sfide, rischi, opportunità del mondo...
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DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E RICERCA SOCIALE Via Bicocca degli Arcimboldi, 8 – 20126 Milano
Rapporto di ricerca
Sfide, rischi, opportunità del mondo flessibile. Uno studio sulla vita quotidiana dei giovani lavoratori
Gruppo di lavoro
Francesca Zajczyk (direzione scientifica)
Brunella Fiore, Francesco Memo
Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale
Università degli Studi di Milano Bicocca
Giugno 2006
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Indice
Prefazione
1. Introduzione
2. Gli atipici si raccontano: le diverse facce della flessibilità
2.1. Farsi esperienza ed esperienze
2.2. Aspettative di libertà e autonomia
2.3. Esiguità e discontinuità dei redditi
2.4. Aspettando il rinnovo dei contratti tra illusioni e aspettative mancate
2.5. La variabile tempo
2.6. Rivendicazioni e identità collettiva
3. Le conseguenze sulla vita delle persone
3.1. Demotivazione e “spappolamento” dell’identità professionale
3.2. Sfasamento tra tempi di lavoro e tempi di vita
3.3. La rinuncia al leisure, alla socialità e ai consumi culturali
4. La questione della progettualità
4.1. Uscire di casa e le difficoltà di accesso al credito
4.2. La famiglia di origine come unico punto di riferimento
4.3. La progettualità di coppia
5. Che fare? Esempi di azioni innovative a sostegno dei lavoratori atipici
5.1. Azioni promosse da attori pubblici istituzionali
5.2. Azioni promosse da attori privati
5.3. Azioni spontanee
6. Conclusioni.
Il paradosso del lavoro flessibile: chiede molto, restituisce poco
Nota metodologia
Bibliografia
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Cinquanta giovani lavoratori dell’area metropolitana milanese hanno affidato al Dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università degli studi di Milano Bicocca la testimonianza della loro vita da precari. Con lucidità e realismo, senza piangersi addosso. Dalle interviste, raccolte, elaborate e commentate dal gruppo di lavoro guidato da Francesca Zajczyk in questo rapporto commissionato dall’Osservatorio provinciale del mercato del lavoro, è emersa l’ulteriore conferma che a Milano il lavoro non manca. Ma è un lavoro che è difficile chiamare occupazione. E’ più appropriato dire che è diventato come una giostra sulla quale, oltretutto, si sale e si scende con crescente frequenza. Tre dati risultano, in particolare, eloquenti e crudi: sono quelli che l’Osservatorio ha evidenziato nella sua ultima relazione annuale intitolata “Il lavoro difficile”. Il 65 per cento delle persone che trovano lavoro nelle imprese milanesi è stato assunto nel 2005 con contratti a termine e solo il 35 per cento con contratti a tempo indeterminato, e si tratta di una forbice con tendenza ad allargarsi. La durata media dei contratti a termine è scesa da 91 giorni nel 2004 a 80 nel 2005. I contratti a termine non sono più una prerogativa dei giovani, ma stanno divenendo la norma anche per i lavoratori over 40. Questa esistenza da precari può non spaventare quando i giovani neodiplomati e neolaureati si affacciano al mondo del lavoro: la flessibilità è vista come opportunità per mettersi alla prova e crescere professionalmente. Ma con il passare degli anni si avverte in maniera preoccupante il peso delle poche tutele e delle scarse speranze di costruire un qualsivoglia progetto per il futuro che la flessibilità a oltranza impone. E non c’è neppure modo di consolarsi con una busta paga soddisfacente: lo stipendio netto, infatti, viaggia in media attorno ai mille euro mensili. Con una retribuzione così mortificante, anche la prospettiva di una vecchiaia economicamente serena svanisce: infatti, smettendo di lavorare a 65 anni con 40 anni di anzianità alle spalle, la pensione annua sarebbe inferiore a 5 mila euro. Milano, insomma, è sì in grado di generare lavoro, ma il lavoro non emancipa. Anzi, si sta determinando una sorta di ossimoro sociale: più lavoro, ma anche più povertà. Urge, allora, una vera e propria “rivoluzione culturale” delle politiche del lavoro per annullare l’equazione flessibilità uguale precarietà ed emarginazione sociale. E, di riflesso, occorre una profonda riorganizzazione dei servizi territoriali che coniughi, in un sistema a rete sotto regia pubblica, orientamento, formazione, incontro tra domanda e offerta così da stare al passo con un mercato in continua trasformazione. E per allineare la regione urbana milanese con gli obiettivi stabiliti dall’Unione europea sei anni fa a Lisbona, che fissano al 70 per cento il livello di occupazione della popolazione entro il 2010. La Provincia di Milano sta facendo la sua parte e giusto in questo periodo sta concretizzando il progetto, il primo in Italia, di un’Agenzia per il lavoro e la formazione che darà alla città di Milano servizi all’altezza delle attese dei lavoratori e delle imprese, come avviene nelle principali metropoli europee. La sua attività si focalizzerà sull’orientamento, sui percorsi di inserimento mirato, sulle azioni di incontro tra domanda e offerta, con una presenza capillare in tutto il territorio cittadino e un’attenzione speciale per le persone più deboli ed esposte ai cambiamenti del mercato del lavoro: i disabili, gli over 45, le donne e, appunto, i giovani. Agenzie simili sorgeranno, con il medesimo intento, negli altri Comuni dell’area metropolitana milanese con il medesimo intento di unire i servizi per l’impiego ai percorsi di formazione professionale che saranno sempre più necessari in un mercato del lavoro ad alta flessibilità.
Luigi Vimercati
Assessore allo sviluppo economico e innovazione, lavoro, attività economiche e
produttive, agricoltura, turismo, delega speciale per l’Alto Milanese
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INTRODUZIONE
Flessibilità è oggi un termine-chiave che indica, come puntualizza Dahrendorf
(1995:24), “l’allentamento dei vincoli che gravano sul mercato del lavoro: maggiore
facilità nell’assumere e nel licenziare, possibilità di aumentare e diminuire i salari,
espansione degli impieghi part-time e a termine, cambiamento più frequente di lavoro,
di azienda e di sede.” Flessibilità attiene ad una dimensione sia quantitativa – la
possibilità per l’impresa di variare il numero dei proprio occupati in base alle esigenze
del ciclo produttivo – sia qualitativa – relativamente alla variazione degli orari e delle
condizioni di lavoro ed alla connessione delle retribuzioni a criteri di produttività o
merito individuale (Gallino 2001).
In ambito sociologico cresce l’interesse alle difficoltà che gli individui affrontano nel
conciliare le aspettative di vita personale con le istanze dei nuovi sistemi del lavoro in
costante trasformazione, rilevando come i mutamenti nelle forme di lavoro e di
organizzazione dell’economia incidano sulle dinamiche dei cicli di vita, sui modelli di
formazione e organizzazione della vita individuale, di coppia e familiare; in una parola
sulla vita prima, dopo e oltre il lavoro (Sennett 1999; Beck 2000). Nel nostro paese,
nonostante si assista ad un crescente e diffuso dibattito intorno alla questione del lavoro
flessibile e dell’instabilità lavorativa, ancora pochi sono gli studi che si concentrano
sull’impatto delle nuove forme contrattuali sulle vite dei giovani lavoratori (in questa
direzione si vedano Fullin 2004; Sarchielli, Mandrioli, Vecchiato, Palmonari 2006).
Obiettivo della ricerca è indagare le implicazioni che le nuove forme di lavoro possono
avere su dimensioni legate all’organizzazione della vita quotidiana, al tempo libero, ai
progetti professionali e di vita. A tal fine sono stati coinvolti attraverso una metodologia
qualitativa (si veda nota metodologica) 50 lavoratori atipici1, di età compresa tra i 18 e i
35 anni, residenti nella provincia di Milano.
1 Vengono normalmente considerati “atipici” i lavoratori che non godono di un contratto a tempo indeterminato full-time e che svolgono quindi il proprio lavoro in base ad altre tipologie di contratto. Mentre il lavoro “tipico” è a tempo indeterminato, a orario pieno, con un unico e riconoscibile
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La tabella 1 restituisce in forma aggregata le principali caratteristiche socio-
demografiche degli intervistati (nella nota metodologica sono riportate le informazioni
relative ai singoli casi). Questi ultimi sono sostanzialmente equidistribuiti rispetto al
genere e circa la metà si colloca nella fascia di età intermedia fra i 26 e i 30 anni.
Nonostante la pressoché totalità sia in possesso di buone credenziali educative, e la metà
abbia addirittura raggiunto la laurea, i redditi percepiti2 sono piuttosto bassi – 1 su 2
non supera la soglia dei 900 euro mensili ed 1 su 5 non raggiunge nemmeno i 600 euro
– ed inoltre molto variabili nel tempo, tanto che gli intervistati incontrano grosse
difficoltà nell’indicare, seppur in modo orientativo, il proprio reddito. Come vedremo,
questa situazione appare tanto più complicata se si considera che oltre la metà ha
comunque lasciato il nucleo familiare di origine.
Tab. 1 Caratteristiche degli intervistati.
Genere Donne Uomini
29 21
18-25 13 26-30 22 Età 31-35 15 Laurea 23 Diploma 25 Titolo di studio Licenza media 2 Vive con la famiglia di origine 22 Vive solo 18 Condizione familiare Vive con il/la partner 10 <600 euro 10 601-900 13 901-1100 15
Reddito mensile
1101-1300 12
E’ noto che il mondo flessibile incorpora al suo interno una eterogeneità di situazioni
differenti. Per quanto riguarda le tipologie contrattuali, fra i nostri intervistati prevale il
contratto a tempo determinato in forma subordinata (19 casi su 50) di durata compresa
tra i 6 mesi e i 3 anni. Il riscontro di una maggiore presenza di questa tipologia
contrattuale risulta peraltro in linea con quanto rilevato dall’Osservatorio del mercato
del lavoro della Provincia di Milano, che la conferma come la forma più diffusa (OML
2004).
committente e di solito si svolge in un luogo preciso, le forme di lavoro atipico non presentano nessuna, o solo alcune, di queste condizioni. Nel nostro caso, l’atipicità è relativa alla limitazione della durata dei contratti. 2 E’ stato chiesto di indicare il reddito mensile netto.
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Dopo il contratto a tempo determinato, la seconda forma più frequentemente incontrata
è il contratto di collaborazione coordinata e continuativa o il contratto a progetto. I
restanti casi si dividono tra coloro che dichiarano di avere la partita IVA e di essere
quindi dei lavoratori autonomi (6), i contratti di somministrazione (3) e i contratti di
lavoro di 30 giorni (2). Vanno segnalati infine alcuni casi di lavoro nero (4).
Un ulteriore elemento di attenzione è costituito dal fatto che, sebbene molte delle
prestazioni lavorative riscontrate possano essere classificate come professioni e attività
caratterizzate da nuovi contenuti e da flessibilità dei compiti e nelle modalità
organizzative (ad esempio, de-standardizzazione degli orari, moltiplicazione dei luoghi
di lavoro), una quota significativa di intervistati svolge occupazioni, per così dire,
“tradizionali”, sia dal punto di vista delle mansioni che dell’organizzazione del lavoro.
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II.
Gli atipici si raccontano:
le diverse facce della flessibilità
2.1 Farsi esperienza ed esperienze
Una parte consistente degli intervistati sottolinea i vantaggi che derivano, sopratutto
nella fase iniziale di inserimento lavorativo, dell’avere un impiego flessibile. I contratti
a termine, dicono gli intervistati, permettono di “sperimentare situazioni diverse” e
“mettersi alla prova con sé stessi”, di “essere sempre dinamici e attivi” e di conseguenza
“crescere professionalmente”. Nel contesto milanese ciò è reso possibile dalla vitalità
del tessuto del mercato del lavoro, il quale offre una vasta gamma di opportunità che
consentono di non rimanere a lungo senza occupazione. L’aspetto positivo è che ti metti sempre in gioco, hai questa forma di elasticità che comunque ti permette, se vuoi, di dar di più anche all’azienda, però dai di più anche a te perché comunque sei sempre in moto. (Int. 8, D., 31 anni, laureata,contratto a progetto, vive sola, 900-1.100 euro mensili)
Sarebbe dunque sbagliato credere che gli intervistati abbiano una visione di per sé
negativa della flessibilità. Ciò che emerge, come vedremo, è il timore della precarietà,
soprattutto nel lungo periodo, e della mancanza di un reddito continuativo; ma la
flessibilità, intesa come possibilità di sperimentare lavori nuovi ed esperienze
professionali di crescita, è anzi ricercata dai nostri giovani lavoratori.
La fase di ingresso nel mondo del lavoro è generalmente un periodo, più o meno lungo,
di “instabilità accettata”, strumentale a diversi scopi. La possibilità di accedere ad una
molteplicità di lavori consente innanzitutto di chiarirsi le idee su quelle che sono le
proprie aspirazioni, su quella che potrebbe piacere come professione da portare avanti e
sviluppare nel tempo o, invece, su quelle che si considerano esperienze da non ripetere:
I vantaggi nel breve periodo
Chiarirsi le idee
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Positivo che fare più esperienze mi permette di capire bene ciò che voglio e ciò che non voglio fare nella vita. (Int. 5, D., 27 anni, laureata, tempo determinato e in nero, vive con i genitori, meno di 800 euro mensili molto variabili)
Gli aspetti positivi citati dagli intervistati vanno proprio nella direzione del
sottolineare l’opportunità che un contratto flessibile e a scadenza ha nel mettere alla
prova le proprie capacità professionali, le proprie attitudini:
Positivo comunque c’è la possibilità di cambiare, di rilanciarsi un po’, di non adagiarsi in una cosa…probabilmente se non fosse finito il contratto precedente non mi sarei messa lì a cercare altro, non avrei cambiato dalla selezione alla formazione, invece ora sono contenta. (Int. 9 ,D., 30 anni, laureata,contratto a progetto, vive con amici/conoscenti, 700-900 euro mensili)
In questa prospettiva, come dimostrano anche altre ricerche (Isfol, 2000), si è disposti
ad accettare temporaneamente un lavoro con retribuzioni basse (o nulle) se la
contropartita è un arricchimento della propria esperienza.
Un’altra volta in un call center, un’altra volta un corso di specializzazione, poi ho fatto uno stage nella direzione di un centro commerciale…ho fatto un po’ di marketing….non era un lavoro retribuito, ma ha avuto la sua importanza. (Int. 45, U. 34 anni, diplomato, collaborazione a progetto,vive in coppia, 700- 900 euro mensili variabili)
Viene posto l’accento sull’opportunità formativa che i contratti a termine offrono ai
lavoratori proprio grazie alla caratteristica di mutevolezza nelle competenze e nei nuovi
ambiti che si sperimentano passando da un contratto all’altro.
Per come me la sto vivendo io…però, ripeto, sentendomi ancora molto in formazione…è la possibilità appunto di aver visto tante cose…cioè, da una parte stressa essere sballottata da una parte e dall’altra, perché in questi 2 anni mi è capitato spesso…però ho capito tante cose, ho conosciuto tante cose….tante difficoltà…tanti livelli del mio lavoro, non solo quello che faccio sul campo, per esempio. (Int. 34 ,D., 30 anni, laureata, contratto a progetto,vive con i genitori, 900-1.100 euro mensili variabili)
Inoltre, nonostante i disagi che comportano, queste vengono comunque viste come
esperienze utili, in quanto “fanno curriculum”.
Avevo chiesto esplicitamente di fare uno stage collaborazione perché sto per dare la tesi e quest’esperienza farà curriculum. (Int. 3 , D., 24 anni, diplomata, tempo determinato, vive con i genitori, 450 euro mensili)
Sperimentare e mettersi alla prova
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Un aspetto centrale che emerge dalle interviste, e che è necessario mettere in evidenza, è
dunque quanto i giovani lavoratori siano disponibili e abbiano voglia di realizzarsi da un
punto di vista professionale. In una iniziale fase di costruzione del percorso lavorativo,
gli intervistati investono e a scommettono molto sulle opportunità di crescita date dal
lavoro che si ritiene adatto per sé, o conforme alle necessità di definizione del proprio
profilo professionale. Per fare ciò si è disposti a mettere in secondo piano gli eventuali
svantaggi che possono derivare da un contratto a termine. Il rincorrere un percorso che
si ritiene ideale per sé, in previsione di un qualcosa che potrebbe professionalmente
servire in futuro, o che semplicemente può gratificare da un punto di vista lavorativo,
può portare, come abbiamo detto, ad accettare addirittura lavori senza stipendio. Questo
percorso, d’altronde, è ampiamente condiviso anche dai genitori, i quali – sia che si abiti
ancora presso la famiglia di origine o che si sia già usciti di casa (cfr. cap. 4) – sono
disposti a legittimare e finanziare la realizzazione professionale dei figli accollandosi
gran parte delle spese.
Molti hanno svolto corsi di formazione post-diploma e post-laurea, che, nella
visione degli intervistati, da un lato consentono di continuare ad affinare le proprie
competenze, dall’altro permettono di aprire nuovi canali di lavoro:
Il primo lavoro tramite un master: stavo facendo un master e mi hanno fatto fare diversi colloqui e poi mi hanno scelto. (Int. 9 ,D., 30 anni, laureata,contratto a progetto, vive con amici/conoscenti, 700-900 euro mensili)
Ovviamente, ciò avviene soprattutto in una prima fase di ingresso nel mercato del
lavoro, quando si è disposti a passare attraverso stage pur di iniziare a lavorare nel
campo di interesse. D’altro canto, lo studio e la formazione sono considerate
fondamentali anche per continuare a rimanere nel mercato, e non sono pochi gli
intervistati che continuano ad investire in formazione anche dopo i primissimi anni.
E’ una vita che faccio corsi e continuo a farne, anche attualmente…per fare questo tipo di lavoro. (Int. 35 ,U., 29 anni, laureato, partita Iva ,vive con i genitori, 900-1.100 euro mensili variabili)
Peraltro, l’investimento sulla formazione – per esempio attraverso corsi di
aggiornamento – per lo più non sembra promosso e sostenuto dalle aziende, ma
piuttosto ricadere sui singoli lavoratori, che cercano, spesso con fatica, di integrare a
proprie spese studio e lavoro. Questa volontà spesso si scontra con difficoltà
L’importanza assegnata alla formazione
Voglia di investire sulla professione
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economiche, che limitano l’accesso a corsi a pagamento. Alcuni intervistati sottolineano
inoltre come lo sforzo di formazione continua comporti il sacrificio del tempo libero.
