cittadi-ni risponderebbero di fronte alla ri-chiesta di sottoscrivere una quota

azionaria di ASA, alla luce di una spesa per il servizio idrico che è già molto elevata. Su questo fronte cre-do i Forum potrebbero fare da col-lettore tra gestore e comuni da un lato e cittadini dall’altro. L’unico strumento che i Comuni avrebbero sono le risorse dei canoni da utiliz-zare per acquisire le quote, ma allo stesso tempo sappiamo che le am-ministrazioni locali rinuncerebbero con difficoltà a quei canoni. In ogni caso ASA ripubblicizzata dovrebbe poi reclutare un management di qualità per evitare il ripresentarsi di modelli spericolati di gestione delle partecipate come quelli che portaro-no ASA al rischio di default oltre 10 anni fa. Il percorso di ripubblicizza-zione dunque esiste ma deve essere affrontato necessariamente attraver-so un dialogo fattivo tra tutti i sog-getti interessati. Qualcuno potrebbe portarti l’e-sempio di Torino dove i 5 Stelle, seppur in un contesto aziendale differente, hanno deliberato che inizieranno il processo di ripubbli-cizzazione. Smat a Torino era un spa 100% pub-blica, come Abc a Napoli, ed è di-

ventata ente di diritto pubblico. È stato fatto un atto politico e poi è stato sufficiente recarsi dal notaio a cambiare la forma giuridica della

società. Tale soluzione blin-da una società da attacchi di investitori esterni, ma a Li-vorno la situazione è diversa perché servono soldi per ac-quistare le quote del socio industriale. A mio avviso sa-rebbe già un obiettivo porta-re dal 60% al 75% il peso della parte pubblica all’inter-no di ASA, contenendo le quote di IREN. Però è anche vero che mer-cificare un bene come l’ac-qua e farci sopra utili non è giusto e non rispetta l’esito del referendum. In Asa facciamo il 2-3% di utile sui ricavi ma l’utile non viene distribuito e rimane in azienda a garanzia del mu-tuo. Publiacqua (Firenze) ad

esempio ha distribuito circa 12,6 milioni di euro di dividendi nel 2014, mentre Acea ATO 2 realizza circa il 15% di utile sul fatturato e i dividendi sono interamente distri-buiti ai soci. A Livorno per ora que-sta attitudine del gestore industriale non l’abbiamo ancora percepita perchè gli utili sono sempre stati reinvestiti in azienda. Con i miei collaboratori ho a lungo studiato l’impatto che i soci privati hanno nella gestione. Un nostro ar-ticolo pubblicato sulla rivista Mana-gement delle Utilities e delle Infrastrut-ture comparava il modello Toscano (fatto da aziende miste) con quello Veneto (fatto da aziende pubbliche) dimostrando che la presenza di un investitore privato in azienda costa in media 50-60 euro in più all’anno sulla bolletta delle famiglie per ga-rantire la remunerazione del capita-le che l’investitore stesso richiede, in termini di realizzazione di utili e distribuzione di dividendi. In Vene-to, invece, le aziende sono quasi tut-te pubbliche e il servizio costa meno sia per la minore remunerazione del capitale sia per il fatto che quei terri-tori hanno una maggiore disponibi-

lità di acque e quindi devono fare meno investimenti. Con 6,5 milioni di utili perchè Asa procede ugualmente ad una stretta sui salari dei lavoratori e non diminuisce le bollette? Perché, come detto, noi gli utili non li distribuiamo ma li teniamo in azienda a garanzia delle banche. Inoltre l’utile del 2016 deriva da si-tuazioni contingenti, non necessa-riamente destinate a ripetersi nei futuri esercizi. Venendo ai lavorato-ri e alle lavoratrici, credo che sia difficile ad oggi riconoscere ulterio-ri indennità o aumenti salariali, senza far perdere efficienza all’a-zienda o incappare in ulteriori au-menti tariffari. Penso sia invece ne-cessario migliorare la comunicazio-ne tra la direzione e i dipendenti, l’organizzazione del lavoro per mi-gliorare la qualità della vita lavora-tiva delle nostre squadre. In occasione dell’annunciato au-mento di 25 euro medie annue per vecchi conguagli il Forum Tosca-no accusa Asa di aver fatto solo il 53% degli investimenti previsti fra

il 2008 e il 2010 e solo il 38% di quelli del 2011. Ma nelle bollette li abbiamo già pagati interi. Quin-di paghiamo due volte? C’è un metodo di calcolo tariffario nazionale che ci obbliga a chiedere ai cittadini un conguaglio di 5,1 mi-lioni per mancati ricavi. Vale a dire che i cittadini hanno consumato meno acqua del previsto e quindi

Il mondo Asa dopo le scossePARTECIPATE - Intervista col Presidente Asa Guerrini, col quale abbiamo parlato del futuro dell’azienda

vadano al punto con determi-nazione.Traffico e incidenti. Vale la pena anche ripartire da una va-lutazione prudenziale dei dati sul traffico sia sopra che sotto le 3,5 tonnellate sarebbe oppor-tuno per calibrare la ristruttu-razione e la messa in sicurezza dell’Aurelia da Civitavecchia a Rosignano e risolvere il nodo della viabilità sulla litoranea costiera da Rosignano a Livor-no. Ad oggi a parte la consu-lenza sui flussi di cui si dice sia stata fatta per Sat non ci sono rilevazioni di Istat né di Aci che tendono invece a trattare dati relativi alla frequenza dei soli incidenti stradali. Sappiamo però che il CNR di Pisa fa da tempo delle analisi sulla viabili-tà come quella presentata a Li-vorno durante un convegno sul-

le Smart City dal Prof. Do-m e n i c o L a f o r e n -za, molto interessan-te e utile proprio su aspetti che ora inizia-no ad esse-re elemen-

to di riflessione strategico per migliorare le cose ed acconten-tare un numero di persone sem-pre maggiore andando a creare effetti diretti sull’economia dei luoghi.

JACK RR

La bocciatura dell’autostrada Tirrenica da parte del go-

verno che non la finanzierà più ha aperto nuove prospettive per quel tratto di strada come chie-dono da tempo comitati di cit-tadini e sindaci. Il nuovo orien-tamento è la messa in sicurezza della variante Aurelia, la Strada di Grande Comunicazione che da Quercianella passa per la Val di Cornia e la Maremma, come da anni chiedevano tutti coloro che erano contrari al grande pa-sticcio ed al grande spreco della autostrada SAT. La nuova Aurelia. La nuova eventuale Aurelia S.G.C. dovrà essere l’occasione per risolvere definitivamente i problemi di si-curezza, dovrà essere funzionale alle utenze di circolazione all’in-terno dei comuni e delle provin-ce oltre ad essere una grande oc-casione di promozione dei terri-tori su cui passa. La sua gratuità scongiura il fatto che i costi di passaggio gravassero soprattutto sui tantissimi pendolari che la utilizzano in un’area già parti-colarmente in crisi che avrebbe risposto solo impiegando più tempo, e rischiando davvero tanto, ritornando a frequentare nuovamente la vecchia Aurelia ormai divenuta in molti tratti a traffico urbano con relative limi-tazioni di velocità.Allo stesso tempo per il turista che raggiunge i luoghi in auto, la gratuità è un vantaggio gradito

in relazione alla spesa complessiva della vacanza che comunque non riguarda solo l’aspetto economico ma anche una buona impressione sul livello di servizi di base che il turista stesso si aspetta da un ter-ritorio. Lotto 0 e Romito. E il Lotto 0? Era un progetto ormai soppresso anche nel vecchio progetto autostradale a causa della mancanza di fondi, ma nel caso di una eventuale decisio-ne di fare opere ad alto costo come quella, vale a dire il collegamento in galleria tra Chioma e Livorno per evitare il Romito, la soluzione non potrebbe che essere un inve-stimento pubblico con un pedag-gio che copra l’ammortamento e la gestione dell’opera. Esistono esempi di tariffazione all’utente

con l’indicazione di quanto attual-mente sia stato coperto in termini finanziari in quel preciso istante in cui il ticket viene rilasciato. Senza comunque complicarci la vita esi-stono dei precedenti sia di realiz-zazione che gestionali molto inte-ressanti da valutare e ci riferiamo alla realizzazione e conseguente gestione della galleria del San Got-tardo dove gli importi tra l’altro erano ben superiori a tutta la rea-lizzazione autostradale da Grosse-to a Livorno compresa la S.S. 398 a “Piombino e il “Lotto 0“.Un volano turistico. La nuova Au-relia S.G.C. diviene oggi una vera scommessa di rilancio sia in ter-mini di sicurezza che di soddisfa-zione per cittadini e turisti i quali possono davvero far ingresso in un

percorso che li accompagna in un territorio costiero gra-devole che a sua volta deve seguire un programma di ri-qualificazione che lo integri in un piano coordinato. Deve fare questo la politica e pre-sto, molto presto, altrimen-ti si butteranno ancora una volta al vento le potenzialità che in sé non rappresentano niente. Una “super strada del vino S.G.C.” volendoci quasi scherzare però anche azzardando su quella che sa-rebbe un tentativo di legare il concetto di multimedialità a un’arteria di scorrimento sto-rica come l’Aurelia. Stiamo parlando di una strada che ha collegato Roma a Vada Vola-terrana nel II sec. d.C. la cui

origine in Roma risale al II sec. a.C., insomma roba da costruirci

un’evocazione senza precedenti e darle dei lineamenti di sviluppo davvero unici. I Sindaci dovran-no e potranno fare la differenza e senza cadere nella palude delle forme creando nuovi istituti che

