rootshighway desert island

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1 RootsHighway Desert Island RootsHighway RootsHighway RootsHighway Desert Island Desert Island numero speciale, aprile 2012 numero speciale, aprile 2012 100 Dischi da Isola Deserta 100 Dischi da Isola Deserta ...secondo i lettori di RootsHighway ...secondo i lettori di RootsHighway

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I 100 dischi da isola deserta dei lettori di RootsHighway

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RootsHighway Desert Island RootsHighway RootsHighway RootsHighway Desert IslandDesert Island numero speciale, aprile 2012numero speciale, aprile 2012

100 Dischi da Isola Deserta100 Dischi da Isola Deserta

...secondo i lettori di RootsHighway...secondo i lettori di RootsHighway

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RootsHighway Desert Island

SOMMAR IOSOMMAR IO

numero speciale , apri le 2012

RootsHighway Speciale ‘100 dischi da Isola Deserta’

Supplemento in PDF del web magazine RootsHighway

www.rootshighway.it

Direzione e coordinamento: Fabio Cerbone

Hanno collaborato:

Davide Albini, Antonio Avalle, Paolo Baiotti, Gianfranco Callieri, Fabio Cerbone, Gianni

Del Savio, Marco Denti, Matteo Fratti, Gabriele Gatto, Nicola Gervasini, Roberto Giuli,

Emilio Mera, David Nieri, Marco Poggio, Donata Ricci, Gianuario Rivelli, Gianluca Serra,

Yuri Susanna, Silvio Vinci.

Introduzione

100 dischi da Isola Deserta ...secondo i lettori di RootsHighway

“Introduzione a cura di Fabio Cerbone”

…..3

Speciale

100 - 01 “La redazione commenta disco dopo disco la top 100 dei lettori” …..5

Riepilogo

La classifica finale: Top 100 e gli inseguitori (Top 200)

….55

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RootsHighway Desert Island

100 dischi da Isola Deserta 100 dischi da Isola Deserta

...secondo i lettori di RootsHighway...secondo i lettori di RootsHighway

A cura di Fabio Cerbone

Chi sono i lettori di RootsHighway? Possiamo fare una sorta di identi-kit generale? Ce lo siamo chiesti legittimamente più volte, anche solo per la curiosità di scoprire se in tutti questi anni si fosse formata una comunità con un profilo preci-so. Ovviamente qualche idea è nata strada facendo, anche rozza e generalizzata probabilmente, attraverso i contatti diretti, le pre-senze sul nostro forum o i più re-centi incontri nei social network. Nessuna esigenza di marketing la nostra - dovreste saperlo che qui non vogliamo "vendere" nulla che non sia un po' di passione comune - semmai l'intento di capire se la direzione che abbiamo intrapreso sia quella giusta. Conoscere qual-cosa di più di tutti voi era e resta una sfida interessante. Consape-voli che l'iniziativa non fosse certo nuova né tanto meno ingegnosa, per festeggiare (un po' in ritardo lo sappiamo, visto che il 2012 è una stagione più in là del dovuto) i dieci anni di attività di RootsHi-ghway.it, abbiamo pensato a que-sto speciale, una sorta di "tirate le somme", anche solo per ricono-scersi a vicenda. Difficile capire se questa manciata di dischi - frutto di un sondaggio aperto nei mesi scorsi sulla pagine di RootsHi-ghway - possano rappresentare davvero una fotografia d'insieme della vostra storia di ascoltatori, ma lasciateci pensare che qualche

spunto emerga eccome dai risulta-ti finali. L'Isola Deserta di RootsHi-ghway e i suoi 100 dischi finali (classifica rigorosamente matema-tica che ha tenuto conto solo e soltanto delle vostre segnalazioni, i voti della redazione sono finiti nel mucchio senza alcuna precedenza) offrono l'occasione, innanzi tutto, per un gioco divertente e ormai assodato per ogni rock'n'roll ad-dicted di questo mondo, ma anche uno sguardo a quello che si è sedi-mentato nel cuore di chi legge questa rivista online. Se il punto di partenza non era quindi una lista ragionata e critica, ma una vera e propria carta di identità collettiva, ben vengano l'assenza di filtri, la pura e semplice irrazionalità e passione nel segnalare quegli al-bum che sono stati la rappresen-tazione di un momento, di un pas-saggio o di una crescita nella vita. Scorrendo l'elenco (che si allarga alla top 200, con più di 1800 dischi citati in centinaia di schede pervenute) è evidente che la 'Desert Island' di RootsHighway non è "politicamente corret-ta" (come è sacrosanto che non lo sia!), men che meno bilanciata: è qualcosa di più e forse di meglio, anche nel suo sviluppo più preve-dibile, è persino una provocazione e senz'altro uno spunto di rifles-sione interessante per chiedersi quanto conti il rapporto fra classi-co e contemporaneo, fra passato e

presente. I grandi nomi ci sono tutti (o quasi), per lo meno quelli più "scontati" e “istituzionali” per una comunità come quella di RootsHi-ghway. Sulla loro forza di penetra-zione tuttavia, e sulle posizioni rag-giunte, qualche riflessione la si può tentare: i lettori di RootsHighway guardano con curiosità ma anche diffidenza all'oggi, cercando le trac-ce della tradizione nel passato pros-simo (anni 80 e 90 lasciano un se-gno più tangibile...questione d’età?) e raramente riescono a far sedi-mentare le uscite più attuali (inevitabile che dal 2000 ad oggi ci voglia più tempo per accettare un nuovo disco sull'isola deserta...). La maggioranza dunque sceglie nel momento decisivo il ricordo più an-tico, il sentimento che li ha resi a-dulti come ascoltatori. Ecco allora che i 100 dischi dell'Isola Deserta guardano senza mezzi termini alla "golden age" del rock'n'roll (tra i decenni 60 e 70 fanno in tutto 64 titoli su 100...mi pare chiaro, che dite?) e in tale prospettiva soprat-tutto a quegli artisti che hanno tracciato le arterie delle "Roots Hi-ghways": Bruce Springsteen e Bob Dylan sono i padroni assoluti, certi-ficando un passaggio di testimone tra l'originale e il "nuovo Dylan", come si sarebbe detto un tempo. Se uno dei fulcri della nostra webzi-ne è la canzone rock d'autore, il rapporto privilegiato fra il songwri-ter e il mondo allora è giusto che

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questi due mostri sacri restino un faro: complessivamente 6 dischi nella top ten, esattamente 3 a te-sta, un vero bottino (ma Neil Young rimane il più citato: 5 dischi in top 100). Accanto a loro, a cir-condarli e superarli (qualche volta) quelle band che oltre la canzone in sé, hanno decodificato il suono di RootsHighway: le radici e il loro incontro/scontro con l'elettricità, dai vincenti Rolling Stones di Exile ai Creedence di Cosmo's Factory, maestri di un certo modo di inten-dere e riappropiarsi della tradizio-ne. Non poteva che essere così, completando il puzzle con il sor-prendente affetto per i Clash, n a t u r a lmen t e q u e l l i p i ù “tradizionalisti” di London Calling, e il blues sudista e astrale dell'Al-lman Brothers Band (è loro la pal-ma per il migliore live di sempre). Ai classici veri e propri ci si aggrappa anche nelle posizioni di rincalzo: il più "sfortunato" sembra essere Van Morrison, che con una doppietta in top 20 non riesce pro-prio ad ottenere una meritata pre-senza ai piani più alti. Più in gene-rale vi siete ricordati anche di Who, Jimi Hendrix, Beatles e molti altri, ma mischiando un po' le car-te e lasciando in disparte l'orgoglio della storia o meglio di alcuni pre-cisi momenti ed evoluzioni della suddetta storia. Infatti, mentre cantautori e sporadici capisaldi della classicità rock restano immu-tati, è pur vero che qualche carat-teristica generale balza all'occhio: l'Italia non rientra certo nella vo-stra geografia musicale (Fabrizio De Andrè e Vinicio Capossela si affacciano solo nei top 200); il punk non ha quasi lasciato tracce (Clash esclusi e sappiamo bene quanto fossero già "oltre" il gene-

re, mentre considerare Television o Patti Smith punk pare quasi una bestemmia); la saga dell'hard rock ci consegna soltanto i Led Zeppe-lin (dove sono Deep Purple e Black Sabbath?); la psichedelia resta un ricordo lontano e confinato a pochi sussulti (David Crosby, Grateful Dead, Quicksilver, ma tutti o quasi nella parte bassa del tabellone), così come la successiva West Co-ast o il Progressive (ne capiamo forse le ragioni di affinità su un sito come il nostro, anche se i più popolari Genesis e Pink Floyd con-tinuano a rimanere imprescindibi-li). Ma se buona parte di questi esiti potevamo anche aspettarceli, è probabilmente l'assenza assor-dante della musica nera a farci riflettere: concesso qualche pre-mio di consolazione per Otis Red-dig e Robert Johnson, aperte le porte al jazz con i giganti Davis e Coltrane (ricordiamo che non ab-biamo mai posto limiti di genere nel sondaggio, nonostante fosse ovvio che il rock l'avrebbe fatta da padrone), il resto è davvero eva-nescente. Come anticipato, ci sono però sorprese che affondano forse nell'età stessa di voi lettori: dagli anni 80, così spesso contraddittori eppure fertili per chi ha seguito la via maestra del rock'n'roll, emer-gono prepotenti le tracce del liri-smo di Waterboys e U2, così come tutta l 'avventura del rock "alternativo" americano di quel tempo, dai REM ai Dream Syndica-te presenti nella top 30, fino ad arrivare i 90 di Pearl Jam (preferiti forse nella loro "classicità" ai Nir-vana...scomparsi dalla vista), Ra-diohead e Jeff Buckley (la vera sorpresa del sondaggio, innegabi-le!). Da quell'epoca, anche se con una storia più complessa, arriva

anche il Tom Waits della svolta di Raindogs. Così come ci pare di po-ter dire che su un sito che si chiama RootsHighway non potevano non acquisire un ruolo di rilievo autori che generalmente non verrebbero troppo considerati dall'intellighenzia critica, e qui formano invece la spi-na dorsale di un certo modo di con-cepire la canzone roots rock: John Mellencamp e John Hiatt piazzano infatti due dischi a testa e fanno meglio persino di Tom Petty. Infine, la roots music in senso stretto. O quanto meno quel filo rosso che dal country rock arri-va al cosiddetto alternative country e all'Americana di oggi, per ovvi motivi luogo di interesse principale del sito e quindi irrinunciabile. Tutto ciò è giustamente presente con al-cune tappe fondamentali: The Band e The Byrds rispondono all'appello, Neil Young non manca, Hank Wil-liams e Johnny Cash restano im-prescindibili, di Mellencamp e Hiatt abbiamo già detto (ma sono assenti Steve Earle e Dave Alvin - ci sono i Blasters però -… e Joe Ely entra a fatica), mentre le vere presenze contemporanee della top 100 sono proprio rintracciabili nei vari Ryan Adams, Whiskeytown, Jayhawks, Counting Crows, Uncle Tupelo e Wilco (per il rotto della cuffia però e con un disco più tradizionale come Being There). Quello che manca o è stato “ingiustamente” dimenticato in que-sto lungo preambolo lo potete sco-prire scorrendo la top 100 titolo dopo titolo. Grazie a tutti i parteci-panti, buona lettura ... e non scan-dalizzatevi troppo per le dimenti-canze ... in fondo è colpa vostra!

