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Segnature

Collana diretta da Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone

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Copyright © 2006 Meltemi editore, Roma

L’editore si dichiara disponibile a riconoscere i diritti a chi ne sia legalmente in possesso.

È vietata la riproduzione, anche parziale,con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia,

anche a uso interno o didattico, non autorizzata.

Meltemi editorevia Merulana, 38 – 00185 Romatel. 064741063 – fax 064741407

[email protected]

Jurij Michajlovic Lotman

Tesi per una semiotica delle culturea cura di Franciscu Sedda

MELTEMI

Indice

p. 7 IntroduzioneImperfette traduzioniFranciscu Sedda

Prima parteLa semiotica fra scienza e arte

71 Ricerche semioticheJurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij

95 Che cosa dà l’approccio semiotico?Jurij M. Lotman

Seconda parteNascita della semiotica della cultura

103 L’unità della culturaJurij M. Lotman

107 Tesi per un’analisi semiotica delle cultureVjaceslav V. Ivanov, Jurij M. Lotman, Aleksandr M.Piatigorskij, Vladimir N. Toporov, Boris A. Uspenskij

149 Eterogeneità e omogeneità delle culture. Postscriptum alle tesi collettiveJurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij

Terza parteLa semiotica e le poetiche della quotidianità

157 Il mondo del riso: oralità e comportamento quoti-diano Jurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij

185 Il decabrista nella vita.Il gesto, l’azione, il comportamento come testoJurij M. Lotman

261 Lo stile, la parte, l’intreccio. La poetica del comportamento quotidiano nellacultura russa del XVIII secoloJurij M. Lotman

297 Bibliografia

303 Bibliografia dei testi di Jurij M. Lotman pubblicatiin italiano

IntroduzioneImperfette traduzioniFranciscu Sedda

Ma la cultura, fra l’altro, esiste perquesto, per analizzare e disperderei timori.

Jurij M. Lotman

Per iniziare, con Lotman

Jurij Michajlovic Lotman – come lo conosciamo e co-me ce lo immaginiamo a partire dai suoi testi, da chi neha scritto e chi ce ne ha parlato – è stato ed è molte cose1.

È stato certamente un corpo – una certa accumulazio-ne di casualità, per parafrasarlo –, un corpo radicato inuno spazio che è divenuto il suo destino, Tartu (Lotman1993b).

È stato un corpo perché la sua scrittura, il suo sapere,la sua intelligenza, trasuda passioni. In tal senso Lotman èancora un corpo: i suoi testi, proprio come quelli a cui siriferiva teorizzando, sono vivi. Sono generatori di nuovopensiero. Così ogni lettura è un dialogo e un corpo a cor-po: anche nei passaggi più tecnici i suoi ragionamenti con-servano il sentire che li muove, l’entusiasmo per la ricercae l’impegno nello studio (e per l’insegnamento) della cul-tura. È strano, Lotman nella sua sterminata produzionenon ha mai concentrato molta attenzione sul corpo, sullasua fenomenologia, ma più si va avanti nella lettura dellasua opera, più ci si spinge verso le sue ultime opere, piùsembra che il suo corpo, con la sua fenomenologia, vi siainscritto dentro, nelle copiose metafore, nei ragionamentifigurativi, illuminanti o opachi che siano.

Lotman è stato un corpo perché ha giocato. Il suospirito ludico traspare da molti racconti e aneddoti. To

play: giocare e recitare al contempo. Capace di balzarein piedi e mimare una resa a una purga staliniana davan-ti ai vigili del fuoco di Milano venuti a verificare la tenu-ta del pavimento di una sala troppo piena, pronta a scat-tare per lui in un fragoroso applauso (Corti 1994). Bam-bino e artista, “poeta”. Appassionato studioso di artenon a caso diceva che gli unici che potevano divertirsinei musei, e capirli fino in fondo, erano i più piccoli.Curioso, geniale, autoironico. Alla raccolta di brutte co-pie, annotazioni, abbozzi di articoli, progetti inutilizzatiaveva chiesto di dare questo nome: Dall’archivio di unsemiotico folle (Burini, Niero 2001).

Lotman è stato un corpo per il suo coraggio, per lasua capacità di prendere posizione in situazioni com-plesse e delicate2, a partire dall’esperienza della secondaguerra mondiale (Lotman 1994b). Per la sua capacità disoffrire e gioire in (e di) “questo nostro mondo tremen-do” (Lotman, in Burini, Niero 2001, p. 121).

Jurij Lotman è stato anche un’intelligenza connettiva.Capace di connettere saperi, andando continuamenteavanti nella sperimentazione del nuovo, tralasciando vo-lutamente – come ricorda il figlio Michail (Lotman2002) – qualsiasi sforzo di riassunto o sistematizzazionedel suo pensiero. Continuare a connettere e tradurre,anche a rischio di non essere soddisfatto, anche a rischiodi contraddirsi.

Lotman è stato, ed è ancora, un’intelligenza connettivadi corpi. Lo è stato in quanto animatore e organizzatoredella Scuola di Tartu (o Tartu-Mosca, a seconda delle in-terpretazioni). Lo è stato con il suo carisma o, come dicevacon ammirazione Jakobson, “con la sua mano di ferro” (inUspenskij 1996). Comunque lo è stato: ha creato un am-biente e un’atmosfera fatta di dialogo, informalità familia-re, onestà intellettuale, indipendenza (Torop 1995). E unaintelligenza connettiva lo è ancora: basta vedere quantepersone, e in quante parti del mondo, ancora si richiama-

FRANCISCU SEDDA

no e portano avanti le sue ricerche, quanto il suo pensieromette in rete studiosi provenienti da tutto il pianeta e affe-renti ad aree del sapere diverse: dalla semiotica, alla lette-ratura, all’arte, all’antropologia, fino ad arrivare alla biolo-gia, agli studi sull’intelligenza artificiale e le reti neurali.Articolazione nello spazio e degli spazi, dicevamo: da Tar-tu, e dalla continua pubblicazione cartacea dei «Trudy poznakovym sistemam» – la storica rivista della scuola tar-tuense – alle costanti pubblicazioni on-line della rivista«Entretextos» che raccoglie i lavori della scuola iberica ecentro-sudamericana che si rifanno alla sua eredità intel-lettuale. Passando ovviamente per l’Europa, dove l’Italiaha sempre recepito con attenzione e interesse il suo lavoro.

Lotman è dunque, anche, un nome collettivo, unaspecie di simbolo, di slogan. E in questo libro ciò va ri-badito a maggior ragione. Si scrive “Lotman” ma inrealtà, con lui, ci si trova insieme anche ad altri grandistudiosi, a partire da Boris A. Uspenskij. Il percorso diLotman è costellato di un lavoro, anche di scrittura, apiù mani, a più teste. Esemplare è la collaborazione ditanti anni con Uspenskij, che in questo libro ritroviamoin più saggi. Significativa è la stesura delle Tesi per un’a-nalisi semiotica delle culture che, oltre a quelle di Lot-man e Uspenskij, reca le firme e l’apporto di Ivanov,Pjatigorskij e Toporov.

Jurij Michajlovic Lotman infine è per me un deside-rio irrealizzato: un maestro e unu homine – con tutta laforza, il valore e le sfumature che questo termine ha nel-la cultura sarda –, che il caso ha voluto che io non cono-scessi direttamente.

Specchi nel tempo

I testi che qui presentiamo si possono attraversare inmolti modi. Visti dalla prospettiva della globale – e

IMPERFETTE TRADUZIONI

sconfinata – produzione di Lotman e della Scuola diTartu potrebbero pessimisticamente apparire come mu-te tracce di un tortuoso cammino, o frammenti opachidi un’opera troppo complessa. E tuttavia l’insegnamen-to della semiotica della cultura ci dice proprio questo:che ogni volta, e in ogni caso, dobbiamo prenderci la re-sponsabilità di operare generalizzazioni a partire daframmenti, che dobbiamo avere il coraggio di immagi-nare la globalità (senza però staccare i piedi dalla loca-lità che la ispira) e sentire fino in fondo il brivido chenecessariamente coglie chi azzarda la ricostruzione di unsistema a partire da tracce minute. Un’apparente inco-scienza, o un atto di somma arroganza: e invece si puòtrattare di una responsabile e umile ambizione, per nonrimanere irretiti davanti alla durezza dei frammenti la-sciati a se stessi (Fabbri 1998a). Abduzione e intuizionedunque, ma soprattutto traduzione. Per andare avanti.Perché se c’è un altro insegnamento semiotico che quiva tenuto in considerazione è che ogni ritorno su se stes-si, ogni ripresa e riscoperta del passato – inconsapevoleo programmaticamente mirata – aprendo lo spazio delpresente ci riporta al futuro, e non in una qualche inat-tingibile origine.

“Il nostro specchio sono i nostri alunni. E se in que-sto specchio io mi rifletto in qualche forma, allora, a di-re la verità, non voglio chiedere niente di più alla vita”,dirà Lotman in una delle sue ultime interviste (Lotman1993b).

Ecco cosa vorremmo essere, anche in queste pochenote introduttive, rispetto a Lotman e al suo sapere: unospecchio nel tempo (ib.). Vorremmo guadagnarci la pos-sibilità di essere almeno un po’ “figli” e “alunni”. Vor-remmo rispondere al monito delle sue parole, ma am-mettendo e assumendo fin dal principio tutte le nostreresponsabilità. Perché qui siamo pur sempre noi a sce-gliere i nostri (molti) padri, la loro forma.

FRANCISCU SEDDA

Tradurre, articolare le trame del tempo, scegliere leproprie eredità, le proprie appartenenze, i propri prede-cessori, non significa negare il nostro essere segnati daltempo e dalla cultura ma avere coscienza del proprio si-tuarsi in essi. Avere coscienza della limitatezza e dell’a-pertura, dei condizionamenti e delle possibilità. Signifi-ca pagare il debito affermando che noi vogliamo farlo inmodo produttivo. Del resto se i padri sono tali bisognariprenderne il pensiero e farlo parlare all’intelligenzapresente, ai nostri corpi e alla nostre coscienze odierne.Ma se i padri sono tali bisogna far parlare anche i loro li-miti, le loro impasse, le loro contraddizioni, i loro ab-bozzi, le loro intuizioni sospese o sepolte. Far germo-gliare i loro semi, far deflagrare le loro mine intellettualiancora inesplose, come piaceva dire a Lotman. Insom-ma, se la loro lezione è profonda ci devono aver insegna-to che noi abbiamo qualcosa da fare del loro pensiero –col loro pensiero – che non sia semplicemente il ripeter-lo. Se le loro idee e le loro ricerche ancora ci parlano, seancora ci toccano, noi non possiamo esimerci dal ripren-derli e declinarli al presente. Restar loro “fedeli” realiz-zandoli a modo nostro: più che “seguire” noi “seguitia-mo”, continuiamo con perseveranza ad avanzare lungouna direzione indicata, in uno stretto passaggio fra la fe-deltà e il tradimento.

Questo libro

Cos’è dunque questo libro? Che percorso tratteggia?Perché esce ora? Innanzitutto va detto che l’interesse in-torno a Lotman non è mai scemato in ambito italiano, etuttavia molti dei suoi lavori, anche fra i più importantio recenti, sono oggi introvabili. Dal canto nostro voleva-mo rimettere in circolazione dei testi seminali, “basila-ri”, che erano ormai irreperibili, sparsi ad esempio in

IMPERFETTE TRADUZIONI

vecchie raccolte collettanee, e che ci sembra invece pos-sano dirci qualcosa sulla semiotica della cultura futura.

Le tre parti, che potremmo indicare con i tre seguentislogan – ricerche semiotiche, semiotica delle culture, poeti-che della quotidianità – secondo noi riassumono bene, inun passaggio senza soluzione di continuità, in uno stranoinscatolamento in cui ciascuna può inglobare le altre, trezone di addensamento e focalizzazione della teoria e dellepratiche della cultura. Dunque, presentazione delle basidella semiotica della cultura, raccolta di saggi irreperibili,spaccato del percorso intellettuale di Lotman e della suascuola, appassionata e rigorosa riflessione sulle culture.Un libro per molti lettori e molte possibili letture.

Per scendere un po’ più nello specifico possiamo direfin d’ora che la prima sezione situa le ricerche semiotichein un mondo in cui l’incomprensione fra uomini e cultu-re è divenuta un problema centrale e il rapporto frascienza, tecnologia, arte e senso comune è in costantecambiamento. E invita a sperimentare il nuovo, la tradu-zione dell’intraducibile. La seconda, formata da testiprogrammatici fondamentali (ad esempio le Tesi perun’analisi semiotica delle culture), ci riporta agli inizi del-la semiotica della cultura e dell’avventura intellettualedella “Scuola di Tartu”. Ci offre così la fertilità di uncampo di studi appena aperto, denso di proposte da ri-scoprire, e oggi pronto a riprendere il dialogo – comecercheremo di fare anche in questa nostra introduzione– con la teoria semiotica generale e con le altre discipli-ne interessate all’uomo e ai linguaggi: cultural studies,antropologia del linguaggio, antropologia culturale. Laterza sezione, dedicata alle poetiche del quotidiano, ciaiuta a penetrare l’intimo rapporto fra rappresentazionie pratiche, fra i sistemi di credenze e il comportamentodi ogni giorno. Per capire come modelliamo e diamosenso alle nostre esistenze; come la grande storia e la vi-ta minuta, la globalità e la località, si compenetrino e co-

FRANCISCU SEDDA

stituiscano a vicenda. Come nel saggio Il decabrista nellavita, in cui le vicende della Russia e dei singoli personag-gi si illuminano reciprocamente.

Questo è il percorso che abbiamo cercato di traccia-re, nel tentativo di raccordare questi studi passati al no-stro presente.

Nella teoria generale

Il progetto di una teoria semiotica della cultura puòvantare una relazione stretta, profonda, con la nascitastessa della semiotica come metodo e disciplina. Si po-trebbe dire, più in generale, che esso sembra inscrittocome orizzonte all’interno dell’opera dei grandi padridella semiotica. Solo per fare pochi esempi si potrebbepensare a Ferdinand de Saussure (1922) quando propo-neva di concepire la semiologia come “una scienza chestudia la vita dei segni nel quadro della vita sociale” o ri-cordare la proposta di una “metasemiotica” – una se-miotica che ha come suo contenuto delle semiotiche –che chiude I fondamenti della teoria del linguaggio diLouis Hjelmslev (1961).

Non diversamente la tensione verso una semioticacome studio delle forme e delle logiche della cultura siritrova nei maggiori protagonisti della ricerca moderna:Barthes, Eco, Greimas, Fabbri. Giusto per fare qualcheesempio, vale la pena ricordare che lo studio della signi-ficazione come studio del mondo dell’uomo e comeepistemologia delle scienze umane apre Semantica strut-turale di Algirdas J. Greimas (1966) e ne accompagnatutta l’opera, fino allo studio delle passioni e delle formedi vita; Umberto Eco – che già nella proto-semioticaOpera aperta (1962) aveva puntualizzato di non esserené critico né studioso d’estetica, quanto piuttosto uno“storico dei ‘modelli di cultura’” – nel 1969 faceva co-

IMPERFETTE TRADUZIONI

noscere in Italia, insieme a Remo Faccani, lo “struttura-lismo sovietico” e lo studio dei sistemi di segni (cfr.Faccani, Eco 1969), intitolava l’introduzione del suoTrattato (1975) Verso una logica della cultura e ancoranel 1990 introduceva la versione inglese di un impor-tante volume di Lotman: Universe of the Mind. A Se-miotic Theory of Culture (1990).

Non stupisce dunque che, passati gli anni utili e ne-cessari dell’affinamento degli strumenti e della discesain apnea nelle singole analisi testuali, oggi la semioticadella cultura (o delle culture) – insieme alla sociosemio-tica – ritorni a costituire il campo d’azione, o quanto-meno l’orizzonte auspicato, di grande parte della ricer-ca. Il consenso traversale attorno a questa dicitura nonpuò essere sottovalutato, anzi, va colto e fatto fruttare,perché la semiotica ha necessità – teorica e politica – diuna sua identità. E la parola “politica” non è usata acaso: nel Trattato Umberto Eco definiva la soglia supe-riore del “campo” semiotico con i suoi limiti politiciproprio nel punto di congiunzione fra “tipologia delleculture” e “antropologia”. Ebbene, sembra che la se-miotica abbia abbandonato quella frontiera – forse perfalsa modestia o forse per distrazione – e oggi si ritrovia pagarne il prezzo in termini di centralità, presenza,visibilità, legittimazione – “peso”, per tagliar corto –all’interno del dibattito sociale. Non è un caso forseche questo spazio sia oggi prevalentemente occupatodall’antropologia culturale e dai cultural studies e chela semiotica – che pure aveva svolto un ruolo seminalee fecondante su temi quali i conflitti culturali, la co-struzione delle identità, il senso delle storie, le tradu-zioni fra sfere discorsive e linguaggi diversi – non rie-sca a valorizzare il suo stesso patrimonio e parteciparecon il suo bagaglio di categorie, concetti e modelli a undialogo disciplinare e politico-culturale decisivo per lacontemporaneità.

FRANCISCU SEDDA

Il fatto che, come dicevamo, la semiotica della cultura– quantomeno come “slogan” – stia implicitamente fa-cendo da punto di incontro e di incrocio di molti degliautori principali dell’attuale panorama semiotico – pen-siamo alle conclusioni di Paolo Fabbri e GianfrancoMarrone (2001) nel secondo volume di Semiotica in nu-ce, ad alcune importanti note sul rapporto fra enciclope-dia, senso comune e semiotica della cultura fatte da Pa-trizia Violi (2000), alla semiotica delle culture propostada François Rastier (2003), o agli ultimi scritti di Jac-ques Fontanille (2004a; 2006) che pongono anch’essi lostudio delle pratiche e del piano dell’espressione sottol’egida della semiotica delle culture – non può passareinosservato: dovrebbe, a nostro avviso, trovare un senso.

Non è questo, ovviamente, il luogo per tentare sintesiche giocoforza dovranno essere il prodotto di un lavorolungo e dialogico, ma sicuramente si può provare a pro-nosticare che rimettere in gioco il patrimonio lotmania-no in vista di una sua piena e reale integrazione nellateoria generale potrebbe dare una salutare scossa all’in-tero ambito semiotico.

Una semioticità doppiamente necessaria

È proprio nel primo saggio che qui pubblichiamo,quello sulle Ricerche semiotiche, che ci si trova davantia un tema di profondità e portata vertiginosa. Un temacosì grande da rischiare, come vedremo con Greimas,la caduta nella “metafisica” e forse proprio perciò evi-tato o ritenuto inutile. Un tema che tuttavia vale la pe-na riprendere, non certo per risolverlo ma per inqua-drare lo sfondo della riflessione semiotica sulla cultura.Si tratta del rapporto fra la semiotica, la coscienzaumana e la vita sociale. O, detto in altri termini, la ne-cessità o l’inerenza all’essere umano e all’umanità in

IMPERFETTE TRADUZIONI

quanto tali, di un punto di vista e di un “modo di esse-re” semiotici.

È un tema che sconfina facilmente in territorio filo-sofico. Non a caso lo ritroviamo in un dialogo del 1984fra Paul Ricœur e Algirdas Greimas dedicato alla narra-tività in cui i due operano una serie di mosse e contro-mosse discorsive nel tentativo di accerchiarsi vicende-volmente, di inglobare il punto di vista dell’altro all’in-terno del proprio. In poche parole, Ricœur cerca di mo-strare la fondamentalità della nostra precomprensione,della nostra capacità di seguire storie a prescindere dauna specifica competenza semiotica; Greimas, dal suocanto, si appella all’inevitabilità del ricorso a delle strut-ture profonde del senso per cogliere la significazione diquelle “catene di figure” che ordinano superficialmentei nostri discorsi.

L’argomentazione di Greimas tende dunque ad af-fermare la fondamentalità della sua visione rimarcandoil valore di “universali” di tali strutture profonde3: a te-stimonianza di ciò il fatto che queste sono rintracciabilial di sotto di proverbi, indovinelli e narrazioni prove-nienti da migliaia di comunità linguistiche di ogni par-te del mondo. Nondimeno è evidente per lo studiosolituano che ridiscendere dal senso verso la significazio-ne è un modo per “dar senso al senso”, per arricchirela comprensione della superficie testuale. Dal suo can-to Ricœur avvalora la sua posizione proprio mentreconcede alla semiotica il ruolo di “spiegazione” all’in-terno della dialettica fra comprendere e spiegare. Lasua famosa formula, spiegare di più per comprenderemeglio, mentre da un lato tenta una parziale (e nellasua elegante semplicità, geniale) conciliazione, dall’al-tro riafferma comunque la secondarietà della presa se-miotica sul senso. Nessuno dei due lo dice, ma mentreGreimas ha dovuto rischiosamente enfatizzare la “na-turalità” della semiotica, Ricœur ne ha fin troppo enfa-

FRANCISCU SEDDA

tizzato la “storicità”, intendendola semplicemente co-me un sapere disciplinare.

Lotman e Uspenskij a loro modo si tengono in mezzoa questo varco, cercando di annodare in pochi passi na-turalità e culturalità, implicito ed esplicito, sapere quoti-diano e sapere scientifico.

Per loro “il punto di vista semiotico è organicamenteintrinseco alla coscienza umana e in questo senso costi-tuisce un fenomeno non solo vecchio, ma anche ben no-to a tutti”. Il punto è che l’uomo, nella sua coscienza in-genua, non lo sa e ha necessità di un sapere “scientifico”per farlo emergere. Sembrerà un ragionamento contrad-dittorio, dato che gli studiosi russi hanno appena dettoche il punto di vista semiotico “è ben noto a tutti”: lacosa invece si spiega facilmente. Il sapere scientifico chefa emergere la nostra intrinseca semioticità non sta, perl’uditorio che ne deve sanzionare i risultati, nell’ordinedel “Non ci avrei mai pensato” – come si è portati a rea-gire davanti alle teorie fisiche delle superstringhe, dellarelatività, al principio di indeterminazione, oppure da-vanti alla struttura del genoma e così via – ma piuttostosi riassume nell’affermazione “L’ho sempre saputo”, at-testazione di una verità già presente che attendeva di es-sere riconosciuta. Attraverso l’articolazione di questidue semplici giochi linguistici4 Lotman e Uspenskij, cipare, operano un doppio movimento che lega – con evi-dente vantaggio per la semiotica – le posizioni di Grei-mas e Ricœur. Essi infatti, implicitamente, affermanonientemeno che una doppia necessità della semiotica, po-nendola a monte e a valle del nostro vivere nel senso.

Da un lato infatti, come ribadiscono, “il punto divista semiotico è sempre presente nelle azioni e nellacoscienza dell’uomo” e dunque ci inerisce comunque ea prescindere dalla nostra coscienza; sta a monte. Dal-l’altro lato, la semiotica in quanto disciplina scientificasi inserisce a pieno titolo nella scienza del XX secolo, in

IMPERFETTE TRADUZIONI

particolare quella che cerca di penetrare ciò che, pro-prio in quanto “semplice ed evidente” (ib.), non eramai stato analizzato. Affermazione non da poco nonsolo per l’evidente connessione con l’idea di Hjelmslevdi trattare il campo della scienza (la “Cultura”) comel’insieme dei “testi inanalizzati” (mossa che salva con-temporaneamente la possibilità della scienza dei lin-guaggi senza abrogare la sensatezza del nostro viverecomune attraverso di essi) ma anche per i passaggi sto-rico-antropologici che sottende e che vedremo5. Da ta-le punto di vista dunque la semiotica si inserisce in unmovimento scientifico più ampio di esplicitazione deimeccanismi che reggono il nostro vivere in comune ein quanto tale “aspira non tanto a conoscere qualcosadi nuovo quanto al contenuto, bensì piuttosto ad am-pliare la stessa conoscenza della conoscenza” (in Ricer-che semiotiche, infra, p. 75).

Insomma avevamo bisogno della semiotica come sa-pere scientifico (come “spiegazione”) per capire la no-stra intima semioticità (il nostro “comprendere” grazie astrutture e a meccanismi semiotici che ci appartengono– e in parte ci agiscono – ma ci sfuggono). Non male co-me accerchiamento.

La conseguenza immediata di questa circolarità ap-pena esposta è la riaffermazione di un’idea per la quale,così confessava Greimas, era stato “lungamente preso ingiro” (Greimas 1987b, p. 169). E c’è da sospettare chedi questa umiliazione abbiano pagato gli effetti tutti glistudiosi di semiotica e di scienze umane.

Rispondendo a una domanda intorno alla sua operalo studioso lituano affermava infatti che la semiotica,oltre a lavorare per arricchire la sua propria teoria eper esplorare campi di esperienza e semantici differen-ti, era essa stessa “azione sulle cose, realizzazione”(ib.). In definitiva Greimas rivendicava di aver sempreaffermato che

FRANCISCU SEDDA

c’era una vocazione della semiotica, non soltanto per la co-noscenza del fatto sociale o individuale, ma anche per latrasformazione del sociale o dell’individuale: che la semio-tica in ultima istanza poteva essere come una terapeuticadel sociale (ib.).

Si sarebbe dovuto trattare dunque di una semioticache concepiva la realizzazione come “atto somatico (…)che verte sulla materialità delle cose” e che si sarebbedovuta preoccupare di indagare la “superficialità” deifenomeni per coglierli nel loro effetto sulla vita dellagente. Una semiotica, prima di tutto, come “pratica” dianalisi e trasformazione: una meta forse lontana da rag-giungere, ma per Greimas di importanza capitale (ib.).

Insomma, la semiotica della cultura odierna vorreb-be, senza perdere il suo statuto di scienza rigorosa, riaf-fermare il suo statuto di arte di vivere, di poetica e poie-tica della quotidianità, come si potrebbe dire richiaman-do al contempo Lotman e de Certeau: è evidente, facen-do ciò, ponendosi a pieno titolo nella vita in comune,ponendo la semiotica fra scienza e arte, il semiotico riaf-ferma se stesso come soggetto politico.

Configurazioni semiotiche

Questo vivere in modo (doppiamente) semiotico ciconsente e costringe a riandare ad alcuni altri temi fon-damentali.

In primo luogo ci riporta a Peirce ed Eco, in partico-lare all’idea che “la realtà non è un semplice Dato, èpiuttosto un Risultato” (Eco 1979, p. 43) che nasce dallavorio interpretativo di una Comunità6 (Peirce 2003,pp. 106, 109, 5.311 e 5.316; Eco 1997, p. 79) e che nonsi fissa semplicemente in un sapere ma anche in abitudi-ni, vale a dire regolarità di comportamento che fannodell’agire stesso un segno (quantomeno potenziale).

IMPERFETTE TRADUZIONI

Non a caso Peirce dice che “l’identità di un uomo consi-ste nella coerenza tra ciò che egli fa e ciò che egli pensa”(p. 109, 5.315) e traduce questa articolazione nei terminidi un “esprimere qualcosa” che sia intelligibile, renden-do insostenibile una netta distinzione fra il pensare, il di-re e il fare. In definitiva riemerge qui, sotto altre forme,un punto cardine della semiotica attuale: il carattereperformativo del linguaggio e il carattere linguistico dellepratiche. Atti espressivi ed espressioni attive. Come a di-re che l’agire non è muto, non è pura opacità, e che i se-gni oltre a – o prima ancora di – rappresentare qualcosasi danno in quanto azioni sul mondo, in quanto tatticheper la sua costituzione e modificazione (Fabbri 1998a),sia che essi agiscano a livello propriamente cognitivo, op-pure su quello pragmatico, patemico o estesico.

Non è un dato da poco perché come si avrà modo divedere nei saggi di Lotman sulle poetiche del comporta-mento quotidiano è proprio a questi giochi di concatena-mento che la semiotica della cultura deve far riferimentoper ricostruire o penetrare l’intelligibilità di configura-zioni semiotiche complesse. Se volessimo riportare que-sto gioco di correlazione a due serie minime ed elegges-simo a tale ruolo il rapporto fra rappresentazioni e prati-che (come del resto Lotman ci dà modo di fare in piùoccasioni, e non solo in questi saggi) non ci troveremmogranché distanti dalla rilettura deleuziana della teoriadella cultura di Foucault, laddove le “formazioni” checostituiscono il sociale emergono dal concatenamentofra pratiche discorsive e pratiche extradiscorsive (Deleu-ze 1986). Tuttavia, per mantenerci più vicini all’eteroge-neità del reale converrà notare, leggendo i testi, tuttiquei punti in cui Lotman ricrea degli insiemi fatti di pa-role, gesti, situazioni d’etichetta, brandelli di narrazionimitiche o romanzesche, riferimenti pittorici o teatrali ecosì via, riproducendo delle specie di “anelli semiotici”,nel linguaggio di Deleuze e Guattari (1980), vale a dire

FRANCISCU SEDDA

delle formazioni culturali (che la semiotica definisce epercepisce comunque come “testi” o “testualità”) chepossiamo immaginare come delle configurazioni signifi-cative prodotte attraverso la compresenza di sostanzeespressive diverse. Come ad affermare fra l’altro (e citorneremo) che niente significa in solitudine e nessunlinguaggio significa da solo.

Prensioni e traduzioni

Al di là delle aperture fra visioni diverse della cultura(cosa che va fatta con più cautela di quanto ci si possapermettere in questa breve introduzione) emerge qui ilproblema dei modi stessi di concatenamento. Problemache fa il paio con l’individuazione dei modi di prensionedel senso da parte dei soggetti.

Questo accoppiamento fra concatenamenti e pren-sioni lo si vede in controluce nel dibattito fra Ricœur eGreimas, laddove per il primo la “comprensione” ha ache fare con i segni e la loro com-posizione, potremmodire, lineare, nel tempo, mentre per il secondo il senso ela sua presa reale sono debitori di strutture soggiacenti,astratte, che definiscono dei sistemi di posizioni rispet-to a cui ciò che sta sulla superficie del racconto acquistail suo valore. Come se in gioco fosse la dis-posizione di-namica (definizione e trasformazione) dei significati inuno spazio.

È evidente che se volessimo mantenere salde le diffe-renze potremmo sottolineare che all’opposizione fraRicœur e Greimas si può sostituire o affiancare quellafra Eco e Lotman, laddove il primo ha evidenziato il gio-co di continuo rinvio fra segni per tentare una presaquantomeno “asintotica” del significato (Eco 1984) e ilsecondo ha invece costantemente valorizzato lo spazionon solo come metalinguaggio descrittivo ma perfino,

IMPERFETTE TRADUZIONI

sul finire del suo percorso teorico, come “sistema mo-dellizzante primario” al pari del linguaggio naturale, at-tribuendogli dunque un ruolo profondissimo nella strut-turazione del senso (Lotman 1992a).

Queste due logiche sono state colte anche da JacquesGeninasca (1997) laddove, partendo dallo studio dei te-sti letterari, ha definito una prensione molare, basata sulsegno-rinvio e sul senso comune, e una prensione seman-tica, basata su di una spazialità astratta che articola la si-gnificazione in profondità, una prensione legata a quelloche potremmo definire un senso non-comune, bensìscientifico-analitico.

Arrivati a questo punto ci sembra utile richiamare al-cuni passaggi apparentemente minori in cui queste logi-che differenti paiono trovare un elemento comune chepotrebbe in futuro aiutarci a correlarle. Questo trattocomune è il processo cardine, secondo Lotman, dellagenerazione della significazione: la traduzione.

Il ruolo fondamentale della traduzione7 si ritrovapraticamente in tutta l’opera lotmaniana e nel suo ulti-mo libro, La cultura e l’esplosione (1993), assume con-torni generali dalle complesse, e qui non analizzabili,implicazioni8. Già in precedenza tuttavia, analizzandola struttura del testo poetico, Lotman aveva elaboratouna tipologia di modi di formazione del significato ba-sati sulla traduzione (o, con termine del tempo, tran-scodifica). La distinzione base era quella fra una tradu-zione interna, vale a dire il rinvio fra segni appartenen-ti allo stesso sistema, e una traduzione esterna, in cui èsempre in gioco la creazione di un’equivalenza conven-zionale fra due sistemi. Una distinzione base che peral-tro si apriva internamente a più complesse sfumature,utili a mostrare le due logiche del senso fin qui indivi-duate non come entità opposte frontalmente quantopiuttosto come elementi di un unico continuum (Lot-man 1970, pp. 48-49).

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Del resto, oltre a ricordare la sua centralità in Jakob-son (1963) (sebbene con il linguaggio verbale preso pursempre come punto archimedeo), vale la pena eviden-ziare che la stessa impostazione centrata sulla traduzionesi ritrova in alcuni passaggi generalmente meno ricordatidi Greimas e in diverse definizioni del significato dateda Peirce e riprese da Eco.

Nell’Introduzione a Del senso Greimas (1970, p. 13)postulava che “la significazione (…) non è altro che que-sta trasposizione d’un piano di linguaggio in un altro, diun linguaggio in un linguaggio diverso, mentre il senso èsemplicemente questa possibilità di transcodifica” e piùavanti distingueva una transcodifica orizzontale, di carat-tere principalmente processuale, da una verticale, di tipometalinguistico, fondamentalmente equiparabili a quelleindividuate da Lotman. Nondimeno in Peirce si ritrova-no due definizioni del significato apparentemente ricon-ducibili a queste due logiche. Al primo caso pare corri-spondere l’idea che “il significato di un segno è il segnoin cui esso deve venir tradotto” (Peirce, in Eco 1979, p.33), lasciando aperta la possibilità che in questo passag-gio rimanga condiviso il linguaggio, il sistema di virtua-lità, che regge questa concatenazione espressiva. Al se-condo caso corrisponde l’idea che il significato “è, nellasua accezione primaria, la traduzione di un segno in unaltro sistema di segni” (ib.), lasciando intendere che qui aessere in rapporto, per il tramite di una realizzazione se-gnica, siano due sistemi di significazione diversi.

Ritmi, strutturazioni, memorie

Arrivati a questo punto vale la pena reintrodurre ilterzo tipo di prensione individuato da Geninasca, laprensione ritmica, e intenderla sia come un’ulteriore lo-gica, sia come il cuore e il motore delle altre due.

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L’emersione e la costituzione del senso e dei suoi og-getti è fatta di ritmi che si correlano: a partire da quantoLotman scriveva ne La struttura del testo poetico (1970,p. 47), fino ad arrivare a Geninasca (1997), Landowski(1997; 2003), Marrone (2001; 2005) e Fontanille(2004b) e l’attuale rivalutazione del ruolo della timia,dell’estesia, del corpo e dei corpi all’interno del camposemiotico, è evidente che fin dentro la “funzione segni-ca”, in qualsiasi momento in cui vediamo baluginarequalcosa che significa, che si dà nell’ordine semioticodella testualità, noi abbiamo a che fare con almeno dueritmi (Lotman le chiamava “catene-strutture”), uno infunzione di piano del contenuto e l’altro dell’espressio-ne, che si saldano o, verrebbe da dire a noi ma senza po-ter ulteriormente argomentare, si co-selezionano e co-emergono.

Il ritmo qui va inteso come forma dinamica (Benve-niste 1966), la forma nel suo aspetto di apertura e pro-cessualità. Ogni testo, anche quello apparentementepiù chiuso, è attraversato da ritmi molteplici che dina-mizzandolo e sfrangiandolo dall’interno si danno comevirtualità di senso, come possibilità di correlazioni fu-ture. È per questo che, a dispetto di quanto si crede ofa comodo pensare, la semiosfera come è descritta daLotman non è fatta di spazi circoscritti ma è intessutadi flussi di testi che ne sono le correnti – non a casotornano spesso la metafora dei dislivelli energetici, del-le differenze di potenziale, di processi di attrazione erepulsione – pronte a entrare in relazione con altri flus-si e altri panorami inizialmente imprevedibili, generan-do dialoghi, intersezioni, ondate, effetti a valanga,esplosioni9:

the circulation of texts moves ceaselessly in all directions,large and small currents intersect and leaves their traces.At the same time texts are relayed not by one but by manycentres of the semiosphere, and the actual semiosphere is

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mobile within its boundaries [and] these same processesoccur at different levels (…) (Lotman 1990, p. 150).

La semiosfera, dice poco dopo Lotman per renderepiù vivida l’immagine, “ribolle come il sole”.

Riandare ai micro o macro ritmi che a ogni livello co-stituiscono il mondo del senso nel suo precario equilibrio(o nel suo costante disequilibrio) ci sembra necessario.Ma sull’onda dell’entusiasmo per questa salutare fluiditànon ci si può scordare la presenza di strutture che garan-tiscono la tenuta locale dei ritmi, o il formarsi di vere eproprie concrezioni segniche, anche grazie al decisivoruolo della memoria culturale. E nel ripercorrere tuttiquesti livelli – apertura, strutturazione, fissaggio – nem-meno bisogna credere che ci sia un valore dato, per cuiuna dimensione sarebbe consustanzialmente progressivae un’altra rigidamente regressiva o conservatrice, rica-dendo in una visione miope che impedisce di vedere co-me ogni dimensione vive delle altre. La memoria, l’orga-nizzazione del sapere, ha i suoi ritmi e le sue strutture –non a caso parliamo della superficie segnica anche in ter-mini di enciclopedie rizomatiche (Eco 1984) –, le struttu-re si fissano fino a diventare dispositivi (Greimas, Fonta-nille 1991), i ritmi nel momento in cui emergono tradi-scono una certa strutturalità o “percolano” essi stessi nel-la memoria della cultura, fino a diventare come deglistandard musicali, riconoscibili seppur sotto fogge diffe-renti. Capaci comunque di toccarci e farci ondeggiare,battere il tempo, fino al punto in cui non possiamo far ameno che alzarci e reiniziare a ballare.

Riconquistare una presa su di una quotidianità sem-pre più complessa e sfuggente – riuscire a coglierne il“canto violento” (de Certeau 1974) – significa secondonoi, se ben stiamo traducendo l’eredità di Lotman, for-nirsi di strumenti per comprenderne contemporanea-mente strutturazioni e destrutturazioni, processualità e

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sistematizzazioni, flussi e panorami, stabilità e dinami-smi, ritmi e memorie. Significa cogliere la vita nella suagenerale poeticità e poieticità: senza aver paura di rico-noscerne le formalità che continuamente vi depositiamograzie al lavorio della cultura, dei corpi, dell’immagina-zione e al contempo la consustanziale imprevedibilitàche questo intreccio di relazioni plurali, molteplici, opa-che nel loro eccesso, necessariamente riproduce. Noidobbiamo guardare al tessuto e alla tessitura, nella loroimperfezione e incompiutezza, certo, ma nondimenonella loro irriducibile presenza. Dobbiamo cogliere lemolteplici rime (semantiche, plastiche, figurative) chetessono e disfano – come Penelope, ma nello stessoidentico momento – la trama del reale; così come dob-biamo cogliere le copiose rimotivazioni dell’arbitrario(Fabbri 2000), le continue generazioni di essenze fattic-ce attraverso sciami di metafore (Merleau-Ponty 1964;Nietzsche 1991) che ci fanno sembrare, una volta scor-dati i nostri stessi gesti creativi, tutto “così reale”, cosìvero, così solido e costrittivo. E tuttavia, pur semprestranamente fragile e congiunturale.

Definizioni dimenticate, confini attraversati

Se ci siamo dilungati in questo percorso è stato ancheper rendere più vivida la necessità di riprendere la defini-zione della semiotica della cultura che si ritrova sia nelleProposte per il programma della IV Scuola estiva coordina-ta da Lotman a Tartu nel 1970, sia all’inizio dello scrittoa più mani che rappresenta un momento di sintesi diquel periodo e di quell’esperienza comune di ricerca: leTesi per un’analisi semiotica delle culture del 1973.

In questi passaggi ritroviamo una sorta di monito epremonizione rispetto a ciò che sarebbe stata una partedella ricerca semiotica, fin troppo attenta all’autonomia

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dei singoli linguaggi fin quasi a creder vera la loro par-cellizzazione, e così spesso incapace di risalire in super-ficie, verso l’eterogeneità fondante – Lotman non sistancherà di ripeterlo fino alla fine (1993a, p. 145) –della semiosi sociale, in cui la comprensione dei proces-si di senso implica necessariamente una visione d’insie-me, capace di cogliere i raccordi e i conflitti fra i sistemidi significazione.

Ecco come si esprimevano gli studiosi della Scuola diTartu:

I singoli sistemi segnici, pur presupponendo strutture conuna organizzazione immanente, funzionano soltanto inunione, appoggiandosi l’uno all’altro. Nessun sistema se-gnico possiede un meccanismo che gli consenta di funzio-nare isolatamente. Ne consegue che, accanto a una impo-stazione che permetta di costruire una serie di scienze re-lativamente autonome del ciclo semiotico, anche un’altra èlecita, dal punto di vista della quale tutte queste scienzeconsiderino aspetti particolari della semiotica della cultura,intesa come scienza della correlazione funzionale dei di-versi sistemi segnici.

E se questa definizione può apparire ancora neutra,ordinata o statica, i termini appaiono più chiari in unasua successiva ripresa in un famoso saggio del 1977 daltitolo La cultura come intelletto collettivo e i problemidell’intelligenza artificiale (in Lotman 1980), uno scrittoche fra l’altro ci aiuta a sottolineare come anche nei sag-gi qui ripubblicati ricompaia senza posa il rapporto frascienza, tecnica, arte e cultura. E come Lotman, davantiai timori che il progresso tecnico-scientifico spesso cau-sa10, rispondesse con la curiosità e la sfida alla sperimen-tazione, al dialogo fra scienze e campi del sapere appa-rentemente distanti o conflittuali.

Ma torniamo dunque a questa autodefinizione cheesplicita esattamente lo spazio dinamico, dissonante e

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polilogico in cui la semiotica della cultura sceglie fin dal-l’inizio di situarsi:

L’autodefinizione della semiotica della cultura è legata aiproblemi riguardanti il reciproco condizionamento funzio-nale nella vita dei vari sistemi semiotici, la natura della lo-ro asimmetria strutturale, la loro reciproca intraducibilità.Dal momento in cui è divenuto chiaro che i singoli sistemisemiotici si dispongono in un’unità strutturale grazie allaloro reciproca non uniformità, ha cominciato a svilupparsiuno speciale genere di ricerca estraneo alla semiotica rivol-ta allo studio dei sistemi comunicativi isolati (Lotman1980, p. 34).

Impossibilità dell’isolamento, asimmetria interna edesterna, costituzione del proprio attraverso l’altro – Lot-man parlerà di una vera e propria necessità dell’altro in-nervata nelle viscere della cultura (Lotman 1985; 1994a)– e contemporaneamente, intraducibilità e non unifor-mità fra sistemi.

Non è un caso a questo punto che lungo la sua ricer-ca Lotman abbia valorizzato costantemente il confinecome spazio di frontiera, come luogo di congiunzioni,mai facili ma indispensabili per l’insorgere del nuovo, dinuova diversità e di nuove comunanze al contempo: dinuove culture. Il confine come zona di passaggio, densadi pratiche di attraversamento, di articolazioni identita-rie impreviste, come si potrebbe dire con Clifford(1997) e Hall (1986). Zona di creolizzazione (Glissant1996), intesa come continuo processo di mescolamento,ma anche di creolità (Bernabé, Chamoiseau, Confiant1989; Chamoiseau 2005), vale a dire formazione di unaterza cultura ibrida e tuttavia unica che nasce dall’incon-tro-scontro delle prime due (Lotman 1985). Valorizza-zione della periferia, intesa anche come spazio reale,geografico e geopolitico, ma prima di tutto come spazioastratto, che si può manifestare dovunque, ovunque l’in-

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tersecazione di corpi singoli e collettivi, di storie e me-morie differenti, rimette la cultura in movimento. Spaziocaratterizzato dalla destrutturazione (decostruzione?)del senso dato – del sentimento di datità del senso – e diprefigurazione di un senso a venire: l’incontro riapresempre i giochi e lo fa riempiendo lo spazio di vuoti.Traendoci fuori dalla passività, incrinando l’automati-smo che la cultura stessa paradossalmente produce (Lot-man, Uspenskij 1975), ci costringe (o ci dà la possibilità,questione di punti di vista) a giocare con gli altri11, agiocare con le forme del mondo.

C’è, tuttavia, un elemento decisivo da tenere in con-to quando richiamiamo il concetto di confine semioti-co, vale a dire il fatto che Lotman, analista interessatoa dar conto prima di tutto dei meccanismi intimi dellacultura e restio ad attribuire a essi valori e significatiultimi e immutabili – maestro davvero non essenziali-sta e non fissista, sensibile alle trasformazioni semanti-che nello spazio e nel tempo – fa del confine un dispo-sitivo paradossale, un dispositivo che a un livello uni-sce e a un altro livello, al contempo, separa. Separa, nelsenso che il confine è anche un generatore di “riflessi-vità”, di necessaria autodefinizione e autocoscienza. Èl’incontro con l’altro, che ci cambia e contemporanea-mente ci fa noi stessi, che ci fa nuovi e contemporanea-mente ci fa credere di aver ritrovato la nostra memoria,il nostro passato, la nostra coscienza. Costruzione si-tuata di un credere e di un sapere che fa ogni volta iconti con le aporie del tempo.

Probabilmente niente meglio dell’idea di con-divisio-ne (Nancy 1990) – il fra di noi, che ci fa essere uniti e di-visi al contempo – può riassumere questo problema cen-trale per chi vuol prendere sul serio le politiche dell’i-dentità, i processi di articolazione di connessioni e scon-nessioni storiche, geografiche e politiche, in cui in giocoè sempre il nostro ponderare, o provare a tenere sotto

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controllo, indipendenze e interdipendenze (Clifford2001; 2002; 2003; Rosenau 2003).

Bisogna accettare tutta la paradossalità del confinecome luogo di unione e separazione, di attraversamentoe permanenza – si può abitare una frontiera, farla dive-nire la propria terra – per poter evitare le molte banalitàche si sentono in giro sul tema delle identità. Non è uncaso che negli ultimi scritti dei migliori pensatori del-l’antropologia e dei cultural studies si ritrovino delleanalisi che ruotano attorno alla complessa e conflittualearticolazione di identità pragmatiche e ideologiche –Appadurai ne parla ad esempio con riguardo dei senti-menti antiamericani di quegli immigrati che per moltiversi lottano per vivere da americani (Appadurai 2005;cfr. anche Clifford 2003) – che riproduce in buona so-stanza i due livelli che compongono il confine lotmania-no. E non sarebbe inutile mettere in dialogo tutto ciò,ad esempio, con le riflessioni di Jacques Geninasca(1997), laddove offre strumenti semiotici per soppesare irapporti fra le componenti timiche (emozionali) e predi-cative (coscienziali) del credere, e le loro implicazioninella definizione delle identità dei soggetti: per capirne iprocessi di scissione, crisi, composizione o infinita ricer-ca di una identificazione che, come l’orizzonte, conti-nuamente ci muove e ci sfugge.

Sarebbe forse un altro confine attraversato. Perchéc’è confine dovunque ci sia il tentativo, o la necessità, diuna traduzione.

L’implosione ed esplosione del mondo

Ogni idea è radicata in una storia e in una geografia(Merleau-Ponty 1964, p. 56). Ogni pensiero, in tal sen-so, è un pensiero situato che non smette di “tradire” ilfondo da cui si origina (Sedda 2005). Qual è dunque lo

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spazio-tempo a cui si ancora la semiotica della cultura inquanto pensiero, con la sua sensibilità per la traduzione,i confini, l’autocoscienza intesa come autodefinizione?

Una parziale risposta si trova nel testo d’apertura diquesto libro (Ricerche semiotiche) e va ben oltre, adesempio, l’origine strettamente “russa” che Rastier(2003) evoca parlando della semiotica della cultura diLotman.

Quello che Lotman e Uspenskij fanno in questo sag-gio, infatti, è notare, a partire dall’analisi di testi concre-ti, l’emersione di un problema per lungo tempo non te-matizzato nell’ambito della cultura: quello dell’incom-prensione fra gli uomini, una incomprensione che provo-ca necessariamente conflitti e collisioni tragiche.

Il paradosso che i due studiosi sottolineano è chel’emergere di questo tema fa il paio con la contempora-nea trasformazione del mondo in un “piccolo spazio”,in cui si rafforzano per certi versi i sentimenti di soli-darietà umana e chiara diviene la coscienza dell’unita-rietà del pianeta.

Insomma, nel momento in cui ci si aspetterebbe unadiminuzione delle difficoltà di comunicazione fra gli uo-mini le si vede aumentare. Causticamente si potrebbedire che l’unitarietà del pianeta è servita per fare delleguerre più grandi, “mondiali”. Ma non si tratta solo diun cambiamento di scala quantitativa. Il processo cheagli inizi del 1900 portava Paul Valéry (1945, p. 23) a di-re “Comincia l’era del mondo finito”, quel processo cheportava l’espansionismo delle nazioni occidentali a satu-rare il mondo e a interconnetterlo tanto forzatamentequanto ambiguamente, non doveva lasciare immutata laqualità dei rapporti fra gli uomini e le culture. La fine diquel mondo era, forse, l’inizio di un altro, il nostro12.

L’Occidente – etichetta tanto generica e vischiosaquanto quella di Oriente – mangiandosi il mondo fago-citava anche se stesso. Vista col senno di poi l’espansio-

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ne coloniale occidentale si rivelava come una fragorosaimplosione. Come la rana che gonfiandosi il petto persembrare più grossa del toro finì per esplodere.

Ma non si era detto “implosione”? Proprio così, im-plosione ed esplosione, collasso del vecchio e insorgenzadel nuovo. Come la rana nel momento fatale o, come di-cono i teorici delle superstinghe, come l’universo, con-temporaneamente in espansione e in contrazione (Gree-ne 1999). Si aspettava forse l’Occidente che gli altri sa-rebbero rimasti a guardare? Che questi “altri” avrebbe-ro indefinitamente accettato che l’Occidente parlasse anome loro? Che avrebbero accettato la giustificazione,largamente condivisa in Occidente sia fra progressistiche conservatori, per cui gli altri, gli “orientali”, avevanobisogno degli occidentali per essere rappresentati, persalvarsi dagli ipotetici danni che una volta liberi avreb-bero causato a se stessi (Said 1978)?

Ciò di cui l’Occidente doveva tragicamente accorgersiera che gli altri avevano sempre narrato la loro storia eavevano ancora intenzione di farlo. Doveva accorgersiche gli altri avevano già da sempre previsto il cambia-mento e un posto per l’alterità dentro il loro sistema cul-turale; che erano nuovamente pronti a importare dall’e-sterno e “indigenizzare” quanto serviva per la loro vita(Sahlins 1994; 2000). Beninteso, niente e nessuno uscivaintatto e immutato da questo rapporto di forze chetutt’oggi continua, ogni volta più o meno teso, asimme-trico, conflittuale, produttivo (o distruttivo). E tuttavianel momento in cui lo spazio del mondo finiva, ecco chesi attualizzava la pluralità dei suoi spazi interni, delle suestorie incrociate, dei suoi confini molteplici. Nel momen-to in cui il mondo implodeva – e l’Occidente, dice Lot-man, non a caso andava alla ricerca del suo altro dentrodi sé, nell’inconscio –, diventando un piccolo unico pun-to, subito esplodevano dal suo interno una serie di spazisovrapposti e interconnessi, ognuno alla ricerca della sua

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autodefinizione, ognuno con la rivendicazione di una suamemoria e di un suo futuro, ognuno pronto ad autode-scriversi con un suo proprio linguaggio.

Quel processo che l’antropologia ha definito come lascoperta dell’altro (Featherstone 1993), e che coincidecon il crollo di un’autorità monologica nella scritturadelle culture (Clifford, Marcus 1986; Clifford 1988), vie-ne da Lotman e Uspenskij riportato a livello dell’interascienza del XX secolo:

La scienza del XIX secolo identificava il punto di vista con-sueto dello scienziato con la verità e quindi presupponevapossibile la descrizione soltanto dal “mio” (dello scienzia-to, della scienza) punto di vista, il che si esprimeva, adesempio, nell’assolutizzazione del punto di vista europeonell’antropologia e della linguistica indoeuropea o dellagrammatica latina nella linguistica. Ogni altra descrizione– cioè la descrizione fatta in altri termini – era consideratasbagliata (non civilizzata, barbara) e in ultima analisi inesi-stente per la scienza. La scienza del XX secolo, al contrario,parte dall’esistenza di vari sistemi di descrizione e s’inte-ressa quindi molto di più del punto di vista dell’“altro”(l’“io” dall’angolo visuale dell’“altro”, l’“altro” dal suoproprio punto di vista).

Il mondo diventa dunque il luogo di incrocio di unapluralità di prospettive, una pluralità di discorsi, fatti inlinguaggi differenti. Non si tratta di un universo equi-probabilistico come la notte in cui tutte le vacche sononere (o grigie, è lo stesso): alcuni linguaggi e alcuneprospettive assurgono (momentaneamente) al ruolo didominanti, altri fanno da “linguaggi traduttori”, ovverodivengono il luogo di incontro e/o spartizione fra di-scorsi dai contenuti diversi o di discorsi simili ma fattida prospettive differenti, altri linguaggi esercitano ilruolo di alternativa, di contro-storia, altri ancora cado-no nella marginalità e nell’insignificanza ma, depositan-

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dosi nella memoria della cultura, restano lì, in sospeso,come una riserva di senso pronta per essere tradotta eriattivata in futuro.

Qualcuno domina ma l’irriducibile presenza dell’al-terità sembra ormai un dato. Non esiste più un puntoarchimedeo, o un linguaggio essenzialmente e definitiva-mente capace di parlare la totalità del mondo, di riassu-merne le voci. La globalità o la dominanza sono delleposizioni relative che si può provare a tenere (e che mol-ti aspirano a tenere), così come si cerca di tenere unavamposto in guerra.

Traduzione vs Com-prensione?

È per tutto ciò che si è incominciato a tradurre, e bi-sogna continuare a pensare la traduzione come un con-cetto intellettualmente chiave e politicamente strategi-co. Ormai è impossibile com-prendere, prendere tuttoinsieme: la stessa volontà di comprendere l’altro, sotte-sa a tanto sapere sulle culture, si rivela a questo puntosospetta o, in modo più benevolo, incapace di tener fe-de ai suoi stessi propositi. La com-prensione dell’altroappare infatti come un movimento che va da sé a sépassando per un’alterità che viene assimilata al proprioorizzonte (Said 2002; cfr. anche Borutti 1999). La tradu-zione può essere pensata – e va praticata – invece comeun gesto che va dall’alterità all’alterità: partendo dall’a-scolto dell’altro perviene a una trasformazione recipro-ca (la traduzione, si ripete costantemente, arricchiscesia la lingua di partenza che quella d’arrivo), alla crea-zione di due alterità che hanno ora qualcosa in comune,quantomeno la loro reciproca trasformazione, il lorostesso essere entrati in contatto.

La traduzione in tal senso va considerata come unospazio, un piano, in comune su cui in un dato momento

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due o più soggetti si appoggiano per confrontarsi(Clifford 1997, pp. 55 e 59). Entrandovi ne subiscono lecostrizioni ma col vantaggio di poter entrare in comuni-cazione con gli altri; entrandovi vi prendono posizione,lo abitano e lo distorcono ognuno a suo modo.

Lotman ha spesso descritto in un senso similare a que-sto il ruolo funzionale dei metalinguaggi, non intendendoperò con ciò le sole lingue scientifiche ma qualsiasi pro-dotto umano che generi la correlazione di due o più siste-mi di senso. Un caso riportato da Lotman è ad es. quellodelle “lingue nazionali standard”, che intervengono comemeccanismi unificatori che una volta immessi nella realtàoffrono sì questo piano comune ma vengono al contempodeformate e rilocalizzate dai diversi gruppi o da ciascunparlante, che le usa e le abita a suo modo. In modo simi-lare si potrebbe pensare a quei metalinguaggi fondamen-tali nella semiosi sociale che sono le costituzioni (e cosìpure i trattati sovranazionali, gli accordi bilaterali o com-merciali ecc.) che forniscono il parametro e lo spazio digioco (più o meno condiviso) per le parti politiche e so-ciali di un dato ambito e in un dato momento: terreno diincontro e di scontro, terreno di riferimento.

Tanto più ampio è lo spettro di diversità che la tradu-zione tenta di colmare quanto più essa rischia di esserecreativa e tragica al contempo. Paolo Fabbri ha tenutouna lezione magistrale sui devastanti effetti della traduzio-ne del Vangelo in Cina. Jean-Marie Tjibaou, leader delmovimento per l’indipendenza kanak, sperimentatore invivo della costante necessità di tradurre sia l’alterità che lapropria tradizione poteva invece affermare che la Bibbianon era dei bianchi: con questa frase il politico della Nuo-va Caledonia attirava l’attenzione sull’appropriazione se-lettiva e trasformativa di un oggetto non proprio (Clifford2003, p. 86; Bensa 1998), divenuto, in una lontana isoladell’Oceania, diverso da sé e contemporaneamente partedi una cultura antica e nuovissima al contempo.

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Si noti il paradosso: il cristianesimo gioca qui il ruolodi un discorso-parametro, di un linguaggio di traduzio-ne, “globale”, e al contempo esiste concretamente solocome parte del mondo di vita, del mondo immaginato,di un collettivo situato che facendolo suo lo “localizza”– non solo nel senso che lo introduce in una località ter-ritoriale (la Nuova Caledonia) ma soprattutto nel sensoche lo rende un pezzo “locale” all’interno di un sistemaculturale in se stesso più ampio, “globale” (la “culturakanak di oggi”). È questo meccanismo che consente distabilire una serie di correlazioni che definiscono zonedi traducibilità e di intraducibilità, di appropriazione erifiuto: come se definissimo il piano di coloro che aderi-scono al cristianesimo e poi dicessimo senza paura dicontraddizione “hanno la stessa religione, ma non èuguale da nessuna parte: non ha lo stesso valore e lastessa forma dappertutto”.

Crediamo che i ragionamenti di Sahlins (2000) cir-ca la presenza contemporanea di una logica (un “lin-guaggio”) capitalista generale e dei suoi sovvertimentilocali possa rientrare in questo schema. E così pure iragionamenti circa la “globalizzazione” o l’“occidenta-lizzazione” (Tomlinson 1999), in quanto logiche unifi-cate e unificanti che tuttavia lasciano sempre, scen-dendo di livello, l’impressione se non di una loroscomparsa quantomeno di una loro pulviscolarizzazio-ne all’interno di altre logiche, altri sguardi, altre narra-zioni più composite ed eterogenee. È forse vero chedobbiamo abituarci a pensare a una realtà fatta dimolti piani d’esistenza in tensione, persino schizofre-nica, fra di loro. Pronti a scivolare uno sull’altro, a ri-baltarsi o accomodarsi in stabili configurazioni. Nullaci vieta, se non la nostra abitudine riduzionistica e losforzo che inizialmente comporta trarcene fuori, di te-nere in compresenza questi livelli, sia dal punto di vi-sta teorico sia nelle sue conseguenze pratiche.

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E si noti, questa logica riduzionistica da evitare agi-sce anche nel bene. Basti pensare a un recente spot diuna compagnia telefonica che mostrava Gandhi intentoa diffondere il suo messaggio e il suo linguaggio non-violento a un pianeta tecnologicamente connesso: “Seavesse potuto comunicare così, oggi che mondo sareb-be?” si domandava questo spot indubbiamente bello edevocativo. Ma il punto è che la non-violenza può esserea sua volta un metalinguaggio – se ne può anche fare lateoria – ma la sua declinazione locale (per non parlaredella sua stessa accettazione) rimarrebbe soggetta a unaricezione plurale, a una logica della traduzione che esulada qualsiasi facile utopia della comprensione e della co-municazione globale, come se i problemi dell’uomo fos-sero solo materia di mancanze tecnologiche.

Il problema della traduzione inizia sulla porta di ca-sa. Basta pensare al termine “non-violenza” che in ita-liano nonostante il trattino gira in negativo l’afferma-zione tutta positiva contenuta nel termine originalesatyagraha, colorando di passività un intero discorsofondato esattamente sul sentimento contrario, una vo-lontà di azione e trasformazione del mondo talmenteforte da portare Gandhi (1996, pp. 18-24) al punto diaffermare che davanti all’ingiustizia l’agire violento èpreferibile all’inazione e alla codardia: tutt’altro che un“porgere l’altra guancia”. O si pensi alle radici dellanon-violenza nell’induismo, al suo radicamento nelcontesto indiano preindipendenza e a tutti gli altri ele-menti che ne rendono la traduzione locale-attuale unasfida tanto importante quanto complessa. Si pensi infi-ne allo stesso Gandhi, convinto com’era che la veritàdella non-violenza fosse un cammino infinito cheognuno doveva ripercorrere da capo e a suo modo. Co-me ad affermare che ciascuno deve praticamente rites-sere le trame fra i principi ideali – anche i migliori – ela sua vita, la sua realtà circostante.

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Correlazioni instabili ed equivalenze imperfette

Come abbiamo visto la definizione di semiotica dellacultura proposta dagli studiosi russi portava negli anniSettanta la sua attenzione sulle correlazioni fra sistemi.Tuttavia il percorso storico-antropologico che abbiamoseguito e la stessa evoluzione del pensiero lotmaniano ciinducono a qualche ulteriore riflessione. Non indifferentein tal senso è che, come ricordava Peeter Torop (1995a)nella sua rassegna degli elementi definitori della Scuola diTartu “come scuola”, Lotman sia passato dalla “compren-sione del testo come manifestazione della lingua” alla“comprensione del testo come generatore della sua stessalingua”13, enfatizzando in definitiva l’aspetto processuale,il gioco di costante generazione di sistematicità attraversogli oggetti culturali. In tal senso ci pare dunque che la se-miotica della cultura, anche in conformità con la definizio-ne generale della semiotica di ambito europeo14, si possaoggigiorno intendere sia come lo studio della correlazionefra processi e fra sistemi di senso, sia come lo studio dei si-stemi e dei processi di correlazione.

Ancora una volta, ripetiamolo, non si tratta di sce-gliere fra stabilità e dinamismo, fra simmetria e asimme-tria, ma di cogliere le forme della loro compresenza, delloro dispiegarsi insieme, una attraverso l’altra. La diadeflussi/panorami elaborata nella teoria della cultura diAppadurai rende bene questo gioco fra processi esistemi: secondo lo studioso indiano essi infatti sono“costrutti profondamente prospettici, declinati dallecontingenze storiche, linguistiche e politiche di diversitipi di attori” (Appadurai 1996, pp. 52-53) tale per cuida un lato viene detto che il suffisso -scape (che vieneutilizzato nel neologismo che tiene insieme flussi e pro-cessi) indica “la forma fluida e irregolare di questi pano-rami” identitari (p. 52) e dall’altro lato che i flussi (diuomini, idee, immagini, tecnologie e soldi) sono dei “pa-

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norami se visti nelle prospettive stabilizzanti di un qua-lunque mondo immaginato” (p. 68), vale a dire una vol-ta colti all’interno di un mondo culturale inteso comeDiscorso, un universo di valori retto da un credere, unamemoria e un’attesa di sé.

Tutto rischia di sembrare più ambiguo, più instabile,più “mosso”. Ogni correlazione sembra revocabile o indiscussione. Quando Lotman (1985, p. 63) affermava che“il punto da cui passa il confine di una cultura dipende(…) dalla posizione dell’osservatore” e che la storia deipopoli può essere vista contemporaneamente in due pro-spettive, “da una parte come sviluppo immanente, dall’al-tra come risultato di multiformi influenze esterne”(1993a, p. 87), certamente richiamava l’attenzione su diuna presa d’atto circa la complessità del mondo. E sebbe-ne fosse conscio dei rischi insiti nella “schizofrenia dellacultura”, nondimeno è all’ospitalità delle pluralità che in-vitava con fiducia, o quantomeno con coraggio, quandoparla di una visione stereoscopica (1980). Un invito a pen-sare con gli altri piuttosto che contro di essi.

Come si vede l’emersione del proprio e dell’altrui,del proprio mondo immaginato e di ciò che lo attraversao sta al di fuori, di ciò che permane e ciò che passa, è ilprodotto di un gioco relazionale e differenziale, maicompiuto, mai definitivo, per quanto mai totalmente li-bero da condizionamenti, da una inerzia storica che ten-de a circoscrivere il campo del possibile per quanto nonpossa chiuderlo in principio.

Per questo abbiamo richiamato in precedenza la me-tafora della tessitura, non solo per l’evidente rimando eti-mologico a uno dei concetti semiotici fondamentali, quellodi testo. Ma proprio per riferirci a questo lavorio costante,spesso anonimo e disperso, di costituzione del sociale.

Ciò che continuamente facciamo producendo testi otestualizzando il mondo, secondo Lotman (1985, p. 86),è stabilire “equivalenze convenzionali”, inesatte ma as-

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sociative, capaci – per quanto queste correlazioni sianodinamiche (p. 69) – di stendere una rete organizzatricesul mondo, capaci di farci viaggiare fra culture, farcipassare da discorsi scientifici a discorsi quotidiani, daidentità collettive a identità personali (o ad altre identitàcollettive), da romanzi a film, da musiche a danze a vi-deoclip, senza perdere (del tutto) il sentimento dellarealtà e della sensatezza delle cose.

I collettivi umani hanno sempre vissuto attraversoquesto gioco di influenze, prestiti, trasposizioni, atti di“pirateria” politico-culturale (Anderson 1983): sia che sitrattasse di trasposizioni materiali come quelle di oggettie pratiche o astratte come quelle di modelli di vita, valo-ri, concetti. E sempre queste traduzioni di forme semio-tiche hanno dato delle “equivalenze senza identità”(Ricœur 2005), imperfette e instabili.

La storia delle nazioni e dei flussi di idee e ideologiene è una testimonianza potente e spaesante. Pensiamoad esempio agli studi di Lotman (1984) sulla ricezionerussa del pensiero di Rousseau, al cricket indiano analiz-zato da Appadurai (1996), alle analisi di Robertson(1992) sull’importazione di idee sulla nazione in Giap-pone. Non a caso Benedict Anderson ha parlato di verie propri “spettri della comparazione”, presenze fanta-smatiche che colgono colui che si ritrova a guardare sestesso – la copia di se stesso – importata, trasposta edeformata in un altro luogo. Come davanti al riutilizzo“innocente” e “patriottico” della visione nazionalista hi-tleriana nei discorsi del presidente Sukarno, leader dellalotta anticolonialista indonesiana (Anderson 1998).

Doppie prese e sguardi strabici

Davanti a questi strani giochi ottici della realtà cultu-rale abbiamo bisogno di ridefinire le nostre abitudini

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percettive, sia come individui che come studiosi delleculture. In primo luogo e concretamente, nel nostroquotidiano vivere semioticamente, abbiamo bisogno diattivare senza posa quella doppia presa che Lotman vi-vendo in uno spazio di conflitto e di frontiera come Tar-tu aveva sperimentato sulla sua pelle, rendendosi capacedi valorizzare la cultura russa pur essendo stato allonta-nato in Estonia dal regime sovietico a causa delle sueorigini ebraiche; rendendosi capace di parlare a favoredell’indipendenza dell’Estonia davanti ai suoi connazio-nali nonostante i complessi rapporti con il mondo esto-ne, pur sempre pronto a identificare Lotman con l’inva-sore sovietico (cfr. Burini, Niero 2001; Caceres 1996).

Vedere il proprio come altro, vedere l’altro come ilproprio (Lotman 1993b), questa è una doppia presa sul-le cose del mondo.

Non è un processo facile, e la sua emersione sembralo strano privilegio di coloro che patiscono sulla loropelle l’esperienza dolorosa e drammatica dell’esilio, co-loro che dalla tragedia ricavano la possibilità di una sen-sibilità diversa. E tuttavia, forse, non si tratta più di unaesigenza eccezionale e limitata a pochi individui, ma unanecessità che questo mondo sempre più ci impone.