VIABILITÀ - Prospettiva importante per la mobilità e per un alleggerimento competitivo nel settore turismo

La nuova vita della “nuova” Aurelia

Aprire la cassetta della posta è ormai divenuto causa di

stress ed ansia per molte fami-glie livornesi, soprattutto perché non capita mai di ricevere augu-ri o cartoline. Quello che capita, invece, è di ricevere tonnellate di pubblicità e bollette. Anni fa una delle bollette accettate con minor fatica era quella dell’acqua perché era l’unica che quasi tutti riuscivano a pagare senza tanti patemi d’animo. La maggior par-te delle volte si trattava di qualche migliaio di lire, poi qualche deci-na di euro. La cosa non sconvol-geva di certo il bilancio familiare. Invece, da qualche anno anche la bolletta dell’acqua è entrata a far parte degli incubi di gran parte delle famiglie. Siamo passati da poche migliaia di lire a cifre che variano da 50 a 100 € mensili a famiglia e se pensiamo che le bol-lette ASA sono trimestrali, que-ste si mangiano una bella fetta del bilancio familiare. La bolletta media di Asa, infatti, è 628 € an-nui (+80% negli ultimi 10 anni), fra le più costose di Italia (media italiana 376 € quella toscana 590 € - fonte Cittadinanzattiva 2016) e non solo a causa del fatto che il nostro territorio ne ha poca e

deve prenderla altrove. Com’è fatta la bolletta. Spulciando fra i dettagli dei consumi con relati-ve tariffe ci si perde. Esistono sca-glioni di tariffa per tipi e per quanti-tà di consumo, esistono quote fisse e tariffe differenziate per acqua, fognatura e depurazione. Le tariffe sono divise in scaglioni di consu-mo: il primo chiamato agevolato (30 mc/anno), il secondo base e poi iniziano le eccedenze. E spesso una famiglia arriva alle eccedenze. Ti

fanno sentire uno spre-cone, uno che l’acqua la butta via infischiando-sene che nel mondo in molti non hanno acces-so. Ed allora cerchi an-che di risparmiare come è giusto, ma ti accorgi che meno di così non puoi consumare, spe-cialmente se si tratta di una famiglia composta da 4 o 5 persone o an-che di più in questi tem-pi cupi dove le persone

continuamente perdono il lavoro e, ad esempio, tornano a casa dei ge-nitori. Di questo, però, le aziende del settore non si preoccupano, non considerando nel conto quanti oc-cupanti ha un’abitazione nonostan-te sia naturale che più sei più consu-mi, anche se sei attentissimo all’uso che fai dell’acqua. Senza avere pi-scine o giardini da annaffiare dob-biamo lavarci, fare docce, pulire, e rigovernare ed in un battibaleno ti ritrovi nella categoria “Eccedenze”:

prima eccedenza e seconda ecce-denza. Questo fa sì che il costo passi da € 0,41/mc a € 4,53/mc (passan-do anche per € 1,044 base e € 2,07 prima eccedenza). Senza considera-re “Fognatura e Depurazione” che ti fanno passare da € 1,61/mc a € 5,74/mc, più altre quote fisse. In-somma si fa molto presto ad essere catalogati come spreconi anche se siamo attentissimi. A proposito, la Solvay paga € 0,005/mc…Altri balzelli? Poche settimane fa i quotidiani livornesi hanno titolato: “ASA va a caccia di 5 milioni di euro per il recupero di investimen-ti fatti nel 2011. Si pagheranno in media 25 euro in più di conguaglio spalmati in quattro rate”. Adesso siamo nel 2017 ed i livornesi dovran-no pagare in più per investimenti del 2011 e poi magari dovranno aspet-tarsi altri balzelli per quelli fatti negli anni successivi? C’è da chiedersi se le tante famiglie livornesi che con-tinuano a pagare queste cifre e che magari abitano in palazzi senza au-toclave ed al 4° o 5° piano, in alcune zone della città dove la sera prima di cena ti arriva in casa un filo di ac-qua che neanche riesce ad attivare la caldaia, saranno contente di pagare

questi ulteriori balzelli. Una nuova proposta. Lo scorso 21 aprile su proposta dell’ammi-nistrazione livornese, i sindaci dei Comuni serviti da Asa hanno votato una proposta di “tariffa equa e solidale” che si basa su 4 punti: 1. il blocco dei distac-chi per le utenze domestiche che possono dimostrare la morosità incolpevole (licenziati in parti-colare); 2. Il superamento della tariffa prevalente nei condomini: ognuno dovrà pagare la parte variabile secondo la propria rea-le utenza; 3. Il rinnovo del siste-ma di calcolo della tariffa per le utenze domestiche residenti che deve comprendere il numero dei componenti familiari, per tutela-re le famiglie numerose; 4. Rico-noscere i primi 50 litri gratuiti di acqua come diritto fondamentale alle utenze domestiche residenti. Quattro punti giusti ed utili ma che dovranno passare l’esame dell’Autorità Idrica Toscana. Ve-dremo quanti diventeranno real-tà. Al momento la nostra acqua è a peso d’oro.

Senza Soste redazione

A peso d’oro

“Il sistema pubblico che

funziona costa meno di quello misto o privato,

ma servono dirigenti pubblici

capaci” ACQUA - Tra aumenti e balzelli la bolletta è diventata un problema

La nuova Aurelia, messa in sicurezza e gratuita,

non graverà sui pendolari e potrà essere un volano per il turismo

“In Asa ho trovato eccellenze ma

anche storture, l’acqua è cara ma gli aumenti sono dovuti per legge”

Page 6: Splendori e miserie di un artista del fútbol Festa selvaggia · 2017-05-04 · Menotti preferisce un Houseman ubriaco piuttosto che un qualsiasi rincalzo sobrio. El Hueso corre poco

per non dimenticare6 3interniMaggio 2017

sacrarono 2.523 persone. Il 21 maggio, dopo aver atteso che il monastero fosse gremito per una celebrazione, Maletti bloccò le uscite e fece passare per le armi più di trecento reli-giosi. 129 giovani diaconi, che sul momento erano stati rispar-miati, furono fucilati il 27 mag-gio. Oltre ai monaci vennero as-sassinate almeno altre 2000 per-sone. Ma l’illusione di aver paci-ficato l’Etiopia con il terrore si scontrò ben presto con la realtà: nell’estate del 1937 la ribellione esplose nelle regioni centro set-tentrionali. Nel 1941 il patetico ma sanguinario impero di Mus-solini verrà travolto dall’offen-siva della resistenza appoggiata dalle truppe inglesi. Nel dopo-guerra nessuno verrà condan-nato per i crimini di guerra in Etiopia. Il macellaio Graziani, prima di morire di morte natura-

le nel 1955 tro-verà anche il tempo di darsi alla politica attiva come presidente del MSI. Nel 2012 il sindaco del suo paese na-tale, Affile, in Ciociaria, vol-le dedicargli un monumen-to, suscitando

lo sdegno della comunità inter-nazionale. Mentre in Italia la polemica più accesa si focalizzò sull’utilizzo di fondi pubblici per la sua costruzione.

NELLO GRADIRÀ

Il 5 maggio del 1936 le trup-pe italiane al comando del

maresciallo Badoglio entravano in Addis Abeba e il 9 maggio davanti a una folla plaudente Mussolini proclamava l’Impe-ro. L’avventura in Etiopia più che per ragioni economiche era stata condotta per impressionare l’opinione pubblica nazionale e internazionale. C’era da vendi-care lo smacco di Adua, la bat-taglia che nel 1896 aveva messo la parola fine all’”imperialismo straccione” dell’Italia liberale. E c’era anche la ricerca di una rivincita verso potenze come In-ghilterra e Francia i cui imperi coloniali si estendevano su inte-ri continenti. L’Italietta fascista aveva affrontato quella guerra con un enorme dispiegamento di uomini e mezzi: circa 200 aerei, quasi mezzo milione di soldati e centomila ascari tra eri-trei, somali e libici. E poi i gas: fosgene, iprite e altri agenti chi-mici letali che vennero utilizzati massicciamente contro l’eserci-to nemico e soprattutto contro la popolazione locale. Ultimata la conquista si scatenò la repres-sione più spietata contro la resi-stenza: l’8 luglio 1936 Mussolini ordinò di “iniziare e condurre sistematicamente politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni compli-ci”. Questa repressione odiosa e l’assenza di un progetto politico fondato sulla conoscenza del territorio e dei preesistenti po-

teri locali (mancavano perfino gli interpreti) ebbero l’effetto di accre-scere l’ostilità della popolazione. Il 19 febbraio del 1937, durante una celebrazione ad Addis Abeba, due giovani eritrei lanciarono alcu-ne bombe a mano di scarso poten-ziale contro il palco delle autorità. Morirono quattro italiani e tre etiopici. Il viceré Rodolfo Grazia-ni venne ferito non gravemente da centinaia di schegge. Vennero bloc-cate le vie di fuga e i carabinieri cominciarono a sparare sulla gente presa dal panico. Il giorno stesso le squadracce scatenate dal segreta-rio del fascio Cortese misero a fer-ro e fuoco la città, con il consenso di tutta la comunità italiana. An-che i giornalisti italiani presenti ri-masero inorriditi: persone investite

