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Sofocle Antigone traduzione di Ettore Romagnoli PERSONAGGI: ANTÌGONE ISMENE CREONTE CUSTODE EMONE TIRESIA MESSO EURIDICE CORO di vecchi Tebani GUARDIE, POPOLO La scena sull'acropoli di Tebe, dinanzi alla reggia. (È l'alba. Dalla reggia escono Antìgone e Ismene) ANTIGONE: O mia compagna, o mia sorella, Ismene, sai tu quale dei mali che provengono da Èdipo, Giove sopra noi non compia, mentre siamo ancor vive? Oh!, nulla v'è di doloroso, di funesto e turpe, di vergognoso, che fra i mali tuoi, fra i mali miei visto non abbia. E adesso, qual bando è questo, che il signore, dicono, fece or ora gridar nella città? Lo sai? Lo udisti? O ignori tu che offese, come a nemici, sugli amici incombono? ISMENE: Nessuna nuova, né trista né lieta, dei nostri amici, Antigone, mi giunse, da quando entrambe noi di due fratelli orbe restammo, in un sol giorno uccisi con reciproca mano. E poi che lungi la scorsa notte andò l'argivo esercito, io null'altro mi so: né piú felice né sventurata piú di pria mi reputo. ANTIGONE:

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Page 1: Sofocle Antigone

Sofocle Antigone

traduzione di Ettore Romagnoli

PERSONAGGI:

ANTÌGONEISMENECREONTECUSTODEEMONETIRESIAMESSOEURIDICECORO di vecchi TebaniGUARDIE, POPOLO

La scena sull'acropoli di Tebe, dinanzi alla reggia.(È l'alba. Dalla reggia escono Antìgone e Ismene)

ANTIGONE: O mia compagna, o mia sorella, Ismene, sai tu quale dei mali che provengono da Èdipo, Giove sopra noi non compia, mentre siamo ancor vive? Oh!, nulla v'è di doloroso, di funesto e turpe, di vergognoso, che fra i mali tuoi, fra i mali miei visto non abbia. E adesso, qual bando è questo, che il signore, dicono, fece or ora gridar nella città? Lo sai? Lo udisti? O ignori tu che offese, come a nemici, sugli amici incombono?ISMENE: Nessuna nuova, né trista né lieta, dei nostri amici, Antigone, mi giunse, da quando entrambe noi di due fratelli orbe restammo, in un sol giorno uccisi con reciproca mano. E poi che lungi la scorsa notte andò l'argivo esercito, io null'altro mi so: né piú felice né sventurata piú di pria mi reputo.ANTIGONE: Ben lo sapevo; e fuori del vestibolo perciò ti trassi: per parlarti sola.ISMENE: Che c'è? Qualche tuo detto oscuro sembrami.ANTIGONE: Non sai tu che Creonte, onor di tomba concesse all'uno dei fratelli nostri, l'altro mandò privo d'onore? Etèocle,

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come la legge e la giustizia vogliono, sotto la terra lo celò, ché onore fra i morti avesse di laggiú; ma il corpo di Poliníce, che perí di misera morte, ha bandito ai cittadini, dicono, che niun gli dia sepolcro, e niun lo gema, ma, senza sepoltura e senza lagrime, dolce tesoro alle pupille resti degli uccelli, che a gaudio se ne cibino. Questo col bando impose il buon Creonte a te, dicono, e a me - lo intendi? a me! - e che vien qui per proclamarlo chiaro a chi l'ignora; e che non prenda l'ordine alla leggera; e chi trasgredirà, lapidato morir dovrà dal popolo della città. Son questi i fatti. E presto mostrar dovrai se tu sei generosa, o se, da buoni uscita, sei degenere.ISMENE: Se a questo siamo, o sventurata, come stringere io mai potrei, sciogliere il nodo?ANTIGONE: Vedi, se oprare vuoi, meco affrontare...ISMENE: Quale cimento? Il pensier tuo dov'erra?ANTIGONE: Se dar sepolcro vuoi meco al defunto.ISMENE: Vuoi seppellirlo, e la città lo vieta?ANTIGONE: Anche se tu rifiuti: traditrice niun potrà dirmi: è mio fratello e tuo.ISMENE: Quando Creonte fa divieto, o misera?ANTIGONE: Strappar non mi potrà da chi m'è caro!ISMENE: Ahimè!, sorella, al padre nostro pensa, che odïato morí, per le sue colpe ch'egli stesso scoprí, d'onore privo, e con la man sua stessa ambe le luci si svelse; e poi la madre sua, sua moglie - di nomi orrida coppia! - a un laccio stretta, scempio fe' di sua vita; e i due fratelli, terza sciagura, l'un l'altro s'uccisero in un sol giorno, miseri, e compierono con reciproche mani il triste fato. Ora noi due, sole rimaste, vedi quanto sarà la nostra fine orribile, se i decreti del principe e il potere trasgrediremo, della legge a scorno.

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Ed anche a ciò convien pensare: femmine siamo, e non tali da lottar con gli uomini; e assai piú forti son quelli che imperano; e obbedire dobbiam dunque ai loro ordini, e se fosser piú duri. Io dunque, ai morti chiedo perdono, poi che son costretta, ed ai potenti obbedirò: ché ardire oltre le proprie forze, è cosa stolta.ANTIGONE: Piú non ti prego; né se ancor tu l'opera partecipar volessi, io di buon grado t'accetterei: sii tu quale esser brami. Sepolcro io gli darò; bella, se l'opera avrò compiuta, mi parrà la morte. E cara giacerò presso a lui caro, d'un pio misfatto rea: poiché piacere piú lungo tempo a quelli di laggiú debbo, che a quelli che qui sono. Là giacer debbo in eterno. E tu, se credi, disprezza pure ciò che i Numi pregiano.ISMENE: Non lo disprezzo io, no; ma fare quello che la città divieta, io non ardisco.ANTIGONE: Tu tal pretesto adduci: io vado, e il tumulo innalzo intanto al fratel mio diletto.ISMENE: Misera me! Come per te pavento!ANTIGONE: Non temere per me! Pensa a salvarti.ISMENE: Non svelare ad alcuno il tuo disegno, ma nascondilo; e anch'io farò cosí.ANTIGONE: Ah, no, parla! Odïosa piú se taci mi sei, che se ne fai pubblico bando.ISMENE: Abbrividir mi fa ciò che t'infiamma.ANTIGONE: Ma piaccio a quelli a cui piacere io debbo.ISMENE: L'impossibile brami; e non potrai.ANTIGONE: Quando piú non potrò, desisterò.ISMENE: L'impossibile tenti; e sarà vano.ANTIGONE: Se questo dici, l'odio mio sarai, e infesta anche al defunto; e sarà giusto. Or me, la mia follia, lascia che soffrano l'orrenda pena: niun saprà convincermi

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ch'io non affronti questa morte bella.ISMENE: Muori dunque, se vuoi; ma questo sappi: che stolta sei, ma cara a chi pur t'ama.(Escono)

CANTO D'INGRESSO DEL CORO(Entra una schiera di vecchioni. Dopo alcune evoluzioni, accompagnatedal canto, si fermano nell'orchestra, dinanzi all'ara di Diòniso)CORO: Strofe prima Raggio di sole che appari piú bello fra quanti ne apparvero innanzi, sovresse le porte di Tebe, infine tu giungi, o pupilla dell'aureo giorno, movendo sui fluidi rivi di Dirce, poiché con l'asprissima sferza scotesti alla fuga il duce dei candidi scudi, che d'Argo, in assetto di guerra completo, qui giunse, che sopra la nostra contrada piombò - Poliníce l'addusse con alma iraconda - acuto clangore levando, a guisa d'un'aquila con l'ali coperte di candida neve, molte armi recando ed elmetti fulgenti d'equini cimieri.

Antistrofe prima Stette sovresse le nostre magioni, schiudendo sanguigna una fauce di schiere, sovresse le porte. Ma poi volse altrove le penne, avanti che rémpiere il rostro potesse col sangue di Tebe, e il serto di torri bruciasse Efesto coi pini. Tal romba di guerra piombò ad essi sul dorso, infesta ai nemici del drago. Ché i vanti di lingua grandíloqua aborre il Croníde; e com'egli irromper li vide fra l'armi lo strepito e l'oro, con tanto profluvio, lanciando d'un folgore

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la fiamma, scoscese chi già s'apprestava sui merli piú eccelsi a gridar la vittoria.

Strofe seconda E folgorato piombò, rimbalzò su la terra, stretta la face in pugno, colui che con impeto folle moveva all'assalto, con raffiche d'infesta procella. Contrario fu invece il successo; e vario destino a ciascuno, nel cozzo di guerre, il grande Are serbava, che a corso propizio reggeva le briglie. Poiché sette duci, schierati ciascuno dinanzi a una porta, di fronte a un campione, lasciarono, a Giove trofeo, tutte l'armi. Soltanto i due miseri figli d'un grembo, d'un padre, le lancie entrambe vittrici, appuntando al seno un dell'altro, retaggio di morte comune riscossero.

Antistrofe seconda Or, poiché giunse Vittoria, la Dea glorïosa che le sue grazie a Tebe, famosa pei carri, concesse, cessate le guerre, conviene cercare l'oblio, ai templi dei Numi conviene che accedano tutti, che danze per tutta la notte s'intreccino. E Bacco, onde il suolo di Tebe sussulta, ci guida. Ma vedi che il re della terra, figliuol di Menèceo, Creonte, novello Signore, per queste novelle vicende che i Numi ci mandano, appressa. A qual porto volgea dei disegni il remeggio, che tutti qui volle, col bando d'un unico aralao, che questo consesso di vecchi raccolse?(Dalla reggia esce Creonte)CREONTE: Amici, i Numi che con gran tempesta scossero la città, novellamente, sicuramente, ancor la rialzarono. Ed io messaggi a voi, soli fra tutti, mandai, qui vi chiamai, perché so bene che del trono di Laio ognora voi

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veneraste il potere; e allor ch'Èdipo Tebe redense, e quando al suo fin giunse e il regno ebbero i figli, il pensier vostro restò fedele. Ed or che quelli caddero, vibrando a un punto e ricevendo il colpo, con fratricida scempio, io, che piú prossimo parente sono dei defunti, in me tutto assommo il potere, occupo il trono. Possibile non è conoscer l'anima di verun uomo, l'indole e il pensiero, se nel governo pria, se nelle leggi non sia visto alla prova. Ecco, e per me, chi, governando intera una città, non s'attïene agli ottimi consigli, ma freno per timor pone alla lingua, tristo mi par fra i tristi, e ognor mi parve; e chi piú conto dell'amico fa che della patria, è un uom da nulla, affermo. Ma io - lo sappia Giove onniveggente - non tacerei, se la iattura, invece della salute, irrompere vedessi sui cittadini; né stimar potrei amico un uomo alla sua patria infesto. Ché nella patria certo, è la salvezza; e quando essa galleggia, è agevol cosa procurarsi gli amici: io la città render saprò con queste leggi prospera. Ed ordini conformi intorno ai due figli d'Èdipo, bandir feci: Etèocle, che per questa città, poi che ogni prova di valore compie', pugnando cadde, si seppellisca, e quanti onori spettano ai piú illustri defunti, a lui si rendano; ma suo fratello, Poliníce, dico, l'esule che tornò, che il patrio suolo strugger volea col fuoco, e i Numi aviti, che del sangue fraterno abbeverarsi voleva, e trarre gli altri in servitú, costui col bando imposi alla città che niun gli dia sepolcro, e niun lo pianga, ma si lasci insepolto, e, divorato dagli uccelli e dai cani, e, deturpato, sia visibile il corpo. È questo il mio divisamento: ché non mai da me avranno uguale onore i buoni e i tristi: sol chi devoto alla città si mostra, in vita e in morte, onore avrà da me.CORIFEO: Di Tebe all'inimico e a chi l'amò tal sorte assegni tu, Creonte, figlio di Menèceo: tu puoi qualsiasi legge

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sui morti imporre, e sopra noi pur vivi.CREONTE: Or vigilate dunque a ciò ch'io dissi.CORIFEO: Questo carico affida ad uom piú giovane.CREONTE: Del cadavere son pronti i custodi.CORIFEO: Quale altro ordine, dunque, impartir vuoi?CREONTE: Non dar quartiere a chi li trasgredisca.CORIFEO: Niuno è sí folle, che morir desideri.CREONTE: Tale avrebbe mercè. Ma la speranza di lucro, trae spesso a rovina gli uomini.(Entra, a passo tardo, esitante e pavido, un soldato. È unodei custodi posti a guardia del cadavere di Polinice)CUSTODE: Signore, io non dirò che per la fretta giungo traendo il fiato a stento, o che veloce il piede mi rapí: ché a troppe pause i pensier m'indussero, e piú volte mi girai, per rifar la via già fatta. Ché mi parlava il cuore, e mi diceva: «Perché, misero, vai dove dovrai, giunto appena, scontarla? Oh sciagurato, e allora non andrai? Ma se Creonte saprà tutto da un altro, non dovrai patir la pena tu?» - Rimuginando questi pensieri, andavo lemme lemme; e cosí la via breve si fa lunga. Vinse il partito di venire, alfine. Eccomi. E nulla dir ti posso. Eppure parlerò: ch'io m'afferro alla speranza ch'io patirò ciò sol che vuole il fato.CREONTE: E perché giungi mai cosí sgomento?CUSTODE: Prima di me ti vo' parlare: il fatto io né compiei, né chi lo compie' vidi: sarebbe ingiusto a me la pena infliggere.CREONTE: Bene prendi la mira, e tutto in giro da questa colpa ti schermisci. Nuove son le notizie che tu rechi, sembra.CUSTODE: E cattive. E per questo io tanto titubo.CREONTE: Dille una buona volta, e dopo vattene.CUSTODE:

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Te lo dirò. Qualcuno ha seppellito poco fa quel defunto, ed è scomparso: sopra le membra sparse arida polvere, tutte compie' le cerimonie debite.CREONTE: Che dici mai? Quale uomo tanto osò?CUSTODE: Non lo so: poiché lí, colpo di zappa non si vedeva, non gitto di pala; ma dura e secca intorno era la terra, senza solco di ruote e senza zolle; né vestigia lasciò l'operatore. E come all'alba a me la prima scolta diede l'annunzio, uno stupor doglioso tutti pervase: era sparito il morto: non già sepolto; ma una lieve cenere cospersa era su lui, come da chi schivar volesse il sacrilegio; e segno non pareva di fiera, e non di cane che a lanïarlo qui fosse venuto. E suonarono allora acerbi detti degli uni contro gli altri; ed il custode rampognava il custode; e si veniva ai colpi già, né alcun v'era a frenarci: ché poteva ciascuno esser colpevole, ma non parere; e tutti diniegavano. Ed eravamo già disposti a stringere ferri roventi nelle mani, a muovere tra le fiamme, a giurar per i Celesti, che noi del fatto operatori, o complici di chi l'avea compiuto o disegnato, non eravamo. E quando, infine, nulla non si trovò, per quanto investigassimo, uno parlò, che a tutti il capo volgere, per la paura, fece a terra. E infatti, nulla c'era da opporgli: eppur, buon esito non vedevamo al suo consiglio alcuno. Esso dicea che conveniva a te riferire l'evento, e non tacerlo. E vinse il suo parere. E a me tapino tanta fortuna riserbò la sorte. E a mal mio grado io giungo, a chi m'accoglie, lo intendo bene, a mal suo grado: ché un messagger di mali a niuno è grato.CORIFEO: La coscïenza mia da un pezzo dubita o re, che questa opera sia d'un demone.CREONTE: Taci, prima che d'ira i detti tuoi m'empiano, e a un tempo tu stolido e vecchio t'abbia a scoprir: ché quanto dici tu,

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che cura abbian gli Dei di questo morto, patire non si può. Rendergli onore vollero, lo coprirono, perché venne a bruciare le colonne e i templi e i sacri voti, a struggere la loro terra, e le leggi? Vedi tu che i Numi onorino i malvagi? Oh!, non è vero! Il vero è questo: da gran tempo v'erano uomini che il poter mio sopportavano di mala voglia in Tebe, e mormoravano, scotendo il capo di nascosto, e il collo non tenean, come giusto è, sotto il giogo, tanto che me gradissero. Da questi, lo intendo, per mercede, indotti furono quei che l'opra compieron: ché fra gli uomini cosa non v'ha piú trista del denaro: questo perfino le città distrugge, questo discaccia dalla patria gli uomini, questo è maestro che perverte l'anime oneste a compiere opere malvage, d'ogni ribalderia questo la pratica, d'ogni empietà l'ardire apprese agli uomini. Ma quanti per mercede a ciò s'inducono, arriva il giorno che la colpa espiano. Ma se pur vero è ch'io venero Giove, sappi ben questo, e giuro io te ne faccio: se non trovate, e innanzi agli occhi miei non mostrate chi die' sepolcro al corpo, non basterà che discendiate all'Orco; ma, vivi appesi, rivelar dovrete prima la colpa; e d'ora in poi, saprete d'onde il lucro si può trarre, farete di lí, rapina; e apprenderete quanto poco profitti onde che sia ghermirlo. E tu, vedrai dai mali acquisti piú tratti a rovina che a salute gli uomini.CUSTODE: Posso parlare, o partir devo súbito?CREONTE: Non sai quanto il tuo dir già m'ha crucciato?CUSTODE: Nelle orecchie ti morde, oppur nell'animo?CREONTE: Vuoi precisare di mia doglia il punto?CUSTODE: Il reo ti morde il cuore: io sol l'orecchio.CREONTE: Ahimè, quanto sei d'indole ciarliera!CUSTODE: Ma non però di questa colpa reo.CREONTE:

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E l'anima venduta hai per denaro.CUSTODE: Ahimè! Tristo chi crede, e la credenza è falsa!CREONTE: Su la credenza sin che vuoi sofistica; ma se mostrar non mi sapete chi fu della colpa reo, conoscerete che il turpe lucro è artefice di doglia.(Rientra nella reggia)CUSTODE (Fra sé, allontanandosi): Faccio ogni voto che si scopra; ma si scopra o no, ché questo la Fortuna giudicherà, non sarà mai che tu qui tornare mi veda. Ora che salvo, contro ogni attesa, contro ogni speranza sono, ringrazio di gran cuore i Numi.

PRIMO CANTO INTORNO ALL'ARACORO: Strofe prima Molti si dànno prodigi, e niuno meraviglioso piú dell'uomo. Sino di là dal canuto mare, col tempestoso Noto, procede l'uomo, valica l'estuare dei flutti, e il mugghio; e la piú antica degli Dei, l'immortale Terra, l'infaticata, col giro spossa, anno per anno, degli aratri, col travaglio d'equina prole.