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RootsHighway Desert Island

100.100.

WilcoWilco Being There Reprise 1994

[72 pt.] Oggi potrebbe persino essere considerato come un disco di passaggio, dall'età dell'innocenza roots ver-so la sperimentazione più ardita della canzone pop, ma se dovessimo trovare un punto di sintesi e al tempo stesso un fermo immagine dei Wilco più "progressisti" allora continueremmo a rispolverare Being There. Doppio, ambizioso allungo all'indo-mani del più dimesso esordio A.M., il disco rilegge con audacia l'esperienza dell'alternative country divenendone presto una sorta di testo sacro, ma al tempo stesso indicando la strada per uscire dal vi-colo cieco: nelle quattro ideali facciate Being There parte dalla tradizione per spingersi oltre, verso una forma di ballata stralunata dove l'estro di Jeff Twe-edy per la prima volta può chiaramente mostrare tutte le sue aspirazioni. La band non sfodera ancora la sensibllità avanguardista degli anni a venire, ma proprio la sostanza più rustica di Max Johnston, Ken Coomer e del compianto Jay Bennett (mai troppo lodato per il suo ruolo di alter ego nel grup-po) rende irresistibili gli alti e bassi della doppia raccolta e i suoi repentini cambi di umore. Fra le cacofonie di Misunterstood e Sunken Treasure e la solitudine country&western di Far Far Away scorre un universo intero: eppure sugli opposti Being The-re si gioca tutto il suo fascino, come se Hank Wil-liams, Creedence, Beatles e Sonic Youth potessero giocarsela alla pari, passando dal fracasso ro-ck'n'soul di Monday al deserto di Hotel Arizona. (Fabio Cerbone)

99.99.

Violent FemmesViolent Femmes Violent Femmes London 1983

[72 pt.] La variabile impazzita, l'eccentricità, la sorpresa che spiazza, che sfonda una porta. Senza bisogno di energia elettrica perché anche nel rock'n'roll esi-ste un'ecologia, un'idea di risparmio e di evitare sprechi inutili per cui il luogo comune less is more in questo caso è sacrosanto più che mai. Tanto è vero che quando uscì il primo disco delle Violent

Femmes impazzirono tutti a cercare un riferimen-to, un modello a cui paragonare quel disco dalla meravigliosa copertina, un misto di innocenza e mistero, lo stesso che si sente nelle canzoni. Gio-cando tutte le carte possibili, dai Velvet Under-ground ai Modern Lovers, i tentativi furono infiniti, tutti giusti, nessuno corretto perché quella scheggia di puro genio era un bizzarro scherzo destinato a cambiare il corso della storia del rock'n'roll, met-tendo in circolo il virus di un dubbio secondo il qua-le basta suonare sopra un catino rovesciato dal no-me impossibile (tranceaphone) e tutta la prosopo-pea dell'industria discografica diventa in un colpo solo inutile, obsoleta, fallimentare. Da qualsiasi parte lo si prenda Violent Femmes suona ancora fresco, immediato, travolgente: l'assolo di basso di Brian Ritchie in Please Do Not Go, il folle crescendo di Gordon Gano in Add It Up, il violino in Good Fee-ling, il vibrafono in Gone Daddy Gone, il drumming minimalista di Victor DeLorenzo, quell'aria insieme sgangherata e travolgente, per cui basta un nulla per fare una rivoluzione. Obbligatorio, ed è da ag-giungere anche Hallowed Ground, che non è da meno.

(Marco Denti)

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98.98.

Leonard CohenLeonard Cohen Songs of Leonard Cohen Columbia 1968

[74 pt.] L'esordio di Leonard Cohen a 33 anni suonati, (uno dei più tardivi della storia del rock dopo esser-si affermato come poeta e scrittore) non ebbe grande risonanza di pubblico (ma l'ebbe in seguito come long seller) all'epoca della sua uscita, quando la summer of love e le idee rivoluzionare contrasta-vano con la tristezza, la malinconia, la drammatici-tà delle dieci composizioni contenute in Songs Of Leonard Cohen. Atmosfere raccolte e intime, figlie della tradizione francese di Jaques Brel e George Brassens (Cohen viene dalla francofona Montreal) costruite su pochi accordi, arrangiamenti ridotti all'osso e la voce da tanti definita monotona e poco duttile, ma capace di aprire, a chi la ascolta, le por-te del paradiso. Song of è ancora oggi un album che mantiene inalterata tutta la sua profonda ma-gia quasi ipnotica, un'alchimia che resiste anche ai giorni nostri come un affresco di profondo lirismo, di rinascita e speranza, che fanno piangere ed e-mozionare. Si rimane ancora senza parole ascoltan-do la sublime Suzanne, ormai diventata uno stan-dard con quel coro femminile capace di suscitare brividi alla schiena, la malinconia affranta di Master Song, la soffusa Winter Lady senza dimenticare la classica lullaby Sister Of Mercy con quel crescendo senza tempo o il capolavoro di So Long Marianne, con quella fisarmonica dal sapore vagamente tex-mex, la struggente Hey, That's No way To Say Goodbye fino alle apocalittiche ballate Teachers e One Of Us Cannot Be Wrong, con quell'accordo di chitarra e quel fischiettio che suona tanto "stonato" quanto senza tempo. Quando la musica diventa poesia per il cuore.

(Emilio Mera)

97.97.

Grateful DeadGrateful Dead American Beauty Warner 1970

[74 pt.] Se è dal vivo che i Grateful Dead hanno scritto pagine a dir poco memorabili, non sempre tanta grazia e vitalità musicale è riuscita a trovare una sua naturale prosecuzione entro le limitanti pareti di uno studio di registrazione. La discografia dea-diana vede infatti alternarsi ad album ispirati e di pregevole fattura, altri di peso specifico minore. American Beauty, uscito nel 1970, a pochi mesi dal gemello "Workingman's dead", oltre ad essere insieme a quest'ultimo frutto della svolta country folk di Jerry Garcia e soci, appartiene di diritto al novero delle loro opere più belle. Il "Morto ricono-scente", abbandonate infatti le proprie siderali e-splorazioni musicali, poggia i piedi nelle polverose strade dell'America rurale e arcaica. Tra atmosfere elettroacustiche e rimandi alla tradizione musicale americana, Garcia, in coppia con il paroliere di fidu-cia Robert Hunter, appronta una manciata di brani dal fascino senza tempo. Se Ripple è pura tradizio-ne (complice anche il mandolino di David Grisman), composizioni del calibro di Friend of the Devil, Su-gar Magnolia e Truckin, sono ulteriori testimonianze della caratura artistica di un disco capace di conser-vare ancor oggi intatta tutta la propria folgorante bellezza. (Marco Poggio)

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96.96.

Tom WaitsTom Waits Blue Valentine Asylum 1978

[76 pt.] Ci sono un prima e un dopo nella lunga vita artisti-ca di Tom Waits? C'è forse una sottile linea "blue" che unisce la voce glabra di Martha e del cuore che batte il sabato sera, con le trame, a confronto, er-metiche e oblique di Mule Variations? Oggi la storia è scritta ma c'è da chiedersi chi era nel 1978 Tom Waits. L'amante ubriaco di Rickie Lee Jones, il pre-sente e il futuro, il disperato rapace notturno di sensazioni nel caldo soffocante di Pomona, il jazz e il blues consumati nello stesso bancone di Nightawk At The Dinner; il musicista, il trovatore del piano alcolico, l'appassionato della banda dell'esercito della salvezza, l'accompagnatore alla ricerca della sua Muriel che non c'è più e "a causa di ciò il locale ha chiuso". Il Tom Waits dell'epoca vive in un mon-do iconografico, ma frequenta un universo tutto suo, fatto di cuori sbandati e animi solitari, legati unicamente da quell'insostenibile nostalgia per quello che si dovrà ancora vivere. E forse mai l'arti-sta ha concepito qualcosa di più struggente della cartolina di Christmas Card From A Hooker In Min-neapolis, mai la sua voce è stata così catramosa; e mai il blues ha toccato più le vette di 29 dollars, come la solitudine degli accordi di Blue Valentine. E come l'eroe sanguinante di Romeo Is Bleeding, è sempre il peggiore che fa battere il cuore delle ra-gazze e che imbocca la "Wrong Side Of The Road". Si è lontani dall'amante di Jersey Girl, sognatore del tramonto, lontani dalla raffinatezza di Foreign Affair, la luce del giorno è spenta. Ma non il calore e la poesia di questo magico pugno di canzoni.

(Roberto Giuli)

95.95.

The Rolling StonesThe Rolling Stones Beggars Banquet ABKCO/ Decca 1968

[77 pt.] In fondo nel 1968 i Rolling Stones sono una vec-chia band, hanno visto e fatto di tutto; dietro l'an-golo stanno gli echi del rhythm'n'blues londinese in bianco e nero, remoto è l'esordio al Marquee nel sessantadue e il sessantotto per Richard e soci ini-zia in realtà nell'estate sessantacinque, con la fini-tura del riff di Satisfaction. Il maggio sessantotto, insieme al vento e a tutto il resto, porta anche un altro riff stonesiano; si ritrova la vecchia via, Ri-chard apre l'accordatura e crea l'intro di Jumpin' Jack Flash, intimamente vicina allo spirito del ses-santacinque, al tempo stesso lontana anni luce. I Rolling Stones sono la più grande rock'n'roll band del pianeta e stanno fervendo le registrazioni di un album storico, pubblicato in dicembre. Beggars Banquet sarebbe autosufficiente anche solo come singolo contenente Simpathy For The Devil: non un brano, non una canzone rock'n'roll, molto di più, un documentario, colonna sonora di quell'anno, di quel decennio e di tutti gli altri a venire. Jagger e com-pagni sono consapevoli, consapevoli dell'intro di No Expectations, consapevoli delle condizioni di Brian Jones, il cui contributo al disco sarà minimo, del rock'n'roll di Street Fighting Man, più efficace di un bollettino di guerriglia, della durezza di Stray Cat Blues, della loro bravura in Dear Doctor e Prodigal Son, della concessione alla melodia e alla coralità di Salt Of The Earth. Consapevoli dell'importanza dello stellare Jimmy Miller e di non aver mai smentito le radici, nel sessantotto gli Stones sono già antologia e futuro del rock'n'roll; ascoltando Beggars Banquet "capisci che staranno in giro ancora per quaranta o cinquant'anni"! (Roberto Giuli)

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RootsHighway Desert Island

94.94.