o legate ai camion e trascinate fino alla morte, donne frustate, uomini evirati, bambini schiacciati con gli stivali, gole tagliate, alcuni squar-tati e lasciati morire o appesi o ba-stonati a morte. Non mancarono furti e rapine a danno di stranieri. I fascisti non accettavano l’idea che gli autori dell’attentato fossero due giovani isolati (ancora latitanti), e la repressione proseguì colpen-do gli ambienti più vivaci della società locale. 45 uomini furono fucilati il 26 febbraio e altri 26 nei giorni successivi. Dal 3 al 15 mar-zo i fucilati furono 145. Graziani ormai in preda a una vera e propria follia omicida propose la distru-zione di interi quartieri della città e la deportazione degli abitanti. Mussolini accettò solo in parte

la proposta. Centinaia di persone vennero deportate all’Asinara, al-tre nel campo di concentramento allestito a Danane (Somalia). Le vittime successive furono gli in-dovini, i cantastorie e gli stregoni, che secondo Graziani “andavano perfidamente diffondendo tra que-ste popolazioni primitive ignoranti e superstiziose le più inverosimili notizie circa futuri catastrofici av-venimenti”. Ne furono assassinati settanta. Particolarmente invisi agli occupanti erano i religiosi copti del monastero di Debra Li-banos, considerato il centro pro-pulsore della resistenza. Sulla base di una documentazione falsa sul loro coinvolgimento nell’attentato Graziani dette ordine al generale

Maletti di fucilare tutti i monaci. Lungo la strada tra da Addis Abe-ba e Debra Libanos le truppe di Maletti incendiarono 115.422 tu-cul, tre chiese e un convento e mas-

MAGGIO 1937 - 80 anni fa la strage fascista di Debra Libanos in Etiopia

Italiani brava gente

Anno XII, n. 126

TRASPORTO AEREO - Lassismo, abbandono di un settore strategico, soldi dei contribuenti sperperati

Alitalia: una vertenza esemplare

diritti dei lavoratori, oppure ci sarà una soluzione reaganiana tricolo-re magari attutita dalla domestica mediazione di Cgil-Cisl-Uil. Non è certo la prima volta che Alitalia entra in crisi nè il primo rischio fal-limento (la compagnia è già fallita tre volte). E non è nemmeno il pri-mo piano lacrime e sangue propos-to ai lavoratori, ricordiamo quello storico del 2008, o la prima riduzi-one significativa di posti di lavoro, stipendi, garanzie contrattuali e diritti che viene proposto alla for-za lavoro. Alitalia ha visto un lento declino negli anni tra gli anni ‘90 e gli anni 2000, quando Prodi ha cer-

cato di fonderla prima con KLM e poi con Air France (sia per rac-cogliere capitali che per far opera-re alle compagnie straniere la dis-missione di personale). Un declino causato sia dalle mutazioni globali del traffico aereo che dalla tragica autoreferenzialità del management pubblico (la compagnia di bandiera è stata letteralmente saccheggiata da DC e PSI prima e dal ceto polit-ico della seconda repubblica poi). Infine, con la ristrutturazione del 2008 (costata una quota significa-tiva di forza lavoro, circa 10.000 persone e diritti) Alitalia passò, dietro un significativo contributo

pubblico, concordato tra Berlusconi e Vel-troni, a una cordata bipartisan di impren-ditori italiani. Una volta esaurito l’ef-fetto “benefico” di questi contributi, la stessa Alitalia, dopo altro sacrificio di la-voro e diritti, è pas-sata ad una cordata mista italiani-Etihad. E’ evidente che con una serie di falli-menti alle spalle, di ristrutturazioni che hanno portato a li-cenziamenti e perd-ita di diritti, il refer-endum sul “nuovo” accordo, quello del

2017, non poteva che portare a un no. Si trattava dell’ennesimo accor-do accompagnato al patibolo dalla Cgil con altri 1.000 licenziamenti, decurtazioni di stipendio, diritti, turn-over etc. Tutto con una sola prospettiva: due-tre anni di nuo-va situazione con ristrutturazione (con sacrifici) successiva quando banche e finanza l’avrebbero rich-iesto. E con una situazione tutta da chiarire. Infatti, Alitalia da decenni non è più considerata la Compag-nia di bandiera e paradossalmente le maggiori sovvenzioni pubbliche sono arrivate alle low cost, prima fra tutte Ryanair che oggi è il mag-

giore operatore in Italia. Tutto è iniziato quando Alitalia era sot-to controllo pubblico e continua anche oggi che è privata. Ed è accaduto senza che i vari gover-ni abbiano mai detto una parola sul fatto che Ryanair, tra l’altro, non paghi le tasse in Italia, paghi gli stipendi del personale italiano all’estero e non applichi lo statu-to dei lavoratori. Un lassismo is-tituzionale e politico che è costa-to decine di migliaia di posti di lavoro, l’abbandono di un settore strategico e soldi dei contribuenti sperperati a palate in operazioni strampalate. In poche parole chi tuona contro i lavoratori che han-no votato contro l’accordo (basta leggere Repubblica che parla di lavoratori che vorrebbero “suc-chiare dalle mammelle pubbli-che”) fa finta di non vedere che i finanziamenti pubblici, per il traffico aereo, ci sono, sono con-sistenti e vanno a compagnie che non pagano nè tasse nè stipendi in Italia (tra l’altro poco tempo fa il primo canale tedesco ha fat-to un servizio da manuale sulle condizioni capestro dei contratti di lavoro Ryanair). Come è risa-puto, in queste condizioni, una parte consistente dei lavoratori chiede la rinazionalizzazione di Alitalia. Vedremo come andrà a finire. Se con un Reagan alla am-atriciana oppure con soluzioni diverse.

TERRY MCDERMOTT

Se vogliamo entrare nell’im-portanza delle vertenze del

traffico aereo, bisogna tornare indietro ai “dorati” anni ‘80, quelli del primo liberismo an-imale che cominciava a farsi seriamente spazio nel mondo occidentale. Questo perchè la vertenza dei controllori di volo americani contro l’amministra-zione Reagan è qualcosa di più di uno spartiacque simbolico nella storia delle relazioni sinda-cali americane. Il 5 agosto 1981, infatti, a seguito di una vertenza tra lavoratori del settore e stato federale americano, Ronald Rea-gan in persona licenziò 11.000 controllori di volo. Fu l’avvio di una stagione di disfatte per i sindacati americani ma anche di una liberalizzazione brutale del traffico aereo che finirà, negli anni ‘90, per coinvolgere l’Europa. Si era infatti aperta la stagione della compressione completa del costo del lavoro, e delle libertà dei lavoratori, nel traffico aereo, scatenando quel-la sinergia tra banche, finanza e compagnia aeree che è cresciuta enormemente fino ai giorni nos-tri. La vertenza Alitalia, comun-que vada, andrà letta attraverso queste lenti. O, almeno nel nos-tro paese, si riuscirà a invertire la tendenza all’annichilimento dei

ORLANDO SANTESIDRA

La storia dell’arte è una storia di profezie. Affinché queste

profezie possano diventare com-prensibili devono però giungere a maturazione quelle circostanze che l’opera d’arte spesso ha precorso di secoli o anche solo di anni. Non c’è una premessa migliore di quella affidata alle parole di Walter Benjamin per introdur-re la storia dell’opera che ha modificato il concetto stesso di arte, aprendo un nuovo, provo-catorio immaginario. N e w York, aprile 1917. Un trenten-ne originario di Blainville, mi-nuscolo paese dell’Alta Nor-mandia, acquista un orinatoio al negozio di idraulica e appa-recchi sanitari J.L. Mott Iron Works, sulla 118a strada. Porta l’oggetto nel suo studio, afferra il pennello e lo firma con data e pseudonimo: R. Mutt 1917. La sua destinazione è una co-lossale mostra di arte moder-na al Grand Central Palace, la più imponente mai realizzata negli Stati Uniti. Gli organiz-zatori sposano una linea alta-mente democratica e accettano chiunque sostenga la quota di partecipazione, fissata alla cifra di 6 dollari. All’inaugurazione saranno presentati 1200 artisti. Ma non lui, R. Mutt, nome di battesimo Marcel Duchamp.