Antistrofe prima E degli augelli le stirpi liete cinge di reti, ne fa preda, e le tribú di selvagge fiere, e le marine stirpi del ponto con le spire d'inteste reti, l'uomo scaltrissimo: è signore, con l'astuzia, di quante fiere movon selvagge pei monti, e il giogo pone al crinito cavallo, e al toro infaticato, sovressi i monti.

Strofe seconda L'infaticato pensiero, e i suoni vocali rinvenne, e le norme del viver civile, e a fuggire gli etèrei dardi d'inospiti ghiacci, di piogge nemiche. Gran copia d'astuzie possiede;

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né verso il futuro, se mezzi di scampo non vede, s'inoltra. Solo trovar dall'Ade scampo non può; ma contro immedicabili morbi, rinvenne salutari strade.

Antistrofe seconda Oltre ogni umana credenza, il genio dell'arti inventore possiede; ed ora si volge a tristizia, ed ora a virtú. Se onora le leggi dei padri, e degl'Inferi il giuro, la patria egli esalta. Ma patria non ha chi per colmo d'audacia s'appiglia a tristizia. Vicino all'ara mia mai non s'annidi l'uom che cosí adopera, e mai concorde al mio pensier non sia.(Si avanza Antigone trascinata dalle guardie)CORO: È questo un divino portento che incerto mi lascia. Io ben veggo che Antigone è questa fanciulla: e come negarlo potrei? O misera, o figlia d'un misero padre, d'Èdipo! E come? Tu forse ai comandi del principe fosti ribelle, e, colta nell'opra insensata, t'adducono qui?CUSTODE: Questa è colei che l'opera compieva: costei sorpresa abbiamo, che al cadavere dava sepolcro. Ma dov'è Creonte?CORIFEO: Eccolo. A punto dalla casa giunge.CREONTE: Esco a punto? Perché? Per quale evento?CUSTODE: Per i mortali, o re, nulla è che possano giurar che non avvenga: il pensier nuovo rende falso l'antico. Avrei presunto per le minacce tue che m'investirono, come tempesta, or or, che non avrei avuto fretta di tornare; e invece, poiché la gioia, quando è fuori ed oltre la nostra speme, ogni piacere supera, contro il mio giuramento, eccomi qui. E reco a te questa fanciulla, còlta che la tomba adornava; e non fu d'uopo

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di trarre a sorte: mia fu la fortuna, non d'altri. E adesso, o re, prendi costei, come ti piace, esàminala, giudicala; ma giusto è ch'io dai guai rimanga libero.CREONTE: Ove costei che guidi hai presa? E come?CUSTODE: Seppelliva essa il corpo: il tutto sai.CREONTE: Intendo bene? E vero è ciò che dici?CUSTODE: Vidi costei che contro il tuo divieto il corpo seppellía: non parlo chiaro?CREONTE: E come vista fu? Come sorpresa?CUSTODE: Il fatto andò cosí. Come tornammo colà, colpiti dalle tue minacce fiere, spazzata via tutta la polvere che ricopriva il morto, e messo a nudo tutto il viscido corpo, in vetta al poggio noi ci sedemmo, contro vento, dove non giungesse il fetore; e, stando all'erta, con male ingiurie l'un l'altro eccitava, se mai la guardia trascurasse. E corse lungo tempo cosí, finché del sole giunse il globo fulgente in mezzo al cielo, e l'aria ardeva. Ed ecco, all'improvviso una procella sollevò, flagello sceso dal cielo, un nugolo di polvere, invase i campi, della selva stesa nel piano, tutta deturpò la chioma, pieno tutto ne fu l'ètere immenso. Serrando gli occhi, noi sopportavamo quella furia celeste; e quando poi cessata fu, ché lungo tempo corse, la lanciulla fu vista. E si lagnava con grida acute di doglioso augello allor che degl'implumi orbo il giaciglio scorge nel vuoto nido. Essa del pari, come vide il cadavere scoperto, ruppe in gemiti; e contro quei che l'opera compie', lanciava imprecazioni orrende; e súbito raccolta arida polvere, lo coperse; e levata alta una brocca bella, di bronzo levigato, serto fece di tre libagïoni al morto. Noi che vedemmo, ci scagliammo, e súbito la fanciulla afferrammo. Ed essa, nulla si sbigottí. Rimprovero di quanto fatto aveva e faceva, a lei fu vòlto:

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e nulla essa negò: sí che piacere e dolore ad un tempo a me recava: ché ai malanni sfuggir, cosa è dolcissima; ma condurvi gli amici, è doloroso. Ma per me, tutte queste belle cose contano poco assai, quando si tratta della mia vita: io son fatto cosí.CREONTE (Ad Antigone): Di' tu, che il capo chini al suol: confessi d'aver compiuta l'opera, o lo neghi?ANTIGONE: L'ho compiuta: confesso, e non lo nego.CREONTE (Al custode): Andar tu puoi dove ti piace: libero sei della grave accusa. (Ad Antigone) E in breve tu di', senza ambagi: il bando che vietava di far ciò che facesti, era a te noto?ANTIGONE: Certo. E come ignorarlo? Esso era pubblico.CREONTE: E pur la legge vïolare osasti?ANTIGONE: Non Giove a me lanciò simile bando, né la Giustizia, che dimora insieme coi Dèmoni d'Averno, onde altre leggi furono imposte agli uomini; e i tuoi bandi io non credei che tanta forza avessero da far sí che le leggi dei Celesti, non scritte, ed incrollabili, potesse soverchiare un mortal: ché non adesso furon sancite, o ieri: eterne vivono esse; e niuno conosce il dí che nacquero. E vïolarle e renderne ragione ai Numi, non potevo io, per timore d'alcun superbo. Ch'io morir dovessi, ben lo sapevo, e come no?, pur senza l'annuncio tuo. Ma se prima del tempo morrò, guadagno questo io lo considero: per chi vive, com'io vivo, fra tante pene, un guadagno non sarà la morte? Per me, dunque, affrontar tale destino, doglia è da nulla. Ma se l'uomo nato dalla mia madre abbandonato avessi, salma insepolta, allor sí, mi sarei accorata: del resto non m'accoro. Tu dirai che da folle io mi comporto; ma forse di follia m'accusa un folle.CORO: A fiero padre fiera figia appare

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la fanciulla: non sa cedere ai mali.CREONTE: Però, sappi che l'indoli piú dure s'abbatton piú d'ogni altra; e il rigidissimo ferro temprato al fuoco, infranto a un colpo lo vedi spesso; e una piccola briglia so che doma i corsieri impetuosi: ché non dee superbir chi d'altri è servo. Costei die' prova della sua protervia quando le leggi imposte vïolò: dopo la colpa, una seconda volta proterva ora si mostra, che dell'opera insuperbisce e ride. Ed uomo adesso piú non sarei, ma questa uomo sarebbe, se non avesse pena, anzi trionfo. Ma figlia sia d'una sorella, o stretta a me di sangue piú di quanti Giove protegge sotto i miei tetti, all'orribile sorte sfuggire non potrà, né seco la sua sorella: ché non men di questa dell'averlo sepolto io quella incrímino. Chiamatela: ché in casa or or la vidi, che furïava, uscita era di senno. Or, chi nel buio trama infamie, l'anima si lascia in frode innanzi tempo cogliere. E chi, sorpreso nel delitto, vuole con bei detti esaltarlo, io l'aborrisco.ANTIGONE: Di piú vuoi far che prendermi ed uccidermi?CREONTE: Io no: tutto otterrò, se questo ottengo.ANTIGONE: Che dunque indugi? Delle tue parole niuna m'è grata, e mai non mi sarà grata: anche a te, cosí, piacer non possono le mie. Ma donde mai gloria piú fulgida acquistare potrei, che al mio fratello dando sepolcro? E lode a me darebbero tutti costoro, se terror le lingue non rinserrasse: privilegi ha molti la tirannide; e questo anche fra gli altri: che dire e far ciò ch'essa vuole può.CREONTE: Ciò fra tanti Cadmèi tu sola vedi?ANTIGONE: Vedono anch'essi; e per piaggiarti, tacciono.CREONTE: Saggia sei tu che sola osi il contrario?ANTIGONE: Non è turpe onorare un consanguineo.CREONTE:

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Fratello il suo nemico anch'ei non t'era?ANTIGONE: Certo: d'un padre nato e d'una madre.CREONTE: E un onor che l'offende ad altro rendi?ANTIGONE: Ciò non direbbe quei che spento giace.CREONTE: Certo, se al par di lui tu l'empio onori.ANTIGONE: Non un servo è il caduto: è mio fratello.CREONTE: Assalí Tebe; e la difese Etèocle.ANTIGONE: Ade per tutti quanti i riti brama.CREONTE: Ma non che uguali il buono e il tristo li abbiano.ANTIGONE: Chi sa se pio questo non sembri agl'Inferi?CREONTE: Neppur morto sarà caro il nemico.ANTIGONE: Gli amori teco e non gli odii partecipo.CREONTE: Se bisogno hai d'amore, all'Orco scendi, ed ama quelli di laggiú; ma mentre vivo, mai donna non comanderà.(Sulla soglia della reggia appare Ismene)CORIFEO: Ecco Ismene dinanzi alla soglia, che lagrime versa d'amore fraterno, e una nube deturpa sovresse le ciglia il volto sanguineo, bagnando la florida guancia.CREONTE: Tu che come una vipera appiattata stavi nella mia casa - e non sapevo io, che nutrivo del mio trono un duplice sterminio, un crollo duplice - confessi che tu fosti partecipe nel dargli sepolcro, o giuri che tu nulla sai?ISMENE: Se consente costei, confesso: complice sono, e con lei partecipo la colpa.ANTIGONE: Ma non consente la giustizia: ché né tu volesti, né compagna io t'ebbi.ISMENE: Ma sul mar dei travagli a te compagna farmi della tua pena, io non mi pèrito.

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ANTIGONE: Chi compie' l'opra, Ade e i defunti sanno; e chi m'ama a parole, a me non piace.ISMENE: Sorella, no, non reputarmi indegna ch'io teco muoia, e teco il morto onori.ANTIGONE: Morir meco non devi, e far tuo quello che non compievi; la mia morte basta.ISMENE: Priva di te, qual vita può piacermi?ANTIGONE: Dimandalo a Creonte! È il tuo tutore!ISMENE: Perché mi strazi senza tuo vantaggio?ANTIGONE: Sebbene io di te rida, il cruccio ho in cuore.ISMENE: Dimmi, in che cosa mai potrei giovarti?ANTIGONE: Salva te stessa: invidia io non ne avrò.ISMENE: Negata m'è la tua sorte, o me misera!ANTIGONE: Tu la vita scegliesti, ed io la morte.ISMENE: Le mie ragioni a chiari detti esposi.ANTIGONE: Tu sembrasti a taluni, ad altri io saggia.ISMENE: Ed uguale d'entrambe è pur l'errore.ANTIGONE: Fa' cuor! Tu vivi; e da gran tempo è morta l'anima mia: potrà giovare ai morti.CREONTE: Di queste due fanciulle, una si svela ora demente: l'altra è da che nacque.ISMENE: Il senno, o re, neppur dov'esso germina resta nelle sciagure, anzi via fugge.CREONTE: Certo, fuggí da te, quando eleggesti opere tristi insiem coi tristi compiere.ISMENE: Come viver potrò senza costei?CREONTE: Non dir costei: ché in vita non è piú.ISMENE: La sposa di tuo figlio ucciderai?CREONTE: Altri solchi ci sono, e arar si possono.

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ISMENE: Ma non com'era questa a quello adatta!CREONTE: Pei figli miei detesto tristi femmine!ISMENE: Come, diletto Emón, t'offende il padre!CREONTE: Troppo mi tedi tu, con queste nozze.CORO: Vuoi davvero costei rapire al figlio?CREONTE: Troncherà queste nozze Ade per me.CORO: Decisa è, pare, di costei la morte.CREONTE: Da me, da te decisa. E non s'indugi. Dentro, servi, traetela; e sian femmine d'ora in poi, né lasciate che sian libere: ché a fuga i temerari anch'essi pensano, se presso all'Ade la lor vita veggono.(Antigone ed Ismene sono trascinate dentro. Creonte s'allontana)

SECONDO CANTO INTORNO ALL'ARACORO: Strofe prima Beato chi scevro di mali trascorre la vita. Ché, quando l'ira degl'Inferi scuote la casa, nessuna sciagura risparmia la stirpe, ma sovra le repe. Cosí, quando un flutto rigonfio per le raffiche infeste di Tracia corre sopra gli abissi marini, dal fondo travolge la livida arena; e all'urto dei venti, un fremito mandano le opposte scogliere.

Antistrofe prima Gli antichi cordogli vedo io nella casa di Làbdaco sopra i cordogli dei morti piombare: né tregua la stirpe concede alla stirpe: ché alcuno dei Numi a rovina la spinge, né accorda riscatto. Ed or, su l'estrema radice, nella casa d'Edípo, una luce brillava; ma polvere sanguigna degl'Inferi, follia di parole adesso, e delirio di mente la spengono.

Strofe seconda Qual mai tracotanza degli uomini, Giove, frenare può la tua forza, cui ne' suoi lacci non stringe il Sonno che preda tutto,

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non i mesi che corrono infaticati; ma da vecchiezza mai sempre immune, reggi, sovrano, d'Olimpo lo sfavillante bagliore. E il passato ed il presente e il futuro reggerà questa legge: senza pena verun eccesso mai nella vita sarà degli uomini.

Antistrofe seconda La molto errabonda speranza utile a molti mortali adduce, ad altri molti di vane frivole brame l'inganno. Né alcun ciò che s'appressa sa, se col piede prima non tocca l'ardente fiamma. Celebre è quella parola detta da un uom di saggezza: Spesso il male sembra un bene ad un uomo a cui la mente volse un Nume alla rovina. E da rovina ben poco tempo lontano resta.(Esce dalla reggia Creonte, e poco dopo appare anche Emone)CORIFEO: Ecco Emóne, il piú giovin rampollo dei tuoi figli: crucciato ei s'avanza per la sorte d'Antigone, sposa promessa, doglioso per la speme di nozze delusa.CREONTE: Si vedrà presto, e piú sicuramente che da profeti. (Ad Emone) Udisti la condanna della fanciulla a te promessa, o figlio, e giungi in furia contro il padre; o sempre, checché mi faccia, caro a te sarò?EMONE: Padre, tuo sono. A me coi tuoi consigli segni la via diritta, ed io la seguo: nozze mai non saranno, ch'io pregevoli piú della tua sicura guida reputi.CREONTE: Ecco! Cosí bisogna aver disposto l'animo, o figlio: ai mòniti paterni ogni cosa posporre; e perciò gli uomini, quando figliuoli han generati, s'augurano obbedïenti nella casa averli, sí, che nei guai rintuzzino il nemico, e al par del padre onorino l'amico. Ma chi genera invece figli inutili, dirai che procacciò travagli a se

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stesso, di scherno appiglio ai suoi nemici. Mai la lusinga del piacer di femmina di senno uscire non ti faccia, o figlio. Freddo, sappi, è di femmina l'amplesso che sia trista compagna del tuo talamo: piaga peggior non c'è d'un tristo amore. Sputa su lei come nemica, lascia questa fanciulla che qualcuno sposa l'abbia in Averno: ch'io palesemente l'ho còlta, mentre, sola ella fra tutti, tradiva la città: né innanzi a Tebe sarà ch'io manchi alla parola mia; bensí l'ucciderò: canti di doglia levi ella pure a Giove consanguineo. Ché se i parenti miei vivere io lascio senza piú freno, che faran gli estranei? Se giusto è un uom nella sua casa, giusto se governa lo stato anche sarà; ma chi le leggi tracotante víola, e vuole ordini imporre a chi governa, mai non sarà che lode abbia da me. Ma chi dai cittadini eletto fu, nelle minime cose e nelle giuste obbedito esser deve ed in ogni altra. Un uomo tale io fede avrò che sia a comandare e ad ubbidir disposto, a rimaner, nel turbine di guerra, saldo compagno nelle file, e giusto. Male maggiore invece non esiste della mancanza d'ordine: per questa vanno in rovina le città, disperse vanno le case, le schiere alleate fuggono infrante dalla pugna. Invece, la disciplina dà vittoria, e salva ai piú la vita. È necessario dunque difendere le leggi, e a nessun patto consentir che una femmina ci vinca. Se cadere si dee, meglio cadere per man d'un uomo: dir non si potrà che noi fummo piú fiacchi d'una femmina.CORO: Giusti, se pur non ci privò del senno la grave età, ci sembrano i tuoi detti.EMONE: Padre, fra quanti beni i Numi agli uomini concedono, supremo è l'intelletto. Io, che non giusto sia ciò che tu affermi, dir non potrei, non lo saprei. Ma pure, anche un altro parlar bene potrebbe. Per tuo vantaggio investigo io ciò ch'altri opera o parla, o a biasimo t'appone.

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La tua presenza, sbigottiti rende i cittadini, sí che non ti dicono mai ciò che udire non ti piace: invece io tutto posso udir, quanto nell'ombra dicendo van: che la città commisera questa fanciulla, immacolata piú d'ogni altra donna, e che compiuta ha l'opera la piú nobile, e in cambio ne riceve la piú misera morte. Essa il fratello che nel suo sangue cadde, non lasciò che dai cani voraci e dagli uccelli fosse distrutto: non è dunque degna d'esser coperta d'oro? - Ecco le voci che, basse, oscure, vanno attorno. Ora, io, bene non c'è che reputi maggiore, o padre, della tua prosperità: pei figli, infatti, c'è pregio piú nobile che la fama e il fiorir del padre loro, e pel padre dei figli? Or tu, nell'animo non accoglier quest'unico pensiero, che ciò che dici tu, quello sia giusto, e poi null'altro. Chi d'avere crede senno egli solo, ed anima e parola come niun altri, se lo cerchi dentro, vuoto lo trovi. A un uomo, e sia pur saggio, non è disdoro molte cose apprendere, e non esser cosí rigido. Vedi presso i torrenti impetuosi, gli alberi che si flettono, intatti i rami serbano: quelli che invece fan contrasto, svelti dalle radici piombano. E cosí, chi su la nave troppo tese tiene sempre le scotte, e mai non le rallenta, naufraga infine, e naviga sui banchi capovolti. Su via, l'ira tua frena, e muta il tuo parer. Ché, se a me giovane dare un consiglio è lecito, io ti dico che per un uomo, il meglio è certo nascere pien di saggezza; ma tal sorte è rara; e bello è pur da chi ben dice apprendere.CORIFEO: Se a proposito parla, udirlo, o re, devi; e tu lui: bene diceste entrambi.CREONTE: All'età mia, da un giovine cosí, apprendere dovrò dunque a far senno?EMONE: A fuggire ingiustizia. Io sono giovine; ma non badare agli anni: al senno bada.CREONTE: Fare onore ai ribelli, è una bella opera?