Neil YoungNeil Young Tonight’s the Night Reprise 1975

[77 pt.] Che qualcuno voglia portarsi su un'isola deserta, luogo idealmente paradisiaco, un disco come Toni-ght's the Night è quasi preoccupante: battute o paradossi a parte, è riconosciuto da tutti che que-sto sia uno degli episodi più malinconici e dramma-tici messi sul pentagramma da una rock'n'roll star. Dedicato agli amici scomparsi Bruce Berry e Danny Whitten, album su cui aleggia lo spirito malato della tossicodipendenza e dell'abbandono, Tonight's The night è quasi la negazione sistematica della pace e del successo di Harvest. Pubblicato nel '75, in se-guito ad altri contradditori lavori (eppure capolavori assoluti della poetica younghiana) come On the Beach e Time Fades Away, in realtà registrato e concepito due anni prima, proprio a ridosso del ci-tato Harvest, questo disco è un'unica, lunga confes-sione di dolore, dove il sound dei Crazy Horse su-perstiti (raggiunti dal giovane Nils Lofgren e da altri amici come Jack Nitzsche) appare precario, abboz-zato, passando dalla desolazione di Borrowed Tune al fracasso di Come on Baby Let's Go Downtown (catturata dal vivo al Fillmore East). Neil Young canta "fastidiosamente" fuori tono e svogliato, ri-flettendo il momento di smarrimento e amarezza. Buona parte è dominata da un country rock deser-tico e ubriaco, su cui gruppi come i Green on Red ci costruiranno una carriera, e in ballate come Mellow My Mind, Roll Another Number, Lookout Joe o nella strepitosa Albuquerque si possono individuare le radici del suono che apparterrà al giovane rock a-mericano negli anni '90

(Davide Albini)

93.93.

John ColtraneJohn Coltrane A Love Supreme Impulse! 1964

[78 pt.] "Mr Coltrane, cos'è, per lei, l'amore supremo?", "L'espressione spirituale di ciò che sono, la mia convinzione, il mio abbraccio all'Onnipotente". "A Love Supreme è diviso in quattro parti". "Certo, Acknowledgement (riconoscimento), Resolution (decisione), Pursuance (perseveranza) e Psalm (inno). Rappresentano tutte il mio ringraziamento al Signore". "Lo stile è cambiato. C'è ancora Charlie Parker, da qualche parte, ma sta mutando forma". "Sì, lo stile è quello del jazz modale. Di nuovo. Tut-tavia avverto il bisogno di guardare altrove. Forse verso il cielo e le stelle. Ho bisogno di un fraseggio più veloce e aggressivo. Per inseguire la luce cele-stiale del cosmo". "La struttura resta semplice, co-me nelle quattro note di Acknowledgement, ma le potenzialità sono infinite". "Ma il punto non è la quantità, il punto è lasciare spazio all'istinto. Non reinventare all'infinito, bensì reinventare l'infinito". "Resolution e Pursuance, però, sono ricchissime". "Grazie alla batteria di Elvin Jones e al contrabbas-so di Jimmy Garrison. Il suo assolo, nella seconda, è la materializzazione della pienezza dell'Uomo, della sua serenità, di fronte al Volto di Dio". "Mentre nei sette minuti di Psalm l'emozione è affi-data al suo sax tenore". "Perché la devozione è un fatto individuale. Mi esercito sullo strumento dieci ore al giorno. Parlo attraverso l'imboccatura del sax, non usando le parole. A Love Supreme non è una preghiera. È il linguaggio della preghiera che si fa suono. La chiamata alla fede. La vocazione reli-giosa". "Musica sacra?", "Non saprei. Posso sperare sia tratti di musica benedetta".

(Gianfranco Callieri)

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92.92.

Jimi HendrixJimi Hendrix Are You Experienced Polydor 1967

[78 pt.] Un soffio, una meteora, un baleno. E senza nean-che saperlo il mancino prodigio di Seattle si ritrova catapultato nell'Olimpo del rock con vicissitudini del tutto simili a quelle di un altro angelo con la pelle scura come Robert Johnson, alle origini di questa stessa musica. Come fotografie che diventano icone quando riproducono linearità contemporanee dal classicismo di opere d'arte, così la storia del ragaz-zo che se ne va quasi invisibile e ritorna come un idolo si ripete in una sorta di mitopoiesi. La faccen-da è nota: l'inglese Chas Chandler, bassista e pro-duttore degli Animals, ne coglie le potenzialità mes-se da parte dai pregiudizi americani "di colore" e un chitarrista poco noto di nome James Hendrix se ne va in Inghilterra e ritorna Jimi, il più grande chitar-rista di tutti i tempi. Era già successo col blues bri-tannico e un'altra volta sono ancora gli inglesi ad aprire gli occhi agli americani. Quantunque fosse stato difficile accettarlo, la genialità di Hendrix cozza con lo stereotipo del nero che suona il blues e abbraccia una realtà espressiva a tutto tondo, con la quale lui stesso dovrà fare i conti. Già a par-tire da Are You Experienced, tra i migliori album di debutto della storia del rock, versione oltreocea-no comprensiva dei singoli Hey Joe/Stone Free, Purple Haze/51st Anniversary o The Wind Cries Mary/Highway Chile; europea senza, ma con can-zoni come Fire, Red House, Foxy Lady, l'inizio del-l'era chitarristica spaziale di Third Stone From The Sun o la stessa, psichedelica e reversibile title - track. Rimasterizzato nel 1997, è un'immancabile "classico".

(Matteo Fratti)

91.91.

R.E.M.R.E.M. Murmur IRS 1983

[79 pt.] Presentando il cofanetto Nuggets, raccolta di sco-nosciuti 45 giri di garage-rock e psichedelia anni 60, il curatore Lenny Kaye aveva fatto notare come quel patrimonio artistico avesse rischiato l'oblio a causa della mancanza di mezzi per il passaparola di quegli anni (no alternative: o passavi in radio o rimanevi appannaggio di pochi). Come a dire che sarebbe bastato Facebook a rinsavire le carriere di tanti artisti che hanno poi attaccato la chitarra al chiodo per mancanza di riscontri. Ecco, Murmur dei R.E.M. è stato lo spartiacque tra le due epoche, il primo album nato in provincia, al di fuori dei ca-nali della grande distribuzione discografica, ma so-pravvissuto al tempo fin da subito grazie al passa-parola delle piccole radio universitarie e delle stan-zette nel retro dei negozi musicali, dove il commes-so lungimirante ti portava dicendoti "lascia stare il nuovo degli Abba, ti faccio ascoltare io un gruppo forte!". I R.E.M. sono stati quelli che ce l'hanno fat-ta del rock alternativo, hanno ottenuto tutto senza mai concedere nulla o molto poco. Non è un caso che siano gli unici che hanno saputo dire "basta" quando nessuno glielo chiedeva, perché tra alti e bassi hanno condotto la loro storia sempre con grande dignità, senza mai rilasciare particolari "payola" artistiche. La stessa vera fierezza che ave-va il loro esordio, forse non il loro capolavoro, ma un album sincero, nato quando nessuno suonava questa musica e rimasto nel cuore dei fans anche quando dai club si è passati alle arene.

(Nicola Gervasini)

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90.90.

Joe ElyJoe Ely Letter to Laredo MCA 1995

[81 pt.] Da una parte il rilancio di una carriera che, dopo la firma con la Mca, non aveva ancora raggiunto gran-di sbocchi artistici, dall'altra in qualche modo l'apice stesso del suo stile, su cui vivrà un po' di rendita negli anni successivi, Letter to Laredo è il disco che Joe Ely andava forse cercando da sempre. Troviamo infatti sintetizzati e amplificati tutti i temi che hanno infiammato il songwriting di questo figlio del Texas più polveroso: il border diventa qui un'u-nica grande ode alla mitologia della frontiera e la musica ne risente in profondità, colorando di mexi-can music il country rock stadaiolo e arcigno per cui giustamente Ely era stato riconosciuto come un maestro e precursore. È la chitarra flamenco dello sconosciuto Teye, un espatriato adottato dal Texas, che amalgamata alle radici country di Lloyd Maines e degli altri musicisti (c'è ancora la chitarra assassi-na di David Grissom, ma tenuta più a freno) genera questo affascinante rock dalle pulsioni tex-mex, inno al meticciato potremmo dire. Il merito è anche di una produzione semplicemente perfetta nel cali-brare acustico ed elettrico, con una scelta del ma-teriale più accurata del solito: le cover di Gallo del Cielo (Tom Russell) e She Finally Spoke Spanish to Me (Butch hancock) riescono ad annullare gli origi-nali, ma sono i prodotti di casa a fare la differenza, tra questi una poderosa All Just to Get to You (con un cameo vocale di Springsteen), Run Preciosa, Ranches and Rivers e l'epica Letter to Laredo, sorta di western in piena regola messo in musica. (Davide Albini)

89.89.

Robert JohnsonRobert Johnson King of the Delta Blues Singers Columbia 1961

[82 pt.] E' l'album che, voluto da John Hammond Sr e pub-blicato nel '61, ha fatto conoscere a tutti il leggen-dario bluesman che assomma in sé stilemi e tratti lirici del blues del Delta, facendo da ponte fra quel-lo arcaico e quello urbano, in particolare chicagoa-no, del primissimo dopoguerra, e quindi anche alle sue influenze sul rock. Le registrazioni risalgono al '36 a San Antonio, TX, e '37 a Dallas, TX, quando il ventiseienne bluesman aveva ormai fatto sua la "leggenda cross road". Proprio lo splendido Cross Road Blues è uno dei brani portanti dell'album che raccoglie una tale messe di classici di carattere sti-listico (impressionante) e contenutistico, da lasciare a bocca aperta. Come On In My Kitchen, Walkin' Blues, Ramblin' On My Mind, Me And The Devil Blues, Hell Hound On My Trail, sono altri titoli che dall'epoca dell'uscita dell'ellepi abbiamo ritrovato in decine e decine di dischi e concerti blues e rock (dal vol. 2, pubblicato nel '70, arriveranno I Believe I'll Dust My Broom, Sweet Home Chicago e Love In Vain Blues… e dall'unione dei due sarà pubblicato The Complete Recordings). Ma oltre che questi, al tempo mi colpì immediatamente la complessità e-secutiva di Preachin' Blues: sembra che ci sia il supporto di un secondo chitarrista (stessa impres-sione la dichiara Keith Richards… mica paglia). Aldi-là di tutto c'è l'estrema, a tratti disperata forza in-terpretativa di colui che costituisce un riferimento irrinunciabile

(Gianni Del Savio)

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RootsHighway Desert Island

88.88.

