sistema bancario e finanziario nella questione settentrionale

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Laboratori Territoriali - CNEL, 1997

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LABORATORI TERRITORIALI

Ul

Sistema bancario e finanziario nella Questione Settentrionale

CNELRoma, 1997

Con la presente pubblicazione prosegue la Serie dei volumi "verdi" della Collana Laboratori Territoriali. * La Serie verde - rende atto dell'azione territoriale nell'Italia settentrionale svolta dal CNEL (soprattutto dalla Giunta per il territorio). Le altre pubblicazioni della Collana Laboratori Territoriali si distinguono nella: * Serie azzurra - strumento di diffusione del lavoro della Consulta e del Gruppo di Lavoro per il Mezzogiorno del CNEL; * Serie blu - espressione del programma di lavoro per il Centro Italia svolto dalla Giunta per il territorio; * Serie grigia - d conto del lavoro del CNEL (curato in particolare dal Gruppo di lavoro Ambiente-Montagna) quale contributo alla valutazione e scelta delle linee strategiche per una economia eco-sostenibile; * Serie rossa - (Quaderno OPT) - segue le attivit dell'Osservatorio sulle politiche territoriali (Ministero dei Lavori Pubblici - CNEL) per le strategie di pianificazione e gestione del territorio. Il CNEL cura, inoltre, le collane: Documenti Cnel, Percorsi, Strumenti, Valutazioni e indicazioni.

INDICE

Premessa

pag.

5

Capitolo Primo - FARE BANCA E IMPRESA NEL CAPITALISMO COALIZIONALE pag.LA COALIZIONE DI FINANZA LA COALIZIONE DI FILIERA LA POLIARCHIA " " "

914 21 25

Capitolo Secondo - BANCHE E IMPRESEIL MODELLO DI BANCA VOTATA ALL'ACCOMPAGNAMENTO DELLE IMPRESE LE STRATEGIE DI RITERRITORIALIZZAZIONE FUNZIONALE FARE BANCA AL NORD E FARE BANCA AL SUD

pag. 3352

IL MODELLO DI BANCA COMMERCIALE ORIENTATA AL CLIENTE . . . "

" " "

60 81 86 93

IL PROBLEMA DELLE DIMENSIONI ADEGUATE PER COMPETERE . . . "

Le banche universali Le banche regionali a riproduzione di modello Le banche di territorio e di distretto Le banche d'affariBANCHE E IMPRESE: ALCUNE CONSIDERAZIONI DI SINTESI

" " " ""

97 105 117 130152

3

Capitolo Terzo - BANCHE E TERRITORIIL PRESIDIO FUNZIONALE IL LOCALISMO MUTUALISTICO IL LOCALISMO METODOLOGICO LA SFIDA SUPERIORE LA BANCA VIRTUALE BANCHE E TERRITORI: ALCUNE CONSIDERAZIONI DI SINTESI .... LE FONDAZIONI BANCARIE

pag. 155" " " " " " " 187 195 212 222 237 242 246

Capitolo Quarto - BANCHE E NUOVE PROFESSIONALIT ... pag. 267

Capitolo Quinto - SCENARIO E NODI CRITICIL'EUROPA LE SOFFERENZE E IL ROE LE DIFFICOLT NELL'ACCOMPAGNAMENTO AL FARE IMPRESA .. IL SISTEMA FISCALE LE BANCHE E LA BORSA IL COSTO DEL LAVORO E GLI ESUBERI IL RAPPORTO TRA BANCHE E ASSICURAZIONI I NUOVI MERCATI E I NUOVI PRODOTTI

pag. 279" " " " " " " " 282 291 301 309 312 319 328 349

/ TESTIMONI PRIVILEGIATI CITATI NEL TESTO

pag.355

ALLEGATO - Composizione del Gruppo di lavoro che ha realizzato il rapporto di ricerca

pag.365

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Premessa Il CNEL ritiene che uno dei nodi cruciali dello sviluppo delle regioni del Nord Italia sia rappresentato dal sistema bancario. L'indagine qui pubblicata il risultato di un percorso di lavoro e di ricerca sui nodi strategici della "Questione Settentrionale" che, dopo aver analizzato i problemi della competizione e leadership, ' i cambiamenti nel sistema della rappresentanza degli interessi2 e il ruolo delle autonomie locali e funzionali,3 ha affrontato i problemi che attengono al complesso rapporto che il sistema finanziario instaura con il territorio e il tessuto delle imprese. In effetti, parlare di "complesso rapporto", in questo caso, non rappresenta una rituale concessione alla retorica della "complessit". Molto di pi: significa affrontare i nodi problematici per molti versi irrisolti, che riguardano il ruolo di un attore strategico dello sviluppo dell'economia e della societ - il sistema bancario per l'appunto che con la sua azione pervade l'intera economia. Problemi che attengono al ridisegno delle funzioni di finanziamento, all'attivit degli operatori economici, ma anche alla capacit di approntare un sistema pi efficiente e sofisticato di sostegno, all'insegna della diversificazione in base alla necessit della personalizzazione del servizio, dell'integrazione funzionale, dell'accompagnamento degli operatori in tutte le fasi della loro attivit.1. CNEL, Competizione e leadership nella questione settentrionale, Laboratori Territoriali CNEL, Roma, 1996. 2. CNEL, La rappresentanza nella questione settentrionale, Laboratori Territoriali CNEL, Roma, 1966. 3. CNEL, Autonomie locali e funzionali nella questione settentrionale, Laboratori Territoriali CNEL, Roma, 1997.

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Per questo insieme di aspetti, la scommessa ancora aperta. N potrebbe essere diversamente, considerata la portata delle sfide che l'intero sistema-paese si trova ad affrontare nel contesto dell'economia globalizzata. Tuttavia, il sistema bancario, dato il ruolo cruciale che esso gioca nelle dinamiche competitive, non pu essere semplicisticamente visto come "problema fra i problemi". Lo impedisce il suo ruolo di protagonista, nel bene e nel male, nel promuovere le opportunit di sviluppo; il suo connotarsi come soggetto capace, se lo vuole, di precostituire le condizioni per l'azione degli altri soggetti: le connessioni che instaura con i processi decisionali della sfera pubblica e degli attori privati; la sua capacit di porsi come attore forte delle dinamiche di coesione sociale. Per questo sono stati intervistati. 85 intermediari bancari, 9 intermediari finanziari, 7 assicurazioni, 5 Fondazioni, 11 rappresentanze del lavoro del sistema bancario e 13 esperti, territorialmente localizzati soprattutto in Piemonte, in Lombardia, nel Triveneto e in Emilia, con alcune verifiche effettuate in Liguria, in Toscana, nelle Marche, in Umbria e a Roma, ove sono insediate alcune funzioni strategiche di rappresentanza del sistema bancario. Inoltre, il 3 luglio 1997, nella sede del Credito Agrario Bresciano, si tenuta la Convention "// sistema bancario nel Nord del Paese: territorio e impresa" in cui sono stati illustrati i primi risultati dell'indagine e sono stati discussi con gli operatori del settore del credito, con il mondo imprenditoriale, con le forze sociali e gli amministratori locali i problemi che attengono al complesso rapporto che il sistema bancario e finanziario instaura con il territorio e il tessuto produttivo locale. Il testo qui pubblicato il rapporto finale della ricerca che tiene conto sia delle 130 interviste realizzate che di quanto emerso nel corso del dibattito alla Convention di Brescia. Emerge un racconto basato su due nodi critici: il rapporto tra il sistema bancario e il sistema delle imprese, e il rapporto tra la banca e il territorio. Da questi nodi discendono alcune riflessioni sul ruolo che devono avere le Fondazioni bancarie, sia rispetto allo sviluppo locale che ai sistemi territoriali e un ulteriore punto che rimanda alla dimensione del come si lavora e di come si sta ristrutturando il lavoro all'interno del sistema bancario. 6

Il coordinamento delle diverse attivit del CNEL sul territorio affidato ad una apposita Giunta presieduta dal Vice Presidente del CNEL, Silvano VERONESE e composta dai Consiglieri Luigi COCILOVO, Andrea GIANFAGNA, Pietro GNISCI, Cesare SACCHI, Ivano SPALANZANI e Aldo TARTAGLINI. Il lavoro di ricerca sul sistema bancario stato coordinato dal Vice Presidente del CNEL Giuseppe CAPO.***

Il Rapporto di ricerca stato realizzato dal Consorzio AASTER di Milano, con un apposito Gruppo di lavoro diretto da Aldo BONOMI, la cui composizione viene riportata in allegato.***

// volume stato curato dalla segreteria tecnica dell' Ufficio di Presidenza del CNEL.

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Capitolo Primo FARE BANCA E IMPRESA NEL CAPITALISMO COALIZIONALE

Nel lavoro di inchiesta si cercato di individuare come il rapporto di simbiosi e di empatia tra il fare banca e fare impresa e tra la banca e il territorio sia sottoposto, nell'attuale transizione a discontinuit e a rotture e diviene un rapporto difficile. Questo processo va a nostro parere inserito nella tendenza attuale, che fa emergere il capitalismo coalizionale. La cultura e la pratica del fare coalizione appare oggi come la tendenza obbligata in una fase di accelerazione della globalizzazione dei mercati e della competizione economica. Fare coalizione costituisce una necessaria modalit di risposta alle sfide dell'integrazione dei mercati, alla contestualit delle strategie competitive, alla complessit dei rapporti di clientela, al prorompente tasso di innovazione delle nuove tecnologie dell'informazione, ai nuovi modi di lavorare comunicando e fare impresa cooperando e confliggendo tra sistemi di imprese e di territorio. Oggi, non ci troviamo pi di fronte ad una competizione giocata tra singole imprese, ma tra "sistemi a rete" organizzati in forma variabile e flessibile. La competizione globale si "territorializza," giocandosi sempre pi tra sistemi territoriali locali - citt, distretti, regioni - cio, tra imprese e territori locali organizzati a rete, capaci di interconnettersi e di stare nelle "reti lunghe" della logistica, della distribuzione, dei saperi, della ricerca, del trading, e della finanza internazionale. In questi ultimi anni, l'onda dello sviluppo che ha impetuosamente investito molte aree territoriali del Nord d'Italia ha avuto il pregio di valorizzare la flessibilit, la creativit e l'adattabilit delle piccole e medie imprese nel contesto della conquista di mercati mondiali. Ma, d'ora 11

in poi appare sempre pi necessario ragionare sul fatto che "piccolo bello" solo se entra in rete. Occorre passare dal policentrismo vitalistico che ha consentito la crescita rapida, ad un policentrismo organizzato, messo in rete, con adeguate sinergie tra impresa e impresa di una stessa filiera tecnologica, tra campanile e campanile di uno stesso bacino produttivo, tra distretto e distretto, con una nuova programmazione nell'uso delle risorse e un nuovo rapporto pubblico-privato. La nuova condizione della competizione diventa, infatti, la diversa capacit dei sistemi territoriali locali di combinare e organizzare le opportunit economiche, le risorse e gli attori per acquisire un posizionamento pi vantaggioso nei processi di accumulazione e di riorganizzazione territoriale che si dispiegano su scala sovranazionale. L'internazionalizzazione di alcune imprese prima e la globalizzazione di interi settori di attivit economica poi, hanno reso inarrestabile l'integrazione dei mercati anche nei settori tradizionali, dove la domanda locale presenta peculiarit e barriere naturali, e reso strategicamente necessarie le privatizzazioni delle imprese protette da monopoli legislativi. L'integrazione dei mercati geografici, gi ampia, tende inoltre ad essere accentuata dalle nuove opportunit offerte dal commercio elettronico. La coalizione fra imprese e settori una volta distinti e di paesi una volta separati, alla ricerca di reciproche sinergie e mercati di sbocco comuni, diventa una indispensabile modalit competitiva per accelerare la penetrazione di mercato con nuovi prodotti e servizi e per controllare le "nuove vie" di comunicazione e di commercio telematico. Le strategie di diversificazione hanno fallito i loro obiettivi, come apparso con chiarezza durante la fase recessiva, salvo la possibilit di offrire, ove le attivit diversificate fossero state ben gestite o posizionate in segmenti attrattivi, le riserve patrimoniali per gli investimenti destinanti al ricentraggio nel core business o allo sviluppo delle core competences. La coalizione tra imprese consente di conservare ci che la singola impresa diversificata costretta a perdere in termini di portafoglio di attivit "cicliche" e "anticicliche", pur con le cautele con le quali questi concetti possono ancora essere usati, come dimostra la difficolt competitiva delle marche rispetto all'offensiva dei prodotti di marca commerciale o offerti dagli hard discount. 12