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EMONE: Non ti vo', no, misericorde ai tristi.CREONTE: Di tristizia non è costei macchiata?EMONE: No, dice tutto il popolo di Tebe.CREONTE: A me dirà ciò ch'io far debbo, il popolo?EMONE: Vedi come or tu da fanciullo parli?CREONTE: Io regnar devo, o deve altri per me?EMONE: Città non è quella ove uno solo può.CREONTE: Ché! Non è del sovrano la città?EMONE: Bel sovrano saresti, in un deserto!CREONTE: Costui, sembra, alleato è della femmina!EMONE: Se femmina sei tu: ché a te provvedo.CREONTE: Movendo lite al padre tuo, ribaldo?EMONE: Perché vedo che sbagli, e non sei giusto.CREONTE: Perché rispetto i miei diritti, sbaglio?EMONE: No, se gli onor sacri agl'Iddii calpesti.CREONTE: O trista indole! O servo d'una femmina!EMONE: Ma non servo d'alcuna turpitudine.CREONTE: Tutto ciò che tu dici è per difenderla.EMONE: E per difender te, me stesso, e gl'Inferi.CREONTE: Tua sposa, in questa vita, oh!, non sarà.EMONE: E sia, morrà; ma non morrà già sola.CREONTE: A tanto arriva l'ardir tuo? Minacci?EMONE: Minaccia è forse opporsi alla stoltezza?CREONTE: Non cianciar piú: sei schiavo d'una femmina!EMONE: Vuoi parlar solo, e che niun ti risponda?CREONTE:

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Tu, pazzo, vuoi curarmi? Ah, dovrai piangere!EMONE: Te direi pazzo, non mi fossi padre!CREONTE: Davvero? Ah! per l'Olimpo, a te l'ingiurie pro' non faranno, sappilo. - Recate qui l'odïosa femmina: morire deve innanzi al suo sposo, al fianco suo.EMONE: Innanzi a me? Non lo sperare, no! Ella a me presso non morrà, né tu il viso mio vedrai piú: con gli amici che a te son ligi, resta al tuo delirio.(Esce furibondo)CORIFEO: Veloce, o re, partí nell'ira il giovine; in un cuor di quegli anni, il cruccio è fiero.CREONTE: Faccia, presuma piú che un uom non possa; ma salvar non potrà queste fanciulle.CORIFEO: Dunque, disegni e l'una e l'altra uccidere?CREONTE: Quella che non peccò, no, dici bene.CORIFEO: E di qual morte vuoi farla morire?CREONTE: In un sentiero dove uomo non trànsiti la condurrò, la seppellirò viva in un antro roccioso; e accanto a lei tanto cibo porrò, quanto sol basti ad evitare il sacrilegio, a rendere immune Tebe dal contagio. E Averno invochi quivi, il Dio ch'ella sol venera. Forse otterrà cosí di non morire; o forse apprenderà quanto è superflua pena onorare quei che in Ade giacciono.(Si allontana)

TERZO CANTO INTORNO ALL'ARACORO: Strofe Amore, invitto nelle battaglie, Amor che piombi fra le contese, che su le molli gote di vergine dimori, che sopra il mare, sopra le agresti case t'aggiri, né alcuno t'evita dei Numi eterni, né alcun degli uomini che un giorno vivono, e i cuor delirano che tu pervadi!

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Antistrofe Ad ingiustizia tu sin le menti spingi dei giusti, con loro scorno. Tu questa lite or provochi fra genti consanguinee. E della vergine bella dai cigli, chiaro è, la Brama vince, che siede signora presso le Grandi Leggi. Fra i Numi è Cipride invitta, e domina col suo capriccio.(Dalla reggia esce, fra le guardie, Antigone condotta al supplizio)CORIFEO: Ed anch'io dalle leggi distolto sento il cuore, a tal vista, e le fonti rattenere del pianto non so, quando Antigone veggo affrettarsi al giaciglio ove tutti han riposo.ANTIGONE: Strofe prima O cittadini della terra mia, vedete me che il tramite ultimo batto, l'ultima luce del sole miro, né piú mai la vedrò. Ché, viva ancora, Ade, che tutti accoglie, me trascina alla spiaggia del fiume d'Acheronte: alle mie soglie inno di nozze non suonò, ché sorte non m'ebbi d'Imenèi: io sarò sposa al Nume della Morte.CORIFEO: Perciò glorïosa e lodata a quella funerea latèbra tu muovi; né colpo t'afflisse di morbo letal, né di spada toccasti mercede; ma, sola fra gli uomini, all'Ade, ancor viva scendesti poiché tu volesti.ANTIGONE: Antistrofe prima So che a morte miserrima soggiacque su le vette del Sípilo la stranïera frigia, di Tantalo la figlia. L'avvincigliò, tenace al pari d'ellera, un germoglio di roccia; e nevi e pioggie cadono su lei che si dissolve a goccia a goccia; e a lei sul seno piovono dal ciglio lagrime. - È uguale il Dèmone ch'ora m'adduce all'ultimo giaciglio.CORIFEO: Diva ella era, e di stirpe divina,

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tu mortale sei, d'uomini stirpe. Anche morta, per te sarà vanto che il destino di vita e di morte pari avesti coi figli dei Numi.ANTIGONE: Strofe seconda Ahi, mi schernite! Deh, pei Numi patrii, perché non attendete ch'io sia lungi, e l'ingiuria mi scagliate sul viso, o patria, o della patria cittadini opulenti? Voi, fontane dircèe, te, sacra selva dell'equestre Tebe, or testimoni invoco, come, non pianta dagli amici, io movo, e per che leggi, a un carcere, a un sepolcro, ad una fossa inaudita. Oh misera! Ospite non di vivi né di morti, non d'ombre né d'uomini sarò.CORIFEO: Giunta agli estremi limiti d'ardire, o figlia, sopra l'eccelsa ara di Dirce cadesti! Forse qualche fallo paterno espíi.ANTIGONE: Antistrofe seconda La piú dogliosa mia pena toccasti, il travagliato pianto del padre mio, di tutta la sciagura comune dei famosi Labdàcidi. Oh, bruttura del talamo materno, oh della mia madre infelice incestuose nozze, ond'io misera nacqui! E deve ad essi or questa maledetta muovere, presso a loro aver soggiorno. E tu fratello, quali tristi nozze avesti in tuo retaggio! Morendo, me struggesti ch'ero tuttora in vita.CORIFEO: Santo è dei morti il culto; ma chi stringe il potere, il poter vïolare non può: l'émpito ingenito in te, ti volge a morte.ANTIGONE: Non pianto, non amici, non inni nuzïali: a me s'appresta

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sol questa via funesta. Né la sacra pupilla vedere piú m'è lecito del sol: per la mia sorte da ciglio amico lagrima non stilla.(Giunge improvviso Creonte)CREONTE: Or non sapete che se fosse lecito parlar pria di morire, e nenie e gemiti niun cesserebbe mai? Volete in fretta condurla via? Nella profonda tomba, come v'ho imposto, sia rinchiusa, e sola vi sia lasciata, e ch'ivi morir debba, o in quell'antro restar viva sepolta. Pure del sangue suo le mani avremo; ma sarà priva del consorzio umano.ANTIGONE: O tomba, o nuzïal camera, o eterna mia prigione rupestre, ove m'avvio verso i miei cari che defunti giacciono la piú gran parte, e li ospita Persèfone! Ultima ora io fra loro, e assai piú misera, discendo, prima che sia giunto il termine della mia vita. E, lí discesa, spero giunger diletta al padre, a te diletta, madre, diletta, o mio fratello, a te. Ché, poiché spenti foste, io vi lavai con queste mani, vi vestii, v'offersi le libagioni funebri. E perché cura mi presi della salma tua, o Poliníce, il mio compenso è questo. Pure, per quanti han senno, io bene feci ad onorarti. Ch'io non mai, se figli avessi avuti, se lo sposo morto mi fosse, e stesse a imputridire, mai questa fatica assunta non avrei contro il voler dei cittadini. E quale legge m'incuora a dire ciò? Se morto uno sposo mi fosse, un altro sposo avrei potuto avere; e un altro figlio da un altr'uomo, se un figlio era la perdita. Ma poi che padre e madre asconde l'Orco, germogliar non mi può nuovo fratello. Per questa legge onor ti volli rendere piú che ad altri, o fratello; ed a Creonte sembrò che rea, che temeraria io fossi; e a forza ora m'ha presa, e mi trascina, che non talamo seppi od imenèi, né sorte ebbi di nozze, e non di pargoli ch'io nutricassi; ma, cosí tapina, dagli amici deserta, io viva scendo

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alle fosse dei morti. E qual giustizia di Numi vïolai? Ma gli occhi agl'Inferi volgere ancora, che ti giova, o misera? Quale alleato invocherò, se taccia d'empietà guadagnai per esser pia?CORIFEO: Gli urti ancor delle stesse procelle costei signoreggiano ancora.CREONTE: E per questo, color che la guidano piangeranno la loro lentezza.ANTIGONE: Ahimè, com'è questa parola vicina alla morte!CREONTE: Non t'incoro a sperar che gli eventi possano esito avere diverso.ANTIGONE: O rocca paterna del suolo tebano, e voi, Numi antenati, mi traggono via: non v'è indugio. Vedete, o signori di Tebe, che debbo soffrir, da quali uomini, perché pïetosa volli essere, io, sola superstite del sangue dei re.(Antigone esce)

QUARTO CANTO INTORNO ALL'ARACORO: Strofe prima Anche la bella Dànae mutò la luce eterea con un bronzeo carcere, nascosta fu nei vincoli di sepolcrale talamo. Ed era, o figlia mia, o figlia mia, di nobil sangue, e il germine di Giove custodía, disceso in grembo a lei come aurea piova. Ma del Destino è grave la potenza; e non armi e non ricchezza né torre o negra nave ch'erra per mare ad evitarla giova.

Antistrofe prima E di Driante l'iracondo figlio anch'esso, il re degli Èdoni, in un roccioso carcere chiudere fe' Dïòniso pei suoi rabbiosi oltraggi. Il furente rigoglio

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stilla cosí di sua demenza. E apprese che nel suo folle orgoglio lanciati oltraggi a un Nume avea. Ritegno alle femmine infuse del Dio porre voleva, e il fuoco bacchico spengere; e delle Muse del flauto amiche provocò lo sdegno.

Strofe seconda E presso le cerule rocce del duplice mare le spiagge si stendon del Bosforo, Salmidesso si stende, ove Marte che presso dimora, la piaga mirò maledetta che accecava i due figli di Fíneo. L'aprí la selvaggia noverca con le mani cruente e le cuspidi delle spole; e nell'orbite cieche s'annida vendetta.

Antistrofe seconda Piangeano, struggendosi, miseri!, la misera pena, retaggio per essi del talamo della madre infelice. E progenie pur era d'Erèttidi, e in antri remoti cresciuta, fra i nembi paterni, la figlia di Borea, l'emula, in ripidi sentieri, ai cavalli, la prole di Numi; e pur, lei prosternarono le Parche longeve.(Giunge Tiresia, il vecchio profeta cieco, guidato per la manoda un fanciullo)TIRESIA: Siam qui, di Tebe principi; con gli occhi d'un solo in due la stessa via battemmo: ché d'un cieco è la via dietro alla guida.CREONTE: Qual nuovo evento c'è, vecchio Tiresia?TIRESIA: Te lo dirò; ma tu mi devi credere.CREONTE: Mai per l'innanzi, fede io ti negai.TIRESIA: Per questo la città diritta naviga.CREONTE: Per prova io lo asserisco: util ne trassi.TIRESIA: Sul taglio di fortuna or vai: fa' senno.CREONTE: Che c'è? Le tue parole odo, ed abbrivido.

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TIRESIA: Dell'arte mia gl'indizi odi; e saprai. Mentre io posavo su l'antico seggio degli auspíci, ove il porto a me si schiude degli aligeri tutti, uno schiamazzo odo strano d'augelli, che strillavano, punti dall'estro, in voci orride e barbare, e lacerava l'un l'altro con l'unghie sanguinolenti. Io me n'avvidi, il rombo dell'ali era per me sicuro indizio. Io, sbigottito, sopra l'are, súbito fuoco accesi ardentissimo, tentai far sacrificio. Ma non divampò dalla cenere il fuoco: anzi, colò sulla cenere un viscido rigagno, e fumava, e schizzava; e in aria il fiele si sparpagliava; e i femori grondanti nudi restavan dell'omento. Queste funeree profezie d'ambigui riti io da questo fanciullo appresi allora: ché guida agli altri io sono, e questi a me. E tal morbo funesta la città pel tuo disegno: ché gli altari e l'are pieni son della carne, che vi spargono cani ed uccelli, dell'esposto misero figlio d'Èdipo; e quindi avvien che i Numi né preci piú né sacrifizi accettano da noi, né fiamma dalle pingui cosce; né uccello emette voci intelligibili, se vorò d'uom trafitto il grasso e il sangue. Perciò, figlio, fa senno: a tutti gli uomini è possibile errar; ma sconsigliato, disgraziato non è dopo l'errore, chi, caduto nel mal, non vi si adagia, anzi, cerca un rimedio. Invece, taccia ha di stoltezza la protervia. Or tu cedi al defunto, non colpire un morto. Sarà prodezza uccidere un cadavere? Pel tuo bene pensai, pel tuo ben parlo; e dolcissima cosa è dare ascolto a chi ben parla, quando utile arreca.CREONTE: Come arcieri al bersaglio, o vecchio, tutti lanciate i dardi contro me: né illeso rimasi pur dall'arte dei profeti. Sí! Che questa genía da lungo tempo mercanteggiato m'ha, venduto m'ha. Fate lucro, su via, vendete elettro di Sardi, se vi piace, oro dell'India; ma nol potrete seppellir, neppure se volessero l'aquile di Giove

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le sue carni predar, recarle innanzi al trono del gran Dio: neppure allora, per evitar tanta sozzura, il corpo io seppellire lascerò. Degli uomini nessuno può contaminare i Numi, lo so bene: anche i piú furbi degli uomini, vecchio Tiresia, turpemente cadono, quando l'induce a turpi detti il lucro.TIRESIA: Ahimè! Rifletti. Alcun degli uomini saprebbe...CREONTE: Che mai? Quale dimanda a tutti volgi?TIRESIA: Quanto ogni bene il buon consiglio supera.CREONTE: Quanto stoltezza è pessimo fra i mali.TIRESIA: E di tal male sei tu tutto invaso.CREONTE: Col profeta non vo' scambiare oltraggî.TIRESIA: Lo fai, se affermi ch'io predíco il falso.CREONTE: La genía dei profeti avida è tutta.TIRESIA: Ama, quella dei regi, i turpi lucri.CREONTE: Sai che quello che dici, al re lo dici?TIRESIA: Per opra mia sei re, Tebe salvasti.CREONTE: Tu ben predíci; fare il mal ti piace.TIRESIA: Ciò che in mente ho rinchiuso a dire m'ecciti.CREONTE: Schiudilo pur; ma non t'ispiri lucro.TIRESIA: Giudichi dunque tu che lucro io cerchi?CREONTE: Ma non potrai dai miei disegni smuovermi.TIRESIA: E questo sappi tu: non molti giri dell'agili vedrai ruote del sole, e un uom dal sangue tuo nato, cadavere tu dovrai dare, in cambio d'un cadavere, perché spingesti, all'Orco, di quassú, e senza onor desti sepolcro a un'anima, e un altro invece, che appartiene agli Inferi, qui senza tomba e senza onor lo tieni, cadavere nefando; e tal diritto

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non appartiene a te, non ai Celesti d'Olimpo; e pure, è tuo questo sopruso. E l'Erinni dei Numi e dell'Averno t'agguatano perciò, vendicatrici, sterminatrici, perché tu procomba nei medesimi mali. Or guarda bene se corrotto dall'oro io parlo a te. Di tempo un breve indugio, e udrai di femmine suonar nelle tue case ululi, e d'uomini; e tutte quante ostili si sconvolgono le città dei cui figli, o cani o fiere lanïarono i corpi, o qualche aligero, l'empio lezzo recando ai patrii lari. Queste pene, poiché tu mi vituperi, a guisa d'un arciere, io, nel mio sdegno dal cuor mio contro te scagliai securo, né tu sfuggire al vampo lor potrai. - Figlio, ora tu guidami a casa. E questi sfoghi la bile sua contro i piú giovani, e piú tranquilla la sua lingua, e piú calmo il pensiero a mantenere apprenda.(Parte)CORIFEO: Dopo i tremendi vaticinî, o re, il profeta è partito. Ed io ben so: da quando il crine mio bianco divenne da nero, a Tebe ei mai non disse il falso.CREONTE: Anche io lo so: perciò sconvolto ho il cuore. Cedere è duro; eppur, nella sciagura cadrà di certo, ove s'opponga, l'animo.CORIFEO: Convien, Creonte, al buon consiglio apprendersi.CREONTE: Che devo fare? Dimmelo, e farò.CORIFEO: Va, dalla stanza sotterranea libera la fanciulla, e al defunto innalza un tumulo.CREONTE: Ciò mi consigli, e a cedere m'esorti?CORIFEO: Quanto puoi prima. A chi mal pensa, il tramite taglia dei Numi la vendetta rapida.CREONTE: Faccio forza al cuor mio, m'induco all'opera: sconvien contro il destino un'ardua pugna.CORIFEO: Or va', còmpila, ad altri non rimetterla.CREONTE: Andrò senza piú indugio. - Orvia, miei servi, e presenti ed assenti, in pugno l'asce

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stringete, e al poggio andate. Ed io, poiché il mio disegno fu cosí travolto, io stesso, a scioglier ciò che avvinsi, andrò. Temo che il meglio sia vivere illeso, serbando ognor le costumanze avite.(Esce in fretta coi suoi seguaci)

QUINTO CANTO INTORNO ALL'ARACORO: Strofe prima Orgoglio di Sèmele, Dio dai molteplici nomi, figliuolo di Giove signore del tuono, che Italia proteggi, che regni sui piani ospitali d'Elèusi a Dèmetra sacri, che presso il molle fluir dell'Ismeno, in Tebe dimori, che te vide nascere, presso la stirpe del drago selvaggio!