A questo incrocio orizzontale, dobbiamo forse affian-carne un altro, verticale, più esplicitamente legato a que-stioni di metodo. Si tratta di una sorta di attitudine checi piace definire uno sguardo strabico, e che ci pare ri-connettere profondamente Hjelmslev e Lotman. Stiamoparlando in definitiva del necessario rapporto fra analisie sintesi (o, in termini hjelmsleviani, di analisi e catalisi):un rapporto che definisce le condizioni della prensionedel senso degli oggetti-testi che noi stessi parzialmentecostruiamo. Il movimento che ci viene descritto daHjelmslev (1961) è infatti quello di una discesa analiticache a ogni passo “encatalizza” – ricostruisce e si portaappresso – un sistema (e uno sfondo) coesivo ai fram-

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menti di cui si vuole illuminare il senso. Di converso laricostruzione dei sistemi non può non avvenire attraver-so la presa e la tessitura operata su frammenti di lin-guaggio che sono le uniche “realtà” (i “testi inanalizzati”di Hjelmslev) a nostra disposizione. Insomma, in questomovimento di incrocio assistiamo a un gioco di co-emer-sione, che fa saltare fuori un testo, inteso come un insie-me di interdipendenze “interne” date dal rapporto frauna forma del contenuto e una forma dell’espressione,dei segni che lo popolano e ne sono la manifestazioneultima e superficiale, un co-testo che (emergendo gene-ralmente dall’interno del testo) fa da sfondo (da deposi-to e architettura di forme) rispetto a cui si stabiliscono lecorrelazioni (“esterne”) socialmente significative fra iltesto (con i suoi segni) e l’extratesto.

Questa generazione di mondi avviene sempre, sianella presa analitica che in quella quotidiana, ma avvie-ne spesso in modo irriflesso.

Semiosfera/Semiosfere

Una continua proliferazione di mondi nel mondo. Èquesta un’idea che crediamo di poter desumere da alcu-ni saggi di Lotman, a partire da quello famoso sulla se-miosfera, passando per un altro, molto importante, incui lo studioso russo riprende la visione di Leibniz (Lot-man 1993c), fino ad arrivare a La cultura e l’esplosione.

È impossibile tracciare qui questo percorso. Ciò cheinvece possiamo fare è mostrare come la cultura, inquanto semiosfera, si configura negli scritti lotmanianicome un dispositivo glocale e al contempo come unmeccanismo “a fisarmonica”, o pulsante.

Iniziamo dicendo che in alcuni passaggi molto densiLotman ci descrive un movimento della semiosfera frapiattezza, elevazione e appiattimento. Cosa significa? In-

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nanzitutto significa che la semiosfera ha sempre neces-sità di un fuori, di una non-cultura – l’impensato, il nonconosciuto, ciò che semplicemente, in un dato momen-to, ci è estraneo –, rispetto a cui definirsi. In tal senso es-sa è come un linguaggio, una forma, che filtra e regola latraduzione dell’esterno non-semiotico in qualcosa di si-gnificativo e segnico. Pensiamo ad esempio alla tradu-zione culturale del mondo degli “esteri” che i media do-mestici, con tutti i loro filtri linguistici, ideologici, tecni-ci operano quotidianamente (cfr. Pezzini, Sedda 2004).Tuttavia questo “fuori”, questa materia amorfa, è percerti versi uno spazio che ingloba la forma (Fabbri1998b), che la circonda e a suo modo non smette di at-traversarla. In molti punti Lotman lascia baluginare que-sto fondo instabile, energetico, pulsionale che continua-mente preme, dinamizza e sfrangia l’ordine delle cose.

Ora la semiosfera si adagia su questo fondo, lo catturae ne vive traducendolo nelle sue maglie. Solo che, per unostrano paradosso, invertendo gli sguardi, possiamo direche è essa stessa che continuamente riproduce l’irregola-rità, che se la porta dentro. Ogni testo della cultura infattigenera, dentro di sé, zone di traducibilità e intraducibi-lità, senso e non senso, sistematicità e caos. Si tratta di unaltro di quei passaggi che i detrattori dello strutturalismotendono a dimenticare ma che nelle Tesi del 1973 è chia-ro: la cultura “non si limita a lottare con il ‘caos’ esterno,ma allo stesso tempo ne ha bisogno, non solo lo annienta,ma costantemente lo crea”. Se qualcosa c’è da aggiungereè che questo caos che continuamente la cultura crea, nonva subitaneamente posto lungo il suo confine esterno, maè disperso nei testi stessi, li abita nelle loro contraddizionie ambiguità, nei loro vuoti, nella loro ricercata o involon-taria indeterminatezza.

Questa irregolarità propria della semiosfera è il suofondo piatto, che Lotman, in assonanza (casuale?) con lacarta diagrammatica di Foucault, definisce carta semioti-

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ca reale, uno spazio di continuo mescolamento15. Mamescolamento di cosa? Mescolamento di quell’ordineche ogni volta si innalza a partire da questo fondo attra-verso le regolarità, le strutturalità, che il lavoro della cul-tura immette nel mondo. I linguaggi e i testi che popola-no, che sono, la semiosfera non smettono infatti di ge-rarchizzarla, di darle un’altezza, di creare, come abbia-mo ripetuto più volte, una serie di correlazioni che defi-niscono livelli e metalivelli. Sopra il livello della cartareale, dice Lotman, si innalzano sempre altri livelli, finoad arrivare a quello della sua “unità ideale”, della suaautodescrizione e autocoscienza, che espungendo con-traddizioni fornisce alla cultura che se la crea una poten-te fonte di orientamento e automodellamento. E tuttavia

Nella realtà della semiosfera le gerarchie dei linguaggi edei testi di solito vengono meno: essi interagiscono comese si trovassero ad un solo livello. I testi appaiono immersiin linguaggi ad essi non correlati e possono mancare i co-dici capaci di decodificarli (Lotman 1985, pp. 63-64).

Ecco dunque come nella semiosi sociale quotidiana siriproduce un movimento di appiattimento, che trasfor-ma uno spazio gerarchizzato e articolato (“striato”) inuno spazio piatto (tendenzialmente “liscio”, rizomatico;cfr. Deleuze, Guattari 1980), uno spazio “connessioni-sta” in cui tutto sembra poter tornare in contatto contutto, in cui frammenti di testi o di linguaggi possono“irrompere” in semiosfere non loro e generare implosio-ni ed esplosioni del senso.

Questo continuo movimento a fisarmonica, se siamoriusciti minimamente a renderlo intelligibile, ci appariràa questo punto come una specie di pulsazione continua,un ribollimento, che fa della semiosfera un meccanismovivo, autopoietico e in trasformazione.

Ma il punto ancor più vertiginoso è che per princi-pio la semiosfera è formata da altre semiosfere, in nu-

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mero potenzialmente infinito, in una specie di gioco dimatrioske: per capirci basta seguire l’esperimento men-tale di Lotman quando dice che la stessa semiosferadella cultura umana, intesa nella sua globalità, potreb-be essere un testo all’interno di una semiosfera ancorapiù grande. Questa proliferazione di semiosfere signifi-ca necessariamente che il gioco fra regolarità e irrego-larità, sistematicità e caos, si rifrange e moltiplica al-l’ennesima potenza.

Nondimeno è vero che se ogni semiosfera è fatta disemiosfere ciò a cui ci troviamo di fronte è un dispositi-vo glocale in cui ogni entità è, a un certo livello, una glo-balità, e a un altro, una località interna a una globalitàpiù grande. Ogni essere di questo spazio è singolare eplurale al contempo, è un essere singolare-plurale (Nancy1996). Questo rapporto fra parti e tutto – questa speciedi gioco d’incastro – è definito da Lotman isomorfismoverticale, ed è ciò che garantisce lo stringersi di nessi dicorrelazione fra linguaggi e fra testi, e dunque in defini-tiva un certo grado di ordine all’interno del meccanismodella cultura. La tenuta di questi nessi è data dal lorodepositarsi e permanere nella memoria della cultura, edessendo questa memoria per definizione “non eredita-ria” essa diventa una posta in gioco, il campo di una lot-ta, combattuta attraverso la continua produzione (e di-struzione) di testi – di forme di organizzazione del mon-do –, e il possesso dei mezzi materiali (e non) per la lorostessa riproduzione (Lotman, Uspenskij 1975).

Il sovrapporsi delle culture, la loro interna eteroge-neità e contraddittorietà, il muoversi delle persone, ilviaggiare di idee e oggetti culturali, il mescolarsi dellecose del mondo, il passare del tempo, fanno sì che la te-nuta di questi nessi sia precaria, che si realizzi in alcuneparti e si dissolva in altre, che appaia solida e poi im-provvisamente ceda. Ogni tempo e ogni spazio sembradefinire i suoi isomorfismi, reggersi su di essi: poi le cor-

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relazioni saltano e ciò di cui ci accorgiamo sono le di-sgiunture (Appadurai 1996), i punti di frizione, i proces-si che rendono difficili se non impossibili incastri e in-scatolamenti16.

Il testo

Il concetto di testo è sicuramente uno dei più impor-tanti per la disciplina semiotica, tanto che nelle Tesi perun’analisi semiotica delle culture gli autori della Scuoladi Tartu lo considerano un “elemento primo (unità dibase) della cultura”. Sicuramente è anche uno dei piùcontroversi, soprattutto dal punto di vista di chi noncondivide il metalinguaggio semiotico. Del resto cometutti i termini ben presenti nel nostro linguaggio comu-ne il rischio di limitazioni o fraintendimenti della suaportata euristica è continuamente dietro l’angolo.

Per di più si tende sovente a scordare, anche in ambi-to semiotico, una distinzione basilare, che giustamenteanche Gianfranco Marrone ricordava in un recente con-vegno dedicato alla sociosemiotica. Vale a dire che esi-ste, per riprendere il linguaggio dell’antropologia, unavisione emica (dall’interno) e una etica (dall’esterno) sultesto. La visione emica è quella dei portatori della cultu-ra – noi stessi in quanto parti di collettività situate, am-biti discorsivi e tradizioni culturali – che tendono a defi-nire con loro parametri cosa è testo e cosa no. La visioneetica è invece quella dello studioso di semiotica in quan-to partecipe di una comunità scientifica che quando di-ce “testo” rimanda a delle caratteristiche (ad esempio lacorrelazione fra un piano dell’espressione e un piano delcontenuto) che non sono generalmente condivise e nem-meno riconosciute nella vita quotidiana. Tale per cui peril semiotico può “far testo” qualcosa che una data co-scienza quotidiana non reputerebbe mai tale. Difficil-

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mente ad esempio suonerà sensato – e nell’immediatoforse anche poco utile e interessante – alle mie nonnesentirmi dire che il loro modo di cucinare è un “testo”,che il loro modo di vestirsi, di parlare, di comportarsi,di vivere è un “testo”, o che, a un certo livello, il vicina-to, la comunità paesana, la loro stessa vita sono dei “te-sti”. È invece assolutamente decisivo che io stia a sentireche cosa loro definiscono testo (e così pure “segno”, ov-viamente) e, volendo allargare l’indagine, che cosa esse,in generale, ritengano significativo, portatore di un “si-gnificato globale” – come si dice nelle Tesi – e quali sia-no, se ci sono, i tratti ricorrenti e fondamentali all’inter-no di questa visione emica del testo. Sta a me in quantoanalista, a questo punto, far fruttare la capacità di tenereinsieme questi due sguardi, intanto comprendendo iso-morfismi e difformità fra le due visioni, e poi cogliendoad esempio tutti quei processi di generazione di sensoche, pur non essendo riconosciuti dalle mie nonne, fun-zionano come testi, organizzando il loro modo di pensa-re, comportarsi e muoversi nel mondo; oppure capendola specifica funzione e forza di cui si riveste tutto ciò cheloro, in base alle loro griglie culturali, finiscono per per-cepire come testo.

Anche in Lotman troviamo spesso questo saltellarefra i due tipi di definizione del testo. E non a caso que-sto saltellare, che rischia di suonarci contraddittorio, simanifesta maggiormente in quei saggi che hanno a chefare con le poetiche del comportamento quotidiano, vale adire esattamente laddove la visione emica reclama conpiù forza i suoi diritti. Nel saggio scritto con Uspenskij ededicato al mondo del riso nella cultura dell’antica Rus’,ad esempio, ritroviamo un utilizzo del termine “testo”chiaramente legato alla “scrittura” e contrapposto alladimensione “orale” che viene vista come una sorta disfondo extratestuale. Data tale impostazione sembrereb-be che in effetti si riproduca una dicotomia nefasta e

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spesso rimproverata alla semiotica, quella fra testi e vita,come se ci fosse una separazione netta e reale fra i due ela semiotica si occupasse semplicemente dei primi ab-bandonando a se stessa, o a qualche altra disciplina, lacomprensione delle vita “vera”.

Basterà tuttavia notare che studiando il rapporto frail testo e la funzione Lotman e Piatigorski (1968, pp.164-165), rimanendo a livello emico, parlano dei “testi”delle culture orali evidenziando come, dal punto di vistadi quelle culture, la scrittura potrebbe portare su di séproprio il marchio della non-testualità. E del resto, an-che nel saggio sulla cultura dell’antica Rus’, ciò a cuiLotman e Uspenskij ci invitano è la penetrazione di unapratica, il “ridere”, all’interno del byt – la vita quotidia-na, intesa come un ambiente carico di valori e significati– e in correlazione con la sfera della scrittura. Vale a di-re, non ci chiedono di esplorare i testi in quanto “scrit-ti”, ma di penetrare con sguardo semiotico tutte le “pra-tiche significanti” – per utilizzare un bel termine diBarthes (1985, p. 7) – tutti i processi di formazione delsenso, in particolare nei loro rapporti reciproci.

Arrivati a questo punto conviene soffermarsi invecesulla definizione di testo in senso semiotico. È interes-sante notare che la questione emerge nel saggio sulle Ri-cerche semiotiche del 1973 in un modo che mentre da unlato risponde alle critiche ai metodi strutturali di indagi-ne della realtà, dall’altro lato già prefigura la concezionedi testo che Lotman porterà avanti fino alla fine dellasua vita, una concezione che è esattamente estranea allariduzione del testo a qualcosa di chiuso, coerente, orga-nico. Non potendo dar conto di tutto questo camminovediamo di focalizzare solo alcuni punti interessanti.

Innanzitutto per l’ultimo Lotman il testo va intesonon come un oggetto stabile, con marche costanti, macome una funzione. Tutto può comparire nel ruolo di te-sto, o essere trattato come tale (1993a, p. 146). Basti

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pensare alla pratica di definizione dei corpora, sia nellaricerca scientifica (ad esempio gli oggetti delle tesi dilaurea) che nei discorsi quotidiani, ovvero a come si co-struiscono insiemi di materiali (intellettuali e/o sensibili)che definiscono loro stessi i contorni degli oggetti chetrattano: si pensi alle pratiche di un laboratorio scientifi-co, a un libro di storia che descrive “il Novecento” o“L’epoca moderna” ecc.

In secondo luogo il testo viene visto come un compo-sto variabile a tre termini: ovvero, esso si origina all’in-tersezione dei punti di vista di quelli che Lotman chiamaancora autore e pubblico – e che in termini più astrattipotremmo chiamare enunciatore ed enunciatario – e at-traverso “la presenza di determinati contrassegni strut-turali, percepiti come segnali del testo” (p. 147), vale adire qualcosa che sia individuabile come enunciato. Fer-miamoci un attimo per notare che a dispetto della sceltasemiotica di limitare l’analisi alla sola intentio operis(Eco 1990b) qui Lotman sembra riallargare il ventaglioal di là di quella che lui stesso definisce la “memoria di-retta del testo, la sua struttura interna” (Lotman 1993a,p. 25). Ciò non toglie ovviamente che l’enunciato conti-nui a identificarsi, per così dire, con il punto di vista pri-vilegiato dello studioso di semiotica, in quanto ricerca-tore e difensore di un’empiria da cui costantemente l’a-nalisi deve partire e la teoria discendere (Fabbri 1998a).

In definitiva, a livello della semiosi sociale, il testo sidà nel gioco di emersione e definizione reciproca di que-sti tre elementi. Questo significa che a seconda dei feno-meni sociosemiotici che ci troviamo a indagare il pesodei tre punti di vista può variare. Chi è l’enunciatore diun paesaggio? E di prodotti industrializzati come unfilm, un oggetto di consumo, una notizia del TG? E comela sua percezione di noi enunciatari ne determina il sen-so? Perché un’intenzione e un enunciato che a noi sem-brano evidenti possono non esistere, e non essere colti,

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dal nostro interlocutore? Perché anche dentro uno stessocollettivo quello che per alcuni è musica – un enunciato– per altri è rumore – un non-enunciato? Come fa l’uo-mo, ad esempio attraverso la ricerca scientifica, a far con-tinuamente emergere dentro il mondo che già conoscestrutture – enunciati – di cui prima nemmeno sospettaval’esistenza? E così all’infinito. Allo stesso modo possiamonotare che può accadere che dai tre punti di vista lo stes-so “oggetto testuale” modifichi la sua fisionomia e signi-fichi qualcosa di diverso. Lotman e Uspenskij fanno l’e-sempio del film all’incrocio fra le sue proprie formalità –emergenti rispetto al confronto con il “flusso” della vitae con gli altri media che tentano di darle forma – la per-cezione “discreta” che ne ha il regista e quella “conti-nua” dello spettatore. A questo punto potremmo tran-quillamente immaginare il gioco di prospettive che com-pone e scompone oggetti complessi come una partita dicalcio, una manifestazione politica, un edificio, un quar-tiere, una città, un’istituzione, una cultura, un’organizza-zione sovranazionale e così via. Forse non è irrilevantefar notare proprio qui che Merleau-Ponty (1964) propo-neva di pensare il mondo come un intermondo, prodottoall’incrocio di un gioco di prospettive che chiama in cau-sa i nostri saperi tanto quanto i nostri corpi.

In terzo luogo, infine, il testo intrattiene un comples-so rapporto con il tempo, come se fosse “un fermo-im-magine sui generis, un momento fissato artificialmentetra il passato e il futuro” (Lotman 1993a, p. 25). È ciòche gli garantisce un grado di apertura e di indetermina-tezza altissimo. Infatti:

Il rapporto tra passato e futuro non è simmetrico. Il passa-to si lascia afferrare in due sue manifestazioni: la memoriadiretta del testo, incarnata nella sua struttura interna, nellasua inevitabile contraddittorietà, nella lotta immanentecon il suo sincronismo interno; ed esternamente, comecorrelazione con la memoria extratestuale. Lo spettatore,

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collocandosi con il pensiero in quel “tempo presente” cheè realizzato nel testo (per esempio, nel dato quadro, nelmomento, nel quale io lo guardo), è come se rivolgesse ilproprio sguardo al passato, il quale si restringe come uncono che poggia con la punta nel tempo presente. Rivol-gendosi verso il futuro, il pubblico si sprofonda in un fa-scio di possibilità che non hanno ancora compiuto la loroscelta potenziale. L’ignoranza del futuro permette di attri-buire un significato a tutto (ib.).

Il testo non si limita dunque al suo essere “struttu-ra”, sistema di relazioni interne (1964). Intanto perchédentro di sé inscrive tensioni, contraddizioni, dialoghi,che sono il frutto della sua capacità di conservare e for-mare a suo modo le tracce dello spazio-tempo da cui siorigina. In secondo luogo perché in quanto congegnoproduttore di pensiero e di trasformazione della realtà iltesto punta dritto verso il futuro: emana la sua “aura dicontesto” – come un edificio che attraverso il suo stileinfluenza la percezione di ciò che gli sta intorno (1998a,p. 38) – proprio attraverso la configurazione interna diun co-testo (Fabbri 2001), vale a dire la prefigurazionedel suo rapporto dialogico con l’esterno. In definitivaogni struttura testuale, anche quella più fissa, affondapienamente nel mondo: lo tira dentro di sé dall’inizio al-la fine. Il che è ben evidente in tutti quei testi “in atto”,“in situazione”, che nella nostra percezione non si di-staccano dal flusso della vita e nondimeno rispondono adeterminate formalità, come ad esempio i complessispaziali e architettonici, o i diversi “generi” che com-pongono i nostri vissuti quotidiani: una “conversazio-ne”, una “preghiera”, una “partita (a un qualunque gio-co)”, il “preparare un pranzo”, “andare a passeggio”,“fare shopping”, il partecipare a un “evento”, a una“manifestazione”, una “lotta”.

Il paradosso è del resto evidente: gli oggetti testualiche nella nostra percezione si staccano maggiormente

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dalla “vita” (romanzi, film, album musicali ecc.) e che cisembrano apparentemente inerti, rivelano ben prestouna strana vitalità, per certi versi maggiore rispetto a te-stualità ben più fluide che emergono e si esauriscono “inatto”. I primi, infatti, non smettono dal loro interno diprotendersi verso l’esterno, alla ricerca di un enunciata-rio-destinatario che vada a formare con loro “un com-plesso insieme strutturale” – come dice Lotman in Checosa dà l’approccio semiotico? In tal senso, pur apparen-temente sempre uguali a se stessi, essi ogni volta diven-gono qualcosa di nuovo. Come per un testo scritto: sullafrontiera fra l’enunciato e l’enunciatario si stabilisce undialogo, cooperazione (Eco 1979) o lotta (Geninasca1997), che non solo trasforma cognitivamente e passio-nalmente il lettore (Pezzini 1998), ma produce una nuo-va semiosfera dall’incontro di due vere e proprie perso-nalità semiotiche, entrambe vive e in trasformazione.Come ha detto Lotman, l’Amleto di Shakespeare non èpiù ciò che era davanti al suo creatore, il suo primo let-tore. Esso è divenuto anche la memoria delle sue inter-pretazioni. Esso ha catturato tempi ed eventi: è cambia-to e cresciuto con il mondo così come sono cambiati co-loro che l’hanno incontrato leggendolo.

I testi, un romanzo quanto la vita di un individuo ouna danza popolare (Sedda 2003), fanno la storia e se neimpregnano. Sono essi stessi, nel bene o nel male, la me-moria e la vita delle culture.

Poetiche quotidiane

Nel momento in cui si focalizza l’attenzione sullepoetiche quotidiane ci si sta sicuramente immergendonel crogiolo della vita minuta, situata, accogliendo lasfida a indagare le profondità della superficie del senso.Nondimeno ci si trova davanti al problema dell’agire,

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del come i soggetti si costituiscono attraverso esso e at-traverso esso mettono in opera e deformano le struttu-re. Si tratta dunque di rimettere in gioco la storicità, lepratiche, gli stili e le forme di vita (Greimas 1956; Fon-tanille 2004a).

In Lotman questo lavoro di comprensione semioticadei comportamenti quotidiani si accompagna a una ri-flessione sul byt:

Byt è il consueto decorso della vita nelle sue forme reali epratiche; byt sono le cose che ci circondano, le nostre abi-tudini, il nostro comportamento di ogni giorno. Il byt cicirconda come l’aria e, come dell’aria, ce ne accorgiamosolo quando manca, o quando è inquinata. (…) il byt sitrova sempre nella sfera pratica, è il mondo delle cose pri-ma di tutto (…) (Lotman, in Burini 1998, pp. 138, 147).

Come si può intuire da questa citazione il byt è lospazio in cui tutto è immerso, tutto ricade. È per questoche nel saggio sul mondo del riso Lotman e Uspenskij in-vitavano continuamente a correlare i testi scritti a quellospazio extratestuale, orale, quotidiano, senza il quale glioggetti della scrittura sarebbero restati vuoti di senso.

Bisogna anche qui adoperarsi in uno sguardo strabi-co: “(…) guardar la storia nello specchio del byt e illu-minare con la luce dei grandi avvenimenti storici anchei piccoli dettagli quotidiani, che sembrano talora di-sgiunti” (p. 147). Un’avvertenza decisamente importan-te per studiare le complesse cascate di eventi che dauna vignetta su un anonimo giornale europeo portano auna rivolta popolare in paesi all’altro capo del mondo,o che legano la guarigione di malattie e la soluzione diproblemi banali e quotidiani nelle parti più povere delpianeta a contrasti politico-commerciali giocati sui ta-voli della “grande” diplomazia

Ma torniamo all’ultima frase di Lotman. Si noteròche lì il byt, da atmosfera avvolgente, ovattata, calda,

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sembra trasformarsi nello spazio di una certa dispersio-ne e atomizzazione degli elementi, riportandoci allamente un passaggio decisivo del saggio sulla semiosfera:“A noi, che vi siamo immersi, la semiosfera può apparirecaoticamente priva di regole: un assortimento di ele-menti autonomi” (Lotman 1985, p. 69). In effetti il byt,la vita quotidiana, come insegna anche de Certeau(1980), è lo spazio di una ambivalenza fondamentale, diuna costante tensione fra familiarità e straniamento, au-tomatismo e invenzione, ripetizione e differenza.

Questo mondo in cui domina un sentimento di fami-liarità, una specie di “fede” ingenua, rischia di esseredunque anche lo spazio dell’alienazione dal mondo stes-so. La troppa abitudine con le cose che ci circondano ri-schia di rendercele a-significanti, estranee, come in unaspecie di an-estetizzazione nei confronti dei nostri stessivissuti (Greimas 1987b).

Ma per capire meglio il funzionamento del byt e dellepoetiche quotidiane come una sorta di discorso compor-tamentale che si rende manifesto solo nel rapporto dicorrelazione e traduzione fra linguaggi, riandiamo a Lot-man e alla sua caratterizzazione del rapporto fra com-portamento reale, teatro e pittura nella Russia del XVIII

secolo. Quello che qui abbiamo la possibilità di vedere èil ruolo del teatro, in quanto dinamico ma segmentato,come codice-traduttore fra la fluidità della vita e la stati-cità della posa nel quadro. Attraverso il gioco fra questielementi le caratteristiche formali dell’uno trapassanonell’altro. Il saldarsi di questi tre linguaggi crea dunqueun meccanismo di pertinentizzazione reciproca, tale percui nella vita reale – ad esempio nella battaglia – diventasignificativo ciò che è teatrale (eroico, tragico, commo-vente) e nella quotidianità ad avere funzione di segni (aessere percepiti in quanto tali) saranno soltanto quei ge-sti che richiamano una posa pittoricamente codificata.Al contempo il teatro e la pittura tenderanno a valoriz-

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zare il tratto della naturalità, sia come scelta nei soggettida rappresentare, sia come effetto di senso generale datrasmettere. Come si vede la vita, pur senza perdere difluidità, si narrativizza, propriamente in senso semiotico-strutturale: è come se assorbisse delle forme che inizianoa regolarla e a renderla significativa, intelligibile. E tutta-via, resta chiaro, è soltanto per mezzo del sensibile, del-l’apparire figurativo del mondo (un abito, un modo diinchinarsi, un tono della voce, il modo di ballare a pa-lazzo o di atteggiarsi in guerra, il richiamo nei propri di-scorsi a certi stereotipi, uno stile passionale esibito coe-rentemente), che la vita quotidiana si carica di sensi.

Facciamo un altro esempio. Il decabrista si riconosceperché parla in modo schietto e inopportuno rispetto aicomportamenti “abituali” in determinate situazioni cano-niche: la dice tutta in pubblico, chiama le cose col loro no-me. Per lui, dice Lotman, l’azione è il piano del contenutoe la parola stessa, fragorosa, è il contenuto del suo agire.Se non correlassimo questo modo di fare alle pratiche rite-nute corrette nella Russia della prima metà dell’Ottocento,ai contenuti del discorso politico che si accompagnarono aquella rivoluzione antigovernativa; se non avessimo ideadelle pratiche quotidiane dei decabristi, cosa leggevano,dove si recavano, come organizzavano il loro tempo17,quale era il loro modo di incontrarsi, come mutavano a se-conda delle situazioni socialmente codificate i loro stili ar-gomentativi e passionali, i temi e i contenuti del loro parla-re18; insomma, senza sapere tutto ciò difficilmente potrem-mo seguire quel rinvio fra un gesto che apre su di una azio-ne che a sua volta si inserisce in un testo comportamentale,inteso come una catena d’azioni (e passioni) orientate ver-so uno scopo. Non si capirebbe, ad esempio, il senso delsuicidio di Radiscev19 e non capendo quello non si capi-rebbe il valore di coerenza e amore per la libertà che carat-terizzava tutto un movimento, una generazione, un’epocache ha segnato profondamente la storia russa.

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In un periodo in cui tanti atti in giro per il pianetasembrano ai più insensati, lo studioso delle culture ha ildovere di ritrovarne il senso e, disperdendo i timori checiò che non capiamo sempre ci causa, contribuire a ri-creare le condizioni per un confronto. Il gesto intellet-tuale può essere l’inizio per un cammino condiviso, direciproca traduzione, in vista dell’abbattimento di ingiu-stizie e sofferenze.

È stato detto che le parole sono inizi e promesse d’a-zioni. A saper guardare la vita in filigrana potremmo ve-dere come anche i gesti siano inizi e promesse di percor-si e discorsi, sebbene molti di questi non necessariamen-te si realizzino o non lo facciano in modo coerente.

Rimangono vere comunque due cose. La prima è checi si modella a partire da altro. Pensiamo al nostro cor-po, a come incarna e incorpora le tracce della cultura.Senza volerlo ci si siede e ci si muove come i propri ge-nitori e questo implica anche che il nostro modo di por-tare il corpo tradisce, per chi ne può capire il linguag-gio, provenienze e appartenenze più o meno generali oristrette. Un po’ come gli accenti per le lingue. E qual-cosa rimane e riaffiora dei nostri miti, musicali, sportivi,politici: un’andatura, un modo di aggrottare le ciglia incerte situazioni, un’acconciatura di capelli, la foggia diun paio di occhiali. Ci modelliamo su narrazioni pre-gresse, su storie, sceneggiature, più o meno stereotipichee condivise: noi metaforizziamo costantemente la realtàculturale che ci circonda, e a volte, se abbiamo la fortu-na, la capacità e il coraggio di tentare trasposizioni az-zardate o sintesi complesse la nostra poetica può esserealtro che un banale mimetismo.

E qui siamo alla seconda cosa. Attraverso il nostrocomportamento quotidiano noi produciamo delle enun-ci-azioni che manifestano il nostro stile, il nostro posizio-narci rispetto agli altri e al mondo, ma contemporanea-mente ci inseriscono in reti più ampie, in spazi di condi-

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visione – quantomeno potenziale – di pratiche e formedi vita collettive. Senza smettere di essere noi stessi, pos-siamo partecipare a un gioco di trasformazione delle co-se, possiamo prender parte al lavorio dell’immaginazio-ne sociale. Possiamo riprodurre l’esistente – volontaria-mente o per incoscienza –, possiamo lavorare di straforoper resistergli sfruttando i complicati incastri fra struttu-re per ricavare degli spazi di libertà momentanea, pos-siamo appropriarci dell’esistente cercando di trasfigu-rarlo – ad esempio invertendone i valori (come quandosi fa del nomignolo offensivo che gli altri ci scagliano ad-dosso un fiero cavallo di battaglia), possiamo “bricola-re” indefinitamente, giocando localmente a deformare lestrutture del senso, possiamo infine – forse a volte senzanemmeno accorgercene – partecipare alla generazione ealla conquista di un nuovo discorso e di una nuova sin-tassi, di nuove rappresentazioni e nuove pratiche, fra diloro legate. Visti da qui, i nostri giochi di modellamentoe composizione di pezzi della cultura non sembrerebbe-ro allora gli epifenomeni di linguaggi che ci parlano, mai pezzi coerenti di una poetica, una pratica di senso, chefacendosi testo esprime il nostro proprio linguaggio, ilnostro universo di valori, la nostra proposta di una for-ma di vita assumibile. È ovviamente la possibilità piùcomplessa, quella che generalmente non si realizza maicom’è nelle nostre teorizzazioni o nei nostri sogni indivi-duali, e soprattutto non si realizza mai da soli.

Molto spesso, più prosaicamente, noi ci dobbiamo ri-cavare la nostra identità nel confronto con sistemi dirappresentazioni che ci precedono, che ci forniscono deirepertori di posizioni assumibili e significative proprioin quanto l’inerzia storica ha garantito loro una certa le-gittimazione e visibilità.

I nostri discorsi sono dunque pieni di sociotassono-mie, di categorizzazioni e classificazioni rispetto allequali siamo chiamati a prendere posizione. Le molteplici

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narrazioni che danno forma alla nostra vita – un discor-so politico, un censimento, un film… – espongono epropongono continuamente questi repertori di identità.A volte ci aiutano a ordinarle, a metterle in una gerar-chia apparentemente sensata20, altre volte ci mostranocome possiamo articolarle e disarticolarle in configura-zioni nuove, altre volte ancora ci invitano a riflettere sulconflitto, l’indecidibilità, l’indeterminatezza, la comples-sità stessa della scelta di un comportamento univoco.

A volte le tassonomie si manifestano nel sistema deinomi, e la semplice assunzione di un nome diviene ilmetro su cui modellare i nostri comportamenti: ognunodi questi oggetti-nome è già una memoria – un depositosemantico virtuale – e un programma narrativo poten-ziale, aperto su di una determinata concatenazione diazioni e passioni. Nomen est omen.

Nel recente film di Steven Spielberg, Munich, è evi-dente il crearsi di queste costellazioni identitarie e valo-riali, sfumate, complesse, a volte profondamente intrec-ciate per quanto apparentemente in conflitto: comequando il protagonista ebreo, mosso dalla retorica delladifesa della propria “casa”, scopre da un suo antagoni-sta palestinese (che sembra parlargli sinceramente inquanto lo crede tedesco) che ciò per cui il suo nemicolotta è nient’altro che il suo medesimo valore e progetto,una “casa” per il suo popolo. Articolazione discorsivadell’essere uniti e divisi.

Nello stesso tempo, nello spazio discorsivo del filmentrano in gioco, attraverso denominazioni e figure –individuali e collettive –, molteplici rappresentazioni disé che revocano fin dall’inizio la compattezza e l’univo-cità delle due semiosfere in conflitto, rendendo dun-que il comportamento dei singoli soggetti legato a pas-sioni differenti – la vendetta, l’ansia, la crisi, l’allucina-zione – e al contempo materia di scelte, strategie, pro-getti di vita, a volte semplicemente abbozzati. Basti

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pensare alla tensione che si instaura da un lato fra “es-sere israeliano”, “essere ebreo”, “essere padre” (pernon parlare delle suddivisioni ancor più precise legateall’essere un “ebreo europeo”, un “ebreo arrivato inIsraele dopo la seconda guerra mondiale”, un “ebreonato in Israele”, identità che non a caso sono non tra-dotte ma evocate con la terminologia originale), e dal-l’altro fra l’“essere palestinese”, “essere arabo”, “esseremusulmano”, “essere rivoluzionario-internazionalista”,componendo il quadro di un complicato gioco di prio-rità, attaccamenti e fedeltà. A poco vale dire che si trat-ta di un film e altrettanto poco rispondere che è “trattoda una storia vera”. Il punto è che è un buon esperi-mento narrativo, e che possiamo utilizzarlo come ban-co di prova e testimonianza di processi quotidiani dimodellamento dei nostri vissuti a partire da dense con-figurazioni di immagini dell’identità.

Arrivati a questo punto, lasciandoci trascinare dal-l’argomentazione e dal flusso dei pensieri, non possiamonon richiamare un’ultima opaca e illuminante frase diLotman: “Il dialogo precede il linguaggio e lo genera”.

Come a dire che nelle scienze come nella vita bisognaprima di tutto avere il coraggio di entrare in dialogo, didare ospitalità all’alterità; poi un linguaggio comune, seè il caso, verrà.

Giunti alla fine non ci resta che renderci conto chequella frase di Jurij Lotman ci ha guidato e, non poten-do fino in fondo com-prenderla, potendo solo constata-re l’irriducibilità della sua profondità e della sua assen-za, abbiamo scelto di tradurla, imperfettamente e per sta-volta, in questo nostro percorso.

1 Ovviamente non è nostra intenzione dare qui uno spaccato biograficodi Lotman. Per questo rimandiamo ai saggi di Burini e Niero (2001), Caceres(1996) e Navarro (1996). Altre notizie si possono reperire nei saggi dedicati

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alla Scuola di Tartu (si veda il proseguo di questa Introduzione) o nelle intro-duzioni italiane ai testi di Lotman.

Colgo qui l’occasione per ringraziare Isabella Pezzini, Paolo Fabbri eGianfranco Marrone per il loro incoraggiamento e sostegno alla realizzazionedi questo progetto. Un ringraziamento particolare a Mera per l’aiuto pazientee amorevole nella revisione dei testi, e a Silvestro, per la vicinanza.

2 Si veda più avanti quanto scritto nel paragrafo Doppie prese e sguardistrabici.

3 È proprio in difesa di questa posizione che Greimas afferma: “Se nontemessi di sfociare nella metafisica, potrei addirittura dire che si tratta di pro-prietà della mente umana (…)” (Ricœur, Greimas 2000, p. 85).

4 Ci sembra interessante, e finora non dovutamente notato, l’implicitoutilizzo dei giochi linguistici (cfr. Wittgenstein 1953) da parte di Lotman perconvocare dentro il suo discorso scientifico il sapere quotidiano.

5 Cfr. paragrafo L’implosione ed esplosione del mondo.6 Non è difficile, a posteriori, associare ad alcuni passaggi di Peirce sul

rapporto fra interpretazioni, segni esteriori e comunità, alcuni aspetti salientidell’antropologia interpretativa di Geertz (1973) con il suo carattere pubblicodel significato.

7 Questa fondamentalità non viene certo scoperta ora da noi. Sul temanegli ultimi anni molti sono stati i contributi importanti. In ambito semioticocfr. fra gli altri Torop 1995, i saggi in Nergaard (a cura, 1995) e Dusi, Ner-gaard (a cura 2000); Dusi 2003; Eco 2003.

8 Di alcune di queste implicazioni, e delle loro possibili conseguenze, ab-biamo provato a dar conto in forma esplorativa all’interno del nostro lavorodottorale (Sedda 2005).

9 Alcune di queste immagini, che sono poi in realtà dei meccanismi de-scritti puntualmente da Lotman, datano al periodo di elaborazione del con-cetto di semiosfera: l’effetto a valanga si ritrova, ad esempio, in conformitàcon l’idea di moltiplicazione dei livelli strutturali e di isomorfismo verticale(Lotman 1985, vedi il saggio La semiosfera ma anche quello su La dinamicadei sistemi culturali). Tuttavia resta vero che è nell’ultimo periodo – anchesotto l’influsso delle teorie fisiche di Prigogine – che questa visione densa didinamismo e imprevedibilità viene esaltata. Cfr. Lotman 1990; 1992b; 1992c;1993; 1994. Cfr. anche Lozano 1999.

10 È interessante notare che è al tema del mutamento scientifico che Lot-man ha associato l’idea di “emozioni culturali” (Lotman 1985; 1988).

11 Cfr. l’idea di co-gioco, a cui accennano Lotman e Uspenskij, nel saggioIl mondo del riso.

12 Un mondo che forse può definirsi glocale. Cfr. Robertson, White 2004;Sedda 2004.

13 In quest’ottica cfr. Calabrese 2000.14 Lo studio dei processi e dei sistemi di significazione. Cfr. Fabbri, Mar-

rone, a cura, 2000; Bettetini et al. 2005.15 A tale proposito cfr. la visione antropologica di Latour (1991).16 Come quando salta la separazione fra civile e religioso che regge uno

Stato laico; quando l’inscatolamento fra Individuo-cittadino, Stato, Comunitàinternazionale, Umanità emerso e consolidatosi con la modernità si fa difficile

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perché molte persone non vengono riconosciute come cittadini, perché certiStati non accettano di agire in concerto con le decisioni sovranazionali, o tantiindividui e organizzazioni sentono che l’accesso all’umanità è castrato e ingab-biato dai passaggi intermedi dello Stato e della Comunità internazionale chene vorrebbero detenere il monopolio; o ancora, quando più attori di taglia di-versa praticano e rivendicano la legittimità della violenza; quando si scinde ilrapporto univoco fra Stato e nazione; quando le molte identità che ci portiamodentro non trovano più composizione e iniziano a disputarsi la nostra fedeltà.

17 In altri termini, se non conoscessimo i loro “consumi culturali” e iloro “riti”.

18 Ovvero, come si organizzavano le soglie fra “ciò che si può dire” e “ciòche non si può dire” in riferimento a differenti agoni sociali. Cfr. Foucault 1970.

19 Cfr. il saggio Lo stile, la parte, l’intreccio. La poetica del comportamentoquotidiano nella cultura russa del XVIII secolo.

20 Si pensi a un discorso razzista – sensato nella sua infamia – che ordinasemplificando a due termini e gerarchizzandoli in “superiore”/“inferiore”,“giusto”/“sbagliato”, “civile”/“barbaro”, o al discorso dello Stato che ordinail cittadino in rapporto a degli spazi fisici-istituzionali che dovrebbero essere– ma che molto spesso non sono – isomorfi: individuo nato in un luogo, resi-dente in un comune, appartenente a una provincia, parte di una regione, chefa parte e deve fedeltà alla nazione. Il supposto isomorfismo potrebbe portarea gerarchizzare valorialmente attraverso l’associazione fra la coppia più picco-lo/più grande e quella meno importante/più importante, ma sappiamo chequesto è uno schema alquanto banale (e sottilmente autoritario) e che a volte,quantomeno a livello di valore fenomenologico per ciascuno, la composizionedi queste identità muta. La stessa prospettiva del soggetto può portare a ride-finire gli elementi in gioco e far vedere che quegli oggetti non sono ciò chesembrano o che si dice che siano.

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FRANCISCU SEDDA

Prima parteLa semiotica fra scienza e arte

Ricerche semiotiche1

Jurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij

Il XX secolo è ricco di rivoluzioni scientifiche. Il risul-tato naturale di questo fatto è che sono mutate non solole nostre idee sul mondo, ma anche quelle sulla scienzastessa.

Se consideriamo l’idea che ha della scienza l’attualecoscienza di massa, si possono osservare alcuni aspetticaratteristici della metà del secolo.

La coscienza del XIX secolo, per la quale scienza e spi-rito critico in sostanza coincidevano, mentre, d’altro can-to, le forme di vita date dal buon senso e dall’esperienzaquotidiana parevano incrollabili, si costruiva essenzial-mente sul dubbio. Per la coscienza di massa essere parte-cipe alla scienza significava dubitare e diffidare. Scienzia-to era chi penetrava criticamente nella sfera della fiducia.

Inoltre l’apparato della scienza era relativamentesemplice e accessibile a una persona di media cultura.La misteriosità era sentita come ostile alla scienza: que-st’ultima non creava il mistero, ma lo distruggeva. Tuttele sfere della coscienza opposta alla scienza, dalla cultu-ra dei “selvaggi” alla religione del Medioevo, venivanofornite dei contrassegni della misteriosità – di ciò chenon si può verificare –, mentre le cognizioni scientificheerano sentite come ciò che è accessibile alla verifica (invia di principio a ogni essere umano).

Oggi una serie di rivolgimenti scientifici ha mutato ra-dicalmente l’idea che la coscienza di massa ha del verosi-

mile e dell’inverosimile. L’esperienza quotidiana è statascacciata con infamia dalla sfera della scienza e il lettoredi massa ha perso la capacità di orientarsi. Per essere piùesatti, si potrebbe dire che l’esperienza quotidiana è rima-sta il punto di orientamento nell’idea generale della scien-za, ma col segno opposto: per così dire, quanto più unacosa è inverosimile, tanto più è attendibile, cioè tanto piùè possibile e vicina alla scienza. Questo fatto è bene illu-strato dall’esempio della letteratura di fantascienza.

Nel XIX secolo la letteratura fantascientifica, mentredescriveva nuove scoperte immaginarie, le sottomettevaa idee già esistenti nella scienza. L’attuale letteratura fan-tascientifica, invece, è costruita su un principio opposto:stare il più lontano possibile dalle idee scientifiche at-tuali, poiché quanto meno assomiglia a ciò che sappia-mo oggi, tanto più assomiglia alla scienza del futuro.S’intende da sé che ciò riflette non tanto le leggi reali disviluppo della scienza quanto l’idea che di essi ha ap-punto la coscienza di massa.

Il meccanismo della scienza si è fatto più complicato.Esso è sfuggito irreparabilmente al controllo del lettoredi massa. Verificare la giustezza delle tesi della fisicacontemporanea, la verità di idee scientifiche paradossalie divergenti dall’esperienza quotidiana è un’impresa cheil lettore non è in grado di compiere. Ma non basta: ve-rificare ciò che per gli altri è già diventato oggetto di fe-de significherebbe crearsi la fama di persona arretrata,cioè non scientifica. Per il lettore di massa essere al cor-rente della scienza significa non stupirsi e credere. Leparole di Tertulliano “Credo quia absurdum”, che tradi-zionalmente erano considerate la formula del pensieroopposto a quello scientifico, oggi potrebbero essere po-ste come epigrafe di ogni rivista di divulgazione scienti-fica o di ogni romanzo di fantascienza.

Ed è proprio questa la ragione per cui fiorisce rigo-gliosamente la divulgazione scientifica e si moltiplicano

JURIJ M. LOTMAN, BORIS A. USPENSKIJ

le riviste e i libri in cui la scienza è mitologizzata: da unlato da tutte le cognizioni scientifiche si estraggonoquelle più “sorprendenti” e, dall’altro, non si dà la pos-sibilità di verificarle. Il lettore di massa, che ancora ierinon aveva sentito la parola “semiotica” e l’aveva accoltacon sfiducia e persino irritazione, adesso l’ha già trasfor-mata in un mito scientifico.

Tuttavia, il punto di vista semiotico è organicamenteintrinseco alla coscienza umana e in questo senso costi-tuisce un fenomeno non solo vecchio, ma anche ben no-to a tutti. Se tutte le idee scientifiche, dal punto di vistadella coscienza ingenua e inesperta, possono dividersi indue gruppi – quello del quale si dice “Non ci avrei maipensato”, e l’altro che suscita la reazione “L’ho sempresaputo” –, la semiotica appartiene piuttosto al secondogruppo d’idee.

Implicitamente il punto di vista semiotico è semprepresente nelle azioni e nella coscienza dell’uomo. La pe-culiarità della scienza è che essa sottopone ad analisi ciòche non era mai stato analizzato proprio perché sembra-va semplice ed evidente. Sotto questo aspetto la semioti-ca è unita alla caratteristica della scienza del XX secoloche aspira non tanto a conoscere qualcosa di nuovoquanto al contenuto, bensì piuttosto ad ampliare la stes-sa conoscenza della conoscenza.

In particolare, il legame evidente tra i risultati dellasemiotica e lo sviluppo della cibernetica è condizionato,tra l’altro, anche dal fatto che il problema tecnico dellacomunicazione dell’uomo con gli automi ha convinto inmodo palmare che le nostre idee sulla naturalità sonoestremamente relative. Agli occhi del profano di solitosuscita stupore la capacità che un automa ha di “capi-re”. Per la scienza più valore ha ciò che l’automa “noncapisce”, e così manifesta un oggetto di ricerca là doveper il buon senso sembrerebbe non esserci motivo di ri-flessione.

RICERCHE SEMIOTICHE

In altre parole, il punto di riferimento nella descri-zione diventa, se così si può dire, il punto di vistadell’“imbecille” coi suoi limiti caratteristici nelle possi-bilità di comunicazione effettiva e multiforme e, quindi,in primo piano emerge il “problema della stupidità”.

La scienza del XIX secolo identificava il punto di vistaconsueto dello scienziato con la verità e quindi presup-poneva possibile la descrizione soltanto dal “mio” (delloscienziato, della scienza) punto di vista, il che si espri-meva, ad esempio, nell’assolutizzazione del punto di vi-sta europeo nell’antropologia e della linguistica indoeu-ropea o della grammatica latina nella linguistica. Ognialtra descrizione – cioè la descrizione fatta in altri termi-ni – era considerata sbagliata (non civilizzata, barbara) ein ultima analisi inesistente per la scienza. La scienza delXX secolo, al contrario, parte dall’esistenza di vari siste-mi di descrizione e s’interessa quindi molto di più delpunto di vista dell’“altro” (l’“io” dall’angolo visualedell’“altro”, l’“altro” dal suo proprio punto di vista).L’interesse per la coscienza primitiva incapace di com-prendere interviene soltanto come parte dell’interesseper l’angolo visuale dell’“altro”.

D’altro lato, il problema stesso della comprensione-incomprensione, e il problema, che immediatamente gliè connesso, dell’intelligenza-stupidità, diventa in note-vole grado un problema scientifico proprio nel XX seco-lo, a differenza della tradizionale scienza illuministicadel XIX secolo. Per il XIX secolo il problema della stupi-dità si situa fuori della scienza, come, in particolare, ilproblema della mutezza e della patologia del linguaggiosi situa fuori della linguistica. Come il linguista presup-poneva che per lui esistessero soltanto persone in gradodi servirsi in modo giusto e corretto del linguaggio (e,di conseguenza, studiava essenzialmente il modo in cuisi deve parlare, e non il modo in cui si parla in realtà,cioè la norma linguistica, e non i dialetti e gli idioletti

JURIJ M. LOTMAN, BORIS A. USPENSKIJ

reali), così il teorico della scienza prendeva le mosse dalfatto che la stupidità è patologia, che può essere oggettodi considerazione (di una stretta cerchia di specialisti),ma non può avere alcun rapporto con i principi stessidella descrizione.

La scienza del XX secolo considera le cose in un altromodo. Si può dire che se il XIX secolo guardava l’“imbe-cille” con gli occhi dell’“intelligente”, per una serie diproblemi scientifici di oggi, tra cui alcuni puramentepratici (come, ad esempio, l’elaborazione dei programmiper i calcolatori), l’unica soluzione possibile è la descri-zione dei fenomeni complessi dal punto di vista dell’in-comprensione, cioè della “stupidità”, mentre l’incom-prensione, il primitivo, la “stupidità” da anomalia cultu-rale si trasforma in problema culturale.

È necessario notare, d’altro lato, che se si esce dal-l’ambito dei testi propriamente scientifici, si ha che ilproblema della stupidità e dell’ignoranza come fenome-no autonomo e non come antisapere – cioè in un’impo-stazione analoga a quella contemporanea – non è poi co-sì nuovo. L’Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam(vedi il soggetto pittorico Il vascello dei matti, in partico-lare in Brueghel), i numerosi matti e stolti del folclore,del teatro di fiera e del rituale carnevalesco, tutti questifenomeni della cultura considerano l’incomprensionenon come l’antitesi del sapere scientifico (vedi a questoproposito la possibilità caratteristica di fusione dellostolto e del dotto nel teatro di fiera), ma come un’essen-za autonoma, a volte assai attraente. Anzi, la “stupidità”può identificarsi con un ingenuo sapere superiore. Si ve-da l’immagine positiva dello stupido intelligente con-trapposto agli stupidi fratelli sapientoni nel folclore, op-pure la celebre frase di Puskin a Vjazemskij : “I tuoi ver-si (...) sono troppo intelligenti. Mentre la poesia, non mene voglia Iddio, dev’essere un poco sciocca” (Puskin1937b, p. 278). Non si può non ricordare, infine, l’evan-

RICERCHE SEMIOTICHE

gelico “Siate come i bambini”. Si può dire, quindi, che ilproblema non è affatto nuovo: nuova è soltanto la suainclusione nella sfera della scienza.

Analogamente molti problemi di semiotica, che stu-piscono per la loro novità e si rivestono della modernametodologia scientifica, in sostanza oggettivizzano vec-chi problemi da tempo intrinseci alla cultura.

Così, ad esempio, l’idea, che sta alla base del puntodi vista semiotico, della cultura come sistema di linguag-gi e delle sue concrete manifestazioni come testi, ideache spesso è sentita come una novità specifica della se-miotica, è stata avanzata più volte nel corso della storiadel sapere ed, evidentemente, è profondamente intrinse-ca all’uomo.

In effetti, nelle più svariate culture sorge periodica-mente la tendenza a considerare il mondo come un te-sto, mentre, di conseguenza, la conoscenza del mondo èuguagliata all’analisi filologica di questo testo: alla lettu-ra, alla comprensione e all’interpretazione. La concezio-ne tradizionale lega questo modo di vedere alla scienzascolastica medievale o ai suoi riflessi nella coscienza con-temporanea, ma è facile mostrare che esso ha una diffu-sione assai più larga.

L’idea del sapere come risultato dell’analisi semanticaè propria sia a Confucio sia al folclore russo (vedi il notoStich o Golubinoj knige)2. Nello stesso modo anche neitesti del barocco russo, come ha messo in luce la studio-sa ceca Mathauserová (1967, p. 169), il libro si presentacome il modello del mondo (tutto il mondo è costruitocome il libro e aspetta il suo lettore); in ugual misura,sempre secondo la Mathauserová, l’alfabeto diventa ilsimbolo universale della struttura dell’universo. (Si puòrilevare, a questo proposito, la funzione particolare dellibro nelle varie religioni e, in particolare, nel rituale re-ligioso russo). È caratteristico, infine, che una simileidea sia propria anche a un fautore così convinto del sa-

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pere sperimentale come lo scienziato e il razionalista Lo-monosov (1955, p. 375), che scrisse, identificando sape-re e lettura:

Il Creatore ha dato all’umano genere due libri. In uno hamostrato la sua grandezza, nell’altro la sua volontà. Il pri-mo è questo mondo visibile, dato affinché l’uomo, guar-dando l’immensità, la bellezza e l’armonia delle sue opere,riconosca l’onnipotenza divina a misura dell’intendimentoche gli è donato. Il secondo libro è la Sacra Scrittura. Inesso è mostrata la benevolenza del Creatore per la salva-zione nostra. In questi libri profetici e apostolici ispirati daDio gli interpreti e gli esplicatori sono i grandi maestri del-la Chiesa. Mentre nell’altro libro della compagine delmondo visibile i fisici, i matematici, gli astronomi e gli altriesplicatori delle azioni divine infuse nella natura sono co-me nel primo libro i profeti, gli apostoli e i maestri dellaChiesa.

L’idea che lo scienziato sia un lettore impone natural-mente l’esigenza di sapere la lingua. È degno di nota chelo stesso sapere spesso è espresso coi termini della co-municazione. Si veda l’invocazione caratteristica con cuiPuskin si rivolge alla vita negli Stichi, socinënnye noc juvo vremja bessonnicy (Versi composti di notte durantel’insonnia):

Ti voglio capire,Il tuo linguaggio oscuro studio.

(dove, tra l’altro, la parola tëmnyj (oscuro) è l’equiva-lente semantico del francese obscur, cioè ha il significatodi “bisognoso d’interpretazione, di decifrazione”); op-pure nella poesia di Baratynskij Na smert Gëte (In mortedi Goethe):

Con la natura respirava la stessa vita, Del rivo intendeva il balbettio

RICERCHE SEMIOTICHE

(…)Chiaro gli era il libro delle stelle,E con lui parlava l’onda fluviale.

Il posto importante che in molte culture è tradizio-nalmente riservato alle cognizioni filologiche nell’inse-gnamento non sempre riflette, come spesso si crede,un’arretratezza scientifica. In notevole misura ciò era le-gato all’idea dello scienziato come di un poliglotta, men-tre il segreto della conoscenza (della natura, del mondoanimale, della vita degli altri popoli) era concepito comeil segreto di un’altra lingua non soltanto nella metaforapoetica (si veda, in particolare, il soggetto, diffuso nelfolclore, sulla conoscenza universale come dono meravi-glioso che permette di possedere le lingue degli uccelli,delle fiere, delle pietre ecc.).

Tuttavia, la scienza, esprimendo l’accumulazione del-le cognizioni nel campo concreto della sua ricerca, assu-me contemporaneamente le forme comuni a tutta la cul-tura del suo tempo, e il fatto che i sistemi segnici sianodiventati, nella metà del XX secolo, l’oggetto di una ri-cerca speciale, non è per nulla casuale. Il fatto è che pro-prio per il punto di vista scientifico del nostro tempo ècaratteristica l’attenzione preminente rivolta alla proce-dura e al linguaggio della descrizione. Persino nellescienze naturali l’esperimento, tradizionalmente consi-derato come un valore autosufficiente, è entrato in rap-porto col punto di vista dello sperimentatore. (Notere-mo di passaggio che questo problema specifico della fi-sica, che investe l’influsso dello strumento sul risultatodell’esperimento, può essere interpretato come proble-ma dell’azione esercitata dal linguaggio dello strumentosul materiale empirico ottenuto [testo], cioè, in ultimaanalisi, come problema semiotico). Come le scienzeumane hanno subito l’influsso del superamento di un se-colare sistema “regionale” di pensiero e materiale così le

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scienze naturali si sono staccate dal mondo visibile, sot-tomesso alle leggi della meccanica newtoniana, e sonoentrate nella sfera del micro- e macrocosmo con le leggispecifiche che li governano. Sia nelle scienze naturaliche in quelle umane si è sviluppata l’idea della relativitàdelle norme consuete. L’attenzione rivolta al sistema del-la descrizione e al punto di vista del descrivente è diven-tato una questione scientifica essenziale. Il problema tra-dizionale della conoscibilità si è trasformato nel proble-ma del metalinguaggio e così da problema puramente fi-losofico è diventato problema filosofico-linguistico (siveda a questo riguardo la particolare corrente della co-siddetta “filosofia del linguaggio”, sviluppata con parti-colare intensità dai filosofi e logici anglosassoni).

Contemporaneamente, la crescita, specifica per lacultura del XX secolo, dei mezzi tecnici di comunicazio-ne – crescita che paradossalmente si combina con la dif-ficoltà della comprensione reciproca tra gli uomini e ladisgregazione di collettivi da secoli ritenuti tradizionali –ha acutizzato l’interesse per i problemi della comunica-zione.

Le epoche precedenti vedevano il problema princi-pale della comunicazione nelle difficoltà tecniche a essalegate. Così, la fiaba e il mito creano gli ideali di legamiistantanei (gli stivali dalle sette leghe, i tappeti volanti, iltiro ultrapreciso a grande distanza ecc.); nello stesso mo-do la durata dell’informazione s’identifica con la robu-stezza dei mezzi tecnici (si vedano le iscrizioni su pietrarivolte alle generazioni future).

Ma nei testi letterari antichi e medievali e anche nelromanzo del XIX secolo, s’incontra con straordinaria ra-rità il tema dell’incomprensione. L’informazione può an-dare persa fisicamente ed essere deformata tecnicamen-te, ma la possibilità di interpretazioni psicologiche diffe-renti e la reciproca incomprensione tra i parlanti unastessa lingua come regola non è ammessa dall’autore.

RICERCHE SEMIOTICHE

Una conseguenza caratteristica del fatto che nel fol-clore e negli antichi testi letterari la difficoltà della co-municazione non è considerata come un fatto social-mente significativo è la trattazione immancabilmente co-mica dei temi dell’ignoranza di una lingua, della disfun-zione dell’udito, dell’incomprensione delle convenzionicomunicative. Chi non conosce una lingua, non capisceuna domanda, non sente una comunicazione o la inten-de erroneamente non può essere un eroe tragico: è col-pevole e ridicolo, anche se perisce (questa spietata comi-cità del folclore spesso è da noi reinterpretata in chiavetragica). Soltanto a partire dall’epoca del romanticismol’incomprensione genera nella letteratura europea colli-sioni tragiche. Un altro esempio: fino al XVII secolo nellaliturgia religiosa russa il mnogogolosie (multivocalità) èla simultanea conduzione in uno stesso edificio di alcuniservizi religiosi, la simultanea lettura di alcuni testi. Piùtardi quest’abitudine cominciò a incontrare una nettacritica. Questo è legato, prima di tutto, al fatto che de-stinatari del servizio religioso cominciarono a essereconsiderati i parrocchiani (e non soltanto Dio), e, in se-condo luogo, all’attenzione più acuta per il problemadella comunicazione. Prima non si faceva caso al canaledella comunicazione (si riteneva che “Dio avrebbe capi-to tutto”, cioè si presupponeva un canale di comunica-zione ideale, totalmente privo di rumore).

Il XX secolo col potente sviluppo dei mezzi tecnici haspostato il centro dell’attenzione sulle difficoltà dell’attostesso di comunicazione. Da un lato si sono scoperti ipericoli, e non solo i vantaggi dei mezzi di comunicazio-ne di massa. Così, ad esempio, la demagogia reazionariaè diventata non soltanto un aspetto caratteristico, maanche una minaccia reale per la cultura del XX secolo.Nello stesso tempo, benché il mondo, che prima parevaenorme, si sia contratto e sia diventato spazialmente piùpiccolo, cioè più accessibile grazie ai mezzi di comunica-

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zione, le difficoltà della reciproca comprensione tra gliuomini non sono diminuite, ma bensì aumentate.

Nell’intreccio epico l’eroe incontra in un camposconfinato il guerriero straniero, il mostro o il gigante(spesso si sottolinea in modo particolare che si tratta diuno straniero), eppure nella loro conversazione non sor-ge il problema della traduzione. La comunicazione èpensata qui come un atto ideale, realizzabile istantanea-mente e senza perdita, come al livello del pensiero.

Al contrario, la sensazione del mondo del tempomoderno rappresenta la terra come un piccolo spazio, ese l’idea della piccola terra ha ribadito con nuova forzal’idea della solidarietà e dell’unità del pianeta (Saint-Exupéry), ciò ha reso particolarmente chiaro il fattoche le difficoltà di contatto non sono riposte nelle cate-gorie spaziali.

L’arte del XX secolo considera una collettività elemen-tare (due persone) e le possibilità d’incomprensione ri-poste in essa. Persino la singola persona umana si trovadi fronte al problema dell’identificazione dei diversi statidi sé, e l’autocomunicazione e i problemi a essa legati di-ventano oggetto dell’attenzione artistica. In tal modo, lanatura sociale della civiltà contemporanea rende i pro-blemi della comunicazione e della comprensione o, dettoaltrimenti, della semiotica il contenuto di una vasta cer-chia di opere d’arte. Nella nascita della semiotica comescienza autonoma l’arte ha svolto una funzione che forsenon è minore di quella svolta dal pensiero teorico.

La semiotica quindi è l’organica continuazione di nu-merose linee dello sviluppo culturale precedente e, altempo stesso, è legata proprio alla fase attuale della cul-tura, e di questa fase manifesta gli aspetti caratteristici.

Le ricerche semiotiche sono strettamente legate nonsolo alla cultura della loro epoca, ma anche alla culturanazionale e alla tradizione scientifica. S’intende da séche la divisione in scuole e tendenze qui, come in gene-

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rale in casi consimili, ha un carattere piuttosto conven-zionale e fortemente storico.

Così, con certe riserve, si può parlare di una tradi-zione americana delle ricerche semiotiche, rappresenta-ta prima di tutto dai nomi di Charles Peirce e CharlesMorris.

Questa tendenza è legata soprattutto all’elaborazio-ne della logica simbolica e dei campi scientifici limitro-fi. (Si deve ricordare inoltre che un grande merito nellericerche semiotiche di questo carattere spetta alla co-siddetta Scuola di Lwów e Varsavia dei logici polacchie al circolo logistico di Vienna). Una divisione fonda-mentale della semiotica come la delimitazione della se-mantica, della sintattica e della pragmatica è stata usatain ugual grado nei lavori propriamente semiotici e nel-le ricerche logiche.

Ultimamente hanno occupato un posto notevole lericerche dei semiotici francesi (si vedano, in particolare,i lavori di Claude Lévi-Strauss e di Roland Barthes). Diquesta tendenza è caratteristico soprattutto l’interesseper l’indagine semiotica delle varie forme della vita so-ciale; di qui il legame naturale con i problemi dell’antro-pologia, dell’etnografia, del folclore, della mitologia e,d’altro lato, coi problemi della moda, della réclame ecc.Se Lévi-Strauss studia la vita e la cultura dei non-Euro-pei, manifestando una struttura nelle forme che tradizio-nalmente sembrano troppo semplici per diventare og-getto di ricerca (il cibo, l’abbigliamento), Barthes, stu-diando la cultura francese contemporanea nelle sue ma-nifestazioni quotidiane (i suoi lavori sulla moda e sulla“mitologia” contemporanea), scopre lo “strano” nell’a-bituale. Il buon senso e l’esperienza quotidiana sono daessi identificati con la coscienza piccolo-borghese, allaquale si contrappone il punto di vista straniato dell’artee della scienza contemporanee. Noteremo che in una se-rie di casi si può constatare un legame tra le ricerche se-

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miotiche francesi e la tradizione nazionale della criticaletteraria di tipo saggistico.

In modo straordinariamente fecondo si sviluppanonegli ultimi tempi le ricerche semiotiche in Polonia eCecoslovacchia.

È naturale che nella presente pubblicazione si sia ri-flessa la tradizione nazionale russa delle ricerche semio-tiche, che sembra caratterizzata da un legame preminen-te con la linguistica strutturale (si vedano le idee di Fer-dinand de Saussure e di Jan A. Baudouin de Courtenay,sviluppate da Jakobson e Trubeckoj, che trovaronoespressione immediata nell’attività dell’Opojaz e del Cir-colo linguistico di Mosca). È comprensibile che si possaparlare qui sia di un’espansione dei metodi della lingui-stica strutturale (cioè di una loro estrapolazione su unnuovo materiale), sia di un’espansione delle idee.

In particolare, non è per nulla casuale il fatto cheproprio sul terreno russo sia potuta sorgere la nota“scuola formale” degli studi letterari (Sklovskij, Ejchen-baum, Tynjanov, Propp ecc.), il cui legame con le ideedella linguistica strutturale è evidentissimo (si veda lacaratteristica di questa tendenza nello studio di VictorErlich [1965]).

Si tratta non soltanto del fatto che la linguistica strut-turale costituisce la disciplina semiotica più sviluppata,mentre la lingua naturale pur con tutta la sua comples-sità è, probabilmente, l’oggetto della semiotica più ac-cessibile all’indagine. Non meno importante è il legamefunzionale della lingua naturale e dei vari sistemi segnicidella cultura umana, legame che consiste proprio nelfatto che la prima agisce come una sorta di modello“campione”, come un sistema naturale di rispecchia-mento rispetto agli ultimi (e sulla base di questo sistemadiventano possibili i vari tipi di ricodificazione), mentrei vari sistemi segnici parziali spesso agiscono come se-condari rispetto al sistema dell’attività linguistica, costi-

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tuendo dei fenomeni costruiti sopra di essa. (Di qui nel-la tradizione semiotica russa per designare tutto l’ambi-to dei sistemi segnici costruiti sopra la lingua naturale siusa il termine di “sistemi secondari di modellizzazione”,mentre la lingua naturale è considerata come il sistemaprimario di modellizzazione).

Questo modo di vedere è stato recentemente formu-lato con grande precisione da Ivanov (1962, p. 3):

Dal punto di vista delle moderne idee cibernetiche l’uomopuò essere considerato come un apparecchio che compieoperazioni sui vari sistemi e testi segnici, mentre il pro-gramma per queste operazioni è dato all’uomo (e in partesi elabora in lui stesso) sotto forma di segni. Il problema“uomini o animali” (cioè la questione della differenza delcomportamento e dell’intelletto umano dalle analoghe for-me del comportamento degli animali) e il problema “gliuomini sono come le macchine?” (cioè la questione dellesomiglianze e differenze tra il cervello e la macchina) risul-tano strettamente legati alla questione delle peculiarità deisistemi segnici elaborati e usati dall’umanità. A differenzadegli animali, i cui mezzi di segnalazione sono assai limita-ti, l’uomo si serve di una rete ramificata e sempre più com-plessa di sistemi segnici che cresce con lo sviluppo dell’u-manità (nella filogenesi). A differenza delle macchine at-tuali, per il cui funzionamento si usano lingue artificiali ri-ferentisi a una sfera oggettuale rigorosamente fissata eestremamente semplificata, l’uomo possiede non soltantotali lingue formalizzate, ma anche le lingue naturali, non-ché altri sistemi segnici che sono costruiti su di esse e chesi differenziano dalle lingue logiche per una serie di pro-prietà essenziali. Grazie a queste proprietà, le lingue natu-rali possono essere impiegate in qualità di modello di tuttoil mondo che circonda l’uomo, e quindi anche per la de-scrizione dei fenomeni che non hanno ancora avuto unaspiegazione scientifica. In tal modo, dal punto di vista se-miotico, il problema sopra posto si riduce alla spiegazionedelle differenze e delle somiglianze tra le lingue estrema-mente formalizzate (che sorgono soltanto a uno stadio

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molto tardo dello sviluppo del linguaggio e della cono-scenza umana) da un lato, e sistemi segnici complessi co-me la lingua naturale, i sistemi segnici estetici usati nell’ar-te ecc.