The WhoThe Who Quadrophenia Polydor 1973

[84 pt.] Poco apprezzato all'epoca e amatissimo dalle gene-razioni successive, Quadrophenia è uno sguardo retrospettivo sul mondo dei mods e sulla gioventù londinese degli anni sessanta che era cresciuta in simbiosi con la band. Protagonista è il giovane Jimmy Cooper, che attraverso le sofferenze e le frustrazioni adolescenziali arriverà ad affrontare nell'epilogo finale la decisione se crescere definiti-vamente superando l'illusione dell'eterna giovinezza o morire. Diverso dal suono barocco e pomposo di Tommy, Quadrophenia si consacra per il tipico ed esplosivo rock'n roll targato Who, ovvero una mi-scela micidiale fatta da un drumming istintivo, da un basso granitico che piuttosto di tenere il ritmo esegue assoli, da una chitarra che sputa rasoiate ed una voce roca che offende. Dal suggestivo brano d'apertura I Am the Sea, seguendo per le potenti The Real Me, The punk and the Godfather, alle ma-linconiche ballate Sea and the Sand, I Am the One, fino alla struggente Love Reign O'er Me, leit motiv dell'intera opera, l'album contiene alcune tra le co-se migliori che il rock abbia mai realizzato, dimo-strando a distanza di quarant'anni la sua totale at-tualità. Metafora universale sulla perdita della gio-vinezza, l'opera fù in realtà un chiaro richiamo che Townshend tentò di rivolgere agli altri membri del gruppo e ai fans, a fare i conti con il cambiamento per non rimanere imprigionati in un passato che non esisteva più. Paradossalmente, se attraverso il dolore e la sofferenza il protagonista Jimmy alla fine riuscirà a purificarsi ed a cambiare, così non avvenne per gli Who che continuarono a navigare a vista tra litigi ed eccessi fino alla tragica morte di Keith Moon nel 1978.

(Gianluca Serra)

87.87.

Pink FloydPink Floyd The Wall Harvest 1979

[85 pt.] Difficile pensare che uno degli album più famosi della storia del rock sia stato originato da uno spu-to. Sì, uno sputo, perché quella grande band - al tempo già pluridecorata - aveva difficoltà a calcare il palcoscenico di fronte a un pubblico numeroso. Fu così che un bel giorno - era il luglio 1977 - il bassi-sta Roger Waters, irritato dagli schiamazzi e dalle urla di alcuni spettatori, decise di annaffiare con un po' di saliva uno di loro. Proprio da quell'esternazio-ne poco artistica nascerà il personaggio di Pink, costretto oltretutto a muoversi, e anche in fretta, tra le rovine di un conto in banca - quello dei Floyd, appunto - che gridava vendetta. The Wall è la tra-sfigurazione della vita di Waters, un atto d'accusa nei confronti del "sistema", simbolo universale del-l'alienazione dell'artista e dell'essere umano, vitti-ma sacrificale che mattone dopo mattone costrui-sce un muro di difesa, quel muro che esattamente dieci anni dopo assumerà connotati storici epocali. The Wall è allo stesso tempo l'album più fruibile (come oso, commerciale?) e il testamento artistico di una band che ha scandito il suono della storia, il concept più famoso, il doppio immancabile in ogni scaffale che si rispetti, insomma, un piccolo grande capolavoro. Sono passati più di trent'anni, ma nien-te ha potuto scalfire la perfezione "tecnica" di un sound in anticipo sui tempi e di alcune canzoni. Riascoltando Another Brick oppure Comfortably Numb ci si rende perfettamente conto che il muro dell'arte, all'epoca, non era ancora crollato.

(David Nieri)

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RootsHighway Desert Island

86.86.

David BowieDavid Bowie Ziggy Stardust RCA 1972

[85 pt.] Invece di avere tante personalità, il londinese David Jones decise di averne una ma su più livelli. Si in-ventò prima David Bowie, che a sua volta s'inven-tò Ziggy Stardust. Che era un alieno vestito come una groupie, trasformatosi in artista per portare al nostro mondo un messaggio positivo di pace, finen-do però distrutto dagli abusi tipici del ruolo. Una parabola già tristemente nota in quel 1972, proprio all'indomani della morte a catena del trio Morrison/Hendrix/Joplin, tutti accomunati dalla sindrome del rock and roll suicide che chiude anche la vicenda di Ziggy. Anticipando intelligentemente il declino già previsto dal titolo dell'album, Jones ucciderà defini-tivamente il suo personaggio per tornare ad essere Bowie e crearsi così nuove maschere come il Thin White Duke di pochi anni dopo. Ma quello che (s)vestiva i panni della prima icona dichiaratamente gay della storia del rock resta il Bowie più univer-salmente amato e riconosciuto, quello che metteva d'accordo l'anima rock portata in dote dal chitarri-sta Mick Ronson con la voglia di avanguardia e spe-rimentazione che lo caratterizzerà in ogni fase della sua carriera. Bowie in questa occasione fece sua tutta l'esagerata teatralità tipica del glam-rock del-l'epoca e pensò il disco come un musical di Broa-dway, avendo però la freddezza di non cercare un filo logico obbligato, solitamente causa di brani mi-nori o di semplice raccordo di molte rock-opera (errore che commetterà anni dopo con Outside), ma semplicemente di assemblare 11 brani a sé stanti che diverranno undici classici immortali.

(Nicola Gervasini)

85.85.

The ByrdsThe Byrds Younger than Yesterday CBS 1967

[86 pt.] Seminali e anticipatori di suoni e tendenze, i Byrds più che una vera band furono un grande laboratorio musicale dove alcune tra le più illuminate menti (Roger McGuinn, Gene Clark, David Crosby, Gram Parsons, Chris Hillman) della giovane scena rock americana mossero i primi passi per poi fuggire ed affermarsi altrove, rendendo impossibile ai Byrds di cementare una propria identità di gruppo, ma con-sentendo alla band di assorbire influenze e contri-buti diversi rendendo la propria opera sempre inno-vativa. Il miglior esempio di questo melting pop musicale è per l'appunto Younger Than Yester-day, quarta opera della band che seguì la svolta psichedelica di Fifth Dimension. Reduci dalla fuoriu-scita di Gene Clark, realizzarono un album maturo in cui le idee e le intuizioni dei due fuoriclasse, McGuinn e Crosby, si integrano alla perfezione rag-giungendo un punto di equilibrio unico. Se pezzi quali Have You Seen your Face o Renaissance Fair sono stupendi esempi del classico folk rock psiche-delico guidato dalle 12 corde della Rickenbacker di McGuinn, le misteriose dolenti ballate di David Crosby quali Everybody's Been Burned e Mind Gar-dens anticipano le intuizioni che verranno esplose in futuro nel supergruppo con Still, Nash e Young. Non secondario il contribuito dell'anima roots Chris Hillman che contribuì con delle purissime Time Be-tween e The Girl With no Name indicando la strada per la prossima svolta country-rock. Younger than Yesterday appare come un caposaldo del rock ame-ricano, una pietra miliare in grado di anticipare i suoni e le tendenze che verranno battute dal rock a stelle e strisce nei decenni futuri.

(Gianluca Serra)

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RootsHighway Desert Island

84.84.

The BlastersThe Blasters Hard Line Slash 1985

[87 pt.] Hard Line è un disco unico nella storia dei Bla-

sters, e non solo. E' anche un passo verso un futu-ro che, purtroppo, è rimasto incompiuto e in questo ha tutto una sua identità all american di promesse non mantenute, strade perse e identità sfuggenti. Il capolavoro dei Blasters li proiettava infatti verso una forma musicale dallo spettro più ampio e sensi-bile rispetto al rock'n'roll e al rhythm and blues al fulmicotone degli esordi: il gospel di cui è intessuto Hard Line era soltanto la sfumatura più evidente (ricordava il produttore, Jeff Eyrich, che i Jordanai-res, già con Elvis, si erano presentati in studio in completo con giacca e cravatta di cuoio per onorare l'occasione, e i fratelli Alvin non furono da meno), ma è il DNA dei Creedence a emergere. Sia da un punto di vista musicale (e basta Dark Night) sia da quello della consapevolezza, visto che Hard Line, come insegna il titolo, è stato uno dei pochi, con-vincenti segnali di resistenza umana e rock'n'roll negli anni della bolla reaganiana. Rimane lo zenith dei Blasters e un caposaldo della riscoperta dell'a-merican music, ma è anche una fonte di rimpianti visto che tutto è finito lì. Soltanto King Of California di Dave Alvin è stato all'altezza di Hard Line, poi saranno gli amici e colleghi Los Lobos a esplorare con più convinzione e maggiori risultati le comuni intuizioni all'origine (e verrà Kiko, altro disco che sull'isola deserta non può mancare), così come John Mellencamp, coautore e produttore di Colored Lights (grande canzone) e sua volta in prima linea con il coetaneo Scarecrow.

(Marco Denti)

83.83.

Lou ReedLou Reed Berlin RCA 1973

[90 pt.]

Nel 1973 Lou Reed è reduce dal successo planeta-

rio di Transformer, che lo ha lanciato nello star

system del rock, ma al contempo è tormentato da

mille fantasmi, che dosi massicce di eroina non fan-

no altro che rendere più incombenti. È da questa

situazione di squilibrio totale che nasce il progetto

di Berlin, probabilmente uno dei concept album più

scuri, nichilisti e disperati della storia. Con la pro-

duzione quasi teatrale di Bob Ezrin, Lou Reed

proietta se stesso e gli ascoltatori nella Berlino de-

cadente degli anni Sessanta/Settanta, raccontando

la storia di una coppia di tossici americani trapian-

tati in terra tedesca. La storia narrata dalle canzoni

è un vortice turbinante, una lunga caduta sospesa

fra il lancinante stridere delle chitarre di Steve

Hunter e Dick Wagner, dalla voce monocorde e di-

staccata di Reed e la drammaticità dei testi, sorta

di dialogo interiore fra i due protagonisti, Caroline e

Jim. Il risultato è un disco straniante, le cui canzo-

ni, da Lady Day all'algida Sad song sono scene psi-

cologicamente agghiaccianti di un film che nessuno

avrebbe mai voluto vedere, eppure, nella loro tota-

le mancanza di speranza, portano agli occhi l'altra

faccia del mondo, quella lontanissima dal luccichio

dei riflettori dal quale Lou Reed si è sempre defila-

to. Comunque lo si prenda, un capolavoro.

(Gabriele Gatto)

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82.82.

WhiskeytownWhiskeytown Strangers Almanac Outpost/ Geffen 1997

[91 pt.] Apparso nel momento di maggiore ascesa e legitti-mazione della scena alternative country, Stran-gers Almanac ne simboleggia la catarsi e forse persino la sintesi definitiva, certamente lo zenith di un incontro fecondo fra tradizione, immaginario americano ai margini e rock'n'roll nato e cresciuto per la strada. Ryan Adams è il giovane autore che qui riesce a imbrigliare tutto questo universo in una sequenza di canzoni che parlano dall'heartland de-presso di una nazione, declinando però lo spirito un po' "operaio" del genere verso l'intimità del cantau-torato anni 70. Non gli sono secondari tuttavia i musicisti (da una ideale spalla come Caitlin Cary, per spalleggiamenti vocali e tonalità country del violino, al misconosciuto chitarrista Phil Wandscher) e il mirabile lavoro di produzione di Jim Scott (autentico re mida del roots rock anni '90), il quale dona un perfetto equilibrio fra l'anima punk degli esordi e la naturale propensione mainstream dei Whiskeytown. Così si collocano, da qualche parte fra la fragilità umana del maestro Gram Parsons e la rabbia giovane di Paul Westerberg (Replacements), episodi come Excuse While I Break, Dancing with the Women at the Bar da una parte e Waiting to Derail o Turn Around dall'altra, abbracciando infine le timbriche stradaiole di 16 days e i rintocchi desolanti di Inn Town. Il retro copertina, in tutto il suo anonimato, lo stesso che ritrae una interstate qualunque lanciata nel grande nulla americano, avrebbe potuto rappresentare la cover ideale, pur nella sua scontata iconografia. Strangers Almanac rimane ancora oggi uno dei ver-tici del giovane rock provinciale. (Fabio Cerbone)

81.81.