Io non ho tempo libero! Perché quello che ho lo passo a studiare, quindi non ho tempo libero ne’ al pomeriggio, ne’ nel week end…Tempo libero, veramente per me, io non ne ho. (Int. 15, D., 26 anni, laureata,partita iva,vive in coppia, 700-900 euro mensili) La maggiore difficoltà sta nel fatto che, come ti ho accennato prima, non c’è una formazione, un investimento sulla persona, ma questo poi dipende da ciò che vuoi, dal modo in cui lavori. A me piace che ci siano degli scambi, delle interazioni e in questo caso non ci sono dei grossi investimenti sulla persona, nel senso che la persona è un esecutore. (Int. 8 , D., 31 anni, laureata,contratto a progetto, ,vive sola, 900-1.100 euro mensili) Mi sarebbe piaciuto iscrivermi a veterinaria ma non ho passato il test di medicina… non mi sono scoraggiata però.. non è che potessi farmi mantenere… beh, i miei genitori mi hanno pagato un corso di grafica. (Int. 2 ,D. 23 anni, diplomata, lavoro a chiamata, ,vive con i genitori, meno di 400 euro mensili variabili)
2.2 Aspettative di libertà e autonomia
Come abbiamo visto, almeno in una prima fase della vita lavorativa, la flessibilità è
accettata, e anche ricercata, dagli intervistati come possibilità di sperimentare lavori
nuovi ed esperienze professionali di crescita. Un ulteriore aspetto positivo associato alla
flessibilità è la possibilità di godere di un certo grado di libertà e autonomia
nell’organizzazione del lavoro.
Nella visione di molti, un lavoro flessibile offre (o dovrebbe offrire) maggiore
autonomia organizzativa, temporale e spaziale, permettendo di gestire da sé i tempi del
lavoro e i tempi della vita privata, senza dover renderne conto a qualcuno. Non dover
seguire orari, spazi e pratiche di lavoro rigidamente predeterminati può essere utile, ad
esempio, per portare avanti contemporaneamente più collaborazioni con datori di lavoro
diversi o come possibile strategia di conciliazione dell’impegno lavorativo con altre
esigenze e dimensioni.
Aspetto positivo.. beh sicuramente la possibilità di organizzarsi, almeno in parte, il lavoro anche a casa.. sì è può essere.. poi la possibilità di avere altre collaborazioni. (Int. 14 , D., 31 anni, laureata, co.co.co, vive sola, più di 1.300 euro mensili) Avendo un orario flessibile qualora un giorno volessi avere più ore libere nel pomeriggio mi organizzo a venire al lavoro più presto la mattina. Venendo a lavorare alle otto posso uscire alle quattro e mezza e fare quello che voglio… (Int. 7 D. 32 anni, laureata, tempo determinato, vive sola, 1.100-1.200 euro mensili)
Gestire il proprio tempo
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Mi piace pensare che non devo rispondere a nessuno del fatto che, se una volta ho il mal di testa, dico che non ne ho voglia e non devo portare il certificato. (Int. 27, U., 30 anni, diplomato, co.co.co, vive solo, 1.300 euro mensili) Perché, ripeto, avendo un lavoro che mi da l’opportunità di gestire il mio tempo libero…perché non mi da le mie 8 ore fisse…per cui ci sono giornate in cui posso gestire il mio tempo libero ampiamente…per cui non ho questi problemi di gestione, anzi (Int. 33 , D., 34 anni, laureata, contratto a progetto, vive con i genitori, 400-600 euro mensili) Sì riesco a conciliarli proprio perché appunto come dicevo prima è un orario flessibile e è una gestione del tempo totalmente mia. (Int. 18, D. 22 anni, diplomata,contratto 30 giorni, vive con i genitori, meno di 400 euro mensili)
Al lavoro flessibile vengono associate – almeno in prima battuta – una serie di
immagini positive legate ad aspettative di libertà e autonomia, che hanno quasi la forza
di imperativi sociali. Da un lato il lavoro flessibile, che evoca maggiore dinamismo,
disponibilità al cambiamento, capacità di rischiare; dall’altro il lavoro a tempo
indeterminato, in qualche modo “noioso” e statico, ma che garantisce stabilità e
sicurezza. Questa contrapposizione si inserisce nella vita e nelle scelte delle persone
generando a volte dubbi e indecisione.
Guarda, a dir la verità sono un po’ indecisa, come desiderio, come possibilità reale di realizzazione, fra la possibilità di avere un contratto a progetto che mi lasci molto libera e se vuoi sempre un po’ in bilico, in modo tale di mettermi sempre alla prova, ma comunque con uno stipendio che mi consenta di vivere, oppure avere una maggior stabilità dal punto di vista contrattuale. (Int. 8 , D., 31 anni, laureata, contratto a progetto, vive sola, 900-1.100 euro mensili)
Non manca chi ha evitato (o lasciato) di proposito un lavoro a tempo indeterminato
perché si sarebbe sentito troppo vincolato o per il desiderio di misurarsi con nuove
sfide.
Cercavo di evitare qualcosa a tempo indeterminato perché mi avrebbe messo in una posizione…mi avrebbe vincolato di più. Mi sarebbe andata bene qualsiasi cosa, l’unica cosa che avrei scartato è il tempo indeterminato. (Int. 24 ,U., 26 anni, diplomato,tempo determinato, vive con i genitori, 900-1.100 euro mensili) Perché non mi piaceva più…sentivo che non era più la mia strada…ed il mio gusto per lavorare… …quindi che il mio lavoro non mi permetteva di fare…e mi è sembrato opportuno cambiare (Int. 45, U. 34 anni, diplomato, collaborazione a progetto,vive in coppia, 700- 900 euro mensili variabili)
Nei casi di lavoratori a partita Iva, com’è ragionevole aspettarsi, si riscontra
un’enfatizzazione dai toni ancora più forti del ruolo demiurgico che si sarebbe in grado
di ricoprire nei confronti del proprio destino e successo lavorativo.
La flessibilità come imperativo sociale
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Quello più positivo è che metti alla prova te stesso, sei la tua guida….è una prova con te stesso...dipende dai tuoi risultati (Int. 40 ,U., 34 anni, diplomato, partita Iva, vive solo, 1.300 euro mensili variabili) Aspetti positivi…che il comandante, che chi dirige, che chi ordina…sei te stesso…quindi vuol dire che sei molto libero….non è che vai in giro e fai quello che vuoi, però ti alzi e dici “oggi cosa faccio?” e questo è grande (Int. 42 ,U., 32 anni, laureato, partita Iva, vive in coppia , 1.100 euro mensili)
In ogni caso, almeno all’inizio della vita lavorativa, l’idea di sacrificare “il posto fisso”
per un lavoro meno sicuro, nell’ottica di mettersi in gioco o magari per uno stipendio
più alto, non sembra generalmente “fare problema”. A questo proposito, viene
sottolineata la distanza con la generazione dei genitori, che non sono disposti a
rinunciare a certe “fisse” – il lavoro a tempo indeterminato, ma anche orari standard.
Ho fatto un colloquio che è andato bene e io ho accettato, a discapito del contratto indeterminato ho fatto questa scelta. Avevo voglia di cambiamenti e ho deciso di rischiare. E’ un rischio, sto rischiando, cosciente di questa cosa, però sono positiva . Ho lasciato per una questione economica e perché tutto sommato era un lavoro che facevo da diversi anni e avevo voglia di misurarmi in una realtà diversa, di imparare delle cose nuove. Inoltre con delle condizioni economiche più soddisfacenti, perché quelle di prima non erano soddisfacenti per me. Probabilmente i miei genitori si sentirebbero più tranquilli se io avessi un contratto a tempo indeterminato… forse loro non avrebbero mai fatto…cioè, vedendo la cosa dal di fuori…forse loro non avrebbero mai mollato un contratto a tempo indeterminato per uno a tempo determinato (Int. 28 , D., 33 anni, diplomata, tempo determinato, vive sola, 1.300 euro mensili) Hanno questa fissa di preoccupazione per il fatto che comunque son precaria, per cui a loro piacerebbe vedermi, in una situazione di lavoro stabile, probabilmente come han fatto loro, voglio dire, come fanno tutti no?, nel senso, come facevano tutti…loro son liberi professionisti ma le loro 8 ore le fanno…c’è loro vedono me, ma per loro è difficile capire come mi gestisco il tempo…che uno lavora anche il sabato e la domenica, ogni tanto, perché comunque è proprio diverso…c’è oggi è diverso tutto, anche se sei libero professionista decidi tu quando lavori, gli orari (Int. 30 , D., 28 anni, laureata, partita Iva, vive in coppia, 700-900 euro mensili)
E’ ovviamente difficile capire quanto le aspettative degli intervistati trovino riscontro
nella realtà. L’atteggiamento fiducioso può essere certamente messo in relazione con
quella voglia di realizzazione professionale che abbiamo visto essere un tratto
distintivo dei giovani intervistati. L’assunzione di responsabilità rispetto al proprio
percorso lavorativo – responsabilizzazione che significa porsi degli obiettivi e mettere
in atto scelte conseguenti – è indubbiamente un elemento importante e positivo.
Tuttavia, un’eccessiva enfatizzazione della capacità, per così dire faustiana, di plasmare
il proprio destino solleva qualche preoccupazione: per esempio, rispetto alla
sottovalutazione delle risorse necessarie per definire e raggiungere gli obiettivi che ci si
pone o alla consapevolezza dei vincoli e dei rischi che inevitabilmente derivano dalle
scelte intraprese.
Tra aspettative e realtà
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Come sottolineato da diversi autori (per tutti Beck 2000), il processo di
individualizzazione – di cui il lavoro flessibile è una componete – definisce un aumento
della libertà degli individui, i quali sentono di poter diventare pienamente artefici del
loro destino, trovandosi però costretti a prendere decisioni all’interno di un quadro di
riferimento sempre più complesso e mutevole, dove non è possibile definire con
precisione le conseguenze a cui si va incontro. Difatti, se nella ricerca abbiamo
riscontrato occupazioni che consentono effettivamente una maggiore autonomia
organizzativa da parte dei lavoratori – rispetto ai contenuti, ai tempi e ai luoghi del
proprio lavoro – la realtà della gran parte degli intervistati appare tuttavia molto diversa:
dietro contratti non standard si celano spesso situazioni lavorative che presentano le
stesse rigidità di quelle “tradizionali”, dalle quali si differenziano “solo” per la minore
stabilità e per le scarse garanzie e tutele. In questa situazione, si finisce per subire tutti
gli svantaggi dei contratti a termine senza di fatto trarne nessun tipo di vantaggio; la
flessibilità diventa così non tanto una scelta quanto una necessità di adattamento alle
richieste della domanda, finendo per condizionare pesantemente lo status dei giovani sul
mercato e deteriorando la capacità contrattuale e progettuale detenuta dagli stessi.
2.3 Esiguità e discontinuità dei redditi
La problematica in assoluto più segnalata in relazione all’avere contratti a termine è
relativa al fatto di percepire un reddito discontinuo, soprattutto quando a questa
condizione si somma un reddito di per sé non elevato. Da questo punto di vista, per non
pochi dei nostri intervistati la situazione si presenta così negativa da non lasciar
intravedere nessuno vantaggio legato a queste tipologie contrattuali:
Un aspetto positivo?…Mi trovo in difficoltà con questa domanda. (Int. 31 ,D., 26 anni, laureata, co.co.co,vive con i genitori, 700-900 euro mensili variabili) In questo momento sinceramente di aspetti positivi non ne vedo. (Int. 39 ,D., 25 anni, diplomata, tempo determinato, vive in coppia, 1.100-1.300 euro mensili) Non manca chi svolge più di un lavoro nello stesso periodo per integrare un reddito
principale che di per se stesso non basterebbe alle spese necessarie: Lavoro in una mediateca, faccio tre giorni la settimana nel pomeriggio a faccio spesso il turno il sabato e la domenica, ma dipende dalle assenze dei miei colleghi. Può capitare che manchi un dipendente e io
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devo sostituirlo. Il pagamento è di 6 euro e 70 centesimi all’ora netti…pochissimo. Non ho nessuna forma di contratto ma da gennaio diventerò co.co.co. Ho responsabilità dei libri, della cassa, dei cd…insomma ho un ruolo di responsabilità ma non vengo retribuita a sufficienza e non vengo neanche coperta. Se mi faccio male, l’infortunio peraltro non è neanche previsto, sono fatti miei…Per quanto riguarda il pagamento per i primi due mesi mi pagheranno in ritenuta di acconto. L’altro lavoro che svolgo è fare da supplente in un istituto tecnico di Nerviano. Non sono fissa, quando un professore si ammala mi chiamano ed io vado a sostituirlo. L’anno scorso mi hanno chiamato una sola volt, quest’anno già 3. Il contratto è a tempo determinato e vengo retribuita con 15 euro l’ora. Il terzo lavoro è un subappalto di articoli di giornale per conto di un mio amico che è giornalista. Lo considero un lavoretto giusto per avere 100 euro in più alla fine del mese…mi danno 10 euro ad articolo…(Int. 5 , D., 27 anni, laureata, tempo determinato e in nero, vive con i genitori, meno di 800 euro mensili molto variabili)
In questa situazione, per riuscire a rimanere nel budget, la prima operazione è quella
di ricorrere a nuove forme di consumo low cost3, come i voli aerei a bassissimo
prezzo, i cd scaricati da internet, le compere nei mercati rionali per l’abbigliamento, l’
acquisto di libri usati e la frequentazione gratuita di biblioteche:
Va beh, i vestiti lasciamo perdere…se devo tagliare tra le robe che taglio, va beh, i cd di sicuro, comunque nel senso, non mi pesa…me li scarico da internet, quelle cose lì…sicuramente le uscite…che a volte, mi pesa il fatto di pensare che per uscire devo spendere anche quei 5-10 euro…anche se vai fuori a mangiare…è proprio raro l’uscita di divertimento mondano. (Int. 30 D., 28 anni, laureata, partita iva, vive in coppia, 700 euro mensili) Dunque, sono autonoma su quelli che io definisco come gli “extra”. Se non ci sono soldi non compro vestiti. Compro vestiti o scarpe solo se sono strettamente necessari…i soldi mi servono per viaggiare. Oppure per quanto riguarda i testi universitari sono sempre stata autonoma dal primo anno di università…o li prendo usati o li prendo in prestito dalla biblioteca. (Int. 5 D., 27 anni, laureata, lavoro nero, vive con genitori, 400 euro mensili)
Nei momenti più critici, si arriva al taglio radicale delle spese, che vengono ridotte
“all’osso”:
Taglio i ristoranti perché costa troppo andare nei ristoranti…i viaggi...le spese di telefono, se si può…la macchina, io in questo momento, personalmente non ho una macchina. (Int. 42 ,U., 32 anni, laureato, partita Iva, vive in coppia 1.100 euro mensili) Prima mantenevo il gatto ora non ce la faccio più... (Int. 13 D. 28 anni, laureata, partita iva, vive con i genitori, meno di 400 euro mensili)
In non pochi casi si stabilisce a priori la soglia massima che ci si concede di spendere in
una data sera, una data settimana o un dato mese, e l’attenzione a non superare questo
tetto può assumere livelli anche molto alti.
3 Da qui la definizione di “generazione low cost”, si veda per approfondimenti il libro-romanzo di Incorvaia A., Rimassa A. “Generazione 1000 euro” (www.generazione1000.com)
La riduzione dei consumi
Generazione low cost
19
Mi do una soglia mensile….che so…se ora prendo 400 euro mensili, 200 li spendo e 200 li metto via….più di 200 non spendo…..se proprio dovessi uscire, al massimo metto via di meno (Int. 50, U., 20 anni, diplomato, lavora in nero,vive con i genitori, meno di 400 euro mensili) Le spese sono già tutte tagliate: le uscite con gli amici, il cinema, quelle cose così…sono già tutte tagliate.. a pelo .una birra al mese non la taglio, la partita a calcetto non la taglio. Io so esattamente cosa spendo in tutti gli ambiti (Int. 27 ,U., 30 anni, diplomato, co.co.co, vive solo, 1.300 euro mensili) Allora, diciamo che ho avuto un periodo della mia vita in cui ero molto programmatrice, però perché avevo un lavoro molto più stabile…quando lavoravo al bar prima, era in nero, però avevo la mia entrata mensile, e sapevo che sarebbe rimasta quella per un po’. Adesso vado a periodi, ho presente quali sono le spese che ho in un anno…adotto il sistema delle buste… così (mostra) dove metto le bollette, metto i 100 euro, i 50 euro, a seconda delle spese che devo sostenere…anche perché, voglio dire, lavorando in nero io percepisco la metà del mio stipendio, mi arriva in mano, per cui metto nelle buste (Int. 36 D., 27 anni, laureata, parasubordinata, vive sola, 900 euro mensili)
Non pochi intervistati segnalano la difficoltà di doversi gestire quando i pagamenti
arrivano con scadenza occasionale o alla fine dei lavori, e alle volte così in ritardo che
non sembrano arrivare mai.
Ma la mia difficoltà è che i soldi mi arrivano alla fine tutti insieme dopo che io ho lavorato un anno magari.. e quindi mi è difficile gestirli. Quindi semplicemente spendo soltanto il necessario. Affitto, bollette, spesa. E non spendo niente. Non vado in vacanza eccetera, eccetera. (Int. 15 D., 26 anni, laureata, parasubordinata, vive in coppia, 800,00 euro mensili)
Inoltre, l’incertezza su quanto si guadagnerà “dopodomani” rispetto a quanto si
percepisce oggi, e la paura di dover affrontare un periodo di bassi guadagni, porta a
limitare ancor di più il proprio stile di vita e di consumo.