(...) Da un lato, si tratta di un’espansione dei metodisemiotici in larghezza. In una serie di casi la stessa possi-bilità di presentare una determinata sfera come oggettodi ricerca semiotica, di mostrare la presenza in essa diuna determinata “lingua” e i diversi modi della sua rea-lizzazione e del suo funzionamento, costituisce un com-pito piuttosto allettante per il ricercatore semiotico.Spesso l’inclusione di materiale nuovo nell’ambito dellaricerca scientifica ha un significato metodologico imme-diato poiché un nuovo oggetto di ricerca può portare al-la revisione degli stessi metodi di ricerca.

In altri casi, compito della ricerca semiotica non è l’e-spansione in larghezza, ma la penetrazione in profon-dità, cioè la descrizione immanente di un concreto siste-ma di segni. In questo caso si tratta sia di enucleare nellasfera studiata un determinato complesso di segni, sia dianalizzare i rapporti tra i segni enucleati, sia nel testo(nella sintagmatica), sia nel sistema (nella paradigmati-ca). L’analisi dei rapporti di quest’ultimo tipo presuppo-ne necessariamente l’introduzione del concetto di livelloe l’istituzione di una gerarchia di livelli. Si deve dire chela stessa elaborazione della metodica della descrizionepuò avere in generale per la semiotica descrittiva un si-gnificato essenziale, non limitato dall’applicazione deidati metodi alla descrizione del sistema concreto che èservito da oggetto di ricerca. L’applicazione degli stessimetodi a sistemi segnici sostanzialmente diversi dà unabase sicura per enucleare l’isomorfismo strutturale trasistemi di vario tipo e rende possibile la costruzione diuna tipologia semiotica.

Infine, non meno importante è la ricerca svolta sulfunzionamento di determinati sistemi segnici. Una simi-

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le ricerca presuppone, da un lato, l’analisi del funziona-mento del sistema di segni come processo comunicati-vo, cioè un determinato sistema di segni è considerato,in termini comunicativi, come comunicazione che va daun mittente a un destinatario. Lo studio dei vari rappor-ti tra mittente e destinatario (i quali possono essereconsiderati in senso sociale e individuale, coincidere inuna stessa persona, differenziarsi per le loro coordinatespaziali e temporali ecc.) determina le potenzialità in-terne di una simile analisi. D’altro lato, proprio se siconsidera il problema del funzionamento dei sistemi se-miotici appare attuale la delimitazione di sincronia ediacronia e in genere lo studio della dinamica sia del te-sto sia dello stesso sistema.

L’ambito or ora delineato di problemi determina lediverse possibilità della semiosi, e in particolare le vie diformazione dei significati, e delinea una classificazionedei tipi di significato: il significato come rapporto tra se-gno e denotato o concetto (secondo Charles Morris), ilsignificato come rapporto tra segno e tutto il sistema nelsuo complesso (nel quale rientra il dato segno), il signifi-cato come rapporto tra i vari partecipanti al processocomunicativo ecc.

(...) le ricerche svolte su problemi segnici particolari,per quanto concreto sia il fine che esse perseguono, so-no orientate verso le prospettive generali della costru-zione di una teoria sintetica della cultura. Quindi, il mo-do di considerare la cultura umana come una gerarchiacomplessa di linguaggi deve unificare dal punto di vistadel fine scientifico le varie esperienze concrete. Inoltre,gli studiosi di quest’ambito di problemi sono interessatinon alla teoria astratta della cultura (l’esperienza scienti-fica ha mostrato che per quanto allettanti siano similicostruzioni, la loro durata non è troppo lunga), bensì auna ricerca svolta su testi realmente manifestati nellastoria del pensiero umano. (...)

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I sistemi di grande complessità che costituisconol’oggetto delle scienze umane – storia, arte, la vita del-l’uomo come unità di processi biologici e sociali –, si di-stinguono per il dinamismo, la fluidità e la contradditto-rietà dell’organizzazione interiore. È proprio su questoaspetto dell’oggetto studiato che richiamano di solitol’attenzione gli avversari dei metodi semiotico-struttura-li, parlando di una loro inapplicabilità agli oggetti dellescienze umane. In effetti, il problema dell’antinomia disincronico e diacronico, statico e dinamico, discreto econtinuo, sta alla base delle discussioni che attualmentesi svolgono intorno alla possibilità di applicare i metodidelle scienze esatte alle scienze umane.

Se si prescinde dalle persone poco competenti chepartecipano alla polemica (e il loro numero, da una par-te e dall’altra, è tutt’altro che scarso), le obiezioni più se-rie provengono dal campo dei teorici legati alla tradizio-ne della filosofia classica tedesca (in particolare di He-gel) e della scienza accademica, che ha formato la pro-pria nozione dello storicismo sotto l’influsso di tale filo-sofia. Un significato analogo aveva già negli anni Venti lacritica di Zirmunskij e Bachtin alla poetica dell’Opojaz3.Molto interessante è l’insoddisfazione che nei riguardidel formalismo (cioè della “scuola formale” degli studiletterati) espresse Boris Pasternak, le cui idee si forma-rono sotto il duplice influsso della cultura avanguardisti-ca del futurismo e della filosofia classica tedesca.

In una lettera a Medvedev, dedicata alla pubblicazio-ne del suo libro sul formalismo, Pasternak scriveva:

Condivido interamente la Sua posizione nei riguardi delformalismo, con la riserva, tuttavia, che nei particolari, na-turalmente, Lei è ingiusto verso di loro. Di questo, proba-bilmente, è cosciente anche Lei e si tratta di una cosa fattaintenzionalmente. Parlo delle interpretazioni insufficientidi alcuni concetti come la straniazione (ostranenie), l’inte-razione di fabula e intreccio ecc. Mi è sempre sembrato

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che, teoricamente, ci fossero idee molto felici, e mi ha sem-pre stupito che questi concetti, euristicamente di così vastaportata, permettessero ai loro autori di essere quelli chesono. Al loro posto io d’impeto, lì per lì, mi sarei messo aderivare da quelle osservazioni un sistema di estetica, e sec’è stato qualcosa che mi ha sempre diviso dai lefisti4 e daiformalisti fin dalla nascita del futurismo (e poi, col passardel tempo, sempre di più), è stata proprio l’incomprensibi-lità del loro arrestarsi negli slanci più promettenti. Questaincoerenza non l’ho mai potuta capire.

E più avanti: “Mi è particolarmente vicina la vostranozione dello storicismo, della prospettiva sociale e del-le altre cose impercettibili sulle quali tutto si regge” (Su-perfin 1971, p. 529).

Qui, di fatto, si scontrano due punti di vista la cui es-senza si era già manifestata nella polemica degli anniVenti: il contenuto del testo è una funzione della suastruttura e, quindi, indagando il meccanismo del testo,otteniamo una base oggettiva per i giudizi sulla sostanzasemantica e sociale di una data opera – sostanza derivatada quel meccanismo – oppure il significato (l’ideja) èprimario, e soltanto nella misura in cui il continuo puòessere espresso nel discreto esso si riflette in un dato te-sto? La contraddizione nella posizione iniziale ha gene-rato una differenza nella scelta del materiale d’analisi: daun lato si è manifestato interesse per i testi stabili con al-fabeti limitati del sistema e regole semplici della sintatti-ca (la fiaba, il mito, il romanzo giallo, la “letteratura dimassa”), dall’altro ci si è interessati alle strutture ambi-valenti, ai testi paradossali, i cui elementi non sono, evi-dentemente, riducibili in un’unitaria struttura sincronica(il principio della “polifonia”, del “carnevale” ecc.).

L’attuale visione strutturale toglie questa antinomiapoiché considera entrambi i punti di vista non comeescludentisi a vicenda, ma come due tendenze culturaliinteragenti. Le tendenze alla sistematizzazione e alla de-

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sistematizzazione nella loro reciproca tensione e resi-stenza determinano il funzionamento dei sistemi segnici,garantendo quell’estrazione dei testi dallo stato di auto-matismo che è la condizione dell’informatività. Ne deri-va che i testi funzionanti nella collettività possono esseredescritti sia come realizzazione di determinate regole siacome loro coerente violazione. Tuttavia, soltanto il rap-porto di queste descrizioni, che reciprocamente si op-pongono, e non ogni singola descrizione a sé presa è ca-pace di spiegarci la natura dell’attività del testo. La vio-lazione delle regole non è una loro assenza, e non biso-gna confondere l’assenza di regole col fatto che esse so-no ignote a un determinato auditorio. Ne deriva che ladescrizione statica del sistema delle regole deve precede-re euristicamente l’individuazione delle loro violazioni,ma ciò non toglie che nel funzionamento reale entrambele tendenze si manifestino simultaneamente.

A questo proposito è opportuno soffermarsi su un’o-biezione frequente secondo la quale proprio l’unità, l’indi-visibilità e l’organicità della vita (e dell’arte come rispec-chiamento della vita) la rende estranea ai metodi esclusiva-mente analitici che costituirebbero l’essenza del metodostrutturale. In effetti, i modelli scientifici di qualsiasi feno-meno continuo, fluido, organico si costruiscono secondo ilprincipio della costruzione di un sistema in base a un testoe quindi apportano inevitabilmente uno smembramentodecifrativo. Ma è proprio il metodo semiotico che, in que-sto senso, si stacca di più dai metodi scientifici tradiziona-li, puramente analitici, poiché pone il problema e delle re-gole e dei mezzi della sintesi del testo. Anzi, legando que-sto problema allo studio della “posizione del mittente” edella “posizione del destinatario”, la semiotica contempo-ranea considera i metodi analitico e sintetico non in qua-lità di due principi che si escludono tra loro, ma comeaspetti organicamente connessi, anche se opposti, di ununico processo di comunicazione. Ed è proprio lo studio

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dell’arte che permette di scoprire la loro unità con la mas-sima chiarezza. Facciamo un solo esempio: confrontiamouna serie extraartistica di denotati (la “vita”, la “realtà”) eun cinetesto che la riproduca e che noi guardiamo durantela proiezione di un film. Può sembrare di avere di fronteun chiaro esempio del rispecchiamento di un tutto conti-nuo e indivisibile (la “vita”) in un altro tutto indivisibile(l’“arte”). Può sembrare inoltre che ogni tentativo di co-struire un modello discreto sia qui possibile soltanto comeastrazione di ricerca, che, secondo gli avversari dello strut-turalismo, fa perdere gli aspetti principali dell’opera d’ar-te. Immaginiamoci, tuttavia, il cinetesto come si presentanon allo spettatore (“destinatario”), ma al regista (“mitten-te”): la pellicola “ininterrotta” si spezza qui in singoli pez-zi, uniti mediante il montaggio. Sono largamente noti gliesperimenti di montaggio fatti da Lev V. Kulesov già neglianni Venti. Ad esempio, un’inquadratura, che raffiguravain primo piano il volto impassibile dell’attore Mozuchin,era montata prima con una fotografia di un piatto di mine-stra, poi con quella di un bambino che giocava e infinecon quella di una bara. A seconda del carattere del mon-taggio gli spettatori vedevano nel volto dell’attore una mi-mica diversa: fame, amore, dolore. Entrambe le inquadra-ture si fondono, per lo spettatore, in un’unità indissolubi-le, mentre per il regista costituiscono un susseguirsi diunità discrete. Nel documentario dedicato a Marija F. An-dreeva il dicitore legge il testo dei ricordi dell’attrice sulprimo incontro con Gor’kij:

Non me lo immaginavo così. E mi riusciva strano che i trat-ti del viso fossero così rozzi, e che avesse quei baffi rossicci(...). Ma d’un tratto attraverso le lunghe e fitte ciglia miguardarono gli occhi azzurri, le labbra si atteggiarono in unsorriso affascinante, e il suo viso mi parve bellissimo (...).

Il regista accompagnò questo testo col montaggio didue fotografie: Gor’kij serio e Gor’kij sorridente. Per lo

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spettatore si ottenne l’effetto di un movimento ininter-rotto, per il regista il susseguirsi del montaggio di imma-gini statiche. Quando Botticelli, illustrando la DivinaCommedia, in un disegno mostrò alcune figure di Dantee Virgilio disposte lungo l’asse del loro spostamento, lospettatore del tempo dovette avere un’impressione dimovimento continuo, impressione che noi abbiamo per-duto. In tal modo, questa fondamentale contraddizionedei metodi di descrizione del testo è tolta nell’unità dellasovrapposizione reciproca dei punti di vista del mittentee del destinatario.

Infine, c’è ancora un aspetto delle obiezioni mosse aimetodi strutturali che merita di essere rilevato. Si trattadell’affermazione che con tale metodo si può afferraresoltanto ciò che di sistematico e di regolare c’è in un te-sto, mentre l’essenza dell’opera d’arte, secondo questaobiezione, sta in ciò che è irripetibilmente individuale.

Al proposito si deve osservare che lo stesso concettodi sistematicità nell’arte si differenzia dal corrispondenteconcetto nelle strutture più semplici. Un testo artistico èproiettato non su una struttura decodificante soltanto,come avviene ad esempio nelle lingue naturali, ma alme-no su due. In tal modo uno stesso elemento ottiene con-temporaneamente alcuni significati, inserendosi in codi-ci diversi. Inoltre ciò che rispetto a un codice si presentacome asistematico, rispetto a un altro acquista valore disistematicità. Alla luce di ciò l’“individuale” nell’arte ac-quista un significato diverso che non nel mondo dei de-notati. Esso non è una manifestazione di asistematicità,ma il risultato dell’intersezione di molti sistemi diversi inun solo punto. La deviazione da un sistema è l’inseri-mento in un altro sistema. L’irripetibile individualità diun testo può essere quindi afferrata non se si rifiuta distudiarne l’interna struttura, ma soltanto se si descrivenel modo più completo possibile la molteplicità dellesue strutture di codice, nel campo semantico delle quali

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funziona un dato testo, e il “gioco” semantico che sorgedalla loro intersezione.

Da quanto s’è detto consegue che chi vuole inserirenel campo dei metodi semiotico-strutturali l’ampia cer-chia degli svariati testi funzionanti nell’ambito della cul-tura umana, non è affatto propenso a livellare la diffe-renza tra i sistemi di vario grado di complessità, né asottovalutare le difficoltà con le quali i ricercatori do-vranno incontrarsi su questo cammino. Queste difficoltàcresceranno legittimamente a mano a mano che si pas-serà dalle strutture semplici (euristicamente era inevita-bile che si cominciasse lo studio proprio da loro) a quel-le più complesse. Tuttavia si può ritenere che le ricerchefatte in questa direzione porteranno in futuro determi-nati risultati scientifici.

Il vasto interesse sociale per la semiotica e le sue ap-plicazioni nella sfera delle scienze umane è suscitatodal desiderio che il lettore non-specialista ha di farsiun’idea della sostanza scientifica di questa nuova disci-plina. Tuttavia, come abbiamo scritto all’inizio di que-sto articolo, la letteratura divulgativa non può dareun’idea della scienza poiché la trasforma in mito. Perpenetrare la sostanza della scienza bisogna conoscerenon i suoi risultati, ma le sue difficoltà, non le conqui-ste, ma i metodi. Il nostro volume è costruito appuntocosì. Gli autori, facendo conoscere ai lettori i risultatiraggiunti dalla semiotica russa applicata alle scienzeumane, hanno concentrato la loro attenzione sui pro-blemi, e non sulle conclusioni della scienza. Ma pro-prio per questo, secondo le nostre speranze, la cono-scenza dei materiali del presente volume può riuscireinteressante non solo agli specialisti, che studiano iproblemi toccati nei vari lavori qui proposti, ma ancheper una vasta cerchia di lettori che desiderino avereun’idea dei temi su cui lavorano gli specialisti russi disemiotica applicata alle scienze umane.

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1 Ed. or.: 1973, “Introduzione”, in Ricerche semiotiche, trad. dal russo diC. Strada Janovic, Torino, Einaudi, pp. XI-XXVIII.

2 Una delle maggiori opere letterarie popolari russe di carattere religioso.Il titolo, che letteralmente significa “libro della colomba” (con un riferimentoallo Spirito Santo), deriva – per un processo di reinterpretazione semantica,basato su un’assonanza fonica – da un originario Glubinnaja kniga, cioè “li-bro profondo” (N.d.T.).

3 Cfr. Zirmunskijù 1928, pp. 154-174, 337-356; Medvedev 1928;Volosinov 1929. I libri di Medvedev e Volosinov, scritti sotto il diretto influs-so di Bachtin, riflettono le idee di quest’ultimo.

4 Cioè dei seguaci del LEF (abbreviazione russa del Fronte di sinistra dellearti), denominazione di un movimento e di una rivista degli anni Venti che fa-ceva capo a Majakovskij (N.d.T.).

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Che cosa dà l’approccio semiotico?1

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La questione del rapporto tra scienza e arte ha dirittoalla nostra attenzione2. Lo dimostrano, almeno, i timorisuscitati nell’uomo contemporaneo di media cultura dal-la stessa impostazione della questione dell’influenza re-ciproca tra arte e scienza, arte e tecnica. Ma la cultura,fra l’altro, esiste per questo, per analizzare e disperdere itimori. I timori nei confronti della scientifizzazione etecnicizzazione della cultura sono antichi e hanno radiciprofonde. L’uomo meccanico, l’automa, la bambola vi-va, un mondo dominato dagli automi sono incubi tradi-zionali della cultura dell’era moderna.

Con questo va tuttavia sottolineato, in primo luogo,che alla base di queste immagini quasi mitologiche sitrova una metafora; in realtà il mondo di macchine disu-mane che spaventava e illuministi e romantici non ha al-cuna relazione col progresso reale della scienza e dellatecnica. Quando Hoffmann fantasticava di bambolesenz’anima e di automi maligni, aveva davanti agli occhil’enorme macchina sociale prussiana, che non brillavaaffatto per attività tecnica e per progresso scientifico.Né la Russia di Nicola I al tempo di Odoevskij né la rea-zione russa del secondo Ottocento, che col suo automa-tismo opprimeva Saltykov-Scedrin, erano epoche di pe-netrazione della tecnica nella vita, sebbene suscitasseronella coscienza degli artisti le immagini fantasmagorichedi un’automatizzazione di tutto il vivente. In tal modo la

macchina è qui soltanto un’immagine metaforica di unmovimento morto, di una pseudovita, e non la causareale di un morire.

In secondo luogo lo sviluppo della moderna teoriadelle comunicazioni ci persuade che influenza reciprocaè cosa diametralmente opposta a livellamento. Il contat-to tra meccanismi identici è inutile. È proprio il livella-mento delle persone che interrompe i loro contatti co-municativi. Il contatto diventa troppo tenue e funzional-mente del tutto inutile. Al contrario, la specializzazionedelle varie sfere della cultura fa del contatto tra di esseun complesso problema semiotico, e contemporanea-mente le rende reciprocamente necessarie. Di conse-guenza, il discorso non può vertere sulla trasformazionedell’arte in scienza o viceversa. Quanto più l’arte sarà ar-te e la scienza scienza, tanto più esse saranno specifichenelle proprie funzioni culturali, e tanto più reale e frut-tuoso sarà il loro dialogo.

In terzo luogo va tenuto presente che nelle nostre ri-flessioni sul ruolo della macchina nella cultura penetrainesorabilmente, senza che ce ne accorgiamo, l’immagi-ne delle macchine che ci sono note. Ma se si considerache qualsiasi tecnica contemporanea, commisurata allecapacità potenziali della scienza, è estremamente primi-tiva e poco efficiente, alla riflessione sul ruolo della tec-nica nella cultura subentra inevitabilmente quella relati-va alle possibilità di influenza di forme primitive dellatecnica su sfere culturali di per sé complesse. La conce-zione meccanicistica della macchina, creata nella culturadel secolo XVII, mentre se ne sta andando dalla tecnicamoderna, rimane un fatto della coscienza dell’uomo col-to contemporaneo, frenando non soltanto il progressotecnico, ma anche lo sviluppo generale della cultura.

La questione dell’influsso della tecnica sull’arte cisembra, se non gonfiata, quanto meno poco interessante.È molto più importante l’aspetto dell’influsso dell’arte

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sulla tecnica. Nel corso dei secoli il pensiero tecnico-scientifico era orientato verso l’idea che il mondo dellanatura fosse fatto in modo imperfetto, che bisognasseperfezionarlo, che di conseguenza occorresse inventareciò che in natura non esiste e razionalizzare ciò che esistein essa. Per la coscienza scientifica contemporanea ilmondo della natura si rivela come un meccanismo estre-mamente complesso e finalizzato, le cui lezioni non pos-siamo largamente utilizzare solo a causa della nostra im-preparazione tecnico-scientifica. Proprio questo limita lepossibilità della bionica. Tuttavia, proprio la natura ci of-fre esempi ideali di una macchina che pensa e si sviluppada sé, della macchina-individuo, che rappresenta un or-ganismo unico nel suo genere e che coopera con altri or-ganismi unici nel loro genere (come è lontano questodall’impersonalità e standardizzazione come immaginiideali della macchina!). La complessità dei meccanismibiochimici della vita rappresenta tuttavia una barrierache non riusciamo ancora a superare. A questo punto bi-sogna ricordare un altro oggetto, che da una parte ha ca-ratteri simili a quelli della vita (ad esempio la capacità disvilupparsi e accumulare informazione nel corso di que-sto processo e correlativamente di ridurre il livello d’en-tropia nel suo ambiente), e dall’altra è creazione dell’uo-mo e di conseguenza si presta maggiormente alla model-lizzazione. Mi riferisco all’arte. Si può affermare con cer-tezza che l’opera d’arte è la cosa più complessa e funzio-nalizzata tra quanto finora ha creato la mano dell’uomo.Per determinati aspetti l’opera d’arte è un’immagineideale di una macchina del futuro (assimilando una seriedi principi strutturali dell’opera d’arte, il futuro oggettotecnico non la sostituirà e non le somiglierà; al contrario,proprio allora la contrapposizione funzionale tra arte etecnica si manifesterà in forma “pura”).

Facciamo un esempio. A tutti coloro che hanno avu-to a che fare col problema attuale dell’intelligenza artifi-

CHE COSA DÀ L’APPROCCIO SEMIOTICO?

ciale3 è noto che le realizzazioni in questo campo si sonorivelate notevolmente inferiori alle attese. Si ritiene cheuna delle ragioni di questo stia nel fatto che gli sforzi so-no stati concentrati su funzioni intellettuali relativamen-te primitive, a partire dalle quali si sperava di costruireun insieme pensante, come fanno i bambini coi cubettiper costruire una casetta. Tra l’altro la nozione stessa diattività intellettuale rimane non chiara, poiché il pensie-ro individuale umano continua a essere un fatto unico,non comparabile con nessun altro oggetto. Di conse-guenza è impossibile distinguere ciò che appartiene aqualsiasi tipo di intelligenza e ciò che invece appartienea una delle sue forme, la coscienza umana.

La semiotica dell’arte e la semiotica della culturacontemporanee consentono, da un lato, di vedere nell’o-pera d’arte un congegno che produce pensiero, creatodall’uomo e, dall’altro, di osservare la cultura come mec-canismo, ovviamente creatosi storicamente, dell’intelli-genza collettiva che possiede una memoria collettiva e lacapacità di compiere operazioni intellettuali. Questo fauscire l’intelligenza umana da uno stato di unicità, il cherappresenta un essenziale passo avanti della scienza.

Per comprendere che cosa possa significare questo perla tecnica del futuro, diamo un esempio. È largamente no-to che la memoria occupa un posto assai importante nel si-stema della moderna teoria delle macchine. Non appenal’uomo ha avuto necessità di creare artificialmente un di-spositivo di memoria, si è trovato dinnanzi la nota immagi-ne del deposito (biblioteca, libri, qualsiasi tipo di memoriasovraindividuale, sorta nell’epoca della grafica), cioè dellecaselle riempite di testi. Il libro, una macchina della me-moria assai primitiva e antica, è diventato un modello perla nuova memoria delle macchine. Se potessimo intantospiegare, in termini traducibili in un linguaggio scientificogenerale, perché dopo aver letto un testo artistico “ricor-diamo” ciò che non sapevamo e ciò che in esso letteral-

JURIJ M. LOTMAN

mente non si dice, ma che è stato posto dall’autore nellamemoria latente del romanzo o del poema, e perché unostesso testo dia a lettori diversi informazioni diverse e, co-stituendo con ogni singolo lettore un complesso insiemestrutturale, gli dia proprio ciò che gli serve, comunicando-gli quanto egli può “contenere”, allora probabilmente inostri modelli di memoria artificiale sarebbero meno far-raginosi (ricordiamo la compattezza del testo artistico e lasemplicità apparente della sua struttura, irraggiungibili perla tecnica moderna!) e molto più efficaci.

Senza far carico al lettore di particolari specifici, sipuò dire che una scienza che sta ora nascendo, la ciber-netica del testo artistico, l’artonica [artonika], nascondein sé possibilità non soltanto teorico-scientifiche, ma an-che tecnico-pratiche. Quest’ultima affermazione si basanon solo su considerazioni approssimative, ma sull’espe-rienza di molti anni di collaborazione tra la cattedra diLetteratura Russa dell’Università statale di Tartu, i ci-bernetici dell’Istituto di Apparecchiature Aeronautichedi Leningrado (il gruppo del professor Ignat’ev) e ilgruppo del professor Egorov presso l’Istituto pedagogi-co Herzen di Leningrado.

Si può sperare che verrà il momento in cui un’indagi-ne attenta dei fenomeni dell’arte e dei meccanismi dellacultura diventerà abituale sia per il teorico della ciberne-tica sia per chi crea nuove forme di tecnica.

1 Ed. or.: 1976, Cto daët semioticeskij podchod?, «Vosprosy literatury»,11, Moskva, pp. 67-70; trad. it. 1979, in La semiotica nei Paesi slavi. Program-mi, problemi, analisi, a cura di C. Previgano, trad. di C. Danil’cenko Girotti,Milano, Feltrinelli, pp. 225-228.

2 Il testo qui tradotto rappresenta il resoconto stenografico autorizzatodel contributo di Lotman a una tavola rotonda, organizzata dalle riviste «Vo-sprosy filosofii» e «Vosprosy literatury», sul rapporto fra scienza e arte nelcorso della rivoluzione tecnico-scientifica.

3 Si è tradotto così iskusstvennyi intellekt, equivalente di artificial intelli-gence (N.d.T.).

CHE COSA DÀ L’APPROCCIO SEMIOTICO?

Seconda parteNascita della semiotica della cultura

L’unità della cultura1

Jurij M. Lotman

Il Comitato organizzatore della “IV Scuola estivasui sistemi modellizzanti secondari”2 propone di met-tere al centro dei lavori di quest’anno il problemadell’unità della cultura. L’argomento va esaminato dapiù angolazioni:

1. Occorre muovere dalla premessa che tutta l’attivitàdell’uomo diretta a elaborare, scambiare e conservareinformazione con l’aiuto di segni, possiede una precisaunità. I diversi sistemi di segni pur presentando strutturea organizzazione immanente, funzionario solo in unità,con l’appoggiarsi l’uno all’altro. Nessun sistema segnicodispone di un meccanismo che gli assicuri un funziona-mento isolato. Da questo segue che, accanto a un’impo-stazione dell’indagine che permetta di costruire una seriedi scienze del ciclo semiotico, tra loro relativamente au-tonome, è anche ammissibile un’altra impostazione nellacui prospettiva tutte queste scienze analizzino singoliaspetti di una semiotica della cultura, scienza della corre-lazione funzionale dei differenti sistemi segnici.

2. Da questo punto di vista, acquistano un senso tuttoparticolare i problemi che riguardano la struttura gerar-chica dei linguaggi della cultura, la ripartizione dei relati-vi ambiti, i casi in cui tali ambiti si intersecano o, sempli-cemente, confinano. È necessario prendere in esame an-che quelle condizioni extrasistemiche, a prescindere dal-le quali il sistema non è in grado di funzionare (cfr., ad

esempio, l’incomprensibilità del linguaggio orale quandolo si trasferisca meccanicamente in una forma grafica).

3. Sarebbe interessante definire l’assortimento mini-mo di sistemi segnici (di linguaggi culturali) necessari alfunzionamento di una cultura nella sua totalità, e co-struire il modello delle relazioni più elementari che in-tercorrono tra essi, il modello della cultura.

4. Andrebbe sottoposto a un’analisi specifica il pro-blema della correlazione tra linguaggi primari e secon-dari. È davvero obbligatorio tale doppio livello, per lacostruzione della cultura, e in che consiste la sua neces-sità funzionale? È sistema primario soltanto la lingua na-turale? Quali proprietà deve possedere un sistema per-ché sia in grado di intervenire come sistema primario, equali per assolvere la funzione di sistema secondario?

5. Indagini più particolari potrebbero venir condottenelle direzioni seguenti:

a) Descrizione del luogo dell’uno o dell’altro sistemasemiotico nel complesso generale dei sistemi. Ci si po-trebbe benissimo immaginare ricerche del tipo: “Il po-sto della musica come sistema semiotico nel sistema ge-nerale della cultura”; “Il posto della matematica nellacultura intesa come totalità semiotica”.

b) Descrizione dell’influenza dell’uno o dell’altroparticolare sistema semiotico sugli altri (per esempio, “Ilruolo della pittura nella semiotica della poesia di unadata epoca”; “Il ruolo del cinema nella struttura lingui-stica della cultura coeva”).

c) Studio della difformità nell’organizzazione internadella cultura. L’esistenza della cultura in quanto organi-smo unitario sembra sottintendere la presenza di una di-versificazione strutturale interna. Il fenomeno del plurilin-guismo interno alla cultura e le cause della sua necessità.

6. Il posto dell’arte nel sistema generale della cultura.Il problema della necessità dell’arte. Il tratto dominantedei diversi tipi di arte.

JURIJ M. LOTMAN

7. Che cosa determina la necessità di una contrappo-sizione tra segni figurativi e segni convenzionali nel si-stema generale della cultura? È possibile l’esistenza diuna cultura senza un bilinguismo di questo tipo? Qual èla motivazione semiotica degli altri tipi di bilinguismoculturale (poesia-prosa, letteratura orale-letteraturascritta ecc.)? È possibile una cultura multilingue?

8. Il problema della tipologia della cultura. Metodidelle descrizioni tipologiche. L’atteggiamento della cul-tura verso il segno, il testo e la semiosi, visto come basedi una caratterizzazione tipologica. Culture paradigmati-che e sintagmatiche. Assortimento minimo di testi e as-sortimento minimo di funzioni nel concetto di cultura.

9. Cultura e non-cultura. La lotta contro la culturacome problema culturale (caso analogo: il problema del-la dimenticanza come componente del meccanismo del-la memoria). Culturoclasi e acculturazione nella storiadella cultura3. Il problema della riserva strutturale nellacultura (i barbari per l’antichità, i pagani per il cristiane-simo, gli ignoranti per i razionalisti, il popolo per l’Illu-minismo: la sfera di espansione della cultura).

10. La cultura è memoria della collettività. La conti-nuità culturale assicura al gruppo sociale la coscienza diesistere. Possibilità di uno studio della cultura in quantomemoria organizzata.

11. Il problema dell’evoluzione della cultura. Che co-sa provoca la necessità di una sostituzione dei linguaggiculturali? La questione dei cambiamenti immotivati deisistemi semiotici (cambiamenti nei sistemi fonologicidelle lingue, moda ecc.). Costruzione di un modello del-la dinamica di un sistema semiotico. Modelli con svilup-po a cicli e “a valanga”.

12. La cultura come categoria storica. Limiti territo-riali, areali e cronologici delle singole culture. Il proble-ma dell’autovalutazione nello spazio e nel tempo (aspi-razione all’universalità e all’eternità).

L’UNITÀ DELLA CULTURA

13. La cultura come ambito di conflitti sociali. La lot-ta per la memoria della collettività. Norme socialmenteprescritte di memoria e dimenticanza.

14. Tratti distintivi di una cultura arcaica. Tipologiastorica delle culture. Il problema della metacultura. Cor-relazione tra componente materiale e componente spiri-tuale nelle culture arcaiche e nelle nuove. Tipologia del-l’autovalutazione nelle culture delle diverse epoche.

15. Il concetto di “norma” e di “regola” nella cultu-ra. L’osservanza delle regole e la lotta contro le regoleche diventa a sua volta regola (il gioco delle regole chemutano in continuazione).

1 Ed. or.: 1970, “Predlozenija po programme IV Letnej skoly po vtoricnymmodelirujuscim sistemam”, in Tezisy dokladov IV letnej skoly po vtoricnym mo-delirujuscim sistemam, 17-24 avgusta 1970, Tartu, pp. 3-5; trad. it. 1979, “Pro-poste per il programma della ‘IV Scuola estiva sui sitemi modellizzanti seconda-ri’”, in La semiotica nei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, a cura di C.Previgano, trad. di R. Faccani, Milano, Feltrinelli, pp. 191-193 [nell’originalerusso queste Proposte figurano anonime].

2 La “IV Scuola estiva” si svolse dal 17 al 24 agosto 1970, in Estonia(N.d.T.).

3 “Culturoclasi” vuol ricalcare il neologismo kul’turoborcestvo, costruitosul modello di ikonoborcestvo (“lotta alle immagini sacre”, “iconoclasi”). Ad“acculturazione” corrisponde nell’originale kul’turtregerstvo (“il farsi kul’tur-treger [= Kulturträger], portatore di cultura”, anche in senso colonial-impe-rialista) (N.d.T.).

JURIJ M. LOTMAN

Tesi per un’analisi semiotica delle culture1

Vjaceslav V. Ivanov, Jurij M. Lotman, AleksandrM. Piatigorskij, Vladimir N. Toporov, Boris A.Uspenskij

1.0.0. Nello studio della cultura un punto di avvio èil presupposto che tutta l’attività dell’uomo volta a ela-borare, scambiare e conservare informazione possiedeuna certa unità. I singoli sistemi segnici, pur presuppo-nendo strutture con una organizzazione immanente,funzionano soltanto in unione, appoggiandosi l’uno al-l’altro. Nessun sistema segnico possiede un meccanismoche gli consenta di funzionare isolatamente. Ne conse-gue che, accanto a una impostazione che permetta di co-struire una serie di scienze relativamente autonome delciclo semiotico, anche un’altra è lecita, dal punto di vistadella quale tutte queste scienze considerino aspetti par-ticolari della semiotica della cultura, intesa come scienzadella correlazione funzionale dei diversi sistemi segnici.Da questo punto di vista assumono un senso particolarei problemi relativi alla struttura gerarchica dei linguaggidella cultura, alla distribuzione tra questi delle rispettivesfere, ai casi in cui queste sfere si intersecano o, sempli-cemente, confinano.

1.1.0. Nelle ricerche di carattere semiotico-tipologi-co il concetto di cultura è assunto come primitivo. Sideve distinguere, al riguardo, la considerazione dellacultura secondo il punto di vista a essa proprio, dallaconsiderazione della stessa secondo il punto di vista dacui ci si propone la costruzione di un metasistemascientifico che la descriva. Dalla prima posizione, la

cultura assumerà l’aspetto di un certo ambito delimita-to al quale si oppongono gli avvenimenti della storia,dell’esperienza o dell’attività umana che rimangonofuori di esso. Il concetto di cultura è così indissolubil-mente legato con l’opposizione alla sua “non cultura”.Ora, il principio su cui si fonda tale opposizione (l’anti-tesi della religione vera alla falsa, dell’istruzione all’i-gnoranza, dell’appartenenza a un certo gruppo etnicoalla non appartenenza a esso ecc.) è relativo al tipo dicultura considerato. Tuttavia, la stessa contrapposizionedell’inclusione in una certa sfera chiusa all’esclusioneda questa costituisce una particolarità significativa dellanostra interpretazione del concetto di cultura dal puntodi vista “interno”. Tutto questo si accompagna a una ti-pica assolutizzazione dell’antitesi: sembra che la culturanon abbia bisogno della sua controparte “esterna” epossa essere capita nella sua immanenza.

1.1.1. Da questo punto di vista la definizione dellacultura come l’ambito dell’organizzazione (informazio-ne) nella società umana, e la contrapposizione a essa del-la disorganizzazione (entropia) rappresentano una dellemolte definizioni date “dal di dentro” dell’oggetto cheviene descritto; questo conferma ancora una volta che lascienza (nel nostro caso, la teoria dell’informazione) nelsecolo XX non rappresenta soltanto un metasistema, marientra nell’oggetto che viene descritto, cioè nella “cul-tura contemporanea”.

1.1.2. L’opposizione “cultura-natura” (“fatto-non fat-to”)2 rappresenta anch’essa semplicemente un’interpre-tazione particolare e storicamente determinata dell’anti-tesi appartenenza-non appartenenza. Ricordiamo chel’antitesi, diffusa nella cultura russa dell’inizio del secoloXX (Aleksandr Blok), di “cultura” e “civiltà” viene aconsiderare la cultura come una costruzione organizza-ta, ma non dall’uomo, bensì dallo “spirito della musica”,e quindi come costruzione “primordiale” [iskonnoe/pri-

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meval]. Il carattere dell’essere fatto3 viene ascritto all’an-tipodo di cultura-civiltà.

1.2.0. In una descrizione dal punto di vista esterno,cultura e non cultura sono rappresentate come ambitireciprocamente condizionati e bisognosi l’uno dell’al-tro. Il meccanismo della cultura è un congegno [ustroj-stvo/system] che trasforma la sfera esterna in quella in-terna: la disorganizzazione in organizzazione, i profaniin iniziati, i peccatori in giusti, l’entropia in informa-zione. In forza del fatto che la cultura non vive soltan-to grazie all’opposizione tra sfera interna ed esterna,ma anche grazie al passaggio da un ambito all’altro, es-sa non si limita a lottare con il “caos” esterno, ma allostesso tempo ne ha bisogno, non solo lo annienta, macostantemente lo crea. Uno dei legami della culturacon la civiltà (e il “caos”) sta nel fatto che la cultura sipriva ininterrottamente, a favore del suo antipodo, ditaluni particolari elementi da essa esauriti [otrabo-tannye/exhausted] che si trasformano in cliché e fun-zionano nella non cultura. Si realizza così nella stessacultura un aumento di entropia a spese del massimo diorganizzazione.

1.2.1. Si può dire, a questo riguardo, che ciascun ti-po di cultura ha un suo tipo corrispondente di “caos”,il quale non è per nulla originario, omogeneo, né sem-pre uguale a se stesso, ma rappresenta una creazioneumana altrettanto attiva dell’ambito dell’organizzazioneculturale A ciascun tipo di cultura storicamente datocorrisponde un certo tipo di non cultura che appartienesolo a esso.

1.2.2. L’ambito della non organizzazione esterna allacultura può essere costruito come sfera speculare a quel-la della cultura ovvero come spazio che, dal punto di vi-sta dell’osservatore coinvolto in quella certa cultura, ap-pare non organizzato; invece, da un punto di vista ester-no, esso appare come un ambito con una diversa orga-

TESI PER UN’ANALISI SEMIOTICA DELLE CULTURE

nizzazione. Un esempio del primo tipo può essere consi-derata la ricostruzione delle concezioni pagane fatta daun monaco di Kiev nel secolo XII nella Povest’ vre-mennych let [Racconto dei tempi passati]. In essa, allostregone [kudesnik/sorcerer] che prende parte a una di-sputa religiosa con i cristiani, e al quale è stato chiesto:“Come sono gli dei vostri, dove dimorano?”, si fa ri-spondere: “Dimorano negli inferi, sono d’aspetto neri,con ali e coda”. Se nell’area nel mondo culturalmenteacquisito, agli dei è riservato l’“alto”, nello spazio che nerimane fuori, essi sono collocati in basso. Avviene quindiuna identificazione dello spazio extraculturale con ilmondo negativo che sta “sotto” nel sistema della culturaconsiderata (“Un dio che sta agli inferi è un diavolo; undio che sta nei cieli è un giudice”). Un esempio del se-condo tipo ci è dato dalla affermazione dell’annalistaPoljanin che presso gli antichi “i matrimoni non c’era-no”, cui segue la descrizione di una organizzazione fa-miliare che per l’annalista non è un matrimonio, mentretale è indubbiamente per lo studioso contemporaneo.

1.2.3. Pur cercando la cultura di allargare i propriconfini, e di impossessarsi così di tutto lo spazio extra-culturale, rendendolo simile a sé, secondo una descrizio-ne esterna, l’ampliamento della sfera dell’organizzazioneporta all’ampliamento della sfera della non organizzazio-ne. Al mondo ristretto della civiltà ellenica corrisponde-va il mondo ristretto dei “barbari” che la circondavano.Alla crescita spaziale dell’antica civiltà mediterranea siaccompagnò la crescita del mondo extraculturale (natu-ralmente, se si fa astrazione dai concetti di quel determi-nato tipo di cultura, non ci fu alcuna crescita; poteva av-venire che questo o quel popolo continuasse a vivere, an-che in seguito, come prima che fosse noto al mondo dellaciviltà romana. Tuttavia, dal punto di vista di quella certacultura, l’“antecampo” [“predpol’e”/“forefield”] si eracostantemente ampliato). È significativo che il secolo XX,

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esaurite le riserve per un ampliamento della cultura nellospazio (tutto lo spazio geografico è diventato “culturale”e l’“antecampo” è scomparso), si sia rivolto al problemadel subcosciente, costruendo così un nuovo tipo di spa-zio contrapposto alla cultura. La contrapposizione allesfere del subcosciente, da una parte, e alle sfere del co-smo, dall’altra, è altrettanto essenziale per comprenderela struttura interna della cultura del secolo XX di quantolo erano le contrapposizioni della Rus’4 alla steppa per ilsecolo XII, o del popolo all’intelligencija per la culturarussa nella seconda metà del secolo XIX. Come fatto dicultura, il problema del subcosciente non è tanto unascoperta quanto una creazione del secolo XX.

1.2.4. L’opposizione “cultura-spazio extraculturale”costituisce l’unità minima5 su un dato livello. Pratica-mente ci è fornito un paradigma di spazi extraculturali(“infantile”, “etnico-esotico” dal punto di vista di unacerta cultura, “subconscio”, “patologico” ecc.). In modoanalogo i testi medievali costruiscono le descrizioni deidiversi popoli: al centro è collocata una certa entità nor-male, il “noi”, alla quale sono contrapposti gli altri po-poli come un insieme paradigmatico di anomalie6.

1.3.0. Il carattere attivo del ruolo svolto dallo spazioesterno nel meccanismo della cultura si manifesta, inparticolare, nel fatto che determinati sistemi ideologicipossono attribuire una fonte generatrice di cultura pro-prio alla sfera esterna, non organizzata, contrapponendoa essa l’area interna, ordinata, come culturalmente mor-ta. Così, nella contrapposizione slavofila della Russia al-l’Occidente, la prima è identificata con la sfera esterna,non normalizzata, non acquisita alla cultura, ma costi-tuente il germe della cultura a venire. L’Occidente vienepensato come il mondo chiuso e ordinato, cioè “cultura-le”, e al tempo stesso culturalmente morto.

1.3.1. Perciò, dal punto di vista dell’osservatoreesterno, la cultura non viene a rappresentare un mecca-

TESI PER UN’ANALISI SEMIOTICA DELLE CULTURE

nismo immobile, bilanciato in una dimensione sincroni-ca, bensì un congegno dicotomico il cui “funzionamen-to” si attuerà come invasione dell’ordine nella sfera delnon ordinato, e come contrapposta irruzione del non or-dinato nell’area dell’organizzazione. In momenti diversidello sviluppo storico può dominare l’una o l’altra ten-denza. L’acquisizione alla sfera della cultura di testi pro-venienti dall’esterno risulta essere talvolta uno stimolopotente di sviluppo culturale.

1.3.2. Le correlazioni [nel senso della teoria dei gio-chi] tra la cultura e la sua sfera esterna devono essere te-nute presenti nell’analisi delle influenze e dei rapporticulturali. Mentre nei periodi di intensa influenza dellacultura sulla sfera esterna essa assimila ciò che le è simile,ossia ciò che dalle sue posizioni è riconosciuto come unfatto di cultura, nei momenti di sviluppo estensivo essaassorbe dei testi che non ha gli strumenti per decifrare.La larga invasione nella cultura europea del secolo XX

dell’arte infantile, dell’arte arcaica e medievale, e dell’ar-te dei popoli dell’Estremo Oriente e dell’Africa è legatacon il fatto che tali testi sono sradicati dal contesto stori-co (o psicologico) che è loro proprio. Si guarda a essi congli occhi dell’“adulto” o dell’europeo. Per esercitare unruolo attivo, essi devono essere sentiti come “estranei”.

1.3.3. La funzione culturale della tensione tra lo spa-zio interno (chiuso) e quello esterno (aperto) si manife-sta con chiarezza, in particolare, nella struttura dell’abi-tazione (e degli altri edifici). Fabbricando una casa, l’uo-mo con ciò stesso recinta [otgorazivaet/partitions off]una parte dello spazio, la quale, a differenza della sferaesterna, è percepita come ordinata e culturalmente ac-quisita. Tuttavia, questa contrapposizione iniziale acqui-sta un senso culturale solo sullo sfondo di infrazionicontinue in un senso e nell’altro. Così, da una parte, lospazio chiuso “domestico” comincia a essere sentito noncome antipodo del mondo esterno, bensì come suo mo-

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dello e suo analogo (ad esempio, il tempio come imma-gine dell’universo). In questo caso, l’ordine dello spaziodel tempio è trasferito nel mondo esterno, sopraffacen-do la sfera del non ordinato (aggressione all’esterno del-lo spazio interno). D’altra parte, certe proprietà delmondo esterno penetrano in quello interno. Con questofatto è connessa la tendenza a isolare nella casa la “casadella casa” (ad esempio, il presbiterio è la sfera internadella sfera interna). Un esempio assai interessante del“gioco” tra lo spazio interno e quello esterno dell’edifi-cio, come analogo della tensione tra le corrispondentisfere culturali, ci è dato dalla architettura barocca. Lacreazione di strutture “traboccanti” oltre i limiti (quadriche escono dalle cornici, statue che scendono dai piedi-stalli, il sistema di accoppiamento di finestre e specchiche introducono negli interni il paesaggio esterno) creainfiltrazioni reciproche della sfera culturale nel caos edel caos nella sfera culturale.

2.0.0. La cultura si struttura dunque come una gerar-chia di sistemi semiotici cui corrisponde un ordinamen-to a più strati della sfera extraculturale che la circonda.È tuttavia fuori discussione che è la struttura interna, in-sieme con la composizione e il coordinamento dei singo-li sottosistemi semiotici, a determinare in primo luogo iltipo di cultura.

2.0.1. In accordo con quanto si è detto sopra, la cor-relazione di più culture può anche dar luogo a un’unitàfunzionale o strutturale dal punto di vista di contesti piùampi (genetici, areali ecc.). Un simile approccio risultaparticolarmente fruttuoso nella soluzione dei problemirelativi a uno studio comparativo della cultura, in parti-colare a uno studio comparativo delle culture dei popolislavi. La costituzione di un paradigma interno delle cul-ture, o la loro distribuzione nel campo dell’opposizionestrutturale “area interna alla cultura – area esterna alla

TESI PER UN’ANALISI SEMIOTICA DELLE CULTURE

cultura”, consentono di risolvere una serie di problemiche riguardano tanto la correlazione tra le singole cultureslave, quanto il rapporto tra esse e le culture di altre aree.

3.0.0. Il concetto di testo, che è un concetto fonda-mentale della semiotica contemporanea, può essere con-siderato l’anello di congiunzione tra le ricerche semioti-che generali e le ricerche particolari della slavistica. Il te-sto è veicolo di un significato globale e di una funzioneglobale (se si distingue la posizione dello studioso dellacultura da quella del portatore della cultura, dal punto divista del primo il testo viene a essere veicolo di una fun-zione globale; dal punto di vista del secondo, veicolo diun significato globale). In tal senso il testo può essereconsiderato come elemento primo (unità di base) dellacultura. La correlazione del testo con il tutto della cultu-ra e con il suo sistema di codici si manifesta nel fatto che,a livelli diversi, uno stesso messaggio può presentarsi co-me testo, come parte di un testo o come insieme di testi.Così le Povesti Belkina [Novelle di Belkin] di Puskin pos-sono venire considerate come un testo globale, come uninsieme di testi o ancora come parte di un unico testo,“la novella russa degli anni Trenta del secolo scorso”.

3.1.0. Il concetto di “testo” viene usato in senso spe-cificamente semiotico; in primo luogo, esso non è appli-cato soltanto ai messaggi in lingua naturale, ma anche aqualsiasi veicolo di un significato globale (“testuale”),sia esso un rito, un’opera d’arte figurativa, oppure unacomposizione musicale. In secondo luogo, non ognimessaggio in lingua naturale costituisce un testo dalpunto di vista della cultura. Dall’insieme dei messaggi inlingua naturale una cultura estrae e considera soltantoquelli che possono essere determinati come un qualchegenere di discorso, ad esempio, “preghiera”, “legge”,“romanzo” ecc., cioè quelli che possiedono un qualchesignificato globale e svolgono un’unica funzione.

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3.2.0. Il testo, come oggetto di analisi, può essereconsiderato alla luce dei seguenti problemi:

3.2.1. Testo e segno. Testo come segno globale, testocome successione di segni. Il secondo caso, come è bennoto dall’esperienza dello studio linguistico del testo, ètalvolta considerato l’unico possibile. Tuttavia, nel mo-dello generale della cultura è essenziale anche l’altro ti-po di testo, in cui il concetto di testo non compare comesecondario, derivato da quello di sequenza di segni,bensì come primario. Un testo di questo tipo non è di-screto e non si scompone in segni. Esso costituisce untutto e non si articola in segni separati, bensì in tratti di-stintivi. In questo senso, si può trovare una larga somi-glianza tra il carattere primario del testo in certi sistemiaudio-visivi contemporanei della comunicazione di mas-sa, come il cinema e la televisione, e il ruolo del testo peri sistemi in cui, come nella logica matematica, nella me-tamatematica e nella teoria delle grammatiche formali,per lingua si intende un certo insieme di testi. La diffe-renza, in linea di principio, tra questi due casi di prima-rietà [pervicnost’/primacy] del testo sta tuttavia nel fattoche nei sistemi audio-visivi di trasmissione dell’informa-zione e in sistemi meno recenti di essi, come la pittura,la scultura, la danza (e il mimo), il balletto, il carattereprimario può appartenere a un testo continuo (tutta latela del quadro o un frammento di essa nel caso in cuinel quadro si distinguano segni diversi)7, mentre nei lin-guaggi formali il testo può sempre essere rappresentatoda una successione di simboli discreti, dati come ele-menti di alfabeto primitivo (di un repertorio o di un vo-cabolario).

L’orientamento verso tali modelli discreti dei linguag-gi formali (cioè verso il caso della trasmissione discretadi informazione) è tipico della linguistica della primametà del nostro secolo, mentre nella teoria semioticacontemporanea esso lascia il posto a un’attenzione al te-

TESI PER UN’ANALISI SEMIOTICA DELLE CULTURE

sto continuo, inteso come dato originario (cioè a un’at-tenzione per i casi non discreti di trasmissione di infor-mazione), proprio quando nella stessa cultura assumonoun’importanza sempre maggiore i sistemi di comunica-zione che si valgono prevalentemente di testi continui.Nella televisione l’unità di base è rappresentata dalla si-tuazione elementare di vita che, prima del momento del-la trasmissione (o prima della ripresa del telefilm), è apriori sconosciuta e non scomponibile in elementi. Manella tecnica audio-visiva della comunicazione di massa(nel cinema e nella televisione, inclusi i telefilm) è tipicaanche una combinazione dei due modi. Il cinema non ri-nuncia affatto ai segni discreti, anzitutto non rinuncia aisegni del linguaggio orale e degli altri linguaggi quoti-diani (in particolare, a quelli che esso assume come ma-teriale grezzo o “precinematografico” dagli altri sistemiche tipologicamente lo precedono), ma li include in testiglobali (il crocifisso nella scena della chiesa di Cenere ediamanti di Andrzej Wajda figura di per sé da simbolodiscreto, ma viene reinterpretato nel contesto di tuttal’inquadratura dove è rapportato all’eroe del film).

Si può riscontrare un’analoga inclusione in un testocontinuo di segni discreti, ripresi per lo più da altri si-stemi (arcaici), in sistemi visivi storicamente antecedenti– in particolare nella pittura – dove la figura umana del-l’albero del mondo, che è di importanza centrale per nu-merose tradizioni mitologiche e rituali (tra queste le piùantiche tradizioni slave), o altre immagini equivalentipossono essere mantenute come centro della composi-zione. In tutti i casi simili si può vedere la manifestazio-ne di una costante universale dell’evoluzione dei sistemisemiotici, per la quale qualche segno o tutto un messag-gio (o un frammento di un messaggio) può essere inclu-so nel testo di un altro sistema segnico come sua partecostitutiva, ed essere conservato anche in seguito cometale (subendo con questo uno spostamento di funzione:

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la sua funzione diventa estetica e non mitologica o ritua-le, come appunto negli esempi riportati). Quest’ultimageneralizzazione può presentare interesse anche per lagiustificazione di certi metodi di ricostruzione dei siste-mi semiotici più antichi, fondati sul recupero di segni (etalvolta anche di testi) di un sistema arcaico (ad esem-pio, dell’antica mitologia slava), a partire dai loro riflessipiù tardi, contenuti nei testi folclorici e di altro tipo con-servati nella tradizione storica. Al tempo stesso, dal sud-detto punto di vista, l’analisi dei mass media contempo-ranei in rapporto ai sistemi che storicamente li precedo-no viene inclusa in modo organico nello studio compa-rativo dei linguaggi della cultura (ad esempio, al riguar-do appaiono classici come argomenti di studio certi te-mi, quali il collegamento dei film di Wajda con la tradi-zione del barocco polacco, e questo non solo sul pianodell’atmosfera emotiva dell’opera, ma pure in relazioneal carattere del materiale “precinematografico” scelto).

La scelta di una metalingua discreta di tratti distinti-vi del tipo: alto-basso, sinistra-destra, scuro-chiaro, ne-ro-bianco, per la descrizione di testi continui, comequelli pittorici e cinematografici, di per sé può essereconsiderata una manifestazione di tendenze arcaicizzan-ti, che sovrappongono al testo continuo della lingua-og-getto categorie metalinguistiche più tipiche dei sistemiarcaici a classificazione simbolica binaria (quali sono isistemi mitologici e rituali). Ma non si può escludereche, in qualità di archetipi, i tratti di questo tipo sianoconservati anche nella creazione e nella percezione ditesti continui.

Per questo, il predominio del tipo discreto o del tiponon discreto di testi può essere connesso con una deter-minata fase di sviluppo della cultura. Bisogna tuttaviasottolineare che ambedue queste tendenze possono an-che venire presentate come sincronicamente coesistenti.La tensione tra esse (ad esempio, il conflitto tra parola e

TESI PER UN’ANALISI SEMIOTICA DELLE CULTURE

disegno)8 costituisce uno dei meccanismi più stabili del-la cultura globalmente intesa. La dominanza di uno diquesti meccanismi è possibile non come soppressionetotale del tipo contrario, bensì soltanto sotto forma diorientamento della cultura verso determinate strutturetestuali in quanto dominanti.

3.2.2. Il testo e il problema “mittente-destinatario”.Nel processo della comunicazione culturale assume unsignificato particolare il problema della “grammaticadel parlante” e della “grammatica dell’ascoltatore”9.Così come i singoli testi possono essere costruiti secon-do un orientamento alla “posizione del parlante” o alla“posizione dell’ascoltatore”, un’analoga tendenza puòanche essere propria di determinate culture nel lorocomplesso. Un esempio di cultura orientata all’ascolta-tore sarà quella in cui la gerarchia assiologica dei testi èdisposta in modo che i concetti di massima chiarezza edi massima validità coincidano. In questo caso il carat-tere specifico dei sistemi sovralinguistici secondari [vto-ricnye nad”jazykovye sistemy / secondary superlinguisticsystems] sarà espresso in misura minima: i testi tende-ranno al grado minimo di convenzionalità,, imiterannoquel certo carattere “non costruito” [nepostroennost’],orientandosi consapevolmente al tipo del messaggio“nudo” in lingua naturale. L’annalistica, la prosa (inparticolare il saggio), la cronaca giornalistica, il docu-mentario, la televisione occuperanno i più alti gradi del-la scala dei valori. Quelle di “attendibile”, “vero” e“semplice” saranno considerate caratterizzazioni assio-logiche supreme.

La cultura, quando è orientata al parlante, assume co-me valore supremo la sfera dei testi chiusi, poco accessi-bili e in genere incomprensibili. È la cultura di tipo eso-terico. I testi profetici e sacerdotali, le glossolalie e gliaspetti specifici della poesia occupano, in questa cultura,il posto più alto. L’orientamento della cultura al “parlan-

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te” o all’“ascoltatore”10 si evidenzierà dal fatto che, nelprimo caso, l’uditorio modellizza se stesso secondo l’im-magine del creatore di testi (il lettore cerca di accostarsiall’ideale del poeta), mentre nel secondo il mittente co-struisce se stesso a immagine dell’uditorio (il poeta cercadi accostarsi all’ideale del lettore). Anche lo sviluppo dia-cronico della cultura può essere considerato come unmovimento all’interno di uno stesso campo comunicati-vo. Un esempio di movimento dall’orientamento verso ilparlante all’orientamento verso l’ascoltatore, nell’evolu-zione individuale dello scrittore, può esserci dato dallacreazione di un poeta come Pasternak. Nel periodo crea-tivo della prima redazione di Poverch bar’erov [Al di so-pra delle barriere], Sestra moja zizn’ [Mia sorella la vita],Temy i variacii [Temi e variazioni], per il poeta era fonda-mentale un’enunciazione per monologhi, tendente aesprimere con precisione la propria visione del mondocon tutte le peculiarità, da questa determinate, dellastruttura semantica (e talvolta anche sintattica) del lin-guaggio poetico. Nelle opere successive domina una di-sposizione dialogica orientata all’interlocutore-ascoltato-re (al potenziale lettore che deve capire tutto quanto gliviene comunicato). Il contrasto tra queste due maniere èpiù evidente quando lo scrittore prova a trasmettere indue modi la stessa impressione (le due varianti della poe-sia Venecija [Venezia] e le due descrizioni in prosa diquella stessa prima impressione di Venezia in Ochrannajagramota [Salvacondotto] e nell’autobiografia Ljudi i po-lozenija [Uomini e posizioni]; le due varianti poetiche Im-provizacija [Improvvisazione] del 1915 e Improvizacija narojale [Improvvisazione al pianoforte] del 1946). La possi-bilità di interpretare tale movimento non soltanto alla lu-ce di ragioni di ordine individuale, ma anche come un ti-po di regolarità nello sviluppo dell’avanguardia europeaè testimoniata dal movimento creativo di Majakovskij,Zabolockij e dei poeti dell’avanguardia boema.

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In termini generali il cammino dall’orientamento ver-so il parlante all’orientamento verso l’ascoltatore non èl’unico possibile; tra i contemporanei di Pasternak unosviluppo inverso è tipico in particolare della Achmatova(Poema bez geroja [Poema senza eroe] confrontato con leopere più recenti).

3.2.3. Si deve chiarire in che misura la distinzione didue tipi polari di stili letterari e artistici, quale ci è datadalle opposizioni rinascimento-barocco, classicismo-ba-rocco, classicismo-romanticismo – distinzione che, in rap-porto alle letterature slave dei vari periodi, è stata rilevatacon la massima evidenza da Julian Krzyzanowski –, puòessere connessa con i due diversi tipi di cultura collegaticon l’orientamento verso il parlante o verso l’ascoltatore(al primo tipo potrebbero appartenere, ad esempio, l’altoMedioevo, il Barocco, il Romanticismo, la letteratura del-l’avanguardia – M oda Polska [Giovane Polonia] – ecc.).Entro ciascuna di queste opposizioni sono ancora possi-bili altre differenziazioni fatte in base a un tratto analogo(con questo si può collegare l’esistenza di tipi intermedicome il manierismo). In parecchi casi il ritardo con il qua-le le culture slave hanno fatto propri gli stili orientati all’a-scoltatore può essere messo in rapporto con la presenza,entro questi stili, di tratti più vicini agli stili con l’orienta-mento al parlante (il barocco nel tardo rinascimento sla-vo). I tratti generali, comuni agli stili orientati verso il par-lante, permettono di porre il problema di certe somiglian-ze stilistiche, assai estese (ad esempio, in talune poesie delNorwid del Vademecum e della Cvetaeva), indipendente-mente dalla cronologia in termini assoluti.

3.2.4. Nella misura in cui, nel canale della comunica-zione, tra il mittente e il destinatario, nelle culture dotatedi strumenti per il fissaggio esterno del messaggio, è inse-rita la memoria, vi si distingue un destinatario potenziale(“il mio lontano pronipote” di Baratynskij) e un destina-tario attuale. L’insieme dei destinatari immediati ha con

l

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il mittente un collegamento reversibile. In particolare, ta-le insieme consente la realizzazione di una selezione col-lettiva, entro tutto l’insieme dei testi, di alcuni di essi checorrispondono alle norme estetiche dell’epoca, della ge-nerazione, del gruppo sociale. Il meccanismo di questaselezione può essere modellizzato mediante un apparatoche ci accosta a quello elaborato nel modello ciberneticodell’evoluzione. Poiché, dal punto di vista della teoriadell’informazione, la quantità di informazione propria diun certo testo è definita in rapporto a tutto l’insieme deitesti, si può attualmente descrivere in modo più netto ilruolo effettivo degli “scrittori minori” nella selezione col-lettiva che prepara la nascita di un testo portatore delmassimo di informazione. La selezione individuale, ope-rata dallo scrittore (e rispecchiata, ad esempio, nelle mi-nute), può essere considerata una continuazione della se-lezione collettiva, che talvolta è diretta dalla selezionecollettiva stessa, ma che spesso se ne allontana. Da que-sto punto di vista, può però risultare utile anche uno stu-dio dei fattori che impediscono la selezione.

Alla presenza della memoria nel canale della comuni-cazione può essere collegato anche il riflettersi, nellastruttura dei generi, di particolarità della comunicazionerisalenti talvolta ad un periodo precedente (la “memoriadel genere”, nella terminologia di Bachtin).

4.0.0. Definendo la cultura come una lingua seconda-ria, introduciamo il concetto di “testo della cultura”, iltesto in tale lingua secondaria. Dato che qualsiasi linguanaturale rientra nella lingua della cultura, sorge il pro-blema della correlazione del testo in lingua naturale conil testo verbale della cultura. Sono qui possibili le se-guenti correlazioni:

a) Il testo in lingua naturale non è un testo della cul-tura considerata. Tali sono, ad esempio, per le cultureorientate alla scrittura, tutti i testi il cui funzionamento

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sociale sottintende una forma orale. Tutte le espressionialle quali la cultura considerata non attribuisce valore esignificato (ad esempio non le conserva), dal suo puntodi vista, non sono testi11.

b) Un testo in una certa lingua secondaria è contempo-raneamente un testo in una lingua naturale. Così una poe-sia di Puskin è al tempo stesso un testo in lingua russa.

c) Il testo verbale della cultura non è un testo in quel-la data lingua naturale. Esso può essere in tal caso un te-sto in un’altra lingua naturale (la preghiera in latino peruno slavo) o, ancora, il risultato di un processo di tra-sformazione anomala di qualche livello della lingua na-turale (si veda, ad esempio, il funzionamento dei testi diquesto tipo nella creazione infantile)12.

Nei testi poetici di Chlebnikov ci sono dei frammentiche per la loro struttura fonologica (“bobeobi”), per laloro costituzione morfologica o lessicale (“lukaetlukom”, “smejantsvuet smechami” e altri neologismi fon-dati sulla ripresa dell’artificio arcaico detto figura etymo-logica, tipico della poesia slava fin dal periodo più anti-co) e per i loro costrutti sintattici (“ty stois’ cto delaja”)non appartengono ai testi ben costruiti dal punto di vi-sta della lingua corrente.

Ma ognuno di questi frammenti, per il fatto di rientrarein un testo riconosciuto come notato [otmecennyj/gram-matical] dal punto di vista della poesia, diventa con ciòstesso un fatto della storia della lingua della poesia russa.Si possono osservare fenomeni analoghi ai primi stadi del-l’evoluzione in rapporto a quelle forme del folclore, peresempio in rapporto alle nebyval’sciny e alle nelepicy13, nel-le quali l’infrazione alle norme semantiche, valide per lalingua comune, diventa il principio fondamentale dellacomposizione.

4.1.0. Diventa un problema fondamentale la costru-zione di una tipologia delle culture basata sulla correla-zione di testo e funzione. Per testo si intende soltanto

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un messaggio che, entro una data cultura sia costituitosecondo determinate regole di generazione14. Nel suoaspetto più generale questa concezione è applicabile aqualsiasi sistema semiotico. Entro un’altra lingua o unaltro sistema di lingue lo stesso messaggio può non esse-re un testo. Qui si può vedere un analogo a livello se-miotico generale del concetto di grammaticalità, che haun’importanza fondamentale per la teoria contempora-nea delle grammatiche formali. Non ogni messaggio lin-guistico è un testo dal punto di vista della cultura e, vi-ceversa, non ogni testo dal punto di vista della cultura èun messaggio corretto nella lingua naturale.

4.1.1. La storia tradizionale della cultura tiene conto,in rapporto a ogni sezione cronologica, soltanto dei testi“nuovi”, testi creati da una certa epoca. Ma nell’esisten-za reale della cultura, accanto a testi nuovi, funzionanosempre testi trasmessi dalla tradizione culturale o appor-tati da fuori. Ciò conferisce a ciascuno stato sincronicodella cultura i tratti del poliglottismo culturale. Dato cheai diversi livelli sociali la velocità dello sviluppo cultura-le può essere diversa, lo stato sincronico della culturapuò includere in sé la sua diacronia e la riproduzione at-tiva di “vecchi” testi. Si veda, ad esempio, la vitalità del-la cultura antepetrina presso gli staroobrjadcy [Credentidella vecchia fede ortodossa] dei secoli XVIII e XIX15.

5.0.0. Il posto del testo nello spazio testuale è defini-to come il rapporto di questo testo con l’insieme dei te-sti potenziali16.

5.0.1. Il legame del concetto semiotico di testo con iproblemi tradizionali della filologia è particolarmenteevidente nel caso della slavistica intesa come scienza.L’oggetto degli studi slavistici è sempre stato costituitoda una certa somma di testi. Solo che, man mano che ilpensiero scientifico si muove in concomitanza con il mo-vimento generale della cultura, il quale è la base del pen-

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siero scientifico stesso, le medesime opere possono ac-quisire e perdere l’attitudine a figurare come testi. Unesempio significativo a questo riguardo è dato dalla lette-ratura dell’antica Rus’. Se in essa il volume delle fonti èrelativamente stabile, la lista dei testi varia in modo es-senziale da una scuola scientifica all’altra e da un ricerca-tore all’altro, in quanto essa rispecchia il concetto esplici-to o implicito di testo che sempre è connesso con la con-cezione che si ha della cultura russa antica. Le fonti chenon soddisfano questo concetto passano nella categoriadei “non testi”. Un esempio chiaro ci è dato dalle oscilla-zioni nell’attribuzione di queste o quelle opere al noverodei testi artistici, a seconda del diverso contenuto delconcetto di “cultura artistica del Medioevo”.