Quicksilver Messenger ServiceQuicksilver Messenger Service Happy Trails Capitol 1969

[92 pt.] L'invito al viaggio comincia dalla copertina: il saluto di un pony express alla fanciulla della prateria nel dipinto di George Hunter e quattro messaggeri del-la nuova frontiera che ne colgono il testimone sen-timentale, dall'epopea del West all'apogeo lisergico, augurio Peace & Love by San Francisco 1969. David Freiberg e Greg Elmore tengono le redini della cor-sa per basso e batteria su un jungle - rhythm ruba-to a Bo Diddley, ma è il barrito di una chitarra elet-trica a coinvolgerci al roteare del long playing su di una Who Do You Love scardinata nella sua integrità morale, intrecciarsi di cavalcate imbizzarrite di Gary Duncan e John Cipollina in tutte le facce dell'amore, che diventano When You Love, Where You Love, How You Love, Which Do You Love e ripresa. Una suite chitarristica di una ventina di minuti che è il simbolo dell'era psichedelica e fa viaggiare anche noi, lontano ogni qualvolta la musica diventi instan-cabile evasione, ma anche arte e messaggi di un'e-poca, forse, con troppe illusioni. Il blues, rivisitato ai tempi, passa dal Fillmore (East & West) e diventa ancora l'interstellare E. Mc Daniels di Mona, esplode negli acidi strali compositivi di Maiden Of The Can-cer Moon e si trasforma nel flamenco - wha morri-coniano per western immaginario di Calvary. Happy Trails ha una cornice chiusa e ci riporta, con la sghemba title - track, non alla prima canzo-ne ma alla copertina stessa, e a un altro viaggio oltre frontiera.

(Matteo Fratti)

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80.80.

The ByrdsThe Byrds Sweetheart of the Rodeo Columbia 1968

[92 pt.] Mai aggettivo fu più appropriato (e abusato) di se-minale per descrivere un disco come Sweetheart Of The Rodeo, cuore della questione country rock e a ben vedere anche precursore di tutto il discorso del cosiddetto rock delle radici. Come giustamente sottilinea il critico David Fricke, nelle note della ri-stampa di qualche anno fa, questo non fu certa-mente il primo disco a inventare l'affascinante ibri-do del country rock, ma certamente risultò il più influente e profondo, anche per la nomea di paladi-ni del nuovo suono californiano che i Byrds si tra-scinavano appresso. Quelli di Sweetheart Of The Rodeo sono però una band completamente rivolu-zionata: l'uscita di scena di David Crosby e Micheal Clark apre la strada alla collaborazione (e alle con-tinue tensioni, i due dureranno pochi mesi insieme) fra Roger McGuinn e Gram Parsons, quest'ultimo vero fulcro della svolta tradizionale. Musicista sudi-sta dall'educazione country e bluegrass, Parsons apre la band alle gioie di Nashville importando le intuizioni della sua prima formazione, la Interna-tionl Submarine Band. L'esito è "rivoluzionario" per i tempi: un disco dove compaiono musicisti di area country-folk come Lloyd Green e John Hartford al fianco di ragazzi bianchi figli della California più alternativa. Il repertorio poi è illuminante: brani dei Louvin Brothers, di Merle Haggard e Woody Gu-thrie, si mescolano a traditionals, originali e altri dell'amato Bob Dylan (la splendida You Ain't Going Nowhere). Oggi una consuetudine, allora quasi un sacrilegio fra vecchia America bianca conservatrice e giovane America rivoluzionaria

(Davide Albini)

79.79.

Patti SmithPatti Smith Horses Arista 1975

[94 pt.] Per l'anagrafe non è più una just kid la Patti Smith che nel 1975 esordisce con Horses, ma quanto a inquietudine esistenziale è in piena adolescenza. Non ancora catturata dalla musa della fotografia, sperimenta tuttavia ogni altro mezzo espressivo che possa condurla alla pienezza dell'Arte. Contem-poraneamente va a scuola di ecumenismo, varando relazioni carsiche e convivenze border, ossia tutto ciò che possa condurla alla pienezza della Cono-scenza. Anfibi ai piedi e carezze fra le mani, rimbal-za tra la Bowery e la Quarantaduesima, succhiando il nettare delle strade di New York. Al suo fianco c'è già Robert Mapplethorpe: suo il ritratto di coperti-na, androgino e perentorio. Ad Horses viene asse-gnato il compito, impegnativo ma ineccepibilmente assolto, di accogliere e ordinare urgenza espressiva e convulsa brama di ricerca. Lo fa attraverso la vi-sionarietà di Land, il furore di Free money, l'ipnosi declamatoria di Birdland. Fino a rifondare il testo della morrisoniana Gloria, per consegnare una delle più chiare, audaci, definitive enunciazioni che il ro-ck'n'roll ricordi: "Gesù è morto per i peccati di qual-cun altro ma non per i miei". Sono queste le prime parole che escono dai solchi di Horses e sono già un manifesto di intenti fiero e disarmante, che nei decenni a venire, lo sappiamo bene, manterrà la coerenza che distingue un'artista onesta da una grande anima.

(Donata Ricci)

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78.78.

Los LobosLos Lobos Kiko London 1992

[94 pt.] Questo disco ha rappresentato per i Los Lobos il punto di rottura definitivo e forse per qualche vec-chio affezionato il tradimento finale, di sicuro i lupi di East Los Angeles non sono stati più gli stessi, avventurandosi nella costante ricerca del ritmo e nello stravolgimento delle tradizioni latin rock da cui tutto era iniziato. Nello stesso tempo però, da qualunque parte vi voleste schierare, Kiko è indi-scutibilmente il loro album più ambizioso e proba-bilmente il più degno di essere consegnato ai po-steri per descriverne le qualità strumentali, il genio compositivo, le capacità uniche di sintesi fra musica americana, rock'n'roll e radici messicane. Il roots rock delle origini e la matrice blues su cui la band di Hidalgo e Rosas ha costruito la sua fama non viene affatto persa (basti ascoltare Whiskey Trail o That Train Don't Stop Here), ma qui è ribaltata con un approccio più obliquo, verrebbe da dire "cubista" ascoltando lo sviluppo di brani come la stessa Kiko and the Lavender Moon, Dream in Blue o Wake Up Dolores, dove soul, r&b, latino-america, bianco e nero si riversano nei brani ricomponendosi magica-mente. Una sorta di operazione di multiculturalismo musicale e di mescolanza di linguaggi e tradizioni che potrebbe quasi descriverli come la versione anni '90 di The Band, e d'altronde When the Circus Comes, Two Janes, Short Side of Nothing sono pic-coli capolavori di equilibrio dove il concetto di Ame-ricana è abbondantemente anticipato.

(Davide Albini)

77.77.

Bob DylanBob Dylan Oh Mercy Columbia 1989

[96 pt.] Se si presta un po' di attenzione a quello che suc-cede nel backstage, bisogna dire che Oh Mercy di Bob Dylan non potrebbe mai andare separato da Yellow Moon dei Neville Brothers e quindi nell'isola deserta bisogna infilarci un disco in più. I due al-bum hanno in comune tutto: New Orleans (e basta e avanza), Daniel Lanois (mai così ispirato), i musi-cisti, il tono crepuscolare e spiritato, in parte persi-no l'arte naïf delle copertine. Più di tutto condivido-no Bob Dylan: Yellow Moon è permeato dalla sua presenza, non soltanto per le grandi versioni dei Neville Brothers di With God On Our Side e The Ballad Of Hollis Brown (a cui andrebbe aggiunta A Change Is Come, il cui debito dylaniano è sempre stato ammesso e riconosciuto dallo stesso Sam Co-oke), ma proprio per la caleidoscopica visione della musica e delle canzoni. La stessa che ha reso Oh Mercy il suo penultimo capolavoro (l'ultimo è Time Out Of Mind): le canzoni, a partire dal capolavoro di Man In The Long Black Coat sembrano provenire da qualche luogo misterioso (e qui la Big Easy un certo peso specifico deve averlo avuto), i suoni racconta-no notti popolate da un'infinità di creature che vor-rebbero solo tornare a casa e la voce di Dylan è una guida onnipresente, come se a parlare fosse una coscienza segreta. Va ricordato che all'appello manca Series Of Dreams (va rintracciata nelle Bo-otleg Series), altra strepitosa e rocambolesca saga dylaniana che venne esclusa nelle fasi finali di Oh Mercy, perché non lo sa nessuno, se non lui e Dylan è Dylan, l'ultima parola è la sua.

(Marco Denti)

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76.76.

Jethro TullJethro Tull Aqualung Island 1971

[97 pt.] Che "cosa" sono i Jethro Tull!? Quel che si dice del jazz potrebbe ben dirsi anche se quel che non sai cos'è, allora è progressive, ma alla band di Ian An-derson forse proprio non calza. Quello che hanno fatto rinvia piuttosto ad un folk medievalista trave-stito di hard rock, una formula sonora unica, fatta di un periodare rock - chitarristico più diretto, e così ben vestito di pentatoniche blues e fraseggi al flauto da essere comunque originali, oggi come ieri. E non è solo perché suona da quarant'anni che A-qualung, il loro disco da oltre sette milioni di copie vendute, lo porteremmo sull'isola deserta. Ma an-che perché l'impareggiabile arte del pifferaio magi-co e soci costruisce melodie di contrasto ove la dol-cezza del suo strumento e le ballate acustiche fan-no risaltare aggressive chitarre elettriche e batteria (o viceversa) in un inseparabile paesaggio sonoro (dalla title - track a Locomotive Breath, passando per Mother Goose o Wond'Ring Aloud) connotando di linearità urbane la matrice di un folk britannico che ha il nome di un agronomo settecentesco. Il buon senso ci inviti allora a far luce oltre il luogo comune di un concept album, nell'invettiva contro l'emarginazione sociale del barbone di copertina (disegnata da Burton Silverman "troppo" simile a Anderson, ma ispirato dal vero progetto fotografico della moglie del frontman Jennie Franks) ma con ben altri risvolti e canzoni, critiche persino nei con-fronti di un integralismo religioso troppe volte gio-cato sulla paura (My God, Wind Up). Un disco "invecchiato" ad arte.

(Matteo Fratti)

75.75.