Le nuove forme organizzative piatte e leggere che si diffondono, rispondono al nuovo contesto di specializzazione flessibile che si impone. La stessa dimensione media delle imprese si adatta alla dimensione dei mercati geografici serviti, sulla base della specializzazione e della integrazione verticale od orizzontale di business fortemente collegati. Talora, la dimensione media si riduce, in altri casi produce pi forti fenomeni di acquisizioni e di fusioni mai registrati, come nella nascente industria dell'infotainment. Comunque, si afferma un quadro mutante di coalizioni multiappartenenti che consentono un gioco strategico aperto su molti piani. E' cambiato il ruolo delle tecnologie dell'informazione. Le nuove tecnologie sono anche diverse perch "abilitano" l'innovazione di prodotto e il ridisegno di processi, di strutture e meccanismi organizzativi, imponendo nuovi rapporti tra il top management e i responsabili funzionali e rendendo possibili nuove forme di lavoro collaborativo una volta impensabili. Le coalizioni complementari in una logica di business, che richiedono forti legami di partenariato, sono rese pi efficaci dalle tecnologie abilitanti che riconfigurano gli assetti organizzativi e di gestione delle imprese. Nel territorio settentrionale, la necessit di fare coalizione, di fare tessuto, di costruire reti per competere nell'economia globale accompagnata dalla crescita di una tipologia di attori locali che possiedono competenze, relazioni e capacit per interconnettere il locale con il globale, per stare nelle "reti lunghe" della logistica, della distribuzione, del trading internazionale, della ricerca applicativa, della finanza, etc. Nelle pagine seguenti analizziamo brevemente alcune delle principali forme di capitalismo coalizionale esistenti oggi al Nord: la coalizione di finanza tra grande impresa e grande finanza; la coalizione di filiera; la poliarchia o coalizione di pi attori su base territoriale.

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LA COALIZIONE DI FINANZA

Una possibile risposta alla spinta della competizione la formazione di coalizioni finanziarie che rappresentano una modalit di ripartizione del rischio fra pi attori. I capitali personali sono sufficienti nella fase iniziale di sviluppo dell'impresa, ove il controllo della stessa assoluto. Poi, il controllo, con l'avvento delle nuove generazioni, si trasforma in controllo familiare, anche attraverso la moltiplicazione di interposte persone giuridiche. La ulteriore crescita di solito avviene con l'ingresso di nuovi azionisti, le banche, mentre i fondatori riducono il proprio impegno finanziario, trasferendo al patrimonio familiare o ad altre iniziative il capital gain acquisito. La competizione internazionale per essere sostenuta richiede una congrua ripartizione del rischio dell'investimento che in altri capitalismi nazionali resa possibile da un forte mercato dei capitali che consente riallocazioni proprietarie e cessione di controlli di imprese, senza disperdere il capitale umano accumulato, ad un azionariato dominato da investitori istituzionali. Mancando in Italia un forte mercato dei capitali,4 sono emerse invece forme di capitalismo coalizionale di finanza che hanno dato origine a forme di4. Questa assenza stata spiegata in tanti modi. C' chi la considera il risultato di "un sistema banco-centrico: alla banca quasi tutto affluisce e dalla banca quasi tutto defluisce" (Angelo Caloia); gli intermediari di capitali in Italia sono stati storicamente rappresentati dal sistema bancario e solo in seconda battuta da una piccola frangia di intermediari indipendenti: in questa situazione il sistema bancario ha incentivato il prestito in denaro piuttosto che lo sviluppo delle attivit finanziarie: // sistema finanziario italiano sempre slato bancocentrico, appoggiato sulle banche, le banche guadagnavano perch i lassi erano alti, essendo i tassi alti loro monopolizzavano i

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controllo formalizzato da patti di sindacato di gestione o semplicemente di voto. Una forma particolare di tale controllo quello a nocciolo finanziario quando istituzioni finanziarie specializzate diventano il fulcro dell'assetto proprietario o in forza del capitale o per deleghe ricevute. In tale situazione si vengono di fatto a trovare le banche che hanno convertito in azioni parte dei crediti inesigibili di gruppi in crisi.

flussi finanziari: a quel punto l non avevano neanche stimoli, guadagnavano molto facendo la loro attivit tradizionale di erogazione del credito (Jody Vender). C' chi la considera il risultato anche del profilo del risparmiatore italiano della sua cultura del risparmio: "si fatica ad assumere il rischio come variabile strutturale del mercato dei capitali" (Gianmario Roveraro). Infine, c' chi la considera come la conseguenza dell'altissima intermediazione pubblica e del "meccanismo diabolico e perverso" che per tanto tempo ha caratterizzato il rapporto banca-politica-cittadino: "Per tanti anni il primo grande problema per gli imprenditori italiani stato il costo del denaro e la disponibilit di capitale. Il denaro costato troppo soprattutto rispetto a quello che lo pagava un concorrente di altri paesi, quasi il doppio. Il capitale di rischio, in altri paesi lo si trovava perch i gruppi finanziari, se non le stesse banche, facevano convergere il risparmio verso l'impresa. In Italia, gran parte del capitale rischio non c'era perch era attirato da un'alta remunerazione dei titoli pubblici. ... Credo che tutto questo sia stato una conseguenza del meccanismo diabolico e perverso che contraddistingueva il rapporto banca-politica-cittadino. La banca era pubblica, di regola guidata da un boiardo nominato da un politico che aveva tutto l'interesse a far si che il boiardo gli mandasse i denari che aveva raccolto tra i risparmiatori per pagare gli interessi dei BOT attraverso i quali, alla fine, riusciva a remunerare i risparmiatori in modo corretto. Il risparmiatore, a sua volta, continuava a risparmiare perch non pagava i servizi pubblici come avrebbe dovuto, perch il politico per prendere i voti gli offriva questi servizi a condizioni estremamente vantaggiose. E' stato questo rapporto a tre, di naturale convergenza di interessi, quello che ha fatto si che "alla fine" il cittadino avesse il 10-12%, ma in certi momenti anche oltre il 15%, di interesse dai suoi risparmi, pur non pagando i servizi pubblici (treno, universit, etc.) quanto li avrebbe dovuti pagare. Chi dirigeva la banca dormiva fra due guanciali perch mandava tutti i quattrini a Roma, assolveva questa funzione, gli interessi erano quelli che erano, non li metteva in un'azienda e non si poneva l'interrogativo se li aveva investiti bene o male. ... Solo recentemente questo anello, tragicamente punitivo per le attivit produttive, stato spezzato, grazie alle politiche di rigore finanziario implementate per poter rispettare i parametri di Maastricht. Dobbiamo comunque ancora riuscire ad equilibrare il rapporto tra stato e cittadino, e quindi a destinare parte delle risorse agli investimenti produttivi, anzich colmare il deficit di gestione che lo stato deve affrontare per remunerare chi gli presta il denaro." Cfr. anche Marcello de Cecco e Giovanni Ferri, Le banche d'affari in Italia, Il Mulino, Bologna, 1996; Salvatore Bragantini, Capitalismo all'italiana. Come i furbi comandano con i soldi degli ingenui, Baldini & Castoldi, Milano, 1996; Fabrizio Barca, a cura di, Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Donzelli Editore, Roma, 1997.

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Pi coalizioni finanziarie, variamente interconnesse tra loro, danno vita a quello che Sergio Meacci chiama "capitalismo coalizionale di finanza" e che, nella realt del sistema economico italiano, si identificato fino ad oggi solo con il "sistema Mediobanca", il "sistema delle Grandi Famiglie" o la cosiddetta "Galassia del Nord".5 Ma, il rafforzamento attraverso alleanze azionarie, quantunque non possa impedire la dissoluzione di patti di sindacato resisi inutili di fronte ad insostenibili livelli di rischio, non pu essere valutato riduttivamente come una spinta al blocco di potere. Il capitalismo coalizionale di finanza, infatti, un fenomeno complesso in grado di fornire soluzioni per molteplici esigenze. Si tratta di: una modalit di ripartizione del rischio; una modalit di gestione del controllo di una impresa o di un sistema di imprese con il minimo impiego di capitale proprio; una modalit di gestione della diversificazione sia settoriale che geografico-territoriale; una modalit di acquisizione di un certo grado di protezione rispetto alla competizione, perch consente a chi ne fa parte di godere di appoggi politici ed istituzionali, oltre che economico-finanziari:Il capitalismo coalizionale una modalit di ripartizione del rischio. Se io, con il 3% del capitale necessario controllo un'azienda del valore di 300 miliardi che sta in un gruppo all'ottavo livello, se quell'azienda dovesse andare male e dovesse fare un aumento di 100 miliardi di capitale, io con 3 miliardi continuo a mantenere il controllo. Se poi, per avventura questa azienda di ottavo livello fosse una assicurazione, e questa avesse il 2% del capitale di una mia sub-holding importante, evidente che ho il 2% dei voti in pi, se sono nel consiglio di amministrazione di questa sub-holding importante.

5. Su Mediobanca, "Galassia del Nord" ed Enrico Cuccia esiste ormai una sterminata letteratura di tipo giornalistica. Tra le opere migliori e pi complete si segnalano: Stefano Cingolani, Le grandi famiglie del capitalismo italiano, Laterza, Roma-Bari, 1990; Napoleone Colajanni, Il capitalismo senza capitale, la storia di Mediobanca, Sperling & Kupfer, Milano, 1991; Giancarlo Galli, Il padrone dei padroni. Enrico Cuccia, il potere di Mediobanca e il capitalismo italiano, Garzanti, Milano 1996; Fabio Tamburini, Un siciliano a Milano, Longanesi, Milano, 1992.