5.1.0. Una interpretazione non ristretta della scienzadei testi si concilia con i metodi tradizionali della slavi-stica che, anche in precedenza, abbracciava tanto i testislavi (ad esempio, i testi slavo-ecclesiastici) interpretatisincronicamente, quanto i testi dei diversi periodi con-frontati sul piano diacronico. È importante sottolineareal riguardo che un accostamento tipologico a largo rag-gio toglie l’assolutezza alla contrapposizione di sincroniae diacronia. A questo proposito è utile rilevare la funzio-ne particolare svolta dalle lingue che aspirano al ruolo distrumento fondamentale di comunicazione interlingui-stica e di anello di congiunzione tra epoche diverse, al-meno in certi settori dell’area slava, e anzitutto il ruolosvolto dallo slavo ecclesiastico e dai testi scritti nelle di-verse varianti nazionali. Perciò, nel momento in cui sicollegano sincronia e diacronia, si può porre anche ilproblema del funzionamento pancronico della lingua(nel nostro caso concreto, lo slavo ecclesiastico svolgevaanzitutto il ruolo di lingua della comunicazione tra orto-dossi). Questo fatto è tanto più importante in quanto, inrapporto alla scala assoluta del tempo, le diverse tradi-zioni culturali slave sono diversamente organizzate (cfr.,

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da una parte, la sovrabbondanza di resti dell’antichitàprotoslava nell’area slava orientale, per quanto riguardala sfera che possiamo denominare della “bassa cultura”;dall’altra, l’appartenenza di certe aree, in particolare sla-ve occidentali, e di parte di quelle slave meridionali, adaltre zone culturali), il che determina il carattere discre-to nella struttura della diacronia di queste culture slave,a differenza del carattere non discreto di altre tradizioni.

5.2.0. La ricostruzione storica, relativa ai testi slavi,può spesso trarre maggior beneficio dal confronto sin-cronico di testi appartenenti alle diverse tradizioni slave,che dal confronto entro una stessa serie evolutiva; perquesta via è possibile ottenere utili risultati nella soluzio-ne di un problema tradizionale della filologia: la rico-struzione di testi che non sono giunti al ricercatore. Peri testi di estensione minima – una combinazione di mor-femi in parole o singoli morfemi – questa impostazionetrova realizzazione pratica nella linguistica storico-com-parativa delle lingue slave. Attualmente essa può essereallargata a tutto l’ambito della ricostruzione delle anti-chità slave: dalla metrica alle caratterizzazioni dei generidei testi folclorici, alla mitologia, al rituale – inteso cometesto –, alla musica, all’abbigliamento, all’ornamento,agli usi della vita quotidiana ecc. La sovrabbondanza diinfluenze multiformi provenienti da altre tradizioni neiperiodi più recenti (ad esempio, l’influsso delle formeorientali di abbigliamento e, più tardi, europeo-occiden-tali sulla storia dei costumi dei popoli slavi orientali)rende lo sviluppo diacronico eminentemente disconti-nuo (connesso con larghe infrazioni delle tradizioni). Aifini della ricostruzione delle primitive forme slave comu-ni, l’analisi di questo sviluppo può essere importante so-prattutto per la rimozione degli strati posteriori. Un mo-do più efficace per risolvere questo stesso problema del-la stratificazione diacronica e della proiezione dello stra-to più antico nel periodo slavo comune, può risultare il

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confronto di sezioni sincroniche di ciascuna delle tradi-zioni slave.

5.2.1. Di ricostruzione di testi si occupano pratica-mente tutti i filologi: dagli specialisti delle antichità edel folclore slavi agli studiosi di letteratura moderna (laricostruzione dell’intenzione [zamysel/intention] del-l’autore o dell’opera artistica, la ricostruzione dei testiperduti e delle loro parti, la ricostruzione della perce-zione del lettore sulla base degli echi nei contempora-nei, la ricostruzione delle fonti orali e del loro postonel sistema della cultura scritta; nello studio della sto-ria del teatro e dell’arte drammatica oggetto di indagi-ne sono anzitutto le ricostruzioni ecc.). In certa misura,ogni lettura di un manoscritto poetico consiste nella ri-costruzione di un processo creativo e nella rimozionesuccessiva di strati sovrapposti; cfr. l’accostamento allalettura del manoscritto come ricostruzione, nella testo-logia puskiniana tra il 1920 e il 1940. Il materiale empi-rico accumulato nei diversi settori della filologia slavapermette di porre il problema della creazione di unateoria generale della ricostruzione, basata su un unicosistema di postulati e di procedimenti formali. È essen-ziale, a questo riguardo, un accostamento critico alproblema dei livelli della ricostruzione, insieme con laconsapevolezza che i diversi livelli di ricostruzione ri-chiedono procedimenti diversi e portano in ciascun ca-so a risultati specifici. La ricostruzione può essere con-dotta al livello più alto – quello puramente semantico –che, in ultima analisi, è traducibile in un linguaggio co-stituito da alcuni universali. Nel fissare certi compitipuò aver luogo una estensione di risultati dello stessogenere al di là del materiale ricostruito, ad altre strut-ture della stessa cultura nazionale. Nella misura in cui imessaggi semantici sono ricodificati a livelli più bassi, iproblemi risolti diventano sempre più specifici, fino aconnettere direttamente la ricostruzione del testo con

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ricerche linguistiche. I risultati più considerevoli dellaricostruzione si sono ottenuti ai livelli estremi, corri-spondenti alle categorie semiotiche del significato e delsignificante; non è escluso che ciò sia connesso con ilfatto che sono proprio questi i livelli che corrispondo-no in misura maggiore alla realtà testuale, mentre i li-velli intermedi sono connessi per lo più con il sistemametalinguistico della descrizione.

5.2.2. La rappresentazione di un testo in una linguanaturale potrebbe essere fatta partendo dallo schemaidealizzato del funzionamento di un automa che trasfor-ma il testo, sviluppandolo via via dall’intenzione genera-le [obscij zamysel/general intention] ai livelli più bassi, equesto in modo che a ciascun livello o a una certa com-binazione di livelli diversi possa corrispondere, in lineadi principio, una trascrizione [zapis’/recording] del testobasata su meccanismo di derivazione [vyvodjascee ustroj-stvo/output mechanism]. Se il meccanismo di derivazio-ne, rappresentato nella figura seguente17, viene a trovarsiin corrispondenza del livello dei fonemi, il messaggiotrasmesso con l’aiuto di questo congegno è costituito dauna sequenza di fonemi, cioè nel trasmettitore (intesosecondo il modello di trasmissione del messaggio dellateoria dell’informazione) viene fatto corrispondere a cia-scuno dei fonemi, sulla base di una tabella di codifica-zione, un certo segnale, in concreto una lettera; un pos-sibile esempio ci è dato da una scrittura alfabetica comequella serba18. Se invece il congegno di derivazione sitrova in corrispondenza del livello dell’intenzione gene-rale del testo, vuol dire che il messaggio trasmesso me-diante questo congegno rappresenta l’idea generale deltesto ancora in forma non articolata: detto altrimenti,nel trasmettitore a questa idea generale corrisponde unsimbolo che la codifica (senza escludere che questo sim-bolo sia l’unico di tutto il codice o, il che è lo stesso, siaun segno extrasistemico).

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Si possono portare come esempi certi simboli generali,quali le raffigurazioni del sole, di uccelli e cavalli, o lecombinazioni di tutti e tre questi simboli in forma distrutture vegetali, costituenti un unico testo; per altro, inrapporto al periodo più antico, che coincide con quelloprotoslavo, essi rappresentavano un unico testo con unarigida correlazione interna di simboli-elementi, sia conuna semantica comune a tutto il testo, sia con una seman-tica del tutto determinata propria di ogni elemento. Neiriflessi successivi entro le singole tradizioni slave (nell’or-namento ad esempio, sulle conocchie, sulle slitte, sui car-reggi, sulle varie masserizie – su scrigni, bauli –, nei rica-mi sui vestiti, negli ornamenti a intaglio su legno, in parti-colare sui tetti delle abitazioni, sulla pasticceria rituale –torte, focacce –, sui giocattoli dei bambini ecc.), essi rap-presentano parti di un testo secondario, costruito me-diante un “rimescolamento” dei costituenti originari chehanno perduto la loro funzione sintattica, nella misura incui si è dimenticata la semantica fondamentale del testo.In rapporto al periodo precedente, la ricostruzione del te-sto che descrive l’albero del mondo, gli astri al di sopra di

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Intenzione generale del testo

Livello dei blocchi semantici maggiori

Struttura semantico-sintattica della frase

→Livello delle parole

Livello dei gruppi fonemici (sillabe)

Livello dei fonemi

esso, gli uccelli e gli animali disposti sopra e accanto a es-so, è confermata dalla presenza, in tutte le maggiori tradi-zioni slave, di testi verbali che coincidono perfettamentel’uno con l’altro, pur appartenendo a generi diversi (scon-giuri, indovinelli, canzoni, fiabe). Da ciò stesso risulta chetale ricostruzione del testo corrisponde, da una parte, allaricostruzione dell’indoeuropeo comune, condotta senzatener conto del materiale slavo sulla base della coinciden-za di testi indo-iranici con quelli islandesi antichi; dall’al-tra, corrisponde ai testi tipologicamente simili delle varietradizioni sciamaniche eurasiatiche.

5.2.3. Per tali ricostruzioni, anche là dove è impossi-bile trovare elementi linguistici che concretino il testo allivello più basso, la ricostruzione semantica di esso vienefacilitata dalla somiglianza tipologica dei complessi cul-turali che si valgono praticamente di uno stesso reperto-rio di opposizioni semantiche fondamentali (del tipo diquelle ricostruite per il protoslavo: fortuna-sfortuna, vi-ta-morte, sole-luna, terra-mare ecc.). Nei casi indicati sipuò formulare anche l’ipotesi che sia analogamente pos-sibile una interpretazione sociale di simili sistemi; a que-sto riguardo, va osservata la possibilità di includere, neicomplessi culturali corrispondenti (intesi in senso latoper i periodi più antichi, in presenza di un tipo determi-nato di organizzazione sociale), anche manifestazionidelle strutture sociali quali possono essere una certa for-ma di insediamenti e abitazioni, regole, prescrizioni e di-vieti riguardanti i tipi di matrimoni ammissibili e soprat-tutto obbligatori, e i tratti a essi legati del funzionamen-to dei termini di parentela. Per questo, i dati ottenutiapplicando i metodi strutturali alla ricostruzione delleantichità slave non sono essenziali soltanto per la storiadella cultura in senso stretto, ma anche per lo studio deiprimi stadi dell’organizzazione sociale degli slavi (comepure per l’interpretazione dei dati archeologici). Si con-ferma così ancora una volta l’unità reale della slavistica

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come scienza delle antichità slave intese come un unicocomplesso semiotico, e della trasformazione e differen-ziazione più recenti delle corrispondenti tradizioni.

6.0.0. Da un punto di vista semiotico, la cultura puòessere considerata come una gerarchia di sistemi semio-tici particolari, come una somma di testi cui è collegatoun insieme di funzioni, ovvero come un congegno chegenera questi testi. Considerando una collettività comeun individuo costruito in modo più complesso, la cultu-ra può essere interpretata, in analogia con il meccani-smo individuale della memoria, come un congegno col-lettivo per conservare ed elaborare informazione. Lastruttura semiotica della cultura e la struttura semioticadella memoria rappresentano fenomeni funzionalmenteomogenei, situati a livelli diversi. Questa tesi non è incontraddizione con il dinamismo della cultura: dato cheessa rappresenta in linea di principio una fissazione[fiksacija/fiixation] di esperienza passata, essa può svol-gere anche la funzione di programma e di istruzioneper costruire nuovi testi. È inoltre possibile, dato l’o-rientamento fondamentale della cultura all’esperienzafutura, la costruzione di un certo punto di vista conven-zionale dal quale il futuro compare come passato. Adesempio, si costruiscono dei testi che saranno conserva-ti dai posteri; gli uomini che ritengono se stessi degli“esponenti dell’epoca” aspirano a compiere impresestoriche (azioni che nel futuro diventeranno memoria).Si veda la tendenza degli uomini del secolo XVIII a sce-gliere gli eroi dell’antichità come programmi per il pro-prio comportamento (la figura di Catone è un codicesui generis con cui decifrare il comportamento essenzia-le di Radiscev, incluso il suicidio). L’essenza della cultu-ra come memoria compare nel modo più perpiscuo nelcaso di testi arcaici, in particolare di quelli che appar-tengono al folclore.

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6.0.1. Non sono soltanto i partecipanti alla comuni-cazione a costruire testi, ma sono anche i testi a conser-vare in sé memoria dei partecipanti alla comunicazione.Perciò, l’acquisizione dei testi di un’altra cultura porta,attraverso i secoli, alla trasmissione di determinate strut-ture della personalità e di determinati tipi di comporta-mento. Il testo può essere inteso come un programmacondensato di tutta una cultura. L’acquisizione di testida un’altra cultura porta alla comparsa della policultura-lità, ovvero alla possibilità di scegliere un comportamen-to convenzionale, pur restando nell’ambito di una cultu-ra, secondo lo stile di un’altra cultura. Questo fenomenosorge soltanto in determinati stadi dello sviluppo socialee, in qualità di segno esterno, può determinare in parti-colare la scelta del tipo di vestito (si veda la scelta tra ilvestito “ungherese”, “polacco” o “russo” nella culturarussa tra il secolo XVII e l’inizio del XVIII).

6.0.2. Al periodo che comincia con il protoslavo egiunge, nelle singole tradizioni slave, fino ai tempi moder-ni, il meccanismo collettivo per conservare informazione(la “memoria”) assicura la trasmissione, di generazione ingenerazione, di rigidi schemi fissati di testi (metrici, tran-slinguistici ecc.) e di loro interi frammenti (i loci commu-nes in rapporto ai testi folclorici). I sistemi segnici più anti-chi di questo tipo, nei quali la letteratura si riduce a darcorpo a intrecci mitologici che si trasmettono per ereditàmediante formule rituali, possono essere sincronizzati, sulpiano di un’interpretazione sociale, con certi sistemi rigi-damente determinati di rapporti in cui tutte le possibilitàsono esaurite da regole connesse con il passato mitologicoe con il rituale ciclico. I sistemi più sviluppati, nelle collet-tività il cui comportamento è regolato dalla memoria dellaloro storia reale, sono invece direttamente connessi con untipo di letteratura in cui il principio fondamentale viene aessere costituito dalla ricerca dei procedimenti [priëmy]statisticamente meno frequenti (che perciò portano una

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maggiore quantità di informazione). Considerazioni similipotrebbero essere fatte anche in rapporto ad altri settoridella cultura, e qui il concetto stesso di sviluppo (cioè diorientamento nel tempo) è inseparabile dall’accumulo edall’elaborazione dell’informazione che viene gradualmen-te usata per apportare le dovute correzioni nei programmidi comportamento. Questo spiega il ruolo regressivo dellamitologizzazione ad arte del passato, che costruisce un mi-to in luogo della realtà storica. In questo senso la tipologiadegli atteggiamenti verso il passato slavo comune può rive-larsi utile per lo studio dell’eredità degli slavofili e del suoruolo. Si possono tenere presenti le possibilità di una tra-sformazione diacronica della cultura indoeuropea che nonsempre presupponga uno sviluppo nel senso di una orga-nizzazione più complessa (dove la complessità è intesa suun piano puramente formale come funzione della misuradel numero degli elementi, delle caratteristiche del loro or-dine e dei legami tra essi, e come funzione del carattere re-golato di tutta la cultura). Le ricerche contemporanee sul-le istituzioni indoeuropee in rapporto a quelle protoslaveconsentono in certi casi di porre il problema della possibi-lità di un movimento non verso un aumento della quantitàdi informazione, bensì verso un aumento della quantità dientropia nei testi slavi comuni in confronto con testi del-l’indoeuropeo comune (e talvolta anche in certi particolaritesti slavi in confronto con testi slavi comuni). In partico-lare, le strutture esogamiche binarie che, a quanto sembra,sono correlate con la classificazione simbolica binaria rico-struita per il protoslavo, rappresentano uno strato più ar-caico delle strutture ricostruite per l’indoeuropeo comune;questo può tuttavia essere spiegato non postulando unamaggiore arcaicità del mondo slavo, bensì alcuni processisecondari che hanno condotto alla semplificazione dellestrutture. In tutti questi casi sorge, nella ricostruzione, ilproblema di eliminare il rumore sovrapposto al testo du-rante la trasmissione attraverso il canale diacronico della

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comunicazione tra generazioni. A questo riguardo, i feno-meni rilevati nei sistemi modellizzanti secondari [vtoricnyemodelirujuscie sistemy/secondary modelling systems] posso-no essere confrontati con una netta diminuzione di com-plessità (e con un aumento di semplicità) dell’organizza-zione del testo a livello morfologico, nel passaggio dal pe-riodo indoeuropeo a quello protoslavo (seriore), in cuiopera la legge delle sillabe aperte (per semplicità qui si in-tende la riduzione del numero degli elementi e delle regoledella loro distribuzione).

6.1.0. Per il funzionamento della cultura e, corri-spondentemente, per giustificare la necessità di una ap-plicazione nello studio della cultura di metodi comples-si, ha importanza fondamentale il fatto che un singolosistema semiotico isolato, per quanto perfettamente or-ganizzato, non può costituire una cultura: a questo sco-po il meccanismo minimo richiesto è costituito da unacoppia di sistemi semiotici correlati. Un testo in linguanaturale e un disegno rappresentano il sistema più co-mune formato da due lingue, costituente il meccanismodella cultura. La tendenza alla eterogeneità delle lingueè un tratto tipico della cultura.

6.1.1. Un ruolo particolare è assunto, a questo riguar-do, dal fenomeno del bilinguismo. Questo fenomeno haun’importanza straordinaria per il mondo slavo e costi-tuisce, da più punti di vista, il tratto caratterizzante delleculture slave. Nonostante la multiformità delle condizio-ni concrete del bilinguismo, nelle diverse aree slave l’al-tra lingua è sempre stata considerata come gerarchica-mente superiore, fungendo da modello di riferimento[obrazec-etalon/standard model] nella formazione dei te-sti. L’orientamento alla lingua “estranea” si verifica an-che quando nella cultura ha luogo un movimento di de-mocratizzazione degli strumenti linguistici. Là dovePuskin sostiene, ad esempio, che la lingua va imparatadalle prosvirni19 di Mosca, egli allude a un accostamento

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alla lingua popolare intesa come lingua diversa. Questofenomeno si manifesta regolarmente là dove diventa su-periore, dal punto di vista assiologico, il sistema social-mente inferiore. Le funzioni specifiche della secondalingua slava (solitamente lo slavo ecclesiastico), in talecoppia di lingue strutturalmente equivalenti, rende ilmateriale delle culture e delle lingue slave particolar-mente prezioso non solo per lo studio dei problemi delbilinguismo, ma anche al fine di chiarire una serie diprocessi ipoteticamente associati al bilinguismo e al plu-rilinguismo (la nascita del romanzo e il ruolo del bilin-guismo e del plurilinguismo in questo genere, l’accosta-mento alla lingua parlata come una delle funzioni socialidella poesia; cfr. l’idea della “secolarizzazione” della lin-gua poetica russa negli articoli di Mandel’stam).

6.1.2. Sullo sfondo di legami indubitabili, stabiliti at-traverso i mezzi linguistici di realizzazione dei testi,l’ambito di quelli studiati dai settori della slavistica puòincludere testi scritti in lingue chiaramente non slave,che tuttavia sono funzionalmente significativi per il fat-to di venire contrapposti ai testi slavi corrispondenti (illatino delle opere scientifiche di Jan Hus, invece del ce-co antico, il francese degli articoli di Tjutcev). A questoriguardo possono presentare un interesse particolarel’analisi di testi latini e italiani confrontati con testi sla-vi, nel periodo del bilinguismo rinascimentale nel mon-do slavo (cfr. i caratteristici testi maccheronici latino-polacchi e italo-croati del periodo più tardo dell’epocabarocca), l’analisi di testi francesi confrontati con i loroequivalenti russi, nella letteratura russa della primametà del secolo XIX (la stessa poesia di Baratynskij infrancese e russo, le note in francese di Puskin confron-tate con le sue opere in russo, parzialmente parallelecon esse), il bilinguismo russo-francese rappresentato esfruttato come procedimento artistico nel romanzo rus-so dell’Ottocento20.

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6.1.3. La cultura, in quanto sistema di sistemi che sibasa in ultima analisi sulla lingua naturale (proprio que-sto fatto è tenuto presente con il termine “sistemi mo-dellizzanti secondari”, termine con il quale questi siste-mi sono contrapposti al “sistema” primario, ossia allalingua naturale), può essere considerata come una gerar-chia di sistemi semiotici collegati in coppie, la cui corre-lazione si realizza in grado considerevole mediante laconnessione con il sistema della lingua naturale. Questolegame si manifesta con particolare evidenza nella rico-struzione delle antichità protoslave a causa del maggiorsincretismo delle culture arcaiche (cfr. il legame di de-terminati tipi ritmici e melodici con i tipi metrici a lorovolta condizionati dalle regole dell’accentologia sintatti-ca; si veda ancora come le funzioni rituali si riflettanodirettamente nelle designazioni linguistiche di certi ele-menti rituali, quali le denominazioni dei cibi rituali).

6.1.4. L’affermazione dell’insufficienza della sola lin-gua naturale per la costruzione della cultura può essereconnessa con il fatto che la stessa lingua naturale noncostituisce una realizzazione rigorosamente logica di ununico principio strutturale.

6.1.5. Il grado di consapevolezza dell’unità di tutto ilsistema dei sistemi entro una certa cultura non è semprelo stesso, e questo fatto può già essere considerato comeuno dei criteri per la valutazione tipologica della data cul-tura. Questo grado è molto alto nelle costruzioni teologi-che del Medioevo e in quei movimenti religiosi successivinei quali, come negli hussiti, si può vedere un ritorno allamedesima concezione arcaica dell’unità della cultura, purriempita di un contenuto nuovo. Tuttavia, dal punto di vi-sta del ricercatore attuale, la cultura che è pensata daisuoi rappresentanti come unitaria, risulta organizzata inmodo più complesso: entro la cultura medievale viene inluce lo strato dei “fenomeni carnevaleschi non ufficiali”,scoperti da Bachtin (che si continuano in area slava con

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certi testi come il mistero antico ceco Unguentarius); nellaletteratura hussita si rileva una marcata contrapposizionetra testi scientifici latini e opere della letteratura pubblici-stica indirizzate a un diverso destinatario (la massa). Dialcuni periodi, che si caratterizzano per un orientamentoletterario al mittente del messaggio, è tipico al tempo stes-so un corredo estremamente ampio di denotati e concettientro i messaggi provenienti da un unico autore (Come-nio, Boskovic , Lomonosov), e ciò può offrire un ulterioresostegno a chi afferma l’unità della cultura (che compren-de in questi casi tanto le scienze naturali quanto la seriedelle scienze umane ecc.). L’unità della cultura ha un’im-portanza eccezionale per una fondazione rigorosa dellostesso concetto di slavistica come scienza relativa al fun-zionamento sincronico e diacronico di culture tra loro le-gate attraverso la loro connessione con la stessa lingua sla-va o anche con due lingue slave, una delle quali, per di-verse culture, era lo slavo ecclesiastico. La conoscenza delcarattere comune delle tradizioni linguistiche utilizzate inciascuna di queste culture, funge (non solo nella teoria,ma anche nel comportamento pratico dei portatori delletradizioni corrispondenti) da premessa per cogliere le lo-ro differenze. Queste ultime, nel mondo slavo, non sonotanto connesse con regole puramente linguistiche (morfo-nologiche) di ricodificazione, regole che data la loro rela-tiva semplicità potrebbero non rendere difficile la com-prensione reciproca, quanto con differenze storico-cultu-rali (che, per i primi periodi, sono soprattutto confessio-nali). Diventa con ciò stesso evidente la necessità di unostudio delle culture slave che, tenendo costantementepresente il ruolo unificante della comune base linguistica,esca dall’ambito puramente linguistico e tenga conto ditutti i fattori extralinguistici che, in particolare, hanno in-fluito anche sulla differenziazione linguistica. Per questol’analisi delle lingue e delle culture slave può risultare unmodello adeguato per lo studio dei rapporti reciproci tra

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lingue naturali e sistemi semiotici modellizzanti secondari(sovralinguistici)21.

Per “sistemi modellizzanti secondari” si intendonoquei sistemi semiotici con cui si costruiscono i modellidel mondo o di frammenti di esso. Questi sistemi sonosecondari in rapporto alla lingua naturale primaria, e so-no costruiti al di sopra di essa direttamente (come nelcaso del sistema sovralinguistico della letteratura artisti-ca), o come forme a essa parallele (musica e pittura).

6.2.0. Nel sistema delle opposizioni semiotiche costitu-tive della cultura, un ruolo particolare è svolto dalla con-trapposizione dei modelli semiotici discreti e non discreti(dei testi discreti e non discreti), una manifestazione parti-colare della quale può essere considerata l’antitesi di segniiconici e verbali. Acquista così un senso nuovo il problematradizionale del confronto delle arti figurative e delle artiverbali: si può dire che esse sono reciprocamente necessa-rie per la formazione del meccanismo della cultura, e che èper esse necessario essere diverse in base al principio dellasemiosi, ossia equivalenti per un verso e, per l’altro, noncompletamente traducibili le une nelle altre. Dato che lediverse tradizioni nazionali hanno una logica diversa, co-me diverse sono la loro velocità di evoluzione e la loro ca-pacità ricettiva in rapporto a influssi di altre nazioni, nel-l’ambito dei sistemi discreti e non discreti di costituzionedel testo, la tensione tra esse rende possibile una grandevarietà di combinazioni che è essenziale, ad esempio, perla costruzione di una tipologia storica delle culture slave.Un interesse particolare può avere l’identificazione dellestesse regolarità di costruzione di un testo (tipico, adesempio, del barocco) usando materiale di testi prevalen-temente continui (pittorici) e di testi prevalentemente di-screti (verbali). Su questo piano è importante il problemadella traduzione filmica come esperimento di traduzionedi un testo verbale discreto in un testo continuo, accom-pagnato soltanto da frammenti di testo discreto (ad esem-

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pio, Il bosco di betulle di Iwaszkiewicz e il telefilm corri-spondente di Wajda, dove il ruolo del testo verbale è ri-dotto al minimo in rapporto al rilievo assunto dalla musicanella colonna sonora del film).

7.0.0. Uno dei problemi fondamentali per lo studiodella semiotica e della tipologia delle culture sta nel mododi impostare la questione dell’equivalenza delle strutture,dei testi, delle funzioni. Entro una stessa cultura viene inprimo piano il problema dell’equivalenza dei testi. A par-tire da questo si costruisce la possibilità della traduzioneentro una stessa tradizione. Al tempo stesso, dato che l’e-quivalenza non è identità, la traduzione da un sistema te-stuale in un altro comporta sempre un certo elemento diintraducibilità. Entro un approccio semiotico si possonocorrelare e identificare, in base a principi di organizzazio-ne, testi concreti, ma non i sistemi, che conservano la loroautonomia, per quanto ampia sia l’identità dei testi da essigenerati. Perciò, il compito della ricostruzione dei testinelle varie sottolingue è talvolta più accessibile della rico-struzione di queste stesse sottolingue. Quest’ultimo pro-blema spesso dev’essere risolto sulla base di confronti ti-pologici con altre aree culturali. In rapporto ai compititradizionali della slavistica, i problemi comparatistici pos-sono essere interpretati come [problemi relativi a] unatrasmissione di testi attraverso canali diversi.

7.0.1. Si devono distinguere a questo riguardo tre casi:la trasmissione di un certo testo di una nazionalità slavaattraverso un canale la cui uscita è realizzata in un’altralingua slava (l’esempio più semplice è la traduzione dauna lingua slava in un’altra, le relazioni polacco-ucraino-russe del Cinquecento e del Seicento ); la trasmissione diun testo formato in un’altra tradizione attraverso due opiù canali di questo tipo (l’esempio più semplice ci è datodai diversi stili nazionali delle traduzioni slave ecclesiasti-che del Vangelo, traduzioni di uno stesso testo della lette-

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ratura occidentale in diverse lingue slave); infine, la tra-smissione di un testo attraverso canali di cui uno soltantoviene rappresentato in uscita dalla sua realizzazione inuna lingua slava (caso, questo, in cui i contatti letterari, oaltri contatti culturali, entro l’area slava sono limitati auna sola tradizione nazionale o linguistica), come, adesempio, la serie dei fenomeni connessi con il contattolessicale turco-bulgaro; tra i fenomeni dell’ultimo tipovanno annoverati, a quanto pare, i legami tra il Minne-sang e le forme delle liriche d’amore in ceco antico.

L’importanza relativamente minore del terzo caso ri-spetto ai primi due viene a sostenere l’opinione secondocui la storia delle letterature slave deve essere costruitaanzitutto come storia comparata. Prendendo a sfondo lapresenza di un fenomeno nelle altre tradizioni slave, lasua assenza o la lotta contro di esso (ad esempio, il byro-nismo nella letteratura slovacca) diventano particolar-mente significative. La trasmissione a livelli relativamentealti (in particolare, per quanto riguarda quelli dell’orga-nizzazione stilistica e figurativa del testo) è tipica dei mo-numenti slavi della letteratura del tardo Medioevo. Sispiega con questo, da una parte, la complessità della loroorganizzazione (determinata da una lunga evoluzione e dauna selezione collettiva dei testi avvenuta non nel mondoslavo, bensì nella tradizione bizantina) e, dall’altra, la loroimportanza relativamente ridotta (in rapporto ai livelli su-periori, e non a quello propriamente del lessico della lin-gua) per la ricostruzione della cultura protoslava. Il ri-specchiarsi nella trasmissione in area slava di una tradizio-ne, illustrata da una larga selezione precedente di testi,costituisce un fenomeno importante anche per la storiadella letteratura dalmata del secolo XVI, oltre che per unaserie di letterature slave in secoli recenti. Un caso partico-lare è rappresentato da un tipo di trasmissione in cui vie-ne mutato in modo sostanziale il carattere dei livelli supe-riori del testo, ma viene mantenuta una serie di tratti es-

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senziali dei livelli inferiori, in particolare di quelli iconici,come si è verificato nella identificazione (ai livelli inferio-ri, che per un determinato pubblico sono i più significati-vi) delle divinità pagane degli slavi orientali con santi or-todossi (si vedano certe coppie come Volos-Vlasij,Mokos’-Paraskeva Pjatnica; il riflesso dell’antico culto ge-mellare nei riti di Flor e di Lavr). Il problema dei contattidegli slavi con i non slavi, e delle trasmissioni a essi con-nesse, esige che tutta la cultura considerata sia intesa insenso molto lato fino a includere i “sistemi sublinguistici”delle usanze e dei modi di vita, della tecnologia (inclusi imestieri); si denominano sublinguistici quei sistemi se-miotici ciascun elemento dei quali costituisce il denotatodi una parola o di un sintagma della lingua naturale22. Gliinflussi non slavi, spesso più marcati in questi campi (enelle sfere, direttamente legate a questi, della terminolo-gia linguistica), soltanto nelle tappe successive possonoessere evidenziati nei sistemi sovralinguistici secondari, iquali qui manifestano nitidamente la loro differenza es-senziale dai “sistemi sublinguistici”, non costruiti sullabase di segni e testi della lingua naturale e non trasponibi-li in essi. Questa regolarità, tipica del contatto in periodirecenti con zone culturali occidentali, viene contraddettadai contatti più antichi con Bisanzio, che ebbero luogoanzitutto nella sfera dei sistemi modellizzanti secondari.

7.1.0. Dalla trasposizione dei testi entro una stessacultura va distinta l’operazione, a essa tipologicamenteaffine, della versione di testi appartenenti a tradizioni di-verse. Nel mondo culturale slavo, per ragioni puramentelinguistiche (ci stiamo riferendo alla somiglianza che si èconservata a vari livelli e al ruolo dell’elemento slavo-ec-clesiastico), spesso la traduzione coincide con una rico-struzione. Questo non riguarda soltanto le evidenti corri-spondenze lessicali e fonologiche, ma anche, tra l’altro,fenomeni come le ricostruzioni ante litteram degli schemimetrici protoslavi nel sistema ritmico dei Pesni zapadnych

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slavjan [Canti degli slavi d’Occidente] di Puskin che, gui-dato dall’intuito, aveva confrontato quelle stesse tradizio-ni – la slava orientale e la serbo-croata – sulle quali sonobasate anche le ricostruzioni attuali. Si vedano ancora gliesperimenti di Julian Tuwim sulla modellizzazione dellastruttura fonetica della lingua russa sul verso polacco,con la rinuncia consapevole a orientarsi a corrispondenzelessicali. Alla luce della concezione esposta, va segnalatoil merito storico di Krizanic e, in un tempo a noi più vici-no, l’impostazione analoga tipica di Baudouin de Courte-nay, secondo il quale le corrispondenze tra le lingue slavevengono di per sé a costituire una traduzione fonetica.

8.0.0. La concezione per cui il funzionamento dellacultura non si attua entro un unico sistema semiotico,qualunque esso sia (e, ancor meno, all’interno di un livel-lo di un sistema), comporta implicitamente che, per la de-scrizione della vita di un testo in un sistema di culture oper la descrizione del funzionamento interno delle strut-ture che lo costituiscono, non basti descrivere l’organizza-zione immanente dei singoli livelli. Sorge il compito distudiare i rapporti tra le strutture dei diversi livelli. Talirapporti reciproci possono manifestarsi tanto sotto formadi livelli intermedi, quanto come isomorfismo strutturale,osservabile talvolta a livelli diversi. È grazie alla comparsadi tale isomorfismo che possiamo passare da un livello al-l’altro. L’approccio sintetizzato nelle presenti tesi si carat-terizza per il prevalere in esso dell’attenzione alle ricodifi-cazioni connesse con il passaggio da un livello all’altro, inopposizione alle descrizioni immanenti dei livelli, svoltenegli stadi precedenti delle descrizioni formalizzate. Daquesto punto di vista, gli anagrammi di Ferdinand deSaussure risultano più attuali che i tentativi puramenteimmanenti della scienza formale della letteratura.

8.0.1. Il passaggio da un livello a un altro può averluogo mediante regole di sostituzione (rewriting rules) in

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base alle quali un elemento, rappresentato da un unicosimbolo al livello superiore, si sviluppa a livello inferiorein un intero testo (che, compiendo il passaggio a ritroso,può essere conseguentemente inteso come un segno sin-golo, incluso in un contesto più ampio). Qui, come in al-tri casi analoghi verificatisi nella linguistica moderna, l’or-dine delle regole che descrivono le operazioni della sintesisincronica del testo può coincidere con l’ordine dello svi-luppo diacronico (si veda il coincidere dell’ordine delleregole della sintesi sincronica della forma verbale [slo-voforma/word] a partire dai morfemi che la costituiscono,con il fenomeno diacronico della deetimologizzazioneesemplificato nella storia del sostantivo slavo). E qui, tan-to nella descrizione sincronica quanto in quella diacroni-ca, si dà la preferenza a regole contestualmente legate, do-ve per ciascun simbolo x viene indicato il contesto A —B, in cui avviene la sua sostituzione con il testo T:

x → T (A — B)

8.0.2. Negli ultimi anni l’interesse degli specialisti dipoetica strutturale si è concentrato sullo studio dei rap-porti tra livelli, perciò si fa, ad esempio, la trascrizione deisuoni non senza fare riferimento al senso, bensì in rappor-to al senso23. Nel processo di ricodificazione tra livelli di-versi si intrecciano i risultati dei vari stadi di sviluppo delleparti del testo che viene sintetizzato in un segno, concre-tizzato realmente in un segnale fonico o ottico. Resta pro-blematica la possibilità di una divisione sperimentale dellediverse fasi nel processo di sintesi di un testo artistico, poi-ché in esso la struttura superficiale, determinata da restri-zioni formali, può influire sulla struttura profonda a livellodi figure. Ciò dipende, in particolare, dalla correlazione,evidenziata sulla base della poetica, β ≤ γ, per la quale, au-mentando il coefficiente β, che sta a indicare la misura del-le restrizioni imposte alla forma poetica, è necessario ac-

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crescere il numero γ che definisce la flessibilità della linguapoetica ecc., cioè in particolare il numero delle perifrasi si-nonimiche che si possono ottenere grazie agli usi verbalitraslati e figurati, alle combinazioni insolite di parole ecc.Per questo, l’identificazione della misura delle restrizioniformali nei lavori di poetica slava comparata, la determina-zione di certi parametri informazionali delle singole lingueslave, quali la flessibilità (γ) e l’entropia (H), e la precisa-zione dei compiti e delle possibilità di traduzione da unalingua slava in un’altra vengono a essere aspetti diversi diun unico problema, che può essere studiato soltanto sullabase di indagini preliminari in ciascuno di questi campi.

9.0.0. Nella connessione di livelli e sottosistemi di-versi in quel tutt’uno semiotico che è la “cultura”, ope-rano due meccanismi tra loro contrari:

a) la tendenza alla varietà, ossia all’aumento dei lin-guaggi semiotici diversamente organizzati, il “poliglotti-smo” della cultura;

b) la tendenza all’uniformità, ossia la tendenza dellacultura a interpretare se stessa o le altre culture comelinguaggi unitari, rigorosamente organizzati.

La prima tendenza si manifesta nella creazione conti-nua di nuove lingue della cultura e nella irregolarità dellasua organizzazione interna. I diversi campi della culturahanno un diverso grado di organizzazione interna. Crean-do entro se stessa focolai di massima organizzazione, lacultura ha bisogno anche di formazioni relativamenteamorfe, solo apparentemente strutturate. È tipica a questoriguardo l’individuazione sistematica, entro strutture stori-camente date della cultura, di quei settori che devono, percosì dire, diventare un modello dell’organizzazione dellacultura come tale. È particolarmente interessante lo studiodei diversi sistemi segnici costruiti artificialmente che ten-dono alla massima regolarità (è di questo tipo, ad esempio,la funzione culturale dei ranghi, delle uniformi e delle

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onorificenze nello stato “regolare” di Pietro I e dei suoisuccessori: l’idea stessa di “regolarità”, inserendosi nel tut-to culturale unitario dell’epoca, costituisce un’entità com-plementare alla variopinta sregolatezza della vita reale diquegli anni). Un grande interesse presenta, da questo pun-to di vista, lo studio dei metatesti; disposizioni, “regola-menti” e istruzioni che rappresentano un mito sistematiz-zato, che la cultura crea su se stessa. A questo riguardo, èsignificativo il ruolo svolto nelle diverse tappe della cultu-ra dalle grammatiche delle lingue in quanto modelli di te-sti di vario tipo, destinati a riordinare e “regolare”.

9.0.1. Il ruolo delle lingue artificiali e della logica ma-tematica nello sviluppo di settori del sapere, quali la lin-guistica strutturale e matematica o la semiotica, può es-sere descritto come uno degli esempi di formazione di“focolai di regolamentazione”. Al tempo stesso, questescienze svolgono, nel contesto generale della cultura delsecolo XX, presa nel suo insieme, un ruolo analogo.

9.0.2. Il meccanismo fondamentale che conferisceunità ai diversi livelli e sottosistemi della cultura è rappre-sentato dal modello che la cultura ha di se stessa, dal mitoche in una determinata fase la cultura si forma di se stessa.Tale mito si manifesta nella creazione di autocaratterizza-zioni [avtocharakteristiki/autocharacteristics] (si vedano,ad esempio, i metatesti del tipo dell’Art poétique di Boi-leau, un fatto tipico dell’epoca del classicismo – cfr. anchei trattati normativi del classicismo russo), che regolano at-tivamente la costruzione delle culture nella loro globalità.

9.0.3. Un altro meccanismo di unificazione è rappre-sentato dall’orientamento della cultura. Un certo sistemasemiotico particolare assume il significato di sistema do-minante, e i suoi principi strutturali penetrano nelle altrestrutture e nella cultura nel suo insieme. Si può così parla-re di culture orientate alla scrittura (al testo) o alla linguaparlata, alla parola o al disegno. Ci può essere una culturaorientata alla cultura o alla sfera extraculturale. L’orienta-

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mento della cultura alla matematica nell’epoca del razio-nalismo o (in certa misura) all’inizio della seconda metàdel secolo XX, può essere confrontato con l’orientamentoalla poesia durante il Romanticismo o il Simbolismo24.

In particolare, l’orientamento al cinema è legato a unaserie di tratti della cultura del secolo XX. Tra questi è ildominio del principio del montaggio (già a cominciaredalle costruzioni cubiste nella pittura e nella poesia, lequali hanno preceduto cronologicamente la vittoria delprocedimento del montaggio nel cinema muto; si vedanoanche i tentativi più recenti del tipo del “cineocchio” inprosa, costruiti consapevolmente secondo il modello deifilm a montaggio, non a soggetto; è tipica anche l’applica-zione parallela del montaggio di sezioni temporali diversenel cinema, nel teatro contemporaneo e nella prosa, vediBulgakov). Un altro di questi tratti è la messa in opera e lacontrapposizione di punti di vista diversi; a questo è lega-to anche l’aumento del peso specifico dello skaz, del di-scorso impropriamente diretto e del monologo interioredella prosa; con questa prassi artistica viene a concordarel’introduzione audace, ma che ha assunto un senso criticoper una serie di ricercatori, di un parallelismo nell’inter-pretazione della funzione del punto di vista per la teoriadella prosa, per la teoria del linguaggio dell’opera pittori-ca e per la teoria del cinema. Ricordiamo, infine, l’atten-zione prevalente al dettaglio messo in primo piano (analo-ga è la tendenza metonimica nella prosa letteraria; e conquesta dominante stilistica è connessa anche l’importanzadel dettaglio come chiave per la costruzione della tramain certi generi della letteratura di massa, come il giallo).

9.1.0. L’indagine scientifica non è soltanto uno stru-mento per lo studio della cultura, ma fa parte essa stessadel suo oggetto. I testi scientifici, essendo metatesti dellacultura, possono essere considerati al tempo stesso cometesti di essa. Perciò, qualsiasi idea scientifica significativapuò essere considerata e come un tentativo di conoscerela cultura e come un fatto della vita della cultura, attra-

TESI PER UN’ANALISI SEMIOTICA DELLE CULTURE

verso il quale operano i suoi meccanismi generativi. Daquesto punto di vista, sarebbe possibile porre la questio-ne delle attuali analisi semiotico-strutturali come feno-meni della cultura slava (il ruolo della tradizione ceca,slovacca, polacca, russa e delle altre).

1 Ed. or.: 1973, “Tezisy k semioticeskomu izuceniju kul’tur (v primenenii kslavjanskim tektstam)”, in Semiotyka i struktura tekstu. Studia swiecone VII

miedz. kongresowi slawistów, a cura di M. R. Mayenowa, Warszawa, pp. 9-3;trad. it. 1979, “Tesi per un’analisi semiotica delle culture (in applicazione ai testislavi)”, in La semiotica nei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, a cura di C.Previgano, trad. di E. Rigotti, Milano, Feltrinelli, pp. 194-220. [Per questa tra-duzione, effettuata sulla redazione russa delle tesi, si è tenuto conto anche dellaloro redazione inglese, comparsa nel 1973 col titolo di “Theses on the SemioticStudy of Culture (As Applied to Slavic Texts)”, in Structure of Texts and Semioticsof Culture, a cura di J. van der Heng, M. Grygar, The Hague-Paris, pp. 1-28, efirmata, nell’ordine, da B. A. Uspenskij, V. V. Ivanov, V. N. Toporov, A. M. Pja-tigorskij, Ju. M. Lotman. Della collazione delle due redazioni, cui ha collabora-to Carlo Prevignano, sono dati i risultati nelle note, mentre nel testo, accanto aitermini russi che è parso necessario indicare, si sono riportati quelli inglesi cor-rispondenti nell’edizione inglese, per consentirne un immediato riscontro].

2 [Nella red. inglese è aggiunto: “artificiale – non artificiale”].3 [Nella red. inglese è aggiunto: “artificialità”].4 [L’antica denominazione della Russia].5 [Nella red. inglese è aggiunto: “del meccanismo della cultura”].6 [Nella red. inglese è aggiunto: “Andrebbe sottolineato che dal punto di

vista ‘interno’ la cultura appare come il membro positivo dell’opposizionesuddetta, mentre dal punto di vista ‘esterno’ l’intera opposizione appare co-me un fenomeno culturale”.]

7 [Nella red. inglese è aggiunto: “e un segno appare come una nozione se-condaria, definibile a partire dal testo”].

8 [La red. inglese ha: “il conflitto tra testo verbale e visivo”].9 [La red. inglese ha: “il problema della ‘grammatica del parlante’ (mittente

[addressor]) e della ‘grammatica dell’ascoltatore’ (destinatario [addressee])”].10 [La red. inglese ha di nuovo: “L’orientamento della cultura al ‘parlante’

(mittente) e all’ascoltatore (destinatario)”].11 Bisogna distinguere un non testo dall’“anti-testo” di una data cultura:

l’espressione che non viene conservata dall’espressione che viene distrutta.12 Sono rari, ma non sono impossibili, i casi in cui l’individuazione di

qualche messaggio come testo di una data lingua è determinata dalla sua ap-partenenza a un testo della cultura.

13 [Nella red. inglese si legge: “testi fantastici e assurdi del folclore russo”].14 [La red. inglese ha invece: “Per testo si intende soltanto un messaggio

che svolge entro la cultura data una funzione testuale”].

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15 [Nella red. inglese è aggiunto: “e in parte anche oggi”].16 [Nella red. inglese è aggiunto: “Il posto del testo nello spazio testuale è

definito come la somma totale dei testi potenziali”. Evidentemente è cadutaqualche parola].

17 [Nella sola red. inglese la fig. porta la dicitura: “Diagramma generaledella ricodificazione di un testo linguistico per livelli”].

18 [La red. inglese ha: “del tipo serbo e croato”].19 [Donne addette alla cottura della prosvira, il pane del rito ortodosso].20 [Nella red. inglese è aggiunto: “o nel verso comico, ad esempio di

Mjatlev”].21 [La parte restante del § 6.1.5. è omessa nella red. inglese].22 [Spiegazione omessa nella red. inglese].23 [Diversamente la red. inglese ha: “così l’onomatopea, ad esempio, è

studiata non senza considerazione per il senso, anzi in relazione al senso”].24 [La parte restante del § 9.0.3. è omessa nella red. inglese].

TESI PER UN’ANALISI SEMIOTICA DELLE CULTURE

Eterogeneità e omogeneità delle culture.Postscriptum alle tesi collettive1

Jurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij

0. Mentre si sottolinea come tratto fondamentale delmeccanismo interno della cultura il poliglottismo, andreb-be tenuto costantemente presente che alla base di qualsiasimodello della cultura sta una opposizione binaria di duelingue radicalmente diverse, trovantisi in uno stato di in-traducibilità reciproca. La comunicazione tra esse si attuacon l’ausilio di un meccanismo metaculturale che stabili-sce una equivalenza relativa dei testi nelle due lingue.

1.0. I processi immanenti di sviluppo della culturapossono pertanto essere considerati come interazione didue tendenze dirette a due scopi opposti:

a) alla moltiplicazione del numero delle lingue dellacultura e all’approfondimento della loro peculiarità, conil che si ha una crescita delle difficoltà comunicative al-l’interno della cultura, e contemporaneamente si favori-sce la flessibilità e la complessità della sua capacità dimodellizzare la realtà;

b) alla creazione di metalingue (incluse le autode-scrizioni normative che la cultura fa di se stessa, e le suedescrizioni con gli strumenti della scienza) che facilita-no le comunicazioni entro la cultura (comprese quelletra individui) mediante l’introduzione di un sistema ditesti univoci e stabili, i quali al tempo stesso semplifica-no la cultura e ne limitano la flessibilità come sistemamodellizzante.

1.1. La capacità della cultura di trasformare l’entropiache la circonda in informazione, di creare entro se stessalingue e testi radicalmente nuovi, così come il suo legamecon il meccanismo della memoria collettiva, consentono diconsiderarla come una persona collettiva che, in particola-re, viene a essere portatrice dell’intelligenza collettiva2.

1.2. A questo riguardo, si deve sottolineare l’isomor-fismo funzionale che si riscontra tra la coscienza indivi-duale, legata alla asimmetria strutturale del cervello delsingolo, che attualmente è oggetto di grande attenzione,e la asimmetria fondamentale dei sistemi semiotici inclu-si in qualsiasi modello minimale della cultura.

2.0. L’affermazione che qualsiasi unità entro il mec-canismo della cultura presupponga una specializzazionesemiotica delle parti, e che la eterogeneità strutturale in-terna sia una condizione della globalità del meccanismoculturale, permette di formulare alcune premesse relati-ve agli influssi di una cultura su un’altra.

2.1. Nello studio comparato delle culture è assai dif-fusa la concezione secondo cui l’influenza culturale pre-suppone che le culture interessate abbiano raggiuntoun certo stadio comune di sviluppo. Il simile influenzail simile, e nel repertorio eterogeneo dei testi esistenticiascuna cultura seleziona ciò in cui essa vede se stessa.Una tale selezione ha indubbiamente luogo. Tuttavia,sarebbe sbagliato chiudere gli occhi sul fatto che spessoè proprio la differenza a rappresentare la premessa ori-ginaria dell’influenza culturale. Proprio nel momento incui i contatti culturali casuali e sporadici, nel cui ambi-to ciascuna delle parti in contatto conserva l’autonomia,lasciano il posto a un’unità e le culture precedentemen-te distinte si compongono in un certo organismo, la dif-ferenza semiotico-strutturale tra esse non si appiattisce,ma si approfondisce. Esse entrano in un rapporto di so-miglianza-asimmetrica.

JURIJ M. LOTMAN, BORIS A. USPENSKIJ

2.2. Il meccanismo semiotico di questo processo puòessere così rappresentato: ciascuna delle culture in con-tatto, nella propria esistenza originariamente “separata”,è internamente eterogenea. Passando dalla sfera “ester-na” a quella “interna” e cessando, da determinati puntidi vista, di essere “estranea”, o occupando la posizioneintermedia dell’“estraneo vicino” (nella Russia di Kievc’era un termine per la designazione dei cumani che sierano insediati ai confini e avevano abbandonato la vitanomade, diventando alleati dei principi russi contro icumani nomadi: nasi poganii, cioè al tempo stesso i “no-stri pagani” e i “nostri estranei”), una cultura occupa unposto determinato nella struttura della asimmetria inter-na della sua partner, includendola contemporaneamentein se stessa mediante un’analoga identificazione con unadeterminata componente della sua organizzazione inter-na. Questo porta a una maggiore individuazione di cia-scuna delle strutture rientranti nella nuova unità, insie-me con la crescita delle metaformazioni che servono ilsistema di contatti tra esse. Inoltre, in tutta una serie dicasi, l’autocoscienza che la cultura ha della propria spe-cificità è legata proprio con una considerazione struttu-rale di un punto di vista esterno su di sé (nessun feno-meno, da un punto di vista interno, ha una sua specifi-cità), cioè con il fatto dell’unione con la cultura “estra-nea” in una certa unità più complessa.

Le tendenze osservate si riscontrano in modo parti-colarmente chiaro in culture storicamente collocate aiconfini di grandi aree culturali (in particolare, esse sonoattuali per i destini storici della cultura russa). Nelle cul-ture collocate al centro di un grande complesso di cultu-re relativamente omogenee, le tendenze osservate si ma-nifestano meno chiaramente. Così, per esempio, la strut-tura interna della cultura russa sottintende l’incorpora-zione in essa di un punto di vista estraneo, interpretato,in ragione della posizione geografica di frontiera, ora co-

ETEROGENEITÀ E OMOGENEITÀ DELLE CULTURE

me “occidentale” ora come “orientale.”. Di conseguen-za, questa stessa cultura si presenta a sé ora come “occi-dentale” (dal punto di vista “orientale”) ora come“orientale” (dal punto di vista “occidentale”).

3.0. Quanto si è detto ci fa vedere che il principio bi-nario della struttura si presenta, in rapporto alla cultura,non soltanto come un fatto della sua descrizione metalin-guistica, ma anche come una proprietà immanente dellasua organizzazione. Inoltre, nella struttura binaria dellemetalingue si può vedere il rispecchiarsi della asimmetriafondamentale, presente tanto in qualsiasi congegno pen-sante, quanto nello stesso meccanismo della coscienza.Certamente, il principio binario è presente soltanto comemodello generativo iniziale tendendo in seguito a espan-dersi in un paradigma di opposizioni.

3.1. Dato che l’essenza dicotomica della cultura “persé” deve presentarsi come un tutto unitario (questa èuna conseguenza necessaria dell’esistenza della cultura),viene sottolineata con forza l’importanza delle autode-scrizioni. La differenza essenziale tra l’evoluzione cultu-rale e l’evoluzione naturale sta nel ruolo attivo delle au-todescrizioni, nell’influenza esercitata sull’oggetto dallerappresentazioni dello stesso. Questa influenza potreb-be, in senso lato, essere definita come il fattore soggetti-vo dell’evoluzione della cultura. Dato che allo stessoportatore della cultura questa si presenta come un siste-ma di valori, è proprio questo fattore soggettivo a deter-minare l’aspetto assiologico della cultura.

3.2. Lo sviluppo dinamico della cultura si compiesotto l’influsso di due tipi di fattori: da una parte, agi-scono su di essa forze eterogenee a essa esterne; dall’al-tra, questa influenza si traduce nella lingua della suastruttura interna e, in relazione con ciò, subisce svariatetrasformazioni, inclusa anche l’influenza attiva delle au-todescrizioni della cultura di cui si è detto sopra. Qualo-

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ra si faccia astrazione dalle influenze esterne, è pertinen-te l’analogia con i modelli dei cambiamenti diacronici inlinguistica. Da una parte e dall’altra, si ha la conserva-zione di una stabile ossatura [kostjak] strutturale inva-riante, cioè di una certa configurazione di opposizioni dibase. Mentre si ha un dinamismo dei testi superficialidella cultura, a livello dell’organizzazione di base questapuò presentare una stabilità particolare.

3.3. Entro questa impostazione, l’evoluzione dellacultura, sotto un determinato aspetto, può venire pre-sentata come un processo di ridenominazione sistemati-ca di elementi nell’ambito di opposizioni invarianti.L’ossatura strutturale invariante della cultura viene a es-sere obiettivamente il portatore della memoria di unadata collettività culturale e, al tempo stesso, dà motivo alricercatore di identificare in una massa di testi apparte-nenti a tempi diversi un’immagine unitaria della cultura.

3.3.1. Bisogna distinguere i cambiamenti a livello deitesti, con conservazione dell’ossatura strutturale, e icambiamenti (o rotture, distruzioni) a livello dell’ossatu-ra strutturale, con relativa stabilità dei testi. Abbastanzafrequentemente, nelle diverse tappe storiche, gli stessitesti ricevono una differente interpretazione. Dal puntodi vista pragmatico, essi intervengono come testi diversi.

1 Titolo originale: “Postscriptum alle tesi collettive sulla semiotica dellacultura”. Scritto nel 1977 per il volume La semiotica nei Paesi slavi. Program-mi, problemi, analisi, a cura di C. Prevignano, trad. di E. Rigotti., Milano, Fel-trinelli, 1979, pp. 221-224.

2 Cfr., più in particolare, a questo riguardo, Lotman 1977.

ETEROGENEITÀ E OMOGENEITÀ DELLE CULTURE

Terza parteLa semiotica e le poetiche della quotidianità

Il mondo del riso: oralità e comportamento quotidiano1

Jurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij

Gli ultimi trent’anni di studio letterario nel nostropaese sono caratterizzati da uno sviluppo straordinaria-mente veloce e intenso delle ricerche nel campo dellaletteratura e della cultura antico-russe. Se nel periodoprebellico, in ambito di studio della letteratura classicarussa, l’analisi dell’opera di Puskin e, in parte, lo studiodel XVIII secolo erano stati in certo qual modo i punti diriferimento della cultura critico-letteraria e i laboratoridelle nuove teorie storico-letterarie, al giorno d’oggi lapriorità è senza dubbio passata allo studio del Medioevorusso. È doveroso inoltre sottolineare il ruolo scientificoe organizzativo svolto dalla sezione di letteratura antico-russa dell’Istituto di Letteratura russa presso l’Accade-mia delle Scienze dell’URSS (Puskinskij Dom). Per valuta-re la portata del lavoro svolto è sufficiente ricordare itrentuno tomi dei Trudy Otdela drevnerusskoj literatury(solo quattro usciti prima della guerra), per non parlarepoi di un’intera serie di pubblicazioni e monografie,molte delle quali costituiscono vere e proprie conquistescientifiche.

I lavori di critica ed edizione del testo, di storia dellaletteratura e di storia della cultura, condotti su vasta sca-la, hanno di fatto mutato tutto il preesistente sistema diconcezioni sulla cultura antico-russa. Tale circostanza haposto l’accento sulla necessità di lavori di riepilogo e didivulgazione atti a elevare il grado di comprensione teo-

rica del materiale in conformità dei nuovi livelli scientifi-ci raggiunti. Una risposta a tale esigenza può considerar-si la comparsa di tutta una serie di monografie di Dmi-trij Lichacëv, la più importante delle quali, la Poètikadrevnerusskoj literatury [Poetica della letteratura antico-russa], ha posto le basi per una concezione nuova e or-ganica della letteratura antico-russa come fenomeno ar-tistico. Nella stessa prospettiva si inserisce tutta una se-rie di ricerche pubblicate dagli allievi di Lichacëv. L’e-numerazione di questi lavori esula dai compiti del pre-sente articolo. Data la tematica vorremmo comunque se-gnalare tra di essi l’importante studio di AlexandrPancenko (1973) sulla cultura poetica del XVII secolo.

Il recente libro di Lichacëv e Pancenko (1976) costi-tuisce un avvenimento assai significativo nell’ambito de-gli studi letterari sovietici degli ultimi anni.

Questo libro, seppur ricco di un immenso materialefattuale inedito, non è di grosse dimensioni (circa 11 fo-gli stampati) e parrebbe, da questo punto di vista, nonpoter reggere il confronto con numerose altre pubblica-zioni di dimensioni maggiori. Invece proprio la concisio-ne, a tratti la sinteticità, ne pongono in evidenza la ric-chezza di contenuti.

Una delle caratteristiche degli studi veramente fecon-di è da ricercarsi nel fatto che essi, oltre che risolvere iproblemi posti dal precedente sviluppo scientifico, nesollevano di nuovi e si presentano quindi non solo comericapitolazioni di quanto fatto, ma anche come stimoloper un ulteriore progresso del pensiero scientifico. Gra-zie a ciò, essi si contrappongono alle sterili monografie“compendiarie” di altro tipo, le quali, riassumendo in sétutto ciò che è stato fatto in precedenza, non apronoperò nuove strade e rammentano dei corridoi terminantiin un’ultima porta serrata ermeticamente. Ovviamentel’autore che pone nuovi problemi si trova sempre in unaposizione più vulnerabile: quanto più nuovo e ricco di

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prospettive è un problema, tanto più aspra rischia di es-sere la discussione intorno a esso.

Il libro che è all’origine della comparsa del presentearticolo è appunto un’opera in possesso di requisiti chefanno prevedere lunghe e accalorate discussioni. Gli au-tori, volgendosi a un fenomeno della cultura russa diprimaria importanza, ma per niente approfondito, fannosì che in tutta una serie di aspetti il lettore debba da soloriflettere sulle conseguenze scientifiche, vale a dire sugliscarti nelle concezioni storico-letterarie tradizionali, cheinevitabilmente derivano dall’introduzione nella storiadella cultura dei temi da essi affrontati.

Il libro preso in esame risulta dunque uno studio ric-co di concetti e di problemi. Il suo merito più importan-te è quello di porre tutta una serie di questioni che era-no rimaste finora fuori del campo visivo della scienza oche, se erano state affrontate, erano state analizzate co-me fenomeni isolati, staccati dalle leggi generali dellacultura russa.

Per originalità creativa di questo studio noi non in-tendiamo semplicemente la novità della concezioneche ne è alla base; nei migliori lavori degli ultimi annisiamo abituati a incontrare idee scientifiche nuove etalvolta rivoluzionarie. Di nuovo c’è in realtà qualcosadi più profondo che riguarda la natura stessa del meto-do di ricerca.

Secondo una tradizione profondamente radicata, glistorici equiparano la somma delle fonti scritte alla cul-tura in quanto tale. Tutto ciò che riguarda l’ambito nondirettamente riflesso nei testi – la sfera della comunica-zione orale, del comportamento delle persone nelle va-rie situazioni non prefissate, della gestica e della mimi-ca, del rituale domestico –, viene categoricamenteescluso dal campo di analisi. Invece di affrontare le dif-ficoltà legate alla definizione stessa di questo oggetto distudio, si afferma a priori la sua irrilevanza. In egual mi-

IL MONDO DEL RISO

sura non ci si pone il problema di come influisca sullanatura degli stessi testi scritti il fatto che essi rappresen-tino soltanto una parte della cultura e non la sua tota-lità. È invece noto che, rimanendo nei limiti del testo,non è possibile afferrare il suo senso profondo, ma anzisi perde completamente la possibilità di definire la suafunzione nel sistema complessivo della cultura, di defi-nire cioè se si tratti di uno testo autentico o falso, sacra-le o sacrilego, alto o basso.

Immaginiamoci uno studioso che prenda in esame inun lontano futuro una qualsiasi epoca vicina alla nostra,e supponiamo che egli abbia a sua disposizione soltantole fonti letterarie conservatesi sotto aspetto di libri.Estendendo le leggi dei testi a lui accessibili a tutta lacultura nella sua totalità, egli inevitabilmente otterrà unquadro confuso, o meglio, del tutto travisato. Si puòcon sicurezza affermare che gli risulterà del tutto inac-cessibile quello strato che per i portatori della culturadata non è soltanto di per sé evidente, ma ancheprofondamente importante. Ed è infatti lo strato orale,non fissato, della cultura che in definitiva costituisce lachiave di lettura dei testi scritti permettendo di decifra-re il loro reale contenuto.

Persino per quanto riguarda una sfera della culturacosì adeguatamente riflessa nei testi come la lingua, lostudioso otterrebbe un quadro del tutto svisato: ovvia-mente egli dovrebbe supporre che le persone del perio-do preso in esame parlavano nella vita di ogni giorno co-sì come risulta dai documenti scritti (ad esempio, nelcampo della fonetica egli dovrebbe concludere che nellapronuncia reale dominava lo okan’e 2, in quanto esso de-termina le norme della attuale grafia). Ancora più rile-vanti sarebbero le perdite e le deformazioni nella rico-struzione di altre sfere più complesse della cultura, lequali sottintendono la suddivisione in sfere per princi-pio appartenenti alla tradizione scritta e in sfere egual-

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mente per principio da essa escluse, in sfere dei testi daun lato, e del comportamento e delle azioni dall’altro, inambiti regolati da precisi canoni culturali e in ambiti cheammettono anomalie, vale a dire eccezioni alla regola.Se a ciò si aggiunge che la sfera della tradizione propria-mente scritta della cultura è sempre gerarchica in rela-zione al valore e al prestigio, e che non è possibile deter-minare la collocazione di questo o quel testo in questagerarchia se non ci si trasferisce dal mondo dei testi al-l’ambito circostante della vita extratestuale, risulterà al-lora chiaro quanto angusto e inadeguato sia il mondodei “testi traditi” in relazione all’intero “mondo dellacultura” di questa o quell’epoca.

In pratica, lo studioso non esamina mai – sarebbesemplicemente impossibile – il “mondo dei testi” in ma-niera isolata, al di fuori delle correlazioni con le idee ex-tratestuali, con il buonsenso della vita di ogni giorno,con tutto il complesso di associazioni che intercorronocon la vita reale. Tuttavia, molto spesso lo studioso delleculture passate si comporta semplicemente così: egli im-merge i testi di epoche storicamente passate nel propriosistema di concezioni della vita quotidiana servendosi diquest’ultimo come della chiave per la decifrazione diquelli. La non correttezza di questa metodica è tantoevidente, quanto ne è ampia la sua diffusione3.

La novità del libro di Lichacëv e Pancenko consistequindi nel porre al centro della propria analisi non i te-sti in quanto tali, ma i testi come parte dell’insieme on-niculturale, direttamente legati al comportamento. Lostesso comportamento viene esaminato in relazione aun contesto più ampio come fenomeno in possesso diuna sua grammatica, di una sua stilistica e dei suoi ge-neri. In questo modo, oggetto dello studio diviene lacultura in quanto tale, costituita dalla letteratura scritta,dal comportamento orale, dal gesto, dalla vita di ognigiorno ecc. Tutto ciò si ricollega ai più generali proble-

IL MONDO DEL RISO

mi della concezione del mondo, giungendo così a deli-neare un cosmo ideologico-culturale onnicomprensivo.Il testo è incomprensibile senza un più vasto confrontocon la cultura e, in particolare, con il comportamentodelle persone dell’epoca data, e in egual modo il com-portamento di queste può essere a sua volta ricostruitosoltanto mediante il contributo di un ampio numero ditesti. I testi interpretano il reale comportamento dellepersone persino nelle sue manifestazioni a prima vistapiù strane e anormali dal punto di vista della coscienzailluministica dell’epoca moderna, permettendo così discoprirne il senso, il sistema, la rigorosa etica e l’origi-nale bellezza. Così preso in esame, il mondo della cultu-ra antico-russa cessa di essere sentito dal ricercatore co-me estraneo e lontano, quasi fosse posto sotto la lentedel microscopio. Esso si trasforma in un quadro vivo ein movimento. Il ricercatore cessa di essere un osserva-tore esterno, egli penetra in questo mondo, libero daogni degnazione o prevenzione, pronto a comprender-ne la logica lontana da quella dei nostri tempi, scopren-do là, ove la storia tradizionale della letteratura non hatrovato nulla di veramente degno di nota, i complessifenomeni della vita spirituale nelle loro manifestazionipiù vicine al popolo.

Oggetto del libro di Lichacëv e Pancenko è un riccocomplesso di fenomeni della cultura antico-russa che gliautori definiscono come “mondo del riso” dell’anticaRus’. A esso sono riconducibili le varie manifestazioni delparodiare letterario, del “teatro della vita”, dei travesti-menti linguistici e comportamentali, a esso è riferibile lapenetrazione del gioco nel comportamento “serio” del-l’uomo medievale. Nell’ampia cornice di questo quadrogli autori includono fatti diversi della storia della culturarussa: dal comportamento dello jurodivyj 4 sulla piazzadella città antico-russa alle forme teatralizzate della “rifor-ma” della opricnina5 realizzata da Ivan il Terribile.

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Come abbiamo detto, lo “Smechovoj mir” DrevnejRusi è un libro che suscita nei lettori il desiderio di svi-luppare, discutere e talvolta anche contestare il pensierodegli autori. Esso certo non si presta molto a una letturanon partecipe e superficiale.

In questo senso, risulterebbe assai opportuno discu-tere i possibili cammini futuri che potrebbero intrapren-dere quegli studiosi che, concordando con Lichacëv ePancenko nei fondamenti della concezione da questiproposta, si pongano il fine di proseguire nella direzioneda questi ultimi indicata nelle sue linee fondamentali.Un primo passo in questa direzione sembrerebbe doveressere la precisazione del concetto stesso di “mondo delriso” e di “cultura del riso”. Questo concetto fu intro-dotto in ambito scientifico da Michail Bachtin (1965;1975) e ha ottenuto un’ampia risonanza, mostrando su-bito la propria utilità nell’interpretazione teorica dellastoria della letteratura. L’uso di questo termine da partedegli autori del libro preso in esame non soltanto è giu-stificato, ma è anche ricco di prospettive, in quanto hapermesso di distinguere e raggruppare un’ampia serie difenomeni culturali in precedenza non ben definiti o,peggio ancora, nemmeno notati. Tuttavia, giacché il let-tore ricollega a questo termine, come è naturale, le con-cezioni contenutistiche di Bachtin già da tempo afferma-tesi, si sarebbe dovuto distinguere il concetto di “cultu-ra del riso”, quale si è venuto delineando sulla base delmateriale europeo occidentale, dai fenomeni prettamen-te russi descritti dagli autori6.