The BeatlesThe Beatles Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band Parlophone 1967

[98 pt.] Un disco tra i più importanti degli anni 60, opera seminale per tutta la musica rock che nei decenni successivi ha trovato ispirazione da questo lavoro per nuovi generi e band, caratterizzati dal debito stilistico che Sgt Pepper's ha indelebilmente im-presso. Un caleidoscopio di canzoni immaginifiche, perfette architteture melodiche cantate non solo dal rodato duo Lennon- McCartney, ma arrangiate an-che per Ringo Starr e George Harrison, capace que-st'ultimo di impreziosire con la cultura indiana uno script tipicamente brittanico. Non riuscirei a raccon-tare nulla più di quello che le stesse canzoni (Lucy in the Sky with Diamonds, Getting Better, la perla A Day in the Life) hanno raccontato per oltre 40 anni: potrei forse segnalare la poesia di brani meno abusati come ad esempio Fixing a Hole, afrodisiaco frutto lisergico sorretto da un semplice giro croma-tico di accordi col clavinet, o Lovely Rita, filastrocca di Lennon, che apre le porte a quello stile che tro-veremo pochi mesi più tardi con l'album Magical Mystery Tour, dove psichedelia, folk e beat danze-ranno insieme, o ancora Within You Without You, raga scritto e cantato da Harrison, per primo affa-scinato dal quel magico suono di sitar e tabla. La copertina stessa fece scalpore, perché ritraeva le icone dell'epoca, politiche e musicali, cinematogra-fiche e culturali, e subì anche un taglio della censu-ra che fece togliere dal progetto originario le foto di Gesù Cristo, Hitler e Ghandi.

(Silvio Vinci)

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74.74.

John HiattJohn Hiatt Slow Turning A&M 1988

[98 pt.] Uscito definitivamente da un lungo, odioso anoni-mato tipico dei songwriter conosciuti soltanto fra gli addetti ai lavori, John Hiatt prosegue lo stato di grazia che lo ha consacrato nel precedente Bring the Family, spostando soltanto un pizzico più a sud la bussola delle sue ballate. Slow Turning regala il successo minore della title track, uno dei singoli più fortunati in carriera, ma non ripete l'exploit di pub-blico e stampa ottenuti grazie alle collaborazioni con Ry Cooder e Nick Lowe. Nonostante il tono di-messo, nella sostanza però si tratta del secondo capolavoro di fila: assunti a tempo pieno gli assai meno strombazzati Goners, spalla a spalla con la slide guitar spumeggiante e inconfondibile di Sonny Landreth, Hiatt imbastisce un disco di caldi umori sudisti, dove ballate innaffiate di docile country e rock'n'roll impastati dal soul di Memphis si esaltano a contatto con la produzione asciutta e live di un maestro come Glyn Johns. Gli highlight non manca-no neppure in questa occasione e portano il titolo di Icy Blue Hearts e Feels Like Rain, colpi bassi per gli animi romantici, Drive South e Georgia Rae, esempi di un limpido suono southern country, Tennessee Plates e Paper Thin, baldanzosi rock'n'roll che fa-rebbero la fortuna di qualsiasi sconosciuto outsider della provincia americana. Proprio qui risiede la differenza fra un allievo qualsiasi e un maestro di vita come John Hiatt, che su questo disco cemente-rà un accento riconoscibilissimo per gli anni a veni-re, diventando una piccola Bibbia del rock da strade blu.

(Fabio Cerbone)

73.73.

Led ZeppelinLed Zeppelin IV Atlantic 1971

[100 pt.] Tra il '69 ed il '71 i Led Zeppelin pubblicano i loro primi quattro album, uno più bello dell'altro e, so-prattutto, uno diverso dall'altro, dimostrando una crescita incredibile. Partendo dal blues dell'esordio, passando all'hard rock del successivo, spiazzando molti con la svolta acustica del terzo, il quartetto britannico completa la sua ascesa con un disco che supera i precedenti, fondendo elettrico ed acustico, hard rock e folk, blues e ballata. Robert Plant am-morbidisce i toni urlati (a volte eccessivi) della sua voce dimostrando una duttilità sorprendente nella ballata Going To California e nel folk visionario di The Battle Of Evermore, dove è affiancato dalla straordinaria Sandy Denny dei Fairport Convention. Per non parlare di Stairway To Heaven, un brano che conoscono anche i sassi, otto minuti celestiali, dolcemente acustica nella prima parte, rabbiosa-mente elettrica nella seconda con un assolo di Jimmy Page semplicemente perfetto. Ma gli appas-sionati di rock non sono dimenticati: il riff intransi-gente di Black Dog e l'incalzante Rock And Roll riaf-fermano la potenza del gruppo, trascinato dalla batteria tellurica di John Bonham, mentre la conclu-siva When The Levee Breaks è un ritorno al blues delle origini, sapientemente rivisitato. La misteriosa copertina senza titolo, i simboli scelti dai musicisti, le accuse di messaggi subliminali, l'attrazione di Page verso l'occulto hanno contribuito alla fama del disco, ma se ha venduto più di 23 milioni di copie negli Usa il motivo fondamentale è uno solo: è un album epocale, la vetta della carriera del dirigibile.

(Paolo Baiotti)

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72.72.

Derek & The DominosDerek & The Dominos Layla & Other Assorted Love Songs Polydor 1970

[101 pt.] E' un Eric Clapton in stato di grazia che ritroviamo qui, al punto di svolta americano dell'idolo chitarri-stico britannico. E a venticinque anni Mr. "Slowhand" dribbla il successo dell'approdo Blind Faith (dopo Yardbirds, Bluesbreakers e Cream) per scegliere l'anonimato, la libertà espressiva di una band senza dover essere a tutti i costi la prima donna. Comincia così l'improvvisazione coi Friends di Delaney & Bonnie, comune itinerante d'apertura ai Blind Faith in America, fino a ritrovarsi con loro nei Criteria Studios di Miami. E come spesso acca-de, nel clima di totale disincanto dove nascono le perle preziose, si aggiunge luce ad amplificarne la brillantezza. Coerente con questa impostazione "easy" della produzione, proprio Duane Allman, su invito dello stesso Clapton, si farà vivo per le ses-sions da cui verrà fuori questa gemma, oscura al momento in cui i nomi coinvolti conservano l'anoni-mato, lasciando solo alla musica il compito di fare proseliti. Missione compiuta, dato che siamo qui a parlarne, per una serie di contingenze di una sola volta nella vita, a testimonianza di un grande soda-lizio artistico e oltre ogni ambizione professionale, ma di grande intesa, umana e musicale. Eric Clap-ton, Duane Allman, Bobby Whitlock, Jim Gordon e Carl Radle, creano un'alchimia unica, e un mucchio di assortite canzoni che non occorre specificarne il tema per capire che sono blues, rock, soul o infinite jam. Layla è per la moglie di George Harrison, nei confronti della quale si dipanava il dissidio senti-mentale di Clapton tra essere amante di lei o tradi-tore dell'amico. Il resto è fucina ispirativa non da poco, e l'istantanea di un momento unico.

(Matteo Fratti)

71.71.

RadioheadRadiohead Ok Computer Parlophone 1997

[102 pt.] Il disco che farebbero gli extraterrestri di ritorno sul loro pianeta dopo aver soggiornato sulla terra e averne raccolto i frutti musicali più prelibati. Molto di più di una dozzina di canzoni, piuttosto un’espe-rienza sensoriale, un tuffo in un’altra galassia. Con Ok Computer i Radiohead si spingono oltre la linearità di The Bends, album splendido che però rischiava (ingiustamente) di farli rientrare nel gran-de calderone del brit pop imperante negli anni 90 e trovano un irripetibile equilibrio tra Pink Floyd e Beatles, elettronica e rock, progressive e partiture jazzate. Tutto ciò senza derogare nemmeno per un istante al nitore delle composizioni, alla pura bellez-za delle canzoni, senza che una sola nota suoni o-stica o fine a se stessa. Al centro è sempre la poeti-ca esistenzialista della band di Oxford, sempre pro-tesa a trasformare in musica e parole l’alienazione e le derive nefaste della postmodernità. Il canto di Thom Yorke, l’anti-frontman per eccellenza, ne è il vettore perfetto, facendosi a seconda dei casi di-sperato, allucinato, dolce, rabbioso, ammonitore. Ed è una pioggia di capolavori che squarciano l’o-scurità: i due tempi della epocale Paranoid Android, il piano di Karma Police (che in fondo è lo specchio deformato di quello di Let it be), la tempesta rab-biosa di Electioneering, l’entropia di Airbag e il nuo-vo ordine di The tourist, la apparente pacificazione di No surprises, la delicata nostalgia di Subterrane-an Homesick alien e l’inarrestabile crescendo di una canzone bigger than life come Exit music (for a film). L’ultimo vero grande disco del 900.

(Gianuario Rivelli)

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RootsHighway Desert Island

70.70.

Led ZeppelinLed Zeppelin Led Zeppelin Atlantic 1969

[103 pt.] Il dirigibile del rock deflagra all'alba del 1969 e il mondo non sarà più lo stesso: la lezione del british blues, da cui buona parte della band ha avuto le sue origini, viene sconquassata e condotta alle e-streme conseguenze. La leggenda tramanda la na-scita dell'heavy rock, seppure le esperienze paralle-le siano oggi storicizzate, ridimensionando il ruolo dei Led Zeppelin nel contesto dell'epoca. Resta fuori di dubbio che la macchina ritmica formata da John Paul Jones e John Bonham non avesse al tem-po rivali e che la vocalità dionisiaca, vertiginosa di Robert Plant rappresentasse una visione quasi pa-rossistica del genere. Jimmy Page, fuoriuscito dal-l'esperienza fondante con gli Yardbirds, sferza il tutto con una chitarra che ondeggia fra strali elet-trici assassini e divagazioni tra il folk più onirico (Babe I'm Gonna Leave You, Black Mountain Side) e la psichedelia sinistra (il capolavoro Dazed and Confused), che prenderanno sempre più forma nei successivi lavori. Il primo capitolo resta in fondo quello più legato alla matrice blues: se l'attacco frontale di Communication Breakdown e Good Ti-mes Bad Times contribuisce alla codificazione del linguaggio hard rock, persino con punte di abban-dono "punk" nella prima, le rivisitazioni di You Sho-ok Me e I Can't Quit You babe (sfumata nella coda trascinante di How Many More Times) sono un pas-so oltre la generazione di Cream, Fletwood Mac e Bluesbreakers, verso l'ignoto e il mistero.

(Fabio Cerbone)

69.69.