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Dunque il capitalismo coalizionale il modo di gestire il controllo con il minimo di capitale, per avere il massimo di beneficio qualora, grazie a quel controllo, ho pi voti, controllo pi capitale azionario, senza una esposizione diretta dell'azienda su cui faccio il massimo di profitto. E' anche possibile perch posso vendere e comprare in condizioni di tempo avverso. E' quello che si indica con il termine di diversificazione ben gestita. Solo pochi se lo possono permettere, perch la maggior parte delle diversificazioni sono mal gestite e i fallimenti, le crisi recenti sono tutte di aziende che hanno pensato di proteggersi con la diversificazione, ma che, essendo mal gestite, si sono invece rovinate. Bisogna avere forze manageriali e capitali. Pochi riescono a diversificare con successo. La maggior parte deve vivere nella nicchia focalizzata (Sergio Meacci).

La coalizione di finanza pu consolidare gruppi di imprese e nuove famiglie di imprenditori, ma quando la leva azionaria diventa troppo lunga e la competizione innovativa in singoli anelli della catena, diventa troppo forte il rischio che un anello si rompa e che, di conseguenza, l'intera catena si spezzi. Garantire il controllo con il minimo di capitale necessario conferisce l'illusione di poter accelerare il processo di accumulazione, ma se il fabbisogno di capitale diventa rilevante in aggiunta a perdite cumulate, la riallocazione della priorit e del controllo diventano forzosi e la coalizione finanziaria che aveva accompagnato la costruzione del gruppo piramidale si dissolve per fare posto ad altre, a condizione che il radicamento di mercato sia frutto di forti specializzazioni che rispondono ai bisogni della clientela e che sia elevato il livello di fidelizzazione raggiunto. Esaminando il sistema delle imprese che si confronta con la pratica del capitalismo coalizionale di finanza, appare una piramide tronca al cui vertice, dopo la crisi dei gruppi Ferruzzi-Montedison e De Benedetti-Olivetti, vi ormai un solo grande gruppo - Agnelli-Ifi - che controlla la sola grande impresa italiana mondializzata: la Fiat, con le sue strategie di produzione della world car e con la sua coalizione tra grandi imprese e grande finanza, il sistema Mediobanca, per ci che riguarda il sistema bancario e finanziario nazionale e la Lazard e la Deutsche Bank per ci che riguarda le strategie di internazionalizzazione.66. La struttura dell'industria italiana profondamente diversa da quella di altri Paesi a capitalismo avanzato, perch l'unica che non ha (o non ha pi) imprese di grandi dimensioni. La prima impresa italiana nella classifica mondiale della rivista americana Fortune la Fiat, che occupa il 32 posto, e tra le prime 500 se ne trovano solo altre tre italiane (Iri, Eni, Compart), se ci limitiamo a quelle industriali. La Svizzera ne schiera 5, l'Inghilterra 16, la Francia 20, la Germania 27, per non parlare degli USA e del Giappone (Cfr. Carlo Mario Guerci, Piccole imprese frenate nella crescita, Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 1998, pag. 5).

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Secondo Meacci, la maggioranza dei competitori, che non vive di relazioni coalizionali finanziarie, oggi sempre pi spinta dal dinamismo e dal livello della competizione a dover cercare di formare, o quantomeno ad entrare a far parte di coalizioni: La maggioranza dei competitori di questa terra, indubbiamente vede l'evoluzione in corso come un'evoluzione in cui le maglie in qual che modo si stringono. Uso termini non miei: la societ diventa pi densa e chi si trova in competizione si pone la domanda: continuo nella mia nicchia indipendentemente da o cerco anche io qualche relazione, qualche aggancio, qualche sponda, in quale coalizione mi infilo? Faccio parte anche io di una rete coalizionale? In fondo si protetti. Questo mi sembra un aspetto. Oppure, come poteva essere 10 anni fa quando questo problema non si poneva, vado tranquillo. Oggi, secondo me, ci sono delle domande in pi, a seguito di una necessaria e inevitabile diffusione del meccanismo di un capitalismo coalizionale, che ha delle ragioni anche di stabilit. ... Il capitalismo coalizionale rappresenta un profilo di rischio pi equilibrato per chi dentro. Fare parte di un sistema di capitalismo coalizionale di finanza, secondo Meacci, ha anche dei risvolti importanti sul piano della competizione, perch consente a chi "nel giro" di godere di appoggi politici, oltre che economico-finanziari: L'impresa, che fa parte di questo tipo di capitalismo, normalmente una impresa che compete sui mercati internazionali, grazie in questo caso anche a degli appoggi politici. Quando si presenta all'ambasciata in un certo paese, mi diceva un funzionario dell'Ice: "viene da me questo signore dei cammei e pretende anche che io gli organizzi degli incontri, ma cosa vuole da me? Io tratto altre cose, non cammei!" Il poveretto invece vende cammei, e quindi bussa invano, perch non nessuno. Cos capita anche alle imprese del Nord: se non nessuno bussa invano. Secondo Meacci, rispetto alle sfide della competizione internazionale, importante affermare il valore della coalizione, ma non solo di una coalizione a rete pi lunga, anche quella di una coalizione a rete a maglia pi larga che favorisca la diffusione dei saperi contigui in una filiera industriale, facendo entrare altri soggetti portatori di saperi complementari: Se siamo costretti a stare in nicchia a volte pu anche essere perch mercati pi grandi non sono consentiti perch sono gi occupati da qualcuno che non se ne vuole andare, nonostante sia poco innovativo o poco efficiente. Quindi, spesso si

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pone un problema di "occupazione politica" di un territorio come condizione preliminare per poter fare un gioco chenon sia di nicchia. Questo mi sembra un aspetto che non pu essere sottovalutato, altrimenti facciamo un ragionamento che pu avere delle valenze positive, ma che pu essere riduttivo nei confronti anche di alcune ansie e di alcuni atteggiamenti di resistenza e di acredine che possono esistere, e ci sono. Occorre tener presente che ci sono anche delle coalizioni che non sono positive. Non sono positive, per esempio, le gare preassegnate. Non sono positive le coalizioni formate dai gruppi piramidali con una forte leva azionaria. Non sono coalizioni positive i Kombinat bancari-imprenditoriali tedeschi. Secondo me non sono coalizioni positive quelle coalizioni come i cartelli che hanno come solo scopo quello di conservare un potere di mercato e di proteggere dei mercati, e nelle quali l'imprenditore innovativo non pu entrare ed quindi costretto a fare nicchia. Vi sono poi delle coalizioni che sono indispensabili: quelle improntate su un rapporto di partnernariato strategico tra banca di riferimento e impresa; quelle tra imprese e gli enti locali; quelle che consentono di costruire le cerniere di transito; quelle che consentono di mettere assieme dei saperi e dei know-how. Serve, a mio parere, riconsiderare alcune regole, e quindi bisogna certamente dire no a quelle regole che restringono, ma s a tutte quelle regole che favoriscono l'allargamento delle maglie. Perch le maglie, in questo periodo, si stanno restringendo, piuttosto che allargando. C' s coalizione, ma la coalizione che non vorremmo, cio c' la coalizione di chi stringe le maglie. Quindi, servono nuove regole che aprano i mercati, servono legislazioni sulla trasparenza e sull'antitrust. Oggi, si parla di un possibile ridimensionamento del ruolo di Mediobanca e le poche Grandi Famiglie e grandi imprese che sono rimaste intorno ad essa sono diventate delle holdings multinazionali in grado ormai anche di rivolgersi ad intermediari bancari internazionali: Ho imparato molto da Mediobanca e ne ho ammirato la seriet e la capacit. Mediobanca nacque come istituto a medio termine delle tre BIN. Disprezzava TIRI (che era il suo padrone) in quanto simbolo dello statalismo romano: ma, godette di un lucroso monopolio nel collocamento delle obbligazioni dell'IRI e dello Stato. Fu il patrono autorevole del grande capitalismo familiare, da Firenze in su. Al monopolio sul collocamento delle" obbligazioni aggiunse in tempi successivi un quasi monopolio nei collocamenti azionari. E gest questa posizione monopolista con spregiudicata durezza, premiando gli amici e punendo chi non collaborava. La sua fu una funzione di banca d'affari al servizio sostanzialmente del grande capitalismo familiare. Ad operazioni brillanti, se ne alternarono altre guidate da una visione puramente finanziaria (e non industriale), ad altre ancora che solo il nostro imperfetto ordinamento poteva tollerare. Oggi, Mediobanca al centro del sistema finanziario settentrionale, possedendo pacchetti azionari significativi delle stesse imprese che da qualche anno sono diventate i suoi azionisti di riferimento; avendo acquisito il controllo anche formale di Comit e, in parte, di Credrt-fche prima erano i suoi padroni); conservando

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il controllo sostanziale delle Generali. Non credo, peraltro, che il ruolo futuro di Mediobanca potr pi essere quello di un tempo. E ci sia perch cambiano le persone e le situazioni, sia perch il sistema delle grandi imprese al quale Mediobanca ancora pi di prima integrata, ha ormai una redditivit modesta vuoi nei confronti delle similari e concorrenti imprese, sia perch ci sono ormai sul mercato altre strutture italiane ed estere che si confrontano sullo stesso terreno, sia, infine, perch i nostri ordinamenti vanno europeizzandosi. Mediobanca resta comunque una grande realt che sar probabilmente protagonista di capitoli importanti della ristrutturazione del sistema bancario ed assicurativo italiano, ma non mi sembra abbia giocato (n possa giocare) un ruolo di rilievo nell'assistere quella mirade di piccole imprese locali che hanno avuto successo, sono diventate medie o grosse, e soprattutto vogliono e debbono andare in giro per il mondo. In altre parole, una istituzione per pochi intimi e non per il mercato (Giorgio Cigliana). Il quasi-monopolio di Mediobanca nell'investment banking stato aggredito negli ultimi anni dalle grandi banche d'affari anglosassoni.7 Ma, tuttora continua a rimanere scoperto tutto il mondo sconfinato di piccole e medie imprese che si deve confrontare con un sistema bancario che purtroppo molto spesso non ha delle competenze specifiche nel merchant banking, nell'accompagnamento finanziario e nell'internazionalizzazione.

7. Un'indagine conoscitiva dell'Antitrust sui servizi di finanza aziendale avviata nel luglio 1995 ha recentemente concluso che Mediobanca esercita una posizione dominante.