Il riso, nella concezione della cultura medievale co-struita da Michail Bachtin, è un principio che rimanefuori delle severe limitazioni etiche e religiose poste afondamento del comportamento dell’uomo dell’epoca.Con la sua natura popolare, ribelle e dissacrante il riso,secondo Bachtin, elimina le gerarchie etico-sociali delMedioevo, esso è areligioso e senza stato per sua natura.

IL MONDO DEL RISO

Il riso trasferisce l’uomo medievale nel mondo dell’uto-pia popolare del carnevale, strappandolo al potere deicoevi istituti sociali.

Tra i fenomeni della cultura russa presi in esame daLichacëv e Pancenko, molti possono essere certamenteinterpretati sulla base di tale concezione del riso. Così,gli autori volgono la loro attenzione al fatto che nelleopere definite in base ai lavori di Varvara Adrianova-Peretc (a cura, 1954; cfr. anche 1928, 1936a, 1936b) co-me opere della satira democratica “si assiste alla deri-sione di se stessi o almeno del proprio ambiente. Gliautori delle opere medievali e, in particolare, antico-russe, il più delle volte fanno ridere i lettori direttamen-te di se stessi” (Lichacëv, Pancenko 1976, p. 9). Ciòpermette di apportare un correttivo all’accezione cor-rente che si ha di queste opere, giacché in esse si distin-gue l’intrecciarsi di due elementi per natura differenti:la satira popolare e il riso carnevalesco. È tuttavia op-portuno volgere l’attenzione alla specificità per il Me-dioevo russo del diverso trattamento di una serie di og-getti annoverati dagli autori alla categoria del “riso”.Determinate “immagini del riso”, attive nel sistema del-la cultura medievale russa, non sono portatrici di alcu-na ambivalenza, né si trovano fuori del mondo dellacultura medievale ufficiale (“seria”). La cultura medie-vale russo-ortodossa si organizza in base alla contrap-posizione del sacro al satanico. Il sacro esclude il riso(cfr. “Cristo non rideva mai”). Il sacro si presenta co-munque sotto due aspetti: la rigorosa gravità asceticache respinge il mondo terreno in quanto tentazione, e ladevota accettazione di questo in quanto creazione divi-na. La seconda variante, dalla gallina del protopop Av-vakum sino allo starec Zosima dei Fratelli Karamazov, ècollegata a una gioia interiore espressa dal sorriso. E co-sì il sacro ammette sia la severità ascetica che il sorrisodevoto, ma esclude il riso.

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Il contrapposto polo assiologico delle concezioni me-dievali antico-russe si atteggia diversamente nei confrontidel riso. Al diavolo (e a tutto il mondo diabolico) si attri-buiscono i tratti del “sacro rovesciato”, della appartenen-za al “sinistro” mondo capovolto. Questo mondo è dun-que per sua stessa natura sacrilego e, di conseguenza,non serio. Si tratta di un mondo ghignante: non a caso ildiavolo è chiamato in Russia “sut” [buffone, giullare]. Ilregno di satana è il luogo ove i peccatori si lamentano ebattono i denti, mentre i diavoli ridono a crepapelle:

I kruzit nad nimi s chochotomCernyj tigr-sestokrylat...(Nekrasov)[E volteggia su di loro sghignazzandoLa nera tigre dalle sei ali...]

A differenza dell’ambivalente riso popolare del car-nevale descritto da Bachtin, il riso sacrilego del diavolonon mina affatto il mondo delle concezioni medievali.Esso costituisce una parte di quest’ultimo. Mentre il ri-dente “bachtiniano” si trovava al di fuori dei valori me-dievali, non si salvava né si perdeva, ma semplicementeviveva, il sacrilego ghignante si colloca all’interno delmondo medievale. Gettandosi nel baratro della perdi-zione, rifiutando Dio, egli tuttavia non rifiuta l’idea diDio. Passando alla schiera di Satana egli ha mutato posi-zione nella gerarchia, ma non ha rifiutato il fatto chequesta esista.

Caratteristica esteriore del riso sacrilego è il fattoche esso non risulta contagioso. Per le persone che nonsi sono legate a Satana esso è tremendo e non ridicolo.Le convulsioni del principe Dmitrij Sevyrëv mentre in-nalzava legato al palo una prece a Gesù, potevano su-scitare le risa del Terribile e dei suoi uomini, ma nonapparivano certo ridicole ai moscoviti che assistevano aquella scena.

IL MONDO DEL RISO

Di conseguenza, erano considerati peccato nell’anti-ca Rus’ sia provocare il riso [smechotvorenie]7, che ride-re smodatamente (il “riso sino alle lacrime”)8. “Guai acoloro che mentono e a coloro che ridono”, esclama loscrittore antico-russo9, equiparando in maniera signifi-cativa questi due tipi di comportamento. Colui che riderischia dunque di trovarsi nella sfera del comportamen-to diabolico, peccaminoso e sacrilego10.

Il sacrilegio occupa nella cultura medievale russa unaposizione particolarmente importante. Lichacëv ePancenko si presentano come pionieri nelle loro ricer-che per un’interpretazione storico-culturale di questofenomeno, e le loro considerazioni a tale riguardo meri-tano un’attenzione particolare. Pensiamo tuttavia che, sel’interpretazione del sacrilegio come satira antifeudaleispirata da nascenti sentimenti democratici, quale è stataproposta da Adrianova-Peretc, pur mettendo a nudo gliaspetti essenziali del fenomeno, non lo ha del tutto spie-gato, e anzi lo ha in certa misura semplificato, parimentiun suo esame attraverso il prisma della concezione delriso elaborata da Bachtin, pur facendoci progredire nel-la comprensione di questo complesso problema, neconfonde allo stesso tempo numerosi tratti.

Il sacrilegio, come “affermazione mediante la nega-zione” delle norme e delle leggi della struttura medieva-le del mondo, deve essere distinto (seppure per i porta-tori di tale cultura i due fenomeni possono fondersi) dalretaggio della magia pagana che pure trovava posto nellereali credenze dell’uomo dell’antica Rus’.

L’uomo medievale poteva procurarsi il successo, l’in-columità e la fortuna in due modi: con la preghiera, ri-volgendosi all’intercessione dei santi protettori e dellaChiesa da un lato, e ricorrendo alla magia “nera”: lastregoneria, gli amuleti, gli esorcismi ecc. dall’altro. Idue modi di agire si trovavano in rapporto di comple-mentarità e si richiamavano l’un l’altro come due sistemi

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simmetrici a specchio. In tal modo, il sistema delle prati-che magiche acquisiva il carattere di rito liturgico capo-volto o di antimondo. Esso poteva ammettere anche lapresenza del riso rituale (a differenza della severità ri-tuale del comportamento liturgico), ma non era comiconel vero senso del termine e non era quindi percepitocome tale. L’uomo che si rivolgeva allo stregone nonaveva certo voglia di ridere. In tal modo, le interessantiosservazioni di Lichacëv sul mondo capovolto e sullasua funzione nella cultura dell’antica Rus’ hanno biso-gno di un’ulteriore stratificazione metodologica in feno-meni prettamente comici e in fenomeni che, pur coinci-dendo con i primi in una serie di tratti, non possonoidentificarsi in essi.

Bisogna sottolineare che il carattere capovolto dei ritimagici era condizionato sia da fattori soggettivi che og-gettivi. Da un lato, in relazione alle concezioni cristiane,i rituali pagani tradizionali si presentavano come “anti-comportamento”, fondendosi con il comportamento an-ticristiano nel vero senso della parola. Dall’altro, il paga-nesimo slavo, come è noto, è strettamente legato al cultodei defunti e parimenti alle concezioni sull’aldilà. E pro-prio il mondo dell’aldilà, già nelle credenze precristiane,era caratterizzato per principio da uno stato di “ribalta-mento” nei confronti del mondo terreno, acquisendocosì i tratti della sua immagine specchiata (cfr. le conce-zioni sul passaggio della destra a sinistra e viceversa, delribaltamento del basso in alto). Il comportamento capo-volto quindi, nelle sue varie forme, trasferisce l’agentenella sfera del mondo dell’aldilà, sotto l’influsso di unaforza impura (la quale in tutta una serie di casi è ricon-ducibile agli dei pagani).

Da qui ha origine l’idea del mondo “capovolto” e ri-baltato come di un mondo satanico. In ciò è da ricono-scere una differenza assai accentuata tra gli elementi pa-gani del carnevale europeo occidentale (secondo Bach-

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tin) e dei riti russi a esso analoghi. Nel carnevale euro-peo occidentale agisce la formula: “ridicolo significanon terribile”, in quanto il riso porta l’uomo al di là deiconfini del mondo serio medievale, nel quale egli è vitti-ma delle “paure” (divieti) sociali e religiose. Nel risorusso, a partire dai riti delle feste natalizie [svjatki] edella settimana grassa [maslenica], fino alle Veglie allafattoria presso Dikan’ka di Gogol’, “il ridicolo è terribi-le”. Il gioco non trasporta fuori dei confini del mondoin quanto tale, ma permette di penetrare nelle sue zoneproibite dove una permanenza seria equivarrebbe allaperdizione. Perciò si tratta sempre di un gioco comico epericoloso al tempo stesso. Così i sortilegi del periodonatalizio, uno dei momenti più allegri del calendariocontadino, sono allo stesso tempo terribili (le sere dalprimo al cinque di gennaio del vecchio calendario non acaso si chiamano le “notti terribili”). Essi sottintendonoil gioco con una forza impura e in tutta una serie di casisono accompagnati dal rifiuto dimostrativo del cristiane-simo (coloro che divinano si tolgono di solito di dosso lacroce) e dall’appello diretto ai diavoli (cfr. Smirnov1927; Maksimov 1912, pp. 6, 35, 37); secondo numerosetestimonianze le divinazioni del periodo natalizio sonocaratterizzate da un’alta tensione nervosa talvolta spez-zata da furori isterici.

Sia il sacrilegio, che trova “fatale diletto” nel “dileg-giare i sacri misteri”, che il riso magico, riconducibile al-la richiesta di aiuto rivolta al mondo “nero”, capovolto,non si riferiscono in verità alla “cultura del riso”, inquanto sono completamente privi dell’elemento fonda-mentale di questa, vale a dire della comicità.

Quanto detto implica una particolare attenzione aidiversi casi di parodizzazione dell’ufficio liturgico. Inche misura simili fenomeni erano caratteristici della cul-tura scritta antico-russa? È possibile considerare casualela circostanza che tutti i testi di questo tipo giunti fino a

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noi non siano anteriori al XVII secolo (di regola, persinonon anteriori alla seconda metà del XVII secolo), risalga-no cioè a un periodo segnato da un’intensa influenza oc-cidentale grazie all’attiva mediazione della Rus’ sud-oc-cidentale? Non si potrebbe, in definitiva, analizzarequeste opere non nella prospettiva della loro risonanzasociale all’interno del contesto generale della letteraturarussa del XVII secolo, ma dal punto di vista della loro ge-nesi, e spiegare così la loro comparsa ricollegandola al-l’influsso, caratteristico del XVII secolo, della Rus’ sud-occidentale sulla cultura letteraria granderussa? A suavolta, l’atteggiamento nei confronti del sacrilegio e delriso era nella Rus’ sud-occidentale senza dubbio diversoche nella Rus’ moscovita: come è noto, la Rus’ sud-occi-dentale aveva risentito della diretta influenza della tradi-zione letteraria e culturale occidentale, e in occidente leparodia sacra e i fenomeni affini non avevano necessaria-mente un senso sacrilego (Lehmann 1922; a cura, 1923;Gilman 1974). Probabilmente non è un caso che la com-parsa e la diffusione di testi parodici su temi liturgici, es-sendo in un modo o nell’altro legate all’europeizzazionedella cultura russa, si registrino principalmente in am-bienti relativamente colti come la scuola e il seminario(cfr. almeno il celebre Akafist kukuruze [Inno acatisto algranturco]). Risulta in ogni modo significativa la circo-stanza che alla fine del XVII secolo le opere satiriche (enon solo su temi spirituali) possano in generale esserepercepite nella Rus’ come traduzioni dal polacco, persi-no nel caso in cui esse siano fondamentalmente russeper provenienza11.

La parodia del culto poteva invece aver avuto spa-zio nell’ambito della cultura orale, non scritta. Se infat-ti i testi come la Sluzba kabaku [La messa in onore dellabettola] erano, per dirla con Bachtin, “di attinenza nonliturgica, né religiosa”, il corrispondente comporta-mento durante i giochi delle feste natalizie e della notte

IL MONDO DEL RISO

di San Giovanni aveva innanzitutto un senso sacrilegoed era quindi riferito direttamente alla religione. Il sa-crilegio, di regola, non esce fuori dall’ambito dell’uni-verso sacrale: esso acquista semplicemente in tale am-bito un senso antitetico. I funerali parodistici del pe-riodo natalizio (il “sacerdote” indossa una pianeta distuoia e agita un turibolo in forma di vaso d’argilla dalavabo, in sostituzione dell’ufficio funebre si recitanosfilze di bestemmie)12, possedendo uno spiccato carat-tere sacrilego, sono riconducibili alla sfera dell’anti-comportamento magico. Parimenti, uno stesso com-portamento, a partire da un determinato periodo, puòsvolgere funzioni del tutto diverse (e quindi essere re-cepito in maniera completamente diversa) ai livelli altoe basso della cultura: tale fenomeno è comunque da ri-collegarsi all’europeizzazione della cultura scritta cheprende le mosse nel periodo prepetrino e predetermi-na le stesse riforme di Pietro.

Grosso merito dell’opera presa in esame è l’aspira-zione da parte degli autori ad analizzare i testi letterariin relazione al comportamento che li accompagna o cheessi suscitano nello scrittore o improvvisatore da un la-to, e nell’uditorio dall’altro. I problemi storico-letterarie storico-culturali vengono ricollegati alle questioni dipsicologia storica, del comportamento ludico, delle di-verse forme di comportamento scenico-teatrale legatealla vita di ogni giorno dell’antica Rus’. Nella coscienzadel lettore si configura tutta una serie di problemi, traloro concatenati, aventi un rapporto diretto e profondocon molti dei misteri della storia russa.

Già più volte è stato espresso il convincimento cheuno dei punti deboli della nostra scienza storica sia l’i-nadeguata attenzione rivolta ai problemi di psicologiadel comportamento delle persone, sia nell’aspetto cultu-rale-epocale, sia in quello individuale del problema. Inconseguenza di ciò, la correlazione tra i motivi sociali

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generali di tutta l’epoca e il comportamento individualedi ogni singola persona rimane del tutto inesplorata.

Gli autori del lavoro analizzato dedicano particolareattenzione alla psicologia del comportamento socialedell’uomo dell’antica Rus’. Di grande interesse scientifi-co è la questione della scenicità e della teatralità nelcomportamento di ogni giorno. Suscita un profondo in-teresse la disamina degli elementi ludici nel comporta-mento dello jurodivyj antico-russo. Essa permette infattidi motivare psicologicamente quelle azioni e quei feno-meni che sembrano “strani” allo storico formatosi inambiente positivistico, ma che sono invece assai rilevantie del tutto “naturali” per l’uomo dell’antica Rus’. D’al-tra parte, queste stesse pagine ci obbligano a fare una se-rie di considerazioni supplementari.

Innanzitutto, in che misura questi tipi di comporta-mento possono considerarsi ridicoli? È opportuno infat-ti ricordare che il “comportamento comico”, secondo lalezione di Bachtin, è strettamente legato al carnevale. Intal senso, esso è contraddistinto da una proprietà assairilevante. Tutte le forme d’arte orientate sulla culturascritta sono caratterizzate da una netta distinzione traesecutori e uditorio. Nella globalità dell’atto artistico edelle emozioni comuni a esso legate questi due gruppitengono un comportamento, in linea di principio, con-trapposto: gli uni agiscono attivamente, gli altri osserva-no. Al contrario, tutte le arti di tipo folclorico induconolo spettatore e l’ascoltatore a intervenire: a prendereparte al gioco o alla danza, a instaurare un dialogo congli attori sulla scena del balagan13: egli indica loro dove ènascosto il loro nemico o suggerisce a questo dove na-scondersi. Uno degli autori della presente nota ha giàavuto modo di rilevare che proprio per questo principioil quadretto del lubok14 si differenzia dalle opere dellapittura non folclorica: esso non è oggetto dell’osserva-zione passiva degli spettatori, ma al contrario viene da

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essi “interpretato” trasformandosi nella loro percezioneproprio come si trasforma nel corso della rappresenta-zione teatrale lo scenario.

Questa differenza può avere un carattere prettamentefunzionale. Così l’esecuzione folclorica, ammessa al ban-chetto del boiaro medievale russo, in una serie di casi sitrasforma in testo non folclorico, in quanto la barrieraesistente tra attore e uditorio sta già a distinguere due ti-pi di comportamento differenti. In questo senso, è inte-ressante la testimonianza secondo la quale, come conmeraviglia notava un osservatore straniero, la danza albanchetto del boiaro russo era soltanto uno spettacolo e,come ogni arte, una professione: chi ballava non facevabaldoria, ma lavorava, l’allegria era appannaggio deglispettatori, troppo altolocati per poter essi stessi prendereparte alla danza15. Per converso, è possibile assistere alpassaggio, caratteristico ad esempio della percezione in-fantile, dell’ascolto passivo in co-gioco. Così, secondo latestimonianza di Porosin, il gran principe Pavel Petrovic(il futuro Paolo I) da bambino trasformava lo studio delleincisioni con vedute di città straniere in un gioco nel cor-so del quale egli entrava correndo nell’incisione e comin-ciava a girellare per le strade e i vicoli raffigurati nei dise-gni che gli stavano di fronte (Porosin 1881). Numerosisono i casi in cui l’autore di un’opera teatrale si adoperaaffinché lo spettatore presente in teatro si comporti più omeno come uno spettatore che partecipa a una rappre-sentazione popolare del balagan. Per non parlare del tea-tro del XX secolo (ad esempio Pirandello), si potrebbe ci-tare la replica del governatore nel Revisore: “Di che ride-te? Ridete di voi stessi !...”, calcolata a effetto per elimi-nare la ribalta e rivolgersi direttamente al pubblico. Èsintomatico il fatto che tale espediente provocasse in se-guito una serie di interventi della censura: alla censurafaceva comodo lo spettatore accademico e non il co-par-tecipe degli avvenimenti scenici.

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La “cultura del riso” esclude l’attore di professionee il copione fisso: colui che parla e colui che ascolta so-no partecipi di una comune azione e più volte nel corsodi essa si scambiano i ruoli. Proprio tale caratteristica,in maniera più pronunciata, evidenzia la natura ambiva-lente, livellatrice e deprofessionalizzante di quel risopopolare di cui scrive Bachtin. Al contrario, i fenomenidi cui parlano Lichacëv e Pancenko, per come si pre-sentano, sono assai più vicini al teatro come si è venutoa costituire nei secoli (conferendo al concetto di “tea-tro” un significato più ampio: infatti spettacoli come lalotta dei gladiatori o il combattimento tra i tori, così co-me un altro spettacolo tipico del Medioevo, quale l’ese-cuzione capitale, suscitano emozioni alquanto diverseda quelle che l’europeo del XIX secolo è abituato a ri-collegare all’idea di teatro; eppure la netta distinzionetra attori e spettatori, la loro contrapposizione per tipodi emozioni e comportamento, rende tali spettacoli ap-punto teatro e non azione). Ivan il Terribile si avvicen-da nel ruolo di attore e di spettatore: conseguentementecolui che risulta il suo partner può essere spettatoredella scena interpretata dallo zar o, essendo condotto alpatibolo, divenire spettacolo per lo zar (di alcuni casipiù complessi parleremo oltre). Qui siamo assai più vi-cini all’arte professionale dell’attore, la quale per suanatura si trova agli antipodi del “comportamento comi-co” popolare del carnevale. La suddivisione del paesein opricnina e zemsc ina rappresenta, in definitiva, unasuddivisione di massa tra attori e spettatori dell’azione.Tratto caratteristico del teatro è il fatto che gli attori e ilpubblico provano emozioni differenti. Se il pubblico ri-de, significa che gli attori stanno recitando un pezzo co-mico: in realtà essi non ridono, ma simulano il riso. Inambito carnevalesco invece il riso è in egual misura ap-pannaggio di tutti i partecipanti; esso tende a evidenzia-re intorno a essi quei tratti del mondo utopico popolare

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di cui parla Bachtin. Al contrario, la situazione dellaopricnina è comica soltanto per uno dei partner, se dicomicità si può parlare. Parimenti distinta è la situazio-ne dello jurodstvo16. Essa sottintende che lo spettatoresi collochi al di fuori di tale comportamento e lo sentacome “strano”. Ciò che è strano è sempre estraneo, al-trui. Non a caso nella prima accezione il termine signifi-ca “straniero”17. Ogni individuo che tiene un compor-tamento strano: lo jurodivyj, lo zar che si atteggia a juro-divyj o lo skomoroch18, è un viaggiatore, un nuovo venu-to, uno straniero. In tal senso, è interessante la tenden-za degli zar russi, oltre che ad atteggiarsi a jurodivyj, a“essere stranieri”. Ciò si riscontra a partire dai progettidel Terribile per “divenire inglese”, fino alla europeiz-zazione di Pietro I. È significativo il fatto che CaterinaII, la quale era una straniera sul trono, con zelo si sfor-zasse di tenere un comportamento “russo”, mentrePaolo I, sentendosi ormai russo, volesse divenire granmaestro dell’ordine di Malta, vale a dire, secondo le re-gole del gioco, trasformarsi in ciò che egli notoriamentenon poteva essere: un cattolico e per giunta illibato.

Nel libro preso in esame viene chiaramente indicatala natura teatrale (diretta all’osservatore esterno) dellojurodstvo. Ci sembra tuttavia che tale teatralità sia estra-nea alla “cultura del riso”.

Allo stesso modo, non è facile determinare fino a chepunto i tipi di comportamento che ci interessano possa-no di per sé essere riferiti al gioco, e fino a che punto es-si siano legati agli elementi del comportamento magico epagano presenti nella pratica religiosa (non ufficiale)della vita di ogni giorno.

È noto che la coscienza antico-russa riserva al giocouna sfera ben delimitata e relativamente angusta. Ilmondo dei valori seri e, tanto più, di quelli religiosi, eraescluso dalla sfera del gioco. L’autore del Molenie Danii-la Zatocnika [Supplica di Daniil Zatocnik] (Lichacëv ha

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convincentemente dimostrato la sua appartenenza allacultura degli skomorochi russi), competente in tali que-stioni, equiparava, in quanto divieti, sia “mentire a Dio”che “scherzare su argomenti solenni”19. Ivan il Terribileoperò una netta distinzione, valida per gli altri ma nonper sé, tra il mondo del banchetto, dove si può “man-giando scherzare” (vale a dire essere giullari, giocare) eil serio ufficio delle armi. Il gioco in situazioni serie erapercepito come un comportamento sacrilego e “noncorretto”, vale a dire come un comportamento non cri-stiano, pagano e stregonesco. La persona che in situazio-ni serie si comportava in maniera opposta a quella dellealtre persone, era considerato uno stregone e non certoun giullare o un buontempone. In che misura, ad esem-pio, è possibile riferire alla competenza della “culturadel riso” l’abbigliamento rovesciato e, in particolare,l’indossare la pelliccia dritto-rovescio (cfr. Lichacëv,Pancenko 1976, pp. 20-21)? Senza dubbio, la pellicciarovesciata è caratteristica di una serie di riti del tutto se-ri, sicuramente di derivazione pagana, legati al lavorodei campi, alle nozze, alla nascita ecc.

In relazione a quanto detto, ci sembra poco probabi-le che il comportamento dello jurodivyj potesse essereriferito al contesto ludico.

Il comportamento dello jurodivyj è legato alla gerar-chia dei criteri medievali di valutazione dell’uomo. Se-condo le concezioni medievali, la persona è tanto piùtenuta in considerazione, quanto più “corretto” è il suocomportamento. Al di sopra delle prescrizioni gerarchi-che che determinano le norme del comportamento cor-retto per le persone dei diversi ceti sociali, vige la nor-ma generale del comportamento cristiano, la piena rea-lizzazione della quale è appannaggio soltanto della per-sona che è segnata dal marchio della santità. Da questopunto di vista il comportamento dell’uomo normale èconsiderato “non corretto”, e a esso è contrapposta la

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rigida norma della vita “corretta” del santo. Il santo sidifferenzia quindi dal comune mortale per il suo mododi vivere e agire santamente. Questo comportamentoesteriore fa sì che il giusto sia riconosciuto tale. Esistetuttavia anche un altro modello di probità che gode diuna stima egualmente assai alta, modello che non ha bi-sogno di manifestarsi esternamente, ma che anzi perl’osservatore esterno si presenta come un comporta-mento estremamente non corretto. Facendo violenza suse stesso, il santo può tenere il comportamento del peg-giore dei peccatori o agire come uno stregone, compor-tandosi “all’incontrario”. In tal caso il santo si distinguedal peccatore non per il suo comportamento, ma sol-tanto per la grazia che in lui risiede e che egli avverte inse stesso. Soltanto un osservatore esterno che sia a co-noscenza di quello stato di grazia può infatti distinguer-lo dall’indemoniato.

Particolarmente significativo, in questa prospettiva, èl’esempio desunto dal Zitie Prokopija Ustjuzkogo [La vi-ta di Prokopij Ustjuzskij] (cfr. Lichacëv, Pancenko 1976,pp. 133-135). San Prokopij, secondo le parole dell’agio-grafo, andava “tutta la notte per le sante chiese del Si-gnore e pregava Iddio; non avendo nient’altro con sé,portava tre attizzatoi nella mano sinistra”; gli attizzatoidel santo erano talvolta rivolti all’insù e talvolta abbassa-ti: nel primo caso si aveva abbondanza di frutti terreni,nel secondo penuria di grano20. Pancenko, a buon dirit-to, vede nell’attizzatoio un attributo delle immagini diprovenienza pagana che si erano conservate nelle prati-che magiche della vita di ogni giorno. Ma particolar-mente significativo è il fatto che i tre attizzatoi nella ma-no di Prokopij Ustjuzskij si correlino palesemente ai treceri che regge il vescovo durante la benedizione episco-pale21; oltre a ciò, Prokopij porta gli attizzatoi nella suamano sinistra e va per le chiese di notte e non di giorno.In tal modo, il comportamento di Prokopij Ustjuzskij si

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avvicina molto a una parodia sacrilega dell’ufficio litur-gico, e non risulta tale soltanto perché il concetto di pa-rodia non è per principio riferibile alle prerogative dellojurodivyj. Le azioni dello jurodivyj possono esteriormen-te non differenziarsi dal comportamento magico (strego-nesco o pagano), ma per la loro essenza si riempiono diun contenuto completamente diverso.

Lo jurodivyj può risultare un folle in Cristo soltanto aquell’osservatore esterno il quale ritenga che il santo, alfine di autoumiliarsi, obblighi se stesso a tenere un com-portamento inopportuno, scandaloso, peccaminoso, av-vilente, e lo faccia non perché esso discende dalla suavera essenza, ma proprio perché esso è profondamentecontrario a quella. Secondo questa interpretazione lo ju-rodivyj in effetti “recita”, si attribuisce cioè un tipo dicomportamento a lui estraneo che non si confà alla suanatura. Pancenko ha dimostrato convincentemente chel’aspirazione alla teatralità può impadronirsi dello stessojurodivyj. Di profondo interesse sono le sue osservazionisulla differenza nelle norme di comportamento dello ju-rodivyj quando è solo e quando è in presenza di osserva-tori esterni. Si può tuttavia supporre che dal punto di vi-sta interiore il comportamento dello jurodivyj non sipresentasse come “scandaloso”: esso è legato alla nega-zione profonda e anarchica di tutto il sistema della vitasociale ed è, quindi, per lo jurodivyj naturale. Il trasgre-dire le norme e la decenza è per lui norma e non anoma-lia. Dal “proprio” punto di vista, egli tiene dunque uncomportamento non ludico, ma univoco e serio. Si puòperciò supporre che il reale comportamento dello juro-divyj antico-russo oscillasse tra queste due possibilità, indipendenza dal fatto se avesse egli fatto proprio il puntodi vista dei suoi spettatori o se, al contrario, obbligassel’uditorio ad accettare la sua posizione personale.

Il comportamento dello jurodivyj è pervaso di conte-nuti didattici. Essendo contraddistinto da legami perso-

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nali con Dio, lo jurodivyj è in certo modo circondato dauna micro-spazialità sacrale, per così dire, da una pla-centa di santità; ciò spiega il suo comportamento che, seesteriormente appare sacrilego, nella sua essenza non ètale (cfr. a questo riguardo gli eloquenti esempi di anti-comportamento degli jurodivye, pp. 123-125, 133-134).Appunto la santità interiore dello jurodivyj crea le con-dizioni per una percezione esterna antiteticamente con-trapposta: la circostanza che lo jurodivyj si trovi in unamicrospazialità sacrale, conferisce al suo comportamen-to un carattere ribaltato agli occhi dell’osservatore ester-no che si trova nel mondo dei peccatori. In altre parole,lo jurodivyj è in certo qual modo costretto a comportarsiin maniera “capovolta”, il suo comportamento è, a finididattici, contrapposto a tutto ciò che è considerato nor-male in questo mondo. Le caratteristiche dell’anticom-portamento si trasferiscono quindi dall’attore agli spet-tatori: il comportamento dello jurodivyj trasforma il gio-co in realtà, mettendo a nudo il carattere irreale, fittiziodel mondo circostante.

Allo jurodstvo, come mostrano Lichacëv e Pancenko(pp. 33-34, 41, 99-100, 167-168), è legato anche il com-portamento di Ivan il Terribile; è significativo il fattoche, come ha mostrato in un altro lavoro Lichacëv(1972), lo zar utilizzasse per sé il nome di Parfenij Uro-divyj. L’idea del dispotismo senza limite, divenuta laconcezione politica di Ivan il Terribile, è all’origine diuno specifico complesso psicologico. Convinto dellaprovenienza divina del suo potere, il Terribile presume-va che, come la popolazione devota non poteva giudica-re le azioni dello jurodivyj e doveva credere che dietro lasua indemoniatezza si nascondesse la santità, pur nonavendo la possibilità di giungere a tale conclusione sullabase di un qualche ragionamento razionale, così i suoisudditi avrebbero dovuto sottomettersi al suo potere di-vino indipendentemente dal carattere delle sue azioni.

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La norma del comportamento del santo – “la santitàrisiede nei migliori” – legava la beatitudine al meritopersonale. Questa formula, unita all’idea della prove-nienza divina del potere, poteva divenire la base dell’as-solutismo, ma contraddiceva decisamente il dispotismosenza limite, giacché alla sua base stava l’idea della sot-tomissione del signore illimitato alle limitazioni etico-re-ligiose. La norma del comportamento dello jurodivyj –“la santità risiede nei peggiori” – poiché rendeva la bea-titudine indipendente dal comportamento individuale(lo scandalo, l’umiliazione, l’assurdità delle cose terrenesottolineavano soltanto l’illimitatezza della divinabontà), se trasferita sul piano del comportamento stata-le, diveniva la base del dispotismo, in quanto permette-va al signore qualsiasi azione. D’altra parte, come abbia-mo già notato, il comportamento dello jurodivyj era di-sordinato, sfrenato, soltanto per l’osservatore esterno.Di conseguenza, lo jurodstvo del non-jurodivyj, del de-spota-zar o di qualunque altro tiranno, faceva sì che di-venisse abitudine per costui osservare dall’esterno ilproprio comportamento, il che portava alla teatralizza-zione di quest’ultimo.

Il comportamento del Terribile è lo jurodstvo senzasantità, lo jurodstvo non sanzionato dall’alto e può esse-re quindi considerato un modo di giocare allo jurodstvo,una sua parodia. Bisogna inoltre tener conto che perquei contemporanei, i quali erano testimoni del compor-tamento del Terribile, questo elemento ludico potevascomparire; per alcuni esso poteva essere associato aglistereotipi del tiranno delle agiografie o del tiranno anti-co, per altri allo stregone che ha venduto l’anima al dia-volo e che vive nel mondo capovolto22. Entrambe queste“letture” trasferivano il comportamento del Terribile dalpiano ludico a quello serio.

In tutta una serie di casi il gioco si impadronisce dellostesso attore ed egli si sottomette in pieno allo spontaneo

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manifestarsi dell’anticomportamento. Assai caratteristicoè il fatto che il comportamento del Terribile assai spessorasenti il sacrilegio. Egli non solo costringe i propriopricniki a ballare in maschera come fanno le mascheredel periodo natalizio, ma quando il principe Michailo Re-pnin preferisce la morte al peccaminoso indossare la “ma-schera”, lo zar ordina di ucciderlo in chiesa accanto all’al-tare durante la lettura del Vangelo (Kurbskij 1914, col.279; Solov’ëv 1960, p. 541): il teatro si trasforma in vita eil gioco acquista un carattere quasi rituale. Estremamenteeloquente è, ad esempio, la libera o meno sottomissionedel Terribile all’anticomportamento del periodo natali-zio23. Cosi, la mascherata “opricnica” del despota, quan-do gli opricniki indossano il saio e lo zar si proclama igu-meno di quel monastero carnevalesco (Polosin 1963, p.154), con tutta probabilità, è riconducibile all’influenza diquei giochi del periodo natalizio di cui scriveva nell’anno1651 il cronachista di Vjaz’ma Starec Grigorij nella suapetizione allo zar Aleksej Michajlovic, riferendo che da lo-ro a Vjaz’ma “si hanno giochi diversi e infami a partiredal Natale di Cristo fino al vespro dell’Epifania, nei qualisi impersonano i santi, si improvvisano monasteri conl’archimandrita, l’eremita, gli starci”24. L’anticomporta-mento ha le sue leggi e i suoi stereotipi, proprio come lipossiede il comportamento corretto e normale. In tal mo-do, il distacco dalle norme del comportamento corretto sirealizza in forme già pronte e presuppone il contatto conil contenuto legato a queste forme: il momento ludico ve-ro e proprio può anche spostarsi su un secondo piano, senon viene addirittura del tutto livellato.

Risulta dunque chiaro che il titolo stesso del libro diLichacëv e Pancenko deve essere oggetto di discussio-ne: gli autori hanno posto al centro del dibattito scienti-fico alcuni fenomeni storico-letterari e psicologici dellacultura russa di primaria importanza. Tuttavia, la defini-

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zione di questi fenomeni come “comici” necessita perlo-meno di ulteriori argomentazioni.

Non ci siamo fermati su tutti gli interessanti aspettidella psicologia della cultura presi in esame nel lavoropionieristico di Lichacëv e Pancenko. La serie di proble-mi sollevati dagli autori è così ampia e piena di prospet-tive, che la loro disamina si protrarrà, senza dubbio, an-cora per molto tempo. Tuttavia, già da ora è evidenteche quanto detto dagli autori costituisce una vera e pro-pria conquista scientifica della quale, in un modo o nel-l’altro, non potranno non tener conto gli studiosi futuri.

1 Ed. or.: 1977, Novye aspekty izucenija kul’tury Drevnej Rusi, «Vosprosyliteratury», 2, pp. 148-166; trad. it. 1982, “Nuovi aspetti nello studio della cul-tura dell’antica Rus’”, in A. N. Veselovskij, et al., La cultura nella tradizionerussa del XIX e XX secolo, a cura di D’A. S. Avalle, Torino, Einaudi, pp. 219-241, trad. it. S. Garzonio.

2 Lo okan’ è il tipo di pronuncia che conserva la distinzione tra o e a ato-ne, ad esempio la parola “acqua”, scritta vodà, viene pronunciata “vodà” enon “vadà”. Nel russo moderno si è invece affermato l’altro tipo di pronun-cia, lo akan’e, che non distingue più tra o e a atone (N.d.T.).

3 La metodica della “propria immedesimazione” nel testo non può, e pro-babilmente, non deve essere del tutto scartata e anzi, entro certi ragionevolilimiti, può risultare anche utile. È tuttavia necessario trasformarla da impulsoinconscio d’autore in procedimento di ricerca adottato coscientemente e tenu-to sotto controllo.

4 Lo jurodovyj è un tipo umano, caratteristico del Medioevo russo. Men-dico, tenuto in conto di santo e veggente, in lui si identificava secondo le cre-denze popolari la voce di Dio (cfr. Thompson 1975) (N.d.T.).

5 La opricnina era uno dei due regni distinti e indipendenti in cui fu sud-divisa la Moscovia da Ivan in Terribile. L’altro è la zemscina. Il termineopricnina stava in precedenza a indicare le terre riservate come possedimentopermanente alle vedove. Con il pretesto di difendere opricnina dalle mire deiboiari, Ivan IV la sottomise al proprio governo personale, lasciando lazemscina sotto la guida di un consiglio di boiari e riservandosi su di essa unasovranità formale. Successivamente, egli scatenò, valendosi degli opricniki,una guerra spietata contro la zemscina, ponendo le basi per la centralizzazionedello Stato russo e riducendo le mire particolaristiche dei boiari.

Gli opricniki erano gli uomini delle truppe speciali, devote a Ivan IV, dacostui impiegate per sbarazzarsi dei nemici interni dello Stato moscovita.Noti per la loro crudeltà ed efferatezza (si pensi al saccheggio di Novgoroddel 1570) gli opricniki portavano uniformi nere e avevano come loro inse-

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gne una testa di cane e una scopa, simboli di devozione al Terribile e alloStato moscovita.

6 Quest’ultima considerazione è assai importante, giacché siamo semprepiù spesso testimoni del tentativo di non sviluppare o meditare le idee di Ba-chtin, ma di adottarle meccanicamente in campi dove la loro stessa utilizza-zione dovrebbe essere oggetto di una speciale analisi. Ad esempio, possiamocitare il libro di Belkin, Gli skomorochi russi, nel quale l’autore fin da princi-pio, senza fondati argomenti, postula: “La cultura popolare del riso era pro-pria della Rus’ medievale proprio come dell’Occidente medievale”, e succes-sivamente afferma addirittura che “le varie forme di riso raggiunsero nellaRus’ in maggior misura e forse prima che negli altri paesi europei una loromaturità ideologica, al principio come forma di difesa, poi come forma di of-fensiva sociale” (Belkin 1975, pp. 7-9). Dal contesto risulta poi chiaro che per“maturità ideologica” della “cultura del riso” Belkin intende la satira. Comesi può ricollegare questa interpretazione all’affermazione categorica di Bach-tin che la satira è sempre monovalente e seria? Negando determinati fenome-ni, essa per principio si contrappone alla cultura del riso, la quale è inveceambivalente, nega e afferma allo stesso tempo, e si trova al di fuori di qualsia-si forma del mondo serio. La complessa, e non sempre ovvia, concezione diBachtin è stata qui semplificata e addomesticata, acquistando così un caratte-re scientifico-ornamentale.

7 Cfr. Smirnov 1914, Appendice (Materialy dlja istorii drevnerusskojpokajannoj discipliny), p. 54 (n. 38), p. 151 (n. 14), p. 125 (n. 114), cfr. anchep. 212. Cfr. anche p. 125 (n. 115b) sulla penitenza riservata ai giochi.

8 Smirnov 1914, Appendice, p. 62 (n. 16), p. 150 (n. 7); Almazov 1894,pp. 149, 205, 211, 274.

9 Sbornik poucenij XVII v., manoscritto della Biblioteca pubblica di StatoM. E. Saltykov-Scedrin, Q. I., n. 1307, f. 247.

10 Cfr. l’esorcismo contro la corruzione con la caratteristica menzione dei“calvi e dei burloni” come potenziali portatori del male (Efimenko 1878, p.191).

11 Le opere di questo genere sono accompagnate nei manoscritti da anno-tazioni del tipo “trascritto da libri polacchi”, oppure “dai libri del regno” [laPolonia] ecc. (cfr. Demkova 1965, p. 95). Anche supponendo che tali annota-zioni posseggano un carattere preventivo nei confronti della censura, essenon sono tuttavia meno esemplificative: il loro autore sottintende che questitesti erano normali appunto per la sfera religiosa della vita quotidiana occi-dentale.

12 Maksimov 1912, pp. 14-15, e anche Gusev 1974. Cfr. sui giochi similidella settimana grassa: Scejn 1898, p. 303 e Azadovskij 1924, p. 32.

13 Spettacolo teatrale popolare che si teneva nelle piazze per iniziativa diattori girovaghi. Esso era caratterizzato da rozzi scenari montati su un carro(N.d.T.).

14 I lubki erano quadretti ingenui e primitivi che servivano al cantastorieper le sue esibizioni sulle pubbliche piazze e alle fiere (N.d.T.).

15 Secondo le parole di Maskevic (1611) i boiari russi ridevano delle dan-ze occidentali, “consideravano sconveniente per l’uomo dabbene ballare (...)L’uomo dabbene – dicevano – deve stare seduto al suo posto e divertirsi sol-

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tanto dei lazzi del buffone e non deve mai diventare un buffone per il diverti-mento degli altri: ciò è sconveniente!” (cfr. Maskevic 1834, pp. 61-62); cfr. leosservazioni analoghe di S. Collins (1671) (Kollins 1846, p. 11). Cfr. Fa-mincyn (1889, pp. 168-69).

16 Il termine indica il fenomeno storico-sociale degli jurodivye nella suaglobalità (N.d.T.).

17 A sua volta, anche il “comportamento comico” può legarsi a elementiculturali stranieri, proprio come può essere associato al principio diabolico.In uno degli ammaestramenti antico-russi si legge: “non si addice al monacoridere e burlare come uno straniero, e così a nessun cristiano ortodosso”(Smirnov 1914, Appendice, p. 176, n. 3).

18 Gli skomorochi erano dei cantastorie e giullari, teatranti e burattinai, lacui attività è documentata nelle fonti dall’XI secolo almeno fino alla secondametà del XVII secolo (N.d.T.).

19 Slovo Daniila Zatocnika pò redakcijam XII i XIII vv. i ich peredelkam, Izd.AN SSSR, Leningrad 1932, p. 70.

20 Zitie prepodobnogo Prokopija Ustjuzskogo, Sankt Peterburg 1893, pp.57-58. Cogliamo l’occasione per correggere un errore di stampa nel libro diLichacëv e Pancenko nel quale si fornisce un’errata indicazione delle pagine.

21 Cfr., in tal senso, la caratteristica correlazione paremiologica “a Dio iceri” e “al diavolo gli attizzatoi” (in russo “Bogu sveci i certu kocergi”).

22 Cfr. la caratteristica descrizione delle azioni del Terribile fornita daKurbskij (1914, col. 313): secondo le sue parole, lo zar: “riunisce contro il ve-scovo i suoi orribili concili di eretici satanici e la maledetta assemblea degli al-leati di Caifa, si accorda con essi come Erode con Pilato, e quelli, insieme allabelva, vengono nella grande chiesa e si siedono nel luogo Sacro”. L’immaginedel Terribile è presentata come l’immagine della belva-anticristo che siede nel“luogo Sacro”. Ovviamente non si tratta semplicemente di un procedimentoretorico, l’autore è convinto della natura satanica degli avvenimenti descritti.

23 In questo senso è di rilievo il fatto che il Terribile si scopra conoscitoredell’opera degli skomorochi proprio nel momento in cui questo fenomenoviene identificato con i giochi pagani, e viene quindi combattuto dalla Chiesaall’insegna della lotta contro il paganesimo. Cfr. in particolare, l’attività delConcilio dei Cento Capitoli, convocato incredibilmente proprio per iniziativadel Terribile!

24 La supplica dello starec Grigorij è pubblicata in Kapterev (1913, p.181). L’uso di mascherarsi da monaci nel periodo natalizio si era in parte con-servato ancora nel XX secolo (cfr. Zavojko 1914, p. 138).

IL “MONDO DEL RISO”

Il decabrista nella vita. Il gesto, l’azione, il comportamento come testo1

Jurij M. Lotman

Le leggi storiche non si attuano automaticamente.Nella complessa e contraddittoria corsa della storia s’in-crociano e si scontrano processi nei quali l’uomo è unagente passivo, e altri nei quali la sua attività si manifestanella forma più diretta e immediata. Per capire questiultimi (a volte definiti come l’aspetto soggettivo del di-venire storico) è necessario studiare non soltanto le pre-messe storico-sociali di una determinata situazione, maanche il carattere specifico di colui che agisce: l’uomo.Se studiamo la storia dal punto di vista dell’attività degliuomini non possiamo fare a meno di analizzare le pre-messe psicologiche del loro comportamento. Ma anchel’aspetto psicologico ha vari livelli. Non v’è dubbio chealcuni momenti del comportamento degli uomini, delleloro reazioni alle situazioni esterne siano propri dell’uo-mo in quanto tale. Questo livello è di competenza dellopsicologo, il quale, anche quando prende in considera-zione il materiale storico, lo fa soltanto per trovarviun’illustrazione delle leggi psicologiche in quanto tali.

Tuttavia, sulla base di questo strato psicologico ge-nerale, e sotto l’influsso di processi storico-sociali,estremamente complessi, si costituiscono forme speci-fiche di comportamento storico e sociale, tipi epocali esociali di reazione, determinate idee circa le azioni giu-ste ed errate, lecite e proibite, dotate di valore e privedi esso. Si creano regolatori del comportamento come

il pudore, la paura, l’onore. Nella coscienza umana en-trano complesse norme semiotiche d’ordine etico, reli-gioso, estetico, pratico e d’altro tipo, sullo sfondo dellequali si costituisce la psicologia del comportamento digruppo.

Un comportamento di gruppo come tale, però, nonesiste nella realtà. Come le norme di una lingua sono at-tuate e nello stesso tempo inevitabilmente violate in mi-gliaia di parlate individuali, il comportamento di grupposi costituisce mediante le attuazioni e le violazioni che diesso si fanno nel sistema comportamentale individualedei molteplici membri di una collettività. Ma anche uncomportamento “irregolare”, che trasgredisca le normedi un dato gruppo sociale, non è affatto casuale. Le vio-lazioni delle norme correnti di comportamento – lestramberie, le “follie” dell’uomo prima e dopo l’epocadelle riforme petrine, del nobile e del mercante, del con-tadino e del monaco – differivano nettamente tra loro(anche se, naturalmente, c’erano varianti “nazionali”,comuni a tutti, di violazione della norma). Anzi la nor-ma e le sue violazioni non si contrappongono come iner-ti datità, ma incessantemente trapassano l’una nell’altra.Si formano regole per le violazioni delle regole e anoma-lie necessarie per la norma. Il comportamento reale del-l’uomo oscillerà tra questi poli. Inoltre i vari tipi di cul-tura imporranno una tendenza soggettiva a orientarsiverso la norma (si esalta il comportamento “regolare”, lavita “secondo la consuetudine”, “come fanno gli altri”,“secondo i comandamenti” ecc.), oppure verso la suaviolazione (aspirazione all’originalità, all’eccezionalità,alla stravaganza, alla “pazzia”, alla svalutazione dellanorma mediante l’unione ambivalente degli estremi).

Il comportamento degli uomini è sempre multiforme,non dimentichiamolo mai. Eleganti astrazioni come “ilcomportamento romantico”, “il tipo psicologico del gio-vane nobile russo del primo Ottocento” ecc. apparter-

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ranno sempre al novero delle costruzioni sommamenteastratte, a parte il fatto che ogni elevazione a norma de-gli stereotipi psicosociali presuppone varianti in base al-l’età (“infantile”, “giovanile” ecc.: “ridicolo è il vecchioscapestrato / Ridicolo è il giovane posato”), al sesso ecc.

La psiche di ogni essere umano è una struttura tal-mente complessa, articolata in tanti livelli e organizzatain così molteplici forme particolari da rendere pratica-mente impossibile la comparsa di due individui identici.

Ma, pur tenendo nella debita considerazione la ric-chezza delle varianti psicologiche individuali e la molte-plicità dei comportamenti possibili, non si deve dimenti-care che di fatto per la società esistono non già tutti gliatti di un individuo ma soltanto quelli ai quali, all’inter-no di un dato sistema culturale, si attribuisce un signifi-cato sociale. In tal modo la società, chiarendo il sensodel comportamento del singolo, lo semplifica e lo tipi-cizza conformemente ai propri codici. Da parte sua l’in-dividuo integra, per così dire, la propria struttura, in-troiettando questo punto di vista della società e diventapiù “tipico” non solo per l’osservatore esterno, ma an-che per se stesso in quanto soggetto.

Di conseguenza, se analizziamo la struttura del com-portamento degli uomini di una determinata epoca sto-rica, dovremo sempre tener presente il legame tra i no-stri costrutti mentali e le molteplici varianti, il comples-so intreccio dialettico di ciò che è regolare e di ciò che ècasuale, senza di che i meccanismi della psicologia socia-le non possono essere intesi.

Ma, vi è stato un particolare comportamento quoti-diano del decabrista, tale da distinguerlo non solo daireazionari e dagli “oscurantisti”, bensì anche dalla mas-sa dei nobili liberali e colti del suo tempo? Lo studiodei materiali dell’epoca permette di rispondere a questadomanda positivamente. Lo sentiamo, del resto, intuiti-vamente in quanto eredi culturali dello sviluppo storico

IL DECABRISTA NELLA VITA

precedente. Così, prima ancora di leggere i commenticritici, sentiamo come un Cackij [protagonista di Chedisgrazia l’ingegno! di Griboedov (N.d.T.)] decabrista.Eppure Cackij non ci è mostrato durante una riunionedegli affiliati alla “lega segreta”, ma lo vediamo in am-biente domestico, nella casa di un nobile moscovita. Al-cune frasi dei suoi monologhi, che lo qualificano comenemico della schiavitù e dell’ignoranza, sono senzadubbio essenziali per la nostra intelligenza del perso-naggio, ma non meno importante è la sua maniera dicomportarsi e di parlare. Proprio in base al comporta-mento di Cackij in casa Famusov, in base al suo rifiutodi un determinato tipo di comportamento quotidiano(“Sbadigliare in casa dei protettori, / Fare visita per ta-cere, inchinarsi, pranzare, / Offrire la sedia, porgere ilfazzoletto...”) Famusov lo definisce di colpo “uomo pe-ricoloso”. Numerosi documenti in cui si riflettono i variaspetti del comportamento quotidiano di un rivoluzio-nario di estrazione nobiliare, permettono di parlare deldecabrista non solo come del fautore di un determinatoprogramma politico, ma anche come di un tipo psicolo-gico e storico-culturale.

Non bisogna inoltre dimenticare che ogni uomo nelsuo comportamento non attua un solo programma d’a-zione, ma fa costantemente una scelta, attualizzandouna sola strategia per un vasto insieme di possibilità.Ogni singolo decabrista nella sua condotta quotidianaera lungi dal comportarsi sempre come un decabrista epoteva agire da nobile, da ufficiale (nella fattispecie: us-saro, ufficiale della Guardia, stratega dello Stato mag-giore), da aristocratico, da uomo, da russo, da europeo,da giovane ecc.

Eppure, in tutto questo complesso insieme di possi-bilità c’era anche un comportamento speciale, un modoparticolare di parlare, agire e reagire, proprio appuntodel membro di una società segreta. È la natura di questo

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particolare comportamento a costituire l’oggetto del no-stro studio. Questo comportamento non sarà da noi de-scritto in quelle sue manifestazioni che coincidevanocon la fisionomia generale del nobile colto russo dell’ini-zio dell’Ottocento. Cercheremo di mettere in rilievo sol-tanto i tratti specifici impressi dal decabrismo sulla con-dotta pratica di quelli che siamo soliti chiamare “rivolu-zionari nobili”.

S’intende, ogni decabrista era un uomo vivo e in uncerto senso si comportava in un modo irripetibile: Ry-leev nella sua vita personale non assomiglia a Pestel’, eOrlov a Nikolaj Turgenev o a Caadaev. Questa conside-razione non può però indurci a dubitare della validitàdella nostra impostazione. Il fatto che il comportamentodegli uomini sia individuale non rende illegittimo lo stu-dio di problemi come la “psicologia dell’adolescenza” (odi qualsiasi altra età), “la psicologia della donna” (o del-l’uomo) e, in ultima analisi, la “psicologia dell’uomo”.La condizione della storia come campo di manifestazio-ne di molteplici leggi sociali generali deve essere integra-ta con una visione della storia come portata dall’attivitàdegli uomini. Se si trascurano i meccanismi storico-psi-cologici delle azioni umane, si resterà inevitabilmenteprigionieri di idee assai schematiche. Anzi, proprio ilfatto che le leggi storiche non si attuano direttamente,ma attraverso i meccanismi psicologici dell’uomo costi-tuisce di per sé un meccanismo di primaria importanzadella storia, in quanto libera quest’ultima da una fatali-stica prevedibilità dei processi e quindi non rende l’inte-ro processo storico del tutto superfluo.

I decabristi erano in primo luogo uomini d’azione.Qui si deve vedere sia il loro programma politico-socialedi trasformare concretamente la realtà politica russa, sial’esperienza personale della maggior parte di essi comeufficiali combattenti, cresciuti in un’epoca di guerre eu-ropee, inclini a pregiare l’ardimento, l’energia, lo spirito

IL DECABRISTA NELLA VITA

di iniziativa, la fermezza, la tenacia, non meno della ca-pacità di redigere un documento programmatico o disostenere una disputa teorica. Di regola (tranne, natural-mente, alcune eccezioni, come, ad esempio, Nikolaj Tur-genev) le dottrine politiche non li interessavano in quan-to tali, ma come criteri di valutazione e di scelta di de-terminate linee di azione. Questo orientamento attivisti-co s’avverte nelle ironiche parole di Lunin secondo cuiPestel’ propone “prima di scrivere l’Enciclopedia, e poifare la Rivoluzione” (Lunin 1927, p. 179). Anche queimembri delle società segrete che erano più avvezzi al la-voro negli uffici degli stati maggiori, sottolineavano che“l’ordine e le forme” sono necessari per la “miglior riu-scita dell’azione” (parole di Nikolaj S. Trubeckoj) (Lu-nin 1925, p. 23).

In questo senso, poiché non ci è possibile nell’ambitodel presente lavoro affrontare tutto l’insieme dei proble-mi che una caratterizzazione storico-psicologica del de-cabrismo comporterebbe, è del tutto giustificato pren-dere qui in esame soltanto un aspetto: il comportamentodel decabrista, le sue azioni, e non il mondo interioredelle emozioni.

È necessario fare un’altra precisazione: i decabristierano rivoluzionari d’estrazione nobiliare, e il loro com-portamento era quello dei nobili russi e sostanzialmenteera conforme alle norme costituitesi tra l’epoca di PietroI e la guerra antinapoleonica del 1812. Anche se rifiuta-vano le forme di comportamento proprie del loro ceto, econtro di esse lottavano e le confutavano nei loro trattatiteorici, i decabristi, nella loro pratica quotidiana, eranoa esse organicamente legati.

Comprendere e descrivere il comportamento del de-cabrista, senza inserirlo nel più ampio problema delcomportamento del nobile russo tra il 1810 e il 1825, èimpossibile. Eppure noi rinunciamo a priori a questosmodato ampliamento dell’argomento: tutto ciò che la

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vita attiva di un decabrista aveva in comune con quelladi un qualsiasi nobile russo del suo tempo sarà da noiescluso dal campo di analisi.

Il significato dei decabristi nella storia della vita socia-le russa non si esaurisce negli aspetti delle loro attivitàche finora hanno maggiormente richiamato l’attenzionedegli studiosi: l’elaborazione di programmi e teorie poli-tico-sociali, le riflessioni sulla tattica della lotta rivoluzio-naria, la partecipazione alle discussioni letterarie, l’atti-vità artistica e critica. A questi aspetti (e a molti altri, esa-minati nella vasta letteratura critica sull’argomento) se nedeve aggiungere uno, rimasto finora in ombra: i decabri-sti profusero notevoli energie creative per dar vita a untipo particolare di russo, nettamente distinto, per il suomodo di comportarsi, da ogni antecedente storico. Inquesto senso essi furono degli autentici innovatori. Que-sto specifico comportamento di un rilevante gruppo digiovani che per talento, carattere, estrazione sociale, le-gami personali e familiari, prospettive di carriera (la mag-gior parte dei decabristi non occupava, e non poteva oc-cupare, per via dell’età, cariche elevate nella gerarchiastatale, ma una notevole parte di essi apparteneva allacerchia che apriva la via a tali cariche in futuro) era alcentro dell’attenzione pubblica esercitò un forte influssosu tutta una generazione di russi, per i quali rappresentòun’esemplare scuola di impegno civile. Il movimento po-litico-intellettuale della nobiltà rivoluzionaria produsseanche un carattere umano, dotato di specifici aspetti e unparticolare tipo di comportamento. Individuarne alcunitratti fondamentali è lo scopo del presente lavoro.

È difficile indicare un’altra epoca della vita russa incui il discorso orale – conversazioni, discorsi amichevoli,colloqui, orazioni, sdegnate filippiche – abbia svolto unaparte così importante. Dai primordi del movimento, chePuskin felicemente definì come “amichevoli discussio-

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ni” fatte a tavola “tra un Lafitte e un Cliquot”, fino alletragiche deposizioni fatte di fronte al Comitato d’inchie-sta, i decabistri stupiscono per la loro “loquacità”, per laloro tendenza a fissare in parole, sentimenti e idee.Puskin aveva ragione quando così tratteggiava una riu-nione della Lega della Prosperità:

Vitijstvom rezkim znamenity,Sbiralis’ cleny sej sem’i ...

[Famosi per l’aspra oratoria, / Membri di questa famiglias’adunavano ...].

Tutto ciò fece sì che, dal punto di vista delle norme edelle idee di un periodo successivo, i decabristi potesse-ro essere accusati di fare della retorica e di parlare inve-ce di agire. Non solo i “nichilisti” degli anni Sessanta,ma anche i contemporanei dei decabristi, che taloracondividevano gran parte delle loro idee, erano inclini apronunciarsi in questo senso. Come ha fatto notare laNeckina, Cackij dal punto di vista del decabrismo rim-provera Repetilov per il suo vaniloquio e la sua retorica.Ma lui stesso non sfuggì a questo rimprovero da parte diPuskin: “Tutto quello che egli dice è molto intelligente.Ma a chi dice tutto questo? A Famusov? A Skalozub?Alle vecchie signore moscovite durante il ballo? AMolcalin? È una cosa imperdonabile. La prima caratte-ristica di una persona intelligente è capire al volo conchi si ha a che fare (…)”2.

Vjazemskij, contestando nel 1826 la legittimità del-l’accusa di regicidio mossa ai decabristi, sottolineerà cheil regicidio è un atto. Viceversa, a suo avviso, da partedei congiurati non era stato compiuto alcun tentativo dipassare dalle parole ai fatti. Egli definisce il loro com-portamento come “bavardage atroce” (Lotman 1960b,p. 134) e contesta fermamente il diritto di condannarequalcuno per delle parole, quasi fossero azioni compiu-

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te. Oltre alla difesa giuridica delle vittime di una ini-quità, nelle sue parole si rileva anche che le “chiacchie-re”, secondo Vjazemskij, nell’operato dei congiurati pre-ponderavano sui “fatti”. Le testimonianze di questo tiposi potrebbero moltiplicare.

Faremmo però un madornale errore se, trasferendo,all’epoca dei decabristi, norme prese da altri periodistorici, vedessimo nel valore particolare dell’“aspraoratoria” null’altro che il lato debole del decabrismo, eli giudicassimo con lo stesso metro con cui Cernysev-skij giudicava gli eroi di Turgenev. Il nostro compitonon è quello, privo di senso, di “condannare” o di “as-solvere” personaggi i cui nomi appartengono ormai al-la storia, bensì quello di cercare di chiarire la soprad-detta peculiarità.

I contemporanei non si limitavano a porre in rilievola “loquacità” dei decabristi: essi sottolineavano anchel’aspra franchezza dei loro giudizi, la categoricità dellesentenze, la tendenza “sconveniente” dal punto di vistadelle norme del gran mondo, a chiamare le cose col lo-ro nome, evitando le convenzioni eufemistiche delleformule mondane, la loro aspirazione costante a espri-mere senza tanti rigiri la loro opinione, incuranti del ri-tuale avallato dalla consuetudine e della gerarchia os-servata nel comportamento linguistico mondano. Perquesta asprezza e per l’ostentata trascuranza del “gala-teo linguistico” era celebre Nikolaj Turgenev. Negliambienti vicini ai decabristi la marcata inurbanità e“sgarbatezza” del comportamento linguistico erano de-finite come comportamento “spartano” o “romano”,ed erano contrapposte a quello “francese”, valutato intermini negativi.

I temi, che nella conversazione mondana erano inter-detti oppure trattati eufemisticamente (per esempio, ilpotere dei proprietari terrieri, e il favoritismo nei pub-blici uffici ecc.) diventavano oggetto di aperta discussio-

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ne. Il fatto è che il comportamento della società nobilia-re, europeizzata, dell’epoca di Alessandro I, era essen-zialmente duplice. Nella sfera delle idee e del “linguag-gio ideologico” erano state assimilate le norme della cul-tura europea cresciuta sul terreno dell’Illuminismo set-tecentesco. La sfera del comportamento pratico, legataalla consuetudine, all’ambiente quotidiano, alle condi-zioni reali dell’economia feudale, alle reali circostanzedel servizio statale, esulava dal dominio dell’interpreta-zione ideologica, dal punto di vista della quale essa “eracome se non esistesse”. Ovviamente, nella pratica lingui-stica essa si collegava all’elemento orale, colloquiale, nontrovando che un minimo riscontro in testi di alto valoreculturale. Si venne così formando una gerarchia di com-portamenti strutturata secondo il principio di accresci-mento del valore culturale (il che coincideva con un au-mento del grado di semioticità). Nello stesso tempo siseparava uno strato inferiore, puramente pratico, chedal punto di vista della coscienza teorizzante “era comese non esistesse”.

Era proprio questa pluralità di comportamenti, lapossibilità di scegliere uno stile di comportamento a se-conda della situazione, la duplicità inerente alla distin-zione fra il pratico e l’ideologico, a caratterizzare il russod’avanguardia dell’inizio del XIX secolo. Ed era tuttoquesto a differenziarlo dal rivoluzionario d’estrazionenobiliare (si tratta di una questione di grande importan-za, poiché è facile distinguere il tipo di comportamentodi Skotinin [personaggio rozzo e retrivo del Minorennedi Fonvizin (N.d.T.)] dalla figura di Ryleev; ha moltopiù significato contrapporre Ryleev a Del’vig, oppureNikolaj Turgenev al fratello Aleksandr).

Il decabrista col suo comportamento eliminava la ge-rarchicità e la varietà di stili dell’agire. Prima di tutto ve-niva eliminata la differenza tra linguaggio scritto e parla-to: l’alto grado di organizzazione, la terminologia politi-

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ca rigorosa, la compiutezza sintattica del discorso scrittoerano trasferite nella sfera orale. Non senza fondamentoFamusov poteva dire che Cackij “parla come scrive”.Non si tratta in questo caso di una semplice battuta,poiché il linguaggio di Cackij si distingue nettamente daidiscorsi degli altri personaggi proprio per il suo caratte-re libresco. Egli parla come scrive in quanto vede ilmondo nelle sue manifestazioni ideologiche anziché inquelle quotidiane.

Al tempo stesso il comportamento puramente prati-co non diventava soltanto oggetto di interpretazione neitermini e nei concetti di carattere ideologico e filosofi-co, ma acquistava anche un valore segnico, passandodalla sfera delle azioni non valutate nel novero degli attiinterpretati come “nobili” ed “elevati” oppure “disgu-stosi”, “infami” (nella terminologia di Nikolaj Turge-nev) e “abietti”3.

Facciamo un esempio estremamente espressivo.Puskin annotò questa sintomatica conversazione: “Unavolta Del’vig invitò Ryleev in una casa di piacere. – Sonosposato, – rispose Ryleev. – E con questo? – ribatté Del’-vig. – Non puoi andare al ristorante solo perché a casahai la cucina?” (Puskin 1949, p. 159).

Questo dialogo tra Del’vig e Ryleev è interessantenon tanto per una ricostruzione dei reali aspetti biogra-fici del loro comportamento (entrambi erano uomini vi-vi, le cui azioni potevano essere regolate da numerosifattori e dare luogo, al livello delle scelte quotidiane, auna quantità innumerevole di varianti), quanto per unacomprensione del loro atteggiamento verso il principiostesso del comportamento. Siamo di fronte a uno scon-tro tra un atteggiamento “ludico” e uno “serio” verso lavita. Ryleev è uomo di comportamento serio. Non sol-tanto nella sfera rarefatta delle costruzioni ideologiche,ma anche nella vita quotidiana questo orientamento pre-suppone che a ogni situazione significativa corrisponda

IL DECABRISTA NELLA VITA

un’unica norma di azione corretta. Del’vig, come i mem-bri dell’“Arzamas” o della “Lampada verde” [Circoliletterari pietroburghesi del primo Ottocento (N.d.T.)],mette viceversa in atto un comportamento ludico so-stanzialmente ambivalente, trasferendo nella vita reale lasituazione del gioco, che in determinate circostanze au-torizza la sostituzione convenzionale di un comporta-mento “corretto” con quello opposto.

I decabristi coltivavano la serietà come norma di com-portamento. Non per nulla Zavalisin (1908, p. 10) rileva-va che egli “era sempre stato serio” e “non aveva mai gio-cato” neppure in tenera età. Altrettanto negativo era l’at-teggiamento dei decabristi verso il gioco verbale comeforma di comportamento linguistico. Nel citato scambiodi battute i due interlocutori parlano, a ben guardare, duelingue diverse: Del’vig non chiede che le sue parole ven-gano prese sul serio, come enunciazione di principi mora-li: a lui interessa l’arguzia dell’espressione, il mot. Ryleevinvece non può gustare un paradosso quando si tratta diverità etiche e ogni sua dichiarazione è un programma.

Con estrema chiarezza l’antitesi tra gioco e impegnocivile fu espressa da Milonov in un’epistola a Zukovskij,da cui appare fino a che punto fosse divenuta coscientela spaccatura che divideva la giovane letteratura pro-gressista.

(...) ostanemsja my kazdyi pri svoëm –S galimat’ëju ty, a ja s parnasskim zalom;Zovis’ ty Schiller’om, zovus’ ja Juvenalom;Potomstvo sudit nas, a ne tvoi druz’ja,A Bludov, kazetsja, mez nami ne sud’ja.(Milonov 1971, p. 537)

[(...) ognuno resti con quel che ha: / Tu con l’astrusità, iocon l’aculeo del Parnaso; / Sii pure Schiller, io sarò Giove-nale; / I posteri ci giudicheranno, non gli amici tuoi, / EBludov tra noi non fa da giudice].

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Abbiamo qui un paradigma completo di opposizioni:astrusità (gioco verbale, scherzo fine a se stesso) e satira,elevata, impegnata e seria; Schiller (qui in quanto autore diballate, tradotte da Zukovskij); si veda nell’articolo di Kü-chelbecker (Kjuchel’beker) Onapravlenii nasej poezii (Sul-la tendenza della nostra poesia...) lo sprezzante giudizio suSchiller come autore di ballate e modello di Zukovskij (“ilnon maturato Schiller”)4, il cui nome si associa agli intrec-ci fantastici delle ballate e Giovenale visto come poeta-cit-tadino; il giudizio di un’élite letteraria, l’opinione di unacerchia ristretta e chiusa (sull’irritazione che seguaci di Ka-ramzin provocavano nei loro avversari con l’abitudine dirichiamarsi all’opinione di “illustri amici” ha lasciato chia-ra testimonianza Nikolaj Polevoj)5 e l’opinione dei posteri.Per farsi un’idea completa del significato dell’antitesi deli-neata da Milonov basta ricordare che qualcosa di moltosomigliante (compreso l’attacco a Bludov) si trova in unacritica rivolta da Puskin a Zukovskij all’inizio degli anniVenti (vedi la lettera a Zukovskij, datata 20 aprile 1825).