Uncle TupeloUncle Tupelo March 16-20, 1992 Rockville 1992

[105 pt.] Tracciate le linee guida dell'intero movimento alter-native country, con una combinazione livida di me-moria folk e rancore punk rock, gli Uncle Tupelo gettano definitivamente la maschera e affrontano il loro bagno purificatore nella tradizione. Nella sem-plicità quasi banale del titolo, risultato di quattro giorni di sessione con Peter Buck (Rem) negli studi di Athens, la band di Farrar e Tweedy spegne l'am-plificazione e scende definitivamente a patti con l'anima più folkie e rurale della sua scrittura. L'esito è a suo modo rivoluzionario per i primi anni '90, collocandosi lungo una sensibilità rinnovata per i misteri e le eredità nascoste della vecchia country msuic. Altrimenti non si spiegherebbero i ripescaggi di traditional quali Coalminers, I Wish My Baby Was Born e Atomic Power (Louvin Brothers), anche se la forza ossuta, un po' primitiva di queste ballate ri-siede proprio nel materiale originale, tra una indi-menticabile Moonshiner, una dolcissima i e l'apertu-ra con Grindstone. Sono cartoline spedite da un'A-merica ferita e marginale, racconto di una provincia in bianco e nero dove gli Uncle Tupelo sintetizzano i "luoghi oscuri" della working class americana. Non è un caso che in regia sieda Peter Buck, supporter illuminato che intravede nella musica dei Tupelo qualcosa che andrà oltre il momento, che lascerà un segno aldilà dell'oscurità a cui sono destinati in quel momento. March 16-20 1992 è la faccia più fangosa e agreste di un disco come Automatic for the People, avendo la stessa capacità di evocare paesaggi, volti, storie appartati, nascosti alla vista.

(Fabio Cerbone)

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RootsHighway Desert Island

68.68.

Pearl JamPearl Jam Ten Epic 1991

[106 pt.] Solo con il giusto distacco e un po’ di anni dopo il 1991, anno della trionfale uscita di Ten, si è capito che i Pearl Jam col grunge non avevano poi molto a che fare. Dell’ultima grande rivoluzione che ha scosso la musica condividevano la provenienza (Seattle) ma non certi estremismi sonori né una certa (spesso tragica) pulsione autodistruttiva. Il primo album che segna l’unione tra Eddie Vedder - vocalist dal carisma straordinario - Mike McCready, Stone Gossard e Jeff Ament è piuttosto un ritorno del rock alla sua essenza, senza fronzoli né sporca-ture, rigonfio di passione e di riff memorabili, di esplosioni improvvise e tracce melodiche accatti-vanti. L’urgenza di urlare il malessere e il disagio di una generazione che ha perso i suoi punti di riferi-mento è ben presente (il serial killer di Once, ura-gano d’apertura; i tormenti autobiografici di Vedder in Alive, cavalcata elettrica con un assolo di chitarra che farà epoca; lo studente che fa strage in una scuola di Jeremy), ma tutto ciò si delinea in una forma controllata, calibrata, di presa immediata (Black, la prima di una lunga serie di ballate elettri-che di cui i Pearl Jam diventeranno campioni asso-luti). Sofferenza (Deep) e redenzione (Gardens), rabbia (Why go) e voglia di trovare una via d’uscita (Release me): Ten dimostra che il rock può ancora dare molte risposte e dare senso a molte giornate. E dopo più di vent’anni continua tuttora a farlo, più necessario e vitale che mai.

(Gianuario Rivelli)

67.67.

Miles DavisMiles Davis Kind of Blue Columbia 1959

[110 pt.] Parlare di Kind of Blue in dieci righe? Del disco che dopo mezzo secolo resta il più venduto nella storia del jazz? Nonché della prima espressione compiuta di jazz modale della storia? Dell'ensemble impressionante che lo realizzò: John Coltrane, Ju-lian "Cannonball" Adderley, Bill Evans, Wynton Kelly, Paul Chambers e Jimmy Cobb, l'unico so-pravvissuto e speriamo che gli altri non si rivoltino nella tomba? Dire che un capolavoro di siffatta grandezza fu registrato in una chiesa sconsacrata sulla 30ma strada in appena due session e grazie a uno slalom tra divorzi e disintossicazioni da eroina? Che pertanto è in odore di miracolo e difatti cano-nizza il suo autore quale Re Mida del jazz, come fu prima per il bebop e come sarà in seguito per la fusion, il jazz-rock e gli arditi cross-over con il pop? Di come, se non ci fosse stato Gershwin, sarebbe stata la colonna sonora baciata per Manhattan con i suoi umori metropolitani? Di come l'iniziale So What snoccioli una lectio magistralis di modal jazz con i suoi nove minuti spesi su un unico accordo? Di come Blue in Green, dove il pianoforte di Evans impone il sigillo di comproprietà, incarni magnifica-mente il romanticismo sugar free? Di come sarebbe diversa la musica contemporanea se Kind of Blue, questa "sorta di tristezza" che già nel titolo è sinte-si mirabile di poesia e musicalità, non fosse esisti-to? E se non fosse esistito questo tormentato, ge-niale, arrogante, iconoclasta, rivoluzionario, incasi-nato figlio dell'Illinois? Dieci righe saranno servite se tornando a casa ci verrà voglia di abbassare le luci e rimetterlo sul piatto.

(Donata Ricci)

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RootsHighway Desert Island

66.66.

Johnny CashJohnny Cash American III: Solitary Man Columbia 2000

[110 pt.] Dopo un primo capitolo interamente acustico e soli-tario che sorprese il mondo per la sua cruda bellez-za e un secondo episodio che recuperava il suono più elettrico degli anni con la Sun, a Johnny Cash non restava altro che mettere insieme le due cose. American III resta ancora uno splendido disco "acustico" che tuttavia non suona spoglio come l'e-sordio: pieno di chitarre, pianoforti, violini, di una musica densa sulla quale aleggia uno spirito religio-so, se vogliamo persino mortale. Cash è malato, lo sappiamo da tempo, e il terzo sigillo degli American Recordings non fa nulla per nasconderlo all'ascolta-tore: si parte proprio dal famoso brano di Neil Dia-mond, Solitary Man, per comprendere la sofferenza dell'uomo in nero. La selezione dei brani è strepito-sa: insieme Rick Rubin questa volta Cash ha pesca-to autentici gioielli folk contemporanei come I See a Darkness di Will Oldham, The Mercy Seat in duetto con Nick Cave e poi ancora una spoglia versione di One degli U2 che trasforma radicalmente l'originale in quanto a carica spirituale. Nella seconda parte invece sbuca il Johnny Cash più "tradizionalista" con l'amico Merle Haggard in I'm Leaving Now o nel classico gospel Wayfaring Stranger, mentre il brano più sereno sembra essere proprio l'iniziale I Won't Back Down, la celebre rock song di Tom Petty (c'è ancora lui con tutti gli Heartbreakers a suonare nel disco). Il sound delle acustiche è avvolgente e pro-fondo, la voce di Cash si spezza ma non cede e A-merican III risulta un altro irrinunciabile tassello nella rinascita artistica di questo grande uomo a-mericano.

(Davide Albini)

65.65.

Guy ClarkGuy Clark Old No.1 RCA 1975

[112 pt.] Nonostante Dylan abbia dichiarato che Guy Clark sia uno dei suoi songwriter preferiti, il cantautore texano non ha mai goduto della fama e del succes-so che avrebbe meritato. Il suo debutto per la RCA (cui seguì Texas Cookin') è uno degli all time classic della country music americana, un album che ra-senta la perfezione. Ci vollero diversi anni prima della sua pubblicazione e molti dei brani contenuti furono interpretati da altri (Jerry Jeff Walker, Billy Joe Shaver..) prima della sua uscita, ma l'attesa ne valse la pena. Old N.1 è dominato dalle chitarre acustiche che danno un senso di quiete e tranquilli-tà a tutta la raccolta, la quale riesce a parlare da sé con tutta la forza e la poesia che contiene. Collabo-rarono la "Creme de la Creme" della country music dell'epoca e di quella a venire, da Emmylou Harris a Rodney Crowell fino a un giovanissimo Steve Earle. Old N.1 è un capolavoro non solo per tutti i country aficionados ma anche per gli amanti del più genui-no e poetico songwriting americano, contenente lonesome ballads del calibro di That Old Time Fee-ling e dell'inimitabile Desperados Waitig For A Train, il Texas swing di Rita Ballou, intime ballads come LA Freeway e She Ain't Goin'Nowhere oltre al migliore outlaw country d'annata come Texas 1947 e A Nickel For The Fiddler. Da molti definito come il vero padre della canzone d'autore country, il suo songwriting sempre carico di poesia, parla di ram-blers, ubriachi e perdenti. Un irripetibile e inegua-gliabile caposaldo della musica americana.

(Emilio Mera)

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64.64.

Otis ReddingOtis Redding Otis Blue Stax/ Volt 1965

[113 pt.] Nel '65 Otis Redding mostra la sua maturazione artistica mettendo insieme un'ampia gamma di rife-rimenti stilistici, nonché le proprie capacità compo-sitive: una grande miscela fra ballad e up-tempo. Con il supporto di Booker T. & The MG's, band in cui in qualche caso Isaac Hayes sostituisce il titola-re alle tastiere, e di un quartetto di fiatisti, il nostro fa (ancora) riferimento a Sam Cooke con una belle versioni dello storico A Change Is Gonna Come, della frenetica Shake e dell'accattivante Wonderful World. Le corde sentimentali vengono anche tocca-te con poetica leggerezza sia da You Don't Miss Your Water di William Bell, che riprendendo (un po' sorprendentemente) My Girl, classico Motown scrit-to da Smokey Robinson per i Temptations, che lui rende in maniera eccellente. Per rifarsi alla tradizio-ne religiosa Redding utilizza la versione di Down In The Valley rielaborata da Solomon Burke, mentre per calarsi nella più classica devil's music, oltre allo standard Rock Me Baby, incide uno dei due unici blues di sua composizione, l'ottimo Ole Man Trouble (l'altro sarà Hawg For You). L'attenzione al rock lo porta alla cover di Satisfaction, che però a causa di una certa contrattura interpretativa, non convince del tutto. Infine firma i due i capolavori dell'album, rispettivamente r&b e soul: l'irresistibile Respect e l'intessissimo, immortale I've Been Loving You Too Long (scritto con Jerry Butler), quintessenza del soul.

(Gianni Del Savio)

63.63.

The JayhawksThe Jayhawks Hollywood Town Hall Def American 1992

[114 pt.] Pietra miliare del rock delle radici è dire poco: quando ancora nessuno sapeva bene cosa fosse quell'oggetto misterioso poi chiamato alternative country e soprattutto quando gli Uncle Tupelo era-no una band da carbonari e sottoscala, i Jayhawks strappavano un importante contratto con l'Ameri-can di Rick Rubin, portando all'attenzione generale (buone vendite, persino qualche video e la produ-zione di George Drakoulias) l'aria agreste della pro-vincia e il recupero di un rock'n'roll dal passo uma-no. Il freddo del loro Minnesota viene immortalato nella bella copertina, un paesaggio innevato che rimanda subito ad un certo immaginario country rock degli anni Settanta, punto di riferimento indi-scutibile dei due songwriter Mark Olson e Gary Lou-ris. Hollywood Town Hall è esattamente un com-promesso (riuscitissimo, a dire il vero, e mai più ripetuto su questi livelli) fra le loro due anime: quella più folk e malinconica di Olson, quella più elettrica e pop di Louris, che unendosi generano Waiting for the Sun, Two Angels, Sister Cry, Settled Down Like Rain, sequenza mozzafiato e senza riempitivi di un album dove la lezione di Gram Par-sons e dei Byrds, le chitarre di Neil Young, la melo-dia di Tom Petty e dei Big Star stanno allineati a rimirare il momento di grazia di questi ragazzi qua-lunque dell'America profonda.