Ci sono delle spese che è necessario fare…non si va più in là di tanto…sempre per la paura, che quest’anno è andata bene, l’anno prossimo non si sa…e allora, invece che comprarti qualcosa di 100 euro ne compri una di 30…e speri che magari l’anno dopo ci sia qualcosa in più. (Int. 39 D., 25 anni, diplomata, tempo determinato, vive in coppia, 1.100 euro mensili)
2.4 Aspettando il rinnovo del contratti tra illusioni e aspettative mancate
La maggioranza degli intervistati vive con una certa ansia l’approssimarsi della
scadenza del contratto. Soprattutto all’inizio, quando si hanno ancora poche esperienze,
la paura di rimanere senza lavoro è tenuta sotto controllo confidando nelle promesse
fatte a voce, nella percezione di un clima positivo nei rapporti con i propri datori di
lavoro o, ancora, in generiche “sensazioni” di rinnovo: Diciamo che è a discrezione del proprietario...però abbiamo un buon rapporto, nel senso che fino ad ora abbiamo lavorato bene insieme, io lavoro seriamente, e fino ad ora l’ha sempre rinnovato…quindi,
Appesi ad un filo di speranza
Difficoltà nel gestire stipendi discontinui e occasionali
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diciamo buone probabilità…certo non è il massimo...però è sempre qualcosa oggi come oggi. (Int. 22, D., 22 anni, diplomata,contratto 30 giorni, vive sola, 600,00 euro mensili variabili) Non mi hanno ancora detto niente, spero buone. Le sensazioni sono buone. I segnali sul lavoro svolto sono positivi però sulle concrete possibilità di continuare non c’è…non mi hanno dato nessun segnale e siccome il primo contratto scadeva il 31 luglio fino al 28 non mi hanno detto niente, non si capiva se avrei continuato o no, più o meno siamo sullo stesso livello. (Int. 9 ,D., 30 anni, laureata,contratto a progetto, vive con amici/conoscenti, 700-900 euro mensili)
Molte le attese e le aspettative, tuttavia non sempre le promesse vengano mantenute e,
soprattutto, molto spesso si è messi di fronte ad un mancato rinnovo del contratto senza
che ciò sia stato preannunciato in nessun modo. Con il passare del tempo, molti
lavoratori precari sembrano perdere fiducia nei vertici decisionali, perché hanno già
sperimentato situazioni di promesse mancate o di contratti che improvvisamente non
sono stati rinnovati, con tutti i problemi che ne sono derivati. Impressiona vedere come i
datori lascino in bilico i lavoratori senza curarsi delle conseguenze che la mancata
comunicazione del rinnovo in un tempo ragionevole possa apportare alle loro vite:
Male nel senso che a livello aziendale non c’è stata alcuna comunicazione. Il contratto scadeva il 25 dicembre io ho saputo il 23 che il contratto non sarebbe stato rinnovato. Questo per problemi interni…come cosa non mi è piaciuta affatto. Le voci dicevano che avrebbero riconfermato tutti…una comunicazione differente sarebbe stata più rispettosa. (Int. 3 D., 24 anni, diplomata tempo determinato,vive con i genitori, 450 euro mensili) Lo vivo con un po’ di ansia…spero che mi diano una risposta prima del 31 dicembre…ogni tanto sollecito però il responsabile dribbla un po’ la domanda…come ha fatto quest’estate d’altronde…(Int. 9, D., 30 anni, laureata,contratto a progetto, vive con amici/conoscenti, 700-900 euro mensili) Come vivevo nell’altro lavoro, visto che erano sempre di nuovo contratti annuali, la vivevo con molta ansia ma perché erano in realtà le politiche dell’azienda a non rendere partecipe il diretto interessato del rinnovo o meno del suo contratto fino a una settimana prima della scadenza. A meno che uno non andasse dal responsabile o comunque insomma alla persona di riferimento a chiedere di interessarsi per lui e per il suo affitto da pagare! Se era intenzione dell’amministratore delegato e del direttore insomma rinnovare o meno il contratto. (Int. 14 ,D., 31 anni, laureata, co.co.co ,vive sola, più di 1.300 euro mensili)
In non pochi casi, il disagio si manifesta in una sorta di rassegnazione fatalista,
testimoniata dal frequente ricorso ad espressioni quali “non so, vedremo”, “speriamo”,
“sono in mano loro”, “non dipende da me”. L’impressione è che tenda a saltare il nesso
fra la decisione, che sembra seguire logiche oscure, e ciò che gli intervistati possono
fare per influenzarla.
Senza notizie né preavviso
Rassegna-zione e fatalismo
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Male, male perché ancora non so come mi verrà rinnovato…sono…diciamo in mano loro…sono loro che decidono…potrei anche trovarmi senza lavoro (Int. 38, U. 28 anni, diplomata, tempo determinato,vive con i genitori, 1.100-1.300 euro mensili variabili) Io questo non te lo so dire. Io spero al 70%, il resto non lo so, anche perché…non dipende da me (Int.33, D., 34 anni, laureata,contratto a progetto, vive con i genitori, 400-600 euro mensili)
Se, come abbiamo visto, la flessibilità accresce da una parte l’autonomia dei lavoratori,
dall’altra sembra aumentare anche il peso della subordinazione, che, per dirla con
Supiot: “è conseguenza diretta delle nuove forme di lavoro precarie, quali i contratti di
formazione e lavoro offerte ai giovani o i contratti a tempo determinato. In questi casi al
potere direttivo del datore si aggiunge la facoltà di dare o meno seguito alla relazione di
impiego al termine del contratto. È evidente come il datore di lavoro disponga così di un
potente strumento per condizionare il comportamento dei lavoratori “a ridotte garanzie”,
e in particolare dei giovani, che, nella maggior parte dei casi, cominciano la loro vita
professionale con contratti di questo tipo” (Supiot 2003:27).
2.5 La variabile tempo
Nel breve periodo, come abbiamo visto, prevale la fiducia e la flessibilità appare agli
intervistati soprattutto come un’opportunità di crescita e di formazione. Quando i
contratti a termine iniziano a protrarsi nel tempo, però, questa condizione comincia ad
essere percepita sempre più come imposta. La difficoltà ad approdare ad un lavoro
stabile produce crescente disagio e stanchezza. All’inizio era una scelta, mi piaceva l’idea di far tanti lavori…anche perché anche se il titolo di studio vale, conta di più l’esperienza lavorativa….comunque…adesso sto cercando un lavoro fisso…se trovo ancora contratti a tempo determinato…non è più una scelta (Int. 50 ,U., 20 anni, diplomato, lavora in nero,vive con i genitori, meno di 400 euro mensili) E comunque vedo, che se una società ha bisogno di te…cerca di tenerti, anche se sei precario…certo la condizione di precario non dovrebbe continuare a vita. Dopo un po’ dovrebbero assumerti e farti diventare lavoratore dipendente. Nel mio campo almeno, il tempo determinato è come un tempo di prova. (Int. 38, U. 28 anni, diplomata, tempo determinato,vive con i genitori, 1.100-1.300 euro mensili variabili)
Col passare del tempo, diventa sempre più forte il bisogno che le competenze acquisite
e l’investimento professionale non siano vanificate dall’instabilità e trovino
riconoscimento in forme contrattuali più stabili. Se all’inizio gli stessi intervistati
Crescono la stanchezza e il disagio
Bisogno di stabilità e riconosci-mento del proprio lavoro
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giustificano la durata limitata del contratto in relazione alle necessità formative e di
selezione dell’azienda, nel tempo queste ragioni vengono a perdere di significato.
All’inizio più positivi, sai quando inizi a fare questo lavoro, inizi ad assaggiare tante cose…però quando una scuola ti inizia a prendere per 3 anni consecutivi ti inizi a chiedere perché non ti assuma. Non è il più non comprendere la difficoltà, perché è come un incoerenza: ma come?! Per 3 anni voi mi fate fare questo lavoro…c’è progettualità, per cui voi mi chiedete la mia competenza; però la mia competenza per 2-3 anni, è nel nulla: è una mancanza di coerenza che mi lascia molto spiazzata… (Int. 29 D. 29 anni, laureata, co.co.co., vive sola, 900-1.100 euro mensili) Dal momento in cui la legge ha permesso all’ente pubblico di avvalersi di questo tipo di contratti deve anche poi, una volta reiterato nel tempo, capire se una forza lavoro ormai formata è importante. E quindi deve trovare il modo per rendere questo contratto da determinato a indeterminato. Alla fine sei una forza lavoro formata e tu non puoi rischiare di perderci…qui siamo in 600…se ce ne andiamo, mancherebbero 600 persone che sono state formate (Int. 7 D. 32 anni, laureata, tempo determinato,vive sola, 1.100-1.200 euro mensili)
A fronte di queste esigenze, non pochi sono gli intervistati che si sono ritrovati a
collezionare per anni numerose e brevi esperienze, senza ancora vedere – se non in
termini di speranza – il passaggio verso condizioni più stabili:
Ho sempre avuto lo stesso tipo di contratto, a tempo determinato. Questo che ho cominciato da poco è il sesto contratto. Le probabilità di essere assunto adesso sono più alte in quanto, essendo il sesto, ormai come lavoratore sono sufficientemente apprezzato. (Int. 6 , U., 30 anni, laureato, tempo determinato, vive solo, 900-1.100 euro mensili) Se hanno bisogno di tagliare i costi e devono lasciare del personale a casa ovviamente la prima sarò io perché ho il contratto a tempo determinato. Però… insomma, il mio gruppo è uno di quelli formati da poco, siamo solo in tre per cui… dovrei avere ottime possibilità… Spero che questo sia l’ultimo lavoro che cambio! (Int. 16, D., 23 anni, diplomata, tempo determinato, vive sola, 900-1.100 euro mensili)
Alcuni hanno già sperimentato situazioni di non continuità lavorativa, tamponate con
“lavoretti” di emergenza:
Allora, il più lungo è stato quello tra ospedale e qui che ho fatto 2 mesi senza lavorare, però facevo dei lavoretti tipo babysiterraggio e altri, beh ripetizioni e così (Int. 10, D., 29 anni, diplomata, interinale, vive con i genitori, 970 euro mensili) Come ti dicevo prima, dopo il diploma ho fatto lavori un po’ saltuari: per un annetto non ho trovato praticamente nulla, poi mi facevo le estati a lavorare nei negozi di abbigliamento o nei bar…e poi ho trovato questo lavoro in un posto comodo di Milano…e diciamo che mi interessa più degli altri perché.. un po’ richiama quello che volevo fare. (Int. 2 ,D. 23 anni, diplomata, lavoro a chiamata, vive con i genitori, meno di 400 euro mensili variabili)
23
2.6 Rivendicazioni e identità collettiva
Tende a delinearsi nelle narrazioni degli intervistati una netta linea di demarcazione
tra il mondo dei dipendenti precari e gli assunti a tempo indeterminato full-time,
definiti spesso dai primi come “i normali”, nonostante la diffusione del lavoro
“atipico” avanzi al punto tale da farlo apparire sempre più tipico. Questa
contrapposizione rimanda a ciò che da più parti è stato definito il problema del
“dualismo del mercato del lavoro” (Leonardi, Pallini 2006), che mette al centro l’idea
della contrapposizione tra due gruppi: da un lato gli insider, con forti tutele e forti
diritti, dall’altro, i lavoratori outsider.
Il fatto di avere la possibilità di avere un mutuo, di avere una serie di cose che le persone “normali”, che hanno un lavoro “normale” hanno. Molti di noi lavorano magari da 8/9 anni come interinali e non possiamo avere un sacco di cose che le persone che hanno i contratti a tempo indeterminato hanno…(Int. 10, D., 29 anni, diplomata, interinale, vive con i genitori, 970 euro mensili)
A questo proposito, è interessante come quasi nessuno chieda o speri nel ritorno ad un
sistema rigido basato sulla forma contrattuale a tempo indeterminato. C’è invece forte
consapevolezza della necessità, e anche della fattibilità, di nuovo sistema di tutele,
adeguato alle attuali condizioni di lavoro e che permetta ai giovani lavoratori precari di
svolgere, con una certa tranquillità, una vita “normale”. Sostegno al reddito nei periodi
di disoccupazione, maternità e accesso al credito sono fra gli interventi più richiesti. Un reddito minimo di sostentamento come credo che esista in Inghilterra. Almeno per uno o due mesi nel passaggio da un lavoro all’altro, nel momento in cui una persona perde il lavoro precedente e ne deve cercare un altro. Perché altrimenti diventa complicato organizzare la propria vita. (Int. 14 ,D., 31 anni, laureata, co.co.co , vive sola, 1.300 euro mensili) Mi viene in mente adattare ciò che è rimasto come prima a quella che è la possibilità precaria di adesso. Per esempio: mutui, trasporti urbani, piuttosto che tante altre cose… banche, prestiti….nel senso che queste cose son rimaste tali e quali, poco mobili rispetto a ciò che siamo noi adesso. (Int. 34 , D., 30 anni, laureata, contratto a progetto, vive con i genitori, 900-1.100 euro mensili variabili) Fornire delle strutture di sostegno che rendano un lavoratore precario tranquillo, nel momento in cui non c’è più un contratto, e sta aspettando che ne inizi un altro. Un welfare non più tarato sul lavoratore dipendente a contratto a tempo indeterminato, ma su una situazione lavorativa che è completamente cambiata (Int. 36 , D., 27 anni, laureata, lavora in nero e con contratto a progetto, vive sola, 900-1.100 euro mensili) Dare le stesse garanzie dei lavoratori non precari: maternità, oppure dare dei sussidi per i mesi in cui non lavorano…equiparare i mesi lavorati… cioè dare appunto i sussidi calcolando i mesi che sono stati lavorati anche se non sono continuativi.. queste cose qua.. (Int. 15 , D., 26 anni, laureata , partita iva, vive in coppia, 700-900 euro mensili)
Consape-volezza della propria condizione e richiesta di un nuovo sistema di tutele
24
D’altro canto, lo sviluppo di identità collettive come lavoratori precari e di forme di
aggregazione basate sulla condivisione di problemi, interessi e condizioni lavorative
simili appare difficoltoso, sebbene come vedremo nel cap.5 si possano individuare
alcuni strumenti e azioni “facilitatori”. La moltiplicazione delle forme che il lavoro
assume riduce infatti i motivi di condivisione, addirittura intaccando i momenti di
simultanea presenza entro spazi comuni; la brevità dei rapporti di lavoro impedisce di
sedimentare nel tempo le relazioni coi colleghi.
Ma magari è capitato di uscire con loro... però… non ho mai approfondito più di tanto.. appunto perché durava talmente poco il lavoro che non avevo la possibilità di conoscerle meglio. (Int. 18 ,D. 22 anni, diplomata,contratto 30 giorni, ,vive con i genitori, meno di 400 euro mensili)
Anche all’interno del gruppo degli outsider, poi, non si è, o non ci si percepisce, come
“tutti uguali”.
Della tipologia del contratto aspetti positivi secondo me non ce ne sono…il contratto a termine non fa favorire mai rispetto al contratto a tempo indeterminato…è probabilmente tra quelli flessibili il migliore, perché consente dei diritti che uno assunto con contratto co.co.pro. o interinale non ha. (Int. 6 ,U., 30 anni, laureato, tempo determinato, vive solo, 900,00 a 1.100 euro mensili)
In questa situazione, i giovani lavoratori intervistati faticano ad uscire da un logica che
li spinge ad affrontare in modo individuale le problematiche relative alla
rivendicazione di condizioni lavorative migliori. Non si può parlare di un gruppo
unito, con delle richieste forti e pronto a rivendicare i propri diritti (Giaccardi, Magatti
2003). Assai raramente le organizzazioni sindacali, che in passato costituivano la base
di confronto prima e di azione poi, riescono a rappresentare un punto di riferimento; in
pochi vi si sono rivolti e anche quando ciò è avvenuto esse sono state percepite come
qualcosa di distante. Nell’unico caso in cui si cita la partecipazione ad una realtà
associativa formata da lavoratori precari, si legge una scarsa fiducia nel successo delle
azioni collettive e, più in generale, nella politica:
Beh io faccio parte di un coordinamento di lavoratori precari, quindi cerchiamo di fare un lavoro di pressione sulle organizzazioni sindacali affinché venga posto il problema a livello politico perché il problema deve essere posto a livello politico e non solo a livello locale ma nazionale, è una battaglia non dico con i mulini a vento ma…(Int. 6 ,U., 30 anni, laureato, tempo determinato, vive solo, 900,00 a 1.100 euro mensili)
Scarsa fiducia nei sindacati e nella politica
La difficoltà ad uscire dalla dimensione individuale Deboli le relazioni fra colleghi
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Quello che ne risulta è un confronto – impari – a livello micro e quasi personale tra
lavoratore e datore di lavoro. La mancanza di una posizione contrattuale forte dal
punto di vista delle tutele impedisce al singolo di portare avanti rivendicazioni:
L’unica soluzione sarebbe porre più regole sindacali che limitino questo sfruttamento selvaggio. Il mio capo dice che siamo una famiglia ma in realtà è uno stronzo. Mi fa lavorare per 6 euro e 70 anche la domenica e ci dice che se abbiamo qualche lamentela di andare da lui ma poi ti dice “o ti va bene così o te ne vai”… (Int. 5 ,D., 27 anni, laureata,tempo determinato e in nero,vive con i genitori, meno di 800 euro mensili molto variabili) Beh, senza dubbio io non posso ad esempio prendere delle posizioni nette contro il capo, se faccio vedere che mi metto contro e mi faccio mal volere lui.. può non rinnovarmi semplicemente il contratto. Anche per motivi indipendenti dalle mie capacità lavorative. (Int. 26 ,U., 25 anni, laureato, borsa di studio annuale,vive solo, 900 euro mensili)
Nel contempo, proprio la “vicinanza” al datore di lavoro – insieme alla percezione di
fenomeni ormai globali, che in quanto tali sfuggono alla volontà e al raggio d’azione dei
singoli, degli Stati e anche delle imprese – fa sì che spesso gli intervistati, pur
riconoscendo i vantaggi che la flessibilità assegna all’azienda, di fatto siano pronti a
comprenderne e giustificarne le ragioni, nonostante nella nuova configurazione dei
rapporti il rischio, che tradizionalmente era un elemento che caratterizzava l’impresa,
sembra trasferirsi totalmente a carico del singolo lavoratore (Fullin 2004). Tutte e due le parti sono in difficoltà. La concorrenza mette in difficoltà le aziende e il poveraccio che si trova in mezzo alla fine è disastrato. (Int. 3 ,D., 24 anni, diplomata,tempo determinato,vive con i genitori, 450 euro mensili) Eh no…capisco il datore di lavoro, capisco il momento di crisi, però molti datori di lavoro ci marciano su questa cosa perché molti di loro hanno agevolazioni fiscali, il fatto di non assumere…la soluzione io non so quale sia. Però la cosa che dà più fastidio è il fatto che molti ci marcino sopra…(Int. 4 ,D., 30 anni, laureata, , tempo determinato,vive in coppia, da 900 a 1100 euro mensili)
L’individua-lizzazione del conflitto
26
27
III.
Le conseguenze sulla vita delle persone
Nel capitolo precedente abbiamo illustrato quali sono le caratteristiche associate dagli
intervistati alla propria condizione di lavoratore atipico, in termini di vantaggi e
svantaggi che ne derivano. Pur considerando l’eterogeneità di situazioni che il mondo
flessibile incorpora al suo interno, dalle narrazioni è emerso un profilo abbastanza
definito delle opportunità e, sopratutto, dei vincoli coi quali i giovani lavoratori si
trovano quotidianamente a confrontarsi, avendo a disposizione risorse che paiono essere
per lo più insufficienti ed inefficaci sia per cogliere le occasioni che per fronteggiare le
difficoltà.