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LA COALIZIONE DI FILIERA

Vi sono imprese, invece, che privilegiano come strategia per competere, un crescente grado di focalizzazione nel core business e la parallela individuazione di nicchie nel mercato mondiale, abbastanza grandi per consentire il profittevole ritorno degli investimenti e l'ottimizzazione nell'utilizzo delle risorse produttive e finanziarie, ma abbastanza piccole per non essere costrette ad una produzione mondiale. La coalizione fra le imprese di una medesima filiera consente di conservare un'ampiezza di raggio d'azione e una presenza estesa che la focalizzazione aziendale, invece, tende a comprimere. In questo caso, la coalizione tra medie imprese, e tra medie imprese e piccole imprese, e medie imprese e banche, banche regionali o locali, permette di controllare i mercati geografici, serviti sulla base della specializzazione e dell'integrazione verticale o orizzontale di prodotti fortemente correlati. Le coalizioni di filiera costituiscono un chiaro esempio di percorsi di rafforzamento dei saperi che si diffondono e fortificano tutti gli appartenenti alla filiera, da quelli che ne hanno costituito il cuore storico ai nuovi entranti che beneficiano della massa critica gi raggiunta e concorrono a mantenere elevato il tasso di innovazione. Eventuali crisi di alcuni soggetti pi facilmente vengono assorbite da altri appartenenti alla stessa coalizione e l'intero processo di riallocazione proprietaria ne beneficia. Il sapere si consolida e l'influenza intellettuale internazionale si accentua. I settori portanti delle esportazioni italiane sono la prova di quanto possa essere vitale anche l'attivit spesso troppo frettolosamente 21

dichiarata tradizionale, e profondamente errato l'obbligato sinonimo di debolezza che le viene attribuito. Le coalizioni di filiera sono anche quelle dove pi equilibrato il partenariato di fatto fra medie imprese leader e i loro fornitori costituiti da piccole imprese e da imprese artigiane. E' soprattutto la media impresa innovativa che tende ad assumersi l'impegno e ad avere la capacit di realizzare un rapporto di partenariato e di integrazione con il proprio indotto, superando cos il rapporto di mera contrattazione sul prezzo, tipico del rapporto committente-subfornitore. L'aspirazione quella di "far crescere" altre imprese aiutandole sempre pi a qualificarsi e a strutturarsi. L'impresa subfornitrice deve assolutamente rispettare il prezzo stabilito per essere competitiva, ma la sua capacit fondamentale altro non se non l'abilit e la capacit di riuscire a stabilire con l'impresa committente una pi complessa forma di collaborazione che implica anche la necessit di assumersi la responsabilit nella progettazione e nel design congiunto dei prodotti. Allo stesso tempo, per, occorre segnalare come il processo di esternalizzazione della produzione e dei servizi pu assumere spesso anche una caratterizzazione negativa, soprattutto quando l'interesse di chi esternalizza finalizzato alla ricerca di un abbattimento dei propri costi, spostandoli all'esterno, invece di una sinergia per migliorare la qualit del prodotto e del processo. In questo contesto, il processo di esternalizzazione, oltre a favorire una diffusione di imprenditorialit regolare, sta facendo crescere anche il fenomeno dell'abusivismo imprenditoriale e tende a favorire l'instaurazione di un rapporto di "sfruttamento" tra artigianato, piccola impresa e medio-grande industria operanti all'interno della stessa filiera produttiva. Risulta spesso molto difficile per gli artigiani e le piccole imprese distinguere fra una collaborazione sincera e un tentativo disperato di scaricare i costi. Vi , quindi, una tensione, un potenziale forte di conflittualit che spesso inibisce la formazione di coalizioni stabili fra. diversi attori imprenditoriali di una stessa filiera. Proprio per cercare di superare questi aspetti negativi, la Federtessile studia il certificato di qualit di filiera, facendo leva sull'integrit della "catena" italiana, unica al mondo nonostante il crescente ricorso alle delocalizzazioni delle produzioni pi semplici in Paesi a basso co22

sto della manodopera.8 L'obiettivo quello di certificare le procedure dei rapporti contrattuali di fornitura da un minimo di due "anelli" della catena ad un massimo di copertura totale, cio dalla fibra alla distribuzione. Si tratta di dare una vera e propria spinta al prodotto made in Italy - anche se in teoria non escluso l'ottenimento dell' imprimatur sulle lavorazioni oltreconfine controllate direttamente - che sta affrontando le difficili sfide della globalizzazione: il progressivo smantellamento dell'Accordo Multifibre, a pieno regime dal 2005, liberalizzer, infatti, completamente gli scambi commerciali del settore. Gi ora, alle prese con guerre commerciali al limite del paradosso (come stato per l'etichetta made in China imposta dagli Usa ai foulard di seta italiani se il tessuto grezzo proveniva dalla Repubblica Popolare, questione ora in via di risoluzione) e concorrenza sleale di chi produce a bassissimo costo senza, per, rispettare i diritti dei lavoratori e dell'ambiente. Spiega Paolo Barzaghi, presidente della Federtessile: Una certificazione che risponda ai criteri prescritti dalle norme Uni Eni Iso serie 9000 potrebbe fornire al sistema assoluta trasparenza e certezza sotto tre diversi profili: presenterebbe al consumatore l'intero programma del flusso produttivo da monte a valle, segnalando le aziende che ne fanno parte e che operano rispettando regole codificate; conferirebbe alle aziende maggiore forza di penetrazione nel mercato, in quanto consentirebbe di presentarsi come imprese verticalizzate quale somma di ragioni sociali distinte; e, infine, assicurerebbe alla filiera, e quindi al sistema Italia, una politica definita di investimenti mirati, sia in un'ottica culturale e sociale, sia come garanzia sui mercati nazionale ed internazionale. Un altro interessante esempio del processo di costruzione di una coalizione di filiera rappresentato dal fatto che durante la missione a Pechino organizzata dal Ministero del Commercio Estero e dall'Ice, battezzata "Italia in Cina" (25 novembre-2 dicembre 1997), il sistema moda italiano abbia debuttato a livello internazionale con un mega-evento promozionale nel quale stata presentata l'eccellenza della filiera

8. Ricordiamo che la filiera italiana del tessile-abbigliamento pu contare su 70 mila imprese con esportazioni per 44.705 miliardi nel '96 (+2,5%) e un surplus nell'interscambio di 27.475 (+8,3%), con una quota del 12% del valore aggiunto realizzato dall'industria manifatturiera nazionale. Cfr. Bottelli Paola, // tessile punta sulla qualit e vara la filiera certificata. Il Sole 24 Ore, 24 settembre 1997, pag. 16.

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nazionale del settore.9 Una filiera che nella Repubblica Popolare alla ricerca di alleanze, joint ventures, delocalizzazioni, sperando in una deregulation del complicato mercato locale, in attesa che Pechino aderisca la Wto. Cos sotto l'ombrello della Federtessile si sono presentate nella Repubblica Popolare le sei associazioni federate (Cotoniera-liniera, Laniera, Moda Industria, Nobilitazione, Serica, Tessilvari), l'Assofibre, la Camera nazionale della moda e gli otto enti fieristici specializzati (Efima, Emi, Filo, Ideabiella, Ideacomo, Pitti Immagine, Prato Trade e Sitex), oltre all'Associazione calzaturifici (Anci) con il Micam-Moda calzatura. Spiega Giuliano Coppini, vicepresidente Federtessile con delega alle promozioni: E' la prima volta in assoluto che riusciamo a presentarci tutti insieme ad un evento che, pur non avendo un obiettivo strettamente commerciale, ci consente di rappresentare tutti gli anelli della catena nei quali siamo specialisti.

9. Cfr. Bottelli Paola, E la "filiera" bussa a Pechino a caccia di alleali e joint venture, Il Sole 24 Ore, 19 novembre 1997, pag. 13.

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LA POLIARCHIA

Simultaneit e tempestivit nell'essere concorrenziali sul costo di un prodotto e nello stesso tempo in grado di differenziare costantemente il prodotto sono il mutamento di un'economia che si basava, per vincere, su una sola di queste variabili: o il costo del prodotto o il nuovo prodotto. Oggi, nella mondializzazione, nel capitalismo coalizionale, entrambi i fattori sono contestuali e pregnanti. Da qui, l'urgenza di una ulteriore strategia coalizionale, quella che realizza una poliarchia, un gioco di squadra tra tutte le risorse di cui un territorio dispone, tra le imprese e i luoghi di produzione della finanza, della finanza locale, delle infrastrutture, degli enti locali, delle rappresentanze degli interessi, dei saperi, delle universit e dei centri di ricerca. In particolare, la coalizione dei saperi fra imprese, universit, centri di ricerca diventata una condizione per consentire simultaneit e tempestivit al gioco di squadra che non riguarda il solo team aziendale, ma si estende ai molti attori della coalizione. Questo tipo di processo delinea la nascita di coalizioni non solo fra imprese, ma anche di coalizioni territoriali, tra sistemi territoriali per competere. In questo scenario, si rivelano deboli ed entrano in crisi le coalizioni di distretto, cio le forme pi note che hanno innervato il sistema produttivo, soprattutto nel Nord del Paese. Queste forme di coalizione, tra piccole e medie imprese possono declinare di importanza e propulsione di fronte a una competizione globale, dove nuovi soggetti presentano vantaggi di costo del lavoro esponenzialmente favorevoli e progressivi innalzamenti dei livelli qualitativi della loro offerta. Pi che25

privilegiare il localismo come risorsa competitiva, occorre una visione non localistica del distretto, che sappia farlo diventare un solido anello nella filiera pi ampia che, attraverso coalizioni di territorio, coalizioni finanziarie, realizzi una catena di "reti lunghe". Il capitalismo coalizionale rappresenta una fase inevitabile di crescita alla fine di un lungo ciclo economico, mentre un nuovo comincia a manifestarsi, ove sempre pi coalizioni tra territori e imprese, tra imprese e banche, sono indispensabili per fronteggiare una competizione di intensit senza precedenti nella storia. Se il sistema delle imprese appare come una piramide tronca al cui vertice c' praticamente la sola Fiat, lo spazio intermedio attualmente occupato da medie imprese consolidate ed organizzate in rete10, con un fatturato tra i 200 e i 3.000 miliardi di lire, tradizionalmente l'anello debole del sistema imprenditoriale italiano stretto tra le logiche dei grandi gruppi pubblici e privati e del "piccolo bello". E' nel contesto dell'affermazione della specializzazione flessibile come nuovo paradigma organizzativo del processo produttivo che queste medie imprese sono diventate ormai degli attori forti su cui puntare." Sotto la spinta della competizione, le medie imprese dimostrano grandi capacit nella ricerca continua di flessibilit e di specializzazione produttiva, con l'imperativo di

10. E' tuttora aperta la discussione sulla fissazione dei parametri che definiscono la media impresa. Secondo l'Unione Europea, la media impresa quella con una occupazione compresa tra 50 e 250 addetti, un fatturato da 7 a 40 milioni di ecu (cio, un massimo di neppure 80 miliardi di lire) e un patrimonio netto di 27 milioni di ecu (52 miliardi di lire). Questa sembra essere una dimensione che appartiene, in genere, ancora alla piccola impresa che, invece, secondo la UE, quella davvero minuscola (meno di 50 addetti e 7 milioni di ecu di fatturato). Secondo Eurostat, "media" l'azienda che occupa da 100 a 500 addetti e in Italia sono 6.865, danno lavoro a oltre 1.3 milioni di persone e hanno fatturato l'anno scorso pi di 550.000 miliardi di lire. Quasi tutti gli studiosi di problemi industriali ritengono inadeguato anche questo parametro. Per il Primo Rapporto noi abbiamo considerato come criterio di base per definire la "media" impresa una classe di fatturato che va dai 200 ai 3.000 miliardi riferito ad una impresa che riuscita a costruire una struttura organizzativa completa, che ha conquistato una quota rappresentativa del proprio mercato di riferimento, che ha messo in atto autonomi processi di innovazione. 11. Lo sviluppo industriale decentrato un fenomeno relativamente recente che ha interessato le regioni del Nord e del Centro Italia negli ultimi decenni, a partire dagli anni '60 e '70, basato su alcuni aspetti strutturali ed evolutivi comuni alle varie aree:

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ridurre il time-to-market e di rispondere con modalit puntuali e diversificate allerichiestee alle segmentazioni dei mercati. Sono degli attori che competono nella mondializzazione, aggrediscono e difendono segmenti e nicchie di mercato, pi che porsi il problema di essere prime nella gara per la worid production, ma che, al tempo stesso, sono in grado di fare filiera lunga di territorio, soprattutto nelle aree pi vitali e dinamiche del Nord-Est.

un reticolo di citt medie e piccole con forti tradizioni amministrative locali e radicate attivit commerciali, artigianali e professionali; la prevalenza di un'agricoltura formata da piccole aziende familiari a conduzione diretta, mezzadrile e affittuaria; uno spontaneo e graduale passaggio dall'attivit agrcola a quella industriale nel momento in cui i progressi nei mezzi di trasporto e di comunicazione consentono di agganciare l'economia locale all'espansione della domanda estera ed interna, e da quanto risulta conveniente adottare strutture aziendali flessibili per evitare gli oneri e le conflittualit collegati alle grandi dimensioni; la formazione delle tipologie sociali ed economiche dei distretti industriali di tipo marshalliano nei quali la scomponibilit dei processi produttivi in fasi pi semplici ha permesso un alto grado di flessibilit globale, capacit innovativa, circolazione e diffusione di informazioni e di risorse. Cfr. Anastasia B e G. Coro, I distretti industriali in Veneto, Portogruaro, Ediciclo, 1993; Anastasia B e G. Coro, Evoluzione di un'economia regionale; Il Nordest dopo il successo, Portogruaro, Ediciclo, 1996; Antonelli C, R. Cappellin, G. Garofoli e R. Jannaccone Pazzi, Le politiche di sviluppo locale; Nuove imprese, innovazioni e servizi alla produzione per uno sviluppo endogeno, Milano Angeli, 1988; Bagnasco A., La costruzione sociale del mercato, Bologna, Il Mulino, 1989; Bamford J., The development of small firms, the traditional family and agrarian patterns in Italy, in R. Gaffee e R. Scase a cura di, Enterpreneurship in Europe, London, Croom Helm, 1987, pp. 12-24; Becattini G., a cura di, Mercato e forze locali: il distretto industriale, Bologna, Il Mulino, 1987; Becattini G., a cura di, Modelli locali di sviluppo, Bologna, Il Mulino, 1989; Blim M., Made in Italy; Small-scale industriaiization and its consequences, New York, Praeger, 1990; Brusco S., Piccole imprese e distretti industriali, Torino, Rosenberg & Sellier, 1989; Brusco S. e S. Paba, Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli anni novanta, in F. Barca, a cura di, Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Milano, Donzelli, 1997, pp. 265-333; Fu G. e C. Zacchia, a cura di, Industrializzazione senza fratture, Bologna, Il Mulino, 1983; Nuti F., I distretti dell'industria manifatturiera in Italia, Milano, Angeli, 1992; Piore M.J. e C.F. Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale: produzione di massa e produzione flessibile, Torino, Isedi, 1987; Pyke F., G. Becattini e W. Sengenberger, a cura di, Distretti industriali e cooperazione fra imprese in Italia, Firenze, Banca Toscana, 1991; Rullani E., Divisione del lavoro e reti di impresa: il governo della complessit, in F. Belussi, a cura di, Nuovi modelli d'impresa, gerarchie organizzative e imprese a rete, Milano, Angeli, 1992; Saba A., Il modello italiano; Distretti industriali e specializzazione flessibile, Milano, Angeli, 1995.

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Con il mercato interno che non sembra pi garantire il raggiungimento di volumi minimi sufficienti a sostenere gli investimenti necessari per realizzare un significativo sviluppo e un accettabile ritorno, la media impresa dimostra una grande capacit di competere su mercati di nicchia, ma mondiali, anche attraverso l'internazionalizzazione e la delocalizzazione produttiva.12 Essa si trasforma in una "multinazionale tascabile" con presidi locali, in un attore in grado, cio, di stringere accordi produttivi o tecnologici con aziende di altri paesi, o di impiantare nuove attivit per proprio conto sulla base dei vantaggi comparati offerti dai vari paesi e regioni del mercato globale. La media impresa opera sulla base di una specializzazione produttiva di nicchia sempre pi precisa e focalizzata. Complessivamente, per, le nicchie disponibili sono tante e le posizioni acquisite da molte medie imprese sono di assoluta leadership mondiale o regionale. Stiamo attraversando la fase di un "capitalismo difficile",13 con strategie da "multinazionali tascabili", che sfruttano tutte le opportunit, dalla svalutazione competitiva alla delocalizzazione produttiva, sino a fare capitalismo coalizionale per acquisire altre imprese per la ricerca e l'innovazione. In questo agire prevale una filosofia: pi che vincere nella competizione importante consolidarsi per sopravvivere. E' una strategia da "guerra corsara", efficace al punto da renderci invisi ai partners europei, come ha evidenziato la difficile trattativa per il rientro della lira nello SME.

12. Le imprese stanno passando in massa da quella che stata definita una logica esclusiva di export senza internazionalizzazione ad un modello di sviluppo basato su processi di delocalizzazione del ciclo produttivo. Il Traffico di Perfezionamento Passivo (dato dall'esportazione temporanea di prodotti che vengono sottoposti a lavorazione parziale all'estero per essere successivamente reimportati) in costante crescita, come pure aumentano \ejoinl veniures, le collaborazioni e gli investimenti diretti di imprese italiane attraverso partecipazioni spesso di maggioranza al capitale di imprese quasi sempre manifatturiere e operanti in settori produttivi tradizionali, che si caratterizzano per l'alta intensit di lavoro e che necessitano, quindi, di bassi costi di manodopera. L'imprenditore, quindi, ha sempre pi bisogno di aiuto nella definizione di strategie aziendali di prospettiva internazionale (dove investire? in Polonia o piuttosto in Ungheria? chi gestisce i fondi? per progetti internazionali? quali procedure vanno attivate?). 13. Cfr. Deaglio Mario, a cura di, Il capitalismo difficile; Le tendenze, le regole, le imprese; Primo rapporto sull'economia globale e l'Italia, Centro di Ricerca e Documentazione "Luigi Einaudi" e Vitale Borghesi & C, Torino-Milano, 1996.

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La forza di questo sistema sta in un capitalismo molecolare, dato dal rapporto tra le medie imprese consolidate con il tessuto molecolare, fatto di piccole imprese e pulviscolo artigiano. Attorno alle medie imprese, infatti, ruota il complesso ed articolato mondo della subfornitura delle piccole imprese e del lavoro artigiano funzionale e dell'esternalizzazione del ciclo della consulenza fatta di micro-imprese che producono saperi e servizi necessari a produrre per competere. Sul piano della organizzazione produttiva, la grande esternalizzazione e l'agire da fabbrica diffusa sul territorio significano che il prodotto finito viene sempre pi "costruito" da produttori (almeno formalmente) indipendenti che collaborano. Il modello organizzativo di decentramento produttivo, di outsourcing (ricorso a fornitori esterni), e di downsizing (di riduzione esasperata delle dimensioni produttive interne) viene applicato in tutti i settori produttivi, sia in quelli "maturi" che in quelli pi innovativi e dinamici. Per molte aziende leader, l'enfasi fondamentale si ormai spostata dall'attivit manifatturiera gestita in modo diretto alla ricerca, alVengineering, alla gestione della logistica dei flussi di materie prime, semilavorati, e merci finali prodotte da sub-fornitori specializzati, e al marketing finale dei prodotti. La pratica della esternalizzazione, non identificandosi pi la capacit produttiva con lo specifico campo di attivit di un'impresa, fa cadere i confini societari delle aziende e rende, attraverso il collegamento a rete con altre imprese, il modello espandibile senza vincoli predeterminati. L'impresa, infatti, a monte e a valle, pu operare con efficacia acquistando servizi produttivi e collaborando con le imprese contraenti. A seguito di questo processo di reticolarizzazione, l'impresa pu comporsi e decomporsi con facilit, mentre l'organizzazione che resta stabile, anche se evolve nel tempo, si sposta a livello super-imprenditoriale. A tale proposito, nel Primo Rapporto c' il racconto emblematico di Claudio Buziol che descrive la sua azienda di abbigliamento informale, la Fashion Box, come una vera e propria "azienda virtuale".14

14. CNEL, Competizione e leadership nella questione settentrionale, Laboratori Territoriali CNEL, Roma, 1996: 201-203.

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L'attuale morfologia produttiva del Nord appare sempre pi caratterizzata da un notevole grado di polverizzazione imprenditoriale. La media impresa, che quella largamente egemone, tende a non crescere in quantit, ma tende piuttosto a moltiplicarsi in flessibilit e nelle attivit produttive. Il capitalismo molecolare caratterizzato da un tessuto molto diffuso sul territorio e nella composizione sociale. Nel Nord vi sono 67,9 imprese per ogni 1.000 abitanti. La dimensione molecolare di 4,9 addetti per impresa. Di queste solo il 18,5% sono imprese manifatturiere e, sul totale di queste, il 13,7% sono imprese di servizi alle imprese.15 C' la tendenza, soprattutto presso le medie imprese, di tenere in produzione una frazione di dipendenti interni rispetto a quanti lavorano nell'indotto, mantenendo cos un alto grado di flessibilit, dato che in questo modo possono tenere bassi (o addirittura tagliare) i propri costi per i salari, gli stabilimenti, i beni strumentali, i magazzini e, al tempo stesso, consente loro di introdurre nuovi prodotti pi velocemente, a pi bassi costi e senza dover sacrificare le vendite nel caso in cui la domanda dovesse superare repentinamente l'offerta. Il risultato una grande diffusione delle subforniture ed un agire da fabbrica diffusa sul territorio, ove sono al lavoro una miriade di piccole imprese, di aziende artigiane e di lavoratori indipendenti. Nell'asse pedemontano che va dal Biellese fino a Pordenone, passando per il Bresciano, i confini tra lavoro dipendente, lavoro autonomo e piccole imprese sono ormai cos sottili da non essere quasi definibili. Basta pensare che in Veneto ci sono zone dove c' un'impresa ogni 10 abitanti, ovvero ogni 3 o 4 famiglie: una vera e propria "imprenditorialit di popolo." Si formata, insomma, una enorme classe media benestante di origine popolare, "una neo-borghesia industriale di massa", che rappresenta pi della met della societ settentrionale. Il sistema produttivo dell'Italia settentrionale si fonda, quindi, su costellazioni di piccole e medie imprese strategicamente e operativamenteflessibili, in gran parte propense all'innovazione e che in questi ultimi anni

15. Cfr. Aldo Bonomi, Il capitalismo molecolare; La societ al lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino, 1997; Censis, Distretti industriali e questione settentrionale, VI Forum Nazionale dei Localismi, Roma, 11 luglio 1996; Censis, Distretti industriali e sviluppo economico locale, VII Forum Nazionale dei Localismi, Roma, 12 dicembre 1997.