Antistrofe prima Il fumo corrusco del duplice vertice, dove le Ninfe coricie baccanti s'aggiran, te mira, te l'onda castalia. E i clivi dei monti di Nisa che d'ellera han chiome, e la verde pianura ferace di grappoli, fra un evio clamore di cantici sacri t'inviano di Tebe a mirar le contrade.

Strofe seconda Di Tebe a te cara piú molto che ogni altra città, al par di tua madre, dal folgore spenta. Ed ora, da morbo veemente ella è tutta invasa. Col pie' salvatore tu valica il giogo parrasio, o il gorgo sonante del mare.

Antistrofe seconda Oh duce degli astri dall'alito di fiamma, che i riti notturni presiedi, figliuolo di Giove, or móstrati insieme alle Tíadi di Nisa, che ebbre ti seguono, e intera la notte danzando, delirano per Bacco dator di fortuna.(Giunge correndo, esterrefatto, un Messo)MESSO:

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O voi che presso dimorate ai lari d'Anfïóne e di Cadmo, umano stato non è, ch'io voglia apporgli o lode o biasimo, perché Fortuna suscita ed atterra l'avventuroso eternamente e il misero, né v'ha profeta che assicuri agli uomini quanto duri il presente. Era Creonte degno un tempo d'invidia, a quanto sembrami, ché dai nemici libera fe' questa terra cadmèa, solo sovrano fu di tutto il regno, e lo guidava, e florido era per copia di bennati figli. Ed or, tutto ha perduto. E quando un uomo non ha piú gioie, vivo io non lo reputo, ma spoglia inane che respiri. Accumula nella tua casa sin che vuoi ricchezze, vivi col fasto d'un sovrano: se goder tu non ne puoi, né gioia averne, pel resto non darei l'ombra del fumo.CORIFEO: Qual cruccio giungi ad annunciar dei principi?MESSO: Son morti; e colpa n'han quelli che vivono.CORIFEO: Chi uccise? Chi defunto giace? Parla.MESSO: Emone è morto; e non per mano estranea.CORIFEO: La man del padre fu? Fu la sua mano?MESSO: Da sé, crucciato pel paterno eccidio.CORIFEO: Come, o profeta, predicesti il vero!MESSO: Argomentar da ciò possiamo il resto.CORIFEO: Anche la sposa di Creonte, misera, veggo, Euridíce, o che la sorte udita abbia del figlio, o che la guidi il caso.EURIDICE: O cittadini, le parole vostre udite ho, mentre uscivo, e m'avviavo a rivolger preghiera alla Dea Pallade. Levo le sbarre, a me traggo le imposte, ed ecco, il suono della mia sciagura mi percuote le orecchie; e delle ancelle cado atterrita fra le braccia, e corro. Ma, qual che sia la voce, ripetetela. Non sono ignara di sventure; e udrò.MESSO: O sovrana diletta, ero presente

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e parlerò; né a te parola alcuna io celerò del vero. A che dovrei lusinghe offrirti, quando infin mendace apparirei? Sta sempre in piedi il vero. Io col tuo sposo mossi; e gli fui guida al piano estremo, ove giaceva il corpo lanïato dai cani. E qui la Dea invocammo dei tramiti, e Plutone, ché, posto freno all'ira, a noi benevoli fossero. E il corpo, di lavacri casti purificammo; e sopra rami svelti allora allora, ardemmo i tristi avanzi, ed erigemmo un tumulo alto, sopra la terra patria; e alla caverna d'Ade quindi movemmo, al talamo di rocce dove giaceva la fanciulla. Ed ecco, uno dei nostri, ode da lungi, intorno a quel sepolcro senza esequie, il suono d'acuti ululi, e corre, ed a Creonte ne reca annunzio; e quando questi, piú si fa vicino, un indistinto suono l'avvolge d'urli miseri; e singhiozza egli, lagrima, e rompe in questi accenti; «Misero me, sono io dunque indovino? Questa è dunque la piú funesta via di quante io prima ne battei? La voce mi molce il cuor del figlio mio. Correte ivi presso, o famigli, ove del tumulo, fra le rocce scalzate, il vano s'apre, presso la fauce stessa introducetevi, alla tomba accostatevi, e guardate se la voce è d'Emón quella che ascolto, o se di me si fanno gioco i Numi!» E noi guardammo, come l'ansio re ordine dava; e dalla tomba al fondo pel collo stretta la fanciulla, avvinta vedemmo a un laccio di ritorto lino, ed Emon presso lei, che, abbandonato, a mezza vita la stringea, le nozze piangea distrutte nell'Averno, e l'opere empie del padre, e l'infelice talamo. Come il padre lo vide, un fiero gemito levò, gli si fe' presso, e con un ululo a lui si volse: «Misero, che fai? A che sei qui venuto? In che sciagura la ragione perdesti? Esci di lí, figlio, ti prego, ti scongiuro!» - E il figlio con selvagge pupille lo guatò, e gli sputò sul viso, e nulla disse, e per la duplice elsa il ferro trasse. Ma il padre via fuggí; né quei lo colse;

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e con se stesso irato allora, oh misero!, si gittò su la spada, e a mezzo il petto se la confisse. E, ancora in sé, si stringe, col braccio già mancante, alla fanciulla, e sbuffa, e avventa su la bianca guancia di rosse stille impetuoso fiotto. E poi che i riti nuzïali, o misero, nell'Averno compie', giace cadavere a un cadavere avvinto; e insegna agli uomini che d'ogni male, avventatezza è il pessimo.(Al fine del racconto, Euridice fugge di corsa)CORIFEO (Veduta fuggir la regina, si volge al messo): Che mai sapresti argomentar da ciò? Nuovamente partita è la regina, senza parola dir trista né lieta.MESSO: Stupito sono anch'io. Ma nutro speme che, del suo figlio le sciagure udite, i suoi lagni levar, dei cittadini al cospetto non voglia, anzi il domestico cordoglio, con le ancelle, in casa piangere. Priva non è di senno; errar non può.CORIFEO: Non so. Ma eccesso di silenzio o troppo vano gridar, son gravi segni, entrambi.MESSO: Saper potremo se nel cuor crucciato qualche disegno asconde: avviciniamoci presto, alla reggia: ché tu dici bene: l'eccesso del silenzio anch'esso è grave.(Entra nella reggia)

LAMENTAZIONECORIFEO: Giunge, vedi, lo stesso sovrano, che sorregge, se dirlo è pur lecito, su le braccia un insigne segnacolo dell'error che fu suo, non d'altrui.(Entra Creonte, seguito dai famigli che recano il cadavere d'Emonesu una bara)

CREONTE: Strofe prima O duri cruenti trascorsi di folle pensiero! Uscir da una stessa progenie vedete uccisori ed uccisi. Ahimè, dei miei consigli esito tristo! Figlio, immaturo ad immatura morte, ahimè, ahimè!, tu soccombesti, tu sparito sei, non per i tuoi delirî, anzi pei miei!

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CORIFEO: Ah, come tardi la giustizia porgi!CREONTE: Tapino, ho appreso, e col mio danno. Un Dio allor dell'ira sua col peso grave mi colpí, mi batte' per vie selvagge, ogni mia gioia sotto i pie' travolse. Ahi, dei mortali, ahimè!, vani travagli.MESSO: Come colui che in man denaro, e in casa ha beni, o re, sei tu: ché questi mali tu medesimo rechi, ed altri, sembra, tu ne vedrai, come tu in casa giunga.CREONTE: Che annunci? Un mal dei mali anche peggiore?MESSO: Morta è la sposa tua, la madre, o misero, di questo morto: s'è trafitta or ora!CREONTE: Antistrofe prima Oh porto implacato d'Averno, ché tardi ad accogliermi? E tu, che le nuove crucciose recasti, che dici? Ahimè, che tu finisci un uom defunto! Che dici, o figlio, che novelle rechi? Ahimè, ahimè, ché d'una donna la cruenta morte, or s'aggiunge alla mia misera sorte!(S'aprono le porte e si vede Euridice spenta)CORIFEO: Veder tu puoi: ché nulla è piú nascosto.CREONTE: Ahimè! Quale, o misero, veggo altra sciagura! Che sorte ancor, che sorte ancor m'attende? Tra le mie mani il figlio or ora m'ebbi, e questa nuova salma a me dinanzi or veggo: ahi ahi, madre infelice! Ahi, figlio!MESSO: Presso all'altar, d'acuta lama spenta, le pupille costei nel buio sciolse, pianti levando per la bella morte di Megarèo già spento, ed or d'Emóne. E contro te per ultimo imprecò, che tuo figlio uccidesti, infausti eventi.CREONTE: Strofe seconda Ahimè, ahimè! Per il terrore abbrivido. Perché, perché nessun giunge a trafiggermi col ferro aguzzo il petto? Ahi, me tapino, in qual trabocco orribile destino!

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MESSO: Da questa morta, sopra te la colpa d'uno scempio e dell'altro era gittata.CREONTE: Come nel sangue la sua vita sciolse?MESSO: Sotto il fegato, come il lagrimevole scempio del figlio udí, s'immerse un ferro.CREONTE: Non sarà che da me questa colpa su alcun altro ricada degli uomini. Io l'uccisi, ecco il vero! Oh famigli conducetemi presto, guidatemi lungi, ch'io sono meno che nulla!CORIFEO: Util consiglio è il tuo, se può nei mali essere utile alcun: quanto piú breve tanto men tristo, quel ch'ora ti preme.CREONTE: Antistrofe seconda Deh, giunga, giunga infine la bellissima fra tante morti onde reo sono, il termine dell'ora mia fatale giunga, sí ch'io scorgere non debba un altro dí.CORO: Questo il futuro; ma conviene adesso qualche partito sul presente prendere. All'avvenire penserà chi deve.CREONTE: Nella mia prece la mia brama espressi.CORO: Piú non pregare: la prescritta sorte modo non c'è che schivi alcun degli uomini.CREONTE: Via questo insano conducete, l'uomo che te contro sua voglia uccise, o figlio, e te, sposa, oh me misero! Lo sguardo a chi dei due volger non so, né dove trovi un sostegno: ché rovina è tutto a me dintorno, e sopra il capo mio un destino implacabile piombò.(Si allontana seguito dai principi)CORO: Arra prima del viver felice è saggezza; né mai sacrilegio contro i Numi ti macchi. I gran vanti dei superbi, da duri castighi colpiti, ammaestrano troppo tardi, a far senno, i vegliardi.

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Antigone (Sofocle)Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Antigonedi Sofocle Tragedia

Antigone <small(Frederic Leighton, 1830-1896)Titolo originale ἈντιγόνηLingua originale Greco anticoGenereTragedia grecaAmbientazione Tebe, GreciaPrima assoluta442 a.C.Teatro:Teatro di Dioniso, Atene

Personaggi:AntigoneImeneCreonteCustodeEmoneTiresiaMessoEuridiceCoro di vecchi TebaniGuardie, PopoloVisita il Foyer

Antigone (Ἀντιγόνη) è una tragedia di Sofocle, rappresentata per la prima volta ad Atene nel 442 a.C..

Appartiene al ciclo di drammi tebani ispirati alla saga dei Labdacidi, insieme all'Edipo Re e a Edipo a Colono, che descrivono la drammatica sorte di Edipo, re di Tebe, e dei suoi discendenti. Nell'economia drammaturgica del ciclo, Antigone è l'ultimo atto, anche se è stata scritta prima delle altre, ed è ispirato alla figura mitologica di Antigone.

Sofocle illustra in questo dramma l'eterno conflitto tra autorità e potere: in termini contemporanei, è il problema della legittimità della legge positiva. In una società come quella dell'antica Grecia dove la politica (gli affari che concernono la città) sono esclusiva degli uomini, il ruolo di dissidente della giovane donna Antigone si carica di molteplici significati, ed è rimasto anche dopo millenni un esempio sorprendente di complessità e ricchezza drammaturgica. A questa tragedia si ispirò il filosofo tedesco Georg Hegel per mettere in evidenza il dissidio sussistente tra legge etica e legge dello stato (in particolare lo stato assoluto), e dando un valore maggiore a quest'ultima, in quanto l'istituzione statale risulta essere più evoluta rispetto all'istituzione familiare, più antica e dunque meno evoluta.

Trama [modifica]

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Antigone rende partecipe sua sorella Ismene dell'intenzione di affrontare l'interdizione emessa dal re Creonte, anche a costo di essere lapidata dal popolo tebano, per portare a compimento i riti funebri sul corpo del fratello Polinice (ucciso dall'altro suo fratello Eteocle). Pur riconoscendo la correttezza morale del gesto, Ismene rifiuta di seguirla in questa impresa.

Quando Antigone sta per compiere quello che ritiene essere un suo dovere religioso, Creonte sviluppa, con una certa magniloquenza, davanti al coro di anziani tebani la sua filosofia politica e si propone spavaldamente alla prova del comandamento e delle leggi. Inserisce una minaccia velata indirizzata al corifeo, sospettandolo di corruzione. Antigone, però, forte e tenace, e convinta di essere nel giusto dice «Ma per me non fu Zeus a proclamare quell'editto, né la Giustizia che dimora tra gli dèi. [...] Io seguo le leggi sacre e incrollabili degli dèi, leggi non scritte, di quelle io un giorno dovrò subire il giudizio. [...] E non credevo che i tuoi bandi fossero così potenti da sovrastare e sovvertire le leggi morali degli dèi!».

La guardia allora informa il re della violazione del suo decreto. Il corifeo suggerisce a questi che la sua interdizione potrebbe essere una pessima decisione. Creonte si adira e gli impone di fare silenzio. Lo guarda, e lo accusa brutalmente di essere l'autore del misfatto, per del denaro. Il re lo minaccia di infliggergli i peggiori supplizi se non gli avesse portato rapidamente un colpevole per discolparsi.

È con il cuore carico di reticenze che egli ritorna, accompagnato da Antigone, sorpresa in flagrante delitto di recidiva. Lo scontro è immediato e totale: la giovane donna afferma l'illegittimità dell'editto regale, appellandosi alle leggi divine (e morali), non scritte ed eterne. Di fronte a questa argomentazione, Creonte cede terreno. Dopo che la giovane donna ha giustificato la sua lotta dovuta all'amore fraterno, esponendo così la sua motivazione fondamentale («io non sono fatta per vivere con il tuo odio, ma per stare con colui che amo»), egli finisce per smentire sua nipote: non è una donna che farà la legge.

Quando Ismene riappare, è per sentirsi accusata da suo zio di aver partecipato alla cerimonia funebre e per esprimere il suo desiderio di condividere la sorte di sua sorella. Questa rifiuta, giudicandola interessata (terrorizzata all'idea di ritrovarsi la sola sopravvissuta della sua famiglia). Creonte, esasperato da questo comportamento, le tratta da pazze e le fa mettere in reclusione in una caverna, là dove devono stare le donne.

Sopraggiunge il fidanzato della condannata, Emone. Il giovane principe osa dichiarare a suo padre che si trova in abuso di potere, reclamando «gli onori che si devono agli dèi», commettendo così un «errore contro la giustizia». Ai propositi sfumati e pieni di buon senso del giovane uomo sul giusto modo di governare, il re risponde con delle ingiunzioni all'obbedienza incondizionata che i figli devono ai padri, il popolo al suo capo e con l' accusa di essere divenuto lo schiavo della sua fidanzata («Creatura disgustosa agli ordini di una donna»). Emone abbandona bruscamente i luoghi proferendo una promessa vaga che Creonte prende, a torto, per una minaccia contro la sua vita.

Tiresia sarà l'ultimo protagonista di questo triplo confronto. L'indovino è venuto a dire al re che gli dèi non approvano la sua azione e che ci saranno patimenti per la città se Antigone non verrà liberata e Polinice sepolto. Creonte insulta Tiresia e lo accusa di essersi venduto ai congiurati che minacciano il suo potere, ma, scosso dalle oscure premonizioni dell'indovino, il quale non si è finora mai sbagliato, si ravvede e decide di procedere ai funerali di suo nipote prima di andare a liberare Antigone. È purtroppo, troppo tardi: questa si è, nel frattempo, impiccata nella grotta dove era stata murata. Emone estrae la sua spada, gesto che suo padre interpreta come tentativo di ucciderlo, e ci si getta sopra.

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Ritornando al palazzo, Creonte apprende, per finire, che anche sua moglie Euridice, dopo aver saputo della morte del figlio, si è appena uccisa. È annientato da questa serie di catastrofi («disastri venuti dai miei stessi piani») e non aspira che a una morte rapida («Ripulite questo luogo da un buono a nulla»).

L’Antigone di Sofocle e le sue letture moderne

(da Nuovo Areopago, anno 1 numero 3, autunno 1982; ripubblicato in Zetesis 1991-1)

(leggi la nota di redazione)

Moreno Morani

La tua legge, Signore,

scritta nel cuore

degli uomini

(S. Agostino, Confessami II, 4}

L’origine del mito

La figura di Antigone è originale creazione di Sofocle. Il mito tebano, nella parte che accenna al divieto posto dal nuovo re Creonte di seppellire le spoglie di Polinice, colpevole di aver tradito la patria scatenando contro di essa una guerra che. ha visto alleati i più famosi guerrieri del tempo, non sembra ancora fissato in maniera definitiva, ed è probabile che, nel momento in cui Sofocle faceva rappresentare la sua tragedia, il pubblico ateniese ne avesse una conoscenza molto vaga. Alcuni critici hanno voluto vedere in certe incoerenze della tragedia sofoclea il riflesso della sua impossibilità di appoggiarsi a una tradizione mitica saldamente fissata (1). Ancora, le notevoli differenze tra la versione accettata da Sofocle e quelle successive fanno pensare che anche dopo l’intervento sofocleo sia proseguita l’evoluzione del mito.