D’altronde, oltre ad essere giorno per giorno incerto e faticoso, muoversi e interagire nel
nuovo contesto definito dalla configurazione flessibile del mercato del lavoro può avere
in prospettiva conseguenze ampie e profonde sulla definizione dei progetti di vita e
delle personalità sociali. Difatti, come Sennett (1999) ha esaurientemente argomentato,
il regime formale e materiale imperniato sul motto “basta col lungo termine” e sulla
pratica della mobilità professionale sottopone a tensioni e spinte contrastanti che
possono minare col tempo le capacità progettuali degli individui. Ciò ha effetti negativi
sia sul piano strettamente lavorativo sia rispetto alla possibilità di tenere insieme, in un
unico orizzonte di senso, gli obbiettivi professionali e di riproduzione
sociale/famigliare.
E’ su questa dimensione di analisi che concentreremo l’attenzione in questo capitolo: al
centro sono posti alcuni nodi problematici che conseguono dalle criticità messe in luce
nel capitolo precedente e che – se non interverranno nel frattempo cambiamenti sul
piano individuale o collettivo (stabilizzazione lavorativa, interventi a sostegno dei
lavoratori precari) – potranno avere effetti potenzialmente deflagranti sui percorsi di
vita degli intervistati. Si tratta di rischi legati alla frammentazione dell’identità
professionale (par 3.1), allo sfasamento tra tempi di vita e tempi di lavoro (par 3.2), alla
difficoltà a creare e mantenere legami e reti sociali attive, anche partecipando ad
occasioni di integrazione sociale nella sfera dei consumi (par. 3.3).
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3.1 Demotivazione e “spappolamento” dell’identità professionale
Come abbiamo visto, e come mostra la seguente intervista, i giovani flessibili
sperimentano una pluralità di situazioni lavorative spesso molto diverse tra loro, per
settore e competenze richieste. La molteplicità di esperienze a volte assume più
l’aspetto di una “lista della spesa” che non di un percorso professionale organico e
coerente:
Allora…ho lavorato al Carrefour di Assago come promoter, come allestitore, tagliatore di grana…ho lavorato anche come consulente, per la Kirdy, un’azienda, una multinazionale americana, che vende appunto un apparecchio chiamato Kirdy….il consulente appunto deve andare a casa e fare delle dimostrazioni…..prima di tutto ho lasciato il mio nominativo alla M-promotion…e loro mi hanno mandato a lavorare, al Carrefour di Assago, come allestitore della Granarolo, per 3 settimane…nel frattempo lavoravo anche come tagliatore di grana, perché loro mi avevano detto che mi avrebbero assunto, con lavoro fisso, a distanza di tempo….poi però hanno cambiato le carte in tavola e non me lo hanno più dato…poi però ho lavorato alla Iper del Portello, come…ehm…tagliatore di angurie….poi sono ritornato, adesso in questo periodo per un lavoro in pescheria….che però ho lasciato perché non ci riuscivo….poi ho lavorato in un’azienda di riciclo di pezzi ferrosi…quando c’è la ruggine, vengono puliti e poi riutilizzati…è un’azienda che c’è a San Giuliano… ho lavorato lì in estate, il contratto era sempre in nero, e anche lì lavoravo per il papà di un mio amico…poi ho lavorato anche come barista….e ora cercherei un lavoro da barista…. adesso in questa pizzeria a San Giuliano Milanese…faccio tutto quello che riguarda il non fare le pizze….pulisco per terra, lavo, sto alla casa coi clienti, grattugio la mozzarella….tutto quello…lavo i tavoli…tutto quello che rientra in una pizzeria, ma che non fa il pizzaiolo, lo faccio io. (Int. 50 ,U., 20 anni, diplomato, lavora in nero,vive con i genitori, meno di 400 euro mensili) Sì, allora, prima ho lavorato in un’agenzia di auto noleggio, poi ho lavorato in un centro commerciale come cassiera. Poi ho lavorato in Siemens come addetta al call center. Poi sono stata in una cooperativa e facevo un po’ di tutto… note spese e robe varie. Poi ho lavorato 7 mesi in uno studio legale, e poi qui… faccio parte dell’ufficio documentation. (Int. 16 ,D., 23 anni, diplomata, tempo determinato,vive sola, 900-1.100 euro mensili)
Questa molteplicità di esperienze, spesso non coerenti tra loro e cui gli stessi lavoratori
faticano ad abbracciare in una narrazione che le conferisca senso e leggibilità, oltre a
non permettere l’accumulo di competenze specifiche effettivamente spendibili nel
mercato del lavoro, rischia di portare ad una eccessiva frammentazione dell’identità
lavorativa, ovvero all’impossibilità di autodefinirsi dal punto di vista della
professionalità e delle capacità (skill) di cui si è portatori.
Da fattore ricercato la mobilità professionale finisce spesso per tradursi in un insieme
caotico di esperienze frammentarie e incoerenti, difficilmente spendibili e inquadrabili
in un qualche tipo di progetto. Se, come abbiamo visto, nel breve periodo la flessibilità
può apparire come un’opportunità di crescita e di formazione, quando si trascina troppo
a lungo perde la funzione di sperimentazione – e, di conseguenza, la sua valenza
Eccessiva frammenta-zione non costruisce identità professionale
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positiva – per diventare invece una condizione vissuta come svantaggiante, negativa e
frustrante, che non permette di ottenere riconoscimento economico e sociale.
Nelle narrazioni degli intervistati, soprattutto di quelli inseriti da più tempo nel mercato
del lavoro, emerge con forza la delusione e l’insofferenza per una certa
“indeterminatezza professionale”. Delusione e insofferenza che trovano spesso
espressione in una preoccupante rassegnazione a “vivere alla giornata”, a prendere
quello che arriva senza troppa convinzione, rinunciando a investire nel lavoro e in
quello che si fa. Anche per coloro che possiedono buone credenziali educative, la
progettualità e le aspirazioni professionali finiscono spesso per essere “spappolate” dal
vortice di esperienze lavorative eterogenee, spesso incongruenti fra loro e di breve, e
talvolta brevissima, durata. L’atteggiamento è quello di chi aspetta gli eventi senza
essere in grado di condizionarli, anche perché spesso non si riesce a scorgere un nesso
logico e causale tra il proprio comportamento e la possibilità effettiva – rappresentata
dalla decisione dei superiori di assumere a tempo indeterminato – di uscire dalla
condizione di precarietà.
La cosa negativa è che invece se uno insomma cerca di impegnarsi in un lavoro, cercando di conseguire risultati, con un lavoro a tempo determinato non si riesce. Non avendo prospettive future uno può anche non impegnarsi a sufficienza, tanto alla fine del contratto… (Int. 23 U. 26 anni, diplomato, tempo determinato, vive con i genitori, 700-900 euro mensili variabili)
Il contratto a termine e il protrarsi della precarietà lavorativa possono quindi favorire
situazioni di demotivazione professionale, poiché non lasciano intravedere la continuità
del proprio impegno nel tempo. Ciò comporta una scarso investimento nelle attività che
si stanno svolgendo, anche da parte di coloro che svolgono un’occupazione che li
soddisfa e che possiedono un buon capitale culturale.
3.2 Sfasamento tra tempi di lavoro e tempi di vita
Le trasformazioni avvenute nel mondo del lavoro nel corso degli ultimi decenni sono
fenomeni centrali per comprendere un tratto peculiare della società contemporanea: la
crescente de-sincronizzazione e frammentazione dei comportamenti quotidiani. Con il
termine de-sincronizzazione delle pratiche di organizzazione e gestione spazio-
temporale delle attività ci si riferisce alla tendenza a differenziare e rendere eterogenei i
Frustrazione e demotiva-zione
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valori e gli stili di comportamento temporale. Manifestazioni di de-sincronizzazione
sono evidenti nel superamento, nel settore della produzione e dei servizi, dei modelli
collettivi di comportamento temporale standard a favore di quelli orientati in direzione
di una maggiore articolazione degli schemi di orario, così come nella tendenza a
collocare le attività lavorative in fasce orarie e in giorni atipici rispetto a quelli
tradizionalmente deputati al loro svolgimento.
Le narrazioni degli intervistati rispetto alla propria giornata lavorativa presentano
spesso profili non standard. Alcuni posseggono una certa autonomia e libertà
nell’organizzazione spazio-temporale delle proprie attività: capita, ad esempio, che si
lavori solo il pomeriggio e può accadere di avere dei giorni liberi durante la settimana.
Più spesso i tempi del lavoro e privati risultano più definiti e distinti ma non sono
comunque organizzati sull’orario lavorativo tradizionale e cadenzati, settimanalmente,
dal weekend; alcuni, soprattutto donne, sono occupati con contratti part-time; per altri, il
lavoro prevede un’organizzazione a turni.
In questo quadro frastagliato il rischio è che si determini un doppio e crescente
sfasamento: tra i ritmi e le scadenze del lavoro e le esigenze della vita quotidiana
extralavorativa, e tra l’atipicità e l’imprevedibilità della propria organizzazione
temporale e la più generale organizzazione temporale della società. Come sottolineano
gli intervistati la vita flessibile, oltre ad essere spesso “faticosa e stancante” in sé per i
ritmi e le pressioni a cui sottopone, è sfasante rispetto ai “tempi normali di vita”,
essendo “opposta a quella degli altri”. Io lavoravo nel weekend e riposavo durante la settimana, mentre i miei amici al contrario. Per sei mesi ho fatto una vita all’opposto di quella dei miei amici. Era una vita stancante a livello fisico. Era una vita che non conciliava i tempi normali di vita (Int. 3, D., 24 anni, diplomata, tempo determinato, vive con i genitori, 450 euro mensili) No perché mi ritrovo a dover lavorare sette giorni su sette in orari che incidono sulla mia vita sociale. Ad esempio il sabato sera quando gli altri pensano a divertirsi io mi ritrovo a dover lavorare. Faccio una vita opposta a quella degli altri. (Int. 5 , D., 27 anni, laureata, tempo determinato e in nero, vive con i genitori, meno di 800 euro mensili molto variabili)
Per la maggior parte dei giovani flessibili conciliare la sfera familiare, della socialità e
del tempo libero con la dimensione professionale è dunque un’operazione complicata,
che sembra risolversi per lo più nel piegare la prima alle esigenze dettate dalla seconda.
Purtroppo ultimamente il ritmo è molto serrato, e questo dipende da chi ti chiede i lavori e purtroppo
Ritmi non standard
31
questi lavori li devi giocare ad incastrare via uno via l’altro…giocano ad incastro e rischiano di essere serrati anche perché c’è il viaggio di spostamento di mezzo (Int. 29 D., 29 anni, laureata,co.co.co., vive sola, 900-1.100 euro mensili)
L’atipicità della propria organizzazione temporale non permette di partecipare ai
momenti di svago e divertimento cadenzati sui “tempi normali” dei lavoratori
standard. Ciò ha effetti significativi sulla vita sociale degli intervistati, poiché molto
spesso, dovendo rinunciare forzatamente ad occasioni di socialità extralavorativa, si
tende ad allentare i legami sociali già attivi e a limitare le occasioni di intesserne di
nuovi. Il che appare tanto più preoccupante se si considera che, come abbiamo già visto,
la brevità e discontinuità delle esperienze professionali rende l’integrazione e i rapporti
con i colleghi di lavoro spesso deboli e laschi, aumentando il rischio di isolamento e
fragilità relazionale.
In questo quadro, in cui è il lavoro che detta le priorità e il ritmo dell’esistenza
quotidiana, il tempo libero e l’investimento sulle relazioni sembrano essere riservati per
lo più al mantenimento dei rapporti più intimi – la coppia, i parenti stretti – a scapito
spesso delle relazioni amicali e dei cosiddetti legami deboli (conoscenti, amici di
amici...).
Io diciamo che a lungo termine credo di aver portato avanti solo il mio rapporto con i miei familiari, con la mia ragazza…e quello lavorativo…per il resto, credo che un po’ la vita ti porti a consumare tutto molto velocemente…da circa 10 anni tutto si consuma molto velocemente (Int. 40 , U., 34 anni, diplomato,partita Iva, vive solo, 1.300 euro mensili variabili)
La capacità onnivora del lavoro sembra incidere in maniera significativa anche sulla
stessa vita di coppia: gli spazi dedicati al partner sembrano ridursi con il progressivo
espandersi dell’impegno e dell’imprevedibilità professionale. Inoltre, un ulteriore
elemento di complicazione è dato dal fatto che tra i membri della coppia spesso i
tempi e spazi di lavoro non coincidono: Lui sta a Roma e riusciamo a vederci una volta al mese perché io purtroppo lavoro anche la domenica, sai la mediateca sta aperta 365 giorni l’anno quasi sicuramente anche a Natale e Capodanno…spero di vederlo a Natale anche se rischio seriamente di dover lavorare (Int. 4 ,D., 30 anni, laureata, , tempo determinato, vive in coppia, da 900 a 1100 euro mensili) Al giorno nulla, lavorando entrambi dal mattino alla sera capita di vederci una volta durante i giorni lavorativi…due tre volte a settimana. Poi se si riesce dal lunedì al giovedì per un aperitivo ma dipende dagli orari perché lui lavora in un’azienda privata e fa molto più tardi di me. Lui può concludere la sua giornata intorno alle 20 o alle 21. (Int. 7 D. 32 anni, laureata, tempo determinato,vive sola, 1.100-1.200 euro mensili)
Difficoltà di gestione dei tempi di coppia
Riduzione della socialità
32
In questa situazione non stupisce che nella rappresentazione dei giovani flessibili il
tempo libero non corrisponde semplicemente al tempo non occupato dal lavoro, ma
piuttosto ad un ambito libero anche dal “pensiero del lavoro” e dai ritmi da esso
dettati, dove poter finalmente realizzarsi e fare ciò che si desidera. Il tempo libero dovrebbe essere libero da tutta una serie di pensieri lavorativi, di stress e di dovrei. Dovresti fare quello che ti fa stare bene. (Int. 8 ,D., 31 anni, laureata, contratto a progetto, vive sola, 900-1.100 euro mensili) Bella domanda…dal lavoro, o meglio dallo stress sul lavoro, libero da impegni frenetici ma nemmeno noioso…libero di poter fare ciò che vuoi, di coltivare le tue aspirazioni, i tuoi piaceri…non so…libero di poter stare con chi vuoi dove vuoi…libero da ciò che a fine giornata ti fa dire, che giornata!! (Int. 22 ,D., 22 anni, diplomata,contratto 30 giorni, vive sola, 600 euro mensili variabili)
Soprattutto le donne sottolineano che il tempo libero dovrebbe essere tempo per sé, da
dedicare alla propria persona e al proprio benessere, mentre spesso viene speso in
attività obbligate legate alla cura della casa e della famiglia: In genere se è “tempo libero” è veramente tempo dedicato solo a me stessa ed è veramente poco, perché ogni weekend trovo sempre qualcosa da fare o tempo da dedicare a qualcun altro. (Int. 14, D., 31 anni, laureata, co.co.co , vive sola, 1.300 euro mensili) Sì va beh, certo, il tempo libero, non lo intendo come tempo.. cioè tempo libero lo intendo come tempo in cui posso fare le cose per me e basta! Se devo fare la spesa o preparare da mangiare o queste cose qui non lo intendo come tempo libero (Int. 21 ,D., 26 anni, diplomata, tempo determinato,vive con i genitori, 400-600 euro mensili)
3.3 La rinuncia al leisure, alla socialità e ai consumi culturali
Come abbiamo visto, la crescente de-standardizzazione degli stili di vita e la
conseguente disgregazione del piano delle abitudini e delle routine rendono difficoltoso
intessere legami sociali, sia sul lavoro che in altri contesti, rischiando di portare ad un
impoverimento delle reti sociali a disposizione dei giovani flessibili.
Recenti ricerche (Magatti, de Benedittis 2006) evidenziano come, per contrasto, la sfera
dei consumi e dello svago (leisure) stia assumendo una funzione compensativa sempre
più significativa sul piano dell’aggregazione e dell’integrazione sociale. È indubbio
infatti che – al di là del giudizio di valore che possiamo esprimere e di una diffusa
retorica sui “non luoghi” – nell’esperienza sociale contemporanea, sopratutto nelle
grandi città, alcuni luoghi di consumo rappresentano per le giovani generazioni
Liberi dal pensiero del lavoro
33
importanti spazi di socialità, aggregazione e scambio. Come mostrano eloquentemente i
dati della ricerca appena citata4, in ambiti dedicati allo svago – quali centri commerciali,
locali, pub serali, ma anche palestre, corsi di lingue, musica e ballo, cineforum... – le
routine sembrano poter essere ricostituite e condivise, con effetti importanti sul senso di
appartenenza sociale e integrazione individuale, nonché sullo sviluppo di legami sociali.
Diversi autori hanno messo in luce il ruolo del leisure come fattore di definizione
dell’identità, attraverso l’acquisizione di habitus specifici (competenze, reti di relazioni,
preferenze culturali), che si manifestano nelle attività esperite e negli ambiti frequentati,
e che possono favorire la formazione di quelle che Bauman (2001) chiama “comunità
piolo”, riferendosi a gruppi uniti da gusti e stili di consumo definiti.
Ora, l’accesso alla sfera alquanto differenziata del consumo e del leisure (si pensi alle
diverse forme, più o meno elitarie o popolari, di consumo culturale) non è un processo
libero e “naturale”. Al contrario, presuppone la disponibilità e l’attivazione da parte dei
soggetti di risorse sia materiali che simboliche. Una prima risorsa necessaria è quella
temporale – in termini sia di tempo non occupato dal lavoro sia di congruenza tra
momenti liberi e ritmi sociali dei servizi di leisure – che, come abbiamo appena visto,
è piuttosto scarsa tra i giovani flessibili. Dal momento che il lavoro tende ad assorbire
tempo ed energie, gli intervistati sono portati ad accantonare, o comunque a diradare,
quelle attività “non necessarie” che erano soliti fare nel tempo libero – andare al
cinema, a teatro, in palestra, uscire con gli amici – sperando di riprendere a svolgerle
con la frequenza desiderata in futuro.
Da quando lavoro, tipo non vado più in palestra, perché non ce la facevo coi tempi…o molte volte devi rinunciare ad un’uscita, forse anche per carattere…ci sono dei giorni in cui arrivi talmente stanca dal lavoro che l’unica cosa che vuoi è andare a letto a dormire; si, certo in palestra non ci vado più, ci andavo quando ero in università perché non ho più tempo..oppure per anni sono stata abbonata a teatro e quest’anno non ho rinnovato l’abbonamento... però, per dirti..conto di rifarlo l’anno prossimo (Int. 37, D., 26 anni, laureata, contratto a progetto, vive con i genitori, 400-600 euro mensili)
Un ulteriore vincolo è dato certamente dalle risorse economiche. Come abbiamo
sottolineato, la maggior parte degli intervistati deve fare i conti con redditi spesso
appena sufficienti a coprire le spese obbligate e, più generale, con una discontinuità e
incertezza lavorativa. In questa situazione, sopratutto chi vive solo o comunque non può 4 Si consideri, ad esempio, che fra chi ha un alto indice di consumi (legato in buona misura alla frequentazione dei luoghi di “consumo sociale”) la frequenza quotidiana degli incontri amicali è del 40%, mentre tra chi ha un basso indice raggiunge solo il 17% (Magatti, De Benedittis 2006: 82).