La sua non è un’opera d’arte, so-stengono i curatori in riunione e decidono di non mostrarla al pubblico. In realtà tra i curatori c’era anche lui, Duchamp, che si dimette immediatamente per protesta. Ritrova l’opera, nasco-sta dietro una parete e la porta via, trasferendola nello studio del fotografo Alfred Stieglitz. Sarà il suo scatto comparso nel numero di maggio della rivista The Blind Man a mostrare l’opera, prima che l’originale vada persa [1]. Adagiata su un piedistallo, come da prassi per le sculture, “Foun-tain by R. Mutt” è esibita in una doppia pagina accompagnata dal-la didascalia: “L’opera rifiutata dagli Indipendenti”. Accanto alla foto compare un commento alla scelta dei curatori della mostra, un vero e proprio manifesto della rivoluzione che sta per travolge-re l’arte moderna. «Che il signor Mutt abbia fatto o no Fontana con le proprie mani – si legge – non importa. Lui l’ha SCELTA. Ha visto un normale articolo quotidiano, l’ha posto in modo che il suo significato utilitaristi-co sparisse sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista – così ha

creato una nuova idea per quell’oggetto». E’ l’atto di nascita del ready made, l’e-sposizione di oggetti pre-levati dall’uso quotidiano a cui viene attribuito un nuovo senso attraverso una diversa collocazione o un particolare assem-blaggio. E non è per nien-te un fatto banale: mettere sul piedistallo quell’orina-toio ha lo scopo di attac-care l’autorità estetica del-la tecnica e dell’immagine dell’artista inarrivabile, separato dai comuni mor-tali, capisaldi dell’approc-cio all’arte ottocentesca promosso nelle accade-mie delle Belle Arti fran-cesi. L’attacco oltretut-to arriva da un’opera che non è arte, secondo i canoni dell’epo-ca, ma una riflessione sull’arte, accompagnata da una forte dose di “poetica della casualità”: pri-vilegio dell’artista non è fare, ma scegliere, più o meno a caso, un oggetto che dall’indifferenza pas-si all’attenzione collettiva. E così, se il concetto di arte era in qualche modo imposto e le-

gato ad elementi che precedono l’approccio dell’osservatore, il contributo di Duchamp serve a ridare forza allo spettatore, rom-pere la macchina celebrativa tipi-ca del museo e guardare ciò che arte potrebbe diventarlo semplice-mente allargando i confini dello sguardo in direzioni insolite. La rivoluzione è inarrestabile: esclusa la parentesi della Secon-

da Guerra Mondiale, quando si tornò a un nuovo realismo, a partire dal periodo della ri-costruzione, generazioni di artisti legittimati dalla poetica del gesto ispirata da Duchamp daranno il via negli Stati Uniti a un susseguirsi di espressioni artistiche di rottura. L’emigra-zione nel suolo statunitense ac-centuerà la crisi delle esperien-ze collettive, valorizzando con il supporto di ingenti capitali privati la ricerca individuale. Un percorso che culminerà nel-le varie anime del pop, in cui gli artisti, ancorati ai meccanismi del ready made duchampiano, riprenderanno i manufatti della quotidianità - insegne al neon, segnali stradali, manifesti, og-getti di consumo - disponendoli in cornici o piedistalli invisibili per raccontare i nuovi scenari urbani e far scricchiolare anco-ra vecchi e nuovi dogmatismi dell’arte.

[1] Oggi esistono 13 riproduzio-ni dell’orinatoio fatte costruire nel 1964 dal critico e gallerista italiano Arturo Schwarz, che ottenne l’esclusiva da Duchamp.

La profezia dell’orinatoio MAGGIO 1917 - 100 anni fa l’opera che rivoluzionò il rapporto tra arte, artista e pubblico

Il macellaio Graziani non fu perseguito e

nel 2012 il sindaco del suo paese gli dedicò un

monumento

(segue da pagina 1)... mesi fa. Prova del fatto che non sono le ore di apertura a fare la diffe-renza nella competizione. Esi-ste poi una questione politica e culturale. Nonostante la loro vocazione dogmatica verso il liberismo, i partiti cattolici e la Chiesa chiedono per le do-meniche e le festività, special-mente quelle religiose, limita-zioni per poter santificare le feste e dedicarsi alla famiglia. A livello sindacale ed a sinistra invece si punta il dito sul dirit-to di avere giorni festivi liberi fissi per poter organizzare la propria esistenza e non ren-derla totalmente dipendente dal lavoro. Poi c’è un proble-ma culturale, vale a dire il fatto che per molte organizzazioni politiche e imprenditoriali il fenomeno del consumo h24 è inarrestabile e va assecondato a tutti i costi. C’è chi addirit-tura come Scalfarotto, ex par-tecipante alle primarie del Pd, che chiama in causa il fatto che la famiglia “non tradizionale” abbia bisogno di fare acquisti nei festivi. Tuttavia il consu-mo h24, utile o compulsivo che sia, è stato indotto e so-stenuto dal modello culturale dominante ma anche dall’abi-tudine a trovare aperto tutto a qualunque ora. Una tendenza che il decreto Monti ha soste-

nuto ed alimentato. Ma il dibat-tito si dovrebbe spostare su un altro tipo di analisi da supportare con numeri. Se è ormai appurato che sul piano dei consumi/ricavi la liberalizzazione selvaggia non ha dato nessun beneficio al set-tore della Grande Distribuzione, come si pone il futuro del settore nei confronti della vendita onli-ne? Quali strumenti di regolazio-ne possono garantire entrambi i settori senza lasciare tutto alla guerra, alla competizione sfre-nata e ai conseguenti morti (dal punto di vista lavorativo) da la-sciare sul campo? Questo sarebbe già un argomento più interessan-te da supportare con dati e ana-lisi di prospettiva. Intanto non sarebbe male rivedere a livello

europeo tutta la normativa fisca-le per far pagare le tasse ai giganti della vendita online e farla fini-ta con paesi come l’Irlanda che fanno politiche fiscali aggressi-ve verso gli altri paesi UE. L’impatto sui territori. A Livor-no in materia di grande distri-buzione stiamo vivendo tutte le contraddizioni di questa fase del settore, accentuati anche dagli er-rori fatti dalle Amministrazioni comunali in termini urbanistici e strategici. Stiamo vivendo infatti la crisi di Unicoop Tirreno dovu-ta a fattori di scarsa competitivi-tà strutturale ed errori strategici con la fallita espansione verso il sud. Ma a Livorno Unicoop mo-stra anche le problematiche della grande distribuzione in termini

di ricavi e consumi. Nonostante il quasi monopolio a Livorno, Unicoop negli ultimi anni ha aperto altri due supermercati, Le-vante e Porta a Mare, dove però ha ricollocato gli esuberi degli altri negozi. Sintomo che anche al crescere del numero di negozi i consumi rimangono i soliti. Au-menta solo la competizione e la corsa ai prezzi che spreme ancora di più lavoratori e produttori ma non crea ricchezza e nemmeno risolve i problemi occupazionali. A intasare ulteriormente il setto-re l’anno prossimo arriverà Esse-lunga, il grande marchio che in questi anni ha gli indici migliori di efficienza e aumento dei fat-turati in Italia. Usiamo il verbo “intasare” perché Esselunga non porterà nessuna nuova ricchez-za in città ma andrà a prendersi la propria fetta a scapito di altri. Tutto legittimo, ci mancherebbe, così come le operazioni di mar-keting rispetto alle sponsorizza-zioni che hanno già annunciato. Purtroppo però Esselunga, come detto, andrà a saturare un merca-to già saturo anche per colpa di un’operazione, come quella Fre-mura-Nuovo Centro-Coop, volu-ta dalla vecchia amministrazione Pd e che “costrinse” gli attori in gioco a scegliere ancora Coop per coprire forse l’ultima fetta di mer-cato di distribuzione alimentare

in città. In questo modo, in un regime di semimonopolio, Esselunga (che aveva anche offerto di più per approdare a Nuovo Centro) è partita all’at-tacco per poter aprire il proprio punto vendita in un’altra zona trovando terreno fertile con la nuova amministrazione 5 Stel-le. Morale della favola: a causa di scelte passate forzate e sba-gliate, Livorno si ritroverà con un ennesimo superstore, addi-rittura dentro la città, che cau-serà un effetto domino. Anche con tutte le migliori intenzioni del mondo, che non stiamo qui né ad analizzare né a legitti-mare o delegittimare, l’impat-to sul territorio sarà negativo anche se qualcuno pensa che sia inevitabile per la situazione che si era venuta a creare con Coop. Rimane il fatto che forse solo i prezzi e quindi i clienti dei vari supermercati cittadini ne potranno beneficiare, ma la città in termini di ricchezza e lavoro scoprirà ben presto che tutti i segni più si compense-ranno con i segni meno. Non abbiamo mai letto da nessuna parte o visto territori rilanciar-si con i supermercati, soprat-tutto perché fanno parte di un sistema chiuso di circolazione di ricchezza. Saremmo felici di essere smentiti.

Festa selvaggia

Page 7: Splendori e miserie di un artista del fútbol Festa selvaggia · 2017-05-04 · Menotti preferisce un Houseman ubriaco piuttosto che un qualsiasi rincalzo sobrio. El Hueso corre poco

internazionale Anno XII, n. 126 7stile liberoMaggio 2017

coreano che il suo sostegno non è scontato né incondizionato. Pechino comunque non vedrebbe certo di buon grado un cambio di regime in Corea del Nord che gli farebbe trovare ai suoi confini un governo ostile. E le fanfaronate di Trump non tengono conto del fat-to che dopo anni di esportazioni negli USA i cinesi hanno una tale quantità di riserve in valuta statu-nitense e controllano una percen-tuale cosi rilevante del debito di Washington che nel caso di una grave controversia internazionale potrebbero mettere sul lastrico gli amici di oltreoceano. Una mossa che sarebbe comunque autole-sionistica perché un crollo del dol-laro avrebbe conseguenze gravis-sime anche sull’economia cinese. E la Corea del sud sarebbe dis-posta a fare da bersaglio alle

testate nuclari dei vicini del nord dopo l’eventuale attacco statunitense, prima che il potenziale militare di Pyong-yang venisse com-pletamente azzerato? Questa complessa rete di interdipen-denze lascerebbe pre-

vedere che come in passato anche stavolta il rischio di una guerra aperta sia molto improbabile, ma quante volte a scatenare le guerre sono stati proprio dei pazzi con le loro provocazioni e controprovo-cazioni?