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Le fonti più antiche ignorano la vicenda narrata nell’Antigone. Omero accenna in un luogo dell’Odissea (2) all’incesto di Edipo con Giocasta (o meglio, seguendo la denominazione omerica, Epicasta), ma sembra dalle sue parole che non siano nati figli da queste nozze: subito dopo l’incesto, infatti, Giocasta si sarebbe uccisa ed Edipo, accecato, avrebbe continuato a regnare su Tebe. Questa parte del mito è arricchita di ulteriori particolari nei ciclici. Secondo l’Edipodia i quattro figli (Eteocle Polinice Ismene Antigone) sarebbero nati dalle nuove nozze di Edipo con Eurigamia (3); lo storico Ferecide, raccogliendo questa tradizione, aggiunge che Antigone e Ismene furono uccise da Tideo presso una fonte che prese da allora il nome di Ismene (4). L’aver fatto dei figli di Edipo il frutto colpevole dell’unione incestuosa con Giocasta sembra un’ulteriore rielaborazione della vicenda mitica, che sarà ripresa dai tragici con intensi effetti drammatici. Nell’argomento del dramma sofocleo compilato dal grammatico Salustio si afferma che il mito di Antigone era stato trattato nei ditirambi di Ione(5), secondo cui le due sorelle furono bruciate nel tempio di Era da Laodamante, figlio di Eteocle; invece, secondo il poeta Mimnerrno (6) Ismene fu uccisa da Tideo per ordine di Era, dopo che si era unita con Teoclimeno. La tradizione generalmente accolta dai tragici riferiva che dopo l’accecamento di Edipo le due figlie seguivano il padre nel suo volontario esilio, mentre in Tebe divampava la lotta per il trono fra Eteocle e Polinice; ma la morte dei due fratelli sembrava segnare la fine della parte più importante della vicenda, e il racconto si occupava dell’ulteriore sorte di Antigone e Ismene in modo molto superficiale e vago. Un solo testo, fra quelli cronologicamente anteriori a Sofocle, introduce Antigone e Ismene a lamentare la sorte dei due fratelli uccisi in duello e accenna alla decisione presa da Antigone di violare il bando di Creante seppellendo il fratello: si tratta del finale dei Sette a Tebe di Eschilo, che i critici ritengono quasi concordemente un brano spurio, che ha eliminato il finale originario di questa tragedia e che doveva servire solamente a saldare il finale dei Sette con l’Antigone sofoclea in qualche tarda ripresa di queste tragedie: motivi linguistici e storici conducono con quasi assoluta certezza a questa conclusione (7).

Il contenuto etico di Antigone

L’Antigone di Sofocle fu rappresentata nel 442-1 (8), a distanza dunque di pochi anni dall’Aiace, la più antica tragedia sofoclea rimastaci, e in un periodo nel quale il poeta, partito dalle conclusioni eschilee, andava maturando una sua originale visione religiosa. Di fatto l’Antigone riprende, ponendolo al centro dell’azione, un problema già posto nella parte finale dell’Aiace: la liceità morale di lasciare insepolto il cadavere dì un nemico ucciso. Le due tragedie mostrano più di un’analogia: anche nell’Aiace l’ordine di lasciare Aiace insepolto è emanato dai due capì dell’esercito, o in nome di un meschino desiderio di vendetta di fronte a un nemico che finalmente si vede alla propria mercè (vv. 1068-9) o nel timore di non apparire abbastanza fermi e incapaci di punire con la dovuta energia chi ha osato ribellarsi (v. 1362). La situazione è risolta dall’intervento di Odisseo, il quale non rinnega la propria rivalità nei confronti dell’eroe morto, riconoscendo anzi che Aiace era per lui la persona più ostile di tutto l’esercito (v. 1336). Ma in un cosmo ben regolato, in cui ogni passione e sentimento, anche negativo, deve avere il suo spazio, esiste un limite anche per l’odio: Odisseo ha odiato Aiace finché poteva essere motivo di nobiltà, nel contesto eroico in cui l’azione si svolge, spingere la propria rivalità fino ai limiti dell’odio (v. 1347): dopo la morte

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tali sentimenti non hanno più ragion d’essere, e la stessa divisione fra bene e male assume contorni sfuggenti. Nel sottolineare il valore dell’eroe morto, Odisseo dissuade Agamennone dallo spingere la vendetta a un eccesso che farebbe «calpestare la giustizia» (v. 1335); lasciare insepolto Aiace «non costituisce un affronto a quest’uomo, bensì alle leggi degli dèi» (v,. 1343-4).

Semplice e lineare è il nucleo drammatico intorno a cui s’incentra la vicenda dell’Antigone. Il bando di Creante è all’inizio della vicenda una discriminante, uno spartiacque quasi, che obbliga i diversi personaggi a regalare il proprio comportamento su di esso; nel procedere della vicenda il vero punto di divisione non sarà più il bando, bensì Antigone stessa, e gli altri personaggi saranno giudicati in base al diverso comportamento nei confronti di lei. Sofocle ha conferito all’azione una serie di implicazioni e riferimenti morali, religiosi, politici, che, riassumendosi nella figura della protagonista, le offrono uno spessore e un rilievo tali da giustificare la varietà di letture e di interpretazioni a cui tragedia e protagonista sono state sottoposte. Né va dimenticato quanto ha mostrato V. Ehrenberg nel suo libro sui rapporti tra Sofocle e Pericle: nell’età periclea Atene raggiunge la sua acme politica, artistica ed economica, ma già s’intravedono in questa fioritura le prime ambiguità e contraddizioni, che sono le stesse del suo personaggio più rappresentativo. Accanto a un problematico persistere di certezze e valori propri della generazione passata, prendono piede visioni del mondo diverse, che facendo dell’uomo la misura di tutte le cose vanificano la precedente esperienza religiosa in un razionalismo e relativismo quasi assoluto: Pericle stesso concede ampio spazio a queste nuove tendenze. Legato ai più vivi intellettuali del tempo, Sofocle conosce profondamente le nuove dottrine e nello stesso tempo sente il pericolo che vi è insito, e nell’Antigone, più che in ogni altra tragedia, ne mette in luce i rischi, Nel primo stasano (vv. 332-375), un brano che difficilmente si può collegare all’azione del dramma e che assai più probabilmente va visto come un intervento .diretto del poeta nella vicenda, Sofocle proclama la grandezza dell’uomo, quest’essere meraviglioso e tremendo che ha valorizzato fino all’incredibile le risorse del proprio ingegno, ma ne sottolinea in modo vigoroso i limiti, e, contro la nuova visione antropocentrica e il relativismo morale ad essa inerente, afferma la necessità di «seguire le leggi della terra e la giustizia giurata degli dèi», se si vuole far parte dì una grande città (9). Fin dall’inizio della tragedia il poeta, dando a Creonte l’appellativo di stratega (v. 8), in luogo del più usuale «re» o «tiranno», fa forse un implicito riferimento a Pericle e invita quindi il pubblico, con questo segnale, a rapportate le vicende del dramma alla situazione attuale (10).

Il bando di Creonte nasce da un’intenzione almeno inizialmente accettabile: egli vuole mostrare il diverso trattamento che amici e nemici della patria avranno sotto il suo regno (vv. 207-210), Egli si richiama a Zeus che tutto vede per affermare la sua determinazione a governare lo stato nel rispetto della giustizia (v. 187), convinto che il signore della città debba eliminare i favoritismi personali e attenersi alle decisioni migliori (vv. 178-9). Il suo provvedimento non è del tutto privo di giustificazioni: anche il diritto attico del V sec. negava ai traditori la sepoltura nei confini della patria, permettendo però ai congiunti di seppellirne le spoglie in terra straniera (11); Creonte porta quindi agli estremi, valicando i limiti della giustizia, una prassi consolidata, commettendo l’errore di arrogare alla propria psyché, phronēma, gnómē (v. 176) la fissazione dei criteri assoluti che dividono il bene dal male in modo definitivo. Ma l’errore più grave di Creonte non è tanto quello di aver travalicato, commettendo così una hýbris e dimenticando l’euboulía, la saggezza (vv. 1050, 1098); più grave è il fatto che difenda la sua decisione, rendendo il suo errore irrimediabile, quando gli viene offerta la possibilità di riflettere sui suo comportamento.

Di fronte alle parole di Creonte il Coro mostra una rassegnata ubbidienza. I vecchi di Tebe, che lo formano, hanno mostrato un’ammirevole fedeltà ai vari re che si sono alternati sul trono di Tebe: è

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mutato il colore dei loro capelli, ma non il loro rispetto per il potere (vv. 164 ss.). Creonte ha preso una decisione perché poteva prenderla: «Così ti piace: tu puoi tutto sia su chi vive sia sui morti» (vv. 211-4). Certo il Coro esprime una profonda devozione alla divinità: ha visto, nello schianto con cui sono stati travolti gli empi assalitori di Tebe, la fine miseranda cui va incontro l’uomo che presume troppo di sé. «Zeus detesta i vanti di una lingua superba» (v. 127). Nel decreto di Creonte percepisce un’oscura violazione della norma religiosa: quando la guardia affermerà di aver trovalo il Cadavere ricoperto da un leggero strato di terra, una domanda si affaccia al suo animo: «Sire, a me, il pensiero da tempo mi convince che forse questa è un’opera degli dèi» (vv. 278-9). Eppure per tutta la prima parte della tragedia questa percezione non sfocia in una consapevolezza. Conosce un’unica parola: obbedienza assoluta alle leggi della città, e non ammette che queste possano essere in disaccordo con la legge divina: il comportamento di Antigone è, agli occhi del Coro, più colpevole di quello di Creonte!

Ben diversa è la statura di Antigone. La sua vita è trascorsa nel dolore: non esiste disgrazia che lei non abbia visto (vv. 2-6), e questa sua esperienza della vita, colta nei suoi aspetti più tristi, ha fatto nascere in lei un’esperienza estremamente lucida. Non ha tratto dalla sua genialità l’acuta percezione del bene e del male, bensì da una sofferta maturazione, al termine della quale sente le leggi di Dike come l’unica verità che possa guidare il cammino dell’uomo. La legge della giustizia è eterna: ogni uomo la trova scritta dentro di sé, ed abbraccia ogni parte del cosmo, il mondo dei vivi come quello dei morti (vv. 450-1). La consistenza del suo vivere è ora soltanto nel mettere in pratica queste leggi, fosse pure a rischio della propria vita (v. 72). Nel mondo che la circonda, il valore vero è continuamente velato da tanti valori apparenti: in un tragico rovesciamento di posizioni, la verità risulta follia, e Antigone è continuamente trattata come folle: anche le persone più care danno questo giudizio della stia azione. Ismene la invita a riflettere, la chiama più volte «misera, disgraziata» (vv. 39, 82), «insensata» (v. 99). Che Creonte la consideri pazza è del tutto naturale (vv. 561-2); ma anche il Coro vede in lei «la cruda stirpe di un crudo padre, incapace di adattarsi alla disgrazia» (w. 471-2), una persona «che ha proceduto fino all’estremo limite dell’audacia» (v. 853), e le riconosce solamente il merito di aver accettato eroicamente la morte, dopo essersela procurata senza un motivo apprezzabile (vv. 821-2), anzi, dimentica della sua natura di essere umano: «Noi siamo uomini e di stirpe mortale» (vv. 834-5). Antigone sa di apparire insensata, anche se il vero folle è Creonte (vv. 469-470), che pure lancia contro di lei la duplice accusa di tracotanza, nella violazione del bando e nella successiva apologia del reato (vv. 480-3). Ma Antigone non è toccata da questa illusione ottica che sanziona un rovesciamento dei valori. Antigone ha scelto tra il tempo e l’eternità; vuole essere gradita a coloro coi quali dovrà stare per sempre (v. 89), tanto da apparire agli occhi di Ismene una «innamorata dei morti» (v. 88). Ma, a differenza di un’altra innamorata dei morti sofoclea, Elettra, in cui l’attaccamento ai defunti e al dovere si è trasformato in una visione della vita aspra e piena di rancore, in Antigone l’affetto per i cari conduce a un’apertura di amore; «Non per condividere l’odio, ma per condividere l’amore io sono nata» (12).

Antigone dunque è mossa dal desiderio di testimoniare e affermare le leggi detta giustizia, anche a rischio della vita (vv. 96-7); dove la verità è follia, anche la vita assume le fattezze della morte: «La mia anima da tempo è morta» (vv. 559-560), afferma poco prima di affrontare l’ultimo viaggio, quando si rende conto della sua solitudine e, umanamente e tristemente, lamenta la giovinezza perduta e le gioie di amore mai godute. L’esatto negativo di Antigone è Ismene, che confusamente avverte quanto sia motivata la posizione della sorella, ma non accetta di seguirla, per una debolezza che non è dovuta solamente alla sua natura di donna, incapace di opporsi ai voleri degli uomini (vv. 61-2), ma pesca più profondamente nell’inerzia di chi non vuole assumersi responsabilità nei confronti del potere, fino a considerare insensato o addirittura colpevole («commettere eccessi non

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ha nessun senso» v. 68) chi queste responsabilità si sente di assumere. Ma la condotta di Antigone ha anche la capacità di mutare chi le sta vicino: il profeta muore in solitudine, ma la sua testimonianza non è vana per chi non ha del tutto chiuso il suo cuore. Dopo aver rifiutato di seguirla, Ismene vorrebbe morire con lei; anche se in modo tardivo, Ismene riconosce quale sia la giustizia e vorrebbe condividere la sorte di chi per questa giustizia si sta immolando. Analoga la posizione di Emone, il fidanzato di Antigone: questi forse non percepisce fino in fondo le motivazioni che hanno spinto la donna al suo gesto, ma intuisce la grandezza umana di Antigone e vorrebbe anche lui condividerne la sorte. Anche il Coro intuisce questa grandezza umana, ma, chiuso nella sua miope affermazione di una religiosità puramente formale (vv. 872-3) e fondamentalmente convinto della colpevolezza della donna, uccisa dalla sua «ira spontanea» (v. 875), si lascia trasportare a una serie di parole che suonano sinistra e involontaria irrisione di lei (v. 838). Tuttavia anche il Coro e Creonte cambieranno, quando la verità testimoniata da Antigone troverà il conforto e il sostegno di Tiresia, l’anziano vate di Tebe, la cui autorevolezza e la cui dimestichezza col divino non può essere negata. Tiresia accusa esplicitamente la colpa (authadìa) di Creonte (v. 1028), che si è voluto ergere a giudice supremo del bene e del male, calpestando Dike. Subito dopo la più superba delle sue affermazioni («neppure se le aquile di Zeus volessero rapire i suoi resti e portarli ai troni di Zeus, neppure così... io permetterò di seppellire quell’uomo», vv. 1040-3), in cui si risentono le nuove mode razionaliste della sofistica («io se bene che nessun uomo ha il potere di contaminare gli dèi», vv. 1043-4), Creonte crolla di schianto: avverte il peso delle parole di Tiresia e balbetta: «ne sono sconvolto» (v. 1097). Prima ordinava e minacciava e rifiutava di ascoltare, ora si rivolge al Coro in una disperata richiesta di consiglio: «Che si deve fare? Parla, e io ubbidirò» (v. 1099). Ma ora è troppo tardi: la morte del figlio e della moglie, sommandosi a quella d’Antigone, mostrano l’inconsistenza umana della sua posizione: Creonte non è più nulla («quest’uomo vano», dice di sé: v. 1339) e riconosce egli stesso la sua oggettiva colpevolezza («io ti ho ucciso, o misero, io, dico», vv. 1319-20).

Smarrimento dell’Antigone originaria

La perfezione artistica dell’Antigone ha esercitato un profondo influsso già sugli autori antichi; ma è evidente in tutte le successive riprese della tragedia un appiattimento della prospettiva originaria: Antigone è stata motivo di contraddizione per gli epigoni di Sofocle quanto lo è per i comprimari della tragedia che Sofocle le ha dedicato. Seguiremo qui brevemente la fortuna di Antigone, prima nelle imitazioni successive del dramma, poi in alcune letture critiche.

Euripide, il tragico ateniese contemporaneo di Sofocle, ma enormemente distante per concezione teatrale e visione religiosa, scrisse un’Antigone; i frammenti superstiti ci dicono assai poco circa la realizzazione della protagonista, ma il riassunto trasmessoci da Aristofane di Bisanzio è significativo: «in questa tragedia Antigone, còlta in flagrante insieme ad Emone, gli viene data in sposa e genera il figlio Meone (Emone?)» (13). L’aver fatto partecipe anche Emone del seppellimento di Polinice e l’aver concluso la tragedia con un lieto fine sono di per sé indizi di un

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calo di tensione rispetto a Sofocle: la solitudine profetica di Antigone è stata stemperata e l’accento posto, come spesso in Euripide, più sulla complessità dell’intreccio che sulla profondità morale dei personaggi. Del resto, l’ottica con cui il razionalista Euripide poteva considerare il gesto di Antigone è chiarita dal finale delle Fenicie, una tragedia dedicata al mito tebano in cui si tocca, sia pure brevemente, il motivo dominante dell’Antigone sofoclea. Nel dialogo fra Creonte e Antigone (vv. 1643 ss.) i due contendenti sono ricolmi più di forza dialettica che di reale convincimento nella verità del proprio operare; Creonte giustifica il bando con l’argomento che si tratta delle ultime volontà di Eteocle, che è doveroso rispettare: Antigone, accusando lo zio di follia e di eccesso, minaccia dì rinunciare alle nozze con Emone e addirittura di uccidere lo sposo la prima notte di nozze, se il cadavere di Polinice non riceverà gli estremi onori. Creonte riconosce «nobiltà, ma anche un certo grado di follia» (v. 1680) alla ragazza che, senza attuare il proprio proposito, si accinge a lasciare Tebe per accompagnare in esilio il padre cieco.

Nel mondo romano, una tragedia dedicata ad Antigone fu scritta da Accio: si tratta forse di una ripresa della tragedia sofoclea, ma i pochi frammenti rimasti non consentono nessun giudizio. Scarsissima importanza ha la figura di Antigone anche nelle Fenicie di Seneca, che riprendono, rielaborandola, la tragedia di Euripide.

Un’Antigone barocca è quella di Stazio. Al personaggio è dedicato spazio nell’ultimo libro della Tebaide. Nel tentativo di recuperare il cadavere Antigone è preceduta da Argia, la moglie del morto; anche qui, come in Euripide, l’aver affiancato ad Antigone un compagno nell’impresa (anzi, l’aver istituito una gara fra le due) inficia nettamente uno dei motivi principali di Sofocle, l’isolamento del personaggio. Peraltro, a Stazio le motivazioni, religiose o psicologiche, che muovono Antigone non interessano un granché. L’episodio è esposto in maniera frammentaria, sullo sfondo della narrazione principale, con un’insistenza prevalente sui caratteri esteriori che rendono il quadro fosco e tenebroso; Antigone muove all’impresa come una giovane leonessa che, eludendo la madre, per la prima volta dà sfogo al suo furore (XII 356-8); percorrendo il campo "truce" raggiunge Argia «squallida e bruttata dì sangue infetto» (ibid. 364); infine, scoperte, entrambe presenteranno al carnefice il collo.

A partire dal Rinascimento, numerose si fanno le rielaborazioni e le traduzioni della tragedia sofoclea (14). Tra le altre (15) mette conto ricordare quella del Rotrou, rappresentata nel 1639, nella quale il motivo dell’onore e della virtù prende il posto delle motivazioni di ordine etico e religioso che formavano il nucleo del personaggio sofocleo. Trascuriamo la Thébaïde di Racine, in cui gli elementi più pertinenti al nostro assunto hanno scarso spazio.