Risorse insufficienti per cogliere le opportunità offerte dalla città
34
contare sul sostegno della famiglia d’origine, tende ad operare giocoforza una riduzione
del “superfluo”, tagliando ulteriormente le occasioni di svago e consumo culturale. Anche molto scioccamente a me piace molto il cinema, volevo fare un abbonamento per tutto l’anno e non so se farlo oppure no perché dici “rimango [al lavoro] o non rimango?”. (Int. 8 ,D., 31 anni, laureata, contratto a progetto, vive sola, 900-1.100 euro mensili) Sicuramente taglio le spese per il divertimento. Ad esempio, la pizza il sabato…uscire a Milano è una spesa notevole. In un periodo di ristrettezza si incomincia a tagliare quello. Andare al cinema, anche quello…dipende poi dalle ristrettezze. Sicuramente spendere in una serata 20-25 euro se si hanno delle ristrettezze si evita. (Int. 7 D. 32 anni, laureata, tempo determinato,vive sola, 1.100-1.200 euro mensili)
La rinuncia al leisure, alla socialità e ai consumi culturali diffusa tra i giovani flessibili
potrebbe apparire a prima vista un aspetto ovvio e poco significativo. Al contrario va
letto come una sorta di “campanello di allarme” da raccogliere ed ascoltare con
particolare attenzione.
Innanzitutto per il ruolo che occupa nelle narrazioni, ponendosi come un elemento in
grado di condizionare pesantemente sia il vissuto che le auto-rappresentazioni dei
giovani flessibili. In questo senso si può dire che la limitazione che subiscono gli
intervistati è sia diretta che indiretta, configurandosi come una forma di deprivazione
relativa. La profonda frustrazione che procura il rinunciare ad uscire con gli amici, a
partecipare a corsi, ad andare ad un concerto, è infatti acuita dalla percezione di vivere
in un ricco contesto metropolitano che offre uno spettro di opportunità culturali e di
svago ampio e diversificato, a cui però si accede con difficoltà e non con la frequenza
desiderata. Ma il disappunto nasce anche dal fatto che diventando autonomi dai genitori
gli intervistati sono costretti a modificare lo stile di vita che erano andati definendo
negli anni precedenti, stile di vita generalmente improntato – grazie alle risorse
famigliari e alla crescita del capitale culturale a disposizione delle nuove generazioni –
proprio ad un’assidua frequentazione di occasioni di svago e consumo culturale.
In ogni caso, non è solo sul piano della soddisfazione e del benessere individuale che
questa limitazione può avere effetti significativi, ma anche rispetto ad un rischio sociale
più profondo. Il lavoro precario sembra infatti configurarsi come un’esperienza che non
favorisce l’integrazione sociale dell’individuo entro una più ampia rete di rapporti e
scambi. La moltiplicazione delle forme che il lavoro assume, la riduzione dei momenti
di simultanea presenza con i colleghi entro spazi comuni, l’instabilità e frammentarietà
delle esperienze lavorative rendono più difficile la nascita e lo sviluppo di legami
Impoveri-mento del capitale sociale
35
sociali. La contrazione delle spese per lo svago e la socialità ha come effetto l’ulteriore
impoverimento della rete sociale, che risulta vieppiù statica e ancorata alle relazioni
forti e alle amicizie “storiche”.
Ora, come hanno mostrano svariate ricerche, le reti sociali – amicali, familiari, di
semplice conoscenza – sono una forma di sostegno imprescindibile per affrontare una
necessità o superare una difficoltà, consentendo ad esempio, di ampliare le risorse
informative a disposizione per la ricerca del lavoro, per passare agilmente da un
contratto all’altro o per migliorare la propria posizione professionale.
E’ questo un sapere, per così dire, di senso comune – “avere le conoscenze conta” – che
ha trovato in ambito sociologico uno spazio di elaborazione teorica nel filone di studi
sul capitale sociale (Field 2004). Secondo questo approccio, le strutture relazionali in
cui gli individui sono inseriti possono essere considerate delle risorse potenziali per
l’azione. In questa prospettiva, il paniere di risorse a disposizione dell’individuo,
verrebbe ad essere costituito da capitale economico, culturale e anche sociale, indicando
con questo termine l'insieme di risorse – piccoli aiuti, scambi di informazioni,
disponibilità di mutuo appoggio, fiducia – derivanti dal proprio inserimento in una rete
stabile, più o meno istituzionalizzata, di relazioni mobilitabili per un fine personale. Il
capitale sociale può essere trasmesso per via ereditaria: la famiglia di origine e la rete
parentale trasmettono al soggetto parte delle risorse sociali in loro possesso. Provenire
da una famiglia appartenente a una classe superiore costituisce quindi un indubbio
vantaggio, in quanto ciò rende disponibile all’individuo una rete di relazioni di elevato
status socio-economico, in cui circola capitale sociale di buona qualità e in grado di
veicolare informazioni utili. D’altro canto, attraverso i rapporti professionali e amicali
che il soggetto sviluppa, il capitale sociale è oggetto di quotidiana trasformazione. Poter
dedicare tempo ed energie nella tessitura e nella manutenzione della propria rete sociale
è dunque un investimento, in termini di possibilità di accrescimento del paniere di
risorse a propria disposizione.
L’impoverimento del capitale sociale dato dalla difficoltà a consolidare e ampliare il
proprio network di contatti è dunque un ulteriore elemento di fragilità che si paventa nel
tempo per i giovani lavoratori precari.
36
37
IV.
La questione della progettualità
L’impossibilità di fare programmi a lungo termine è certamente il problema più sentito
dagli intervistati che la citano sistematicamente riflettendo sui problemi connessi alla
loro condizione lavorativa.
Aspetto positivo non lo vedo. L’aspetto negativo è l’impossibilità di fare progetti. (Int. 15 ,D., 26 anni, laureata,partita iva,vive in coppia, 700-900 euro mensili) Allora l’aspetto più negativo è il fatto che non dico si vive alla giornata, ma poco ci manca. La progettualità è relativa. Se mi voglio comprare una casa non me la posso comprare, i progetti a lungo termine non li posso fare perché non vengo accettato dal mondo del credito. (Int. 6 , U., 30 anni, laureato, tempo determinato, vive solo, 900,00 a 1.100 euro mensili) Non hai una busta paga.. non puoi avere un mutuo, non hai delle certezze, non puoi andare a vivere da solo.. non puoi avere una macchina.. Vado avanti? (Int. 13 D. 28 anni, laureata, partita iva,vive con i genitori, meno di 400 euro mensili) L’aspetto più negativo è sicuramente l’impossibilità di progettare un futuro. Questo credo che sia il problema più grande. (Int. 14 ,D., 31 anni, laureata, co.co.co, vive sola, più di 1.300 euro mensili) Il più negativo è il fatto di non poter fare progetti chiaramente, di vivere sempre al minimo, nel senso che vivo la mia vita quotidiana bene, ho da mangiare, ho un tetto però non è che posso pensare di comprami una casa o di mettere su famiglia…ma neanche comprarmi una macchina…proprio spese un po’ più grosse non se ne parla. (Int. 9 , D., 30 anni, laureata, contratto a progetto, vive con amici/conoscenti, 700-900 euro mensili)
4.1 Uscire di casa e difficoltà di accesso al credito
E’ ormai noto come nel nostro paese il passaggio verso la condizione adulta dei giovani
veda posticipare nel tempo la maggior parte degli eventi lifemarkers (conclusione degli
studi, ingresso nel mercato del lavoro, matrimonio, nascita del primo figlio). Si assiste
al fenomeno della “famiglia lunga”, ossia la permanenza particolarmente prolungata dei
giovani nelle famiglie di origine: nel 2003 vive con i genitori una quota pari al 87,9% di
coloro che hanno un età compresa tra i 20 e 24 anni (il 92,3% dei maschi e l’83,7%
38
delle femmine); il 61% di coloro di età compresa tra i 25 e i 29 (70,5% dei maschi e il
51,7 delle femmine) e tra coloro che hanno tra i 30 e o 34 anni circa il 30% (37,4% e
21,4% delle femmine); a titolo di confronto, basti pensare che solo il 21% dei tedeschi e
12% degli svedesi tra i 30 e i 35 anni vive ancora con mamma e papà (Istat 2004).
Sebbene le cause della lunga permanenza presso le famiglie di origine siano complesse
e difficilmente riducibili a pochi singoli fattori (Facchini 2002), certamente il reddito
insufficiente e incerto nella sua continuità ne appare una delle principali motivazioni. Il
desiderio di indipendenza e autonomia che emerge nelle narrazioni degli intervistati si
scontra con gli elevati costi di affitto di una casa a Milano.
Tra almeno tre anni, prima non posso proprio farcela. Vorrei andare a vivere da sola, non in coppia, fare la mia esperienza da sola. Non l’ho ancora fatto perché non ho i soldi per farlo. (Int. 5 ,D., 27 anni, laureata, tempo determinato e in nero, vive con i genitori, meno di 800 euro mensili molto variabili) No, vivo con i miei genitori. Proprio perché ho un reddito talmente basso che non potendomi mantenere… (Int. 12 , D., 22 anni, diplomata,contratto a progetto, vive con i genitori, 900-1.000 euro mensili variabili) Ma.. più che altro è un problema economico perché per pagare un affitto qui a Milano… ci vogliono un po’ di soldi! E non posso permettermelo proprio! (Int. 21 ,D., 26 anni, diplomata, tempo determinato, vive con i genitori, 400-600 euro mensili) Ci sono sempre problemi negli affitti….dato che il mio stipendio almeno per ora non mi permette di diventare completamente autonoma sono ancora con la mia famiglia (Int. 33 ,D., 34 anni, laureata,contratto a progetto, vive con i genitori, 400-600 euro mensili) E’ possibile che prenda in considerazione l’ipotesi di vivere con qualcuno, perché il reddito mio, e i prezzi delle case non mi permetterebbe di avere una bella casa da solo e potermela mantenere (Int. 38, U. 28 anni, diplomata, tempo determinato, vive con i genitori, 1.100-1.300 euro mensili variabili) Io mi sono trasferita qua perché non è possibile svolgere questo lavoro in altre città. Ho lavorato anche in altre città e Milano è piuttosto difficoltoso. La faccenda è di uno stipendio che potrebbe andare bene in sé e per sé, ma qua con un affitto di circa 500, 600 euro diventa veramente faticosissimo. (Int. 8 ,D., 31 anni, laureata,contratto a progetto, vive sola, 900-1.100 euro mensili)
Le preoccupazioni degli intervistati non appaiono del resto ingiustificate: una recente
indagine (Mencarini, Rettaroli, Rosina 2005) documenta come più di 2 giovani su 5 che
escono di casa sono poi costretti a rientravi per problemi connessi al lavoro e anche fra i
nostri intervistati non manca chi ha dovuto rientrare in famiglia a causa del mancato
rinnovo del contratto.
Avevo provato una volta ad uscire ma poi mi hanno detto che non mi rinnovavano il contratto.. e quindi ho preferito non azzardarmi… nel caso non mi avessero rinnovato il contratto non avrei potuto
I costi dell’affitto
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garantirmi un affitto. (Int. 24 ,U., 26 anni, diplomato,tempo determinato, vive con i genitori, 900-1.100 euro mensili)
Questa convivenza per certi versi obbligata è vissuta con insoddisfazione, soprattutto tra
coloro che iniziano a non essere più giovanissimi:
Mi pesa moltissimo essere a casa con i miei…ma non nego di avere dei grossi vantaggi… ciò mi consente di metter via qualche cosa in più per il mio futuro (Int. 34 , D., 30 anni, laureata, contratto a progetto, vive con i genitori, 900-1.100 euro mensili variabili) Vorrei moltissimo. Il mio più grande desiderio è riuscire a emanciparmi dalla mia famiglia ..(..) È la cosa che più mi pesa nella vita, è un’esigenza che ormai sento da molti anni. Davvero mi scoccia stare ancora dai miei genitori e dipendere da loro soprattutto economicamente… (Int. 5 ,D., 27 anni, laureata,tempo determinato e in nero,vive con i genitori, meno di 800 euro mensili molto variabili)
D’altronde anche l’accesso alla proprietà – spesso considerato un’alternativa al
pagamento di onerose rate di affitto – è precluso a lavoratori con redditi bassi o
comunque incerti, i quali difficilmente riescono ad accendere mutui, se non tramite
garante (i genitori).
Forse manca un adeguamento rispetto alle richieste, alle esigenze nuove che il lavoratore precario porta…Per cui io il mutuo l’ho ottenuto con la fiducia dei miei. (Int. 27 , U., 30 anni, diplomato, co.co.co, vive solo 1.300 euro mensili) Perché anche se una banca, vedendo il mio reddito potesse convincersi a concedermi un mutuo perché dice, beh più o meno un libero professionista che ha un reddito di questo tipo può essere in grado di pagare un mutuo… Ma sono io che mi preoccupo, non essendo io sicura di avere la possibilità di continuare a pagarlo l’anno successivo… difficilmente potrei pensare di intraprendere una cosa banalissima come comprare una casa che insomma a 32 anni quasi… (Int. 14 ,D., 31 anni, laureata, co.co.co, vive sola, 1.300 euro mensili)
Peraltro, la difficoltà non riguarda solo l’uscita di casa, ma investe in realtà qualsiasi
spesa oltre una certa soglia. Qualsiasi pagamento a rate o di una voce di spesa fissa,
che richieda dunque un’entrata costante, sulla quale non si può di fatto contare, può
diventare un problema. Ciò significa per esempio rinunciare ad alcuni beni – come
un’automobile o un computer – che in realtà possono essere spesso considerati “di
prima necessità” per lo svolgimento del proprio lavoro
Che ....non puoi progettare niente, non sai se il mese dopo riuscirai a tirar la fine del mese…io adesso non sono nella condizione di fare progetti a lungo termine…però, mi vien da pensare che essendo donna se vorrei fare un figlio non potrei farlo….(Int. 36 ,D., 27 anni, laureata, lavora in nero e con contratto a progetto, vive sola, 900-1.100 euro mensili) Non puoi fare nessun tipo di investimento nel senso che non puoi comprare una casa, un portatile…ne vorrei uno ma non posso pagarlo a rate. Quindi sono investimenti dal mutuo per una casa, che è molto
Difficoltà di accesso al mutuo
Fatica nell’acquisto di beni durevoli
40
impegnativo, a cose che rendono la tua vita più gradevole che possono essere i tuoi hobby le tue passioni…in questo senso qua hai dei contratti d’affitto che non sai gestire. (Int. 8 , D., 31 anni, laureata,contratto a progetto, vive sola, 900-1.100 euro mensili)
4.2 La famiglia di origine come unico punto di riferimento
La famiglia di origine appare l’unico appoggio e ammortizzatore sociale sul quale gli
intervistati possono contare, il che rimanda peraltro alla più generale centralità dei nessi
di solidarietà familiare nel sistema italiano di welfare (Saraceno 1998).
E meno male che ho una famiglia! Perchè se non avevo una famiglia un prestito nessuno me l'avrebbe fatto.. Non avrei pagato le tasse e avrei avuto dei problemi vari! (Int. 13 D. 28 anni, laureata, partita iva, vive con i genitori, meno di 400 euro mensili)
Come già emerso nel cap. 2, i genitori sono i principali sostenitori morali e materiali
del progetto professionale dei figli, accollandosi le spese della formazione lunga e
anche del mantenimento, laddove vengono accettate situazioni lavorative gratificanti
ma poco e per nulla retribuite. Non solo. I genitori sostengono infatti l’uscita di casa
dei figli, finanziando in buona misura il complesso di spese richieste da questo
passaggio.
All’inizio grazie ai miei genitori ho potuto trovare casa e affrontare le spese iniziali, cioè anticipare caparra più i tre mesi d’affitto perché io pago l’affitto anticipato di tre mesi in tre mesi. Quindi all’inizio avere l’affitto più la caparra più i soldi per arredare una parte della casa, che non era arredata. Tutto questo è stato grazie all’investimento dei miei genitori. Dal primo mese di stipendio sono andata avanti da sola in tutto. (Int. 7, D. 32 anni, laureata, tempo determinato,vive sola, 1.100-1.200 euro mensili) Beh mi hanno aiutato loro di spontanea volontà per acquistare la casa (Int. 4 , D., 30 anni, laureata, , tempo determinato, vive in coppia, da 900 a 1100 euro mensili) Mi hanno dato un contributo a fondo perduto e hanno messo la firma di concessione (Int. 27 ,U., 30 anni, diplomato, co.co.co, vive solo, superiore ai 1.300 euro mensili)
Fra gli intervistati più grandi – dai trent’anni in su e già usciti di casa – non sono
pochi coloro che devono accettare di continuare a farsi sostenere almeno in parte.
L’aiuto può essere elargito sia in modo sistematico e dichiarato, ad integrazione al
reddito, sia attraverso “regali” occasionali, quindi in modo indiretto e meno
appariscente, per spese che non ci si potrebbe permettere. Il nucleo familiare di origine
rimane poi l’unico punto di riferimento di fronte alle emergenze.