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sono riuscite a cogliere con grande prontezza l'opportunit offerta loro dalla ripresa dell'economia internazionale e (tra il 1992 e il 1995) dalla svalutazione della lira, anche ridosando gli ingredienti che ne qualificavano e ne qualificano il vantaggio competitivo. Le piccole imprese sono entrate nel circuito della esportazione dei prodotti, mentre un gruppo sempre pi consistente di medie imprese ha intrapreso con coraggio ed entusiasmo la strada dell'internazionalizzazione produttiva e commerciale.16

16. Il Censis nel 31 rapporto sulla situazione sociale del Paese, 1997 (Fondazione CensisAngeli, Roma, 1997, pp. 32-33) sottolinea l'importanza e la consistenza che ormai hanno assunto i micro comportamenti imprenditoriali di intemalizzazione: Tra i soggetti economici si assistilo, in questi ultimi anni, ad un aumento considerevole delle partecipazioni di imprese italiane al capitale di imprese estere, che ha visto - soprattutto negli ultimi anni - un protagonismo del tutto nuovo delle imprese di piccole e piccolissime dimensioni. Dai dati [disponibili si vede] come le imprese di produzione di piccole dimensioni (meno di 100 addetti) si stiano affermando sui mercati esteri non solo attraverso rapporti commerciali, ma anche con accordi pi strutturati, come l'acquisto di quote di maggioranza in imprese industriali. ... Alla sfida lanciata dai processi di globalizzazione dunque le imprese italiane, anche di piccole dimensioni, non rispondono ripiegandosi su se stesse e chiudendosi in nicchie protette, ma reagiscono rivolgendosi con sempre maggiore frequenza ai mercati esteri, o per instaurare accordi produttivi o anche pi semplicemente per accedere a nuovi mercati di sbocco. Su questo ultimo fronte le piccole imprese stanno infatti consolidando una capacit di accesso ai mercati stranieri decisamente elevata; si vede infatti che le imprese con un fatturato inferiore ai 10 miliardi di lire - che rappresentano oltre la met delle imprese esportatrici - nei primi 5 mesi del 1997 hanno esportato circa il 15% del valore globale delle esportazioni, confermando la capacit di presenza nei mercati esteri gi dimostrata negli anni passati. Se si alza la soglia dimensionale delle imprese considerate (con un fatturato fino a 50 miliardi di lire) si arriva a comprendere circa l'85% delle imprese esportatrici, per un valore di export del 38,9% del totale. Dopo l'ingresso dell'Italia nello SME, che si temeva potesse rallentare l'export soprattutto della piccola impresa, si conferma la capacit del tessuto imprenditoriale di piccole dimensioni di accedere a mercati esteri. La presenza della piccola impresa italiana all'estero dunque si rafforza, non solamente per quanto riguarda l'export, ma per la sua capacit nuova di partecipazione a compagini societarie, nel passato "riservala" alla grande dimensione. Un ulteriore indicatore preso in considerazione costituito dalle "migrazioni temporanee", vale a dire i dipendenti che lavorano temporaneamente all'estero per conto di imprese italiane. La crescita di questo fenomeno, seppure ancora marginale, rappresenta un indicatore significativo di due fattori: da una parte l'aumento della presenza delle imprese italiane all'estero (coerentemente con quanto detto sopra) e dall'altra l'emersione di un fenomeno che ha forte influenza sia direttamente sui soggetti coinvolti che sulle loro famiglie sia in termini culturali che esperienziali.

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Ma, questo processo ha mutato le tradizionali forme di coalizioni elementari tra imprese in rete nei distretti industriali specializzati in determinatefiliereproduttive. Mentre le relazioni che vengono intrattenute dagli operatori a livello locale rimangono sempre importanti, altrettanto importanti stanno diventando anche le relazioni che si hanno con il resto del mondo per la finanza, la vendita o l'acquisizione dei semilavorati o dei servizi specialistici. Inoltre, i distretti hanno perso molta della loro omogeneit interna, acquisendo delle fisionomie molto pi sfaccettate. Infatti, se ordiniamo le imprese dei distretti industriali, o dei sistemi produttivi localizzati, si ottiene sempre una piramide, che ha in cima una o poche imprese guida, i cosiddetti "gruppi" (che spesso non sono ancora strutturati in vere e proprie holding finanziarie, ma sono controllati da un solo imprenditore e da una sola famiglia), che sono impegnate a costruire delle "reti lunghe," conquistando spesso posizioni di leadership nazionale o addirittura internazionale nel proprio segmento competitivo e avviando anche processi di internazionalizzazione produttiva. Al di sotto di questo ristretto nucleo di imprese capofila c' un numero pi elevato di aziende, che potrebbero essere denominate di seconda schiera, ma che comunque sono riuscite a ritagliarsi una fetta di mercato internazionale e sono, in potenza, esse stesse leader. Infine, appare il tessuto pulviscolare, ma necessario, della nebulosa artigiana e della microimpresa al lavoro nel ciclo della subfornitura. Nella fase attuale ciascun distretto industriale interessato da una progressiva apertura all'esterno e contemporaneamente da processi di selezione e differenziazione all'interno. Dentro ciascuno strato piramidale permane una feroce competizione orizzontale, tra pari grado, che seleziona le aziende facendole retrocedere o promuovendole di livello. Si fa selezione tra chi in grado di partecipare al produrre per competere e chi invece, posizionandosi solo in settori maturi e tradizionali ed avendo come unica risorsa competitiva il costo del lavoro esce dal ciclo di fronte a strategie di delocalizzazione produttiva. Gli assetti territoriali, politici ed istituzionali che si sono storicamente sviluppati e consolidati in collegamento con la forma organizzativa dei distretti industriali tengono ancora, ma non bastano pi. Le famiglie allargate, il saper fare tradizionale, la fiducia comunitaria e gli altri ingredienti della fase della prima crescita dei distretti ora da soli non bastano pi e c' bisogno, per reggere sui mercati, di buone comunicazioni, di banche efficienti, di burocrazia snella, di formazione diffusa, di ricerca di base.32

Capitolo

Secondo

BANCHE E IMPRESE

Appare centrale il capire come il sistema bancario si colloca con capacit di accompagnamento e di coalizione rispetto alla piramide tronca che, a nostro parere, fotografa il sistema delle imprese nella competizione: poche grandi imprese mondializzate, tante medie imprese consolidate e iperattive, le medie imprese di seconda schiera e il pulviscolo diffuso del lavoro artigiano e della piccola e piccolissima impresa. Emerge una domanda di reti finanziarie adeguate non solo per supportare lo sforzo di produrre localmente, ma anche la tendenza del produrre per competere globalmente. Da qui, una domanda di reti finanziarie adeguate alla competizione commerciale che ha come riferimento l'economia mondo. Si richiedono interventi volti alla creazione di impresa, gli interventi di capital develoment, gli interventi di accompagnamento sul mercato dei capitali e di ristrutturazione finanziaria per la crescita. Cresce la domanda di coalizione tra impresa e banca di riferimento e fra banche locali ed internazionali considerata come la leva potenzialmente pi importante per favorire la formazione di "reti lunghe" che possono essere il motore per una espansione su mercati pi ampi e geograficamente estesi. E' in questo contesto che la banca appare come uno degli attori sotto stress, nell'attuale cambiamento di sistema. Dalle interviste con i competitori, effettuate nell'ambito del primo rapporto CNEL sulla Questione Settentrionale, infatti, la banca emersa come il vero soggetto debole del sistema: non ha ancora fatto il salto culturale ed organizzativo necessario per poter essere in grado di ac35

compagnare con efficacia ed efficienza gli attori della competizione nel processo di internazionalizzazione. Il sistema bancario, ancora in gran parte formato da imprese pubbliche, cresciuto con un profilo di efficienza molto basso rispetto alla media europea e con un ambito di operativit territoriale che fino a pochissimi anni fa non era sottoposto ad una scarsa pressione concorrenziale. Per molti aspetti, infatti, il sistema bancario stato per tanti anni una sorta di oligopolio protetto al servizio di una conduzione centralizzata non solo della finanza, ma anche dell'intera economia nazionale.17 Il sistema era in gran parte chiuso ad o-

17. Il sistema bancario italiano, prima della riforma presente (Legge Amato 218/90 e Nuova Legge Bancaria 385/93) era regolato dalla legge bancaria del 1936, un provvedimento che traeva origine dai dissesti delle grandi banche in quegli anni e che stabiliva il principio della separatezza tra banca e industria. La banca doveva avere azionisti diversi dalle imprese industriali e viceversa. Il sistema bancario venne fortemente indirizzato sul piano amministrativo, secondo un'impostazione coerente con il dirigismo del regime fascista (ma che stato mantenuto anche nel periodo successivo), ma soprattutto, proprio per prevenire i rschi del passato, fu tutto frazionato in comparti diversi, divisi per competenze territoriali, per specializzazioni temporali, per tipo di impieghi, e cos via. Il risultato era un sistema bancario fortemente protetto sul piano territoriale. La concorrenza tra i diversi soggetti era quasi nulla e, comunque, veniva regolata per via amministrativa (ad esempio, c'era complesso iter per l'apertura di nuovi sportelli). Inoltre, attraverso la regolamentazione amministrativa venivano perseguiti anche obiettivi di politica economica sia a livello nazionale che locale. Da un lato, infatti, il sistema bancario stato utilizzato fino all'inizio degli anni '80 come cinghia di trasmissione degli impulsi di politica monetaria tramite la fissazione dei massimali sugli impieghi, le manovre sui tassi, gli obblighi a diversificare il portafoglio in determinati modi, etc. A livello locale, invece, il sistema bancario stato utilizzato come organizzazione che forniva posti di lavoro e che selezionava le imprese a cui poteva essere concesso il credito. Da notare che le grandi banche nazionali (Credit, Comit, etc.) sono state messe nelle condizioni di non avere un proprio radicamento sul territorio, ma sono state indotte a specializzarsi in attivit diverse (finanza, estero, etc). Questo quadro cominciato a cambiare nel 1977 con l'emanazione della Prima Direttiva CEE sul Credito che in Italia fu recepita nel 1985 (D.L. 385/85), ben otto anni dopo. Il secondo atto stata l'adesione al Sistema Monetario Europeo che significava non solo vincolarsi a degli accordi di cambio e, quindi, a dei comportamenti di politica economica, ma anche aderire ad una filosofia che avrebbe portato necessariamente ad una liberalizzazione del mercato dei capitali (anche se solo dieci anni dopo nel 1989). Il terzo atto del cambiamento stato il divorzio tra Tesoro e Banca d'Italia nel 1981. Fino ad allora la Banca d'Italia era obbligata ad assorbire tutti i titoli del debito pubblico rimasti invenduti. L'autonomia della Banca d'Italia rispetto al Tesoro diventata definitiva con la legge sulla determinazione del tasso di sconto. Il Decreto Legislativo 385/95