Per Del’vig la visita a “una casa di piacere” entra nel-la sfera del comportamento quotidiano, che non ha al-cun rapporto con quello ideologico. La possibilità di es-sere uno nella poesia e un altro nella vita non è da luiconsiderata un dualismo e non getta ombra sul caratterenel suo complesso. Il comportamento di Ryleev è inveceper principio unitario, e per lui un simile atto sarebbeequivalso a un riconoscimento teorico del diritto all’a-moralità. Quel che per Del’vig non ha significato (non èsegno), per Ryleev sarebbe veicolo di contenuto ideolo-gico. Così la divergenza tra il libertario Del’vig e il rivo-luzionario Ryleev si evidenzia non solo sul piano delleidee o delle concezioni teoriche, ma anche nella qualitàdel loro comportamento quotidiano. La scuola di Ka-ramzin aveva affermato la varietà dei comportamenti e illoro avvicendarsi come norma dell’atteggiamento poeti-co verso la vita. Karamzin scriveva:

IL DECABRISTA NELLA VITA

Cuvstvitel’noj duse ne srodno l’izmenjat’sja?Ona mjagka kak vosk, kak zerkalo jasna (...)Nel’zja ej dlja tebja edinoju kazat’sja (...).(Karamzin 1966, pp. 242-243)

[Di un’anima sensibile non proprio il mutare? / È mollecome cera e come specchio chiara... / Essa non può per teapparire sempre uguale (...)].

Per il romanticismo poetica era invece l’unità delcomportamento, l’indipendenza degli atti dalle circo-stanze.

“Uno era ovunque, freddo, immutabile”, scrisse Ler-montov di Napoleone (1954, p. 183). E Bestuzev aPuskin: “Sii te stesso” (Puskin 1937b, p. 142). Il sacer-dote Myslovskij, tra le sue osservazioni sul comporta-mento di Pestel durante l’istruttoria, annota: “Sempre edovunque era uguale a se stesso. Nulla faceva vacillar lasua fermezza”6.

D’altra parte l’ideale romantico dell’unità di com-portamento non discordava dal concetto classicisticodi eroismo, coincidendo anzi col principio dell’“unitàd’azione”. Il “proteismo” karamziniano s’avvicinava inquesto senso alla “pluralità di piani” del realismo.Puskin, contrapponendo l’unidimensionalità del com-portamento dei personaggi di Molière alla poliedricavitalità dei personaggi di Shakespeare, scrisse in unben noto appunto: “Le figure create da Shakespearenon sono come in Molière tipi di una passione, di unvizio; ma esseri vivi, ricolmi di molte passioni e di mol-ti vizi; le circostanze dispiegano dinnanzi allo spettato-re i loro caratteri multiformi e poliedrici” (Puskin1949, p. 159).

Inoltre, se l’artista, classico o romantico, nel passaredall’esperienza di vita al testo poetico da lui creato rac-coglieva consapevolmente un solo piano, poiché lo rite-neva l’unico degno di rappresentazione letteraria, nel

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passaggio inverso, cioè dalla percezione del testo daparte di un lettore al comportamento di questo lettore,ha luogo una trasformazione: il lettore, percependo iltesto come programma del suo proprio comportamentoquotidiano, presuppone che certi aspetti dell’attivitàpratica nell’ideale non devono trovare posto. Il fattoche il testo non ne parli è percepito come un invito aescludere determinati tipi di attività dal comportamen-to reale. Così, ad esempio, la rinuncia al genere dell’ele-gia amorosa nella poesia, poté essere percepita come in-vito a rinunciare all’amore nella vita. Va sottolineata lagenerale “letterarietà” del comportamento dei romanti-ci, la loro tendenza a considerare segnici tutti gli atti.

Questo, da una parte, porta a un aumento della fun-zione del gesto nel comportamento quotidiano. Il “ge-sto” è un atto che non tanto, e non soltanto ha una fina-lità pratica, quanto un riferimento a un significato. Il ge-sto è sempre segno e simbolo. Perciò ogni azione sullascena, compresa quella che imita il completo affranca-mento della teleologia scenica, è gesto; il suo significatoè l’idea dell’autore.

Da questo punto di vista il comportamento quotidia-no del decabrista a un osservatore moderno sembrereb-be teatrale, calcolato per uno spettatore. Ma si deve bencapire che la “teatralità” del comportamento non signi-fica affatto una sua insincerità o una qualsiasi altra carat-teristica negativa.

È soltanto un segnale del fatto che il comportamentoacquista un senso sovraquotidiano, diventa cioè oggettod’attenzione, e a essere valutati non sono gli atti, ma illoro senso simbolico. D’altro lato, nel comportamentoquotidiano del decabrista, si invertono i consueti rap-porti tra parola e azione.

Nel corrente comportamento linguistico di quell’e-poca il rapporto tra atti e discorsi si configurava secon-do questo schema:

IL DECABRISTA NELLA VITA

espressione → contenutoparola → azione

La parola, designando l’azione, tende a commutazio-ni di carattere eufemistico, perifrastico o metaforico. Sigenera così, da una parte il linguaggio corrente del granmondo col suo “si servì del fazzoletto” al margine socia-le inferiore e con le denominazioni francesi per azioni“russe” a quello superiore. Il nesso – genetico e tipologi-co – tra questo linguaggio e la scuola di Karamzin eracolto con chiarezza dai contemporanei che accusavanoparimenti di leziosità sia il linguaggio letterario dei ka-ramzinisti sia quello del gran mondo. La tendenza ad al-lentare e a “scollare” il legame tra la parola e il suo refe-rente, propria del linguaggio del gran mondo, spinsesempre Lev Tolstoj a smascherare l’ipocrisia dei discorsidei personaggi dell’alta società.

D’altra parte, sul medesimo principio di “nobilitazio-ne” verbale di una bassezza si costruiva il linguaggiocancelleresco, che usava l’espressione “l’agnellino incar-tato” per indicare la bustarella, che eufemisticamente di-ceva “qui ci vuole un rapporto” nel senso di “bisognaaumentare la somma”, e attribuiva ai verbi “dare” e“prendere” specifiche accezioni. Si veda il coro dei fun-zionari in Jabeda [Il Cavillo] di Kapnist:

Beri, bol’soj tut net nauki;Beri cto tol’ko mozno vzjat’.Na cto z priveseny nam ruki,Kak ne na to, ctob brat’?(Kapnist 1960, p. 358)

[Prendi, non ci vuol molto a farlo; / Prendi tutto quel chesi può. / Perché mai le mani ci son date / Se non per pren-dere?]

Vjazemskij (1929, p. 105) così commentava questi versi:

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Qui non c’è bisogno di ulteriori spiegazioni: è chiaro diche “prendere” si tratta. Anche il verbo “bere” equivalenaturalmente al verbo “ubriacarsi” (...). Un capoufficio di-ceva che quando doveva firmare i fogli matricolari del per-sonale e apporre la qualifica “idoneo” e “meritevole”, erasovente tentato di aggiungere: “idoneo a qualsiasi porche-ria”, “meritevole di ogni disprezzo”.

Su questa base il linguaggio burocratico si trasfor-mava talvolta in lingua esoterica, simile a quella sacer-dotale e iniziatica. Si esigeva dal pubblico non solo il ri-spetto di una prassi (elargizione della bustarella), maanche la capacità di decifrare gli enigmi sul modello deiquali si costruiva il gergo dei funzionari. Su questoprincipio si regge, per esempio, il dialogo tra Varravin eMuromskij Delo [L’Affare] di Suchovo-Kobylin. Si vedaun esempio di questo linguaggio burocratico in Cechov:“– Dacci, caro, mezza rarità e ventiquattro dispiaceri.Poco dopo il cameriere servì su vassoio mezza bottigliadi vodka e alcuni piatti di antipasti assortiti. – Ecco,bello mio, – gli disse Pocatkin, – dacci una porzionedella maestra di calunnia e maldicenza con puré di pa-tate” (Cechov 1962, p. 506).

Il comportamento linguistico del decabrista eraestremamente specifico. Abbiamo già rilevato che unsuo tratto caratteristico era la tendenza a nominare ciòche, pur effettuandosi nella sfera quotidiana, diventavaun tabù nel linguaggio. Questa nominazione aveva tut-tavia un suo carattere specifico e non era accompagnatadalla riabilitazione del lessico basso, volgare o anchesemplicemente quotidiano. Nella coscienza del decabri-sta era insita una netta polarizzazione delle valutazionimorali e politiche: ogni azione veniva a trovarsi nelcampo dell’“abiezione”, della “viltà”, della “tirannia”,oppure del “liberalismo”, dei “lumi”, dell’“eroismo”.Non si davano azioni neutre o irrilevanti e non se nepresupponeva la possibilità.

IL DECABRISTA NELLA VITA

Le azioni prive di designazione verbale, da una parte,e quelle designate in modo eufemistico e metaforico,dall’altra, ricevono etichette verbali univoche. L’insiemedi queste designazioni è relativamente esiguo e coincidecon il lessico etico-politico del decabrismo. Ne conse-gue, in primo luogo, che il comportamento quotidianocessa di essere soltanto quotidiano: esso assume un altosignificato etico-politico; in secondo luogo, i consuetirapporti tra il piano dell’espressione e quello del conte-nuto per quel che riguarda il comportamento mutano:non è la parola a designare l’azione, ma l’azione a desi-gnare la parola:

espressione → contenutoazione → parola

È importante sottolineare che a diventare contenuto,non è il pensiero, la valutazione dell’atto, ma proprio laparola, anzi la parola pronunciata in pubblico: il deca-brista non s’accontenta di criticare, in cuor suo, tra sé esé, ogni manifestazione del “secolo perento”. Egli chia-ma pubblicamente le cose col loro nome, “tuona” ai bal-li e in società, dal momento che proprio in questa nomi-nazione egli vede la liberazione dell’uomo e l’inizio dellatrasformazione della società. Quindi la perentorietà, unacerta ingenuità, la facilità a cadere in situazioni ridicole(dal punto di vista del gran mondo) sono compatibili colcomportamento del decabrista non meno dell’asprezza,dell’orgoglio, e persino dell’alterigia. Ma esso escludeassolutamente l’ambiguità, le acrobazie concettuali, lacapacità di “stare al gioco” non soltanto alla maniera diMolcalin, ma anche secondo lo stile di Pëtr Verchoven-skij [Molcalin, personaggio del Che disgrazia l’ingegno!di Griboedov: il tipo del conformista e del piaggiatore.Verchovenskij è un personaggio dei Demoni di Dostoev-skij (N.d.T.)].

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Può sembrare che questa caratteristica sia valida nonper il decabrista in generale, ma soltanto per quello delperiodo della Lega della Prosperità, quando l’“oratoriaalle feste da ballo” rientrava nei progetti delle società se-grete. È noto che nel corso dell’ulteriore evoluzione tat-tica di queste società l’accento venne spostato sulla co-spirazione. La nuova tattica sostituì il propagandistamondano col congiurato.

Si deve però rilevare che il mutamento nella sfera del-la tattica non determinò una svolta radicale nello stile delcomportamento: fattosi cospiratore e congiurato, il deca-brista non per questo cominciava a comportarsi nei sa-lotti “come tutti”. Nessun fine cospirativo poteva indur-lo a far proprio il modo di comportarsi di un Molcalin.Pur esprimendo le sue valutazioni non più con un’arden-te filippica, ma con una parola sprezzante o con unasmorfia, nella vita d’ogni giorno continuava a comportar-si da “carbonaro”. E poiché il comportamento quotidia-no non poteva essere oggetto di dirette accuse politiche,non veniva nascosto, ma anzi veniva accentuato e così sitrasformava in un segno di riconoscimento.

Zavalisin, giunto nel 1824 a Pietroburgo dopo unviaggio intorno al mondo, si comportò in modo tale (perdi più proprio nell’ambito della vita privata e quotidia-na: egli rifiutò di valersi di una lettera di raccomandazio-ne per Arakceev) che quest’ultimo disse a Baten’kov:“Ma guarda questo Zavalisin! Sta’ a sentire quel che tidico, Gavrilo Stepanovic: o è uno spocchioso di tre cot-te, tal quale suo padre, oppure un liberale” (Zavalisin1908, p. 68). Qui è sintomatico già il fatto che, secondoArakceev, uno “spocchioso” e un “liberale” debbanocomportarsi alla stessa maniera. Ma curiosa è ancheun’altra circostanza: col suo modo di comportarsi Zava-lisin, prima ancora di intraprendere un’attività politica,si era, per così dire, smascherato. Tuttavia a nessuno deisuoi amici decabristi venne in mente di fargliene una

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colpa, sebbene essi non fossero più gli esaltati propa-gandisti dell’epoca della Lega della Prosperità, ma deicospiratori che si preparavano a interventi risolutivi. An-zi, se Zavalisin dando prova di capacità di dissimulazio-ne, fosse andato a rendere omaggio ad Arakceev, il suocontegno avrebbe suscitato, con ogni probabilità, ripro-vazione e lui stesso avrebbe attirato su di sé il sospetto.È sintomatico che la dimestichezza di Baten’kov conArakceev era malvista nell’ambiente dei congiurati.

Ecco un altro esempio significativo: nel 1824 Kate-nin non approva il carattere di Cackij proprio per quelsuo essere un “propagandista alle feste da ballo” nelquale la Neckina ha visto giustamente una manifesta-zione dei metodi tattici della Lega della Prosperità:“Cackij è il personaggio principale della commedia.L’autore lo ha disegnato con amore [In italiano nel testo(N.d.T.)], e vede in esso tutte le virtù e nessun vizio, maa parer mio egli parla troppo, vitupera tutto e a spropo-sito” (Katenin 1911, p. 77). Tuttavia, non più di qual-che mese prima della formulazione di questo giudizio(non abbiamo alcun motivo di ritenere che in questolasso di tempo le sue idee abbiano subito una qualcheevoluzione) Katenin, esortando l’amico Bachtin a inter-venire nella polemica letteraria a viso aperto, senzapseudonimi, con non comune franchezza espresse l’esi-genza di manifestare apertamente le proprie convinzio-ni non con le parole soltanto, ma anche con tutto unmodo di comportarsi:

Il dovere adesso impone di difendere i propri diritti e lagiusta causa, di dire la verità senza timore, di elogiare ilbene e fustigare il male non soltanto nei libri, ma anchenelle azioni, di ripetere loro il già detto, di ripeterlo im-mancabilmente, affinché i furfanti non possano far finta dinon aver sentito, di costringerli a gettar la maschera e diaccettare la sfida e allora di dargliene di santa ragione (p.31, c.vo Lotman).

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Poco importa che poi, per “giusta causa”, Kateninintendesse la propaganda del proprio programma lette-rario e delle proprie benemerenze nel campo delle lette-re. Se un argomento puramente personale poteva essereespresso con simili parole, queste stesse espressioni do-vevano essere già diventate, nel loro contenuto generale,la parola d’ordine di tutta una generazione.

Il fatto che proprio il comportamento quotidiano per-metta in molti casi ai giovani liberali di distinguere “unodei loro” dall’“oscurantista” è caratteristico proprio dellacultura nobiliare, la quale aveva creato un sistema estre-mamente complesso e ramificato di segni di comporta-mento. Ma in questo stesso fatto si manifestavano anche itratti specifici che distinguono il decabrista in quanto ri-voluzionario di estrazione nobiliare. È caratteristico che ilcomportamento quotidiano fosse diventato uno dei crite-ri di selezione dei candidati alle società segrete. Derivavadi qui quello spirito cavalleresco tipico dei decabristiche, da un lato, alimentò il fascino morale della tradizio-ne decabrista nella cultura russa, ma, dall’altro, rese loroun cattivo servizio nelle tragiche circostanze dell’istrutto-ria, tramutandosi inaspettatamente in instabilità di carat-tere: essi non erano psicologicamente preparati ad agirein una situazione di abiezione legalizzata.

La gerarchia degli elementi significativi del compor-tamento consta della successione: gesto-azione-testocomportamentale. Quest’ultimo va inteso come unacompiuta catena di azioni dotate di senso compresa tral’intenzione e il risultato. Nel comportamento reale dellepersone, complesso e governato da numerosi fattori, itesti comportamentali possono rimanere incompiuti,trasformarsi in nuovi e intersecarsi con altri paralleli. Maa livello dell’ideale interpretazione che l’uomo dà delproprio comportamento essi formano sempre intreccicompiuti e dotati di senso, altrimenti l’attività finalizzata

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dell’uomo sarebbe impossibile. Quindi a ogni testo dicomportamento a livello delle azioni corrisponde un de-terminato programma di comportamento a livello delleintenzioni. I rapporti tra queste categorie possono assu-mere un carattere assai complesso, che in ultima analisidipende anche dal tipo di una data cultura. Esse posso-no avvicinarsi (nel caso in cui la realtà e la sua interpre-tazione tendono a “parlare un linguaggio comune”) op-pure a divergere in modo consapevole (o inconsapevo-le). Nel secondo caso rientra sia la romantica “fratturatra sogno e realtà” (Gogol’): la divergenza dei “testi dicomportamento” e dei sogni (programmi di comporta-mento) del pittore Piskarëv della Prospettiva Nevskij(Nevskij prospekt), sia la compensazione di uno squalli-do comportamento con allettanti programmi spacciatiper realtà (le bugie di Chlestakov o i ricordi del generaleIvolgin) [Chlestakov, protagonista del Revisore di Go-gol’; Ivolgin personaggio dell’Idiota di Dostoevskij(N.d.T.)]. Una variante tragica di questo caso è costitui-ta dalle memorie di Zavalisin. Ricordiamo che il princi-pe Myskin non sbugiarda il generale né lo deride – comefa Gogol’ col proprio eroe – ma prende sul serio i suoiracconti come “atti compiuti nell’intenzione”; alle sfre-nate menzogne del generale che afferma di aver influitosu Napoleone, egli reagisce dicendo “Avete fatto benis-simo (...). Tra tanti pensieri malvagi voi gli avete ispiratoun nobile sentimento” (Dostoevskij 1973, p. 417, c.voLotman). Le memorie di Zavalisin meritano proprio unatteggiamento del genere.

Il comportamento quotidiano del decabrista non ècomprensibile se non si prendono in considerazione nonsolo i gesti e le azioni, ma anche quelle singole e com-piute unità di ordine superiore che sono i testi compor-tamentali.

Come i gesti e le azioni del rivoluzionario di estrazio-ne nobiliare acquistavano per lui e per gli altri un senso

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in quanto avevano come loro significato la parola, ognicatena di azioni diventava “testo” (acquistava significa-to), se la si poteva collegare in modo illuminante con undeterminato soggetto letterario. La morte di Cesare, l’e-roismo di Catone, la predicazione e la posa di un profe-ta accusatore, Tirteo, Ossian o Bajan che cantano davan-ti alle schiere alla vigilia della battaglia (questo soggettosi deve a Nareznyj), l’addio di Ettore e Andromaca: eccoi soggetti che conferivano senso a una determinata cate-na di azioni di vita.

Questo atteggiamento presupponeva una “amplifica-zione” di tutto il comportamento, una distribuzione dimaschere letterarie caratteristiche tra persone reali, l’i-dealizzazione del luogo e dello spazio dell’azione (lospazio reale veniva percepito attraverso la mediazione diquello letterario). Per esempio, nell’epistola di Puskin aFëdor Glinka, quest’ultimo appare nelle vesti di Aristi-de, mentre Pietroburgo si trasforma in Atene. Non èsoltanto la situazione concreta a trasformarsi nei versi diPuskin, in letteraria, ma anche l’opposto: in una situa-zione concreta diventa significativo (e quindi percepibi-le a chi vi partecipa) ciò che può essere riferito a un sog-getto letterario. Katenin, per esempio, scrive nel 1821 al-l’amico Bachtin di trovarsi al confino, “non lontano dal-la Siberia” (Katenin 1911, p. 22). Questo assurdo geo-grafico (il governatore di Kostroma, dove Katenin eraconfinato, era più vicino a Mosca e Pietroburgo che allaSiberia, ed entrambi i corrispondenti ovviamente lo sa-pevano) si spiega col fatto che a quel tempo la Siberiaera già entrata nella tematica letteraria e nella mitologiaorale della cultura russa come luogo di confino e così,veniva associata a decine di nomi storici (Ryleev man-derà in Siberia il suo Vojnarovskij, e Puskin vi manda sestesso nel Colloquio immaginario con Alessandro I [Voo-brazaemyj razgovor s Aleksandrom I]). Kostroma, invece,da questo punto di vista non suscita alcuna associazione.

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Quindi come Atene sta per Pietroburgo, Kostroma staper la Siberia, cioè il confino.

Il rapporto tra i vari tipi d’arte e il comportamentoumano si struttura in modi diversi. Se a giustificare unsoggetto realistico vale l’affermazione che proprio cosìgli uomini si comportano nella realtà, e il classicismopresupponeva che ai suoi schemi di comportamento gliuomini dovevano attenersi in un mondo ideale, il ro-manticismo, invece, prescriveva al lettore un modo dicomportarsi anche nella vita quotidiana. Nonostantel’apparente affinità tra il secondo e il terzo principio, ladifferenza tra essi è assai notevole, poiché il comporta-mento ideale dell’eroe del classicismo si attua nello spa-zio anch’esso ideale del testo letterario, e solo una per-sonalità d’eccezione, capace di elevarsi all’altezza dell’i-deale, può tentare di tradurlo in pratica; per la maggio-ranza dei lettori e degli spettatori invece il comporta-mento dei personaggi letterari è un ideale sublime, de-stinato a nobilitare il loro comportamento pratico, manon certo a incarnarvisi.

Il comportamento romantico, sotto questo profilo, èpiù accessibile, poiché comprende non soltanto le virtù,ma anche i vizi illustrati nelle opere letterarie (per esem-pio, l’egoismo), la cui vistosa ostentazione rientrava nel-la norma del “byronismo pratico”:

Lord Byron prichot’ju udacnojOblëk v unylyj romantizmI bezna dëznyj egoizm (...).

[Lord Byron con felice capriccio / Rivestì di melanconicoromanticismo / Anche l’insanabile egoismo (…) (dall’Ev-genij Onegin di Puskin) (N.d.T.)].

Il fatto stesso che l’eroe letterario romantico fosseun contemporaneo agevolava notevolmente, da partedel lettore, la percezione del testo come programma di

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futuro comportamento pratico. I personaggi di Byron,del Puskin romantico, di Marlinskij e di Lermontovebbero un’intera falange di imitatori tra i giovani uffi-ciali e funzionari, che ne facevano propri i gesti, la mi-mica, i modi. Se l’opera realistica imita la realtà, nel ca-so del romanticismo era la realtà a imitare prontamentela letteratura. Per il realismo un determinato tipo dicomportamento nasce nella vita e poi penetra nelle pa-gine dei testi letterari (Turgenev, per esempio, andavafamoso per la sua capacità di cogliere prima nella vitareale il nascere di nuove norme di coscienza e di com-portamento). Nell’opera romantica un nuovo tipo dicomportamento umano nasce nelle pagine del testo edi lì si trasferisce nella vita.

Il comportamento del decabrista recava l’improntadel romanticismo: le azioni e i testi comportamentalierano determinati da soggetti rari e situazioni letterariemodello come “L’addio di Ettore e Andromaca”, “Ilgiuramento degli Orazi” ecc., oppure da nomi bastan-ti, di per sé, a suggerire un soggetto. In questo sensol’esclamazione di Puskin: “Ecco Cesare: ma dov’è Bru-to?” era facilmente decifrabile come programma d’a-zione futura.

È sintomatico che in molti casi soltanto il ricorso amodelli letterari ci consente di decifrare azioni compiu-te da persone di quell’epoca, che da un diverso puntodi vista sarebbero enigmatiche. Così, ad esempio, i con-temporanei e poi anche gli storici più volte rimaseroperplessi di fronte al gesto di Caadaev che lasciò il ser-vizio militare nel pieno della carriera, dopo l’incontrocon lo zar a Troppau nel 1820. Come è noto, Caadaevera aiutante di campo del comandante del corpo diguardia generale Vasil’cikov. Dopo “la storia del reggi-mento Semënovskij” si offrì di portare personalmentead Alessandro I, allora al Congresso di Troppau, unrapporto sull’ammutinamento nel corpo di guardia. I

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contemporanei videro in ciò il desiderio di mettersi invista a spese della disgrazia dei compagni e degli excommilitoni (nel 1812 Caadaev aveva prestato servizionel reggimento Semënovskij).

Se un simile atto da parte di un uomo noto per lasua nobiltà d’animo come Caadaev sembra inesplicabi-le, le sue improvvise dimissioni poco dopo l’incontrocon l’imperatore lasciarono tutti sbalorditi. Quanto aCaadaev, in una lettera del 2 gennaio 1821 alla zia Scer-batova, così spiegava il suo atto:

Cette fois-ci ma chère Tante, je vous écris pour vous an-noncer positivement que j’ai demandé mon congé (...). Mademande a fait une vive sensation sur certaines personnes.D’abord on n’a pas voulu croire que je le demandais sé-rieusement, ensuite on a été obligé d’y ajouter foi, mais onne conçoit pas jusqu’à présent comment j’ai pu m’y ré-soudre au moment où je devais obtenir ce que j’avais eul’air de désirer, ce que tout le monde désire tant et ce quiest enfin regardé comme la chose la plus flatteuse quepuisse obtenir un jeune homme dans mon grade (...). Lefait est que je devais en effet être nommé aide de Camp del’Empereur après Son retour, du moins d’après le dire deWassiltchikoff. J’ai trouvé plus amusant de dédaigner cettefaveur que de l’obtenir. Je me suis amusé à montrer monmepris à des gens qui méprisent tout le monde (Caadaev1913, pp. 3-4).

Lebedev (1965, p. 54) ritiene che la lettera mirasse “atranquillizzare la zia”, che sarebbe stata molto sollecitadei successi del nipote a corte. Ne dubitiamo7: alla sorelladel noto frondista principe Scerbatov non c’era bisognodi spiegare il senso del disprezzo aristocratico per il car-rierismo di corte. Se Caadaev, date le dimissioni, si fossestabilito a Mosca per condurvi esistenza da gran signore efar la fronda al Club inglese, il suo comportamento nonsarebbe parso enigmatico ai contemporanei e riprovevolealla zia. Ma il fatto è che il servizio militare gli stava noto-

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riamente a cuore, che si era adoperato per avere un in-contro privato col sovrano, e che, forzando i tempi dellasua carriera, si era inimicato l’opinione pubblica e avevasuscitato invidia e risentimento tra i colleghi, che aveva“sorpassato” a dispetto dell’anzianità. (Va ricordato chel’ordine di avanzamento secondo l’anzianità di servizioera legge non scritta, ma rigorosissimamente osservata.Ignorarlo era contrario alle regole del cameratismo e pergli ufficiali equivaleva a una violazione del codice d’ono-re). Fu dunque il contrasto tra l’evidente interesse per unacarriera rapida e brillante e il volontario congedo, primache gli sforzi avessero un degno coronamento a costituirel’enigmaticità dell’atto di Caadaev8.

Tynjanov ritiene che durante l’incontro di TroppauCaadaev cercasse di spiegare all’imperatore la connes-sione tra la “storia del reggimento Semënovskij” e la ser-vitù della gleba, per spingere Alessandro sulla via delleriforme. Ma le sue idee non sarebbero state accolte consimpatia dallo zar: di qui la rottura. “La spiacevolezzadell’incidente dell’incontro con lo zar era troppo evi-dente”. Più oltre Tynjanov (1946, pp. 168-171) definiscetale incontro “una catastrofe”. Quest’ipotesi è fatta pro-pria da Lebedev (1965, pp. 68-69).

L’ipotesi di Tynjanov, pur essendo la più convincentedi tutte le spiegazioni finora proposte, ha un lato debo-le: la rottura tra Caadaev e l’imperatore non avvenne su-bito dopo l’incontro di Troppau. Anzi, il cospicuo avan-zamento di grado che doveva far seguito a quell’incontroe che avrebbe consentito a Caadaev di venire accolto nelseguito dell’imperatore, cioè di essere a lui più vicino, di-mostra che la rottura e il reciproco raffreddamento non èimputabile al colloquio in questione. Difficilmente il rap-porto fatto da Caadaev a Troppau può essere interpreta-to come una catastrofe nella carriera. La sua “caduta”cominciò evidentemente più tardi: lo zar dovette esseresgradevolmente sorpreso e irritato dall’improvvisa richie-

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sta di “dimissioni”, e poi la sua irritazione fu acuita dallacitata lettera di Caadaev alla zia, intercettata alla posta.Benché l’accenno di Caadaev al proprio disprezzo “percoloro che disprezzano tutti” si riferisca al suo coman-dante Vasil’cikov, l’imperatore poteva attribuirlo allapropria persona. Del resto tutto il tono della lettera do-vette sembrargli inammissibile. Erano evidentementequelle le “assai poco lusinghiere” informazioni sul contodi Caadaev – di cui fa menzione il principe Volkonskij inuna lettera a Vasil’cikov del 4 febbraio 1821 – e in segui-to alle quali Alessandro I dispose che Caadaev fosse con-gedato senza promozione al grado superiore. In quell’oc-casione l’imperatore “espresse su codesto ufficiale ungiudizio assai poco lusinghiero”, come riferì più tardi ilgranduca Costantino Pavlovic a Nicola I.

Le dimissioni di Caadaev non furono dunque conse-guenza del conflitto con l’imperatore, poiché il conflittofu conseguenza delle dimissioni.

Ci sembra che un raffronto con alcuni soggetti lettera-ri sia in grado di far luce sull’enigmatico comportamentodi Caadaev.

Herzen dedicò il suo articolo L’imperatore AlessandroI e V. N. Karazin (Imperator Aleksandr I e V. N. Karazin)a Nikolaj Serno-Solov’evic, “ultimo nostro marchese diPosa”. Posa dunque era per Herzen un tipo ben precisodella vita russa. Ci sembra che il confronto con questosoggetto schilleriano possa gettare molta luce sull’episo-dio enigmatico della biografia di Caadaev. Prima di tut-to non c’è dubbio che egli conoscesse la tragedia diSchiller: Karamzin, quando nel 1789 fu a Berlino, assi-stette a una rappresentazione del Don Carlos e ne diedeun giudizio stringato ma assai lusinghiero nelle Letteredi un viaggiatore russo, mettendo in particolare rilievoproprio la parte del marchese di Posa. Entrato all’Uni-versità di Mosca nel 1808, Caadaev vi aveva trovato unvero e proprio culto di Schiller (Harder 1968; Lotman

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1958-59; 1960a), di cui erano ferventi ammiratori il pro-fessore di Caadaev, A. F. Merzljakov e il suo intimo ami-co N. Turgenev. Un altro amico di Caadaev, Griboedov,nell’abbozzo della tragedia Rodamisto e Zenobia cita li-beramente il famoso monologo del marchese di Posa.Parlando della presenza di un repubblicano di un “im-pero autocratico” egli scrive: “è pericoloso per il gover-no ed è un peso per se stesso, poiché è cittadino di un al-tro secolo” (Griboedov 1911, p. 256).

Le parole in corsivo sono una parafrasi dell’autori-tratto del Posa: “Sono io il cittadino di un secolo avveni-re” (Don Carlos, atto III, scena X).

L’ipotesi che Caadaev col suo comportamento volesserecitare una variante del “marchese di Posa russo” (comenei colloqui con Puskin ripeteva la parte di “Bruto rus-so” e di “Pericle russo”) illumina i lati “enigmatici” dellasua condotta. Essa prima di tutto permette di contestarel’affermazione di Lebedev, secondo cui Caadaev nel 1820faceva assegnamento sul liberalismo del governo: “Lesperanze nelle ‘buone intenzioni’ dello zar erano, come ènoto, molto forti tra i decabristi e la nobiltà filodecabri-sta del tempo”9. Qui c’è una certa inesattezza: parlare diun atteggiamento costante dei decabristi nei confronti diAlessandro I, senza basarsi su dati precisi e su concretedocumentazioni, è assai rischioso. È noto che verso il1820 alle promesse dello zar praticamente non credevapiù nessuno. Ma ancora più rilevante appare un altro fat-to: secondo un’ipotesi assai convincente di Cjavlovskij(1962, pp. 28-58), sostenuta da altri autorevoli studiosi,Caadaev nelle sue conversazioni con Puskin prima delviaggio a Troppau discusse vari progetti di tirannicidio, ilche mal si accorda con la tesi che la fiducia nelle “buoneintenzioni” dello zar lo aveva spinto a precipitarsi dal-l’imperatore.

Il Filippo di Schiller non è un re liberale. È un tiran-no. Ed è appunto a un despota, e non alla “virtù sul tro-

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no”, che si rivolge con la sua predicazione il Posa schil-leriano. Quel tiranno sospettoso e perfido si appoggia alsanguinario duca d’Alba che poteva richiamare allamente la figura di Arakceev10. Ma proprio il tiranno habisogno di un amico, giacché è infinitamente solo. Leprime parole del marchese di Posa a Filippo sono un ac-cenno alla sua solitudine e scuotono profondamente ildespota schilleriano.

I contemporanei – almeno quelli che, come Caadaev,ebbero la possibilità di parlare con Karamzin – ben sa-pevano quanto soffrisse di solitudine Alessandro I nelvuoto assoluto creato attorno a lui dal sistema politicodell’autocrazia e dalla sua personale sospettosità. Né essiignoravano che, al pari del Filippo schilleriano, lo zardisprezzava profondamente gli uomini, e questo di-sprezzo gli causava intense sofferenze. Non si peritava,per esempio, di esclamare in pubblico: “Gli uomini so-no mascalzoni! (...) Oh, canaglie! Da chi mai siamo at-torniati, noi, poveri sovrani!” (Sil’der 1897, p. 48).

Caadaev aveva ottimamente calcolato il tempo: sceltoil momento in cui lo zar non poteva non rimanere trau-matizzato11, egli si presentò al suo cospetto per raggua-gliarlo sulle sofferenze del popolo russo come il Posaaveva fatto per le sventure della Fiandra. Se ci immagi-niamo lo zar, sconvolto dall’insurrezione nel primo reg-gimento della Guardia nell’atto di ripetere l’invocazionedi Filippo II:

Ora dammi un uomo, Provvidenza divina! (...)Molto tu mi donasti:Ora ti chiedo un uomo!(Schiller, Don Carlos, atto III, scena V)

le parole: “Sire, dateci la libertà di pensiero!” vengonospontaneamente alle labbra. È possibile che, galoppan-do alla volta di Troppau, Caadaev sia riandato più voltecon la memoria al monologo del marchese di Posa.

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Ma la predica libertaria del Posa poteva coinvolgereil re solo nel caso che questi fosse stato convinto delpersonale disinteresse del suo amico. Non per nulla ilmarchese ricusa ogni ricompensa e si esime dal servireil sovrano: in caso contrario si sarebbe tramutato daamico disinteressato della verità in mercenario dell’au-tocrazia.

Ottenere udienza ed esporre il proprio credo allozar era solo metà dell’opera: ora si trattava di dimostra-re il personale disinteresse rifiutando ricompense meri-tate. Le parole del Posa “Ich kann nicht Fürstendienersein” divennero per Caadaev letteralmente un pro-gramma. Attenendosi a esse, egli rinunciò al grado diaiutante di campo. Quindi tra il desiderio di avere uncolloquio con l’imperatore e la richiesta di congedonon c’era contraddizione: si tratta di due momenti diun unico progetto.

Come reagì Alessandro I? E, prima di tutto, capì ilsenso del comportamento di Caadaev? Per rispondere aquesta domanda conviene ricordare un episodio forseleggendario ma in questo caso assai caratteristico, che ciè stato tramandato da Herzen:

Nei primi anni del suo regno l’imperatore Alessandro I so-leva dare delle serate letterarie (...). Durante una di questesere la lettura si protrasse a lungo; si leggeva una nuovatragedia di Schiller.Il dicitore terminò e tacque.Il sovrano rimase in silenzio con lo sguardo abbassato.Forse pensava al proprio destino, che tanto si era avvicina-to a quello di don Carlos, o forse al destino del proprio Fi-lippo. Per alcuni minuti regnò un silenzio perfetto; il pri-mo a romperlo fu il principe Aleksandr Nikolaevic Go-licyn; chinandosi all’orecchio del conte Viktor PavlovicKocubej, gli disse sottovoce, ma in modo che tutti potesse-ro udire: – Noi abbiamo il nostro marchese di Posa!(Herzen 1959, pp. 38-39)12.

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Golicyn pensava a V. N. Karazin. Ma quello che quiconta per noi non è soltanto la testimonianza dell’interes-se che Alessandro I nutriva per la tragedia di Schiller, maanche un altro particolare: secondo Herzen, Golicyn, de-finendo Karazin “marchese di Posa”, gettava il perfidolaccio di un intrigo di corte allo scopo di “rovesciare” ilrivale (egli sapeva infatti che l’imperatore non avrebbetollerato pretendenti di sorta al ruolo di mentore).

Alessandro I era un despota, ma non di tipo schille-riano: mite di natura, gentleman per educazione, egli eraun autocrate russo, ossia un uomo che non poteva cede-re alcuna delle sue prerogative reali. Sentiva la pungentenecessità di un amico, ma assolutamente disinteressato(è noto che persino un’ombra sospetta di “mire perso-nali” degradava ai suoi occhi il favorito di turno dal ran-go di amico a quello, da lui spregiato, di cortigiano). Iltiranno schilleriano era conquistato dal disinteresse uni-to a nobiltà di pensiero e indipendenza personale. L’a-mico di Alessandro doveva invece, al disinteresse, ac-compagnare un’illimitata dedizione personale, equiva-lente alla servilità. È noto che l’imperatore non reagì siaquando Arakceev rifiutò di accettare un’onorificenza,sia quando con insolenza restituì le decorazioni cheAlessandro I, con apposito decreto, aveva ordinato diconferire al suo amico. Ostentando un’incorruttibile ser-vilità, Arakceev si rifiutò di eseguire la volontà del so-vrano, e in risposta alle insistenti preghiere dell’impera-tore accettò soltanto un ritratto di Alessandro I: non ri-compensa di un sovrano ma dono di un amico.

Bastava tuttavia che al sincero affetto per l’imperato-re si unisse l’indipendenza di giudizio (quel che contavaera l’indipendenza, e non il carattere politico del giudi-zio) perché all’amicizia fosse posta fine. In questi termi-ni si svolse la storia del raffreddamento di Alessandro I

nei confronti di Karamzin, che politicamente era unconservatore, personalmente affezionato al sovrano, as-

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solutamente disinteressato e che mai aveva sollecitatonulla per sé13. Tanto meno Alessandro poteva tollerareun gesto di indipendenza da parte di Caadaev, i rapporticol quale erano soltanto agli inizi. Il gesto, che aveva de-finitivamente ben disposto l’animo di Filippo II verso ilmarchese di Posa, con la stessa irrevocabilità respinse lozar da Caadaev. Caadaev non era destinato a diventareun Posa russo, né un Pericle o un Bruto.

Questo esempio ci fa vedere che il comportamentoreale dell’uomo della cerchia decabrista è per noi unasorta di testo cifrato, mentre il soggetto letterario è il co-dice che consente di penetrarne il senso recondito.

Facciamo un altro esempio. È noto l’eroismo dellemogli dei decabristi [Esse seguirono volontariamente iloro mariti nelle deportazioni e nel confino, subendoper questo una perdita dei loro diritti civili (N.d.T.)] e ilsignificato veramente straordinario che esso ha avutoper la storia spirituale della società russa. Tuttavia l’im-mediatezza e la sincerità del contenuto del loro atto nonè minimamente in contraddizione con la logica dell’e-spressione, così come le frasi del più ardente degli ap-pelli è pur sempre sottomesso a quelle stesse regolegrammaticali che sono obbligatorie per qualsiasi espres-sione in quella data lingua. L’atto delle mogli dei deca-bristi fu un gesto di protesta e una sfida, ma nella sferadell’espressione esso inevitabilmente si basava su un de-terminato stereotipo psicologico. Anche il comporta-mento, le sue norme e regole, naturalmente, con la pre-cisazione che quanto più complesso è un sistema semio-tico, tanto più intricati diventano nel suo ambito i rap-porti, tra ordine e libertà. C’erano nella società nobiliarerussa prima dell’atto eroico delle mogli dei decabristipreesistenti modelli comportamentali tali da poter con-ferire al loro generoso sacrificio la forma di un compor-tamento già costituito? A questa domanda si deve ri-spondere positivamente.

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Osserviamo anzitutto che seguire gli sposi confinati inSiberia era una forma tradizionale di comportamento lar-gamente praticata nelle classi popolari russe: le colonnedei deportati erano seguite da convogli in cui viaggiava-no le famiglie verso il luogo del volontario esilio. La cosanon veniva considerata come un atto di coraggio, e nep-pure una scelta individuale: era la norma. Anzi nel costu-me dell’età prepetrina la stessa norma vigeva anche perle famiglie dei boiari (a meno che alla moglie e ai figlinon fossero state comminate pene ad personam). In que-sto senso la cognata di Radiscev, Elizaveta Vasil’evna Ru-banovskaja, che seguì il congiunto in Siberia, mise in attoun comportamento squisitamente popolare (o autentica-mente russo, prepetrino). Quanto poco pensasse di com-piere un atto eccezionale, è comprovato dal fatto che ab-bia condotto con sé i figli minori di Radiscev, lasciando acasa i più anziani, che dovevano completare gli studi.Anche le reazioni dell’ambiente al gesto di Elizaveta Va-sil’evna furono diverse da quelle che sarebbero state nel1826: non venne in mente ad alcuno di trattenerla o dis-suaderla, e nessun contemporaneo parve notare il suo su-blime sacrificio: l’episodio rimase confinato nella cerchiafamiliare dei Radiscev e non ebbe alcuna risonanza pub-blica. (I genitori di Radiscev rimasero persino scandaliz-zati che la donna seguisse il loro figlio in Siberia senza es-serne la legittima consorte e che laggiù lo sposasse, nono-stante la stretta parentela; tornato poi dalla deportazione,lo scrittore si vide per questo negare la benedizione dalpadre vecchio e cieco, benché Elizaveta a quel tempofosse ormai morta, stroncata dai disagi della vita siberia-na. La sua nobile azione non trovò comprensione e ap-prezzamento fra i contemporanei).

C’è anche un’altra norma preesistente di comporta-mento che poteva suggerire alle mogli dei decabristi, laloro scelta. Per lo più esse erano sposate a ufficiali. Trala fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento perdurava

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nell’esercito russo la consuetudine – a quell’epoca giàvietata ai soldati ma largamente diffusa tra gli ufficiali,specie i più anziani per grado e per età – di recarsi ap-presso le famiglie da una sede all’altra su carriaggi mili-tari. Ad Austerlitz Kutuzov teneva presso di sé allo statomaggiore la figlia Elizaveta Michajlovna Tiesenhausen(in futuro Chitrovo), moglie del suo aiutante prediletto,Ferdinand Tiesenhausen (Fedja, nelle lettere di Kutu-zov). Dopo la battaglia, finito lo scambio di corpi dei ca-duti, essa sistemò su un carro il cadavere del marito e dasola (l’esercito, per altre vie, si era diretto verso oriente)lo portò a Revel per inumarlo nella cattedrale. Essa allo-ra aveva ventun anni. Anche il generale Raevskij si por-tava con sé la famiglia nelle campagne militari. Più tardiin una conversazione con Batjuskov (1934, p. 373), ne-gando che i figli avessero preso parte alla battaglia pres-so Daskovka, affermava: “Il minore era andato per fra-gole nel bosco (egli allora era proprio un bambino) euna pallottola gli trapassò i calzoni”. Quindi, seguire ilconiuge nella deportazione o in una campagna pericolo-sa e gravosa per sé non era una novità inaudita nella vitadi una nobile russa. Però affinché un atto di questo tipoacquistasse carattere di eroismo politico era necessariaancora un’altra condizione. Consideriamo un passo trat-to dalle memorie di un decabrista tipico (secondoScëgolev) come Basargin (1917, p. XI):

Rammento che un giorno, mentre leggevo a mia moglie ilpoema di Ryleev Vojnarovskij, appena uscito allora, fui in-volontariamente spinto a riflettere sul mio futuro. “A chepensi?” – ella mi chiese. “Chissà – risposi –, se non finiròanch’io in esilio”. “Ebbene, anch’io verrò a confortarti e adividere la tua sorte. Nulla potrà dividerci. Perché dunquepensarci?” (p. 35).

Alla Basargina (nata principessa Mescerskaja) nonfu dato di confermare coi fatti le sue parole: la morte

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la colse nell’agosto del 1825, poco prima dell’arrestodel marito.

Ciò che qui conta, però, non è il personale destinodella Basargina, ma il fatto che la poesia di Ryleev abbiamesso il sacrificio di una donna, che segue il marito sullavia dell’esilio, sullo stesso piano delle altre virtù civili.Nella poesia Natalija Dolgorukova e nel poema Vojna-rovskij fu elaborato lo stereotipo del comportamentodella donna-eroe:

(Natalija Dolgorukova)Zabyla ja rodnoj svoj grad,Bogatstvo, pocesti i znatnost’, Ctob s nim delit v Sibiri chlad I ispytat’ sud’by prevratnost’. (Ryleev 1971, p. 168)

[Ho scordato per sempre il natio cielo / La nobiltà, glionori, la ricchezza, / Con lui soffersi di Siberia il gelo / Edella sorte la mutevolezza].

(Vojnarovskij)Vdrug vizu: zenscina idët,Dochoj ubogoju pokryta,I svjazku drov edva nesët,Rabotoj i toskoj ubita.Ja nej, i cto ze?…UznajuV nescastnoj sej, v moroz i v’ujgu,Kazacku junuju moju,Moju prekrasnuju podrugu!...Uznav ob ucasti moej,Ona iz rodiny svoejPrisla iskat’ menja v izgnan’e.O strannik! Tjasko bylo ejNe razdeljat’ so mnoj stradan’e.(Ryleev 1971, p. 214)

[A un tratto, una donna s’avvicina. / Da un pellicciotto mi-sero protetta, / Arrancando trasporta una fascina, / La fati-

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ca l’uccide e la tristezza. / A lei m’accosto, e... nella tapina,tra il vento, / Nel gelo della neve io ravviso / La cosaccamia giovane un tempo, / Della mia cara amica il dolce viso./ Appena seppe della sorte mia / Abbandonò la sua terranatia / E a cercarmi in esilio s’affrettava. / Oh, pellegrinosulla mesta via! / Non soffrir, s’io soffrivo, le pesava].

La biografia di Natalija Dolgorukova era divenutaoggetto di rifacimenti letterari prima di questa poesia diRyleev, nella novella di Sergej Glinka Un modello diamore e fedeltà coniugale, ovvero Virtù e sventura di Na-talija Borisovna Dolgorukova, figlia del feldmarescialloB. P. Serement’ev (1815). Però per Glinka questo sog-getto è un esempio di fedeltà coniugale, contrappostoalla condotta delle “mogli alla moda”. Ryleev invece mi-se la Dolgorukova nel novero delle “vite degli uominiillustri di Russia” (Bazanov 1964, p. 267), e così facen-do creò un codice completamente nuovo per la decifra-zione del comportamento femminile. Fu proprio la let-teratura, unitamente alle norme religiose acquisite dallacoscienza etico-nazionale della donna russa, a fornirealla nobile russa del primo Ottocento un programma dicomportamento consapevolmente interpretato comeeroico. Al tempo stesso Ryleev vede nelle sue poesie unprogramma d’attività, modelli di comportamento eroi-co che dovevano esercitare un’influenza diretta sulleazioni dei suoi lettori.

Si può pensare che proprio la poesia di Natalija Dol-gorukova abbia suggestionato direttamente la principes-sa Marija Volkonskaia. Sia i contemporanei, a partire dasuo padre, Raevskij, sia gli storici hanno osservato cheessa non poteva nutrire un profondo affetto per un ma-rito che prima del matrimonio non conosceva affatto ecol quale aveva vissuto appena tre mesi dell’anno tra-scorso tra le nozze e l’arresto. Il padre ripeteva con ama-rezza la confidenza della figlia “che il marito le era in-sopportabile”, e aggiungeva che non si sarebbe opposto

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alla partenza di lei per la Siberia se fosse stato certo che“era il suo cuore di sposa a chiamarla presso il marito”(Gersenzon 1923, p. 70).

Ma queste circostanze, che sconcertarono i parenti ealcuni storici per Marija Nikolaevna non facevano cheaccentuare l’eroismo della sua scelta e quindi anche lanecessità del suo viaggio in Siberia. Essa ricordava chetra le nozze della Seremet’eva sposata al principe Dolgo-rukov, e l’arresto del marito erano trascorsi tre giorni.Poi era cominciata una vita fatta tutta di eroico sacrifi-cio. Secondo le parole di Ryleev, il marito “le era statocome un’ombra dato per un istante”. Il padre dellaVolkonskaja, Raevskij, intuì che non era l’amore, ma uncosciente desiderio di eroismo, a guidare la scelta dellafiglia. “Essa non obbedì ai propri sentimenti, quandoandò dal marito, ma si lasciò influenzare dalle donne dicasa Volkonskij, le quali elogiando il suo eroismo, laconvinsero di essere un’eroina” (ib.).

Raevskij si sbagliava soltanto in un punto: le “donnedi casa Volkonskij” non avevano qui alcuna colpa. Lamadre di Sergej Volkonskij, Marija Fedorovna, dama dicorte, era gelida con la nuora e del tutto indifferenteper la sorte del figlio: “Mia suocera mi chiese notizie disuo figlio e disse tra l’altro che non poteva decidersi adandare a trovarlo perché l’incontro l’avrebbe uccisa, el’indomani partì con la zarina madre per Mosca, doveerano già cominciati i preparativi dell’incoronazione”14.Con la sorella del marito, la principessa Sof’ja Volkon-skaja, essa non si incontrò neppure. La “colpa” era del-la letteratura russa, che aveva elaborato l’idea di unequivalente femminile dell’eroismo civico e le normemorali della cerchia decabrista, che imponevano di tra-sferire direttamente nella vita il modo di comportarsidegli eroi letterari.

È sintomatico in questo senso il totale disorienta-mento dei decabristi durante l’istruttoria, che li mise

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nella tragica necessità di scegliere una linea di condottain assenza di un “pubblico” idoneo a intenderne l’eroi-smo e in assenza di modelli letterari, dal momento cheuna morte senza monologhi, nel vuoto burocratico-mili-tare, non era ancora diventata un tema artistico. In que-ste condizioni emersero in primo piano altre norme e al-tri stereotipi di comportamento prima messi in disparte,ma ben noti a tutti i decabristi: il dovere dell’ufficiale difronte ai superiori, gli obblighi del giuramento, l’onoredel nobile. Queste norme e questi stereotipi irrompeva-no nel comportamento del rivoluzionario e nelle presedi posizione concrete, gettavano in uno stato di freneticaincertezza. Non tutti potevano, come Pestel, eleggere aproprio interlocutore la posterità e dialogare con essa,ignorando la commissione inquirente, che ascoltava quelcolloquio, e così votando spietatamente se stesso e i pro-pri amici alla rovina.

È sintomatico che il tema del processo, a porte chiu-se, senza testimoni, il tema della tattica di lotta contro l’i-struttoria, si sia affermato in letteratura dopo il 1826, daRodamisto e Zenobia di Griboedov fino a Polezaev e Ler-montov. La testimonianza scherzosa nel poema di Nekra-sov Il processo (Sud) dice però chiaramente che negli an-ni Trenta i lettori del poema di Zukovskij Processo nelsotterraneo (Sud v podzemel’e) più che alla sorte dellamonaca vittima dell’Inquisizione, erano stati sensibili aun altro aspetto dell’opera, commisurando alla propriaesperienza la situazione del “processo nel sotterraneo”.

Il potente influsso che le parole esercitano sul com-portamento e i sistemi di segni sul costume si avvertecon particolare evidenza in quegli aspetti della vita quo-tidiana che per la loro natura più sono lontani dalla se-miosi sociale. Una di queste sfere è il riposo.

Per la sua funzione sociale e psico-fisiologica il ripo-so deve configurarsi come il diretto contrario della con-

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sueta struttura dell’esistenza, altrimenti non sarà in gra-do di svolgere il ruolo di alternativa di rilassamento psi-co-fisiologico. In una collettività dotata di un complessosistema di semiotica sociale il riposo sarà inevitabilmen-te orientato sulla immediatezza, naturalità, asemioticità.Così, nelle civiltà di tipo urbano avrà immancabilmentetra le sue componenti l’escursione “in seno alla natura”.Per la nobiltà russa dell’Ottocento (e, nella secondametà del secolo, anche per il ceto impiegatizio), il fattoche la loro vita fosse rigidamente regolata dalle normedel decoro mondano e dalla gerarchia sociale e burocra-tica, fece sì che il riposo cominciasse ad associarsi allafamiliarizzazione col mondo teatrale o con l’ambientezingaresco. Nel ceto mercantile alla severa “cerimonio-sità” della consuetudine si contrapponevano i più sfre-nati “baccanali”. L’obbligo di cambiare maschera socialesi manifestava, in particolare, nel fatto che se nella vitaquotidiana un membro della collettività apparteneva alnovero degli umiliati e frustrati, nei momenti di svagodoveva recitare la parte di colui che fa “quel che gli paree piace”; mentre se nella solita vita egli era dotato, all’in-terno di una data collettività, di un alto grado di auto-rità, nel mondo speculare della festa spesso gli toccava ilruolo dell’umiliato.

Di solito tipica della festa è la netta demarcazione ri-spetto a tutto il restante mondo “feriale”, demarcazionenello spazio: la festa spesso esige un altro luogo (più so-lenne: un salone, un tempio; oppure meno solenne: unpicnic, un sobborgo degradato) e in un apposito tempo(le festività contemplate nel calendario, la sera o la not-te, comunemente dedicate al sonno).

Nell’ambiente nobiliare dell’inizio dell’Ottocento lafesta era un fenomeno piuttosto complesso ed eteroge-neo. Da un lato, specie in provincia e in campagna, si ri-faceva ancora al rituale del calendario contadino; dall’al-tro, la giovane, men che centenaria, cultura nobiliare

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postpetrina non era ancora affetta della rigida ritualizza-zione della vita quotidiana non festiva. A volte anzi si fa-ceva sentire una sua scarsa regolamentazione. Per cui ilballo (come per l’esercito la parata) a volte non era illuogo in cui il livello della ritualizzazione si abbassava,ma, al contrario, quello in cui esso aumentava brusca-mente. Il riposo, non eliminava le limitazioni imposte alcomportamento, ma sostituiva la multiforme attività nonritualizzata con un numero estremamente limitato di tipidi comportamento puramente formale e ritualizzato; ledanze, il whist, “l’armonioso ordine di oligarchici con-versari” (Puskin).

Altra cosa è l’ambiente dei giovani militari. A partireda Paolo I nell’esercito (e in particolare nella Guardia) siinstaurò un crudele regime di spersonalizzante disciplina,il cui coronamento era il solenne cambio della guardia. T.von Bock, contemporaneo dei decabristi, così scriveva inuna missiva ad Alessandro I: “La parata è il trionfo dellanullità, e ogni soldato, al cui cospetto, il dì della battaglia,ciascuno dovette chinare il capo, alla parata si converte inmanichino, mentre l’imperatore sembra un dio, il soloche pensi e governi” (Predtecenskij 1951, p. 198).

Là dove la vita quotidiana era un’eterna esercitazionee parata militare, il riposo naturalmente assumeva le for-me della baldoria o dell’orgia. In tal senso queste ultimeerano del tutto legittime, costituendo una parte delcomportamento “normale” dei giovani militari. Si puòdire che per una determinata età ed entro certi limiti es-so era una componente obbligatoria della “buona con-dotta” dell’ufficiale (s’intende, comprendendo differen-ze quantitative e qualitative non soltanto dal punto di vi-sta dell’antitesi “Guardia-esercito”, ma anche secondol’arma e persino i reggimenti, creando nel loro ambitouna tradizione vincolante).

Ma, all’inizio dell’Ottocento, su questo sfondo co-minciò a profilarsi un tipo particolare di sregolatezza,

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percepito non più come norma dell’ozio militare, ma co-me variante di libero pensiero. L’elemento della libertàsi manifestava qui in una sorta di romanticismo pratica-to nella vita d’ogni giorno e consistente nell’annullamen-to di qualunque restrizione, in una totale disinibizione. Ilmodello tipo di questo comportamento era concepitocome superamento di un primato già conseguito in undato tipo di sregolatezza. Si trattava di compiere un’im-presa senza precedenti, surclassando un “campione” sucui, prima, nessuno era riuscito a prevalere. Puskin de-scrive con grande finezza questo tipo di comportamentonel monologo di Silvio: “Prestavo servizio a *** nel reg-gimento degli ussari. Il mio carattere vi è noto: sono abi-tuato a primeggiare, ma da giovane questa era per meuna vera e propria passione. Ai nostri tempi la turbolen-za era di moda: io ero il primo scavezzacollo dell’eserci-to. L’ubriachezza era il nostro vanto, e io superai nel be-re il famoso B(urcov), celebrato da D(enis) D(avydov)”(Puskin 1948, p. 69). L’espressione “superai nel bere”(perepil) rende efficacemente lo spirito agonistico e lavolontà di primato che costituivano un tratto caratteri-stico della “turbolenza” di moda verso il 1820, preludiodella “pratica quotidiana” del libero pensiero.

Facciamo un esempio illuminante. Nella letteraturasu Lunin, si cita invariabilmente un episodio raccontatoda N. A. Belogolovyj che a sua volta lo aveva udito da I.D. Jakuskin:

Lunin era ufficiale della Guardia e un’estate si trovava colreggimento nei pressi di Peterhof; faceva molto caldo, enel tempo libero ufficiali e soldati si rinfrescavano facen-do il bagno nel golfo. Un bel giorno il comandante, un ge-nerale di origine tedesca, vietò i bagni sotto la minaccia digravi sanzioni disciplinari, col pretesto che erano un’inde-cenza, data la prossimità di una strada. Allora Lunin, sa-pendo che il generale doveva passare per quella medesimastrada, poco prima del suo arrivo entrò nell’acqua in alta

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uniforme, con tanto di sciaccò e stivaloni, in modo che ilgenerale potesse vedere già da lontano il bizzarro spetta-colo dell’ufficiale che sguazzava vestito nell’acqua, e quan-do il comandante giunse alla sua altezza, Lunin balzò dicolpo in piedi e lì nell’acqua scattò sull’attenti e fece il sa-luto militare. Il generale, interdetto, chiamò il proprio su-balterno, riconobbe in lui Lunin, uno degli ufficiali piùbrillanti, beniamino di principi e granduchi, e gli chiesestupito: “Che fate lì?”. “Faccio il bagno – rispose Lunin –,e per non trasgredire alle disposizioni di Vostra eccellenzacerco di farlo nel modo più decente possibile” (Belogo-lovyj 1898, p. 70).

Belogolovyj ha del tutto giustamente interpretato ilgesto come manifestazione di “sfrenatezza nella prote-sta”. Ma il senso dell’atto di Lunin non si chiarisce finoin fondo finché non lo confrontiamo con un’altra testi-monianza trascurata dagli storici. Nelle memorie del na-no di Zubov, Ivan Jakubovskij, si trova un racconto suun figlio naturale di Valerian Zubov – Korocarov – allie-vo ufficiale in un reggimento di ulani della guardia:

Sentite un po’ questa! Quand’erano di stanza a Strel’nja ungruppo di ufficiali, ed egli era con loro, andò a fare il ba-gno, quand’ecco che il granduca Costantino Pavlovic, loropatrono, passeggiando sul lido, giunse al luogo del bagno.Tutti si spaventano, si gettan giù dalla barca, nell’acqua, maKorocarov s’irrigidisce sull’attenti, tutto nudo come lamamma l’aveva fatto, e grida: “Buon giorno, Altezza!”. Daallora il granduca lo prese a benvolere e diceva di lui: “Saràun bravo ufficiale” (Jakubovskij 1968, p. 68)15.

Cronologicamente entrambi gli episodi coincidono.Le cose quindi si spiegano così: un allievo ufficiale

degli ulani della guardia, dando prova di prontezza dispirito aveva compiuto un gesto temerario che evidente-mente aveva mandato in visibilio i suoi compagni e altempo stesso aveva provocato il divieto di fare il bagno.

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Lunin, nella sua qualità di “primo scavezzacollo dell’e-sercito”, doveva “battere” Korocarov (si trattava anche,evidentemente, di tenere alto l’onore della cavalleria“stracciando” gli ulani). Il valore del gesto scapestratoconsiste nell’oltrepassare un limite non ancora oltrepas-sato da nessuno. Lev Tolstoj ha colto bene proprio que-sto spirito, quando descrive le baldorie di Pierre e diDolochov.

Che la scapestratezza da fenomeno ammesso si tra-sformasse in una forma di opposizione politica appareanche dal fatto che in essa si voleva vedere non uno sva-go complementare al servizio militare, ma un’antitesi diquesto. Il mondo della scapestratezza divenne una sferaautonoma, l’immersione nella quale esclude il servizio.In questo senso tale mondo cominciò a essere associato,da una parte, al mondo della vita privata e, dall’altra, al-la poesia, che già nel secolo XVIII si collocavano agli anti-podi del servizio.

Continuazione di questo processo fu il legame che sistabilì tra la sregolatezza, che prima riguardava total-mente la sfera del comportamento puramente praticoquotidiano, e le concezioni teorico-ideologiche. Questoprovocò, da una parte, la trasformazione della sfrenatez-za in una variante del comportamento socialmente signi-ficativo e, dall’altra, la sua ritualizzazione, per cui unabevuta fra amici non differisce da una liturgia carnevale-sca o da una seduta parodica di una loggia massonica.

Quando si trattava di valutare l’umana passione,l’impulso verso la felicità e la gioia, e di trovare a questisentimenti un posto nel sistema delle idee, il pensatoredel primo Ottocento stava di fronte alla necessità di sce-gliere tra due concezioni, ognuna delle quali era allora,posta in relazione con determinate tendenze del pensie-ro progressista.

La tradizione, risalente alla filosofia settecentesca,prendeva le mosse dall’idea che il diritto alla felicità è ri-

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posto nella natura dell’uomo e che il bene comune ditutti presuppone il massimo bene del singolo. In questaprospettiva l’uomo, nel suo tendere verso la felicità,mette in atto i precetti della Natura e della Morale. Ogniappello alla volontaria rinuncia alla felicità, era conside-rata alla stregua di una dottrina utile al dispotismo. Anzinell’etica edonistica propria dei materialisti del XVIII se-colo si vedeva anche una manifestazione di spirito liber-tario. La passione, era considerata un equivalente del-l’impulso alla libertà. Solo un uomo ricolmo di passioni,bramoso di felicità, aperto all’amore e alla gioia, nonpuò essere schiavo. Da questo punto di vista l’ideale li-bertario poteva incarnarsi in due figure equipollenti: ilcittadino ricolmo d’odio per il dispotismo, o la donnaappassionata assetata di felicità. Sono proprio queste ledue figure di spirito libertario che Puskin mise accantoin una poesia del 1817:

(...) v otecestve moëmGde vernyj um, gde geni my najdëm?Gde grazdanin s dusoju blagorodnoj,Vozvysennoj i plamenno svobodnoj?Gde zenscina – ne s chladnoj krasotoj,No s plamennoj, plenitel’noj, zivoj?(Puskin 1947, p. 43)

[(...) dove si trova nella patria mia / Un genio, una mentegenuina? / Un cittadino dall’anima eletta, / D’alto sentire,libera e ardente? / E donna bella, ma non fredda e altera, /Ma tutta fuoco, e incantatrice, e vera?].

In questa prospettiva l’iniziazione allo spirito liberta-rio era considerata coma una festa, e il banchetto, e per-fino l’orgia, acquistavano il carattere di una attuazionedell’ideale di libertà.

Poteva però esserci anche un’altra variante di moralelibertaria. Essa si fondava sul complesso conglomerato

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di concezioni etiche progressive legato alla revisione del-l’eredità filosofica dei materialisti del XVIII secolo e com-prendente le più contraddittorie fonti: da Rousseau nel-l’interpretazione di Robespierre fino a Schiller. Era unideale di stoicismo politico, di virtù romana, di asceti-smo eroico. L’amore e la felicità sono banditi da questomondo in quanto degradanti egoistici e indegni del cit-tadino. Modello ideale non è più la “donna bella, manon fredda e altera”, bensì l’ombra del severo Bruto e diMarfa Posadnica [celebre donna russa del XV secoloche, dopo la morte del marito, si mise a capo del partitoantimoscovita della repubblica di Novgorod (N.d.T.)].“Catone della sua repubblica”, come la chiamò Karam-zin. La dea dell’amore è proscritta in nome della musadello spirito “liberale”.

Begi, sokrojsja otocejCitery slabja carica!Gde ty, gde ty, groza carey,Svobody gordaja pevica?(Puskin 1947, p. 45)

[Va’ via, nasconditi lontano, / O imbelle regina di Citera!/ Ove sei, terrore dei sovrani, / Della libertà, tu, musa alte-ra?].

In questa luce il comportamento sregolato assumevaun significato diametralmente opposto. Comune era sol-tanto il fatto che in entrambi i casi esso era consideratocome provvisto di significato, passando dalla sfera dellanormale routine in quella dell’attività segnica. Si tratta diuna differenza sostanziale, in quanto la routine è qualco-sa che l’individuo non sceglie, ma riceve dalla società,dall’epoca o dalla sua costituzione psico-fisiologica co-me una realtà priva di alternativa. Il comportamento se-gnico è sempre il risultato di una scelta, e comporta, perconseguenza, la libera attività del suo soggetto, una sua

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scelta del linguaggio, del suo rapporto con la società(qui sono interessanti i casi in cui il comportamentonon-segnico diventa segnico agli occhi di un osservatoreesterno, ad esempio, di uno straniero, in quanto que-st’ultimo, involontariamente lo integra con la propriacapacità di fare altrimenti nelle medesime situazioni).

La questione che ora ci interessa riguarda direttamen-te il valore che si deve attribuire a fenomeni di primo pia-no della vita sociale russa negli anni Dieci, come la “Lam-pada verde”, l’“Arzamas”, e la “Società della risata”.

La più indicativa in questo senso è la storia degli stu-di sulla “Lampada verde”.

Le voci sulle orge che avrebbero avuto luogo tra imembri della “Lampada verde”, voci che circolavanotra la più giovane generazione dei contemporanei diPuskin, la quale conosceva l’ambiente degli anni Dieci-inizio anni Venti, soltanto per sentito dire trovaronoeco nella prima letteratura biografica, dando luogo auna tradizione, risalente agli scritti di Bartenev e An-nenkov, secondo cui la Lampada verde era una societàapolitica, sede di orgiastiche feste. Scëgolev in un arti-colo del 1907, in aspra polemica con questa tradizione,pose il problema del legame tra la Lampada verde e laLega della Prosperità (cfr. Scëgolev 1912, cap. “Zelënajalampa”; 1931). La parziale pubblicazione da parte diModzalevskij (1928) dell’archivio della Lampada verdeconfermò quest’ipotesi coi documenti, il che permise avari studiosi di avvalorarla (cfr. Ryleev 1934; Bazanov1949). In questa prospettiva il problema fu appuntoesposto nel lavoro conclusivo di Neckina (1955, pp.239-246). Infine Tomasevskij, riprendendo con il suoconsueto acume critico questo punto di vista, lo illustrònel più esauriente dei modi nella sua monografia suPuskin, dove la disamina della questione occupa più di40 pagine di testo. Non c’è motivo di sottoporre a revi-sione questi risultati.