Il sostegno continua anche quando si vive da soli
La famiglia sostiene l’uscita di casa e la realizzazione professionale
41
Certe volte mi aiutano per forza. Proprio per la casa mi hanno dato i soldi necessari per la caparra. Una somma grossa da poter dare tutta insieme…qualche volta, perché ho cambiato diverse case a Milano, mi sono trovata a pagare da sola l’affitto perché non avevo l’inquilina, e loro mi hanno aiutato a coprire tutta la cifra. (Int. 9 ,D., 30 anni, laureata,contratto a progetto, vive con amici/conoscenti, 700-900 euro mensili) Ci sono sicuramente delle cose che io non mi permetto perché ovviamente non ho una redditività sufficiente per permettermi alcune cose… per esempio, i completi, le cose pregiate che ho.. io non me le compero…mi arrivano come regalo a Natale. (Int. 42 ,U., 32 anni, laureato, partita Iva, vive in coppia , 1.100 euro mensili) Aiuti sporadici ci sono, quando hanno la possibilità…ti possono regalare, che so, un mobile, piuttosto che il televisore…se ti possono aiutare ti aiutano.(Int. 46 ,U., 34 anni, diplomato, lavoro in nero, vive solo, 1.000 euro mensili) Ai miei ho chiesto un prestito per l’acquisto della cucina…stavo lavorando ma in quel momento era una spesa extra che non potevo sostenere… perché avevo speso tutto quello che potevo per la casa, quindi per l’anticipo, per il notaio, per le 1000 spese che subentrano e quindi ho dovuto chiedere in prestito i soldi per saldare la cucina. (Int. 28 , D., 33 anni, diplomata, tempo determinato, vive sola, 1.300 euro mensili) Nel caso in cui starò male, credo che quella cosa lì me la pagheranno loro perché io non ho più un soldo in banca. Una quantità di soldi sistematica durante il mese non mi viene data, possono essermi fatti dei regali, che io accetto molto gradevolmente. Nel caso in cui ci siano delle spese impreviste mi hanno sempre dato la loro disponibilità. (Int. 8 ,D., 31 anni, laureata,contratto a progetto, vive sola, 900-1.100 euro mensili) Se ci fossero delle emergenze ho la fortuna di avere ancora i genitori che mi possono aiutare. Al momento ho coperto il periodo dei 21 giorni in cui non sono stata retribuita con la tredicesima, che per noi diventa il dodicesimo stipendio, e grazie a questo questa volta non devo pesare sulle spese dei miei genitori. (Int. 7 D. 32 anni, laureata, tempo determinato, vive sola, 1.100-1.200 euro mensili)
L’impressione che si trae dalla interviste è quella comunque di figli che non accettano a
cuor leggero di dipendere economicamente dai genitori. Si vive questa situazione con
imbarazzo, in parte come una sconfitta. Senza esitazioni, quasi con orgoglio, la
stragrande maggioranza degli intervistati già usciti di casa dichiara di aver resistito,
nonostante le difficoltà e i numerosi “periodi bui”, alla tentazione di tornare dai
genitori. Cavolo! Quasi ogni giorno mi dico: ma torna a casa che è tutto più comodo! Però so che non è giusto…e in fondo non voglio…è bello essere indipendenti. So che loro sono li…però voglio essere capace di gestirmi la mia vita…voglio poter comprare e fare ciò che voglio con i soldi che mi guadagno… e se non posso…rinuncio! (Int. 22 , D., 22 anni, diplomata, contratto 30 giorni, vive sola, 600 euro mensili variabili)
42
4.3 La progettualità di coppia
Circa un quinto degli intervistati vive già da qualche tempo con il proprio partner,
spesso a sua volta lavoratore precario. In questi casi, la condizione di incertezza e
instabilità sembra pervadere l’intera vita quotidiana della giovane coppia, che non riesce
a tenere lontani i problemi, soprattutto di natura economica:
Per questa situazione di precarietà spesso siamo stressati.. mancano i soldi e si diventa anche pesanti a volte, non è bello. Anche quando siamo fuori con gli altri.. anche bere qualcosa in più diventa un problema.. lei mi fa le facce.. se magari prende qualcosa lei allora io non prendo niente… è brutto ma è così.. (Int. 25 ,U., 27 anni, diplomato, tempo determinato,vive in coppia, 700-900 euro mensili)
Altrettanto evidente è il disagio di fronte alla programmazione delle scelte importanti.
E’ percepibile nelle narrazioni il predominare del vivere alla giornata; i progetti
importanti restano vaghi e vengono per lo più rimandati: se ne parla, ci si pensa, ma
nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di ipotesi dai contorni sfumati, collocate
in un futuro indefinito, ma che dovrebbe essere caratterizzato da una maggiore sicurezza
economica e lavorativa. Avere figli io la vedo molto difficile.. fosse per lui mi sposerebbe domani… andare a vivere insieme… Però onestamente... vista la situazione di entrambi non penso...è una prospettiva, chiaramente, che c’è, altrimenti la relazione si sarebbe già interrotta. Però visto che entrambi abbiamo una situazione simile…non è che questo annulla i progetti, ma abbiamo posticipato la prospettiva. (Int. 29 D. 29 anni, laureata, co.co.co., vive sola, 900-1.100 euro mensili) Ho paura… perché quando io penso alle cose, vorrei che succedessero subito…però le spese, ed il resto, mi fan pensare che magari non è vero che queste scelte vengano fatte veramente…allora, ho paura di no, ma magari si. (Int. 30 , D., 28 anni, laureata, partita iva, vive in coppia, 700-900 euro mensili)
L’aspetto sentito come più penalizzante – sopratutto dalla componente femminile, ma
non solo – è certamente inerente al decidere di avere un figlio. I principali problemi
riguardano l’incertezza del reddito, l’assenza di adeguate tutele in grado di garantire il
mantenimento e l’eventuale rinnovo del contratto in caso di maternità, l’impossibilità di
fronteggiare la perdita dello stipendio femminile. Questi ostacoli diventano quasi
insormontabili nel caso in cui – ed è però una situazione alquanto diffusa – entrambi i
partner non si trovano in una posizione lavorativa stabile. Dato che abbiamo in previsione di avere un figlio, cerchiamo di tagliare: usciamo pochissimo.. se usciamo, usciamo il sabato ma pochissimo (...) E appunto, come ti ho detto, avendo una famiglia non è facile sapere che il tuo contratto scadrà per cui non puoi magari avere quelle sicurezze…anche perché il
Difficoltà nei progetti importanti
Maternità: una scelta difficile
43
mio reddito non è altissimo quindi.. mi piacerebbe avere un contratto un po’ più sicuro anche perché devo pagarmi il mutuo, inoltre mia moglie lavora anche lei, perché è abbastanza precaria anche lei, non ha un reddito molto alto, in più vorremmo… cioè la nostra idea sarebbe quella di avere un figlio abbastanza presto per cui.. (Int. 25 U., 27 anni, diplomato, tempo determinato, vive in coppia, 700 euro mensili) Il fatto di non poter, per esempio programmare di fare un figlio, questo per quanto mi riguarda è l’aspetto più penalizzante (Int. 28, D., 33 anni, diplomata,tempo determinato, vive sola, 1.300 euro mensili)
Il fatto stesso che io per fare un figlio ho dovuto aspettare che mio marito avesse un contratto a tempo indeterminato, perché comunque c’è sempre la paura che magari l’anno dopo non vieni assunta, e allora come fai a farti una famiglia, a prenderti certe responsabilità? (Int. 39 , D., 25 anni, diplomata, tempo determinato, vive in coppia, 1.100-1.300 euro mensili)
In ogni caso, per una lavoratrice precaria, questa scelta si traduce nel dover dipendere
economicamente dal marito: certamente nel periodo della maternità, ma con la
preoccupazione di non riuscire a rientrare nel mercato de lavoro e trovarsi di fronte a
una scelta definitiva. Mi hanno lasciata a casa per la maternità. (Int. 4 , D., 30 anni, laureata, tempo determinato, vive in coppia, da 900 a 1100 euro mensili) L’aspetto negativo è quello che, vista l’età, che comunque sono in un’età in cui ci vorrebbero più certezze… ecco, mi spaventa la possibilità di dover scegliere prima o poi tra magari un figlio ed il lavoro, perché al momento non ho questa necessità, e in effetti alla fine della fiera continuare tutta la vita con un contratto a tempo determinato non mi comporterebbe problemi, tranne che questo. La scelta poi di un figlio che è l’unico caso in cui la possibilità di essere riassunta sarebbe davvero una vana speranza. (Int. 7 D. 32 anni, laureata, tempo determinato, vive sola, 1.100-1.200 euro mensili)
E’ significativo che alcune donne affermino esplicitamente il proprio sollievo nel non
aver nessuno da mantenere, visti i problemi che ciò comporterebbe. Per fortuna che non c’è nessuno che ha bisogno di me! Perché se qualcuno avesse bisogno di me sarebbe molto più difficile avere comunque un equilibrio. (Int. 13 D. 28 anni, laureata, partita Iva, vive con i genitori, meno di 400 euro mensili)
..
Preoccupazione per la possibile rinuncia al lavoro
44
45
V.
Che fare? Esempi di azioni innovative
a sostegno dei lavoratori atipici
Le azioni a sostegno dei lavoratori atipici rintracciabili in ambito italiano possono
essere distinte in base agli attori coinvolti. Infatti, possiamo distinguere tra azioni:
1. promosse da attori istituzionali sia pubblici che privati (camere di commercio,
associazioni datoriali, organizzazioni sindacali, università...);
2. promosse da attori privati (imprese, società, cooperative, associazioni...), anche in
partnership con attori istituzionali;
3. spontanee (promosse dagli stessi lavoratori atipici che ne beneficiano).
5.1 Azioni promosse da attori pubblici istituzionali
Tra le numerose esperienze rintracciabili ne segnaliamo alcune che, per numerosità
degli attori attivati, per estensione del policy network e per pluralità di azioni messe in
campo sembrano fornire numerosi spunti per definire possibili strategie d’azione future
anche nel territorio della Provincia di Milano.
Un primo gruppo comprende esperienze accomunate tra loro dal fatto di rientrare
nell’ambito di progetti finanziati dall’iniziativa europea Equal. L’obiettivo di Equal è la
promozione di nuovi strumenti per combattere le forme di discriminazione e di
disuguaglianza nel contesto del mercato del lavoro attraverso una collaborazione attiva
di diversi attori istituzionali al fine di unire le diverse esperienze e competenze. A
questo scopo essa riunisce attori chiave di un settore o di una zona geografica, pubblici
e privati, profit e non profit, chiedendo loro di lavorare in partnership unendo le
rispettive esperienze e competenze, attivate nell’ambito di una “Partnership di
sviluppo”.
Il quadro delle azioni presentate in questo capitolo è indicativo delle principali modalità esistenti e alla
sua organizzazione ha collaborato Lorenzo Radice.
46
Entro questo tipo di cornice sono nati in Italia diversi progetti che hanno tra i loro
“target” i lavoratori atipici, e tra questi quelli giovani in particolare.
Segnaliamo quali buone pratiche:
• la convenzione promossa dalla Provincia di Milano con la Camera di Commercio di
Milano e le istituzioni finanziarie Consum.it (Gruppo MPS) e la Banca Popolare di
Milano per consentire ai lavoratori assunti con contratto atipico non subordinato di
accedere al credito al consumo e ai prestiti personali superando la condizione di
“non bancabili” [http://www.provincia.milano.it/sicurezza_lottausura/index.jsp];
• il progetto nazionale CALA [http://www.progettocala.it/], il cui obiettivo specifico è
di combattere le forme di discriminazione e di disuguaglianza mediante la
progettazione e sperimentazione di Centri di Aggregazione e servizi per il Lavoro
Autonomo, coinvolge i Comuni di Milano e Torino, le Province di Genova e Napoli
oltre ad altri 10 attori istituzionali e privati;
• il progetto CALA di Torino [http://sportellounico.comune.torino.it/cala/
index.html], parte del progetto CALA nazionale, è strettamente collegato ad altri
programmi Equal geografici ai quali il Comune partecipa (Equal Ductilis, Qualiter,
INTERALE), oltre che al programma URBAN II. E’ inoltre intrecciato ad altre
azioni avviate dal Comune su questo terreno con lo Sportello Unico per le attivita’
produttive, con la Provincia di Torino per la gestione del servizio MIP (Mettersi In
Proprio) che fornisce consulenze rivolte ai soggetti interessati a forme di
autoimpiego, con la Camera di Commercio, e con una rete di molteplici attori del
territorio (agenzie formative, cooperative sociali, associazioni datoriali e
sindacali…);
• il progetto trentino SAVE [http://www.acttrento.net/save/], che si pone l’obiettivo di
ridurre lo svantaggio dei lavoratori atipici valorizzando la loro competenza al fine di
favorirne l’inserimento professionale, coinvolge la Camera di Commercio di Trento,
l’Ente Bilaterale Artigianato Trentino, l’Istituto Trentino di Cultura, l’Università
degli Studi di Trento - Dipartimento di Scienze Giuridiche;
• il progetto ligure PERSONE [http://www.equalpersone.it/], che ha per scopo quello
di creare un sistema integrato di luoghi reali e virtuali per offrire ai lavoratori non
standard e ai disabili informazione, consulenza, aggregazione, apprendimento e
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scambio di esperienze, coinvolge tutte le Province liguri oltre ad alcune associazioni
e cooperative sociali;
• il progetto LASA [http://www.laborazioni.it/], che ha come primo obiettivo quello
di creare un sistema territoriale e una cultura sociale in grado di valorizzare il lavoro
flessibile come opportunità di crescita, coinvolge il Comune di Santeramo in Colle
(BA) le Province di Bari, Lecce e Cosenza, oltre a otto partner istituzionali e privati.
Altri progetti sono stati implementati al di fuori delle linee di intervento previste da
Equal, da attori pubblici (spesso Regioni o Province) singolarmente o in partnership con
altri attori istituzionali e/o privati, a volte trovando anche appoggio entro altre “cornici”
europee (per esempio attraverso finanziamenti di provenienza FSE).
Tra questi segnaliamo come buone pratiche:
• il progetto Atipici e Atipiche in rete [http://www.atipici.net/], della Regione Emilia-
Romagna, cofinanzaito dal FSE;
• il progetto Prometeo [http://www.reteprometeo.net/], della Regione Toscana.
Nel complesso tutti questi progetti segnalati partono dal tentativo di rispondere ai
principali svantaggi che colpiscono i lavoratori atipici:
1. asimmetria nelle conoscenze delle diverse forme di impiego, della domanda di
lavoro e dei diritti connessi alla condizione di lavoratore atipico;
2. maggiore difficoltà nel gestire lo stress connesso all’incertezza o alla non-
gratificazione professionale;
3. maggiore difficoltà nel costruirsi reti di relazioni e nello sviluppare sinergie
professionali con i colleghi rispetto ai lavoratori “standard”;
4. maggiore difficoltà di accesso all’apprendimento continuo rispetto ai lavoratori
“standard”;
5. maggiore difficoltà di accesso al sistema del credito rispetto ai lavoratori
“standard”;
Le azioni sviluppate fanno sostanzialmente riferimento a quattro assi di intervento:
1. creazione di luoghi fisici e virtuali per favorire l’incontro di lavoratori atipici con
“saperi esperti”, datori di lavoro e con altre persone nelle stesse condizioni
professionali;
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2. facilitazione della circolazione di informazione specificamente rivolta ai lavoratori
atipici;
3. sostegno alla formazione;
4. sostegno al credito e all’imprenditorialità.
Per quanto concerne il primo asse d’azione, generalmente i progetti tendono a
potenziare le reti di luoghi fisici esistenti sul territorio che già erogano servizi per i
lavoratori (Centri per l’impiego, sindacati, sportelli di orientamento comunali, ecc.),
affiancandoli a nuovi centri/sportelli specificamente rivolti a lavoratori atipici (lo
sportello CALA a Torino, il centro FlessibilMente a Trento, i Centri Servizi
Laborazioni del progetto LASA, ecc.).
Un punto particolarmente qualificante di alcune delle esperienze riportate è quello della
messa in rete degli sportelli territoriali attraverso la creazione di una rete informatizzata
che permetta l’aggiornamento continuo delle informazioni, la creazione di un data base
disponibile on line per gli operatori dei centri (oltre che per gli utenti e per i datori di
lavoro, limitatamente a certe informazioni), di aree di discussione e messaggistica che
consentano agli operatori e agli utenti dei centri di poter dialogare a distanza e far
circolare informazioni sulle problematiche connesse al lavoro atipico.
I servizi offerti da questi centri sono generalmente di tre tipi:
• fornitura di consulenze tecniche/specialistiche (legali, fiscali, in materia di diritto del
lavoro, ecc.);
• facilitazione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro;
• facilitazione della circolazione di informazioni relative al lavoro atipico, anche
favorendo momenti di incontro e dialogo tra atipici (per esempio un obiettivo del
progetto LASA è quello di creare un’associazione di lavoratori atipici meridionali) e
con la comunità di riferimento (per esempio organizzando eventi pubblici,
happening, ecc.).
Accanto agli sportelli o centri fisici tutti i progetti prevedono la creazione di “luoghi” di
incontro virtuali: il sito internet ha sempre un ruolo centrale in queste esperienze, in
quanto funge:
• da strumento di primo orientamento tra i servizi forniti nell’ambito del progetto;
Luoghi reali e virtuali di incontro e informa-zione
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• da fonte di informazioni spesso generiche, ma in alcuni casi anche
specialistiche/tecniche (in alcuni siti ci si può iscrivere a news letter, si può accedere
ai risultati di ricerche territoriali, in altri si possono ottenere consulenze
specialistiche on line, come nel caso del sito del progetto Atipici e Atipiche in rete);
• da luogo di incontro di altri atipici con i quali condividere esperienze e informazioni
(attraverso servizi come forum, comunità virtuali).
Un punto centrale in tutte le esperienze riportate è quello di sostenere i lavoratori
atipici nell’apprendimento continuo. Tale sostegno può essere fornito in tre forme
differenti, spesso compresenti tra loro:
• consulenza sui diritti relativi alla formazione;
• orientamento alle opportunità formative presenti sul territorio;
• sostegno dell’attività formativa, attraverso l’organizzazione di corsi, l’erogazione
di voucher formativi, ecc.
Anche l’aspetto del sostegno al credito e/o all’imprenditorialità sono azioni spesso
presenti e frequentemente correlate tra loro, che si esprimono in alcune iniziative le
quali:
• attraverso accordi specifici tra istituti di credito e le istituzioni coinvolte, consentono
un accesso al credito bancario più semplice (e a volte anche a fronte di scarse
garanzie reali) per giovani lavoratori atipici interessati ad avviare un’attività
imprenditoriale;
• sostengono e aiutano i lavoratori atipici ad accedere alle tradizionali forme di
credito.
• sostengono e aiutano i neoimprenditori ad accedere a risorse disponibili tramite
bandi e concorsi.
In questi casi la connessione tra servizi di consulenza e informazione e quelli di accesso
al credito forniti dal progetto stesso si intrecciano fortemente. Un esempio interessante è
quello torinese dove oltre alle consulenze del servizio MIP (Mettersi in Proprio),
l’utente può successivamente ricevere consulenze per partecipare a bandi di
finanziamento, oltre a trovare accesso in alcuni incubatori, parchi tecnologici e aree
attrezzate con finanziamenti pubblici presenti nel comune di Torino.
Sostegno a formazione, credito e imprendito-rialità
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Diversamente, il progetto della Regione Emilia-Romagna aiuta i lavoratori che
svolgono la propria attività in situazione di parasubordinazione e in condizioni
equiparate, e a lavoratori autonomi con o senza partita IVA, a presentarsi in maniera
credibile all’istituto di credito (o di rispondere correttamente a un bando, a
un’opportunità di finanziamento). Infatti, a differenza delle imprese tradizionali, questi
lavoratori non possono ricorrere ai dati di un bilancio per chiedere un finanziamento. Il
progetto della Regione, allora, fornisce consulenza per compilare un questionario che
consente loro di presentare una serie di dati completi e già rilevati, che illustrano le
caratteristiche della propria attività e motivano le proprie richieste di finanziamento
sulla base di una vera e propria analisi tecnica.