Diretta filiazione dell’Antigone staziana è l’Antigone di Alfieri; la tragedia fu composta nel 1777, dopo un attento studio della Tebaide nella traduzione di C. Bentivolio, e poi ritoccata in varie riprese. La protagonista vive nel costante pensiero di essere un «impuro avanzo» della stirpe dei Labdacidi (a. I sc. IlI, v. 155); indissolubilmente legata alla sua famiglia e a tutto il male che da essa è promanato, Antigone si è serbata in vita unicamente per essere utile al vecchio padre ormai cieco. Tutto l’anelito interiore del personaggio è fatto di morte e di odio: mentre in Argia il desiderio di comporre la salma dì Polinice è dettato da un affetto profondo, in Antigone è la speranza della morte che la esalta e la rende maggiore di lei; l’impresa è spesso definita «pietosa» o «santa», ma l’aggettivazione è puramente convenzionale: non è un imperativo morale a guidare l’eroina, bensì una sinistra volontà di annientamento: «A santa impresa vassi; / ma vassi a morte... / morte aspetto, e la bramo» (a. I sc. III, vv. 187-190). Le parole di Antigone sono sempre concitate, frementi, senza

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pause di riflessione: il suo odio per Creonte è dichiarato senza reticenze. La situazione in cui è vissuta l’ha portata a un sentimento di chiusura nei confronti degli altri; il suo unico sentimento positivo è l’amore per Emone: ma quando si rende conto che l’affetto di Emone potrebbe creare una breccia nell’usbergo di cui si è cinta, allora anche quest’amore viene respinto. Quando, in un lungo dialogo dell’atto terzo, parrebbe che Emone possa penetrare questa chiusura di Antigone, facendo rinascere in lei sensazioni volutamente abbandonate, allora la reazione dell’eroina è immediata: rifiuta di essere lei causa di una ribellione di Emone contro il padre, ma rifiuta anche di percepire dentro di sé tracce di una vita ormai perduta che sarebbe soltanto l’inutile prosecuzione di una condizione sciagurata e irrimediabile. In Creonte, che vorrebbe guadagnare stabilità al suo trono imponendo ad Antigone le nozze col figlio e costringendola a scegliere tra queste e la morte, l’Alfieri ha accentuato le caratteristiche del tiranno, negatore di ogni libertà, che odia il popolo conoscendo il suo servilismo e strumentalizzando la sua pavida turbolenza. Mosso soltanto da avidità di potere, giunge persino a liberare Argia, colpevole quanto Antigone, e ammette che il suo editto è stato fatto al solo scopo di attirare Antigone in un tranello. Ciò che differenzia totalmente l’Antigone alfieriana da quella sofoclea è la totale staticità, per cui, nonostante i molteplici sviluppi della vicenda, i personaggi rimangono identici a sé stessi dal principio alla fine, impermeabili a qualsiasi cambiamento.

Un’Antigone sognatrice e complessata è quella di Anouilh, scritta nel 1944. La protagonista è fondamentalmente un’insicura: conscia della sua scarsa avvenenza, incapace di valorizzare la sua femminilità (a differenza di Ismene, molto più bella e curata), tenuta in disparte dai fratelli, fidanzata quasi per gioco ad Emone, che l’ha chiesta in sposa improvvisamente una sera dopo aver ballato per tutta una festa con Ismene, Antigone rivendica a sé stessa la libertà di dire «no». A differenza di lei, Creonte è stato attratto in un gioco troppo grande per lui; i protagonisti del dramma sono tutti definiti nella loro mediocrità borghese: Creonte ha dovuto rinunciare ai suoi libri e alle sue visite nelle botteghe d’antiquariato, Euridice passa il tempo a confezionare maglioni per i poveri di Tebe. La decisione di Antigone è come una furia che irrompe nella loro vita: questa ragazza piena di voglia di vivere, che protrae la veglia fino a notte fonda, per non sprecare neppure un istante di vita, affezionata alla natura e alla propria cagna Douce, con cui conversa tutti i giorni, decide di morire, non tanto in nome di un’ideale o di un’azione santa e pietosa, quanto perché la morte è l’unico mezzo per far risaltare la sua autenticità umana. E conferma la sua decisione, nonostante il tentativo persino patetico di Creonte di sottrarla al suo destino; per Creonte Antigone è la bambina a cui ha regalato da poco l’ultima bambola, ma è anche l’«orgoglio di Edipo», l’ultimo rampollo di una famiglia che identifica la vita con l’infelicità, fiera delle grandi colpe commesse. A differenza di Antigone, Creonte ha detto sì; ha accettato un ruolo ingrato, costringendosi così a una sene di menzogne e meschinità di cui si rende pienamente conto. I personaggi sono presi in un ingranaggio superiore a loro: Creonte, costretto a tessere l’elogio funebre dì un eroe che non è un eroe su un cadavere che non è il suo cadavere, e Antigone, che accetta di morire per due personaggi sordidi, entrambi ugualmente traditori della patria e della famiglia, entrambi attentatori alla vita del padre e alla sicurezza di Tebe. Ma, come nella tragedia di Alfieri, tutte le vicende non producono nessun mutamento dei personaggi. Così conclude il Coro: «Ecco. Senza la piccola Antigone, è vero, sarebbero stati tutti molto tranquilli. Ma ora, è finita. Essi sono tutti tranquilli ugualmente. Quelli che dovevano morire sono morti. Quelli che credevano una cosa, e poi quelli che credevano il contrario — anche quelli che non credevano niente e che si sonò trovati nella storia senza capire niente. Ugualmente morti».

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I limiti della critica

Anche nei critici la parzializzazione o addirittura la polverizzazione della figura di Antigone risulta una costante. Anche nei confronti dei critici questo personaggio fa da spartiacque, se è vero che in tempi moderni si è potuti giungere fino all’esaltazione di Creonte e all’individuazione in Antigone di una «figura sinistra, addirittura devastata dai demoni... rappresentante del selvaggio mondo dei morti» (16).

In una serie di pagine, che hanno fatto testo per gran parte del secolo scorso, Hegel, che considerava \’Antigone sofoclea perfetto modello di tragedia, vedeva in essa l’acuirsi di un conflitto, in cui Antigone e Creonte sono entrambi egualmente difendibili ed entrambi ugualmente colpevoli. La scomparsa dei due personaggi costituisce il necessario passaggio verso un’armonia etica superiore, che si avvicina di più allo spirito assoluto (17). Se l’individuazione nel dramma di una difesa dei diritti familiari contro la difesa dei diritti statali appare limitante, è perché questa lettura non tiene conto della viva realtà dei personaggi; la questione morale esiste in Sofocle, ma non è posta in termini astratti, bensì esaminata attraverso il concreto agire di persone poeticamente vive, che modulano il loro operare attorno a una differente concezione dì valori ed escono arricchite e trasformate dall’intrecciarsi dei loro diversi modi d’agire. È fuori di dubbio che Antigone rappresenti Sofocle: l’appello ad alcuni valori eterni, che l’uomo ritrova dentro di sé e che sono estranei a qualsiasi limitazione di spazio e di tempo, è ricorrente più volte nelle opere di questo poèta; l’accenno alle leggi eccelse, a cui l’uomo deve ubbidienza e rispettò, è rinvenibile anche in altre tragedie (18) oltre l’Antigone. Ridurre pertanto la tragedia a un conflitto tra due tesi, da cui nasce una sintesi, è fortemente limitante, in quanto non dà modo di avvicinarsi alla complessità del personaggio di Antigone. Ma sulla medesima pericolosa strada si pongono altri critici moderni che, come l’Untersteiner (19), vedono nella tragedia «la vicenda dell’Io umano che riempie la scena del mondo»; accanto ad Antigone, la personalità che deve ritrovare sé stessa e ricostituirsi nel momento della sconfitta, sta Creonte, l’io che si costruisce col cervello anziché con un impulso della volontà o un’ispirazione del sentimento: «Creonte vuole superare il momento elementare della vita con la logica e la ragione; Antigone con la spiritualità»; ella è mossa dalle «leggi della terra» che comprendono, oltre alle leggi dello Stato, «l’inevitabile affermarsi della verità sentimentale che è proprio degli esseri terreni». Così i contorni si sfumano, i motivi ideali divengono estremamente vaghi, la concretezza dei personaggi offuscata, le divinità razionalisticamente poste sullo sfondo, in omaggio anche alle premesse del critico, che non teme di alterare la realtà storica facendo di Sofocle un ateo razionalista; e accanto ai due protagonisti stanno l’io prepotente (Tideo), l’io primigenio elementare (la Guardia), l’io che annega sé stesso nella gioia (il Coro), il non-io (Ismene), ecc. ecc.

Ma anche la critica estetica, pur partendo da diverse premesse, giunge a polverizzare il dramma. Il Perrotta, dopo aver ammesso di mala voglia che anche la questione morale è legata inscindibilmente al dramma, perviene alla conclusione che essa nuoce alla sua perfezióne, ed è anzi un doloroso tributo che il poeta ha dovuto pagare (20). Dopo la morte di Antigone la tragedia «continua ancora per altri quattrocento versi» (che non sono definiti inutili e noiosi solo per rispètto). Il critico, nel suo disperato tentativo di setacciare la poesia dalla non poesia, non si spiega perché in una tragedia intitolata ad Antigone in realtà Creonte stia più sulla scena che non la stessa eroina. Si potrebbe rispondere che tale è la tecnica del Sofocle più antico, il quale costruisce la tragedia a «dittico»:

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prima la tragedia di Antigone, poi quella di Creonte; simile modo di procedere troviamo nell’Aiace e nelle Trachinie. Ma la realtà è diversa e più complessa: l’aver voluto respingere sullo sfondo la questione morale, scagliandosi contro quanti «in ogni opera d’arte sono sempre pronti a scoprire "un’idea" "un concetto" "una filosofia"» ha fortemente immiserito la sua visione della tragedia. L’esistenza poetica di Antigone consiste esclusivamente nella percezione, solitaria e incompresa, di una verità più grande che la trascende. Una questione morale diviene non un’astratta affermazione, bensì una carica ideale ricca di verità nel momento in cui una persona è pronta a sacrificarsi per essa. Questa è Antigone: non l’eroina che pronuncia splendidi versi, in cui «la questione morale non porta danno all’arte della tragedia, non la soffoca». Morta Antigone, la vicenda non è conclusa, perché la verità da lei affermata si prolunga oltre la sua vita; e assistendo alla pena che subisce chi non ha voluto inchinarsi di fronte alla verità, sentiamo che Antigone rimane idealmente sulla scena per tutta la parte finale, non solo quando il messaggero ne annunzia la morte, ma anche quando Tiresia proclama autorevolmente la sua stessa verità, quando Creonte e il Coro, seppure tardivamente, capiscono.

Più corretta sembra, e più onesta, la posizione dell’Arnold, questo strenuo difensore dei clàssici antichi e in particolare di Sofocle nelle polemiche letterarie dell'Ottocento, che pure considerava «tale da non suscitare più in noi un profondo interesse» il motivo centrale dell’Antigone (21). Si potrebbe rispondere che il dovere di seppellire i morti non è solo delle società arcaiche o pagane, che anzi il Cristianesimo ha semmai valorizzato il rispetto per il corpo umano, vivente o morto, confermando così una norma generale che già la sensibilità precristiana intuisce. Del resto, anche nell’ultimo conflitto mondiale le rappresaglie più feroci comportavano, come estremo spregio del nemico e monito per chi volesse condividerne le idee, l’esposizione dei cadaveri, quando non addirittura la loro mutilazione; da questo punto di vista l’azione dell’Antigone è ancora di tragica attualità. Ed è interessante che una ripresa filmica della tragedia, Cannibali della regista Cavani, si sia incentrata molto più sul motivo dei cadaveri insepolti per le vie di Milano e sull’indifferenza della gente, abbrutita e ottusa da una guerra civile, che non sulla figura della protagonista, molto lontana dall’eroina sofoclea, con alcune componenti misticheggianti del tutto estranee al modello greco.

Alcune letture moderne, come quella di V. Woolf (22), sottolineano il femminismo di Antigone, e toccano un punto che è indubbiamente presente nell’originale greco, fortemente sottolineato anche dalle due differenti reazioni negative di Ismene e di Creonte di fronte al gesto dì Antigone: si tratta però dell’assolutizzazione di un motivo a scapito di altri.

Altrettanto imbarazzata la lettura marxista, che a sua volta assolutizza la problematica politica, anch’essa indubbiamente rilevante nella tragèdia. Così a chi, come il Citti, vede nel discorso di Creonte riflettersi gli ideali politici di Sofocle (dimenticando l’amore per la democrazia che contraddistingue il cittadino ateniese del V secolo e ignorando il fatto che Creonte è esplicitamente chiamato «tiranno» al v. 60) (23), si contrappone il Molinari. Quest’ultimo ammette in Antigone il desiderio non di affermarsi egoisticamente, bensì di risvegliare le coscienze intorpidite degli altri concittadini, però conclude: «In ciò consiste la grandezza, ma per Brecht anche il limite, del personaggio, in questa sua dimensione che non si può definire se non illuministica ed anarchica. Ove la grandezza consiste nella chiara coscienza che un’azione deve essere intrapresa e che lei non può se non iniziarla, il limite nella genericità del messaggio e, più, del destinatario». Di fatto il messaggio di Antigone è molto generico agli occhi del Molinari, il quale non può che ricordare le parole del Cloridano ariostesco, «che sarebbe pensier non troppo accorto / perder duo vivi per salvare un morto» (24).

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Ma le conclusioni sono sempre le medesime: Antigone costituisce una pietra di paragone per quanti hanno voluto accostarsi a questa figura ignorandone il contenuto etico e soprattutto religioso, sentendo il fascino irresistibile dell’eroina del mito, ma rifiutando una lettura integrale di essa, per affrontare singoli tratti della sua personalità o per fare svanire in un evanescente chiaroscuro i motivi profondi dei suo operare, Antigone risulta quindi scomoda non solo per i Creonti del suo tempo, ma per tutti i Creonti successivi che, inebriati dal potere o dall’ideologia, non possono fare a meno di manifestare il proprio disagio quando trovano chi sa testimoniare fino alle estreme conseguenze quella verità che essi negano in nome dell’interesse immediato o perché incapaci di ascoltare qualsiasi voce che ci annunci un ideale più grande della nostra persona.

La tragedia di Antigone, tra natura e cultura

La tragedia greca -- in quanto simbolo di ogni possibile rappresentazione -- mostra in concreto e, per così dire, «in opera» l'esigenza di una comprensione radicale che, interrogando la finitezza, di fatto, ne coglie le condizioni interne, lo sfondo trascendentale che la costituisce e la dischiude.

E cogliere l'orizzonte trascendentale della finitezza, significa cogliere, all'interno dell'esperienza -- attraverso un risalimento trasversale e obliquo -- ciò che, pur essendo contenuto e presente all'interno del finito, di fatto, lo trascende e al finito, sempre e di nuovo, si sottrae.

Antigone evoca questo scarto, questo residuo eccedente che sfugge all'intelletto e che si offre nel tessuto immanente della rappresentazione, restando, tuttavia irrappresentabile.

Una presenza che è sempre anche assenza, dunque: un paradosso costitutivo e ineliminabile.

Per questo, Antigone -- icona dell'irrappresentabile -- è la figura paradigmatica e, in qualche modo, archetipica di un'eccedenza irrisolta che la tragedia osa rappresentare. Quello che Antigone rivela è un problema di fondo. Una questione decisiva, sotto il profilo teoretico: il rapporto inspiegabile e paradossale che unisce in una interdipendenza circolare e, per così dire «chiasmatica», natura e cultura, «ethos» e «pathos». Vale e a dire, in termini nietzscheani, Apollo e Dioniso. Il rapporto originario che si stabilisce tra «natura» e «cultura» -- e che la figura di Antigone esibisce in modo esemplare -- costituisce, a ben vedere, il problema stesso della filosofia, in quanto tale. Quello che potremmo definire -- in senso «kantiano» -- il problema interno della filosofia. La figura di Antigone è l'exemplum di questo «paradosso originario» e fondante: il paradosso di una identità che è sempre, anche, differenza e che solo attraverso la differenza -- solo attraverso il margine residuale e lo scarto che questa presuppone -- esplica e realizza se stessa.

Ma vediamo meglio quale significato, quale specifica configurazione assuma -- nel testo, nell'opera di Sofocle -- il problema che stiamo esaminando: il nesso originario, la diade «natura-cultura».

Anche Antigone -- come Edipo -- mostra in opera -- e, per così dire, in figura -- il disvelarsi fenomenico della deinòtes umana e, quindi, il riconoscimento di un'alterità inassimilabile.

«Deinòtes», infatti, significa esattamente questo: un'alterità assoluta che resiste ad ogni tentativo di ri-appropriazione dialettica e di rilevamento concettuale. Una dimensione infinitamente eccedente e «in-determinata»: lo «scarto» -- il margine residuale, per così dire -- che il Logos non può tradurre

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«in immagine» una volta per tutte. Il rapporto «natura»-«cultura», in quanto «identità-differenza» -- in quanto «double bind» -- è una delle possibili configurazioni che la «deinòtes» umana assume, nella raffigurazione tragica, nella tragedia come simbolo di ogni possibile rappresentazione. Della rappresentazione «in genere», dunque. La figura di Antigone evoca il «double bind» della de-costruzione tragica, ovvero: la traccia, la contaminazione originaria e trascendentale che non si lascia riassorbire dal movimento circolare della sintesi filosofica e che, proprio per questo, restituisce la finitezza alla sua assoluta singolarità, alla sua intraducibile matrice «affettiva». L'ethos di Antigone lacera il determinismo e la pertinenza concettuale del Lògos e nega, di fatto, la stessa distinzione che divide proprio e improprio, metafora e concetto, presenza e assenza. Antigone è, nella tragedia di Sofocle, la differenza che non si lascia includere all'interno dell'identità e che mette in discussione l'assolutezza unilaterale dell'ordine apollineo.

Quello che emerge è l'intervallo dis-continuo che interrompe la trasparenza assoluta della «cultura» e la certezza, per così dire, monologica dell'autocoscienza.[1] Quella certezza universalizzante e, per così dire, «globale» che fonda lo spazio del potere politico e l'orizzonte dialogico della «polis», in quanto espressione -- e «oggettivazione» -- della cultura apollinea.

Per questo, se vogliamo cogliere nella pienezza delle sue articolazioni teoretiche e concettuali il nodo fondamentale che unisce «natura» e «cultura», dobbiamo, di fatto, volgere lo sguardo alla cultura classica -- dunque, all'origine della nostra civiltà -- e, «interrogare» il testo che meglio esprime il groviglio aporetico e antinomico che quel nodo implica, vale a dire, appunto: la tragedia attica del V sec. a. C. e, innanzitutto, la tragedia di Sofocle.