NELLO GRADIRÀ

Al 38° parallelo, a cavallo del confine tra le due Coree,

c’è l’edificio dove ai tempi della guerra negli anni ‘50 si svolsero le trattative di pace. Ogni giorno alla stessa ora alcuni funzionari di organismi internazionali ar-rivano dal lato sud e depongono sul tavolo la documentazione per la firma dell’armistizio. Perché com’è noto la guerra non è mai formalmente terminata e dopo quasi settant’anni siamo ancora in regime di tregua. I nordcoreani ignorano la proposta, che giudi-cano solo propaganda, e il giorno dopo la storia si ripete.L’aneddoto è divertente ma la guerra di Corea non fu uno scherzo. Morirono milioni di per-sone e probabilmente se l’anno precedente l’Unione Sovietica non avesse fatto esplodere la sua prima bomba atomica gli USA avrebbero regolato la questione come avevano fatto con il Giap-pone nel 1945. E le due Coree continuano a vi-vere il clima della guerra fredda. A nord la paranoia dell’invasione ha generato una nefasta combi-nazione tra la dottrina dell’au-tosufficienza (yuche) e quella del “prima l’esercito” per cui le scarse risorse del paese finiscono in buona percentuale nelle spese militari. A sud corruzione e forti disuguaglianze vengono alla luce appena si gratta la superficie del

mito neoliberista della tigre asiatica.In questo quadro gli esperimen-ti nucleari che la Corea del Nord ogni tanto azzarda, sparando mis-sili che il più delle volte fanno cilecca, fanno comodo un po’ a tutti da quelle parti. Servono per riportare l’attenzione dell’opinione pubblica su questa zona del mon-do e ottenere aiuti dai potenti al-leati, Cina e Stati Uniti, che sono i veri protagonisti di questa contesa. Già ai tempi dell’amministrazione Obama gli Stati uniti avevano cerca-to di disimpegnarsi dalla palude me-diorientale per rivolgere l’attenzione all’estremo oriente dove è diventato di importanza vitale contenere la crescente influenza di Pechino ma i loro maggiori alleati nella regione,

Arabia Saudita e Israele, sono riusciti a evitare che si sganciassero del tutto. I primi passi del nuovo presidente usa Donald Trump in politica estera hanno abbondantemente superato la soglia del ridicolo. Prima un lan-cio di missili contro una base siriana semideserta (visto che prima del lancio erano stati avvertiti i russi che sono i migliori alleati del governo di Damasco), e qui da notare anche la gaffe di Trump che ha dichiarato “ho lanciato 56 missili contro l’Iraq”. Dopo che i sondaggi hanno rivelato un pauroso calo di popolarità l’ec-centrico tycoon ha pensato bene di rispolverare un nemico apparente-mente abbordabile e sempre adat-tissimo a ricoprire il ruolo di “stato canaglia” ogni volta che a Wash-

ington ne hanno bisogno. Però c’è stata subito la figuraccia sulla potentissi-ma “Armada” navale che Trump ha detto di aver in-viato nelle acque coreane, salvo poi scoprire che il gruppo di navi a cui faceva riferimento si stavano diri-gendo nella direzione op-posta per partecipare a una manovra congiunta con la Marina australiana.La cosa veramente stupe-facente è quindi leggere sulla stampa ufficiale che tra i due contendenti è il presidente nordcorea-no Kim Jong Un a essere considerato il pazzo del-la situazione. Verrebbe

spontaneo farsi una bella risata e riproporre la vecchia citazione

di Marx secondo cui la storia si ripete due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Da parte sua la Cina recentemente alle Nazioni Unite ha condannato uno dei test nucleari di Pyongyang facendo capire al governo nord-

ESTREMO ORIENTE - Nuovi timori per la crisi internazionale

Corea: ma il pazzo chi è?Kendrik Lamar - To Pimp A But-terfly (2015) In Italia la canzo-ne di protesta vive e sopravvive di anacronismi fuori dalla storia, figlia delle salme ammuffite di Guccini e com-pany o delle rab-biose invettive di qualche punk fuori tempo mas-simo: tutto rispet-tabile ma proba-bilmente inade-guato ai tempi. To Pimp A But-terfly è la canzo-ne di lotta nell’a-merica di oggi, la voce di chi è an-cora oppresso, il sale sulle ferite ri-aperte tra la stra-

da e le istituzioni. E’la voce di Compton che si fa universale. Odd Future - The OF Tape Vol.2 (2012) Negli anni ‘10 il passaggio da fe-nomeno web a mainstream è im-mediato. Ed è surreale vedere come un immaginario malato, da baby gang, ricco di eccessi e riferi-menti triviali riesca a diventare di massa e universalmente accettato. Nel mixtape di Odd Future tutti sono protagonisti ma emergono i fenomeni veri: Tyler, The Crea-tor, col suo immaginario minima-le ed oscuro e Frank Ocean l’au-tore che è riuscito a portare la musica R’n’B e soul nel terzo mil-lennio. Nel parlare di Odd Future è ovvio fermarsi a discutere di omofobia e misoginia: in OFW-GKTA colpisce perchè cruda e esibita, in molta musica indie è sottotraccia. Prima di buttare la croce su ragazzini dei sobborghi americani è opportuno (e neces-sario) uccidere il maschio alfa (o beta, se siamo hipster sensibili) che ci portiamo dietro da sempre. Tommy Genesis - World Vision (2015) La cosa più entusiasmante degli ultimi anni sono le infinite possi-bilità, la diffusione capillare, al-meno nel mondo occidentale di stili, culture, immagini e mode. Per fortuna continuo ad esaltarmi quando dal niente (da soun-dcloud, in realtà) viene fuori qual-cuno che sintetizza tutto e lo ri-getta nella rete diventando, in niente, un fenomeno da qualche milione di visualizzazioni. Ed è possibile farlo parlano esplicita-mente di sesso, religione e tutto quello che può entrare nella vita di un’adolescente canadese. Re-sterà qualche anno e ce ne scorde-remo, insieme a molte altre cose. Per ora è in loop. Playlist: http://bit.ly/2o3Gc3L

LUIS VEGA

Parlare oggi di musica rap o di cultura hip-hop significa rac-

contare la più rilevante sottocultu-ra urbana che, partendo dalle stra-de dei quartieri USA arriva nelle radio mainstream, nei centri so-ciali della fine degli anni 80, tor-na in strada e finisce in rete. Signi-fica semplificare un linguaggio che ha le proprie radici nelle feste di strada del Bronx, si trasforma in appartenenza e diventa imma-gine. Non è possibile in poche ri-ghe raccontare la densità di temi e il portato culturale di quello che è l’ultimo linguaggio comune col-lettivo, al di fuori della politica, di tutte le generazioni nate dagli anni ‘80 in poi. Nasce nel degrado suburbano come occasione di ri-scatto e diventa denuncia sociale e politica. E’ sperimentazione uma-na, sociale e, soprattutto, musica-le. Spesso quando si parla di Hip-Hop si parla di cultura, di poesia urbana, di arte visiva, di impatto sui giovani e si tralascia quello che, forse, è l’aspetto più interes-sante: la vastità di sperimentazio-ni musicali e liriche che solo un linguaggio aperto e che nasce dal basso può offrire. Da quando l’Hip-Hop diventa mainstream (da subito, praticamente) nell’im-maginario collettivo è musica nera fatta da piccoli criminali di quartiere che mirano a soldi, mac-chine, droga, donne e tutto quello che può venire in mente ad un giornalista di Libero. Al limite ne-gli anni ‘10, per chi guarda MTV tra una serie tv e l’altra, il rap è Bello Figo, il ragazzino qualun-que che provoca senza arte. Per chi lo vive è identità e riscatto, op-pure moda. Ma questo accade per ogni sottocultura che diventa di massa: chi muove i capitali è sem-pre ricettivo e pronto a trasforma-re e massificare tutto quello che è cultura e può diventare merce. La forma di resistenza non è necessa-riamente restare underground: spesso si resta underground anche da massificati. La rete, anche li-vornese, è piena di ragazzini che aspirano ad essere i nuovi Ice T (o, da provinciali, i nuovi Guè Pe-queno) raccontando di quanti grammi muovono alla settimana. Non esiste soluzione e, probabil-mente, ognuno è libero di vivere la propria sottocultura come pre-ferisce: far parte della crew più politica della città, cercare di fare la musica più bella possibile o scrivere le rime più pesanti (o leg-gere) del caso. E’ superficiale l’at-teggiamento divisivo nei confron-ti dell’ Hip-Hop: da un lato è roba fatta da neri ricchi ascoltata da bianchi della classe media, dall’al-tro è politica o è “la CNN del ghet-to”. La questione è più sfaccetta-ta: il rap, come ogni cosa che fa parte della vita di chiunque, è tutto questo. E’ politico ed è sva-

go. E’ profondo ed è superficiale. Non ha senso oggi inquadrare un fenomeno di massa in categorie so-ciali, politiche e musicali, di 30 anni fa. Quando un fenomeno si fa storia diventa senso comune e col-lettivo: a quel punto si può solo an-dare a cercare quello che c’è di buo-no e di meno buono senza dover inserire ogni aspetto in un fenome-no globale cheha mutato così tante forme da non essere nemmeno più riconoscibile. Negli anni molti arti-sti rap hanno prodotto opere che sono rimaste. E’ inutile parlare di The Message o di SxM, è meglio raccontare quelle che, almeno per il pubblico più mainstream (quello che non segue Vice o Pitchfork) sono rimaste in disparte. Perchè è necessario rimettere al centro del discorso la musica rap come territo-rio di sperimentazione artistica. Qui sotto qualcuno che ci ha prova-to o che ci prova ancora. A Tribe Called Quest - People’s Instinctive Travels and the Paths of Rhythm (1990) Alla fine degli anni ottanta l’hip hop era ancora una creatura figlia delle innovazioni sonore di Grand-master Flash e della poesia di stra-da di Jil Scott Heron: Chuck D raccontava l’aggregazione come un diritto di rivolta (Party For Your Ri-ght To Fight). ATCQ raccontavano la vita quotidiana dei ragazzi afroa-mericani di NY, quella vita non pie-na di sola rabbia e distante dalle invettive dei N.W.O. E’ l’esplora-zione del lato conscious e giocoso. E’ calore e colore, è jazz e non solo funk. E’ giocare con le parole e non solo cercare la punchline. E’ musica che oggi sarebbe da nerd. E’ sem-plicemente il più bel disco rap degli anni ‘90, il momento che qualcuno si ricorda che esiste anche l’amore. Negli anni a venire molti pagheran-no il giusto tributo a questo lavoro. Brand Nubian - One For All (1990)