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gni contatto con il resto del mondo ed stato caratterizzato da una strategia di supporto ad una via finanziaria allo sviluppo, garantita soprattutto dalle grandi banche di interesse pubblico e da una territorializzazione, normata per legge nel numero degli sportelli e nella perimetrazione del territorio, di una miriade di banche locali:18

introdusse parecchie novit per il sistema bancario tra cui, ad esempio, i requisiti di professionalit per gli amministratori di banca e soprattutto il principio che la banca non pi un soggetto che persegue finalit di pubblica utilit tramite la tutela del risparmio, ma un soggetto imprenditoriale come gli altri e che, quindi, persegue finalit aziendali di profitto. L'introduzione di questo principio venne a tagliare alla base le possibili motivazioni per un impiego del sistema bancario per scopi di politica economica. E' lungo questo percorso che maturano la Legge Amato e le pi recenti riforme del sistema. 18. Scarsa attenzione stata prestata da parte degli studiosi al rapporto tra credito e sviluppo dell'industrializzazione diffusa, presupponendo che la leva finanziaria delle piccole imprese operanti in industrie "leggere" facesse sostanzialmente perno sulla capacit di autofinanziamento sostenuta da periodi prolungati di crescita e di elevata competitivit dell'organizzazione flessibile (basso costo del lavoro, opportunit di evasione fiscale, et). A parte pochi studi seminali che avevano invece individuato nel ruolo svolto dalle banche locali uno dei fattori dello sviluppo delle economie periferiche nel dopoguerra (cfr. Cesarini F., Un'indagine empirica sulle casse rurali e artigiane, Contributi allo studio della cooperazione di credito, Milano, Giuffr, 1968, pp. 85-189; M , Note sugli sviluppi della strutturafinanziarianel dopoguerra, in M. de Cecco, Saggi di politica monetaria, Milano, Giuffr, 1967, pp. 35-89), solo pi di recente si riconosciutoil contributo del credito all'industrializzazione diffusa (Andreozzi P, P. Angelini, R. Di Salvo e G. Ferri, Piccole imprese e Credito Cooperativo: relazioni pi intense e stabili che con le altre banche? 1 risultati di un'indagine, Cooperazione di Credito, 152 [1996], pp. 353-401; Carminucci C , // sostegno del Credito Cooperativo allo sviluppo delle imprese: due casi di successo, Cooperazione di Credito, 152 [1996], pp. 443-472; Conti G. e G. Ferri, Banche locali e sviluppo economico, in F. Barca, (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Roma, Donzelli, 1997, pp. 429-65; Dei Ottati G., Tra mercato e comunit: aspetti concettuali e ricerche empiriche sul distretto industriale, Milano, Angeli, 1995; Ferri G. e R. Di Salvo, Credito cooperativo,finanziamentoalle piccole e medie imprese e sviluppo decentrato: valutazioni teoriche e primi riscontri empirici, Cooperazione di credito, 146 [1994], pp. 309-369;), sottolineando talvolta come il ruolo dei "finanzieri", svolto da banchieri locali o da figure imprenditoriali nei confronti della rete delle imprese subfornitrici, non fosse tanto ascrivibile a logiche strettamente "distrettuali" e reticolari dell'imprenditoria diffusa e delle estemalit informative, quanto a quelle dei mercati oligopolistici tout court, organizzati per mezzo della "mano visibile" dei finanziatori finali che impartivano precise linee di comando ad unit produttive formalmente indipendenti (Fanti L. e S. Pacini, Evoluzione di un'area sistema a carattere distrettuale: imprese e mercato del lavoro nell'area pratese, in F. Bortolotti, (a cura di), Il mosaico e il progetto; Lavoro, imprese, regolazione nei distretti industriali della Toscana, Milano, Angeli, 1994, pp. 299-332).

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C' un ritardo di competitivit del sistema finanziario italiano che riconosciuto un poi da tutti, dai vertici del sistema agli addetti ai lavori, ma la spiegazione del perch questo sia cos una storia molto lunga. Di fatto molto ha pesato la cultura della regolamentazione amministrativa che stata superata solo a partire dalla met degli anni '80, quando stato eliminato il massimale degli impieghi che era uno strumento amministrativo che impediva di fatto la concorrenza. Cio, in Italia siamo andati avanti in un sistema in cui la Banca d'Italia era regista, in cui lo sviluppo di ciascuna azienda bancaria aveva un ambito territoriale ben definito, gli sportelli si potevano aprire solo su piani nazionali ogni 3/4/5 anni. Fino al '90, anno della liberalizzazione degli sportelli, avevamo un grosso ritardo nell'apertura di reti di sportelli bancari che erano poi le uniche, dato che non c'era la banca virtuale. Avevamo un rapporto sportelli per abitanti tra i pi bassi d'Europa. Una banca non poteva decidere dove aprire le sue "fabbriche", i suoi sportelli; non poteva decidere quanto produrre perch la sua crescita di impieghi poteva aumentare solo di un tot all'anno attraverso la fissazione di un massimale degli impieghi. Inoltre, in Italia sono mancate le banche d'affari in conseguenza del tipo di specializzazione voluta dalla legge del '36. I legami fra banca e impresa vennero tagliati per evitare il ripetersi della crisi ben nota che ci fu dopo il 1929. Questo sistema, per, ha di fatto deresponsabilizzato la banca. Il credito speciale, il grande sviluppo degli anni '50 e '60, andato avanti per via finanziaria con le garanzie dello Stato, dove non c'erano queste, si chiedeva la garanzia reale. Quindi, investire nella conoscenza dell'impresa, superando le asimmetrie informative, non era necessario, perch una banca come la Commerciale faceva credito a breve termine, mentre le banche a medio termine avevano un sistema di credito erogato in visione di sviluppo economico con ampie garanzie statali a tutti i livelli, dal regionale al nazionale. L'Italia si trovata ad essere bancocentrica, con un sistema finanziario accentrato sulle banche e non sugli intermediari, un po' come la Germania, ma senza avere quei legami stretti fra banca e impresa che sono tipici di un mercato fondato sulle banche, sugli intermediari creditizi e non sull'efficienza dei mercati come quelli anglosassoni (Giovanni Parrillo). Queste due strategie hanno accompagnato sia la prima fase centralizzata dello sviluppo urbano industriale del capitalismo italiano, che la seconda fase di estensione territoriale, attraverso un processo che un banchiere veneto ha definito di "localismo metodologico" ed un altro di "localismo bancario": Le banche non godono di buona stampa circa la loro propensione al rischio, venendo spesso accusate di finanziare soltanto contro garanzie et similia; in altre parole, di avere sempre dato (o di dare) a chi ha! Anche non poche associazioni categoria si sono impegnate nell'avallare queste convinzioni. Ne siamo certi? Solo che si guardi alla miriade di imprese, capillarmente diffuse sul territorio veneto, alla loro dimensione media, alla provenienza sociologica degli imprenditori, all'origine settoriale degli stessi (per lo pi uomini di produzione, cio che "sanno lavo-

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rare", "sanno produrre", avevano "mani per ...") ed il tutto, con rapido flash back, lo si riferisca a qualche decennio fa, si capisce bene che, in tantissimi casi, le "banche locali" hanno fatto leva sulla voglia di intraprendere, sull'iniziativa di persone, sulla determinazione produttiva, sulla caparbiet di chi credeva in un progetto. E la storiellina dell'ombrello ha fatto il suo tempo! In altre parole, il "localismo bancario" si manifestato come prossimit a chi voleva intraprendere, vicinanza all'operatore, rapidit di decisioni e semplicit di procedure. Il risultato di questo rapporto, a mio avviso, sotto gli occhi di tutti; una distribuzione capillare di imprese che sono (io credo!) in un rapporto di causa ed effetto con il "localismo bancario", quasi una sorta di matematica corrispondenza biunivoca (Gino Dianin). Si trattato, insomma, di un localismo fatto di intreccio e di "osmosi" tra crescita ed espansione della fabbrica diffusa e banca territorializzata: La nostra banca cresciuta "in osmosi" con la crescita di tutto il sistema produttivo, al cui sviluppo essa certamente ha contribuito. La banca, che sorta 126 anni fa, ha dato sostegno a tantissime iniziative di carattere imprenditoriale, che erano soltanto in embrione, consentendo ad esse di diventare delle realt di prima grandezza anche in campo internazionale. Si verificata pertanto questa crescita in simbiosi: la banca cresciuta contribuendo allo sviluppo dell'economia che ha servito. Il rapporto con la clientela, che spesso viene definito "conflittuale," stato ed tuttora, per la nostra banca, un rapporto collaborativo, principalmente basato sulla conoscenza personale dell'imprenditore. Non pertanto vero che i finanziamenti vengano accordati solo in funzione dei livelli patrimoniali presentati. Al contrario, la loro concessione rapportata alle capacit e ai programmi dell'imprenditore. Questo il tipo di rapporto che oggi il mondo imprenditoriale auspica e io posso dire che nell'ambito del nostro istituto, proprio in funzione del profondo inserimento dell'istituto nel territorio, del collegamento diretto con l'imprenditoria, questo il tipo di rapporto che abbiamo intrattenuto ed intratteniamo con gli imprenditori. Il punto di forza del nostro istituto il profondo radicamento nel proprio territorio con una forte quota di mercato. Abbiamo una forte presenza soprattutto in Lombardia. Siamo partiti dalla provincia di Bergamo, poi ci siamo estesi alle province limitrofe come Milano, Brescia e Como, poi, attraverso l'incorporazione del Credito Varesino, abbiamo consolidato una fortissima presenza nell'area di Varese. Abbiamo esteso la nostra attivit a parecchie zone dell'Italia del Nord, in Veneto, in Emilia. Abbiamo acquisito la maggioranza della Banca Popolare di Ancona perch opera in una regione che, per quanto attiene il tessuto economico produttivo, presenta certe analogie con i territori del nostro radicamento tradizionale (Emilio Zanetti).

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A partire da meno di dieci anni fa, tutto cambiato. Liberalizzazione, concorrenza, efficienza sono diventati i cardini di una cultura che ha imposto alle banche di perseguire finalit nuove, e per molti aspetti opposte, con metodi e mezzi che non avevano mai potuto sperimentare. La natura istituzionale che ha distinto per mezzo secolo il sistema bancario si traduceva, infatti, in una rigida segmentazione per competenze e professionalit, in un orientamento alla stabilit e in una forte supervisione della Banca d'Italia. 19 Anzich di servire politiche dirigistiche imposte dal potere centrale, stato chiesto alle banche di essere imprese votate al profitto da conseguire in regime di concorrenza. In particolare, stato solo con la "Legge Amato/Carli" (n. 218/90) e poi con il Testo Unico D.Lgs 1/09/1993 n. 385, la cosiddetta "Nuova Legge Bancaria", che le banche italiane hanno avuto l'opportunit di adeguarsi ai progetti di dilatazione territoriale e di competizione internazionale ed stata liberalizzata l'apertura degli sportelli sul territorio e vi stato un adeguamento delle normative al quadro europeo, che ha dato alle banche possibilit di ampliare le proprie attivit, soprattutto offrendo alle imprese pi ampi e articolati servizi finanziari. Una rivoluzione che rimasta per ancora incompiuta.