In qualche altro caso, infine, si sono avviati (o si stanno studiando le modalità per
avviare) esperimenti di microcredito volti a sostenere l’avvio di imprese.
5.2 Azioni promosse da attori privati
In questo ambito si segnalano soprattutto recenti azioni di istituti di credito che,
isolatamente o in collaborazione tra loro e/o con istituzioni, stanno tentando di
rispondere a uno dei più gravi problemi che affrontano i giovani lavoratori atipici:
quello dell’accesso al credito in assenza di garanzie di continuità nel reddito, soprattutto
quando un finanziamento serva per avviare un progetto di vita di lungo periodo
(acquisto di una casa, spese per un matrimonio, ecc.).
A fronte di tale problema negli ultimi anni alcune banche hanno lanciato prodotti
(soprattutto mutui) ad hoc. Per esempio la Banca di Roma ha realizzato un
finanziamento dedicato a giovani lavoratori che non abbiano più di 35 anni,
indipendentemente dal fatto che abbiano un contratto di lavoro a termine o meno. Altre
condizioni per accedere sono l’aver svolto un’attività lavorativa per almeno 30 mesi
negli ultimi 3 anni - con eccezione delle prestazioni occasionali; che il rapporto rata-
reddito non sia superiore al 35% e che i richiedenti siano non più di due.
Altre volte, invece, si segnalano accordi tra diversi partner privati e istituzionali sempre
nella direzione di superare i problemi che limitano l’accesso al credito per gli atipici.
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Un esempio interessante è la convenzione stipulata nell’ottobre 2005 tra Provincia di
Milano, Banca popolare di Milano, Camera di commercio di Milano e Consum.it Spa
del gruppo Monte Paschi di Siena.
La convenzione vuole permettere ai lavoratori assunti con contratto atipico non
subordinato l’accesso al credito, al consumo e ai prestiti personali, superando la
condizione di "non bancabili". Essa prevede che il tasso di interesse applicato alle
operazioni in convenzione non solo non potrà superare il tasso soglia, ma non dovrà
neppure essere superiore al tasso medio stabilito dalle autorità competenti per ciascuna
categoria di operazioni. La misura del finanziamento, è stabilita in una soglia di 4.000
euro, elevabile fino a 10.000 nel caso di acquisto di autovettura. Il Fondo di garanzia
costituito dalla Provincia e dalla Camera di Commercio interviene, in caso d’accertato
inadempimento da parte del lavoratore, per coprire il 50% della passività. L’impegno di
MPS e BPM è quello di erogare crediti per 20 milioni di euro in tutto il territorio
provinciale.
5.3 Azioni spontanee
Le esperienze di sostegno spontaneo tra lavoratori atipici vertono sostanzialmente
intorno a due modalità. La prima consiste nella realizzazione di spazi nella rete
telematica che, generalmente, fungono da ambienti virtuali aperti a, e pensati per, I
lavoratori atipici stessi. La seconda modalità di sostegno si concretizza nella creazione
di gruppi, coordinamenti, associazioni, ecc. che aggregano tra loro lavoratori atipici. Le
due forme sono in realtà spesso intrecciate tra loro, poiché è frequente che un gruppo
realmente esistente crei anche un proprio spazio virtuale (sito internet) avente anche le
caratteristiche accennate poco sopra.
In entrambi i casi, comunque, si tratta di realtà che tendono a configurarsi come spazi
reali e/o virtuali dove si produce una forma di mutuo-aiuto prevalentemente basata sulla
possibilità di esprimere individualmente o collettivamente la propria critica, quando non
una vera e propria contestazione, nei confronti del sistema occupazionale presente,
crescentemente caratterizzato da precarizzazione e atipicità delle forme di impiego.
Il primo tipo di esperienze riguarda una miriade di spazi telematici realizzati da
singoli individui o piccoli gruppi di persone, con due principali scopi. Il primo, dare
Creazione di spazi telematici
52
uno spazio di discussione, aggregazione, sostegno reciproco, condivisione di esperienze
e sentimenti, tipicamente si realizza attraverso la forma del “blog” o della comunità
virtuale. Il secondo scopo, diffondere e condividere informazioni e conoscenze, a volte
anche tecniche, sulla propria condizione di lavoratori atipici, si raggiunge attraverso la
creazione di siti internet dai quali si può accedere a sezioni tematiche o, a volte, a
“servizi” di informazione a richiesta, quali news letter e webzine. Un esempio è il sito
http://invisibili.altervista.org, dal quale si può accedere a “Invisibili” una pubblicazione
telematica sul lavoro atipico e i lavoratori atipici, distribuita gratuitamente per posta
elettronica a chi si registra, in parte creata con i contributi dei lettori stessi, che possono
collaborare con articoli, comunicati stampa, notizie, recensioni di libri, lettere, ecc.
Attraverso il blog si crea una sorta di diario personale on line, che può essere aperto
anche agli utenti del sito, permettendo loro di commentare quello che i fondatori del
blog pubblicano.
La comunità virtuale, invece, si crea intorno a un sito internet vero e proprio, accedendo
al quale ci si può iscrivere a un forum, dove gli utenti registrati possono sviluppare
discussioni e confronti su temi liberamente scelti o proposti dai curatori del sito stesso
(per degli esempi si vedano: http://www.biblioatipici.it o http://www.anagrafeprecari.it).
Esistono poi delle forme “intermedie” che usano la forma del blog per creare qualcosa
di parzialmente diverso. Per esempio vi sono blog definibili al tempo stesso come siti
internet intorno ai quali si crea una comunità virtuale, sia per la ricchezza dei contenuti,
sia perché danno la possibilità a chiunque si registri di lasciare i propri messaggi. Ne
esistono altri dove i curatori inseriscono solo particolari tipologie di scritti che hanno
una valenza informativa precisa. Un esempio è: http://precarinews.blogspot.com, dove
vengono pubblicati solo articoli, comunicati stampa, notizie inerenti il lavoro e i
lavoratori precari. O, ancora, si trovano blog curati da un gruppo di persone organizzato
anche nella realtà (per esempio: http://www.bloggers.it/AcasaDilaria/index.cfm).
Attraverso la reale creazione di gruppi, coordinamenti, associazioni di lavoratori
atipici, invece, l’aggregazione avviene o meramente sulla base dell’appartenenza a
questa “tipologia” lavorativa o, molto più spesso, sulla base di una duplice appartenenza
categoriale. In questi casi, all’essere lavoratori atipici si aggiunge un altro elemento
aggregativo o identitario, che può spaziare dalla condivisione del carattere precario del
Realtà associative
53
proprio impiego, all’appartenenza a una precisa categoria professionale; dalla
condivisione delle responsabilità genitoriali, all’appartenenza di genere o generazione, e
così via.
Su questa base sono rintracciabili esperienze di varia natura. Si spazia dalle associazioni
di livello nazionale, a gruppi spontanei, coordinamenti, movimenti e associazioni
insistenti su territori molto circoscritti.
Nel primo gruppo rientrano per lo più realtà afferenti a particolari settori lavorativi, o a
particolari forme di impiego. Tra gli esempi possibili segnaliamo la Rete dei Ricercatori
Precari [http://www.ricercatoriprecari.org], il Comitato Insegnanti Precari –
Associazione Nazionale [http://www.cipnazionale.it], il Coordinamento Precari di
Roma e Nazionali [http://sosprecari.it] che aggrega soprattutto lavoratori di cooperative,
del settore scolastico e socio-sanitario, o ancora l’Associazione Nazionale Lavoratori
Esternalizzati [http://www.ilvascellofantasma.it].
Tra i secondi si potrebbero citare un numero vastissimo di realtà, dai coordinamenti dei
lavoratori precari di moltissime università (Bologna, Milano, Roma, Torino, ecc.),
pubbliche amministrazioni (dalle Regioni, alle Provincie, ai Comuni), sedi locali di
aziende private (Poste, Telecom, ISTAT, ecc.), fino ai gruppi, coordinamenti e
associazioni di livello cittadino.
In quest’ultimo gruppo rientrano alcune esperienze spontanee, sorte soprattutto nelle
città grandi (ad esempio Torino, Milano, ecc.) e medio-grandi (Livorno, Pisa, Padova,
ecc.) da lavoratori atipici provenienti da centri sociali, movimenti, associazioni e
organizzazioni afferenti alla cosiddetta “sinistra antagonista”. Si tratta di realtà
particolarmente interessanti in quanto sono tra le poche che non si caratterizzano solo
per una proposta di critica oppositiva e orientata al rifiuto del sistema occupazionale
presente, ma anche per la proposta di iniziative, eventi pubblici e azioni volte a
sensibilizzare l’opinione pubblica e i livelli politici rispetto alle problematiche e alle
rivendicazioni dei lavoratori atipici e, soprattutto, dei giovani precari.
Un esempio sono le esperienze realizzate a Torino, dove il Movimento Precari di Torino
(da cui è nata anche l’Associazione mamme precarie), in occasione della MayDay
Parade5 organizza nel 2005 il “Lazzaretto Precario” e nel 2006 “L’AltraCampagna”. Nel
5 Si tratta di una manifestazione tenuta a Milano negli ultimi anni contro il precariato, organizzata nel giorno della Festa dei Lavoratori da centri sociali, gruppi, organizzazioni e associazioni di sinistra.
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primo caso si realizza un campo di raccolta dei precari cittadini, nel quale si svolge una
tre giorni di incontri, festa, dibattito, azioni, musica, danze, proposte e proteste.
Con l'AltraCampagna, invece, si mette in scena una periodica campagna elettorale nella
quale si “candida” una precaria (il cui nome, Marisa Precurte, è un acronimo del nome
del loro sito internet: http://www1.autistici.org/precarisumarte) che porterà avanti
presso le amministrazioni locali le richieste e le rivendicazioni di tutti i precari.
Altro caso di azione auto-organizzata da un movimento cittadino è quello milanese,
balzato agli onori delle cronache nel 2005, dell’invenzione e della registrazione del
marchio di moda “Serpica Naro” (altro acronimo, questa volta di San Precario, figura
simbolo della contestazione del precariato proveniente dai centri sociali delle grandi
città italiane), intorno al quale il movimento cittadino ha anche creato un sito internet
aperto ai contributi dei navigatori che si propone come “laboratorio di stile [artistico e di
vita] precario, per raccogliere le auto-produzioni per socializzare le competenze
lavorative e le informazioni” [http://serpicanaro.realityhacking.org].
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CONCLUSIONI
Il paradosso del lavoro flessibile:
chiede molto, restituisce poco
Come abbiamo visto, flessibilità e precarietà lavorativa esercitano un impatto
significativo sul vissuto e le auto-rappresentazioni dei giovani intervistati. Pur
considerando l’eterogeneità di situazioni che il mondo flessibile incorpora al suo
interno, dalle narrazioni è emerso un profilo eloquente delle opportunità e, sopratutto,
dei vincoli coi quali i giovani lavoratori si trovano quotidianamente a confrontarsi,
avendo a disposizione risorse che paiono per lo più insufficienti ed inefficaci sia per
cogliere le occasioni che per fronteggiare le difficoltà. Anche in prospettiva – sul piano
delle scelte, i percorsi e le chance future – la condizione di lavoratore flessibile sembra
delineare rischi preoccupanti. Infatti, oltre ad essere giorno per giorno incerto e faticoso,
muoversi e interagire nel nuovo contesto definito dalla configurazione flessibile del
mercato del lavoro potrebbe avere effetti potenzialmente deflagranti sulla definizione
dei progetti di vita e delle personalità sociali degli intervistati. Saremmo di fronte ad una
sorta di paradosso, per il quale i giovani flessibili si ritrovano prigionieri di una
dimensione lavorativa che chiede e assorbe molto, in termini di tempo ed energie, ma
che restituisce ben poco in cambio, in termini di risorse, sicurezza e soddisfazione.
Il grafico 1 illustra l’impatto che il lavoro precario esercita sulla vita presente degli
intervistati e le ombre che getta sulle loro prospettive future. Le conseguenze del regime
della flessibilità e dell’instabilità lavorativa sono state analizzate in una prospettiva di
breve e di lungo termine (assi orizzontali) che ha preso in considerazione sia la
dimensione professionale sia il piano famigliare e della riproduzione sociale (assi
verticali).
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Grafico 1 – Effetti della precarietà a breve e lungo termine sul piano professionale e della riproduzione sociale
Dimensione professionale: effetti dal breve al lungo periodo
Nel breve termine la pratica e la filosofia del mercato del lavoro flessibile sembrano
essere accolte positivamente dagli intervistati (ambito del “fare esperienza”, in basso a
sinistra nel grafico). Molti sottolineano come nei primi anni di esperienza lavorativa la
flessibilità permette di “sperimentare situazioni diverse”, consentendo di “mettersi alla
prova con sé stessi” e di “essere sempre dinamici e attivi”. In un contesto come quello
milanese, che offre una vasta gamma di opportunità e che permette di non rimanere a
lungo senza occupazione, è possibile in pochi anni farsi molte esperienze, cambiando
lavoro o portando avanti contemporaneamente occupazioni diverse. Specie nei casi in
cui non c’è alle spalle un progetto professionale forte, “provare” diversi lavori viene
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vissuto come un’occasione che consente di “guardarsi un po’ intorno”, mettendosi in
gioco in ruoli e settori differenti. Viene posto l’accento sul fatto che i contratti a
termine, incentivando la mobilità, offrono un’opportunità formativa e permettono di
mettere a fuoco quelle che sono le proprie aspirazioni, capacità e interessi.
Nei primi anni di lavoro gli intervistati sembrano quindi disposti a porre in secondo
piano gli eventuali svantaggi che possono derivare dall’instabilità, al fine di crescere
professionalmente e trovare l’occupazione più adatta per sé, anche se ciò può significare
svolgere attività scarsamente o per nulla retribuite. La valutazione positiva è rafforzata
dal fatto che accumulare esperienze lavorative “fa curriculum”, in altre parole dovrebbe
rafforzare la propria posizione sul mercato e favorire quindi un inserimento più stabile.
Emergono tuttavia significativi elementi di criticità e di rischio connessi alla scarsa – e
in taluni casi pressoché nulla – coerenza fra le esperienze lavorative che si vanno
inanellando. Nei fatti la molteplicità di occupazioni svolte finisce spesso per risultare un
insieme caotico di esperienze frammentarie e incoerenti, difficilmente spendibili e
inquadrabili in un qualche tipo di progetto professionale. Se si trascina troppo a lungo,
come spesso sembra accadere, la mobilità perde la funzione di sperimentazione, e di
conseguenza la sua valenza positiva, per diventare invece una condizione vissuta come
svantaggiante, negativa e frustrante.
Oltre a non permettere l’accumulo di competenze specifiche effettivamente spendibili
sul mercato del lavoro, l’instabilità rischia di portare ad una eccessiva frammentazione
dell’identità lavorativa, ovvero all’impossibilità di autodefinirsi dal punto di vista della
professionalità e delle capacità di cui si è portatori. Nelle parole degli intervistati
emerge spesso delusione e insofferenza per una certa “indeterminatezza professionale”,
delusione e insofferenza che trovano espressione in una preoccupante rassegnazione a
“vivere alla giornata”, a prendere quello che c’è senza troppa convinzione, rinunciando
a investire nel lavoro e in quello che si fa. L’atteggiamento è quello di chi aspetta gli
eventi senza essere in grado di condizionarli, anche perché spesso non si riesce a
scorgere un nesso logico e causale tra il proprio comportamento e la possibilità effettiva
– rappresentata dalla decisione dei superiori di rinnovare il contratto e/o assumere a
tempo indeterminato – di uscire dalla precarietà. Anche per coloro che possiedono
buone credenziali educative, la progettualità e le aspirazioni professionali finiscono per
essere “spappolate” dal vortice di esperienze lavorative incongruenti e di breve durata.
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Le ripercussioni più gravi e preoccupanti del precariato lungo la dimensione
professionale sembrano quindi aversi nel medio e lungo periodo, nell’erosione delle
capacità di plasmare un’identità lavorativa riconosciuta e riconoscibile dagli altri e da se
stessi (ambito della “realizzazione professionale”, in alto a sinistra nel grafico).
Riproduzione sociale: effetti dal breve al lungo periodo
Anche sul piano della riproduzione sociale si hanno effetti significativi, a partire dallo
stile di vita che il lavoro, in un’ottica puramente strumentale e di breve periodo, è in
grado di offrire hic et nunc (“vivere qui e ora”, in basso a destra nel grafico).
Innanzitutto, la maggior parte degli intervistati deve fare i conti con redditi bassi, se non
molto bassi, con la conseguenza che la capacità di spesa raramente permette di andare
oltre alle necessità immediate, anche da parte di coloro che hanno già alcuni anni di
lavoro alle spalle. Lo svago e la frequentazione di luoghi di consumo sociale e culturale
(locali, corsi, eventi...) sono in genere le prime voci ad essere tagliate, soprattutto nei
momenti, piuttosto consueti per un lavoratore precario, di contrazione del reddito. Il
fatto di dover assumere uno stile di vita che in buona misura esclude o riduce di molto
le attività culturali e di svago è vissuto come una forte deprivazione, soprattutto se
confrontato con la percezione di vivere in un contesto metropolitano ricco, che offre uno
spettro di opportunità di leisure ampio e diversificato.
Oltre l’aspetto economico, è anche l’atipicità dei tempi e dell’organizzazione del lavoro
a rendere complicata per i giovani flessibili la conciliazione quotidiana della sfera
privata e professionale. Per risparmiare, per mancanza di tempo, per sfasamento tra i
propri orari e i ritmi sociali dominanti – si rinuncia sovente ad occasioni di socialità
extralavorativa, allentando i legami sociali già attivi e limitando le occasione di
intesserne di nuovi. Ciò risulta tanto più preoccupante se si considera che la brevità e
discontinuità delle occupazioni rendono i rapporti con i colleghi di lavoro spesso deboli
e laschi, aumentando ulteriormente il rischio di isolamento e fragilità relazionale.
Già rispetto ad una prospettiva di breve termine, che non considera progetti differiti,
quindi, il lavoro precario sembra configurarsi come un’esperienza monca e
insufficiente, che non favorisce l’integrazione sociale dell’individuo entro una più
ampia rete di rapporti e scambi. Il rischio che si paventa è l’impoverimento del capitale
sociale a disposizione degli individui, ossia di tutte quelle risorse – informazioni,
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sostegno e aiuto, ad esempio per la crescita professionale o per affrontare difficoltà
finanziare, sanitarie, lavorative – che derivano dall’essere inseriti in un’ampia e
variegata rete di relazioni.