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Tuttavia, proprio il modo esauriente e particolareg-giato con cui è stata esposta l’interpretazione dellaLampada verde come diramazione della Lega dellaProsperità rivela una certa unilateralità di questa impo-stazione. Lasciamo da parte le leggende e i pettegolezzie prendiamo in mano un ciclo di poesie di Puskin e lesue lettere indirizzate ai membri della “Lampada”. Ciaccorgeremo subito di un elemento comune che le col-lega inoltre ai versi di Ja. Tolstoj, da Tomasevskij (1956,p. 212) giustamente ritenuto “poeta stabile della ‘Lam-pada verde’”. Questa peculiarità consiste in una sintesitra un palese e inequivocabile libertarismo e un cultodella gioia dell’amore sensuale, un gusto dissacratore eun certo libertinaggio ostentato. Non per nulla in que-sti testi si riscontra così di frequente l’uso dei puntinidi sospensione, la cui presenza era impossibile nelleopere rivolte a Nikolaj Turgenev, a Caadaev o a FëdorGlinka. Tomasevskij cita un passo dell’epistola diPuskin a Jur’ev, e la confronta con la dedica di Ryleeval Vojnarovskij: “la parola ‘speranza’ aveva un significa-to civico”. Puskin scriveva a Jur’ev, membro dellaLampada verde:

Zdorovo, rycarilichieLjubvi, svobody i vina!Dlja nas, sojuzniki mladyeNadezdy lampa zazzena.

[Salve, arditi cavalieri / D’amore, vino e libertà! / Per noi,giovani qui uniti / Di speranza la lampada arde già].

L’uso della parola “speranza” nell’accezione civile ri-sulta evidente nella dedica al Vojnarovskij di Ryleev:

Ivnov’v nebesnoj visineZvezda nadezdy zasijale.(Ryleev, in Tomasevskij 1956, p. 197)

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[E ancora nell’alto del cielo / La stella della speranza ri-fulge].

Tuttavia, pur rilevando l’affinità tra le immagini diquesti testi, non si deve dimenticare che in Puskin iversi citati sono seguiti da altri, del tutto impossibiliper Ryleev, ma quanto mai caratteristici dell’intero ci-clo in esame:

Zdorovo, molodost’ i scast’e,Zastol’nyj kuboki bordel’, Gde s gromkim smechom sladostrast’eVedët nas janych na postel’.(Puskin 1947, p. 95)

[Salve, gioia e giovinezza, / Calice conviviale, e bordello, /Dove, ebbri e ridenti, / La voluttà ci conduce al letto].

Ora, se riteniamo che tutta la sostanza della Lampa-da verde si esaurisca nella sua qualità di diramazionedella Lega della Prosperità, come concilieremo versi delgenere (tutt’altro che isolati!) con il principio del “Li-bro verde”, secondo cui “la diffusione dei precetti dellamoralità e della virtù è il fine precipuo della Lega”, aicui membri veniva fatto obbligo di “esaltare in tutti i di-scorsi la virtù, umiliare il vizio, mostrare disprezzo perla debolezza”? Si ricordi il disgusto che Nicolaj Turge-nev provava per i “conviti” in quanto passatempo de-gno di “gaglioffi”: “Mosca è un baratro di piaceri dellavita dei sensi: si mangia, si beve, si dorme, si gioca a car-te, e tutto ciò alle spalle dei contadini oppressi dal lavo-ro” (Turgenev 1921, p. 259) (l’annotazione porta la datadel 1821, anno di pubblicazione dei Banchetti [Pizy] diBaratynskij).

I primi storici della Lampada verde, sottolineandonel’elemento “orgiastico”, le negavano un qualsiasi signifi-cato politico. Gli studiosi odierni, messa in luce la

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profondità dei reali interessi politici degli affiliati, hannopuramente e semplicemente cancellato ogni differenzatra la Lampada verde e l’atmosfera morale della Legadella Prosperità. La Neckina passa sotto silenzio questoaspetto del problema, Tomasevskij (1956, p. 206) trovauna via d’uscita, facendo una distinzione tra le riunionidella Lampada Verde serie e del tutto rispondenti allospirito della Lega e le serate, non prive di spirito di li-bertà, in casa di Nikita Vsevolozskij: “È ora di distin-guere tra le serate di Vsevolozskij e le riunioni della‘Lampada verde’”, egli scrive. È vero che subito dopoTomasevskij attenua notevolmente la sua affermazioneaggiungendo che “per Puskin, naturalmente, le serate incasa Vsevolozskij erano inseparabili da tutto il resto, co-me inseparabili erano le riunioni dell’‘Arzamas’ e le tra-dizionali cene con l’oca”. Non si capisce perché si deb-ba distinguere ciò che per Puskin era inseparabile e se sidebba in questo caso anche per l’Arzamas dividere le se-dute “serie” dalle cene “giocose”. È una via difficilmen-te percorribile.

La Lampada verde fu indiscutibilmente un sodaliziolibertario di letterati, non un’accolta di dissoluti. Batta-gliare intorno a questo problema oggi non ha più alcunsenso16. Non meno evidente è che la Lega della Pro-sperità cercasse di influire sulla “Lampada” (la parteci-pazione a essa di Fëdor Glinka e di Sergej Trubeckojnon lascia a questo proposito alcun dubbio). Ma que-sto allora significa che essa era una semplice filiale del-la Lega e che tra queste organizzazioni non si rilevauna differenza?

La differenza consisteva non negli ideali e negliorientamenti programmatici, bensì nel tipo di compor-tamento.

I massoni chiamavano le sedute della loggia “lavori”.Anche per un membro della Lega della Prosperità la suaattività di affiliato era un “lavoro” oppure, più solenne-

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mente, un “servizio”. Così infatti disse Puscin (1956, p.81) a Puskin: “Non sono l’unico a prestare questo nuovoservizio alla patria”. Lo stato d’animo dominante delcongiurato politico è grave e solenne. Per il membro del-la Lampada verde lo spirito libertario si colora di tonigioiosi, e l’attuazione degli ideali di libertà trasforma lavita in una festa ininterrotta. Grossman (1958, p. 143),che ci dà un ritratto di Puskin di questo periodo, fine-mente nota: “La lotta politica era da lui percepita noncome abnegazione e sacrificio, ma come gioia e festa”.

Ma è una festa dove la vita, straripando, si fa beffadei divieti. L’ardita sfrenatezza (cfr. “arditi cavalieri”) di-stingue gli ideali della Lampada verde dall’armonicoedonismo di Batjuskov (e dalla moderata giocondità del-l’Arzamas), avvicinandoli piuttosto allo sfrenato “spiritodegli ussari” di Denis Davydov o alla sregolatezza go-liardica di Jazykov.

La violazione del culto karamziniano del “decoro” simanifesta nel comportamento linguistico dei membridella “Lampada”. Non si tratta ovviamente dell’uso diparole oscene, altrimenti la “Lampada” non si distingue-rebbe da una qualsiasi bisboccia di ufficiali. La convin-zione degli studiosi, secondo i quali dei giovani ufficialie poeti brilli o anche semplicemente accalorati usasseronelle loro conversazioni il lessico del Dizionario dell’Ac-cademia, per cui certi famigerati interventi in quelle riu-nioni non dimostrerebbero altro che una scarsa raffina-tezza di spirito, questa convinzione ha un carattere piut-tosto comico; essa è dovuta a quell’ipnosi delle fontiscritte cui sottostà il pensiero storico odierno: il docu-mento viene identificato con la realtà, e la lingua del do-cumento con la lingua della vita. Si tratta in realtà di unacommistione del linguaggio del pensiero politico e filo-sofico alto e della raffinata poesia con un lessico da tri-vio. Da qui nasce quel particolare stile accentuatamentefamiliare che è così caratteristico delle lettere di Puskin

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ai membri della Lampada verde. Questa lingua ricca diinattesi accostamenti e di coesistenze stilistiche divenneuna sorta di parola d’ordine in base alla quale si ricono-scevano i “propri” uomini. L’esistenza di una parolad’ordine linguistica di un gergo di gruppo molto marca-to è un tratto caratteristico sia della Lampada che del-l’Arzamas. Trasferendosi col pensiero dall’esilio tra gliamici della Lampada verde, Puskin sottolineò proprioquesto “loro” linguaggio:

Vnov slysu, vernye, poety,Vas ocarovannyj jazyk (...).(Puskin 1947, p. 264)

[E qui odo ancora, fedeli poeti, / La vostra lingua fatata(...)].

Al comportamento linguistico doveva corrisponder-ne anche uno pratico, basato sulla stessa commistione.Già nel 1817 Puskin scriveva a Kaverin (l’atmosfera cheregnava tra gli ussari preparava quella della Lampadaverde) che

(...) mozno druzno zit’S stichami, s kartami, s Platonom i s bokalom,cto rezvych salostej pod lëgkim pokryvalomI um vozvysennyj i serdce mozno skryt’.(Puskin 1937a, p. 238)

[(...) vivere si può in armonia / Coi versi, le carte, Platonee il calice, / E un intelletto eccelso e un cuor si può celare/ Sotto il velo lieve di giocose follie].

Si ricordi che proprio contro questa promiscuità siscaglia il moralista e predicatore Cackij (sull’atteggia-mento dei decabristi nei confronti del gioco delle cartesi veda più avanti):

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Kogda v delach ja ot veselij prjacus’,Kogda duracit’sja – duracus’,A smesivat’ dva eti remeslaEst’ t’ma ochotnikov, ja ne iz ich cisla.

[Se faccio cose serie, fuggo il gioco, / Quando vo’ divertir-mi, mi diverto, / Di mescolare insieme questo e quello / Amolti piace, ma non piace a me].

La familiarità elevata a culto dava luogo a una sorta diritualizzazione dell’esistenza. Ma si trattava di una ritualitàalla rovescia, analoga ai buffoneschi riti del carnevale. Diqui certe caratteristiche sostituzioni sacrileghe: la “Vergi-ne” di Voltaire è “la sacra Bibbia delle Càriti”. L’incontrocon “Laide” può essere nominato direttamente, con osten-tata inosservanza dei tabù verbali del gran mondo:

Kodga Zvnov’ sjadem vcetveromS c..., vinom i cubukami(Puskin 1947, p. 77)

[Quando di nuovo sederemo in quattro / Con le puttanele pipe e il vino]

e tradotto nella lingua di un rituale sacrilego:

Provodit naboznuju noc’S mladoj monasinkoj Citery.(p. 87)

[Trascorre una pia notte / Con la giovane monaca di Citera].

Tutto questo si può paragonare alla carnevalizzazionedel rituale massonico nell’Arzamas. In entrambi i casi èevidente l’antiritualità del buffonesco rituale. Ma se un“liberale” non si divertiva allo stesso modo di unMolcalin, lo svago del “carbonaro” russo non somigliavaai sollazzi del liberale.

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Con non minor nettezza dell’affiliazione formale auna società segreta, il comportamento quotidiano sepa-rava il rivoluzionario di estrazione nobiliare non soltan-to dagli uomini del “trascorso secolo”, ma anche dal-l’ampia cerchia dei frondisti, liberi pensatori e “libera-li”. Che l’accentuazione di un particolare comportamen-to (“Di queste qualità ne avete a iosa”, – dice Sof’ja aCackij) fosse in contrasto con l’idea di cospirazione, nonturbava i giovani congiurati. È sintomatico che non ildecabrista Nikolaj Turgenev, ma il suo prudente fratellomaggiore dovesse cercar di convincere l’ultimo dei fra-telli, Sergej Ivanovic, impetuosamente attratto dalle nor-me e dagli ideali decabristi, a non palesare le proprieidee nella vita d’ogni giorno. Nikolaj Ivanovic impartivainvece al fratello insegnamenti opposti: “Non per piace-re ai gaglioffi abbiamo accolto i principi liberali. Essinon ci possono amare. E noi sempre li disprezzeremo”(Turgenev 1936, p. 208).

Espressione di tale atteggiamento, lo “sguardo mi-naccioso e l’aspro tono”, per usare le parole dette daSof’ja a proposito di Cackij, rendevano poco inclini al-lo scherzo spensierato, incapace di trasformarsi in sati-ra sociale. I decabristi non erano dei burloni. Entran-do nell’allegria carnevalizzata delle società dei giovaniliberali, essi cercavano di indirizzarne l’attività versoobiettivi “seri” e “nobili” e così distruggevano il fon-damento stesso dei loro sodalizi. È difficile immagi-narsi il contegno di un Glinka alle riunioni della Lam-pada verde o, a maggior ragione, alle cene di Vsevo-lozskij. Sappiamo però benissimo quale piega preserogli avvenimenti nell’Arzamas dopo l’ingresso dei deca-bristi nell’associazione. I discorsi di Nikolaj Turgeneve, più ancora, di Orlov, erano “ardenti” e “sostanzio-si”, ma non certo animati da spensierata arguzia. Lostesso Orlov (1933, p. 206) ne era, del resto, perfetta-mente consapevole: “Come potrà una mano, avvezza a

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stringere la pesante spada dell’invettiva, adoprar come siconviene la lieve arma di Apollo? E spetta forse a unavoce, arrochita nel gridar bellici comandi, parlare la di-vina favella dell’ispirazione o il raffinato linguaggio deldileggio?”.

Anche gli interventi dei decabristi alla Lega della Ri-sata non brillarono certo per umorismo. Ecco come unodi essi appare dalle memorie di Dmitriev:

Alla seconda riunione Sachovskoj invitò due visitato-ri (non membri), Fonvizin e Murav’ëv (...). Durante lariunione gli ospiti accesero la pipa, poi andarono nellastanza accanto e, chissà perché, parlarono tra loro sotto-voce. Ritornati, dissero che lavori di quel genere eranotroppo seri, e così via. Quindi presero a dar consigli.Sachovskoj arrossì e i membri della lega si offesero(Grum-Grzimajlo, Sorokin 1963, p. 148).

Nessuna “risata”, come si vede.Eliminando la divisione – tipica della società nobilia-

re – della vita pratica in due sfere distinte, gli impegni ela ricreazione, i “liberali” avrebbero voluto trasformarela vita intera in una festa, mentre i cospiratori ne avreb-bero voluto fare un “servizio”.

Ogni forma di divertimento mondano – il ballo, lecarte, i corteggiamenti – viene da essi severamente con-dannata come espressione di vacuità spirituale. In unalettera a Jakuskin Murav’ëv-Apostol (1922, p. 85) metteesplicitamente in relazione la passione del gioco con lagenerale decadenza dello spirito civico in un’epoca direazione politica: “Dopo la guerra del 1814 la passionedel gioco mi pareva scomparsa tra la gioventù. A chedunque attribuiremo l’attuale reviviscenza di un’occu-pazione così spregevole?”, egli si chiedeva, evidente-mente non ammettendo alcuna possibilità di simbiositra le “carte” e “Platone”.

Come occupazioni “triviali”, le carte e il ballo veniva-no posti sul medesimo piano e banditi entrambi dalle se-

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rate a cui si riuniva “il fior fiore della gioventù pensan-te”. Alle serate in casa di Liprandi “non si danzava né sigiocava a carte”17. Per sottolineare l’abisso che separaCackij dal suo ambiente, Griboedov conclude il mono-logo del protagonista con questa didascalia: “Si guardaintorno: tutti volteggiano ballando il valzer con grandeimpegno. I vecchi si sono seduti ai tavoli da gioco”.Nikolaj Turgenev, in una caratteristica lettera al fratelloSergej, si stupisce che in un paese come la Francia, incui ferveva un’intensa vita politica, si potesse perdertempo nel ballo: “Ho sentito che balli. La figlia del con-te Golovin ha scritto al padre di aver danzato con te.Così non senza meraviglia ho saputo che in Francia an-cora si balla! Une écossaise constitutionelle, indépen-dante, ou une contredanse monarchique ou une dansecontromonarchique?” (Turgenev 1936, p. 280)18.

Che non si trattasse di un semplice disinteresse per ilballo, ma della scelta di un tipo di comportamento, percui il rifiuto della danza non era che un segno, è testimo-niato dal fatto che i giovani “seri” del 1818-19 (e per in-flusso dei decabristi la “serietà” era venuta di moda, an-che al di là della cerchia immediata dei membri delle so-cietà segrete) andavano ai balli per non ballare. È noto,quasi da antologia, questo passo del puskiniano Roman-zo in lettere [Roman v pis’mach]: “Le tue profonde spe-culazioni risalgono al 1818. A quel tempo l’austerità el’economia politica erano di moda. Ci presentavamo aiballi con la spada al fianco [gli ufficiali intenzionati aballare si toglievano la spada prima ancora di entrare insala e la lasciavano in consegna al portiere]: per noi bal-lare era sconveniente né avevamo il tempo di dedicarcialle signore” (Puskin 1948, p. 55). Cfr. la battuta dellaprincipessa-nonna nella commedia di Griboedov: “Iballerini son diventati tremendamente rari”.

All’ideale dei “banchetti” si contrapposero ostentata-mente le spartane “colazioni russe” in casa di Ryleev,

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composte di soli piatti nazionali, “che venivano regolar-mente offerte alle due o alle tre dopo mezzogiorno e acui prendevan parte molti letterati e membri della no-stra Lega. La colazione, invariabilmente, constava di unacaraffa di vodka, cavoli cappucci marinati e pane di se-gale. E non vi paia bizzarra la spartana frugalità della co-lazione”. Essa “s’intonava a una costante aspirazione diRyleev: conferire alla sua vita l’impronta della ‘russi-cità’” (Bestuzev 1951, p. 53). Bestuzev è lontano dall’iro-nia quando ci descrive i letterati che, “passeggiando su egiù col sigaro in bocca e mangiucchiando del cavolo” (p.54), criticano il nebuloso romanticismo di Zukovskij.Caratteristico è l’accostamento tra il “sigaro” e il “cavo-lo”, in cui il primo esprime semplicemente l’automati-smo dell’abitudine e testimonia quanto profonda fossel’europeizzazione della reale vita russa, mentre il secon-do è un segno dotato di rilevanza ideologica. Ma Be-stuzev non ravvisa qui alcuna contraddizione, in quantoil sigaro e il cavolo si dispongono a diversi livelli, e il si-garo è percepibile solo da un osservatore esterno, cioèda noi.

Al giovane gaudente, che divide il tempo tra i balli ele bevute fra amici, si contrappone l’anacoreta, che tra-scorre il tempo nel proprio studio. La lettura entusiasmapersino i giovani militari, che adesso assomigliano più astudiosi in erba che a scapestrati in uniforme. Murav’ëv,Pestel’, Jakuskin, Zavalisin, Baten’kov e decine di altrigiovani della loro cerchia si dedicano allo studio, assisto-no a lezioni private, ordinano libri e riviste, rifuggonodalla compagnia delle signore:

(...) modnyj krug sovsem teper’ ne v mode.My, znaes’, milaja, vse nynce na svobode.Ne ezdim v obscestva, ne znaem nasich dam.My ich ostavili na zertvu [starikam],Ljubeznym balovnjam os’mnadcatogo veka.(Puskin)

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[(...) I circoli alla moda non sono più di moda. / Noi sia-mo, cara, liberi dagli impegni. / La società, le amiche piùnon frequentiamo. / Le abbiamo sacrificate ai vecchi, /Gentili beniamini del secolo passato].

Professory!! – u nich ucilsja nas rodnja,I vysel! chot’ sejcas v apteku, v podmaster’i,Ot zenscin begaet (...).(Griboedov)

[Professori!! con loro studiò il nostro parente, / Or s’è di-plomato, buono per far l’apprendista in farmacia / Fuggele donne (...)].

Zavalisin , che a 16 anni era stato nominato docentedi astronomia e matematica superiore a quella stessa Ac-cademia di Marina i cui corsi aveva appena brillante-mente concluso, e a 18 aveva intrapreso un viaggio distudio intorno al mondo, si lamentava che Pietroburgoaltro non offrisse che “le solite visite, le solite carte, lasolita vana mondanità (...). Non un minuto rimane libe-ro per gli studi diletti” (Zavalisin 1908, p. 39).

Nell’epoca a cavallo tra il secolo XVIII e il XIX un in-tellettuale raznocinec conscio dell’abisso che divideva lateoria dalla realtà, ricorreva talvolta a soluzioni di com-promesso:

(...) Nosi licinu v svete,A filosófom bud’, zapersis v kabinete.(Slovcov 1971, p. 209)

[(...) Porta pure la maschera nel mondo, / E chiuso nel tuostudio sii filosofo].

L’ascetismo decabrista era accompagnato da un deci-so e palese disprezzo per gli abituali passatempi dellanobiltà. Un’apposita regola della Lampada verde pre-scriveva: “Non si scialacqui il tempo negli effimeri pia-

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ceri del gran mondo, bensì consacri ognuno i momentiliberi dai propri impegni ad utili occupazioni o a con-versazioni con persone di sano pensare” (Pypin 1908, p.567). Diviene possibile il tipo dell’ussaro-filosofo, ana-coreta e dotto, come Caadaev:

(...) uvizu kabinet,Gde ty, mudrec, a inogda mectatel’I vetrenoj tolpy besstrastnyj nabljudatel’.(Puskin)

[(...) nello studio rivedo / Te, sempre saggio, talvolta so-gnatore, / Di questa folla vacua sereno osservatore].

Il passatempo prediletto di Puskin e Caadaev consi-steva nel leggere insieme (“... con Kaverin mi divertivo19,con Molostvov rampognavo la Russia, col mio Caadaevinvece leggevo”). Puskin offre una gamma estremamen-te precisa dei modi in cui un sentimento di opposizionepolitica si manifesta nelle forme del comportamentoquotidiano: banchetti, “libere conversazioni”, letture.Questo non soltanto destava i sospetti delle autorità, mairritava chi della scapestratezza faceva un sinonimo del-l’indipendenza (Davydov 1962, p. 102):

Zomini da Zomini!A ob vodke ni polslova!

[Sempre uomini e uomini! / E della vodka neanche unaparola!].

Sarebbe tuttavia un madornale errore immaginarsiun membro delle società segrete come un solitario rinta-nato nel suo studio. Quanto sopra si è detto significasoltanto che egli rifiutava le vecchie forme di vita comu-nitaria. Anzi, il concetto di “sforzi congiunti” diventa l’i-dea-guida dei decabristi, compenetrando non solo le lo-

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ro concezioni teoriche, ma anche il comportamentoquotidiano. In vari casi tale idea precede quella dellacongiura politica e facilita psicologicamente l’avvio del-l’attività cospirativa. “Quando ero allievo ufficiale, – ri-corda Zavalisin (e lo fu dal 1816 al 1819; nella Lega delNord entrò nel 1824) – non mi limitavo a osservare at-tentamente tutti i difetti, i disordini e gli abusi, ma li sot-toponevo sempre al giudizio dei miei compagni più seri,affinché, unendo le nostre forze, ne chiarissimo le causee ne ponderassimo i rimedi” (Zavalisin 1908, p. 41).

Intrinseci ai decabristi sono il culto della fratellanza,basato su una comunità di ideali, e l’esaltazione dell’a-micizia, non di rado a scapito di altri rapporti. Ryleev,così ardente nell’amicizia, secondo la testimonianza im-parziale del suo servitore Agap Ivanov, “sembrava fred-do verso i familiari e si infastidiva se lo distraevano dallavoro”20.

La definizione che Puskin dà dei decabristi come“fratelli, amici, compagni” caratterizza perfettamente lagerarchia dei loro rapporti nei diversi gradi d’intimità. Ese la cerchia dei “fratelli” tendeva a restringersi all’ambi-to cospirativo, al polo opposto si collocavano i “compa-gni”, concetto agevolmente dilatabile a quello di “gio-ventù”, di “uomini illuminati”. Ma non basta: anchequesto concetto, già di per sé estremamente esteso, rien-trava in un ancora più ampio “noi” culturale (contrap-posto a un “loro”). “Noi, noi giovani” – afferma Cackij.E Zavalisin (1908, p. 39, c.vo Lotman) scrive: “Gli uffi-ciali anziani [nella flotta] erano a quel tempo personaggiinsignificanti (specie quelli di origine anglosassone) o di-sonesti, il che acquistava particolare spicco nel confron-to con gli uomini della nostra generazione, dotati, colti,assolutamente probi”.

Ma se, da una parte, il mondo della politica permea-va intimamente i rapporti personali e familiari, questi ul-timi, a loro volta, impregnavano di sé tutto lo spessore

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dell’organizzazione politica. Se nelle successive fasi delmovimento rivoluzionario considerazioni di ordine ideo-logico e politico indurranno a rompere amicizie, amori eaffetti di antica data, nel caso dei decabristi è l’organiz-zazione politica ad assumere una forma di diretto rap-porto umano, di amicizia, di attaccamento agli uominioltre che alle loro convinzioni. Tutti coloro che facevanoattività politica erano legati gli uni agli altri da solidirapporti extra politici (si trattava di parenti, compagnidi reggimenti o di istituto, reduci dalle medesime batta-glie, o semplicemente conoscenti nell’ambito della so-cietà mondana), rapporti che abbracciavano tutta unacerchia di persone, dallo zar e dai granduchi, con cui erapossibile incontrarsi e conversare ai balli o alle passeg-giate, fino al giovane congiurato, il che conferiva all’inte-ro quadro di quest’epoca una particolare impronta.

In nessun altro movimento politico russo è dato ri-scontrare tanta dovizia di relazioni di parentela: pernon parlare del complesso intrecciarsi di tali vincolinella famiglia dei Murav’ëv-Luciny e intorno alla casadei Raevskij (Orlov e Volkonskij sposano le figlie delgenerale Raevskij; Davydov, cugino del poeta, condan-nato in prima istanza al carcere perpetuo, è fratello ute-rino del generale), basterà ricordare i quattro fratelliBestuzev, i fratelli Vadkovskij, i fratelli Bobriscev-Puskin, i fratelli Bodisko, i fratelli Borisov, i fratelli Kü-chelbecker ecc. Se poi teniamo conto anche dei rappor-ti di parentela acquisita, delle parentele di secondo eterzo grado, dei legami di vicinato (che implicava unacomunità di ricordi d’infanzia e univa effettivamente lepersone non meno della parentela), si otterrà un qua-dro che non ha eguali nella successiva storia del movi-mento di liberazione in Russia.

Non meno significativo è che i rapporti di consangui-neità e amicizia (conoscenze fatte al club, al ballo, al reg-gimento, durante una campagna militare) legassero i de-

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cabristi non soltanto agli amici, ma anche agli avversari,senza che per questa contraddizione né l’uno né l’altrotipo di rapporto venisse meno.

La sorte dei fratelli Michail e Aleksej Orlov è in que-sto senso significativa, ma tutt’altro che unica. Potrem-mo citare il caso di Murav’ëv che, già affiliato in gio-ventù alla Lega della Salvezza e alla Lega della Prospe-rità (di cui aveva anche, in collaborazione con altri,compilato lo statuto), reprimerà nel sangue, qualche an-no più tardi, l’insurrezione polacca. Ma l’ambigua inde-terminatezza che i legami amichevoli e mondani intro-ducevano nei rapporti personali fra avversari politici, simanifesta con più trasparenza nei casi più comuni. Il 14dicembre 1825 sulla Piazza del Senato si trovava, a fian-co dello zar Nicola, l’aiutante di campo Durnovo. A tar-da notte proprio Durnovo fu inviato ad arrestare Ryleev,e l’ordine venne regolarmente eseguito. A quel tempoDurnovo già godeva della piena fiducia del nuovo impe-ratore, che il giorno avanti gli aveva affidato la rischiosamissione (rimasta inattuata) di parlamentare con i reggi-menti rivoluzionari. Qualche tempo dopo fu proprioDurnovo a scortare Orlov in carcere.

Le cose sembrano estremamente chiare: ci troviamodi fronte a un fedele funzionario di sentimenti reazio-nari, a un “nemico” dal punto di vista dei decabristi.Ma vediamo più da vicino la fisionomia di questo per-sonaggio21.

Durnovo nasce nel 1792. Nel 1810 fa il suo ingressoalla scuola allievi-ufficiali. Nel 1811 è promosso tenentee assegnato al capo di stato maggiore principe Volkon-skij. Entra quindi in una società segreta di cui esiste no-tizia solo nelle memorie di Murav’ëv: “Membri di que-sta lega erano [oltre a Ramburg], anche altri ufficiali:Durnovo, Aleksandr Scerbinin, Windemann, Belling-shausen; benché avessi udito parlare di una siffatta lega,non ne conoscevo con esattezza i fini, poiché i membri

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della medesima, radunandosi in casa di Durnovo, si ce-lavano dai loro compagni” (Murav’ëv 1885, p. 26; cfr.Cernov 1960, pp. 24-25; Lotman 1963, pp. 15-17). Fi-nora era questa l’unica testimonianza in proposito. Siaggiunge ora quella del diario dello stesso Durnovo. Il25 gennaio 1812 egli annota: “Già un anno è trascorsodalla fondazione della nostra Lega, da noi detta ‘Caval-leria’ (Chevalerie). Pranzato che ebbi in casa di Demi-dov, mi recai alle nove alla riunione, che doveva tenersipresso l’Eremita (Solitaire). Fino alle tre del mattino siprolungò detta riunione, che fu presieduta da quattrocavalieri-fondatori”22.

Apprendiamo così per la prima volta la data esattadella fondazione e il nome della società segreta – che ciricorda stranamente i “Cavalieri russi” Mamonov e Or-lov – nonché alcuni aspetti del suo rituale interno. Lasocietà aveva uno statuto, come risulta dall’annotazionedel 25 gennaio 1813: “Fan oggi due anni da che vennefondata la nostra Cavalleria. Sono l’unico dei confratelliche si trovi a Pietroburgo, tutti gli altri illuminati (illu-stres) membri sono sui campi di battaglia, ove anch’iomi accingo a tornare. Questa sera non vi fu tuttavia al-cuna riunione, come lo statuto prescrive”23.

Alla vigilia della guerra con la Francia nel 1812 Dur-novo si reca a Vilno dove stringe rapporti particolarmentestretti con i fratelli Murav’ëv, soprattutto con Aleksandr eNikolaj, che lo invitano a stabilirsi in casa loro. Al gruppopresto si uniscono Michail Orlov, che Durnovo già cono-sceva per essere stato suo compagno d’armi a Pietrobur-go (agli ordini del principe Volkonskij), Kolosin eVolkonskij. Insieme a Orlov egli polemizza contro il mi-sticismo di Aleksandr Murav’ëv, il che dà luogo ad acca-nite discussioni. Incontri, passeggiate, conversazioni conAleksandr Murav’ëv e Orlov riempiono tutte le paginedel diario. Limitiamoci a citare le annotazioni del 21 e 22giugno: “Orlov è ritornato col generale Balasov. S’erano

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recati a conferire con Napoleone. Più di un’ora il sovranoha trascorso in colloquio con Orlov. Si dice ch’egli sia as-sai soddisfatto della condotta di quest’ultimo nell’esercitonemico. Con grande asprezza ha risposto al marescialloDavout che tentava di provocarlo coi suoi discorsi”. 22giugno: “Quel che avevamo previsto s’è avverato: il miocompagno Orlov, aiutante di campo del principe Volkon-skij e tenente della guardia a cavallo, è stato nominatoaiutante di campo dell’imperatore. Sotto tutti i riguardiegli ha meritato questo onore”24. Subito dopo lo zar, Dur-novo e Orlov abbandonano l’esercito al seguito diVolkonskij, e partono alla volta di Mosca.

I legami di Durnovo con i circoli decabristi non sispezzano neppure in seguito. O quanto meno il suo dia-rio, che fissa dettagliatamente i fatti esteriori della vita,ma palesemente omette tutti i lati pericolosi (non s’in-contrano per esempio, notizie sulla “Cavalleria”, trannequelle citate, benché si tenessero evidentemente riunioniperiodiche; si hanno frequenti accenni a discussioni ecolloqui, ma non se ne rivela il contenuto, e così via), in-contriamo all’improvviso, in data 20 giugno 1817,un’annotazione di questo tenore:

Passeggiavo tranquillamente nel mio giardino, quand’eccoviene a cercarmi una staffetta di Zakrevskij. Ritenni si trat-tasse di un viaggio in remote plaghe della Russia, ma qualefu il mio piacevole stupore quando appresi che l’imperato-re mi ordinava di garantire l’ordine durante lo spostamen-to delle truppe dagli avamposti al Palazzo d’inverno25.

Aggiungeremo che dopo il 14 dicembre 1825 Durno-vo si sottrasse volontariamente a quel profluvio di augu-ste ricompense che si riversarono su chiunque, il giornofatale, si fosse trovato al fianco dello zar. Inoltre, mentresotto Alessandro I aveva ricoperto l’importante carica diaiutante di campo26 e, in seguito alle campagne di guer-ra del 1812-14, era stato insignito di numerose decora-

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zioni russe, prussiane, austriache e svedesi (Alessandroebbe a dire di lui: “Durnovo è un prode ufficiale”), sot-to Nicola I egli occupò, nella cancelleria dello stato mag-giore generale, la modesta posizione di primo segretariodel reggente. Ma anche lì non dovette sentirsi a proprioagio, se nel 1828 chiese di riprendere il servizio militareeffettivo (e nell’occasione fu promosso generale maggio-re). Cadde combattendo durante l’assedio di Sumla27.

C’è dunque da stupirsi se Durnovo e Orlov, che nel1825 il destino spinse in opposte direzioni, s’incontraro-no non come nemici politici, ma, se non come amici, co-me buoni conoscenti, e per tutta la strada che conduce-va alla fortezza di San Pietro e Paolo conversarono conpiena cordialità?

Anche questa peculiarità ebbe il suo influsso sul mo-do di comportarsi dei decabristi durante l’istruttoria. Ilrivoluzionario delle epoche successive non conosceràpersonalmente i suoi avversari, e in essi vedrà delle forzepolitiche, e non degli uomini. Il decabrista, persino neimembri della commissione inquirente non poteva nonvedere degli uomini a lui noti perché colleghi di servizioo compagni di vita mondana. Si trattava di suoi cono-scenti o di suoi superiori. Egli poteva disprezzarne l’ottu-sità senile, il carrierismo, la servilità, ma non poteva ve-dere in essi dei “tiranni” e dei despoti, degni di tacitianeinvettive. Usare con loro il linguaggio dell’alta oratoriapolitica era impossibile, e questo disorientò i detenuti.

Se storicamente la poesia decabrista fu in buonaparte oscurata dall’opera di contemporanei geniali co-me Zukovskij, Griboedov e Puskin, e se le concezionipolitiche dei decabristi apparivano invecchiate già agliuomini della generazione di Belinskij e Herzen proprionella creazione di un tipo d’uomo del tutto nuovo perla Russia il loro contributo alla cultura russa si dimo-strò perenne e, per il suo grado d’approssimazione alla

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norma, all’ideale, ricorda il contributo di Puskin allapoesia russa.

Tutta la figura del decabrista era inscindibile dal sen-timento della dignità personale, sentimento basato su unaltissimo senso dell’onore e sulla fede che ogni parteci-pante del movimento aveva nella propria grandezza.Colpisce una certa ingenuità degli apprezzamenti di Za-valisin (1908, p. 46) su alcuni compagni di corso che,per ambizioni di carriera, avevano abbandonato gli studiteorici, “e di conseguenza quasi senza eccezione s’eranoconvertiti in semplici mortali”.

Questo induceva a considerare ogni azione come si-gnificativa, degna del ricordo dei posteri e dell’attenzio-ne degli storici, ricca di un senso superiore. Di qui, dauna parte, una certa tendenza alla posa o alla teatralitànel comportamento quotidiano (cfr. la scena della spie-gazione di Ryleev con la madre, descritta da Bestuzev1951, pp. 9-11), e, dall’altra, l’estremo rigore nelle nor-me di tale comportamento. Il senso della rilevanza poli-tica di tutto il proprio comportamento fu sostituito inSiberia, in un’epoca in cui lo storicismo era diventato l’i-dea guida, dal senso della rilevanza storica. “Lunin viveper la storia”, scrive Sutgof a Muchanov. Lo stesso Lu-nin, paragonandosi all’alto dignitario Novosil’cev, allanotizia della morte di quest’ultimo scriveva: “A qual se-gno divergono i nostri destini! A uno il patibolo e la sto-ria, all’altro il seggio presidenziale al Consiglio e unamenzione nell’annuario di Stato”.

È curioso che qui la sorte reale sia il patibolo, mentrela presidenza del Consiglio sia espressione in quel segnocomplesso che per Lunin è la vita umana (la vita ha unsignificato). Il contenuto è invece la presenza o l’assenzadi spiritualità, che a sua volta è simboleggiata in un te-sto: una riga di storia o una riga d’annuario.

Comparare il comportamento dei decabristi alla poe-sia non è un esercizio retorico ma un’operazione seria-

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mente fondata. La poesia con l’elemento inconscio dellalingua costruisce un testo cosciente, provvisto di un se-condo, più complesso significato, un testo in cui tuttoacquista rilevanza semantica, persino ciò che nel sistemadella lingua in quanto tale aveva un carattere puramenteformale.

Con l’elemento inconscio del comportamento quoti-diano del nobile russo al confine tra il XVIII e il XIX seco-lo i decabristi costruirono un sistema cosciente di com-portamento quotidiano ideologicamente significativo,compiuto come un testo e compenetrato di un senso su-periore.

Facciamo un solo esempio di atteggiamento pura-mente artistico verso il materiale del comportamento.Nel suo aspetto esteriore l’uomo può mutare la petti-natura, l’andatura, la posa ecc., elementi che, essendorisultato di una scelta, s’impregnano facilmente di si-gnificato (“pettinatura negligente”, “pettinatura artisti-ca”, “pettinatura all’imperatore” e così via). Privi di al-ternativa sono invece, ovviamente, i lineamenti del vol-to e la statura. E se uno scrittore, che può attribuirequesti connotati al suo eroe come gli pare e piace, lirende così portatori di importanti significati, nella vitapratica come regola semiotizziamo non il volto, ma lasua espressione, non la statura, ma il portamento (cer-to, anche questi elementi costanti dell’aspetto fisicovengono da noi percepiti come segnali, ma solo inquanto inseriti in sistemi paralinguistici complessi).Ancora più interessanti sono i casi in cui proprio l’a-spetto dato dalla natura è interpretato come segno,cioè in cui l’uomo considera se stesso come una comu-nicazione, il cui senso egli deve ancora decifrare (ossiadesumere dal proprio aspetto esterno la propria desti-nazione nella storia, nella sorte dell’umanità ecc.). Ec-co che cosa scrive il sacerdote Myslovskij, che conobbePestel’ in fortezza:

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Aveva 33 anni, era di media statura, bello e pallido ilvolto, espressivi i lineamenti o le fattezze; pronto e riso-luto nei modi, quant’altri mai eloquente; profondo ma-tematico, tattico militare eccellente; nelle maniere, nellemovenze, nella statura e persino nel volto somigliantissi-mo a Napoleone. E fu, questa somiglianza col grandeuomo, da tutti riconosciuta, cagione di tante dissenna-tezze e misfatti (Myslovskij 1905, p. 39).

Dalle memorie di Olenina (1938, p. 485): “SergejMurav’ëv-Apostol, personalità non meno ragguardevole[di Nikita Murav’ëv] assomigliava straordinariamente aNapoleone I, il che doveva non poco eccitare la sua im-maginazione”.

Basta confrontare queste caratteristiche con l’aspettoche Puskin conferì a German [Protagonista della Damadi picche (N.d.T.)], per riconoscere la presenza di unprincipio comune, di carattere sostanzialmente artistico.Solo che Puskin se ne serve per costruire un testo lette-rario e un personaggio d’invenzione, mentre Pestel’ eMurav’ëv-Apostol lo applicano a delle biografie ben rea-li: le loro. Questo modo di trattare il proprio comporta-mento in quanto consapevolmente creato secondo leleggi e i modelli della grande arte non portava però auna estetizzazione della categoria del comportamento –come, per esempio, il ziznetvorcestvo (“creazione dellavita”) dei simbolisti novecenteschi –, in quanto il com-portamento, così come l’arte, per i decabristi non fu unfine, ma un mezzo, espressione esteriore di una grandedensità spirituale del testo della vita o del testo dell’arte.

Non si deve dimenticare che, nonostante i palesi le-gami tra il comportamento dei decabristi e i principi delromanticismo, l’accentuata semioticità (teatralità, lette-rarietà, posa) del loro comportamento quotidiano non sitrasformava in enfasi o affettazione; al contrario, colpi-sce che si unisse a semplicità e sincerità. Olenina, checonobbe da vicino fin dall’infanzia molti decabristi, os-

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serva che “i Murav’ëv in Russia erano né più né menoche la famiglia dei Gracchi”, ma aggiunge che NikitaMurav’ëv “era morbosamente, nervosamente timido”(pp. 486, 485). Se si considerano i caratteri di questi uo-mini in tutta la loro varietà, dall’infantile semplicità e ti-midezza di Ryleev alla raffinata semplicità aristocraticadi Caadaev, ci si convince che l’enfasi d’una bassa teatra-lità era estranea all’ideale decabrista del comportamentoquotidiano.

La cagione di ciò va vista nel fatto che l’ideale deca-brista, a differenza di quello bazaroviano [Bazarov è ilprotagonista di Padri e figli di Turgenev (N.d.T.)], non sifondava sul rifiuto delle norme d’etichetta elaborate dal-la cultura, ma sull’assimilazione e rielaborazione di talinorme. Si trattava di un comportamento orientato nonsulla Natura, ma sulla Cultura. Inoltre, rimaneva pursempre un comportamento aristocratico, che non di-spensava dalla buona educazione; e per un nobile coltoun’autentica “buona educazione” significava semplicitàdi tratto e l’assenza di quel senso di inferiorità sociale edi risentimento che psicologicamente stava alla base del-le bazaroviane maniere del raznocinec [cioè dell’intellet-tuale di estrazione plebea (N.d.T.)]. A questo stato dicose si riconnette anche la facilità, a prima vista stupefa-cente, con cui i decabristi esiliati in Siberia venivano ac-colti nell’ambiente popolare, una facilità che risultò per-duta già a partire da Dostoevskij e dagli altri membri delcircolo di Petrasevskij. Belogolovyj, che per un lungoperiodo di tempo ebbe occasione di osservare i decabri-sti deportati con l’occhio sensibile di un bambino d’ori-gine non nobiliare, rileva a questo proposito:

A Irkutsk il vecchio Volkonskij – aveva allora più di 60 an-ni – passava per un grande originale. Finito in Siberia, ave-va rotto ogni rapporto col suo brillante e aristocratico pas-sato e si era trasformato in agricoltore pratico e affaccen-dato ed era proprio diventato come uno del popolo (...) e

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stringeva amicizia coi contadini (...). I cittadini che lo co-noscevano restavano sbalorditi quando, passando per ilmercato dopo la messa domenicale, vedevano il principeaccovacciato in serpa a un carro sovraccarico di sacchi difarina, attorniato da un gruppo di contadini con cui divi-deva un pezzo di pane integrale, conversando animata-mente (...). La casa del principe era frequentata soprattut-to da gente del popolo, e sui pavimenti non mancavanomai impronte di stivali fangosi. Nel salotto di sua moglieVolkonskij si presentava a volte sporco di pece o con fili difieno appiccicati agli abiti e alla gran barba, olezzante de-gli aromi della stalla o di consimili profumi raffinati. In-somma nella società egli costituiva un elemento stravagan-te, benché avesse una cultura eccellente, parlasse francesecome un francese, con una “erre” moscia molto marcata,dimostrasse grande bontà, e con noi bambini fosse sempregentile e affettuoso (Belogolovyj 1898, pp. 32-33).

Questa capacità di essere senza affettazione, in mo-do organico e naturale, “di casa” in un salotto del granmondo, coi contadini al mercato e coi bambini costi-tuisce lo specifico culturale del comportamento del de-cabrista, uno specifico che è affine alla poesia diPuskin e costituisce una delle più alte manifestazionidella cultura russa.

Quanto si è detto ci consente di affrontare ancora unproblema: la tradizione decabrista per lo più è stata con-siderata su un piano puramente ideologico, trascurandol’aspetto “umano”, ossia la tradizione di un determinatotipo di comportamento e di psicologia sociale. Se, peresempio, la questione dell’influsso che la tradizioneideologica decabrista ha esercitato su Lev Tolstoj è com-plessa e bisognosa ancora di approfondimenti, è eviden-te invece la continuità immediatamente umana tra il tipostorico-psicologico dell’insieme del comportamento cul-turale decabrista e l’autore di Guerra e pace. È sintoma-tico che Tolstoj, a proposito dei decabristi, facesse unadistinzione tra le loro idee e le loro personalità.

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Nel diario di Tolstoja-Suchotina troviamo a questoriguardo un’annotazione di eccezionale interesse:

Repin chiede continuamente a papà di suggerirgli un sog-getto per un quadro (...). Ieri papà ha parlato di un sogget-to che gli è venuto in mente, anche se non lo soddisfa deltutto. Si tratta del momento in cui i decabristi vengonocondotti alla forca. Il giovane Bestuzev-Rjumin, affascinatoda Murav’ëv-Apostol (dalla sua personalità più che dallesue idee), cammina al suo fianco per tutta la strada e soloal momento dell’esecuzione perde coraggio e piange. Mu-rav’ëv lo abbraccia e insieme salgono al patibolo (Tolstoja-Suchotina 1973, p. 194, c.vo di Lotman).

Il punto di vista di Tolstoj è molto interessante: il suopensiero era costantemente attratto dagli uomini del 14dicembre, ma proprio dagli uomini soprattutto, che glierano più affini delle idee del decabrismo.

Nel comportamento dell’uomo, come in qualsiasi al-tro genere di umana attività, si possono distinguere glistrati della “poesia” e della “prosa” (Galard 1974). PerPaolo I e i suoi figli la poesia della vita militare consiste-va nelle grandi parate e la prosa nelle azioni di guerra.“L’imperatore Nicola, persuaso che la bellezza fossesimbolo di forza, esigeva dalle sue truppe, straordinaria-mente disciplinate e addestrate, prima di tutto un’asso-luta sottomissione e uniformità”, scrive nelle sue memo-rie Fet (1890, p. IV).

Per Denis Davydov la poesia si associava non al com-battimento in quanto tale, ma all’irregolarità e al “disor-dine organizzato dei paesani in arme”. “Questa vita pie-na di poesia esige immaginazione romantica e spiritod’avventura, e non s’appaga di un arido e prosaico co-raggio. – È come una strofa di Byron! – Colui che, nonpaventando la morte, paventa la responsabilità, se ne re-sti pure davanti allo sguardo dei superiori” (Davydov1822, pp. 26, 83). Questa incondizionata trasposizione

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di categorie poetiche ai vari aspetti dell’attività bellica èquanto mai sintomatica.

In generale, la distinzione di “poetico” e “prosaico”nelle azioni umane è caratteristica dell’epoca da noistudiata. Vjazemskij, biasimando Puskin perché il suoAleko [protagonista del poema Gli zingari (N.d.T.)]porta in giro un orso, a questa prosaica occupazionecontrappone il furto: “meglio sarebbe stato farne untrafficante o un ladro di cavalli, un mestiere che, seb-bene non del tutto innocente, richiede una certa dosedi arditezza, e quindi di poesia” (cit. da Zelinskij 1887,p. 68).

La sfera della poesia nella vita è il mondo dell’ar-ditezza.

Il contemporaneo di Puskin e di Vjazemskij si sposta-va liberamente, nel suo comportamento quotidiano, dalcampo della prosa nella sfera della poesia e viceversa. Ecome in letteratura “contava” soltanto la poesia, così,quando si valutava una persona, la prosa del suo com-portamento veniva scartata, quasi non esistesse neppure.

I decabristi introdussero nel comportamento l’unità,ma non riabilitando la prosa della vita, bensì passando lavita attraverso il filtro dei testi eroici ed eliminando intal modo tutto ciò che non doveva essere iscritto negliannali della storia. La prosaica responsabilità di fronte aisuperiori veniva sostituita dalla responsabilità di frontealla storia, e la paura della morte dalla poesia dell’onoree della libertà. “Noi respiriamo libertà”, disse Ryleev il14 dicembre sulla piazza del Senato. La trasposizionedella libertà dalla sfera delle idee e delle teorie nel “re-spiro”, nella vita: sta qui l’essenza e il significato delcomportamento quotidiano del decabrista.

1 Ed. or.: 1975, “Dekabrist v povsednevnoj zizni (Bytovoe povedenie kak isto-riko-psichologiceskaja kategorija)”, in Literaturnoe nasledie dekabristov, a cura

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di V. G. Bazanov, V. E. Vacuro, Leningrad, Nauka; trad. it. 1984, “Il decabristanella vita. Il comportamento quotidiano come categoria storico-psicologica”, inDa Rosseau a Tolstoj. Saggi sulla cultura russa, Bologna, il Mulino, pp. 165-228.

2 Lettera a Bestuzev, anteriore alla fine di gennaio 1925 (in Puskin1937b, p. 138).

3 Cham (“gaglioffo”) nel lessico politico di Nikolaj Turgenev significava“reazionario”, “feudatario”, “oscurantista”. Cfr., per esempio, frasi del tipo:“Le tenebre e la gagliofferia (chamstvo) tutto hanno invaso”, nella lettera alfratello Sergej del 10 maggio 1817, da Pietroburgo (Turgenev 1936, p. 222).

4 V. Kjuchel’beker (Küchelbecker), O napravlenii nasej poezii, osobennoliriceskoj, v poslednee desjatiletie (cit. in Orlov, a cura, 1951, p. 552).

5 “Le parole ‘illustri amici’ o semplicemente ‘illustri’ avevano un particola-re significato nel linguaggio convenzionale del tempo” (Polevoj 1934, p. 153).

6 Dal quaderno di appunti di Myslovskij 1905, p. 39.7 L’interessantissimo libro di Lebedev è malauguratamente in parte vi-

ziato da un’interpretazione arbitraria dei documenti e da una certa moder-nizzazione.

8 Il nipote di Caadaev, Zicharev (1871, p. 203), ricorderà più tardi: “Va-sil’cikov, per far giungere il rapporto allo zar, scelse Caadaev, benché egli fossel’aiutante più giovane e l’incombenza spettasse al più anziano”. E più avanti:“Dopo il ritorno di Caadaev a Pietroburgo in tutto il Corpo della Guardia di-lagò un moto di scontento nei suoi riguardi, per aver egli preso sopra di sé ilviaggio a Troppau e il rapporto allo zar sul caso Semënovskij. Non soltanto –dicevasi – non avrebbe egli dovuto partire, né sollecitare per sé una simile in-combenza, ma con tutte le sue forze avrebbe dovuto esimersene”. E ancora:“Che anziché ricusare la missione egli l’abbia fortemente voluta, è per me al difuor di ogni dubbio. In quella sciagurata evenienza egli indulse a una debolez-za che gli era innata: una smisurata vanità. Io non credo che, al momento di la-sciar Pietroburgo, nella sua immaginazione brillassero le spalline di aiutante dicampo, ma piuttosto che lo incantasse l’idea di un colloquio personale conl’imperatore, di una familiarità con lui”. A Zicharev era ovviamente precluso ilmondo interiore di Caadaev, ma molte cose gli erano note più che a ogni altrocontemporaneo, e le sue parole, di conseguenza, meritano attenzione.

9 Lebedev (1965, pp. 67-69), per la verità, aggiunge che, personalmente,“Caadaev non credeva troppo alle buone intenzioni dell’imperatore” e che loscopo del colloquio sarebbe stato quello di “mettere definitivamente in chia-ro i veri intendimenti e progetti di Alessandro I”. Quest’ultima affermazioneappare del tutto incomprensibile: non si vede perché proprio quel colloquiodovesse portare a un chiarimento che non si era potuto raggiungere in decinedi abboccamenti tra lo zar e vari personaggi né in numerose dichiarazionipubbliche del sovrano.

10 La figura del duca d’Alba, macchiato del sangue di Fiandra, acquisì unparticolare significato dopo la sanguinosa repressione della rivolta di Cuguev. Suquesta rivolta volta cfr. Cjavlovskij (1962, pp. 33 sgg.).

11 Vjazemskij scriveva in quei giorni: “Non posso senza orrore e mestiziapor mente alla solitudine del sovrano in un simile momento. Chi farà eco allasua voce? L’irritato orgoglio, o un calamitoso consigliere, o, ancor più calami-tosi, degli spregevoli schiavi” (in Lotman 1960b, p. 78).

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12 La lettura evidentemente ebbe luogo nel 1803, quando Schiller, tramiteWohlzogen, inviò il Don Carlos a Pietroburgo, a Marija Fëdorovna. Il 27 set-tembre 1803 Wohlzogen annuncia che l’opera era stata recapitata. Cfr. Wohl-zogen 1862, p. 125; Harder 1968, pp. 15-16.

13 L’esempio di Karamzin è a questo riguardo particolarmente degno dinota. Il raffreddamento dello zar nei suoi confronti ebbe inizio nel 1811, conla presentazione a Tver’ delle Note sull’antica e nuova Russia (Zapiski o drev-nej i novoj Rossii). Un secondo, più grave episodio, si colloca nel 1819, quan-do Karamzin lesse allo zar l’Opinione di un cittadino russo (Mnenie russkogograzdanina). Più tardi egli annotò le parole da lui rivolte ad Alessandro inquell’occasione: “Sire, c’è in Voi troppo amor proprio (...). Io nulla temo.Tutti siamo pari al cospetto di Dio. Quel che ho a Voi detto, l’avrei detto an-che al padre Vostro (...). Sire, io spregio i liberali di un giorno, solo quella li-bertà m’è cara, che nessun tiranno mi potrà strappare (...). Io più non pregola Grazia Vostra. Forse è questa l’ultima volta ch’io Vi parlo” (Karamzin1862, p. 9. Originale in francese). Nella fattispecie la critica era mossa da po-sizioni più conservatrici di quelle dello stesso zar, il che inequivocabilmentedimostra che non il carattere progressivo o reazionario delle idee, ma l’indi-pendenza in quanto tale era invisa all’imperatore. In simili condizioni l’atti-vità di chiunque aspirasse al ruolo di marchese di Posa era predestinata al fal-limento. Dopo la morte di Alessandro Karamzin, in una nota alla posterità,mentre riafferma il proprio amore per il defunto (“L’amavo con sincerità e te-nerezza, pur talvolta indignato, irato contro il monarca, tuttavia amavo l’uo-mo”), deve riconoscere il totale fallimento della sua missione di consiglieredella corona: “Io ero schietto sempre, egli sempre paziente, mite, amabile ol-tre ogni dire; non richiedeva i miei consigli, ma li ascoltava, sebbene in massi-ma parte non li seguisse, tanto che ora, insieme a tutta la Russia piangendo lasua perdita, non posso confortarmi al pensiero della decennale benevolenza efiducia che nutrì per me un personaggio così illustre, essendo queste rimasteinfruttuose per l’amata Patria nostra” (pp. 11-12).

14 Zapiski knjagini Marii Nikolaevny Volkonskoj, Sankt Peterburg, 19142,p. 57.

15 Korocarov, col grado di capitano, già insignito di tre decorazioni eproposto per il conferimento della croce di san Giorgio, venne ferito a mor-te durante la presa di Parigi, nel corso di un violento attacco contro gli ula-ni polacchi.

16 Non possiamo convenire né con Annenkov (1874, p. 63), secondo cuil’istruttoria del processo ai decabristi avrebbe messo in luce “il carattere in-nocuo, cioè orgiastico della ‘Lampada verde’”, né con Tomasevskij (1956, p.206), a cui appare plausibile che “le voci di orge fossero state messe in circo-lazione con lo scopo di stornare l’attenzione della gente”. All’inizio del secolola polizia perseguiva l’immoralità non meno del libero pensiero. Annenkovinvolontariamente attribuisce all’epoca di Alessandro I i costumi del “tene-broso settennio”. Quanto all’affermazione di Tomasevskij, secondo cui “leadunanze della società segreta non potevano aver luogo nei giorni delle festesettimanali in casa Vsevolo’zskij”, il che, secondo lo studioso, sarebbe un ar-gomento a favore della distinzione tra “serate” e “adunanze”, non possiamonon ricordare “le segrete adunanze / Di giovedì. La lega segretissima (…)” di

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Repetilov. Già intorno al 1824 per “cospirazione” s’intendeva qualcosa di as-sai diverso (e più maturo) del concetto che se ne aveva nel 1819-1920.

17 “Archivio russo”, 1866, libro VII, colonna 1255.18 Un interessantissimo esempio di riprovazione per il ballo, come passa-

tempo incompatibile con le “virtù romane”, e nello stesso tempo della conce-zione secondo cui il comportamento quotidiano doveva costruirsi sulla basedi testi che rappresentavano un comportamento “eroico”, ci viene offertodalle memorie di Olenina (1938, p. 484), che descrive un episodio dell’infan-zia di Nikita Murav’ëv: “A una festa di bambini in casa Derzavin EkaterinaFëdorovna [madre di N. Murav’ëv] notò che Nikituska non danzava e gli siavvicinò per convincerlo a farlo. Egli le chiese a bassa voce: ‘Maman, est-cequ’Aristide et Caton ont dansé?’. E la madre rispose: ‘Il faut supposer qu’oui,a votre age’. Egli s’alzò immediatamente e andò a ballare”.

19 Per la semantica del verbo “guljat’” [in russo “passeggiare” ma anche“far baldoria”. N.d.T.] è indicativo un brano del diario di Raevskij, in cui vie-ne fissato un colloquio col granduca Costantino Pavlovic. Alla richiesta, daparte del Raevskij, dell’autorizzazione a guljat’, Costantino risponde: “No,maggiore, è assolutamente impossibile! Quando vi sarete discolpato, avretetutto il tempo che vorrete”. Più avanti tuttavia si chiarisce che i due interlocu-tori non s’erano compresi: “Sì! Sì! – esclamò il granduca, – Voi volete far duepassi all’aria aperta per la salute, e io pensavo che voleste gozzovigliare. Èun’altra cosa” (Raevskij 1956, pp. 100-101). Per Costantino la gozzoviglia è lanorma della vita militare (non per nulla Puskin lo chiamava romantico), ina-bissabile solo per un ufficiale agli arresti, mentre per lo “spartano” Raevskij ilverbo guliat’ può significare soltanto “andare a spasso”.

20 “Rasskazy o Ryleeve rassyl’nogo ‘Poljarnoj zvezdy’”, in Literaturnoe na-sledstvo, Moskva, 1954, vol. LIX, p. 254.

21 Fonte essenziale per un giudizio su Durnovo è il suo ampio diario,frammenti del quale sono stati pubblicati in «Vestnik obscestva revnitelej isto-rii», fasc. 1, 1941 e in Dekabristy. Zapiski otdela rukopisej Vsesojuznoj biblio-teki imeni V. I. Lenina, fasc. 3, Moskva, 1939 (vedi le pagine espressamentededicate alla rivolta del 14 dicembre 1825). Tuttavia la parte pubblicata è unframmento trascurabile dell’enorme diario in diversi volumi, scritto in france-se, conservato alla Biblioteca Lenin.

22 “Biblioteka Lenin”, fondo 95 (Durnovo), n. 9533, foglio 19. (Fram-mento di una copia dattiloscritta russa, fatta, probabilmente, per «Vestnikobscestva revnitelej istorii» si trova in Central’nyj gosudarstvennyj literaturnyjarchiv, fondo 1337, op. 1, coll. 71).

23 “Biblioteka Lenin”, fondo 95, n. 9536, foglio 7 v.24 “Biblioteka Lenin”, foglio 56.25 “Biblioteka Lenin”, n. 3540, foglio 10.26 In appendice alla pubblicazione della sezione manoscritti della Biblio-

teca Lenin si dice che Durnovo era aiutante di campo di Nicola I, ma si trattadi un palese errore (Dekabristy. Zapiski otdela rukopisej Vsesojuznoj bibliotekiimeni V. I. Lenina, fasc. 3, Moskva, 1939, p. 8).

27 Cfr. «Russkij invalid», 4 dicembre 1828, n. 304.

IL DECABRISTA NELLA VITA

Lo stile, la parte, l’intreccio.La poetica del comportamento quotidiano nellacultura russa del XVIII secolo1

Jurij M. Lotman

Il titolo di questo lavoro ha bisogno di una spiegazio-ne. Definire il comportamento quotidiano come un si-stema semiotico di tipo particolare vuol dire dare al pro-blema un’impostazione che può suscitare obiezioni. Par-lare della poetica del comportamento quotidiano signifi-ca infatti affermare che nel periodo culturale, cronologi-co e nazionale indicato, determinate forme di attivitàquotidiana erano coscientemente orientale secondo lenorme e le leggi dei testi artistici e vissute in modo im-mediatamente estetico.

Se riusciremo a dimostrare questa tesi, essa potrebbediventare una delle caratteristiche tipologiche più im-portanti della cultura del periodo studiato.

Non si può dire che il comportamento quotidiano co-me tale non abbia richiamato l’attenzione dei ricercatori.Nell’ambito etnografico esso è considerato un naturaleoggetto di descrizione e di studio. Questo tema è tradizio-nale inoltre per gli studiosi che si occupano di epocheculturali abbastanza lontane: l’antichità, il Rinascimento,il barocco. Anche la storia della cultura russa può richia-marsi a una serie di lavori che conservano importanza,dalla Rassegna della vita domestica e dei costumi del popo-lo granderusso nel XVI e XVII secolo di Kostomarov, al librodi Romanov Uomini e costumi dell’antica Russia (19662).

Ciò che abbiamo detto ci porta a fare un’osservazio-ne: quanto più una cultura è storicamente, geografica-

mente e culturalmente lontana da noi, tanto più il com-portamento quotidiano che le è proprio sarà oggettospecifico dell’attenzione scientifica. A questo è legato ilfatto che i documenti che stabiliscono le norme delcomportamento quotidiano di un determinato intellettosociale di solito sono fatti da stranieri o scritti per stra-nieri e comportano un osservatore esterno rispetto al-l’intelletto sociale dato.

Una situazione analoga si ha anche per quanto ri-guarda il linguaggio quotidiano, la cui descrizione nelleprime tappe di fissazione e di studio è di solito orientataverso un osservatore esterno. Questo parallelo, come sivede, non è casuale: sia il comportamento quotidianoche la lingua madre appartengono a sistemi semioticiconsiderati dai portatori immediati “naturali”, dipen-denti cioè dalla natura e non dalla cultura. Il loro carat-tere segnico e convenzionale appare evidente solo a unosservatore esterno.

Quello che abbiamo detto finora sembra essere incontraddizione col titolo del presente lavoro, in quanto lapercezione estetica del comportamento quotidiano è pos-sibile solo all’osservatore che lo considera nell’ambito deifenomeni segnici della cultura. Lo straniero, che avvertecome esotica la vita quotidiana diversa dalla sua, può per-cepirla esteticamente, mentre il portatore immediato diquella cultura di solito non si accorge della sua specificità.Tuttavia nel mondo della cultura nobiliare russa del XVIII

secolo la trasformazione della natura del comportamentoquotidiano fu di tale portata che acquistò tratti che di so-lito non erano propri di questo fenomeno culturale.

In ogni collettività che abbia una cultura abbastanzasviluppata, il comportamento degli uomini si organizzain base a un’opposizione fondamentale:

1) il comportamento abituale, quotidiano, che glistessi membri della collettività considerano “naturale”,il solo possibile, normale;

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2) tutti i tipi di comportamento solenne, rituale, aldi fuori della pratica quotidiana: quello statale, quellodel culto, quello delle cerimonie, che hanno per glistessi portatori di una determinata cultura un significa-to indipendente.

I portatori di una cultura studiano il primo tipo dicomportamento come la lingua madre, preoccupandosidel suo uso immediato, senza fare attenzione a quando,dove e come hanno acquistato la pratica dell’uso di que-sto sistema. Possederlo sembra loro tanto naturale darendere un problema di questo tipo privo di senso. Èancora più difficile che venga in mente a qualcuno dielaborare per questo pubblico grammatiche della linguadel comportamento quotidiano, metatesti che descriva-no le sue norme “corrette”. Il secondo tipo di compor-tamento si studia invece come una lingua straniera, se-guendo le regole e la grammatica: prima apprendendonele norme e costruendo poi in base a esse “i testi di com-portamento”. Il primo tipo di comportamento si ap-prende spontaneamente e senza rifletterci, il secondocoscientemente e con l’aiuto di insegnanti e il suo pos-sesso appare di solito come un atto di iniziazione.

Dopo Pietro I la nobiltà russa non si limitò a cambia-re il proprio modo di vivere, ma subì un mutamentomolto più profondo. Quello che si considera di solito uncomportamento “naturale” e istintivo divenne oggettodi apprendimento. Nacquero insegnamenti che riguar-davano le norme del comportamento quotidiano. Il mo-do in cui ci si era comportati fino ad allora venne rifiuta-to come scorretto, e sostituito da quello europeo ritenu-to “corretto”. Il nobile russo dell’epoca di Pietro I e diquelle successive si trovò così in patria nelle condizionidi uno straniero, di un uomo che, già adulto, dovevastudiare con metodi artificiali ciò che di solito si imparanella prima infanzia con l’esperienza immediata. Ciò cheera straniero, estraneo, acquistava carattere di norma.

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Comportarsi correttamente voleva dire comportarsi co-me uno straniero, cioè in modo non naturale, secondo lenorme di una vita straniera. Ricordare queste norme eratanto necessario come conoscere le regole di una linguache non è la propria per un corretto uso di essa. Junosticestnoe zercalo [L’onesto specchio della gioventù], volen-do rappresentare un ideale di garbato comportamentopropone di considerarsi in una società di stranieri(“Chiedere un favore dignitosamente, con parole cortesie garbate, come se ci si dovesse rivolgere a uno stranie-ro, per abituarsi a comportarsi così”)2.

Un’inversione culturale di questo tipo non determinòperò l’“europeizzazione” della vita nel senso letteraledell’espressione, perché le forme di comportamentoquotidiano e le leggi straniere prese dall’Occidente, chenell’ambiente russo nobiliare divennero il mezzo norma-le per regolare i rapporti quotidiani, trapiantate in Rus-sia cambiarono funzione. In Occidente erano forme na-turali e dunque non avvertite soggettivamente. Saperparlare olandese non accresceva naturalmente in Olandail prestigio di una persona. Le norme di comportamentoeuropeo trapiantate in Russia acquistarono valore, comela conoscenza delle lingue straniere faceva salire lo sta-tus sociale di una persona. Sempre nell’Onesto specchiodella gioventù leggiamo:

Gli adolescenti che sono venuti da altri paesi e hanno im-parato le lingue con grande fatica, possono fare sforzi pernon dimenticarle, ma le apprendono meglio con lo studiodi libri utili, attraverso i rapporti con gli altri e anche com-ponendo qualcosa in queste lingue per non dimenticarle.Quelli che non sono stati in paesi stranieri e sono stati pre-si a corte o dalla scuola o da qualche altro posto, si com-portano in modo umile e modesto perché vogliono impa-rare dagli altri e non tenere alto lo sguardo con atteggia-mento sfrontato e tenere il cappello appiccicato sulla testasenza toglierlo davanti a nessuno3.

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Questo rende evidente che, nonostante l’opinionediffusa, l’“europeizzazione” ha accentuato e non cancel-lato i tratti non europei della vita quotidiana. Per avver-tire costantemente il proprio comportamento come stra-niero infatti bisognava non essere stranieri (allo stranie-ro il comportamento straniero non appare straniero): bi-sognava assimilare cioè forme della vita quotidiana euro-pea mantenendo rispetto a esse una visione esterna,“estranea”, russa. Bisognava non diventare stranieri macomportarsi come stranieri. È caratteristico in questosenso il fatto che l’assimilazione di usi stranieri non fecediminuire ma anzi spesso portò a una crescita dell’anta-gonismo nei confronti degli stranieri.