Per un non anglofono il disco di de-butto dei Brand Nubian dovrebbe stare, di diritto, nella top 10 dei mi-gliori dischi rap di sempre. Funky ed energico, con i giusti appunti R’n’B potrebbe uscire tra due anni ed essere comunque attuale. Sopra questo c’è Grand Puba (Maxwell Dixon), per chi scrive il miglior MC degli anni 90, oscurato da figu-re più imponenti e importanti. One For All, però, vive di contraddizio-ni. Le stesse che tutto il movimento hip-hop americano (e di riflesso mondiale) è destinato a portare con sé: la misoginia e il sessismo, que-stioni irrisolte e radicate nella cul-tura hip-hop, machista anche nelle sue incarnazioni più illuminate e il rapporto con la religione, dove l’I-slam viene visto come occasione di riscatto sociale per tutta la popola-zione afroamericana. Un aggrega-tore ovviamente infinitamente più potente rispetto alla politica. One For All è e resta un capolavoro, sta a chi ascolta vivere e risolvere i cor-tocircuiti che crea. Common – Resurrecion (1995) Agli inizi degli anni’90 il problema principale dell’Hip-Hop, già feno-meno mondiale mainstream, era quello di mantenere integrità har-dcore e credibilità di strada cercan-do, nel frattempo, di diventare la next big thing: l’Hip-Hop parlava di Hip-Hop. Common Sense (Lonnie Rashid Lynn) si tira fuori da que-sto: non con la tecnica di Nas o Ra-kim ma solo con la conspevolezza di avere qualcosa da dire. In quei casi il linguaggio scelto è relativo: è solo urgenza creativa. Resurrection è I Used To Love H.E.R.: la più bella e sentita riflessione sulla dire-zione che ha preso e prenderà la musica e la cultura Hip-Hop. Antipop Consortium - Tragic Epilogue (2000) Per andare avanti occorre uccidere i padri. Via il soul, il funk e l’R’n’B. Rime asettiche su loop post apoca-

littici. Tragic Epilogue, primo al-bum del collettivo newyorkese è Anti-Pop, è elettronica che cerca di essere avanguardia. Probabil-mente l’importanza di questo di-sco è più nel concetto che nella re-alizzazione ma resta una pietra di paragone per chi cerca una strada diversa. cLOUDDEAD – cLOUDDEAD (2001) Con la diffusione della rete l’Hip-Hop entra nelle case dei nerd bian-chi della provincia americana. Musica indipendente, nel 2001, si-gnifica post- rock. Ogni riferimen-to al passato viene meno, cLOUD-DEAD è Hip-Hop solo per il rap-ping (trasfigurato e distorto). E’ ambient e lo-fi, distante dalla vo-glia di grandezza della vecchia scuola e più vicino a Autechre che a Afrika Bambaataa. Doseone, Why? e Odd Nosdam portano l’Hip-Hop in una dimensione nuo-va che vuole essere avanguardia: non è più solo urgenza creativa ma diventa lucido nichilismo e rinno-vamento. Kanye West - My Beautiful Dark Twisted Fantasy (2009) Kanye è un genio e MBDTF è il capolavoro HH degli ultimi dieci anni. Potrei finire qui. Il personag-gio Kanye West però è troppo in-gombrante per poter essere giudi-cato solo per i dischi: costante-mente al centro di tutti i nuovi media il suo ego smisurato lo ha, probabilmente a ragione, messo contro tutto e tutti. Per molti artisti è facile separare la persona dalla sua arte, quando si parla di Kanye no, quasi mai. Facendo così si ri-schia di perdere un disco enorme, radicalmente hip-hop che, però, abbraccia tutto quello che di bello è stato prodotto negli anni. Un la-voro neoclassico e magniloquente, d’avanguardia se non fosse l’e-spressione più profonda della cul-tura di MTV.

L’ultima sottocultura mainstreamSUONI - Viaggio casuale nell’immaginario e nella cultura Hip-Hop

2

PRENSA LATINA (*)

Appena poche ore dopo l’ap-provazione della discussa

riforma costituzionale in Tur-chia che concederà ampi poteri al futuro presidente, le garanzie costituzionali hanno comincia-to a soffrire un grave deteriora-mento. Durante la campagna sia l’opposizione che le delegazioni di osservatori internazionali del Consiglio d’Europa e della OSCE hanno denunciato intim-idazioni, parzialità dei media e forti restrizioni alla possibilità di realizzare eventi pubblici a dan-no dei sostenitori del NO, con-trari al governo.Dopo il voto i timori che fosse-ro messi in atto brogli elettorali sono stati confermati quando il Consiglio Superiore Elettorale (YSK) ha deciso, poco prima che si chiudessero le urne, di ac-cettare come valide schede senza il timbro ufficiale previsto dalla legge in Turchia.Ufficialmente i risultati han-no dato una vittoria di stretta misura al governo, con il 51,4% dei voti. La differenza tra i due schieramenti è stata di 1.380.000 voti, ma la missione OSCE ri-tiene che il numero delle schede fraudolente potrebbe raggiunge-

re i 2 milioni e mezzo, e le critiche sono state particolarmente gravi in quanto la missione ha dichiarato che il voto “si è svolto in un ambi-ente politico in cui sono state lim-itate le libertà fondamentali”.Alla richiesta di un’indagine im-parziale sui risultati sia il presiden-te Erdogan sia alcuni ministri han-no risposto in modo dispregiativo e con accuse contro gli osservatori internazionali di non essere obiet-tivi e di perseguire fini politici. Da parte sua il YSK il giorno dopo il voto ha chiuso le denunce di brogli negando qualsiasi ulteriore procedimento, nonostante la sua decisione di validare le schede sen-za timbro sia illegale. La gravità di questa sentenza deriva dal fatto che, pur essendo una violazione flagrante della legge, non è pos-sibile fare ricorso presso nessun tribunale superiore né presso la Corte costituzionale, anche se la maggioranza dei membri del YSK sono stati designati dal partito di governo.Alle manifestazioni e alle azioni di

protesta svoltesi in tutto il Paese le autorità han-no risposto con un’on-data di arresti contro politici, leader socia-li e mediattivisti per mancato rispetto delle istituzioni e per “incita-mento all’odio e oltrag-gio a pubblici ufficiali”.E anche con la negazi-one di diritti e libertà fondamentali come ad Antep, nel sudest del Paese, dove il governa-tore ha proibito per un mese qualsi-asi tipo di dichiarazione pubblica, marcia, distribuzione di volantini, raccolta di firme e attività politica e sociale. Un altro esempio del rapido dete-rioramento delle garanzie demo-cratiche nel Paese è stato l’arresto del documentarista e attivista per i diritti umani italiano Gabriele del Grande, mentre alla frontiera con la Siria realizzava interviste a rifu-giati.Le autorità hanno parlato della mancanza dell’accredito speciale

richiesto ai giornalisti in alcune zone della Turchia, per cui è stato inviato a un centro di internamento per stranieri in attesa del rimpatrio forzato che normalmente avviene nel giro di 48 ore. Tuttavia il gior-nalista è stato trasferito in un sec-ondo centro ad un altro estremo del Paese e messo in isolamento senza la possibilità di incontrare l’avvo-cato, i funzionari del consolato o i familiari.Provvedimenti che di per sé rappre-sentano una violazione della stessa legge turca, compresa quella sullo stato di emergenza in vigore nel Paese, per la quale si può trattenere

una persona per un massimo di cinque giorni. Quando dopo dieci giorni di de-tenzione il viceconsole italiano e un avvocato hanno cercato di far visita a Del Grande le autorità hanno negato questa possibilità, anche se ciò rappresenta una vi-olazione flagrante della Conven-zione di Vienna.Gli abusi contro i giornalisti tur-chi o stranieri sono aumentati a dismisura dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016, aggravati dall’as-senza delle garanzie processuali dovuta allo stato d’emergenza.Con l’approvazione della ri-forma costituzionale appare all’orizzonte un futuro più arbi-trario e dispotico, e lo stesso Er-dogan si è premurato di ricordar-lo personalmente quando giorni fa, in riferimento all’arresto del corrispondente di Die Welt, il giornalista turco-tedesco Deniz Yücel, ha dichiarato che finché lui sarà presidente non uscirà di galera, dimenticandosi che finora sono i tribunali a decid-ere dell’innocenza o della colpe-volezza delle persone.