Nella collisione tragica che separa Antigone e Creonte -- vale a dire: Nòmos e Physis, natura e cultura -- emerge la tragica sapienza di Sileno, secondo la quale la cosa migliore, per l'uomo, è non essere nato -- «mè phynai» -- non essere e, dunque, essere niente (v. F. Nietzsche, Nascita della tragedia, ed. it. a cura di Colli-Montinari, Adelphi, Milano, 1972, pp. 31-32), perché il Nulla è il fondamento incondizionato, l'onda mnemica che, ogni volta, traspare nell'apparenza e nel visibile.

Tragico è il fatto che l'esistenza sia sempre «monoumenos»: sradicata e condannata all'esilio, e, quindi, strutturalmente dissociata e frammentaria. La colpa ontologica di Antigone è la determinazione unilaterale del suo ethos, della sua «pràxis»: l'assoluto contraccolpo che divide, dall'interno, l'unità omogenea della sostanza etica, la continuità, per così dire, autoctona della Polis che è radicata nelle profondità oscure della Terra. E la Terra, è, innanzitutto, «Chôra»: la madre e, insieme, il ricettacolo inconoscibile, al di là del kòsmos. Anche Antigone, quindi, rimanda all'originario, arcaico simbolismo della «Pòtnia theròn» che è il fondamento trascendentale e, insieme la fonte aurorale -- la «Thèmis» -- della legge olimpica e delfico-apollinea.

Il conflitto tragico -- il «pòlemos» -- scaturisce dalla scelta libera e autonoma di Antigone. Dalla volontà di dare sepoltura al cadavere del fratello che è «autàdelphos», e, quindi, insostituibile.[2]

La tragedia di Antigone, quindi, mette in questione la finitezza attraverso il riconoscimento della scissione che divide l'unità etica della coscienza. Una scissione che fa tutt'uno, come vedremo, con la dimensione dell'identità, perché il paradosso tragico proprio in questo consiste: nell'impossibilità, per il pensiero logico, di spiegare una «identità» che è, insieme, simultaneamente, differenza.

Se nel mito di Edipo è in gioco, essenzialmente, la capacità teoretica del Logos e il limite costitutivo che caratterizza l'appropriazione conoscitiva del mondo, la tragedia di Antigone, invece, getta luce sul paradosso di una sostanza etica che è lacerata in se stessa. Una sostanza che appare divisa e attraversata dal contraccolpo della «differenza». Antigone, infatti, è la traduzione e la localizzazione dell'universale nella concretezza effettiva del particolare: l'universale che

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nell'individualità concreta e determinata del particolare, di fatto, si «ri-vela», e che, insieme -- nel suo stesso apparire e offrirsi in figura -- tragicamente, dilegua, sempre e di nuovo sottraendosi.

Nella tragica consapevolezza di Antigone -- che prende su di sé la deinòtes umana e la responsabilità radicale della sua contingenza -- il contenuto universale che è proprio della coscienza in quanto coscienza trascendentale, si determina e diventa «esplicito» nella singolarità incommensurabile di una prospettiva particolare e specifica. E solo attraverso quella singolarità è possibile, per noi, cogliere -- «di colpo» e, dunque, in modo sempre provvisorio e parziale -- l'assolutezza indeterminata e trascendente dell'universale che, tuttavia, fonda e rende possibile l'individualità del particolare.

È qui che entra «in scena» il tema centrale della sofferenza tragica, il tema della «morte».

È proprio la morte, infatti, il luogo che esibisce, fino in fondo, la radicale necessità -- e, insieme, il paradosso -- di questa individuazione dell'Assoluto nella decisione individuale e autosufficiente del singolo. E c'è tragedia solo nella misura in cui il soggetto è fino in fondo libero e, dunque, sottratto al determinismo teologico e alla sua inflessibile necessità. Solo attraverso la scelta liberamente assunta dal soggetto, è possibile cogliere, in tutta la sua sorprendente densità filosofica, il legame doppio e paradossale che unisce, da sempre, natura e cultura e che permea di sé il tessuto della rappresentazione tragica.

La parola tragica ci dice che l'unità -- la radice ontologica delle cose e dell'esistenza -- è già divisa e attraversata dalla contraddizione del divenire. In altri termini, l'unità è sempre sdoppiamento dell'unità perché la sua manifestazione è la rivelazione apofatica che porta il «no» nel cuore del «si» e che presuppone la reciproca implicazione e la simultaneità dell'identità e della differenza, e, quindi, la paradossale concordia delle tensioni opposte.

Per questo, se Creonte incarna il diritto pubblico e oggettivo dello Stato -- e, quindi, il nòmos espresso dallo spazio dialogico dell'agorà -- la figura di Antigone rimanda alla sostanziale e tellurica sacralità della famiglia, all'orizzonte pre-categoriale, mediterraneo e affettivo dei Penati. Il «diritto delle ombre», che la donna custodisce in sé, nella memoria.

In altre parole, il «carattere» inflessibile di Antigone rinvia all'opacità di «Hestìa»: il focolare domestico, lo spazio chiuso dell'affettività e del «gènos».[3]

La legge di Antigone è, quindi, la legge sottratta alla chiarezza sintattica della scrittura: la legge orale e trascendente che conosce se stessa solo nella scissione bipolare, solo nella collisione degli opposti e nella sofferenza indicibile della morte.

Ma questo significa anche che Antigone conosce e realizza se stessa solo attraverso il riconoscimento della propria unilateralità, solo attraverso una rinuncia e una perdita irreversibile.

La morte, allora, è qualcosa che «viene prima» e che rende possibile -- in termini trascendentali -- l'apertura del dràn e il manifestarsi del conflitto nella superficie visibile della rappresentazione.

La morte, quindi, non è tanto il risultato dell'azione drammatica, ma la sua condizione interna di possibilità: lo sfondo trascendentale che la dischiude e che la istituisce in quanto rappresentazione.

Polinice è il nemico della Polis e la legge del Giorno espressa da Creonte -- la legge che contiene in sé l'ordine uranico e olimpico del kòsmos -- impedisce la sepoltura, dichiarandola illegittima. Il

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crimine di Antigone è esattamente questo: la violazione della Legge del Giorno, la violazione del «nòmos» olimpico che è «cultura» perché nasce da una volontà di oggettivazione logico-concettuale che raccoglie e unifica il molteplice. In altri termini, il concetto di «cultura» -- nella tragedia di Sofocle -- emerge proprio nella esigenza di stabilire nessi e relazioni all'interno del molteplice -- nella rapsodia anarchica delle percezioni -- attraverso un processo di organizzazione e di concentrazione che consiste nel cogliere i «tratti comuni» -- i «tratti pertinenti». L'idea di «cultura» evoca questa irruzione del nome nel caos del senza nome -- per usare una fondamentale espressione di H. Blumenberg. C'è cultura, quindi, perché il Logos apollineo -- che è forma, misura e simmetria -- produce equilibrio e ordine nel magma indifferenziato della vita, portando l'individuazione e la distinzione nel caos aniconico della «natura», nel grembo stesso della Physis che a quell'ordine sempre si sottrae. Il ribaltamento tragico, attraverso la sofferenza porta alla luce la complessità aporetica della natura in quanto Physis, la polarizzazione antinomica che la tragedia moltiplica e ripete, di volta in volta.

Antigone vede nella prospettiva unilaterale assunta da Creonte la negazione del diritto autentico e, quindi, una «effettualità accidentale», una dimensione contingente e priva di consistenza ontologica. E, tuttavia, alla fine, è proprio il diritto divino esibito da Antigone che appare privo di sostanza e di effettualità. Lo stesso contraccolpo, dunque, divide dall'interno l'ethos di Creonte -- che riconosce, alla fine, l'alterità incondizionata e, insieme, il valore della Legge ctonia -- e l'ethos di Antigone, che il linguaggio mediato e «articolato» dell'agorà non può esaurire né spiegare.

Il diritto di Antigone rinvia alla profondità imperscrutabile e nascosta della Legge ctonia: l'antichità di un passato che, tuttavia -- paradossalmente- è sempre «a venire» e che è, nello stesso tempo, «qui» e «al di là». Un'antichità che è condensata nella chiarezza esplicita del visibile e da sempre esposta all'infinito gioco ermeneutico e morfologico della différance dionisiaca. Il diritto delle Ombre incarnato da Antigone è l'interminabile raddoppiamento di questa «differenza». Lo spazio abitato da Antigone -- «Hestìa» -- raffigura l'irrappresentabile assenza del centro, e, quindi, la tragica fluttuazione del senso che l'eidos -- la cultura apollinea -- vorrebbe togliere e oggettivare. E la verità tragica appare caratterizzata da questa oscillazione, da questa «supplementarità» indicibile che restituisce «Alètheia» al dissidio e alle ambiguità del divenire.

Ma questo significa che natura e cultura -- vale a dire: l'universale e il singolare, il sensibile e l'intelligibile -- sono distinti e opposti solo nella superficie della collisione drammatica, perché, nella profondità ctonia dell'essenza, i termini contrari non sono l'uno fuori dell'altro, ma ogni termine conserva e contiene in sé il suo opposto. Lo conserva, per così dire, nella memoria: nello spazio trascendentale -- uno spazio stratificato e multiforme -- che è sempre intessuto di finitezza e di oblio. Qui, infatti -- nella scena paradossale del «dràn» - la sostanza etica non è altro che l'«intero»: l'intero che è già, in se stesso, diviso e lacerato. Tragico, insomma, è proprio il fatto che l'intero contenga dentro di sé la differenza e che sia lacerato da quell'opposto che ha in sé e che, tuttavia, è, nello stesso tempo, altro da sé. L'Altro, dunque, del visibile che appare e che, mostrandosi, dilegua, all'interno del visibile e, quindi, nella trama corporea e materiale dell'esperienza. Il destino di Antigone è tragico nella misura in cui evoca lo smembramento dell'intero, la frantumazione e la pluralizzazione dell'Origine. Nessuna redenzione, quindi: solo l'interminabile -- e sempre nuovo -- ripetersi di una differenza originaria che tiene insieme gli opposti, salvandoli dalla tautologia della identità assoluta, dalla tautologia del «principio di non-contraddizione». Quel principio fondamentale -- l'aristotelica «bebaiotàte arché» -- che l'evento tragico mette in questione, superandolo «dall'interno» e mostrandone la crisi irreversibile, l'intrinseca dissoluzione.

Ed è proprio la scelta di Antigone che svela il fondo patico -- la radice istintuale, organica e biologica -- che ogni azione, di fatto, custodisce nella memoria. L'azione, infatti, è già, in sé,

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violenza -- «Bìa» -- e, in quanto tale, produce «hybris», perché presuppone lo strappo originario della decisione, e, quindi, la terribile irruzione del destino demonico.

Ogni azione è, in quanto tale, colpevole, perché nega l'unità omogenea del Tutto e perché, di fatto, esclude l'opposto, se è vero che «omnis determinatio est negatio».

In altri termini, attraverso l'esperienza del dolore, quello che emerge non è la coerenza razionale dell'«ousìa» platonica, ma l'assoluta alterità, l'abisso del non-senso, ovvero: l'intraducibile estraneità di un destino che è Ate, e che revoca l'evidenza dianoetica del concetto, mettendone in scena il naufragio.

Ma questo significa anche che il conflitto che divide Antigone e Creonte -- e, quindi, il conflitto tragico in quanto tale -- è la collisione -- il «pòlemos» -- che divide, nel tessuto della medesima sostanza etica, due universalità concrete. Vale a dire: ethos e pathos, natura e cultura. Ovvero: Apollo e Dioniso, «verità» e «menzogna», superficie e profondità. E tragico è il fatto che, in questa radicalizzazione del conflitto, l'esclusione dell'altro produca, necessariamente, l'esclusione di sé. Per questo ogni appropriazione implica sempre un differimento, una distanza e, quindi: una espropriazione, una perdita irreversibile, una rinuncia. Nella assoluta e inconciliabile antinomia alla quale la tragedia dà forma, le due leggi sono l'una il riflesso dell'altra: immagini rovesciate e capovolte del medesimo orizzonte universale. Immagini della medesima identità già da sempre interrotta e divisa. Figure e forme individuali già attraversate, obliquamente, dalla forza di perforazione e dalla traccia inafferrabile della différance. La tragedia, in definitiva, rappresenta questa perforazione che marca, ogni volta, la singolarità dell'ethos e che esibisce, simbolicamente, l'infinito gioco prospettico della rappresentazione. Il gioco dionisiaco, quindi: il nodo della composizione drammatica nel quale la traccia del pathos cancella e ripete se stessa, attraverso un lavoro figurale inesauribile di spostamento e di dissimulazione.

Per questo lo spazio tragico evocato da Antigone è, insieme, pòlis e oikos, Hestìa ed Hermes, Nòmos e Physis.

Per Antigone, realizzare fino in fondo se stessa e la sua autonoma dimensione etica significa attraversare la soglia della sepoltura: questa è l'enigmatica radice ontologica della sua inflessibile timé. La radice, cioè, della sua identità «intrattabile» e multiforme che rinvia all'abisso dell'Origine, nella misura in cui l'Origine non è altro che l'abisso del «com-possibile». L'«Indifferenziato» che si offre nella trasparenza della rappresentazione -- e, dunque, nella trasparenza della cultura apollinea -- restando, tuttavia, irrappresentabile.

È la legge positiva del Giorno che rende impossibile questa realizzazione, questa possibilità di oggettivazione e di espressione della sua identità profonda.

Antigone si affida al diritto primordiale di Hestìa che è l'altro della «pòlis» all'interno della sua tessitura giuridica e istituzionale, vale a dire: la resistenza patica, la tonalità emotiva che si sottrae alla rimozione e alla connessione sistematica e categoriale delle inferenze logiche. Ovvero: «Physis», la Natura che è il senso profondo delle cose -- «A-lètheia»: l'altro della cultura all'interno della cultura stessa. L'alterità immanente, intessuta e «condensata» nel tessuto dell'apparenza apollinea -- nell'orizzonte stesso della «pòlis» . L'alterità irrappresentabile che la cultura apollinea custodisce al suo interno, senza poterla esplicitare -- e trasvalutare -- una volta per tutte.

Per questo, se è vero che l'ordine olimpico della «pòlis» ripete, oggettivandolo, l'ordine logico apollineo, è anche vero che il «nòmos» di Antigone è assolutamente «a-polis» perché svela, di fatto,

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la radicale estraneità del Dasein al suo ethos: la radicale estraneità dell'ente finito in quanto progetto gettato e «dislocato» nel mondo.

Antigone, infatti, incarna il «deinòtaton»: l'assoluta e autonoma immediatezza (v. Antigone, v. 821) del diritto sotterraneo contro la quale si infrange la trasparenza simmetrica e l'armonia apollinea del Logos. L'affermazione autonoma di Antigone esige, quindi, la contraddizione, vale a dire: la rottura dell'equilibrio escatologico e, quindi, la dissoluzione del meccanicismo deterministico. In questa trasfigurazione esemplare che mette in questione la struttura immanente della pòlis, la certezza teleologica scompare e l'armonia delfica esplode in un movimento ellittico e liminare che resta indecifrabile.[4] Ma qual è il nodo tragico che Antigone manifesta? E, soprattutto, perché la scelta -- e, dunque l'azione -- di Antigone non può non essere tragica?

Per evidenziare i fondamenti concettuali -- e, dunque filosofici -- che caratterizzano la tragedia di Antigone è necessario «leggerla» nelle sue stratificazioni interne, portando alla luce quella complessa «topologia» teoretica che lo spazio liminare della rappresentazione, di fatto, presuppone.

In nome della originaria philìa che la unisce al fratello, Antigone sprofonda nell'annientamento, nell'oscurità irrazionale dell'«amechanìa» (v. Antigone, vv. 90-91). Questa è la cifra ontologica del suo sussistere e, insieme, la radice della sua impotenza. Impotente, infatti, è l'Esserci che pretenda di esaurire in sé, nella libera e autonoma consapevolezza del suo esistere, la totalità incondizionata e sovrasensibile, il fondamento infondato e, per così dire, noumenico che ogni figura, nel suo apparire -- nel suo improvviso emergere nella superficie del visibile -- di fatto, conserva in sé, proprio serbandone il ricordo. Antigone è la forma che separa se stessa dall'orizzonte inglobante dell'Uno-Tutto e che appare nella superficie visibile del gioco rappresentativo, radicalizzando in modo iperbolico e unilaterale il senso profondo del suo ethos, la cifra ontologica della sua identità. Ma questo «apparire» è già, in quanto tale, colpevole. Colpevole nella sua individuazione, nella scissione attraverso la quale la finitezza concreta dell'ethos acquista la piena consapevolezza della sua identità: la coscienza, quindi, della perdita e della privazione che lo spazio tautologico dell'identità non può cancellare. Il nulla al fondo dell'essere. Ovvero: la coscienza del limite che evoca, in quanto tale, un'originaria assenza. Una presenza ineffabile che si dà solo come eccedenza irrisolta, come scarto, come margine residuale che non può essere tolto. Una presenza, insomma, che è già assenza, il che vuol dire: una trascendenza intessuta nell'immanenza, un'immanenza che trascende se stessa e che coglie, in sé -- nella profondità del suo ethos -- la traccia, il segno vibrante di un'appartenenza originaria. L'appartenenza al sostrato noumenico dell'esistere che si svela -- infinitamente ri-velandosi -- proprio nella materialità fisica del segno visibile, nell'azione consapevole e deliberata che l'eroe tragico assume. Il limite che costituisce Antigone è esattamente questo: un'estraneità interiore, un'estraneità incorporata nell'immanenza concreta e visibile del segno. Vale a dire: nella presenza autocosciente della forma tragica che può essere letta e decifrata come metafora del tragico in quanto tale, come simbolo e paradigma della riflessione filosofica che interroga e tematizza se stessa.