È infine evidente che in questa situazione di instabilità e insicurezza la possibilità di
concepire e portare avanti progetti e strategie di lungo termine (ambito del “farsi una
vita”, in alto a destra nel grafico) risulta alquanto indebolita. L’incertezza lavorativa, i
bassi guadagni, le scarse tutele e protezioni sociali, insieme alla difficoltà ad accedere a
forme di credito e sostegno, costituiscono un deterrente, quando non un ostacolo
insormontabile, a prendere decisioni che si proiettino in un orizzonte futuro. Ad
esempio, l’andare a vivere da soli, che quanto meno implica una qualche ragionevole
certezza di potersi permettere il pagamento dell’affitto o la possibilità di accedere alla
proprietà attraverso un mutuo; per coloro che sono riusciti comunque ad uscire di casa e
istaurare un rapporto di coppia, la decisione di fare un figlio, a causa dell’assenza di
garanzie, del rischio di essere licenziate e di non riuscire a rientrare nel mercato del
lavoro dopo la maternità; ma anche banalmente fare investimenti su beni durevoli –
spesso di prima necessità se consideriamo che molti lavori comportano l'utilizzo
obbligato di questi mezzi – come ad esempio un’automobile o un personal computer.
Di fronte ai rischi e alle difficoltà quotidiane che devono affrontare, i giovani flessibili
sembrano poter contare su un unico argine: la famiglia d’origine, la quale – grazie alla
capitalizzazione (economica, abitativa, relazionale) accumulata nei decenni precedenti –
continua a costituire l’ambiente protettivo che sostiene il giovane nel suo percorso di
transizione all’età adulta. In un contesto di crescente instabilità, la saldezza di questo
appoggio è necessaria per poter attuare qualunque tipo di progetto personale. Ciò
significa che la precarietà porta ad un consolidarsi e acuirsi delle disuguaglianze sociali,
sia rispetto alla capacità di fronteggiare le trasformazioni in atto sia rispetto alle
possibilità di miglioramento e mobilità sociale: affrontare l’instabilità lavorativa con
alle spalle una famiglia solida è cosa ben diversa dal ritrovarsi soli; così come l’avere
accesso a maggiori risorse (economiche, culturali e relazionali) di origine familiare
costituisce per i giovani lavoratori un valore aggiunto, a quanto pare sempre più
indispensabile nella nuova configurazione occupazionale.
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Insomma, il quadro che emerge è quello di una realtà sociale sempre più flessibile
eppure immobile, per usare l’ossimoro proposto da Ilvo Diamanti in un recente articolo:
“Così instabilità individuale e rigidità sociale si cumulano e si intrecciano. Il peso delle
attività informali e dei lavori atipici aumenta. Mentre la struttura sociale, nell’insieme,
si segmenta in settori ampi, quanto (nella percezione generale) impermeabili. Flessibile
eppure immobile. Tale, in un’epoca di grande cambiamento, ci sembra la società
italiana. Che contrasta le insidie della "modernità liquida" con un sistema di "tradizione
vischiosa". Così mentre si invocano le virtù della "società aperta", si coltivano e si
praticano i vizi di una "società semichiusa"”(La Repubblica, 4 giugno 2006).
Confrontarsi con continui “aut aut”
Dalla ricerca emerge dunque come la flessibilità agisca sulla vita delle persone lungo
due fronti: da un lato, come abbiamo appena visto, attraverso un impatto diretto, per lo
più molto negativo, sui quattro ambiti individuati; dall’altro, inserendosi nelle loro vite
come un elemento disgregante che impedisce ai giovani lavoratori di tenere insieme in
un unico frame cognitivo, e in un progetto coerente d’azione, i diversi obiettivi e
richieste connessi a ciascun ambito. Questo effetto di “secondo livello” è
potenzialmente deflagrante poiché gli individui, nel tentativo di conciliare e far
combaciare significati e funzioni sempre più divergenti, vengono sottoposti ad una
continua tensione; e alla lunga ciò può portare ad un annichilimento delle volontà e
delle capacità di azione strategica.
La frammentarietà delle esperienze, l’instabilità occupazionale e l’esiguità dei salari
finiscono per opporre tra loro obiettivi che, dal punto di vista logico, non dovrebbero
porsi come alternative inconciliabili. Decidere di sperimentare, almeno in una fase della
propria vita, occupazioni differenti; percepire in maniera continuativa un reddito che
permetta uno stile di vita soddisfacente; svolgere una professione che sia personalmente
gratificante; ancora, poter fare affidamento su risorse future in vista di progetti di
medio-lungo periodo; sono, questi, obiettivi che si pongono di fronte ai giovani
lavoratori come degli aut aut, delle opzioni alternative che si elidono a vicenda.
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Le conseguenze che ne derivano sono paradossali e stridenti. È ad esempio piuttosto
comune, in particolare fra gli intervistati che hanno raggiunto la laurea, accettare per
anni una molteplicità di lavori precari e mal pagati, al fine di sostenere il tentativo di
inserirsi nel settore d’interesse. Il risultato è che sull’altare della realizzazione
professionale – un fine comunque incerto, data l’instabilità generale del mondo del
lavoro – vengono sacrificati altri obiettivi prioritari, quali ad esempio l’andare a vivere
da soli. Altri dilemmi si presentano rispetto alla decisione di avere un figli: anche per
coloro che si trovano in posizioni relativamente stabili e non del tutto dequalificate,
questo è un passaggio critico, proprio a causa della frizione fra la rigidità che la cura di
un bambino inevitabilmente introduce e la richiesta di abnegazione, disponibilità e
l’incertezza di fondo che caratterizza il mercato flessibile. Nell’affrontare questa scelta
si è spesso annichiliti dalle conseguenze che ne deriverebbero, ad esempio rispetto alla
radicale modifica dello stile di vita e di consumo della coppia o rispetto alle prospettive
lavorative e professionali della madre. La maternità viene così rimandata ad un futuro
che si colloca su un orizzonte temporale indistinto e indefinito.
Dall’esperienza alle politiche: la necessità di interventi di ricucitura
Il quadro che emerge dalle interviste sembra evidenziare la necessità che le politiche di
intervento a favore dei giovani lavoratori precari non solo perseguano l’obiettivo
settoriale di rispondere alle esigenze e ai problemi connessi a ciascun ambito, ma
soprattutto si caratterizzino come politiche di ricucitura, finalizzate alla ricostituzione di
un orizzonte che appare sempre più slabbrato, ed in grado di favorire il passaggio dal
breve al lungo termine e la conciliazione tra obiettivi professionali e sociali (grafico 2).
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Grafico 2 – Esempi di politiche di politiche settoriali e di ricucitura a favore dei lavoratori precari.
Da questo punto di vista, l’analisi delle esperienze spontanee di spazi virtuali e reali di
discussione, aggregazione, scambio e sostegno reciproco tra giovani flessibili offre
interessanti spunti di riflessione.
Soprattutto dai blog e dai commenti rintracciabili nei forum emerge un senso di rabbia,
frustrazione, disagio fisico e mentale, di isolamento e profonda insicurezza che
caratterizza la situazione dei giovani atipici e, ancor di più, dei precari. Attraverso la
comunicazione e il confronto per via telematica o reale, si cerca di svelare al “resto del
mondo” (l’universo dei lavoratori tradizionali, garantiti) quel che già si sa ma non
sembra sufficientemente riconosciuto dall’opinione pubblica e dalla classe politica: la
portata collettiva di un disagio finora vissuto per lo più nell’isolamento delle singole
individualità.
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L’urgenza di uscire dall’invisibilità si scontra spesso con la difficoltà a transitare dalla
critica del sistema lavorativo attuale e dal racconto della propria esperienza al piano
dell’azione collettiva. Emergono comunque alcuni bisogni, esigenze e anche precise
richieste di politiche e azioni che dovrebbero essere promosse a vari livelli.
In primo luogo, le richieste riguardano non tanto, o non solo, la dimensione
professionale e legislativa (revisione delle normative in materia di forme di lavoro) ma
quella della riproduzione sociale. In particolare vi è una fortissima domanda di quelle
che abbiamo definito “politiche di ricucitura” tra dimensione professionale e sociale. La
possibilità di avere un reddito minimo nei periodi di transizione da un’occupazione
all’altra o nei periodi di inattività forzata; il bisogno di interventi anche a livello locale
per la conciliazione dei tempi di vita – non solo per le donne, le madri e i genitori in
genere – ma anche proprio per i giovani, che più sembrano “incagliati” nella spirale che
mette in sequenza lavoro atipico, formazione pressoché continua, esigenze legate al
“farsi una propria vita”; la possibilità di accedere al credito e in particolare al credito per
l’affitto o l’acquisto di un’abitazione; sono fattori sempre richiamati, seppur con
modalità e intensità diverse, in tutte le realtà osservate.
Emerge poi la richiesta altrettanto intensa di politiche settoriali in grado di impattare
sulle sfere associate al lavoro che abbiamo definito del “vivere qui e ora” (per esempio,
azioni volte a calmierare i prezzi e facilitare l’accesso ai trasporti pubblici, alle
occasioni di leisure, ai consumi culturali, alle occasioni di quotidiana socialità…) e del
“farsi una vita” (di nuovo, richiesta di forme a garanzia di una minima continuità
reddituale, di protezioni sociali e di tutela previdenziale).
In altre parole, ciò di cui si sente l’urgenza sono azioni e politiche volte a dare ai
giovani precari le stesse chance di muoversi e crescere proprie dell’orizzonte dei
lavoratori tradizionali. Si manifesta la richiesta di interventi che scardinino una
situazione che, sulla base di una disuguaglianza nelle forme di trattamento lavorativo,
produce oggi discriminazioni in tutte le sfere della vita sociale.
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Nel contempo, particolarmente apprezzati sembrano essere gli ambienti virtuali dedicati
al lavoro atipico. Essi fungono spesso da canale di primo orientamento, favorendo la
circolazione di informazioni e l’incontro con “saperi esperti”, e diventano nel contempo
luoghi di aggregazione con persone nelle stesse condizioni lavorative, con le quali poter
condividere esperienze e informazioni (attraverso servizi come forum, comunità
virtuali). Il valore aggiunto offerto da questi strumenti – che, in qualche modo, dà conto
del loro “successo” – consiste nel rendere disponibili, in un unico nodo, informazioni
troppo spesso parcellizzate e frammentarie dal/sul “mondo degli atipici”; essi, inoltre,
possono contribuire a creare momenti, modi e spazi innovativi di condivisione e
scambio, anche in funzione della necessità di allargamento delle reti sociali e di
arricchimento del capitale sociale dei giovani precari di cui si è detto in precedenza.
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NOTA METODOLOGICA
La ricerca è stata realizzata attraverso tecniche di indagine qualitative. Tali metodi si
rivelano adeguati ed efficaci quando, come in questo caso, l’attenzione è posta alla
prospettiva dei soggetti studiati, alla loro definizione della situazione, alla loro
percezione e interpretazione della realtà. L’approccio olistico proprio dei metodi
qualitativi appare inoltre indispensabile vista la centralità che la vita quotidiana, come
concetto entro cui il mondo degli individui è riunificato in un insieme unico di
esperienze, occupa nella ricerca.
Lo strumento utilizzato in questa ricerca è quello dell’intervista semistrutturata, che
affianca alla flessibilità e capacità di adattamento alla situazione, un certo grado di
standardizzazione delle informazioni. Essa prevede la predisposizione di una traccia di
intervista contenente i principali argomenti da trattare, che lascia però libertà di
impostare la conversazione, scegliendo la formulazione delle domande, l’ordine con il
quale affrontare i temi e ponendo domande aggiuntive ritenute necessarie. Ciò
garantisce che tutti i temi rilevanti siano discussi e le informazioni necessarie raccolte.
Nel contempo, la flessibilità e la possibilità di sviluppare argomenti che nascono nel
corso dell’intervista favorisce la comprensione delle azioni e dei comportamenti dei
soggetti, in quanto permette l’esplicitazione di importanti elementi di analisi – percorsi
logici, di attribuzione di significato, aspettative, motivazioni, immaginario – che
altrimenti rischiano di restare inespressi.
La traccia di intervista propone tre principali aree tematiche:
1. i percorsi lavorativi e le condizioni professionali degli intervistati in merito alla
tipologia del contratto, alle modalità di accesso dell’occupazione in corso e di quelle
precedenti, al reddito percepito, all’organizzazione del proprio lavoro;
2. l’ambito della storia personale e della progettualità, con particolare riferimento ai
legami con la famiglia di origine e agli aiuti dati o ricevuti da quest’ultima,
all’autonomia abitativa, alle spese e ai consumi, alla progettualità familiare e
professionale;
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3. l’organizzazione e la gestione quotidiana dei tempi degli intervistati in merito ad
aspetti quali la conciliazione dei tempi lavorativi e familiari-affettivi e del tempo
libero.
Tab. 2 Tavola degli intervistati Int. 01 - Uomo, 20 anni, licenza media, tempo determinato, vive con i genitori, 700-900 euro mensili
variabili Int. 02 - Donna, 23 anni, diplomata, lavoro a chiamata, vive con i genitori, meno di 400 euro mensili
variabili Int. 03 - D., 24 anni, diplomata, tempo determinato, vive con i genitori, 450 euro mensili Int. 04 - D., 30 anni, laureata, tempo determinato, vive in coppia, da 900 a 1100 euro mensili Int. 05 - D., 27 anni, laureata, tempo determinato e in nero, vive con i genitori, meno di 800 euro mensili
variabili Int. 06 - U., 30 anni, laureato, tempo determinato, vive solo, 900,00 a 1.100 euro mensili Int. 07 - D., 32 anni, laureata, tempo determinato, vive sola, 1.100-1.200 euro mensili Int. 08 - D., 31 anni, laureata, contratto a progetto, vive sola, 900-1.100 euro mensili Int. 09 - D., 30 anni, laureata, contratto a progetto, vive con amici/conoscenti, 700-900 euro mensili Int. 10 - D., 29 anni, diplomata, interinale, vive con i genitori, 970 euro mensili Int. 11 - D., 30 anni, laureata, tempo interinale, vive in coppia, 1.050-1.150 euro mensili Int. 12 - D., 22 anni, diplomata,contratto a progetto, vive con i genitori, 900-1.000 euro mensili variabili Int. 13 - D., 28 anni, laureata, partita Iva, vive con i genitori, meno di 400 euro mensili Int. 14 - D., 31 anni, laureata, co.co.co , vive sola, 1.300 euro mensili Int. 15 - D., 26 anni, laureata, partita Iva, vive in coppia, 700-900 euro mensili Int. 16 - D., 23 anni, diplomata, tempo determinato, vive sola, 900-1.100 euro mensili Int. 17 - D., 24 anni, laureata, co.co.co, , vive amici/conoscenti, 700-900 euro mensili Int. 18 - D., 22 anni, diplomata, contratto 30 giorni, vive con i genitori, meno di 400 euro mensili Int. 19 - D., 21 anni, licenza media, tempo determinato, vive in coppia, 400-600 euro mensili Int. 20 - D., 24 anni, diplomata, apprendistato, vive con i genitori, 800,00 euro mensili Int. 21 - D., 26 anni, diplomata, tempo determinato, vive con i genitori, 400-600 euro mensili Int. 22 - D., 22 anni, diplomata, contratto 30 giorni, vive sola, 600,00 euro mensili variabili Int. 23 - U., 26 anni, diplomata, tempo determinato, vive con i genitori, 700-900 euro mensili variabili Int. 24 - U., 26 anni, diplomato, tempo determinato, vive con i genitori, 900-1.100 euro mensili Int. 25 - U., 27 anni, diplomato, tempo determinato, vive in coppia, 700-900 euro mensili Int. 26 - U., 25 anni, laureato, borsa di studio annuale, vive solo, 900 euro mensili Int. 27 - U., 30 anni, diplomato, co.co.co, vive solo, 1.300 euro mensili Int. 28 - D., 33 anni, diplomata, tempo determinato, vive sola, 1.300 euro mensili Int. 29 - D., 29 anni, laureata, co.co.co., vive sola, 900-1.100 euro mensili Int. 30 - D., 28 anni, laureata, partita iva, vive in coppia, 700-900 euro mensili Int. 31 - D., 26 anni, laureata, co.co.co. ,vive con i genitori, 700-900 euro mensili variabili Int. 32 - U., 33 anni, diplomato, co.co.co., vive con i genitori, 700-900 euro mensili variabili Int. 33 - D., 34 anni, laureata,contratto a progetto, vive con i genitori, 400-600 euro mensili Int. 34 - D., 30 anni, laureata, contratto a progetto,vive con i genitori, 900-1.100 euro mensili variabili Int. 35 - U., 29 anni, laureato, partita Iva ,vive con i genitori, 900-1.100 euro mensili variabili Int. 36 - D., 27 anni, laureata, lavora in nero e con contratto a progetto, vive sola, 900-1.100 euro mensili Int. 37 - D., 26 anni, laureata, contratto a progetto, vive con i genitori, 400-600 euro mensili Int. 38 - U., 28 anni, diplomata, tempo determinato, vive con i genitori, 1.100-1.300 euro mensili variabili Int. 39 - D., 25 anni, diplomata, tempo determinato, vive in coppia, 1.100-1.300 euro mensili Int. 40 - U., 34 anni, diplomato, partita Iva,vive solo, 1.300 euro mensili variabili Int. 41 - U., 32 anni, laureato, tempo determinato, vive con i genitori, 900-1.100 euro mensili Int. 42 - U., 32 anni, laureato, partita Iva, vive in coppia 1.100 euro mensili Int. 43 - U., 35 anni, diplomato, partita Iva, vive solo, 1.300 euro mensili variabili Int. 44 - U., 32 anni, laureato, tempo determinato, vive solo, 1.300 euro mensili Int. 45 - U., 34 anni, diplomato, collaborazione a progetto,vive in coppia, 700- 900 euro mensili variabili Int. 46 - U., 34 anni, diplomato, lavoro in nero, vive solo, 1.000 euro mensili Int. 47 - U., 29 anni, diplomato, partita Iva,vive con i genitori, 1.100-1.300 euro mensili Int. 48 - U., 34 anni, diplomato, partita Iva, vive con in coppia, 1.300 euro mensili variabili Int. 49 - U., 35 anni, diplomato, tempo determinato e collaborazioni,vive solo, 1.300 euro mensili variabili Int. 50 - U., 20 anni, diplomato, lavora in nero, vive solo, percepisce meno di 400 euro mensili
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