19. II sistema bancario italiano stato caratterizzato da un pesante coinvolgimento del governo (che stato anche direttamente proprietario della maggioranza delle banche) e, specialmente fino alla recente liberalizzazione ispirata dell'Unione Europea, stato uno dei sistemi bancari pi regolamentati tra quelli dell'Ocse. La legge bancaria del 1936, varata all'indomani dello shock provocato al sistema bancario dalla crisi finanziaria verificatasi durante la Grande Crisi, era basata su due principi fondamentali: la separazione tra l'erogazione del credito a breve e quella del credito a medio e lungo termine; la supervisione e il controllo della Banca d'Italia sull'attivit bancaria. Come conseguenza, le aziende di credito potevano erogare solo credito a breve termine (normalmente al di sotto dei 18 mesi), mentre il credito a medio e lungo termine doveva essere erogato dagli istituti di credito speciale (Ics) che raccoglievano fondi attraverso l'emissione di titoli. La Banca d'Italia fu dotata di un ampio potere di controllo, che spaziava dalla vigilanza sull'attivit di prestito delle singole banche al potere discrezionale di autorizzare l'apertura di nuovi sportelli bancari, che effettivamente inibiva la concorrenza tra le banche. Essa nel dopoguerra non soltanto ha fatto ampiamente ricorso al potere di imporre alle banche la riserva obbligatoria, che stata costantemente pi elevata in Italia che negli altri-paesi europei, ma specialmente negli anni '70 e nei primi anni '80, ha imposto anche controlli diretti sul credito, come il vincolo di portafoglio ed i massimali all'espansione di determi-

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Oggi, si permette a tutte le banche di fare tutto, si incita il management all'efficienza e gli si additano obiettivi reddituali di livello europeo; peccato per che le professionalit e la cultura del mercato necessarie non si possano creare con altrettanta rapidit. Cos, le vecchie finalit sono cadute, ma non i relativi costi, ossia quelle diseconomie che, naturale e accettato risvolto dell'assetto oligopolistico, ora confliggono con il perseguimento dell'efficienza e della redditivit. Perci, al momento attuale il sistema bancario scarica i suoi alti costi su tutta l'economia italiana (le imprese, da una parte, e i risparmiatori, dall'altra) e rimane, quindi, inadeguato alle esigenze di un'economia in competizio-

nate categorie di impieghi bancari. E' opinione diffusa che la stretta regolamentazione imposta sul sistema bancario con la legge del 1936, pur avendo consentito una notevole stabilit dei mercati finanziari durante tutto il dopoguerra, abbia inibito la concorrenza tra gli intermediari a tal punto da compromettere l'efficienza dell'intero sistema. Mario Monti, ad esempio, ha criticato il sistema creditizio, attribuendo grandi responsabilit sia ai politici che alla banca d'Italia: Dall'Italia si sono trasferiti all'estero interi pezzi di mercato finanziario. Si verificato uno scenario che non era stato difficile prevedere fin dagli anni '80, in vista del mercato unico. Il sistema bancario italiano stato ingessato dai vincoli imposti per privilegiare il finanziamento del debito pubblico; e dal divieto alle imprese di acquistare il controllo delle banche. Si voluto a lungo un sistema bancario poco aperto verso l'esterno, prevalentemente pubblico, di conseguenza debole. La sanzione non avvenuta sottoforma di fuga dei capitali, ma di "esportazione dei mercati", a vantaggio di Londra e altre piazze finanziarie pi efficienti. In prospettiva potrebbe esserci il passaggio di grandi banche italiane sotto il controllo estero, forse anche una delocalizzazione complessiva: cio una divisione internazionale del lavoro in cui l'Italia non avr pi un ruolo nell' intermediazione finanziaria. Alla radice di questa situazione c' in gran parte la politica seguita fino a qualche anno fa dall'autorit monetaria, che ha privilegiato la stabilit del settore bancario anzich l'efficienza. Questa politica ha pesato quasi pi della propriet pubblica delle banche.... Dopo decenni di segno diverso, non ci si possono attendere, temo, risultati rapidi. Rimane il fatto che due tra le pi pesanti palle al piede dell'Italia nel cammino verso la moneta unica sono la finanza pubblica e le banche. E sono le due parti dell'economia italiana strutturalmente pi in rapporto con l'autorit monetaria. Per molto tempo la Banca d'Italia ha favorito il finanziamento del deficit pubblico, in una situazione in cui non era vincolata a perseguire solo la stabilit monetaria, e poneva vincoli che limitavano il credito al settore privalo. L'aver avuto anche il ruolo di vigilanza sul sistema bancario, e l'aver visto sempre le banche come il braccio secolare e cinghia di trasmissione degli obiettivi di politica economica, ha fatto prevalere la stabilit sulla concorrenza e l'efficienza (citato in Federico Rampini, "Banche, palla al piede dell'Italia", La Repubblica, 7 aprile 1997, pag. 19).

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ne. Per ora, la liberalizzazione del sistema, pi che avvicinare il sistema banca al sistema impresa, ha prodotto nei fatti sul territorio una fibrillazione delle banche stesse che, molto spesso ancora legate alle strategie del "localismo metodologico", allargano le reti corte territoriali accorpando altri istituti e sportelli, per non sono ancora pronte a supportare, con reti lunghe finanziarie il processo di produzione che, come abbiamo visto, va sempre pi dal locale al globale:I fattori di debolezza del sistema bancario sono legati a quella che stata l'esperienza storica del nostro mercato; quando uno opera in un mercato protetto e garantito non stimolato ad innovare. Da noi, ad esempio, il marketing bancario era del tutto inesistente perch la banca non sentiva il bisogno di andare a promuovere la clientela, si aspettava il cliente perch c'era un rapporto sostanzialmente di sudditanza. Si pu immaginare che tipo di rapporto si stabiliva tra banca e risparmiatore: la banca svolgeva un servizio essenzialmente di custodia del risparmio. Oggi, si parla di esuberi nelle banche, ma dal rapporto di Prometeia si coglie un dato storico interessante: quando venne permessa la liberalizzazione degli sportelli bancari, che era il preannuncio di un mercato competitivo, la risposta immediata del sistema bancario non stata quella di comprendere cosa significava aprirsi alla competizione internazionale ed al confronto con gli altri sistemi, ma di effettuare una scelta di tipo conservativo e, cio, di occupazione di tutti gli spazi esistenti. In questo modo, le banche hanno aperto 8.000 sportelli per un totale di 40.000 addetti, ma nel frattempo successo che la liberalizzazione diventata un fatto compiuto e le banche si sono trovate con 8.000 sportelli da chiudere e 40.000 persone da licenziare. Questo successo perch non si era colto il senso della liberalizzazione, le banche avevano ancora in testa il meccanismo di occupazione degli spazi e non quello di rendere efficiente la banca, di realizzare nuovi prodotti, di innovare, di investire in ricerca e sviluppo. Tant' che ancora oggi il 91% del bilancio di una banca italiana fatto sul credito e non sui servizi avanzati, mentre nelle banche di altri paesi questi due valori sono all'incirca alla pari. Questo significa, ad esempio, che dal punto di vista delle professionalit interne la liberalizzazione non ha sviluppato professionalit nuove. E questo lo si comprende bene se una persona si reca in banca per acquistare un prodotto derivato. In molte realt pochi sono in grado di risponde alla richiesta e questa la dice lunga sul perch ci sono 600 giovani italiani alla City di Londra in posizioni medio-alte che svolgono questi tipi di attivit. In Italia abbiamo un contratto di lavoro tra i pi costosi e tra i pi rigidi. Le promozioni avvengono per automatismi. Altro aspetto riguarda i grandi indebitamenti dei grandi gruppi industriali italiani che sono stati pagati dagli alti tassi a carico delle piccole imprese e dai bassi tassi a favore dei risparmiatori. Un sistema, dunque, che non seguiva criteri imprenditoriali, ma criteri in molti casi diversi e che ha vissuto in una pacifica e tranquilla condizione di onnipotenza. Tutto questo mondo, nel momento in cui si confronta con la dura legge del mercato e della competizione, sta entrando in crisi (Benito Boschetto).

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Anche un osservatore attento come Alberto Quadrio Curzio sottolinea che, seppure il cambiamento, la deregolamentazione iniziata nella seconda parte degli anni '80 e proseguita fino ad oggi, abbia indubbiamente prodotto degli effetti positivi, come l'aumento della concorrenza, non si ancora tradotto in un aumento di efficienza del sistema: La deregolamentazione ha prodotto un aumento di concorrenza. E questo mi sembra dimostrato da almeno due fatti: uno l'aumento dei punti di vendita, i cosiddetti sportelli che, tra il 1990 e il 1996, stato di 7.700. Ora, l'aumento degli sportelli ha inevitabilmente aumentato la concorrenza: pi sono i punti di vendita, se il mercato non si espande con la stessa rapidit, aumenta la concorrenza. L'altro indicatore di aumento di concorrenza che il calo dei tassi sui prestiti bancari ha seguito l'andamento del tasso di sconto, ma per molti versi stato anche, in qualche modo, autonomo. In Italia, i tassi bancari sui prestiti scendono da 17 mesi, mentre il tasso di sconto si mosso assai meno. E anche questo, secondo me, frutto di un aumento della concorrenza. Quindi, vedo due elementi di aumento di concorrenza. Uno l'espansione degli sportelli e l'altro un calo dei tassi che si muove anche indipendentemente dal calo del tasso di sconto. Naturalmente qui bisognerebbe mettere anche in evidenza il calo dell'inflazione e il conseguente calo dei tassi. Ad ogni modo, per, entrambi questi elementi hanno fatto emergere degli aspetti preoccupanti sulla solidit del sistema bancario stesso, preso nel suo insieme. E sono, da un lato, l'aumento delle sofferenze, che ha appesantito molti bilanci bancari - e c' da chiedersi se siano emerse tutte queste sofferenze. E l'altro aspetto costituito dai costi unitari di produzione nel settore bancario, che non sono scesi ancora abbastanza, soprattutto per un sovraccarico di personale. Quindi: l'aumento di concorrenza non si ancora tradotto in un aumento generalizzato di efficienza del sistema, anzi, per certi casi, ha incominciato a far scricchiolare alcune parti del sistema stesso. Nel nuovo contesto altamente competitivo, il rapporto banca-impresa deve cambiare: bisogna passare da un rapporto basato sulla "garanzia immobiliare" da una basato sulla "garanzia imprenditoriale", lina vera e propria rivoluzione culturale e comportamentale: Per quanto riguarda il rapporto tra la banca e le imprese, con il calo dei tassi di interesse e con il calo dell'inflazione, il sistema bancario italiano dovr cessare di essere erogatore di credito a breve termine, com'era accaduto in passato. Dovr spostare i propri finanziamenti sul medio e lungo termine, e quindi cambiare la tipologia del merito di credito che esso steso valuta. Finanziare a breve termine, in clima inflazionistico, significava avere garanzie patrimoniali, perch quelle erano le uniche che garantivano contro l'inflazione. Finanziare a tassi bassi, a bassa inflazione vuol dire valutare