(*) Traduzione e adattamento per Senza Soste di Nello Gradirà

Fine dello Stato di dirittoTURCHIA - Riforma costituzionale o colpo di Stato?

Una guerra aperta appare improbabile

ma c’è l’incognita Trump

Page 8: Splendori e miserie di un artista del fútbol Festa selvaggia · 2017-05-04 · Menotti preferisce un Houseman ubriaco piuttosto che un qualsiasi rincalzo sobrio. El Hueso corre poco

Periodico livornese indipendente - Anno XII n. 126 - Maggio 2017 - OFFERTA LIBERA (stampare questo giornale costa 0,66 €)Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70%

Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it

Pagina OttoAnno XII - n. 126 - Maggio 2017

CALCIO - Genio e sregolatezza dentro e fuori dal campo, l’argentino René Houseman può essere considerato a giusto titolo una delle ali destre che hanno fatto la storia del calcio

TITO SOMMARTINO

Era un’ala destra pura, non a caso sulla schiena portava

il numero 7. Era genio e srego-latezza. In campo faceva im-pazzire tutti con i suoi dribbling secchi (da qui uno dei suoi tanti soprannomi, Gambeta) e la capa-cità di sfornare assist e segnare con grande regolarità. Fuori dal campo amava alzare il gomito e se l’alcool ne ha minato la salu-te, l’ossessione per la bella vita gli ha svuotato il conto in banca. Per molti, in patria, era il… migliore. Ma non stiamo parlando di Geor-ge Best, bensì di colui che qualcu-no ha definito il talento argentino più puro dopo il dio del calcio.René Houseman, nome francese e cognome anglofono, nasce a La Banda, nella provincia interna di Santiago del Éstero. Con i geni-tori si trasferisce da bambino a Bajo Belgrano, una delle periferie più povere di Buenos Aires. Una vita subito in salita per lui che da piccolo era soprannominato Cer-do (maiale) perché non aveva ac-qua corrente per lavarsi. “Quan-do sembrava che potesse piovere portavo con me una saponetta”, raccontò in un’intervista”. Già da giovanissimo è costretto ad abbandonare la scuola per dare una mano alla famiglia ma l’e-vidente e smisurato talento che Houseman mostra col pallone tra i piedi sulle strade e sui campetti di periferia non passa inosserva-to. I primi ad accorgersene sono i dirigenti di una delle due squadre del barrio. Non quelli dell’Excur-sionistas, di cui è acceso tifoso, bensì degli acerrimi rivali del De-fensores de Belgrano. La carrieraIn due anni brucia tutte le tappe: passa in pochi mesi dalle giovani-li alla prima squadra, in seconda serie, e dopo 16 gol e altrettanti assist in 38 partite viene chiamato all’Huracán da un giovanissimo allenatore dall’occhio lungo che scriverà la storia del calcio argen-tino, César Luís Menotti. Che il giorno del suo debutto in Prime-ra dirà di lui: “Questo ragazzino smilzo e allampanato che avete visto oggi, diventerà la stella del calcio argentino”.Appena un anno più tardi sarà l’u-nico (insieme al suo compagno di club Carrascosa) a salvarsi nella deludente esperienza ai Mondia-li tedeschi. 3 gol in 6 partite non saranno sufficienti alla Seleción albiceleste, partita tra le favoritissi-me, a superare la seconda fase del torneo. Quattro anni più tardi, al contrario, sebbene sulla panchi-na sedesse proprio El Flaco, nel vittorioso (e tristemente famoso) mondiale argentino Houseman fa solo da comprimario. È di fatto il dodicesimo uomo e viene manda-to in campo a 15-20 minuti dalla fine per cambiare la gara o aprire in due le ormai stanche difese av-versarie.L’alcolAd una lettura più approfondita, il suo ruolo di comprimario di lusso ai Mondiali del ’78 è invece indicativo dell’assoluta grandez-

za del calciatore. Houseman era alcolizzato ormai da anni e la sua dipendenza lo aveva portato più volte a saltare allenamenti o arri-vare ubriaco alla partita. È passata alla storia quella contro il River Plate del 22 giugno 1975 quando El Hueso Houseman si presentò ne-gli spogliatoi del Huracán in con-dizioni pietose dopo le celebrazio-ni del primo compleanno di suo figlio. Dopo molte docce fredde e svariati caffè, Houseman scen-de in campo da titolare. Menotti preferisce un Houseman ubriaco piuttosto che un qualsiasi rincalzo sobrio. El Hueso corre poco e male ma al 40° segna un gol meraviglio-so. Si lancia in profondità superan-do in velocità i due centrali del Ri-ver, scarta il portiere della nazio-nale Fillol e insacca. Dopo di che si accascia a terra simulando un infortunio. “Non ne potevo più”, rivelò a carriera finita. “Bramavo solo di rientrare a casa e mettermi sotto le coperte”. I tifosi salutaro-no la sua uscita dal campo cantan-do un coro che lo avrebbe accom-pagnato per tutta la sua carriera: “Y chupe, chupe, chupe… no deje de chupar… el Loco es lo más grande del fútbol nacional!” (“Che beva, beva, beva, non smetta mai di bere, il Loco è il più grande del calcio nazionale”).Il suo talento cristallino vedrà la luce del tramonto ben prima di quando sarebbe scoccata l’ora del suo naturale declino. Anche il suo portafogli cominciò presto a svuo-tarsi. L’ossessione per la bella vita porta i suoi amici e i tifosi dell’Hu-racán, per i quali resta un idolo as-soluto, ad organizzare nell’anno 2000 una partita di beneficenza tra vecchie glorie del suo amato club e

rivelato che quando Perón morì, durante il Mondiale di Germania ’74, pensò seriamente di abbando-nare il ritiro per tornare in Argen-tina e presenziare ai funerali. “Fu il líder máximo di tutti gli argentini. Non come quel figlio di puttana di Videla”.Bandiera e banderuolaMa Houseman è anche un per-sonaggio ambiguo e controverso, tanto che molti adesso lo chia-mano “il voltagabbana”. Colpa dell’alcol, secondo alcuni. Fino a 15 anni fa non faceva mistero di idolatrare Maradona e odia-re Passarella. “Maradona? Il più grande di sempre”, diceva. “Solo Messi si avvicina a lui ma a Leo gli manca qualcosa per arrivare al suo livello”. Poi bastò che Mara-dona parlasse male di Riquelme perché cambiasse diametralmen-te pensiero: “Maradona è un cic-cione infame che odia tutti. Ama solo se stesso. Dice che ci sono dei codici di comportamento che devono essere rispettati? È peggio degli sbirri. Che torni in Arabia a rubare soldi e non metta più pie-de qua”. E poi: “Messi è molto meglio di Maradona, ma anche Cruyff e Pelé lo sono”. Marado-na gli rispose in un’intervista tv senza proferire parola ma facendo il segno della croce con l’indice e il medio della mano.Di Daniel Passarella, capitano e leader incontrastato dell’Argenti-na ’78, ha collezionato le seguenti dichiarazioni: “Non capisce nien-te di calcio”, “È un coglione”, “Quando giocava era un perso-naggio disgustoso”, “Uno spac-ca-spogliatoio”, “Un bastardo”. “Quando ebbi bisogno mi voltò le

una selezione di stelle nazionali in cui gli vengono donati i proventi dell’intero incasso.Fuori dal campoHouseman non ha mai fatto mi-stero di considerarsi un uomo di sinistra seppur non sia mai stato attivista di movimenti, associa-zioni o partiti politici. Quando gli hanno chiesto perché avesse accet-tato la convocazione al Mondiale del ’78 ha risposto che se avesse saputo cosa stava accadendo nel Paese avrebbe rifiutato la convo-cazione. Jorge El Lobo Carrascosa, capitano della nazionale albiceleste e dell’Huracán, quindi suo com-pagno di squadra, la convocazione però la rifiutò proprio per moti-vi politici. Per l’anniversario dei trent’anni del Mundial fu però uno dei pochissimi calciatori di quell’Argentina a partecipare alla marcia organizzata da Las madres de Plaza de Mayo. Una breve cam-minata che dalla famigerata Esma arrivò fino allo stadio Monumen-tal che intendeva riabilitare i gio-catori e perdonarli per aver accet-tato la convocazione. In un’intervista a El Gráfico del 2002, quando l’Argentina era in piena crisi economica, giustifi-cò l’ondata di espropri proletari che colpirono le grandi catene commerciali. “Cosa volete, che la gente muoia di fame? Se non avessi sfondato col calcio e avessi avuto bisogno li avrei saccheggiati anch’io i grandi magazzini”. Ma non ha mai partecipato ad alcun cacerolazo. “Condivido – disse un giorno - ma mi vergogno a scende-re in piazza con un mestolo e un tegame”.Peronista convinto, El Hueso ha

spalle: gli chiesi un piccolo aiuto economico per seppellire mia ma-dre e si rifiutò”. Solo pochi anni più tardi la riconciliazione: “Pas-sarella? È il numero uno. Come persona e come un calciatore. Mi ero arrabbiato per quella storia del funerale di mia madre ma Da-niel mi rispose così perché il suo River aveva appena perso in casa col Newell’s ed era comprensibil-mente arrabbiato. Un giorno noi campioni del mondo del ’78 ci siamo ritrovati nel ristorante che Passarella aveva con Gallego. Mi si avvicinò per parlarmi e io nel dubbio avevo già afferrato il col-tello. Ma si scusò subito”.Ma facciamo un passo indietro, l’ultimo. Houseman conclu-de la sua carriera con la maglia dell’Excursionistas, la squadra che amava sin da bambino. In re-altà la sua carriera El Hueso l’ave-va chiusa da tempo. Appesantito e già alcolizzato, con i Villeros gio-ca appena 24 minuti. Un omag-gio per niente dovuto e scontato data la sua militanza nel Defen-sores de Belgrano. I cui tifosi, in-fatti, non la prendono benissimo definendolo, così come si fa con quelli importanti, “persona non grata”. Insomma, un po’ Best, un po’ Garrincha, un po’ Corbatta. Ma non certo un esempio di coeren-za e fedeltà. In due parole, René Houseman.