Un risultato immediato dei mutamenti del comporta-mento quotidiano fu il ritualizzarsi e semiotizzarsi diquelle sfere della vita che in una cultura che non ha su-bito inversioni appaiono “naturali” e insignificanti. Il ri-sultato fu di carattere opposto a quel “senso del priva-to” che saltava agli occhi dei russi che osservavano la vi-ta europea (cfr. le parole di P. Tolstoj su Venezia: “Nonsparlano l’uno dell’altro. Nessuno ha paura di un altro.Ognuno fa ciò che vuole secondo la sua volontà”, 1888,p. 547). L’immagine della vita europea si duplicò nelgioco ritualizzato del vivere all’europea. Il comporta-mento quotidiano divenne segno del comportamentoquotidiano. Il grado di semiotizzazione, di percezionecosciente, soggettiva, della vita quotidiana come segno,aumentò nettamente. La vita quotidiana acquistò così lecaratteristiche del teatro.

Fra i tratti fondamentali della vita russa del XVIII se-colo è caratteristico il fatto che il mondo nobiliare guidila vita-gioco sentendosi sempre sulla scena, mentre ilpopolo è indotto a osservare i nobili come se fosseromaschere, e a guardare la loro vita dalla platea. Lo testi-monia ad esempio l’uso degli abiti europei (nobiliari) in-dossati come maschere nel tempo delle feste natalizie.

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Selivanov ricorda che all’inizio del XIX secolo, durante lefeste di Natale, folle mascherate di contadini di campa-gna e domestici della casa andavano nel palazzo padro-nale che in quel periodo era aperto per loro. Come co-stumi venivano usate pellicce contadine di pelle di peco-ra rovesciate o abiti buffoneschi che non si indossavanoabitualmente (berretti di fibra di corteccia di tiglio ecc.).Si usavano inoltre normali abiti signorili che la dispen-siera forniva di nascosto (“vecchie uniformi signorili ealtri abiti per uomo e per donna conservati nei magazzi-ni”, Selivanovskij 1881, p. 115).

È significativo che nei quadretti popolari del XVIII se-colo (lubok), – orientati verso il teatro come è dimostratodalle tende, dai frontoni, dalla ribalta e dalla cornice4 –, ipersonaggi popolari appaiano, in quanto attori, con vesti-ti signorili. Così nel noto quadretto Pozaluj podi proc’ otmenja [Per favore allontanati da me] la ragazza che fa lefrittelle ha nei posticci sul viso e il suo corteggiatore in-dossa una parrucca con la treccia, un abito signorile e ilcappello a tre punte5.

La possibilità di avvertire l’alta semiotizzazione del-la vita quotidiana nobiliare non era dovuta solo al fattoche il nobile russo del periodo successivo al regno diPietro, pur avendo fatto proprio questo comportamen-to, continuava a sentirlo come straniero. Questo dop-pio modo di intendere il proprio comportamento lotrasformava in un gioco, e questa sensazione era deter-minata dal fatto che molte caratteristiche della vita rus-sa conservavano ancora un carattere nazionale. Nonsolo il piccolo proprietario che viveva in provincia, maanche il nobile importante, lo stesso Pietro I o Elisa-betta, tornavano spesso alle norme di vita e di compor-tamento tradizionali e nazionali. Si poteva scegliere fraun comportamento neutro, “naturale” e uno accentua-tamente nobiliare e nello stesso tempo coscientementeteatrale. Pietro I ad esempio preferiva per se stesso il

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primo tipo e anche quando prendeva parte alle azionirituali, si attribuiva il ruolo di regista, della personacioè che organizza il gioco, che richiede agli altri di ri-spettarne le regole, ma non vi partecipa personalmen-te. L’amore per “la semplicità” tuttavia non avvicinavail suo comportamento a quello popolare ma aveva piut-tosto un significato opposto. Per il contadino il riposoe la festa comportavano il passaggio a una sfera dicomportamento più ritualizzato di quello consueto: ilservizio religioso, segno consueto della festa, il matri-monio o anche semplicemente il far baldoria nella bet-tola, significava entrare in un rito con regole stabiliteche determinavano anche il tempo, le azioni e le paroledei partecipanti. Per Pietro invece il riposo era il mo-mento del passaggio a un comportamento “particola-re”, fuori del rituale. Quello che per i contadini avevaun carattere pubblico (intorno alla casa in cui si svolge-va il matrimonio si affollavano ad esempio le personenon invitate venute a vedere), per Pietro avveniva die-tro una porta chiusa, nella ristretta cerchia dei propri“intimi”. Questa opposizione è propria del rituale pa-rodistico, che come antirituale tende a svolgersi nell’i-solamento e in ambienti chiusi, ma, come rituale, ben-ché rovesciato, tende a compiersi in pubblico e in unluogo aperto. Il mescolarsi nell’epoca di Pietro dellepiù diverse forme di semiotica del comportamento (dalrituale ecclesiastico ufficiale alla parodia del rituale ec-clesiastico nei riti sacrileghi di Pietro e dei suoi intimi,dal comportarsi come stranieri nella vita quotidiana alcomportamento “particolare” da tenere in privato con-sapevolmente contrapposto al rituale)6 rendeva perce-pibile la categoria dello stile di comportamento. Pro-prio il variegato disordine dei mezzi lessicali della lin-gua dell’inizio del XVIII secolo accentuava il senso del-l’importanza stilistica non solo degli strati della lingua,ma di ogni parola presa separatamente (non solo del

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comportamento ma anche di ogni singola azione), pre-parando gli ordinamenti rigidamente classificatori del-la metà del secolo XVIII.

Così al primo passo, cioè alla semiotizzazione delcomportamento quotidiano, seguì il secondo, cioè lacreazione degli stili nell’ambito delle norme della vitaquotidiana. Spostandosi da Pietroburgo a Mosca, dalleproprietà nei dintorni di Mosca a zone lontane, dallaRussia all’Europa, il nobile russo finiva col cambiare lostile del suo comportamento, spesso anche senza ren-dersene conto. Il processo di formazione di uno stile inuna data sfera si svolgeva anche in un’altra direzione,cioè in quella sociale. Si determinò una differenza nellostile di comportamento fra chi prestava servizio e chinon lo prestava, fra il militare e il civile, fra il nobile del-la capitale (cortigiano) e quello che viveva fuori. Il mododi parlare, di camminare, di vestirsi indicava senza pos-sibilità di errore il posto occupato dalle persone nellapolifonia stilistica della vita quotidiana. Gogol’, citandonelle lettere, e poi in I giocatori, l’espressione: Rute,resitel’no rute! prosto karta-foska! [“Ruté, proprio ruté!È una scartina”] (Gogol’ 1951, p. 267), riteneva che fos-se una frase tipica dell’esercito e nel suo genere “nonpriva di decoro”. Egli metteva in evidenza, cioè, che néun funzionario civile né un ufficiale della Guardia l’a-vrebbero pronunciata.

Il colorito stilistico era sottolineato dal fatto che larealizzazione dei vari comportamenti era il risultato diuna scelta. La possibilità di scegliere, di cambiare ilproprio comportamento, era alla base del modo di vi-vere nobiliare. Il sistema di vita nel nobile russo era co-struito come un albero. Nella seconda metà del XVIII

secolo i nobili, dopo aver ottenuto la libertà di esserein servizio o di rinunciarvi, di vivere in Russia o all’e-stero, continuavano a lottare per aumentare “i rami” diquesto albero.

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Il governo, soprattutto all’epoca di Paolo I e di Nico-la I, cercava invece di annullare la possibilità di compor-tamento individuale e di scelta di un proprio stile daparte del singolo, tentando di trasformare la vita in ser-vizio e gli abiti in uniformi.

Le principali possibilità di comportamento dei nobilisono elencate nello schema precedente7.

(Sono presi in considerazione soltanto i tipi fonda-mentali di comportamento della nobiltà russa del XVIII

secolo, che sono il frutto della scelta fra possibilità alter-native. Non sono prese in considerazione le modificazio-ni nella tipologia del comportamento dovute all’età).

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comportamento dei nobili

vita laica

all’estero in Russia

in servizio

serviziomilitare

guardia

differenzea secondadell’arma

differenzea secondadell’arma

serviziodiplomatico

altri tipidi attività

da funzionari

grandiproprietari

piccoliproprietari

rurali

esercito nellacapitale

in provincia signorimoscoviti

stile dicomportamentodel proprietario

servizio civile

fuori servizio

clero regolare

clero non regolare

vita ecclesiastica

La possibilità di scegliere distingueva nettamente ilcomportamento dei nobili da quello dei contadini, rego-lato dal calendario agricolo e unico nell’ambito di ognitappa. È curioso che sotto questo aspetto il comporta-mento delle donne appartenenti alla nobiltà fosse in li-nea di principio più vicino a quello dei contadini che aquello degli uomini del loro stesso rango. Non includevainfatti momenti di scelta individuale ed era determinatodall’età.

L’origine degli stili di comportamento avvicinava na-turalmente quest’ultimo a fenomeni analoghi vissutiesteticamente, fatto che a sua volta spingeva a cercaremodelli di comportamento quotidiano nelle sfere del-l’arte. Per chi non aveva ancora assimilato le forme eu-ropeizzate di arte, potevano essere modelli solo i tipi dirappresentazioni abituali per un russo: la liturgia eccle-siastica e il teatro dei saltimbanchi. La prima tuttavia erainvestita di un’autorità tale che l’usarla nella vita assu-meva un carattere parodistico-sacrilego. Un esempio si-gnificativo dell’uso della forma del teatro popolare nel-l’organizzazione della vita quotidiana dei nobili si trovanel raro libretto Rodoslovnaja Golovinych, vladel’cev selaNovospaskago, sobrannaja Bakkalavrom M. D. AkademiiPetrom Kazanskim [Genealogia dei Golovin, proprietaridel villaggio di Novospaskoe compilata dal Baccelliere M.D. A. Pëtr Kazanskij (Kazanskij 1847)]. In questa singo-lare pubblicazione, che si basa sull’archivio domesticodei Golovin, che include le fonti che ricordano quelliche erano al seguito di Ivan Petrovic Belkin quando simise a scrivere Istorija sela Gorjuchina [La storia del vil-laggio di Gorjuchin], è contenuta in particolare la bio-grafia di Vasilji Vasil’evic Golovin (1696-1781), compo-sta in base ai suoi scritti e alle leggende familiari. Latempestosa vita di Golovin, che studiò in Olanda, cono-sceva quattro lingue europee oltre al latino, fu maestrodi camera di Caterina I, soffrì a causa di Mons, subì poi

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la camera di tortura sotto il ministro Biron8 e uscito di lìgrazie a una grossa somma di denaro si stabilì in campa-gna, ci interessa per la mescolanza di teatro da fiera,scongiuri, formule magiche popolari e cerimonie conta-dine in cui egli trasformò la sua vita quotidiana. Ripor-tiamo un’ampia citazione:

Si alzava presto, prima del sorgere del sole, e recitava lepreghiere con l’amato sagrestano Jakovij Dmitriev. Alla fi-ne delle regole mattutine andavano da lui con i rapporti ele relazioni il maggiordomo, il dispensiere, il fiduciario el’anziano. Entravano e uscivano al comando della camerie-ra di provata onestà Pelageja Petrovnaja Vorob’eva. Primadi tutto essa diceva: “In nome del Padre, del Figlio e delloSpirito Santo”, e quelli, che stavano per entrare, risponde-vano: “Amen!”. Poi essa diceva: “Entrate dunque quieti edeferenti, con discrezione, purezza e devozione. Venite alrapporto e ascoltate i comandi del nobile signore nostro.Inchinatevi profondamente di fronte a sua grazia e badatedi serbare tutto fermamente nella memoria!”. Ad una solavoce rispondevano: “Ascoltiamo, madre!”. Dopo essereentrati nella stanza del Signore, si inchinavano fino a terrae dicevano: “Signore nostro, vi salutiamo”. “Salve amicimiei, non tormentati e non straziati dalla disgrazia, nonprovati e non puniti”, rispondeva lui. Egli ripeteva ognivolta: “Allora, va tutto bene?”. A questa domanda rispon-deva prima di tutti gli altri il maggiordomo, facendo un in-chino riverente: “Nella santa chiesa, nelle oneste sagrestie,in casa, nelle stalle e nelle scuderie e per grazia di Dio dap-pertutto, nel chiuso dei pavoni e delle gru, nei giardini, ne-gli stagni degli uccelli, tutto, signore nostro, va bene ed èconservato da Dio sano e salvo”. Dopo il maggiordomocominciava il suo resoconto il dispensiere: “Nelle vostrecantine, nei granai e nelle dispense, nelle legnaie e nei sec-catoi per covoni, nei pollai e nelle gabbie per gli uccelli,per grazia di Dio tutto, signore, è sano e salvo. L’acqua fre-sca di sorgente presa dal pozzo di San Gregorio per ordinevostro è stata portata da un cavallo pezzato, è stata versatain una bottiglia di vetro, messa in un tino di legno, circon-

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data di ghiaccio, chiusa con un coperchio rotondo e vi èstata messa sopra una pietra”. Il fiduciario faceva questorapporto: “Per tutta la notte, Signore mio, le guardie han-no girato intorno al vostro palazzo, hanno battuto con lamazza, hanno fatto crepitare le raganelle, hanno suonato lenacchere e il corno a turno, signore mio. E tutte e quattroparlavano fra loro a voce alta. Gli uccelli notturni non vo-lavano, non gridavano con strana voce, non spaventavano igiovani signori e non beccavano gli stucchi della casa, nonstavano sul tetto, né nel solaio”. Alla fine faceva rapportol’anziano: “In tutte e quattro le campagne per grazia diDio tutto va bene: i vostri contadini si arricchiscono, il be-stiame è sano, i quadrupedi pascolano, gli uccelli domesti-ci fanno le uova, non si sono sentiti terremoti e non si sonovisti fenomeni celesti. Il gatto Van’ka9 e la vecchiaZazigalka10 vivono a Rtiscev e ricevono ogni mese per or-dine vostro il loro pane. Sospirano ogni giorno per la lorocolpa e piangendo vi pregano, signore, che deponiate lavostra collera e perdoniate i vostri servi colpevoli”. Trala-sciamo la descrizione dell’elaboratissimo cerimoniale diogni giorno, che consisteva nelle preghiere domestiche,nella liturgia ecclesiastica e nei riti della colazione, delpranzo e della cena, ognuno dei quali si ripeteva regolar-mente. La preparazione al sonno cominciava [alle 4 delpomeriggio – nota di Lotman] con l’ordine di chiudere leimposte. All’interno recitavano le preghiere a Gesù: “Si-gnore Gesù Cristo, figlio di Dio, proteggici”. “Amen!”, ri-spondevano alcune voci dall’esterno, e al suono di questeparole con terribile rumore chiudevano le imposte e met-tevano sbarre di ferro. Arrivavano poi il maggiordomo, ildispensiere, il fiduciario e l’anziano. Nella stanza del si-gnore entrava solo il maggiordomo e dava agli altri le di-sposizioni. L’ordine per il fiduciario era questo: “Ascoltatel’ordine del padrone: state in guardia. Non dormite pertutta la notte. Fate giri intorno alla casa, battete forte conla mazza, suonate il corno e la raganella. State attenti e ri-cordate: che gli uccelli non volino, che non gridino constrana voce, che non spaventino i bambini, che non bec-chino gli stucchi, che non stiano sul tetto e nel solaio. Stateattenti e ricordate!”. “Ascoltiamo”, era la risposta. All’an-

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ziano veniva ordinato: “Dite ai sotski e ai desjatski [agentidi polizia – N.d.T.] che tutti loro custodiscano gli abitantidal più piccolo al più grande, che tengano gli occhi beneaperti, preservino dal fuoco i borghesi e li proteggano.Stiano attenti a che non ci siano turbamenti nelle campa-gne di Celev, Medvedko e Goljavin, né agitazioni sui fiumiIksa, Jakrom e Volgusa, che non si vedano strani fenomeninei cieli e che non si sentano terremoti. Se qualcosa di si-mile accade o capitano fatti straordinari, non faccianocommenti, vengano subito dal loro signore e glielo faccia-no sapere in tempo. Tengano tutto questo bene a mente”.Al dispensiere dava gli ordini la Vorob’eva: “Il Signore haordinato che tu ti occupi dei viveri, che mandi il cavallo aSan Gregorio a prendere l’acqua santa. Mettetela nel tino,circondatela di ghiaccio, chiudetela con un coperchio ro-tondo e metteteci sopra una pietra con riverenza e con pu-rezza. Abbiate cura degli uomini e del bestiame. Tenetetutto bene a mente”. Con questo si chiudevano gli ordini.La Vorob’eva di solito apriva e chiudeva le porte dellastanza, dava la chiave al padrone e, mettendogliela sotto ilguanciale, diceva: “Signore, riposate con Cristo, dormitesotto la protezione della Santa Vergine, l’angelo custodevegli su di voi Signore mio”. Poi dava ordine alle camerie-re di turno: “Abbiate cura dei gatti11, non fate rumore,non parlate forte, non dormite durante la notte, sorveglia-te quelli che stanno a origliare, spegnete il fuoco e tenetetutto bene a mente”.Dopo aver letto le preghiere della sera, Vasilij Vasilievic simetteva a letto e, facendosi il segno della croce, diceva:“Il servo di Dio va a dormire. Su di lui sia il suggello diCristo e il suo sostegno, la Madonna sia inviolabile mura-glia e difesa, e con lei la destra benedetta, la croce onni-potente e vivificatrice del mio angelo custode, le immagi-ni delle forze incorporee e le preghiere di tutti i santi. So-no protetto da Cristo. Scaccio il demonio e lo sterminoora e sempre nei secoli dei secoli. Amen”. Di notte a No-vospaskoe echeggiavano rumori, tintinnii, sibili, baccano,grida, lo scalpitio e le corse delle quattro guardie e dellesentinelle. Se qualcosa impediva al signore di dormire su-bito, egli non restava a letto e perdeva il buonumore per

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tutta la notte. In questo caso o cominciava a leggere ad al-ta voce il suo libro preferito La vita di Alessandro il Mace-done di Quinto Curzio o sedeva su una grande poltrona(...) e recitava questa preghiera abbassando e alzando rit-micamente la voce: “Nemico Satana, vattene da me in unposto deserto, nei boschi folti e negli abissi della terra do-ve non splende la luce di Dio! Nemico Satana, vattene dame in posti oscuri, in mari senza fondo, in monti senza ca-se, senza uomini e dove non splende la luce del Signore.Muso dannato, vattene da me nell’Inferno! Vattene dame, muso dannato! Vattene nel fuoco dell’Inferno e nontornare. Amen, amen, amen. Ti faccio un anatema, bruttopagano! Sputo su di te!”.Finiti gli scongiuri, si alzava dalla sedia e cominciava adandare avanti e indietro per le sue sette stanze, battendocon la mazza. Queste stranezze naturalmente accendevanola curiosità e molti guardavano dalle fessure che cosa face-va il padrone. Ma in questo caso venivano prese delle mi-sure. Le cameriere cominciavano a gridare motti arguti eproverbi, versavano acqua fredda da finestrini alti su quelliche stavano ad origliare e il signore approvava queste azio-ni dicendo: “Tu meriti la tortura, pagano, ripugnante, im-punito” scalpitando con le gambe e ripetendo più volte lastessa frase (Kazanskij 1847, pp. 60-70).

Questo è un vero e proprio teatro con spettacoli e te-sti che si ripetono regolarmente. Si tratta tuttavia ancoradi un teatro popolare con monologhi rimati da raëk12 econ un finale caratteristico del teatro dei saltimbanchi,durante il quale dal palcoscenico si annaffiava il pubbli-co. Sulla scena “il Signore”, personaggio ben noto nelteatro popolare e nei lubok, parzialmente “negroman-te”, recita scongiuri e legge a voce alta, alternando il lati-no con versi in russo da raëk. È tipico in questo spetta-colo l’accostamento di elementi comici e tragici.

Oltre che attore, il signore è anche spettatore che os-serva il rituale da carnevale nel quale ha trasformato lasua vita quotidiana. Egli recita volentieri il suo ruolo

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buffo-tragico e si preoccupa che anche gli altri non esca-no dallo stile del gioco. È ben difficile che un uomoistruito da un astronomo, geografo, che aveva viaggiatoper tutta l’Europa e conversato con Pietro I, nipote delfavorito di Sofia V. V. Golicyn, credesse al di fuori delgioco che l’amato gatto Van’ka continuasse a vivere dadieci anni in esilio e che “ogni giorno sospirasse per lesue colpe”. Ma egli preferiva vivere in questo mondoconvenzionale con le caratteristiche di un gioco, piutto-sto che in quello in cui, come aveva annotato nel calen-dario, “avevano torturato lui, povero colpevole, detur-pandogli le unghie” (Kazanskij 1847, pp. 58)13.

Il sistema di generi, che si era venuto a creare nellasfera della coscienza estetica dell’alta cultura del XVIII

secolo, cominciava ad agire attivamente sul comporta-mento del nobile russo, creando un sistema ramificatodi generi di comportamento. È indicativa di questo pro-cesso la tendenza a scomporre lo spazio abitabile in pal-coscenici. Il passaggio da un ambiente all’altro si ac-compagnava al cambiamento del tipo di comportamen-to. Fino al tempo di Pietro la Russia conosceva l’oppo-sizione binaria fra uno spazio rituale e uno fuori del ri-tuale. Questa opposizione si realizzava a diversi livellicome casa-chiesa, spazio esterno all’altare-altare, angolonero-angolo rosso nell’isba14, e continuava anche nellavilla signorile dove esisteva una divisione fra le stanzeper vivere e le stanze di gala. In seguito però si manife-stò la tendenza a trasformare le stanze di gala in stanzeper vivere, e a introdurre una distinzione nello spazioper vivere. Il passaggio dalla residenza invernale a quel-la estiva, lo spostarsi per alcune ore dalle sale antiche obarocche del palazzo alla “capanna”, al “rudere medie-vale”, alla campagna cinese o al chiosco turco, il trasfe-rirsi a Kuskov dalla casetta “olandese” a quella “italia-na”, comportavano un cambiamento nel modo di com-portarsi e di parlare.

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Non solo i palazzi degli zar o le ville degli alti digni-tari, ma anche le dimore molto più modeste dei sempli-ci gentiluomini erano piene di chioschi da giardino, digrotte, di tempietti, di luoghi per meditazioni solitarie,di rifugi d’amore ecc. L’ambiente diventava decorazio-ne. Costituiva un elemento in comune col teatro anchela tendenza ad accompagnare il mutamento di spaziocon musiche diverse. In caso di necessità la decorazionepoteva essere semplificata e ridotta fino a trasformarsida costruzione (come erano gli imponenti insiemi archi-tettonici) in segno di tale costruzione, accessibile ancheal semplice proprietario.

Lo sviluppo successivo della poetica del comporta-mento portò all’elaborazione della categoria della parteteatrale. L’uomo del XVIII secolo sceglieva per sé comese fosse stata una parte teatrale – invariante di ruoli tipi-ci – un determinato tipo di comportamento, che sempli-ficava la sua vita quotidiana e la elevava verso un qual-che ideale. Si sceglieva di solito la parte rifacendosi a unpersonaggio storico, a un uomo di Stato, a un letterato,al protagonista di un poema o di una tragedia. Il perso-naggio scelto diventava il doppio idealizzato della perso-na reale, il suo santo. Orientarsi secondo il personaggioscelto diventava un programma di comportamento. At-tributi come “il Pindaro russo”, “il Voltaire del Nord”,“il nostro La Fontane”, “il nuovo Sterne” o “Minerva”,“Astrea”, “il Cesare russo”, “il Fabio dei nostri giorni”diventavano nomi propri supplementari (Minerva peresempio divenne il nome letterario di Caterina II). Que-sto modo di vedere – che organizzava il comportamentodell’individuo, determinava la valutazione soggettiva chela persona dava di sé e nello stesso tempo il modo in cuiveniva considerata dai contemporanei –, creò un pro-gramma di comportamento individuale che in un certosenso determinava già il carattere delle azioni future e ilmodo in cui sarebbero state considerate. Venne così da-

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to impulso alla nascita di un’epica aneddotica basata sulprincipio di accumulazione. La maschera-parte teatraleera il cardine intorno al quale si organizzavano i nuoviepisodi della biografia aneddotica. Questo testo di com-portamento era in linea di principio aperto e si potevaaccrescere senza limiti, includendovi casi sempre nuovi.È significativo che il numero di parti possibili non fosseillimitato, ma abbastanza ristretto e ricordasse sottomolti aspetti personaggi di testi letterari di diverso tipoe protagonisti di varie opere teatrali.

Si hanno in primo luogo parti elaborate partendo dalnormale comportamento neutro, di cui si accresconoquantitativamente tutte le caratteristiche. Fra le masche-re di questo tipo si può indicare la variante del bogatyr[eroe epico russo – N.d.T.], tipica del XVIII secolo, che siforma in base all’accrescimento puramente quantitativodi alcune proprietà normali e neutre dell’uomo. Il Sette-cento brulica di titani. La caratteristica di Pietro I di es-sere un “titano-taumaturgo” (Puskin) risale appunto alXVIII secolo e negli aneddoti su Lomonosov è sempremessa in evidenza la sua forza fisica superiore a quelladegli uomini normali, i suoi svaghi da bogatyr ecc. Aquesto sono legati anche i “cudo-bogatyri” [eroi checompiono in guerra miracoli di coraggio ed eroismo –N.d.T.] (cfr. “E tu hai raddoppiato il passo da bogatyr”[c.vo di Lotman], cioè raddoppiato rispetto al norma-le)15. La più perfetta incarnazione di questa tendenza èl’epica aneddotica su Potëmkin, che creava l’immagineperfetta di un uomo con capacità naturali superiori allanorma. Fiorivano racconti sul suo eccezionale appetito ele sue capacità digestive nel più perfetto spirito di Rabe-lais e del lubok russo (“Ho mangiato magnificamente ebevuto allegramente”, che nella variante russa ha persodel tutto il carattere di caricatura politica dell’originalefrancese e ha ripristinato il sottofondo rabelaisiano-far-sesco). Citiamo uno di questi racconti:

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Nel secolo passato, nel palazzo Tavriceskij, il principePotëmkin, accompagnando Lavasev e il principe Dolgo-rukov, passa attraverso un gabinetto accanto ad un magni-fico bagno d’argento. Lavasev: “Che magnifico bagno!”. Ilprincipe Potëmkin: “Se ti impegni a riempirlo – (questonella tradizione scritta ma nel testo orale risulta un’altraparola) – te lo regalo” (Vjazemskij 1929, p. 194).

Gli ascoltatori potevano valutare la ricchezza di im-maginazione di Potëmkin e pensare che lui stesso, legit-timo proprietario del magnifico bagno, poteva compiereuna simile impresa senza difficoltà. La leggendaria “epi-cità da bogatyr” di Potëmkin aveva anche un altro aspet-to. Non è casuale che Puskin, quando seppe che aveva-no sottoposto un articolo di Davydov alla censura di Mi-chajlivskij-Danilevskij, abbia detto: “Sarebbe comemandare il principe Potëmkin dagli eunuchi per impara-re da loro il modo di comportarsi con le donne”16. Inquesto ambito si può distinguere fra la grandiosità neidisegni politici, nei banchetti e nelle feste, quella nelloscialacquare, nel fare baldoria, nella concussione, e infi-ne la grandiosità nella generosità, nella liberalità, nel pa-triottismo. Ogni racconto che metta in evidenza tratti dacriminale o da eroe può far parte degli aneddoti epici suPotëmkin, a condizione che queste caratteristiche sianoelevate a un grado superlativo.

Un’altra parte tipica, che organizza una serie di leg-gende biografiche e di reali biografie, è quella del perso-naggio arguto, dello spirito ameno, del buffone. Anchequesta è legata al mondo del teatro da fiera e dei lubok.

È ad esempio di questo tipo la biografia di Kop’ev, icui episodi ripetuti dai contemporanei sono di solitoaneddoti vaganti su un personaggio arguto che riesce auscire da situazioni difficili grazie a risposte audaci. Vja-zemskij, narrando alcuni episodi della “biografia” diKop’ev, ha dimostrato che queste stesse azioni e rispostesi attribuivano anche ad altri personaggi (Golicyn) o

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erano note come aneddoti francesi. La parte-mascheraesercita un’azione di attrazione e la biografia leggenda-ria diventa un testo che tende ad autoespandersi assor-bendo aneddoti diversi sui personaggi arguti. Molto si-gnificativo sotto questo aspetto è il destino di Marin. Sitratta di un personaggio che ricevette ad Austerlitz quat-tro colpi di mitraglia (uno in testa, uno in un braccio edue al petto), la spada d’oro per il suo valore e il gradodi tenente, che ebbe a Friedland una scheggia di granatanella testa, la croce di Vladimiro e la cordellina di aiu-tante di campo, che fu nel 1812 generale responsabile aBargation e che morì alla fine di una campagna per unaferita, una malattia e per l’eccessiva fatica. Fu inoltre unattivo politico: prese parte agli avvenimenti del 12 mar-zo 1801 e portò a Napoleone una lettera dell’imperatorerusso. Fu infine poeta satirico. Tutte queste qualità furo-no però oscurate agli occhi dei contemporanei dalla ma-schera di spirito arguto. Con quest’immagine Marin èentrato nella storia della cultura russa del XIX secolo.

Era diffuso anche il tipo del “Diogene russo”, del“nuovo cinico”, che univa il filosofico disprezzo per la ric-chezza alla miseria, che infrangeva le norme della decenzae aveva come attributo indispensabile quello di essere ungrande ubriacone. Questo stereotipo fu creato da Barkove in seguito organizzò l’immagine e il comportamento diKostrov, di Milionov e di decine di altri letterati.

La persona che orientava il suo comportamento rifa-cendosi a una parte, rendeva la sua vita simile a unospettacolo basato sull’improvvisazione, nel quale era sta-bilito solo il tipo di comportamento del singolo ma nonle situazioni prodotte dagli scontri fra i personaggi. L’a-zione era aperta e poteva essere continuata inserendo al-tri episodi all’infinito. Questa costruzione della vitaorientata verso il teatro popolare era poco adatta per gliscontri tragici. Ne è un esempio indicativo la biografiamitologizzata di Suvorov [maresciallo russo (1729-1800)

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(N.d.T.)]. Nel costruire un mito idealizzato di se stesso,Suvorov si orientò prima di tutto sull’immagine di Plu-tarco e poi su quella di Cesare. Quest’alta immagine tut-tavia poteva trasformarsi – nelle lettere alla figlia oquando si occupava dei soldati – nella figura del bogatyrrusso. (Nelle lettere alla figlia, la nota Suvorocka, le de-scrizioni stilizzate delle azioni militari ricordano in mo-do sorprendente le trasformazioni fiabesche delle azionimilitari nella coscienza del capitano Tusin di Guerra epace, cosa che fa supporre che Tolstoj conoscesse questafonte). Il comportamento di Suvorov era però regolatonon da una sola norma ma da due. La seconda eraorientata verso la parte del burlone. A questa mascherasono legati gli innumerevoli aneddoti sulle stravaganzedi Suvorov, il suo grido da galletto, le sue uscite buffo-nesche. La presenza nel comportamento della stessapersona di due ruoli che dovrebbero escludersi a vicen-da è in rapporto col significato del contrasto nella poeti-ca del preromanticismo (cfr. la frase: “Da poco mi è ca-pitato di fare conoscenza con uno strano personaggio.Quanti ce ne sono!”, tratta dal taccuino di Batjuskov(1934, pp. 378-380); Charakter moego diadi [Il caratteredi mio zio] di Griboedov (1956, pp. 414-415), o un pas-so del diario di Puskin liceale del 17 dicembre 1815:“Volete vedere una strana persona, un bislacco?”,Puskin 1949, pp. 301-302).

L’imprevedibilità del comportamento della personadipendeva in questo caso dal fatto che i suoi interlocuto-ri non potevano mai sapere in anticipo quale dei duepossibili ruoli sarebbe stato utilizzato. Se l’effetto esteti-co del comportamento orientato sempre verso la stessamaschera dipende dal fatto che in situazioni diverse agi-sce una sola maschera, qui è legato alla continua meravi-glia del pubblico. Così ad esempio il principe Estergazi,che era stato mandato dal palazzo di Vienna a parlarecon Suvorov, si lamentava con Komarovskij: “Come si

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può parlare con una persona da cui non si può ottenereniente?”. E ancora di più egli fu colpito nell’incontrosuccessivo: “C’est un diable d’homme. Il a autant d’e-sprit, que de connaissance”17.

La tattica successiva nell’evoluzione della poetica delcomportamento è caratterizzata dal passaggio dalla parteall’intreccio. L’intreccio non è affatto una componentecasuale del comportamento quotidiano. Anzi, la sua ap-parizione come categoria, che organizza i testi narrativinell’arte, si può spiegare in ultima analisi con la necessitàdi scegliere una strategia di comportamento per la realtàextraletteraria. Il comportamento quotidiano acquistauna piena intelligibilità soltanto nella misura in cui unasingola catena di avvenimenti a livello della realtà può es-sere confrontata con un susseguirsi di azioni che ha ununico significato e compiutezza e che funziona a livellodi codificazione come un segno tipizzato delle situazioni,del susseguirsi dei fatti e dei loro risultati, cioè dell’in-treccio. La presenza nella coscienza di una data colletti-vità di un certo numero di intrecci permette di codificareil comportamento reale, riportandolo a un comporta-mento significativo o a uno non significativo e attribuen-dogli questo o quel significato. Le unità di segno di com-portamento inferiori, il gesto e l’azione, ricevono di soli-to la loro semantica e stilistica non isolatamente, ma inrapporto a categorie che si trovano a un livello più alto:l’intreccio, lo stile, il genere di comportamento. L’insie-me degli intrecci che codificano il comportamento del-l’uomo nelle varie epoche può essere definito mitologiadel comportamento quotidiano e sociale.

Nell’ultima parte del XVIII secolo – periodo in cui siforma nella cultura russa una mitologia di questo genere– la fonte principale degli intrecci di comportamento èla letteratura alta, al di sopra del piano della vita quoti-diana: gli storici antichi, le tragedie del classicismo, incerti casi le vite dei santi. Il fatto di considerare la pro-

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pria vita come un testo organizzato secondo le leggi diun certo intreccio metteva in evidenza l’unità di azione,il tendere verso uno scopo. Particolarmente significativadiventava la categoria teatrale della “fine”, del quinto at-to. La costruzione della vita come uno spettacolo basatosull’improvvisazione in cui l’attore deve restare nell’am-bito del suo ruolo, creava un testo senza fine nel qualescene sempre nuove potevano venire a riempire e a va-riare il corso degli avvenimenti. L’inserimento dell’in-treccio introduceva invece l’idea della conclusione e in-sieme dava a essa un particolare significato. La morte, ladisgrazia, divenivano oggetto di continue meditazioni eapparivano come coronamento della vita. Questo porta-va naturalmente ad attivizzare modelli di comportamen-to eroici e tragici. L’identificazione con l’eroe di una tra-gedia determinava non solo il tipo di comportamentoma anche il tipo di morte. Preoccuparsi del “quinto at-to” diventava un tratto distintivo del comportamento“eroico” della fine del XVIII secolo e dell’inizio del XIX.

Ja rozden, ctob celyj mir byl zritel’Torzestva il’ gibeli moej (...).(Lermontov 1954, p. 38, vol. II)

[Sono nato perché tutto il mondo / Fosse spettatore delmio trionfo o della mia rovina (...)].

In questi versi Lermontov avanza con straordinariachiarezza l’idea dell’uomo come attore, che recita ildramma della sua vita davanti a un pubblico di spettato-ri (il titanismo romantico si esprime nel fatto che il pub-blico qui è “tutto il mondo”), e quella di collegare il mo-mento culminante della vita al quinto atto teatrale(“trionfo o rovina”). Derivano di qui anche le continuemeditazioni di Lermontov sulla fine della vita: “Fine, co-me è sonora questa parola”.

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I ne zabyt’ umru Ja. Smert’ mojamojaUzasna budet: cuzdye krajaEj udivjatsja, a v rodnoj straVse prokljanut i pamjat’ obomne.(p. 185, vol. I)

[E non dimenticare che morirò. / E la mia morte / Saràterribile: paesi stranieri / Ne saranno colpiti, / mentre in /patria / Tutti malediranno anche la mia / memoria.]

Quando all’alba del 14 dicembre 1825 i decabristiuscirono nella piazza del Senato, Odoevskij esclamò:“Moriamo, fratelli, ah come moriamo gloriosamente!”.La rivolta non era ancora cominciata e si poteva sperarenel successo dell’impresa, ma proprio la morte eroicadava all’avvenimento il carattere di alta tragedia, innal-zando i partecipanti di fronte ai posteri e ai loro stessiocchi al livello di personaggi di un intreccio teatrale.

È molto significativo sotto questo aspetto il destinodi Radiscev. Le circostanze della sua morte sono tuttoraoscure. Non meritano fede i racconti più volte ripetutidalla letteratura scientifica sulle minacce formulate con-tro di lui da Zavadovskij o anche da Voroncov,Radiscev poteva naturalmente provocare scontento conazioni o parole incaute. Tuttavia chiunque conosca an-che solo un poco il clima politico dei “giorni del magni-fico inizio di Alessandro” sa benissimo che non era unperiodo in cui un progetto audace, scritto per ordinegovernativo, – e non ci furono altre azioni pericolose daparte di Radiscev in quei mesi – potesse suscitare seriatti di repressione. La versione che dei fatti dà Puskin èchiaramente tendenziosa. In essa traspare un’aperta iro-nia, creata dalla sproporzione fra le parole di Zavadov-skij (“Gli disse con tono di amichevole rimprovero”), ela reazione di Radiscev (“Radiscev vide la minaccia

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[c.vo mio – Ju. L.] e tornò a casa amareggiato e spaven-tato”). L’articolo di Puskin non ha ancora avuto un’in-terpretazione che abbia riscosso generali consensi. Fin-ché questa non ci sarà e non sarà spiegato nel modo do-vuto lo scopo che esso si proponeva, utilizzarne dei bra-ni è molto rischioso. È chiara solo una cosa: Radiscevera una persona coraggiosa e non è possibile che avessepaura dell’ombra di un pericolo, di una ambigua mi-naccia. Il suo suicidio non fu determinato dalla paura.È difficile prendere sul serio i ragionamenti aneddoticidi Storm (1968, p. 439)18 sul fatto che nel suicidio diRadiscev “tutto ha avuto un significato, anche il peggio-ramento del tempo, registrato dal bollettino meteorolo-gico dei ‘Peterburskie vedomosti’ [Notiziario di Pietro-burgo] dell’11 e del 12 settembre”. Secondo Storm nonsolo le condizioni del tempo hanno avuto un ruolo in-fausto sul destino di Radiscev insieme alla delusionedella speranza di migliorare le condizioni dei contadini,ma anche fatti personali. Uno di questi sarebbe“senz’altro” secondo Storm la condanna di un suo lon-tano parente accusato di truffa (p. 383). Tutti i tentatividi trovare nell’autunno del 1802 nella biografia di Ra-discev un motivo concreto per il suo tragico gesto nonportano a niente.

Questo atto, che non trova appigli nelle vicende degliultimi mesi di vita dello scrittore, risulta però conformealla lunga serie di riflessioni fatte da Radiscev su questotema. In Zitie Fëdora Vasil’evica Usakova [La vita di Fë-dor Vasil’evic Usakov], in Putesestvie iz Peterburga v Mo-skvu [Viaggio da Pietroburgo a Mosca], nel trattato Oceloveke, ego smertnosti i bessmertii [L’uomo, la morte,l’immortalità] e in altre opere Radiscev torna insistente-mente sul problema del suicidio. Queste riflessioni sonolegate all’etica dei materialisti del XVIII secolo e sosten-gono in netto contrasto con la morale della Chiesa il di-ritto dell’uomo a essere padrone della propria vita. Ol-

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tre all’aspetto filosofico viene sottolineato anche quellopolitico del problema: il diritto al suicidio e la liberazio-ne dell’uomo dal timore della morte mettono un limitealla sua rassegnazione e limitano anche il potere dei ti-ranni. Sollevato dall’obbligo di vivere in qualunque con-dizione, l’uomo diventa assolutamente libero e annulla ilpotere del dispotismo.

Questo pensiero aveva un posto molto importante nelsistema politico di Radiscev, ed egli vi tornava spesso:

O miei amati, siate lieti della mia morte! Essa sarà la finedegli affanni e dei tormenti. Liberati19 dal giogo dei pre-giudizi, ricordate che la sventura non è la sorte di chi muo-re (Radiscev 1941, p. 101, vol. II)20.

Non si tratta di un pensiero originale di Radiscev. InVadim Novgorodskij di Knjaznin (1914, p. 63) l’ultimabattuta di Vadim rivolta a Rjurik è questa:

V sredine tvoego pobedonosna vojskaV vence moguscij vse u nog tvoich ty zret’,Cto ty protiv togo, kto smeet umeret’?(ib.)21

[In mezzo al tuo esercito trionfante / Tu che puoi averetutti ai tuoi piedi / Cosa puoi fare a chi ha il coraggio dimorire?].

Anche alla fine di Marfa Posadnica di Ivanov (1824,p. 89):

Marfa: (...) Nello zar devi vedere un tiranno, in me unesempio: vivi senza vigliaccheria e senza vigliaccheriamuori [si uccide].

L’essere pronto a morire è, secondo Radiscev (1941, p.351, vol. I), ciò che differenzia l’uomo dallo schiavo. Nel

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capitolo Mednoe, rivolgendosi a un servitore della fortez-za, complice e vittima del corrotto signore, l’autore scrive:

Il tuo intelletto è privo di nobili pensieri. Tu non sei capacedi morire [c.vo di Lotman]. Ti pieghi e sarai servo nellospirito come nella tua condizione (materiale).

La morte di Fëdor Usakov ricordava a Radiscev “gliuomini che da se stessi coraggiosamente si allontananodalla vita”. E l’ultima battuta che l’autore ha messo sullabocca di Usakov ricordava che “deve essere fissa nellamente l’idea di morire coraggiosamente” (p. 184, vol. I).

Radiscev dava un enorme significato al comporta-mento eroico del singolo e agli spettacoli educativi per iconcittadini, perché ripeteva spesso che l’uomo è unanimale imitativo. Questa natura spettacolare, dimostra-tiva, del comportamento personale attualizzava il mo-mento teatrale nella vita dell’uomo che aspirava al ruolodi “insegnante (...) di saldezza d’animo” e a “dare unesempio di coraggio” (p. 155, vol. I).

L’uomo nato con sentimenti gentili, ricco di immaginazio-ne, spinto all’onestà, è strappato dall’ambiente dove è na-to. In qualsiasi posto vada, tutti gli sguardi si fissano su dilui, tutti aspettano con impazienza la sua parola. Lo aspet-ta l’applauso o lo scherno più amaro della stessa morte (p.387, vol. I).

La combinazione del momento teatrale con le ideesulla morte eroica di cui abbiamo parlato prima, deter-minò il particolare significato che Radiscev dava al Ca-tone Uticense dell’Addison. Proprio il protagonista dellatragedia di Addison divenne per Radiscev il suo codicedi comportamento.

Nel capitolo Krest’cy del Viaggio da Pietroburgo aMosca Radiscev mise in bocca al padre virtuoso questeparole:

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Ecco il mio testamento: se un odioso destino scaglia su dite tutte le sue frecce, se non resta un rifugio sulla terra al-la tua virtù; se non c’è per te riparo dall’apprensione, allo-ra ricorda che sei un uomo, ricorda la tua grandezza,prenditi la corona della felicità, vogliono portartela via.Muori. Vi lascio in eredità le parole di Catone morente(p. 295, vol. I).

A quali parole di “Catone morente” si riferivaRadiscev? Il commentatore dell’edizione accademica(Barskov) ritiene che “lo scrittore parli del racconto fat-to da Plutarco del discorso pronunciato da Catone pri-ma di morire” (p. 485, vol. I). Questa è anche l’opinionedei nuovi commentatori (Kulakova, Zapadov, Radiscev1974, p. 157). Ma è evidente che qui si parla del mono-logo finale della tragedia dell’Addison, lo stesso a cuiavrebbe fatto riferimento più tardi Radiscev quando inSiberia scriveva:

Ho sempre letto con enorme piacere le riflessioni di colo-ro che stanno sull’orlo della tomba, sulla soglia dell’eter-nità e che, comprendendo le cause della loro fine, ne rica-vano molte cose che in un’altra situazione non sarebberoriusciti a trovare. (...) Voi conoscete il monologo di Amletodi Shakespeare o quello del Catone Uticense dell’Addi-son? (Radiscev 1941, pp. 97-98, vol. II).

Radiscev riporta questo monologo alla fine del capi-tolo Bronnicy, in una traduzione fatta da lui stesso: “Unavoce segreta mi preannuncia che ci sarà qualcosa di vivonel secolo”:

S teceniem vremen, vse zvezdy pomracatsja, pomerknetsolnca blesk; priroda obvetsavlet drjachlost’ju, padet.No Ty, vo junosti bezsmertnoj procvetes, nezyblimyj, sredi srazenija stichiev,razvalin vescestva, mirov vsech pazrusen’ja.

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[Col passare del tempo tutte le stelle si offuscano / si oscu-ra lo splendore del sole; la natura, diventata / vetusta e de-crepita, è in declino. / Ma tu fiorisci di una giovinezza im-mortale / salda in mezzo alla lotta delle forze della natura,/ alla rovina della natura, alla distruzione di tutti i mondi].

Radiscev accompagnò questo passo con una nota(Morte di Catone, tragedia di Addison, atto V, scena I)(p. 269, vol. I). Il rapporto fra le parole del nobile e que-sto passo è evidente e saldo per Radiscev: l’essere prontial suicidio è solo una variante del tema dell’impresaeroica e quest’ultima è legata alla fede nell’anima im-mortale.

Accade, e ne abbiamo molti esempi nelle narrazioni, chel’uomo a cui annunciano che deve morire contempli lamorte che sta per venire con disprezzo e senza ansia. Ab-biamo visto e vediamo molti uomini che coraggiosamentesi sono staccati dalla vita da soli. E in verità è necessarionon essere timidi e avere una salda forza d’animo perguardare con occhio fermo il proprio annientamento. (...)Non è raro che questo individuo guardi dalla soglia dellatomba e speri di rinascere (pp. 183-184, vol. I).

Così il suicidio di Radiscev non è stato un atto di di-sperazione, un riconoscimento della propria sconfitta,ma un’azione di lotta meditata a lungo, una lezione difermezza patriottica e di un amore per la libertà che nonpoteva essere piegato. È difficile oggi ricostruire nei det-tagli l’atteggiamento di Radiscev nei confronti della si-tuazione politica creatasi all’inizio del regno di Alessan-dro I. Nell’autunno del 1802 egli giunse evidentementealla conclusione di dover compiere un’impresa eroica,volta a risvegliare e a mobilitare i patrioti russi. Leggia-mo nelle memorie dei figli che negli ultimi giorni egli erain uno stato di eccitazione e che una volta disse loro:“Ebbene, bambini, e se mi mandassero di nuovo in Si-

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beria?”. Tenendo conto del fatto che Radiscev pronun-ciò queste parole all’inizio del regno di Alessandro I, lasua supposizione era tanto infondata che appare natura-le la conclusione di suo figlio Pavel: “La malattia dellasua anima cresceva e cresceva” (Radiscev 1959, p. 95)22.Pavel Radiscev era giovane quando il padre morì equando scrisse le sue memorie, per l’ammirazione in-condizionata e commovente verso di lui, era lontanissi-mo dal comprendere la natura del suo pensiero. Si fissa-rono nella sua memoria parole che naturalmente nonerano determinate da una malattia dello spirito. La cosapiù probabile è che Radiscev fosse in uno stato di eccita-zione perché aveva deciso che era venuto il momentodell’impresa definitiva, del “quinto atto della vita”. Tut-tavia allora non aveva ancora deciso la natura di questoatto di protesta e se sarebbe stato legato alla morte op-pure no. La forza di inerzia dell’atto a lungo meditatoevidentemente prevalse. Puskin aveva ragione di affer-mare che anche nelle conversazioni fra Radis cev eUsakov nel periodo precedente alla morte di questi “ilsuicidio era uno degli argomenti preferiti delle sue ri-flessioni” (Puskin 1949, p. 31). Si può supporre che lavalutazione che Radiscev dava di se stesso come “Cato-ne russo” abbia determinato il suo comportamento e in-sieme il modo di intendere le sue azioni da parte deicontemporanei. La tragedia di Addison era ben nota allettore russo. Il libro VIII del giornale «Ippokrena» del1801 conteneva ad esempio una scelta di materiali abba-stanza caratteristica: oltre alla completa traduzione inprosa (di Gart) della tragedia di Addison intitolata Mor-te di Catone ovvero la nascita dell’impero romano, trage-dia composta dal famoso Addison, c’erano passi dalBruto e Le riflessioni sulla morte di Amleto. È interessan-te l’accostamento del monologo di Catone a quello diAmleto, a noi già noto attraverso il testo di Radiscev. DiBruto scrivono:

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Alcuni dalle tue severe regole traggono la conclusione chetu hai peccato nel sangue di Cesare. Ma questi uominionesti si sbagliano. Quale grazia deve meritare la vita del la-dro di un potere eccessivo da parte di chi si è ucciso? (c.vo diLotman)23.

Il protagonista del racconto di Susskov RossijskijVerter [Il Werther russo] si uccide lasciando sul tavolo ilCatone di Addison aperto alla pagina citata nel capitoloBronnicy. L’ammiratore di Radiscev Glinka (il figlio del-lo scrittore, suo amico, definiva Glinka “uno dei piùgrandi seguaci di Radiscev”) nel periodo in cui era ungiovane cadetto e aveva come unica proprietà tre libri,Viaggio da Pietroburgo a Mosca, Vadim Novgorodskij eViaggio sentimentale si imbatté nel corpo di guardia:“L’impresa di Catone che si era trafitto con un pugnalequando Giulio Cesare lo aveva fatto incatenare – scrive– mi ronzava nella testa ed ero pronto a sfasciarmela sul-la parete” (Glinka 1895, p. 103).

L’immagine di Catone e l’interpretazione datane daAddison attrassero sempre l’attenzione di Karamzin.Nella recensione a Emilia Maletti pubblicata sul «Mo-skovskij zurnal» Karamzin definì Emilia un’eroina cheparla della libertà dell’uomo “con la lingua di Catone”.(Più tardi Karamzin definirà Marfa Posadnica “Catonedella sua repubblica”). “Emilia ha bisogno di un pugna-le, pensando nel suo fanatismo che un tale suicidio siasanto”24. In Pis’ma russkogo putesestvennika [Lettere diun viaggiatore russo], Karamzin citava i versi di Voltairericordati più tardi dal figlio di Radiscev, in rapporto allaspiegazione dei motivi della morte del padre:

Quand on n’est rien et qu’on est sans espoirLe vie est un opprobre et la mort un devoir (...).

“La famosa tragedia di Addison è buona là dove Ca-tone parla o agisce”, scriveva ancora Karamzin (1964, p.

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573, vol. I). “Il suicida Catone” fu posto da Karamzin(1848, p. 312, vol. I) fra gli antichi eroi in Istoriceskoepochval’noe slovo Ekaterine II [Discorso storico in lode diCaterina II], e nel 1811 egli annota nell’album della prin-cipessa Caterina Pavlovna una citazione da Rousseau,nella quale Catone era definito “dio fra i morti”25.

È particolarmente significativo a questo riguardo chein un articolo pubblicato da Karamzin sul «VestnikEvropy» [Messaggero d’Europa], risposta cifrata al suici-dio di Radiscev 26, ci sia una polemica non con Radiscev,ma con una erronea interpretazione delle idee e delle im-magini della Morte di Catone di Addison.

Bodcell, augusto scrittore inglese, era parente del celebreAddison. Insieme a lui aveva fondato lo «Spectator» e altrigiornali. Tutti gli articoli siglati dalla lettera X apparsi sul-lo «Spectator» erano suoi. Addison cercò di far diventarericco Bodcell, ma egli scialacquò il suo denaro, cadde inmiseria dopo la morte di Addison e si gettò alla fine nelTamigi, lasciando nella sua camera queste righe: “WhatCato did and Addison approved, cannot be wrong!”(Cioè: “Quello che è stato fatto da Catone e approvato daAddison non può essere sbagliato”). È noto che Addisonha composto la tragedia La morte di Catone. Autore edifi-cante, egli non avrebbe approvato il suicidio in un cristia-no, ma si concesse di elogiarlo in Catone e lo splendidomonologo “It must be so... Plato, thou reasonft well” salvòl’infelice Bodcell dai rimorsi di coscienza, che avrebberopotuto salvarlo dal suicidio. Grandi autori! pensate alleconseguenze di quello che scrivete27.

Karamzin mise in discussione il principio stesso dellacostruzione teatrale a intreccio della biografia e nellostesso tempo dimostrò chiaramente che per lui non eradifficile decifrare il suicidio di Radiscev.

L’introduzione dell’intreccio significò la trasforma-zione della poetica del comportamento da opera sponta-nea in attività coscientemente regolata. Il passo successi-

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vo fu il tentativo, proprio dell’epoca romantica, di fon-dere testi artistici e testi di vita. I versi cominciarono aunirsi in cicli lirici che venivano a formare “diari poeti-ci” o “romanzi della propria vita”, mentre la leggendabiografica diveniva una condizione imprescindibile dellapercezione di un testo come artistico. È già stata notatada tempo la tendenza alla frammentarietà dei testi ro-mantici. Bisogna però sottolineare che questa frammen-tarietà veniva eliminata immergendo il testo fissato grafi-camente (stampato o manoscritto) nel contesto della leg-genda orale sulla personalità dell’autore. Questa leggen-da era il fattore più importante che regolava sia il com-portamento reale del poeta, sia la percezione che il pub-blico aveva del suo comportamento e della sua opera.

Al massimo sviluppo della poetica del comportamen-to, proprio dell’epoca del romanticismo, seguì l’ostenta-ta esclusione di questa categoria da parte degli scrittorirealisti. La vita del poeta esce dalla sfera dei fatti artisti-camente significativi (la migliore testimonianza di que-sto sono le pseudobiografie parodistiche del tipo diquelle di Koz’ma Prutkov). L’arte, perdendo in notevolemisura l’elemento del gioco, non passa attraverso la ri-balta e non scende dalle pagine dei romanzi nella regio-ne del comportamento reale dell’autore e del lettore.

L’assenza della poetica del comportamento non du-rerà però a lungo. Sparita con gli ultimi romantici nel1840, risorge nel 1890-1900 nella biografia dei simboli-sti, nel “costruttivismo”, nel “teatro per un solo attore”,nel “teatro della vita” e in altri fenomeni culturali del XXsecolo.

1 Ed. or.: 1977. “Poetica bytvogo povedenija v russkoj kul’ture XVIII veka”,in Trudy po znakovym sistemam, Tartu, pp. 65-89; trad. it. “La poetica delcomportamento quotidiano nella cultura russa del XVIII secolo”, in Testo e con-testo. Semiotica dell’arte e della cultura, a cura di S. Salvestroni, Roma-Bari,Laterza, pp. 201-230.

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2 Junosti cestnoe zercalo ili pokazanie k zitejskomu obchozdeniju, sobran-noe ot raznych avtorov povelenem ego imperatorskogo velicestva gosudara PëtraVelikogo (…) pjatym tisneniem napecatannoe v SPB, pri imp. Akademii Nauk[L’onesto specchio della gioventù o indicazioni sul modo di vivere raccolte davari autori per ordine di sua altezza l’imperatore Pietro il Grande, stampato aPietroburgo dall’Accademia delle scienze] ,1767, p. 29.

3 Cfr. pp. 41-42.4 Per i rapporti fra il lubok e il teatro cfr. “La natura artistica dei quadretti

popolari russi”, in Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, Roma-Bari, Laterza, 1980 (N.d.T.).

5 Che gli abiti nobiliari siano paramenti teatrali e non il vestito quotidia-no è confermato dal fatto che nel teatro popolare russo anche nel XX secologli attori recitavano indossando giacche normali sulle quali, come segni delcostume teatrale, mettevano decorazioni, fasce, spalline. Nella descrizione deicostumi del teatro popolare fatta da Bogatyrëv non solo lo zar Maksimil’jan oil re Mamaj ma anche Anika voin, Zmejulan ecc. hanno fasce e spalline, per-ché “il personaggio sulla scena non assomigliasse al pubblico” – nota Bo-gatyrëv (1923, pp. 83-84). È interessante confrontare questa affermazione conun’altra dello stesso autore, secondo la quale nel teatro ceco dei burattini ilburattinaio rende scorretto di proposito il modo di parlare delle persone im-portanti (p. 71). È evidente che anche gli abiti teatrali appaiono “scorretti” ri-spetto a quelli della vita quotidiana. Sono fatti di un materiale che ha solo l’a-spetto di essere vero e che ricorda in questo senso gli abiti dei defunti (peresempio i bosovki, scarpe senza suole) fatti appositamente per i funerali, che– come gli abiti teatrali – raffiguravano vestiti di buona qualità. Per una co-scienza ancora strettamente legata alla tradizione precedente al periodo diPietro, il teatro restò una festa popolare, una mascherata e un carnevale carat-terizzato in particolare dal segno obbligatorio del travestimento. Se si ricordache, secondo la concezione popolare (cioè tradizionalmente fino al periodo diPietro), il momento del travestimento era sempre diabolico ed era permessosolo in determinati periodi dell’anno (durante le feste natalizie) e unicamentecome gioco magico con le forze malefiche, non stupisce che la teatralizzazio-ne della vita nobiliare e la percezione di essa come di un continuo carnevale(eterna festa ed eterna mascherata) si accompagnasse a una particolare valuta-zione etico-religiosa. È inoltre caratteristica la tendenza della vita nobiliare adattrarre nella propria orbita anche quella rurale che comincia a essere consi-derata secondo l’ottica dell’intermezzo idillico. Sono caratteristici in questosenso i tentativi di creare immagini teatralizzate della campagna russa nella vi-ta stessa (nell’ambito della campagna reale e in contrasto con essa). Tali eranoi girotondi di giovani contadine vestite di sarafani di seta [costumi nazionalirussi (N.d.T.)], che danzavano sulle rive del Volga durante il viaggio di Cate-rina II, la campagna teatrale di Seremet’evo o il fatto che i membri della fami-glia dei Klejnmicheli, travestiti da contadini georgiani, ringraziassero in modocommovente Arakceev per la sua premura. Un chiaro esempio dello scompa-rire delle differenze fra il teatro e la vita, fenomeno che si accompagna al tra-vestimento, allo scambio delle parti dell’età e del sesso, si ha al tempo dell’in-coronazione di Elisabetta Petrovna. La festa dell’incoronazione fu caratteriz-zata da sfarzose mascherate e da spettacoli. Il 29 maggio 1742 fu messa in sce-

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na l’opera La clemenza di Tito. Poiché nella figura di Tito si doveva vedereun’allusione a Elisabetta, interpretava questo ruolo una donna travestita, la si-gnora Giorgi. Il pubblico in sala era mascherato, perché per caso veniva dauno spettacolo in maschera. Se si ricorda che nel giorno del colpo di StatoElisabetta indossava l’uniforme della Guardia e che abitualmente alla sua cor-te gli uomini (soprattutto i cadetti) indossavano abiti femminili e le donne ve-stiti maschili, è facile immaginare la valutazione che di questo mondo poteva-no dare osservatori come i contadini, i subalterni, la folla della strada (cfr.Arapov 1861, p. 44).

6 Se il comportamento borghese europeo, una volta trapiantato in Rus-sia, subisce un processo di trasformazione nel senso di un netto aumentodella semioticità, non meno interessanti sono le trasformazioni nel compor-tamento dei russi dell’epoca che visitavano l’Europa. In certi casi – comenel perpetuarsi delle tradizioni precedenti al periodo di Pietro – la semioti-cità del comportamento aumenta nettamente. Il preoccuparsi del significatodel gesto, del rituale, il percepire ogni dettaglio del comportamento comesegno sono compresi in questi casi: la persona si considera un personaggioaccreditato e trasferisce al suo comportamento abituale le regole del proto-collo diplomatico. Gli osservatori europei ritenevano che questo fosse ilnormale comportamento dei russi. Era possibile tuttavia anche una trasfor-mazione in senso inverso: il comportamento si deritualizzava e nell’ambitoeuropeo appariva come più naturale. Così Pietro I, che conosceva perfetta-mente le scomode norme del rituale diplomatico, durante i viaggi all’esteropreferiva stupire gli europei con l’inattesa semplicità del suo comportamen-to, più spontaneo non solo di quello di un re ma anche di un borghese. Du-rante la sua visita a Parigi del 1716, ad esempio, Pietro ostentò la sua cono-scenza delle regole del rituale: pur ardendo dall’impazienza di vedere Pari-gi, non uscì di casa fino alla visita del re. Durante la visita che gli fece il reg-gente, lo invitò nel suo gabinetto, varcò la soglia per primo e per primo se-dette sulla poltrona (il reggente conversò con lui stando seduto su una pol-trona, mentre il principe Kurakin traduceva stando in piedi). Ma quando ri-cambiò la visita a Ludovico XV che aveva allora 7 anni, vedendolo che scen-deva le scale per venire incontro alla carrozza, “Pietro scese, corse a incon-trare il re, lo prese in braccio e lo portò nella sala” (S. M. Solov’ev, IstorijaRossii s drevneisich vremen [Storia della Russia dei tempi antichi], libro 4,Sankt Peterburg, p. 365, 1851-79, t. 1-29).

7 Nello schema è contemplata la possibilità della carriera ecclesiastica,che non è caratteristica del nobiluomo, ma tuttavia non è esclusa. Si trovanonobiluomini nel clero regolare e in quello non regolare del secolo XVIII-iniziodel XIX. Manca nello schema una caratteristica fondamentale del XVIII secolo:nel periodo successivo al regno di Pietro cambiò decisamente in Russia il mo-do di considerare il suicidio. Alla fine del secolo i giovani nobili furono presidal desiderio di uccidersi. Radiscev vedeva nel diritto dell’uomo alla liberascelta di vivere o rinunciare a vivere un pegno da pagare alla liberazione dallatirannide politica. Questo tema fu discusso attivamente nella pubblicistica enella letteratura (Karamzin, gli epigoni russi del Werther). Si aggiungeva cosìanche un’altra alternativa e lo stesso fatto di esistere diventava il risultato diuna scelta personale.

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8 “Fu tenuto in prigione per circa due anni fino al 3 marzo 1758, sop-portò terribili torture e fu sottoposto a indicibili supplizi. Fu issato su un ca-valletto, gli slogarono le scapole, gli passarono un ferro da stiro caldissimosulla schiena, lo punsero sotto le unghie con aghi arroventati, lo frustarono e,dopo averlo tormentato ben bene, lo restituirono alla famiglia”. “Con rincre-scimento dei posteri, è ignota la causa del suo vero fallo”, nota malinconica-mente il baccelliere Pëtr Kazanskij (1847).

9 “Era il gatto preferito dal signore. Una volta si era arrampicato su unanassa e aveva mangiato il pesce freschissimo preparato per la tavola del pa-drone. Rimasto impigliato, era morto strangolato. I servi non dissero nientedella morte del gatto. Parlarono solo della sua colpa e il padrone lo mandò inesilio” (nota del baccelliere Kazanskij 1847).

10 Così si chiamava la donna per la cui disattenzione nel 1775 era brucia-to Novospaskoe. Vasilij Vasilievic fu così spaventato da questo incendio chemandò tutti i servi a cucinare in una sola stanza (e ne aveva più di 300). Natu-ralmente il castigo non fu mai eseguito (Kazanskij 1847).

11 Nella stanza di Vasilij Vasilievic c’erano 7 gatti che di giorno andavanoin giro dappertutto mentre di notte erano legati a un tavolo. Ogni gatto eraaffidato a una delle donne. Se capitava che uno di essi scendesse dal tavolo eandasse dal signore, il gatto e la cameriera venivano puniti (Kazanskij 1847).

12 II raëk era una scatola con quadretti mobili che venivano presentatinelle fiere e nelle feste popolari, accompagnati con motti arguti (N.d.T.).

13 Cfr. anche Pyljaev (18972, p. 88): “II ricco e famoso conte P. M. Ska-vronskij si circondò di cantanti e musicanti. Conversava coi suoi domesticicantando. Il maggiordomo annunciava con vellutata voce di baritono che ilpranzo era servito. Il cocchiere si spiegava con lui in ottave con voce di bas-so profondo, i battistrada con voci bianche e contralti, i lacché con voci datenori, ecc. Durante i balli e i pranzi di gala i suoi domestici, mentre servi-vano, facevano trii, duetti, cori e lo stesso signore rispondeva loro in formamusicale”.

14 Nell’angolo nero dell’isba stava abitualmente la stufa, in quello rossol’icona (N.d.T.).

15 Istruzioni di Suvorov a Miloradovic (in Miljutin 1852, p. 588). Sullatendenza dei testi medievali a costruire caratteri insigni attribuendo a essi lestesse proprietà degli altri uomini ma a un grado superiore, cfr. Birge Vitz1975. Questa costruzione si basa sulla fede nell’immutabilità della parte terre-na data all’uomo dall’alto. Tuttavia la tradizione dell’immagine del bogatyr daessi creata esercita un’influenza sul comportamento degli uomini anche quan-do la parte è il risultato di una scelta attiva dell’uomo stesso.

16 Archivio russo, 1880, III, libro 2, p. 228.17 Appunti del conte Komarovskij, Sankt Peterburg 1914, p. 90.18 Si tratta della seconda edizione corretta e accresciuta del libro di Storm

[Radiscev segreto. Seconda vita del “Viaggio da Pietroburgo a Mosca”]. Cfr. lanostra recensione alla prima edizione (Lotman 1966). La “seconda edizionecorretta” ha ammassato nuovi lapsus. Notiamo solo che l’autore ha ritenutoopportuno terminare il libro “con versi non pubblicati che sono nello spiritodella tradizione di Radiscev” ripresi dalla poesia di un autore ignoto di cui silascia intendere che forse si tratta di Puskin. Purtroppo i versi riportati fanno

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parte di un noto testo antologico e sono un brano della poesia di VjazemskijNegodovanie [Sdegno]. Si possono ritenere “inediti” nella misura in cui sono“ignoti” all’autore del libro. Non si tratta solo di un errore casuale, ma di unachiara forma di dilettantismo, che corona degnamente il libro di Storm.

19 Nel testo stampato c’è erroneamente “istorgnutyj” (cioè il singolare in-vece del plurale).

20 Cfr. C. L. Montesquieu, L’esprit des lois, libro I, cap.VIII.21 Vadim Novgorodskij, tragedia di J. Knjaznin con introduzione di V. Sa-

vodnik.22 Si tratta della Biografia di Radiscev scritta dai suoi figli. Radiscev fu ef-

fettivamente malato nel 1802 (cfr. la sua lettera ai genitori del 18 agosto in Ra-discev 1941, p. 535, vol. III). Tuttavia non ci sono basi per ritenere che si trat-tasse di una malattia dello spirito. Si tratta di un eufemismo, come il ricordarela morte per tisi nelle carte ufficiali.

23 «Ippokrena», VIII, 1801, pp. 52-53.24 «Moskovskoj zurnal» [Giornale moscovita], I, 1791, p. 67.25 Letopis’ russkoj literatury i drevnosti [Cronaca della letteratura e dell’an-

tichità russa], 1859, libro 2, p. 167.26 Per la motivazione di questa affermazione e il testo della nota cfr. Lot-

man (1962, pp. 53-60) [Fonti delle informazioni di Puskin su Radiscev(1819-22). Puskin e il suo tempo].

27 «Vestnik Evropy» [Messaggero d’Europa], 1802, n. 19, p. 209.

JURIJ M. LOTMAN

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Stampato per conto della casa editrice Melteminel mese di marzo 2006

presso Arti Grafiche La Moderna, RomaImpaginazione: www.studio-agostini.com