Per questo, ciò che è propriamente tragico, in Antigone, è la tensione bi-polare che si instaura tra la finitezza del «segno» e l'assolutezza indicibile dell'orizzonte nel quale il finito si scopre gettato e, per così dire, inscritto. Una tensione bipolare che svela una dicotomia di fondo, un dualismo irrisolto. La tensione originaria che si stabilisce tra l'affettività immediata di «Hestìa» e la costitutiva mobilità di «Hermes», nella misura in cui «Hermes» è il principio che proietta il Dasein verso lo spazio aperto della comunicazione politica e intersoggettiva. Verso la «città» come luogo dell'identità politica, come orizzonte circoscritto del dialègesthai. La trasparenza di «Hermes», infatti, è il fondamento ontologico della pòlis, la dimensione mitica che conferisce senso e valore alla sua identità. «Hermes» è l'orizzonte trascendentale della cultura e della civitas. La condizione che rende possibile l'«isegorìa» e l'«isonomìa» della polis, vale a dire: la perfetta reversibilità e la

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reciprocità simmetrica dello spazio pubblico e giuridico, che l'agorà esprime.[5] La razionalità della polis nasce da questa organizzazione geometrica e matematica dello spazio e del movimento, da questa isonomìa dove tutto è comune. Ma questo significa anche che l'orizzonte della pòlis è il «Da» -- il «ci» -- del Da-sein: il luogo nel quale, per il quale e dal quale[6] il mistero dell'Alètheia si storicizza, offrendosi alle mediazioni sempre provvisorie e imperfette del linguaggio segnico e referenziale. A questa matematizzazione euclidea dello spazio, si oppone -- dall'interno -- la traccia opaca e intraducibile della singolarità e della philìa: il margine che non può essere assimilato, il residuo invisibile -- àdelon -- che converte il senso nel non-senso, rovesciando l'essere «così com'è» nel poter essere altrimenti. La tragedia nasce da questa inversione, da questo improvviso rovesciamento etico e ontologico. Dal fatto, cioè, che il mondo possa essere visto e interpretato attraverso forme ermeneutiche sempre nuove e diverse, e, quindi, attraverso configurazioni di senso inevitabilmente ellittiche. In definitiva, quello che emerge non è tanto la sicurezza -- e, di fatto, l'illusione -- di un fondamento stabile e compiuto, ma la certezza, per così dire «interrogativa» di un «dover-comprendere» sempre aperto e rinnovato. Il fatto, cioè, che, al di là di qualunque prospettiva «soggettiva» e «relativistica», la dynamis -- vale a dire: la possibilità impossibile e indecidibile, la contradictio contradictionis -- sia il fondamento originario e ulteriore, che si dà prima e al di là della enèrgheia. La diade «natura»-«cultura» esibisce in modo esemplare, proprio nella sua intrinseca configurazione aporetica e paradossale, questa contraddizione originaria che si flette su se stessa e che nega se stessa: la possibilità estrema del pensiero, la possibilità più aspra e radicale. Quella che espone il pensiero al rischio di un rovesciamento integrale e che, per questo, mostra, dentro le categorie del pensiero, il limite insuperabile nel quale il pensiero, sempre e di nuovo, si infrange. La «contradictio contradictionis» dice esattamente questo: l'identità-differenza tra natura e cultura, il loro originario appartenere allo spazio -- in quanto tale impensabile e irrappresentabile -- del trascendentale e del «compossibile». Lo spazio aniconico del dionisiaco, il luogo stesso del pathos all'interno di ogni ethos, all'interno, cioè, di ogni mediazione culturale. Questa «possibilità» originaria -- evocata da Antigone -- mostra l'impotenza della epistème metafisica e, quindi, la tragica decostruzione delle sue certezze sillogistiche. Il fallimento, dunque, della «verità» intesa come corrispondenza, come «adaequatio» raffigurativa. E, quindi, il fallimento del pensiero stesso, la sua decostruzione, lo smantellamento delle sue pretese globalizzanti e imperialistiche. Questo è «Antigone», simbolo -- e icona -- di un irrappresentabile che ogni rappresentazione custodisce al suo interno. Questo, a ben vedere, è il significato della sua scelta. Una scelta che presuppone la capacità di ascoltare l'appello della «natura», stando, tuttavia, all'interno di uno spazio che è stato definito e circoscritto dall'azione oggettivante e categorizzante della «cultura».

Per questo, la responsabilità etica assunta tragicamente da Antigone si configura come scelta autonoma e libera, come «de-cisione» che genera «hybris» -- la prevaricazione -- e che, insieme, rivela la primordiale esigenza di prendersi cura del mondo, conservando nella memoria l'universalità indicibile dell'«Arché». Vale a dire: l'universalità che fonda la determinatezza e la singolarità dell'autocoscienza, di ogni autocoscienza.

Antigone, icona dell'immemoriale pathos dionisiaco, condivide l'esigenza dionisiaca di «tollere peccata mundi» e, in questo tragico abbandono alla strutturale sofferenza che è nelle cose, prende su di sé la responsabilità della (sua) finitezza. L'esigenza -- propriamente tragica -- di salvaguardare la manifestatività dell'Alètheia nella finitezza dell' Esserci, è, per Antigone, un dovere assoluto: un sentire immediato che esige la compartecipazione affettiva e la condivisione empatica dei vincoli originari.

E, tuttavia, affinché l'ethos di Antigone si realizzi nella determinatezza fenomenica del mondo, è necessario che l'unilateralità di ethos dilegui, perché solo attraverso il dolore incommensurabile di questa perdita è possibile affermare e volere fino in fondo se stessi. Ethos, quindi, è negato e distrutto in nome di ethos, se è vero che -- tragicamente -- Dìke realizza se stessa solo attraverso la

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negazione e la violazione di Dìke (v. Eschilo, Coefore, v. 461). La tragedia, insomma, porta l'anfibologia e la vibrazione ritmica del contraccolpo drammatico nella struttura profonda delle cose, nella loro identità originaria che contiene in sé il simile e il dissimile, il moto e la quiete, l'uno e i molti, senza essere, propriamente, né l'uno né l'altro, ma, insieme, ogni volta, l'uno e l'altro. In altre parole, l'imperscrutabile essenza, che l'intreccio drammatico porta alla disvelatezza concreta dell'accadere, non è altro che l'Irrappresentabile -- il luogo ou-topico: «Chôra» -- che si mostra nella configurazione sensibile della forma, restando, tuttavia, innumerabile e irrappresentabile. Ma questo significa che la pràxis di Antigone rimanda, nella sua intrascendibile singolarità, alla totalità aionica e indistinta: alla dimensione corale e ditirambica che rende inquieta ogni quiete e che, rovesciando il dominio epistemologico della «Theorìa», trascende il primato aristotelico dell'atto. In altri termini, se la certezza metafisica del fondamento rinvia alla trasparenza assoluta dell'«entelècheia» e alla necessità immutabile dell'«òntos òn», il sapere patico di Antigone, al contrario, viene restituito alla tensione progettuale e all'apertura estatica del Dasein, che non è mai prevedibile nelle sue infinite possibilità ermeneutiche. L'ethos di Antigone è davvero -- per Antigone -- «daimon», nella misura in cui, attraverso la scelta, nega l'assolutezza immutabile del Logos e la rovescia dall'interno, esponendo quella trasparenza e quella simmetria al dolore della finitezza, al groviglio antinomico delle sue contraddizioni.

L'azione di Antigone è carica di questo «aidion», che manifesta l'assoluta trascendenza di Dio, «chiunque egli sia» -- «hòstis pot'estìn» (v. Eschilo, Agamennone, v. 160).

È questo il problema decisivo tematizzato da Sofocle: l'intreccio, il «chiasma» che si instaura tra la finitezza insuperabile dell'Esserci e l'eccedenza, per così dire «aorgica» del divino che supera qualunque termine di paragone, qualunque analogia. Non c'è congettura, infatti, che possa esaurire l'imperscrutabile onnipotenza, l'indicibile «kraìnein»[7] che rende Zeus «panaìtios» e «panerghètes» (v. Eschilo, Agamennone, v. 1486).

Nessuna compensazione, dunque: nessuna possibilità di riscatto.

La compensazione, infatti, è il «no» diviso dal «si»: il «no» che nega il rischio dirompente della temporalità -- «tòlma» (v. Antigone, v. 371) -- e, quindi, la libertà del Finito, la sua autonomia.

Per questo, negando la redenzione e la conciliazione sintetica degli opposti, la tragedia salva la possibilità di una libera e autonoma affermazione del Finito, nel mondo abbandonato dal «senso».

La tragedia di Antigone, in definitiva, mostra -- nella radicale concretezza del visibile -- il dolore -- il «pònos» -- che ogni decisione custodisce: il nefas che appartiene all'azione in quanto tale e, quindi, l'immanente duplicità dell'uno che è già marcato e sdoppiato dall'irruzione epifanica dell'alterità.

L'identità tragica, quindi, ospita in sé una pluralità contraddittoria di personae, una polifonia di maschere, perché accoglie in sé non solo la trasparenza e l'univocità del proprio, ma anche l'assenza e l'assoluta alterità dell'estraneo. In questa prospettiva, Antigone diventa -- nella rappresentazione di Sofocle -- icona dell'irrappresentabile e immagine di quell' arcipelago interiore all'interno del quale gli opposti -- soggetto e oggetto, attività e passività, azione e reazione -- sono legati da un rapporto duplice e immanente, che è, insieme, identità e differenza. Di questa compenetrazione indissolubile Antigone è, insieme, simbolo e paradigma universale. Ma questo vale anche per Edipo. Edipo e Antigone, infatti, esibiscono, secondo prospettive diverse e, tuttavia, complementari, il medesimo problema: quello che, di fatto, il problema teoretico di fondo, il problema interno della filosofia.

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Le leggi non scritte -- gli «àgrapta nòmima» di Antigone (v. Antigone, vv. 454-455)- evocano, quindi, la profondità della terra che è madre e, insieme, orizzonte periecontologico del divenire. In altre parole, il nòmos incarnato da Antigone è la memoria che conserva nel cuore Hestìa: la casa, il senso primordiale e ingiustificabile dell'essere. E l'indeducibile, nella tragedia di Antigone, è il fondamento infondato del quale non è possibile «lògon didònai» -- dare ragione -- nella misura in cui infondato e, fino in fondo, ingiustificabile è l'orizzonte pre-categoriale -- vale a dire: la «forma di vita» -- che si dà, nelle articolazioni mediate del conoscere e del divenire, come paradosso, come «estraneità interiore».

Questo è «deinòn»: la terribile inquietudine che rende a-poros ciò che sembra panto-pòros, vale a dire, l'uomo, il «Dasein», colto nella sua configurazione policentrica e multiforme. Sorprendente e terribile -- e, dunque «deinòn» -- è la capacità umana di elaborare forme e modelli concettuali, attraverso una espansione indefinita e imprevedibile della «volontà di potenza». In termini nietzscheani, infatti, la «volontà di potenza» non è altro che la volontà di interpretazione e di comprensione: il tentativo, quindi, di orientarsi nelle pieghe contraddittorie e nei «sentieri interrotti» della finitezza. «Tra» natura e cultura, tra «ethos» e «pathos».

Il I stasimo dell'Antigone svela questa radicale ambivalenza (v. Antigone, vv. 332-375). La capacità inventiva e costruttiva dell'uomo è la capacità di produrre tèchnai, attraverso quella decisione -- «proàiresis» -- che è, insieme, disvelamento e «provocazione», e, dunque, colpa. L'anticipazione inventiva della tèchne, infatti, è la capacità di dominare le cose e l'esperienza. La capacità di asservire al giogo[8] della razionalità logica -- che è, poi, il giogo della cultura logocentrica occidentale -- l'opacità irrazionale che è nelle cose, la ingens sylva pre-categoriale. La tragedia di Antigone mostra la connessione profonda che lega -- sotto il profilo teoretico -- l'esigenza di una mediazione culturale sempre rinnovata e flessibile e l'esigenza di conferire senso al disordine dell'esperienza, attraverso l'inclusione del molteplice nell'orizzonte categoriale della relazione logica, nella trasparenza del pensiero logocentrico. E, tuttavia, in questa affermazione prometeica della Tèchne, la plasticità creativa e il tentativo di dare forma all'infigurabile svelano l'abisso e l'estraneità della Physis. Physis è, dunque, l'orizzonte inaccessibile che non può essere consumato, lo sfondo eterno e «infaticabile» che sempre si ritrae: «a-kàmaton», «à-phtiton» (vv. Antigone, vv. 332-341). Per questo, se è vero che ogni «decisione» è hybris, è anche vero che l'evento tragico mostra l'esigenza, sempre rinnovata, di rendere Dìke all'a-dikìa, nell'orizzonte del transeunte e della temporalità. Qui, nell'evento della rappresentazione tragica -- che è il simbolo e il paradigma di ogni rappresentazione, della rappresentazione in genere -- Antigone scopre, attraverso il dolore ineffabile della catastrofe, la profondità noumenica e l'assoluta trascendenza della libertà.

E qui, nell'abisso infondato della libertà, emerge il paradosso di una salvezza che distrugge, perché l'infinito che annienta il finito non è altro che la verità del finito: la verità che lo nega e che, insieme, lo afferma. La salvezza tragica è esattamente questo: il paradosso di una redenzione che nasce dal riconoscimento consapevole del limite e dalla fedeltà alla terra. Dalla capacità «in-condizionata» di affermare la vita in quanto transizione e tramonto.[9] Al fondo della distruzione, quindi, la salvezza tragica è la partecipazione che nasce dalla comunione dionisiaca e che sfugge, per questo, alla hybris dell'occhio metafisico. Un dono inspiegabile che si affida all'immediatezza assoluta dello sguardo. Una dimensione estetica, dunque: un sentire nel quale siamo coinvolti. Ovvero: la capacità di sentire, nella contingenza della Lichtung, l'indicibile orizzonte consensuale e comunitario del comprendere. La condizione trascendentale -- etica ed estetica, insieme -- che rende possibile ogni proposizione, ogni forma, ogni figura.

Antigone

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E’ la protagonista che dà il nome alla tragedia. Entra in scena per prima, in un drammatico dialogo con la sorella Ismene. E’ forte e sicura di sè e sembra quasi che le sciagure che si sono abbattute sulla sua famiglia si siano state linfa per la sua fierezza. Sente tutta l’ingiustizia contenuta nel decreto di Creonte che impedisce la sepoltura del fratello Polinice, perchè traditore della sua patria, Tebe. Ma il suo legame di sangue e di sventura con il fratello è più forte della legge umana di Creonte. Vorrebbe che la sorella si mostrasse “nobile” e non “figlia degenere di nobili genitori” (35).

Antione è tutta pervasa dalla fierezza di compiere la cosa giusta: “cara a lui che mi è caro giacerò, per un santo crimine” (67). Da notare l’ossimoro, impiegato per indicare che Antigone ha violato una legge umana per osservare una norma divina.

Si mostra delusa dalla sorella e la tratta con sdegno: “cerca pure dei pretesti” (80), “metti in salvo il tuo destino” (84), “tanto più mi sarai odiosa con il tuo silenzio, se non lo proclamerai davanti a tutti” (87).

Ritroviamo poi Antigone, che è stata nel frattempo scoperta a ricoprire di terra il corpo di Polinice, quando viene affrontata da Creonte. Sostiene ancora con forza e con fierezza le sue motivazioni: “gli dei non hanno sancito per gli uomini queste leggi (quelle di Creonte, che impedivano la sepoltura)” (448 – 460). Sfida Creonte, dicendogli che i Tebani lo temono e che solo per questo motivo non osano ribellarsi alla sua legge, che pure ritengono ingiusta, e mostrare di apprezzare il gesto di Antigone (502).

A Creonte che la rimprovera di tributare ai giusti (cioè Eteocle) gli stessi onori dei criminali (cioè Polinice) Antigone risponde: “chi può dire se tra i morti questa legge è santa?” (523) e “io sono fatta per condividere l’amore, non l’odio” (527).

Segue un confronto serrato con la sorella impaurita, Ismene, ma Antigone la rifiuta come corresponsabile e le dice: “non ti appropriare di ciò che non hai neppure sfiorato. La mia morte basterà”. E poco dopo aggiunge: “tu hai scelto di vivere, io di morire” (544 e 555).

Antigone ricompare poi sulla scena ormai prigioniera, attorniata dai servi di Creonte. All’avvicinarsi della morte è sempre più fiera, ma un po’ meno sicura di sè, perchè rimpiange quanto non potrà mai più avere: il matrimonio con Emone, figlio di Creonte (807–815). Si paragona a Niobe, che venne tramutata in pietra, perchè sa che verrà sepolta viva in una grotta (821).

Si rivolge dunque ai Tebani, chiamandoli a testimoni che una legge “inaudita” l’attende e le sue spoglie rimarranno “illacrimate” (845–855): “ma infelice, non fra i vivi, non fra i morti accolta sarò” (850–855).

Nei versi seguenti (846 e segg.) troviamo forse per la prima volta l’Antigone più umanamente colpita dal destino che sta per travolgerla, lo stesso destino che ha annientato la sua famiglia, ed ella piange la sua sorte, definendosi “disgraziata”, “maledetta” ed affermando “senza amici, senza compianto, senza imenei a questo viaggio imminente infelice sono tratta”.

Antigone sembra ora quasi abbandonarsi al suo tristissimo destino e perdere tutta la sua fierezza, quando (892 e segg.) si rivolge alla sua tomba dicendo che in quel momento la sua unica consolazione (e speranza) è che il suo arrivo fra i morti rallegrerà il padre, la madre ed il fratello. Tuttavia Antigone ritrova tutto l’orgoglio perduto quando (905) afferma, parlando idealmente al fratello Polinice, che “fu giusto l’onore che ti resi, almeno agli occhi di chi ha la mente retta”.

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Il legame fraterno è per Antigone insostituibile, perchè, dice, essendo morti padre e madre, nessun fratello ella potrà mai più avere.

Ormai al termine della sua presenza in vita (917), Antigone si chiede ancora: “ho forse violato la legge divina?”, ribadendo la sua certezza di aver obbedito alla legge più importante per gli uomini; e ancora: “a chi domanderò aiuto, se per la mia pietà mi sono guadagnata il nome di empia?” (920).

Le ultime parole di Antigone sono quasi un grido, forte e deciso, che ribadisce tutto il suo carattere inflessibile: “o Tebe, città dei miei padri, o dei aviti, mi trascinano via e più non posso tardare. Guardate, o principi tebani, quale sopruso, e da quali uomini, subisco, io, dei vostri re ultima figlia, solo perchè onorai la pietà” (937–940).

Singolare è il fatto che Antigone concentri tutta la propria attenzione sul fratello traditore Polinice, che giace insepolto, e non sparga una lacrima od una parola di compianto anche sul fratello “buono”, Eteocle: ella forse intimamente piange entrambi, ma tutto il suo gesto di sfida si basa sul sovvertimento della legge umana di Creonte, a favore della legge divina non scritta.

Di Antigone la più bella descrizione nella tragedia è quella che di lei fa la guardia: “scorgemmo la ragazza, che emetteva gemiti acuti, come un uccello desolato, che trovi il suo nido vuoto, predato dei pulcini. Così anch’ella quando vide il cadavere messo a nudo scoppiò in lacrime, scagliando imprecazioni contro gli autori di tale sacrilegio” (420).