Splendori e miserie di un artista del fútbol

Solo uno chocNIQUE LA POLICE

Troppo spesso e troppo a lungo in politica ci si è affidati alla speranza

dello choc salvifico. Un qualcosa che, magari avvenuto al di fuori dei nostri confini, si mostra così forte da essere in grado di terremotare una situazione stagnante frenando l’impoverimento culturale e materiale della società itali-ana. Negli ultimi decenni, fatte salve la sincronia temporale tra il ‘68 italiano ed europeo e quella del movimento noglobal, difficilmente lo choc esterno si è rivelato salvifico a sinistra. Anche perché l’Italia è, politicamente parlan-do, un laboratorio dotato di una sua propria originalità, si pensi a Berlusconi e Grillo, e più che di choc esterni questo paese ha mostrato di avere bisogno di idee praticabili all’interno. La difficoltà italiana di replicare movimenti come Podemos o Syriza, nella stessa scala in cui si erano implementati nel loro paese, mostra anche i caratteri dell’orig-inalità politica locale. A differenza dell’Europa core dove, fatte salve le spec-ificità locali e i differenti sistemi politici, tra SPD tedesca, socialisti francesi, La-bour e socialisti spagnoli, ad esempio, vi erano significativi tratti di somiglianza e quindi possibilità di socializzare le in-novazioni. Oppure guardando agli altri schieramenti, tra Dc tedesca, popolari spagnoli e gollisti il processo di omo-geneizzazione, grazie anche allo stes-so fattore di livellamento della sinistra europea ovvero quello bancario-finan-ziario, ha avuto significativi tratti alme-no fino alla crisi dei nostri anni. Insom-ma, l’Italia ha avuto, anche per riflesso del suo passato, dei tratti di originalità, di specificità rispetto agli choc politici del mondo globale. Oggi però questi tratti sono, soprattutto, caratterizzati, in tutti gli schieramenti non solo istituz-ionali, dalla mancanza di innovazione, di strategia e dall’incapacità di avere un profilo di società adatto ai cambiamen-ti che ci attendono. Verrebbe davvero da dire che questo paese ha bisogno di un forte choc esterno per reagire, per trovare una direzione di cambiamento altrimenti negata. Visto che, nella stag-nazione, si sta davvero decomponen-do. Certo, nel caso, ci sarebbe solo da scegliere. Choc da tassi di interesse in crescita, da crisi della valutazione del debito italiano, da bassa crescita, da austerità europea, da Brexit, da bolla ci-nese, da declino demografico, da guer-ra alle porte, da migrazioni, da bolla americana di qualche settore a rischio dal 2008? Ci sarebbe solo da scegliere, se le ipotesi del prossimo futuro fosse-ro prodotti del supermercato. Il punto è che ognuna di queste crisi avrebbe le potenzialità per far capire a questo paese, se avesse gli strumenti cognitivi giusti al momento giusto, che deve cambiare completamente asse. Fanta-politica? Gli choc esterni rischiano di esserci, la capacità di cambiare rischia di non esserci. Questa è la realtà con la quale bisogna fare i conti. Per cambiare sul serio.

FRANCO MARINO

Con l’arrivo della primavera e delle festività di Pasqua, Pa-

squetta, 25 aprile e 1 maggio si riapre ogni anno il dibattito sulle aperture festive di supermercati e ipermercati. Ma col passare degli anni, al di là di polemiche ed in-teressi divergenti fra quei sogget-ti chiamati imprese, lavoratori e consumatori, esistono dati e ana-lisi che mettono dei paletti fissi su cui costruire un ragionamento? Sì. C’è un primo dato oggettivo: la grande distribuzione organizzata (Gdo), da quando il settore è stato liberalizzato, non sta aumentando la produttività tanto che il 2016 si è chiuso con un calo dello 0,6% in termini di consumi. Lo ha det-to Marco Moretti, presidente del Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali, sul Sole24Ore dello scorso 13 aprile dove ha fatto an-che un quadro quantitativo del set-tore Centri Commerciali: 360mila dipendenti diretti, 35mila negozi, 51 miliardi di fatturato e 1,8 mi-liardi di visitatori ogni anno. La liberalizzazione del 2012 e l’Europa. Oggi in Italia un nego-zio può restare aperto quanto e quando vuole, senza limiti legati ai prodotti venduti come avviene

invece in altri paesi europei. Que-sta possibilità è stata introdotta dal decreto “Salva Italia” promosso dal governo di Mario Monti alla fine del 2011 ed entrato in vigore nel 2012, permettendo a negozi e supermercati di restare aperti 24 ore al giorno e tutti i giorni della settimana, domenica compresa, pagando i lavoratori quanto previ-sto dalla legge per il lavoro nottur-no e festivo (di solito il 30% in più della paga ordinaria). E nel resto d’Europa? A differenza di ciò che dicono i sostenitori del consumo h24, negli altri paesi europei, sep-pur la tendenza sia quella a limita-re il meno possibile le aperture nei festivi (come da Raccomandazio-ne del giugno 2014 del Consiglio dell’Unione Europea che chiede l’apertura del mercato e la rimo-zione dei vincoli), ci sono norme più stringenti. Intanto vediamo la normativa Ue: l’unico vincolo, contenuto nella direttiva europea sull’orario di lavoro (2003/88/EC), è quello di concedere al di-pendente un giorno di riposo dopo sei di impiego, che però non ne-cessariamente deve cadere in un festivo. In Germania sono i Land che decidono il numero di giorni di apertura nei festivi. Ci sono però deroghe in cui è possibile l’apertu-

ra illimitata specialmente in zone turistiche e nella zona di Berlino vicino a stazioni e centri. In Fran-cia non è permessa l’apertura nei festivi ma ci sono molte deroghe per aree metropolitane e posti tu-ristici. Sicuramente però l’apertura nei festivi non può essere sistema-tica ed automatica, infatti Ikea nel 2008 ha preso quasi mezzo milio-ne di euro di multa dal governo. In Gran Bretagna dal 1994 è con-sentita l’apertura domenicale ai negozi di più di 280 metri quadrati mentre per i festivi come Pasqua e Natale i vincoli sono più serrati an-che se sottoposti a possibili dero-ghe. In Spagna invece vige il limite di una domenica al mese, eccetto a dicembre, ma come negli altri pae-si ci sono molte deroghe a seconda delle località. Insomma in Europa la tendenza è simile alla nostra ma la normativa più stringente e la-scia in mano all’autorità pubblica il potere regolatorio. Intanto giace da 3 anni in Parlamento una leg-ge promossa dai 5 Stelle che pro-pone la limitazione all’apertura di 6 festivi su 12 ogni anno. Il dibattito politico. Fatto questo quadro normativo possiamo passa-re al dibattito più propriamente po-litico ed economico. Dai dati che emergono una cosa è certa: l’aper-

tura indiscriminata non aiuta né i consumi né il lavoro. Fino ad oggi ha promosso una competizione selvaggia mirata soprattutto all’e-liminazione dell’avversario che però non ha aumentato i fatturati ma sottoposto a ulteriore pressio-ne sia il management che i lavo-ratori, scontentando tutti. Senza considerare che la competizione sfrenata sta avendo effetti anco-ra più devastanti sui fornitori, a partire dai produttori agricoli ma allargandosi anche all’industria alimentare ormai in balìa delle strategie commerciali della grande distribuzione. Visto che i consumi interni non crescono per la crisi economica e per le politiche di au-sterità, non rimane che grattare il fondo del barile del proprio com-petitore per sopravvivere rimanen-do aperto più a lungo. Ma si tratta di una visione disperata che nella liberalizzazione selvaggia lascia feriti sul campo. Basterebbe mette-re regole uguali per tutti in modo tale da razionalizzare la competi-zione evitando comportamenti ir-razionali. L’ultimo esempio è sta-to Carrefour che ha provato con le aperture notturne a frenare l’e-morragia delle perdite ma alla fine ha dichiarato 500 esuberi pochi... (continua a pagina 3)

Festa selvaggiaLe consuete polemiche sulle aperture festive dei centri commerciali portano con sé la fotografia di un settore dove impera la competizione selvaggia dal 2012 (decreti Monti) ma dove gli effetti delle aperture 24h e 7/7 su ricavi, lavoro e fornitori non sono affatto positivi. Dagli altri paesi europei fino alla nostra città il quadro appare chiaro e necessita di un cambiamento.

Mensile. Sede: via dei Mulini, 29Direttore Responsabile: Paola Chiellini

Tipografia: SaxoprintRegistrazione del Tribunale di Livorno

n° 5/06 del 02/03/2006