(Davide Albini)

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62.62.

Bruce SpringsteenBruce Springsteen Nebraska Columbia 1982

[115 pt.] Concluso il tour di The River, Springsteen si rifugia nella propria casa nel New Jersey dedicando molto tempo alla riflessione e alla lettura. Sarà la scoper-ta delle novelle di Flannery O'Connor e la dramma-tica spiritualità delle storie narrate a colpirlo nel profondo convincendolo ad indirizzare l'attenzione del proprio songwriting sempre più verso il cuore e l'anima dei propri personaggi alla prese con i dram-mi e le sconfitte quotidiane. A partire dalla livida vicenda di Charles Starkweather e Caril Fugate, che negli anni 50 inondarono di sangue le praterie del Nebraska e del basso Wyoming, passando per le tristi storie del poliziotto di frontiera Joe Roberts, del fuorilegge Johnny o del fuggitivo notturno lungo la Jersey Turnpike, Nebraska narra di un'America isolata e marginale che ha perso i legami con la propria comunità. Storie desolate che si consumano lungo autostrade bagnate, squallide rivendite di auto usate, motel da pochi dollari e stazioni degli autobus, raccontate direttamente con la voce dei protagonisti, in prima persona, per identificarsi di-rettamente con chi paga sulla propria pelle il prezzo della sconfitta. Springsteen tentò più volte di trova-re un arrangiamento elettrico alle canzoni, ma alla fine si convinse che le registrazioni solitarie, scarne avvenute nelle mura domestiche su un registratore a quattro piste fossero le più adeguate per focaliz-zare l'attenzione dell'ascoltatore verso il cuore delle storie narrate. In un epoca fatta di tastiere e arran-giamenti commerciali, Nebraska apparve come un pugno nello stomaco.

(Gianluca Serra)

61.61.

Talking HeadsTalking Heads Remain in Light Sire 1980

[117 pt.] Remain In Light è il fronte più occidentale nella scoperta della musica africana e caraibica: l'incon-tro e la simbiosi tra l'arte concettuale dei Talking

Heads e la varietà ritmica imposta da Bob Marley a Fela Kuti fino a Kurtis Blow porta a siglare una pie-tra miliare, ricercata e geniale, frenetica e coinvol-gente. Molto di ciò che verrà dopo il 1980, anno dell'uscita di Remain In Light, e il 1981, anno della scomparsa di Bob Marley, deve molto a questo di-sco, al suo carattere cosmopolita, alla visione polie-drica di Brian Eno, che qui ha un ruolo fondamenta-le nel guidare i Talking Heads a concepire il loro capolavoro. Remain In Light era e resta proiettato nel futuro e ancora di più la sua evoluzione dal vi-vo, dove i Talking Heads si trasformarono in una sorta di elaborato ensemble jazzistico con tutti gli strumenti raddoppiati, un po' alla Ornette Coleman e un po' alla King Crimson dove, guarda caso, finirà Adrian Belew, il chitarrista aggiunto durante le inci-sioni di Remain In Light. Se proprio non sapete do-ve cominciare a scoprire e a riscoprire il vorticoso mulinare dei Talking Heads partite da The Great Curve: la chitarra di Adrian Belew è un clamoroso ruggito. Divergente, lancinante, eccentrica è una firma graffiante e indelebile tra i solchi di un disco importantissimo (la cui infuenza si sente ancora oggi) che sfrutta le tecniche del cut up & fold in, ovvero del taglia & cuci (con l'approvazione di Wil-liam Burroughs) per ricostruire un mondo variopin-to, visionario e senza frontiere.

(Marco Denti)

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60.60.

Crosby Stills Nash & YoungCrosby Stills Nash & Young 4 Way Streets Atlantic 1971

[118 pt.] Non è impresa da poco recensire in poche righe un album di questa portata, per di più doppio. A tutela personale non citerò nessun pezzo, dato che tutti possiedono l'aura del capolavoro. E poi la magia di questo live non la fanno soltanto i brani musicali, acquerelli intimisti o cavalcate elettriche che siano, reciprocamente funzionali come raramente capita. Anche gli applausi, impazienti, sinceri, irrefrenabili sono musica; anche gli intermezzi verbali dei quat-tro pards, gli start sbagliati e le ripartenze divertite sono poesia; anche la pronuncia liquida di Young nel presentare l'amico-rivale Stiven Steals è melo-dia. Nell'anno 1971, periodo torrido per la coscien-za civile americana, 4 Way Street sarà il canto del cigno di questo irripetibile assemblaggio di perso-nalità fuori standard, poi ognuno per la sua strada. Ma intanto consegnano alla storia questo stratosfe-rico live, che concentra la miglior produzione di cia-scuno fino a quel momento. Capirete allora perché, oltre al vinile dell'epoca, mi sia procurata la versio-ne da volante quando nel '92 uscì l'edizione espan-sa su cd. Comprenderete anche il mio imbarazzo nell'esprimere preferenze per questo o quel brano. Eppure, se proprio vogliamo eleggere il vessillo, anche senza menzionarne il titolo, uno ce l'avrei. Parla di quattro studenti uccisi dalla Guardia Nazio-nale USA e so che avete già capito. L'elettrica ta-gliente che lo apre e il repetita ad libitum che lo chiude riescono a spiegare, in poco più di tre minu-ti, il fermento di un'America antibellica e controcul-turale.

(Donata Ricci)

59.59.

The Black CrowesThe Black Crowes Amorica American 1994

[118 pt.]

Disarticolato, obliquo, sghembo, irregolare, mai

prevedibile. Mai prima di allora una band aveva

preso in blocco il rock'n'roll più classico e l'aveva

centrifugato con sprazzi di chitarre veementi, aromi

soul e gospel, viaggi interstellari e acidi e con una

complessità ritmica fino ad allora inedita per la

band della Georgia. Già con il precedente The Sou-

thern Harmony and Musical Companion, i Black

Crowes si erano proposti come la più originale e

significativa rock'n'roll band classica degli anni No-

vanta, ma è con Amorica che raggiungono il pro-

prio climax artistico, proprio nel momento in cui la

tensione interna fra i membri del gruppo era giunta

a livelli insostenibili. Potenza del rock'n'roll, dei riff

feroci di Rich Robinson, del solismo lirico e psiche-

delico di Marc Ford, di una sezione ritmica potentis-

sima e metronomica e della voce ora suadente e

sexy, ora disperata di Chris Robinson. Insomma, un

turbinio elettrico e confuso, che dall'elettricità di

Gone e Conspiracy porta alle onde di redenzione

della conclusiva e spirituale Descending, nella mi-

gliore sintesi del decennio fra una calligrafica classi-

cità ed un marcato spirito innovatore, che mai più

la band dei fratelli Robinson sarebbe stata in grado

di eguagliare.

(Gabriele Gatto)

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58.58.

Hüsker DüHüsker Dü Warehouse: Songs and Stories Warner 1987

[119 pt.]

A smentire il trito adagio che vorrebbe convincerci

che le rock band bruciano il meglio del proprio ta-

lento nei primi lavori, gli Hüsker Dü chiudono la

loro avventura con uno dei dischi più importanti -

né perfetto, né seminale: semplicemente importan-

te - degli anni '80. Degli "altri" anni '80, natural-

mente. Quelli dello spleen e della rabbia. Del ghiac-

cio che ti stringe il cuore e della rivoluzione che

dovrebbe "iniziare al mattino, davanti allo specchio

del bagno" (Bob Mould), ma che viene sempre pro-

crastinata, giorno dopo giorno. Il contratto con una

major fece gridare al tradimento (i Sonic Youth se-

guiranno l'esempio da lì a poco), e questo disco è la

risposta migliore a tutte le accuse di essersi vendu-

ti. Basta l'accordo iniziale di chitarra di These Im-

portant Years a mandare tutto un decennio, con la

sua cultura frivola e vuota, a sbattere contro il mu-

ro: ci pensano poi le deviazioni pop di Mould e gli

esperimenti obliqui di Grant Hart a tenere alta la

tensione. Quella stessa tensione che farà a pezzi la

band, subito dopo. Nel volgere di pochi anni i germi

della rivoluzione (musicale) sembreranno attecchire

davvero, dalle parti di Seattle. Ma durerà lo spazio

di un mattino e si ridurrà a poco più di un format

televisivo, confezionato per i palinsesti di Mtv.

(Yuri Susanna)

57.57.

Neil Young & Crazy HorseNeil Young & Crazy Horse Rust Never Sleeps Reprise 1979

[121 pt.] Il grande momento artistico di Neil Young era fini-to nel 1975 con Zuma, ma nel cassetto del canade-se era rimasta una tale mole di materiale di scarto e album lasciati a metà che la sua discografia non finirà mai di vivere di rendita. Rust Never Sleeps uscì quando lui già aveva la testa immersa nei pro-blemi di famiglia, e di fatto non si prese neanche la briga di registrarlo, visto che per l'occasione ripulì alcune registrazioni live. E sebbene fosse composto da avanzi provenienti da almeno altri tre progetti abortiti, Rust Never Sleeps è probabilmente l'unico album della sua discografia che lo rappresenta a 360 gradi, dove sono presenti tutte le sue anime, espresse in cavalcate southern-rock pensate per gli amici/nemici Lynyrd Skynyrd, inni rock che preste-ranno aforismi buoni per tutte le presenti e future stagioni rock (da Johnny Rotten a Kurt Cobain), indimenticabili ballate rurali, nuovi omaggi alle ide-alizzate civiltà perdute del Sud America e persino qualche ammiccamento alla nuova veemenza punk. Alle spalle c'erano i fidi Crazy Horse, che proprio nella tournee che seguì (immortalata nell'album Live Rust, ideale compendio all'album) raggiunge-ranno lo status di backing-band perfetta, veri e propri silenziosi ma insostituibili comprimari di una storia che dura ancora nei giorni nostri. Dietro l'an-golo c'erano gli anni 80 e un artista che avrebbe avuto bisogno di una lunga pausa, e che invece si dannò insuccesso dopo insuccesso alla ricerca di un nuovo Neil Young, quando con Rust Never Sleeps aveva già trovato l'unico esistente.

(Nicola Gervasini)

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56.56.

Lou ReedLou Reed New York Reprise 1989

[123 pt.] Era così logico che ci aveva messo più di quindici anni per capirlo. Il punto di (ri)partenza di una car-riera non poteva che essere New York, la sua New York. Non quella degli intellettuali che filosofeggia-no battute in Central Park disegnata da Woody Al-len, ma neppure quella degli artisti che si rinchiu-dono nella perdizione della Factory di Warhol a col-tivare il proprio ego nelle droghe e nel sesso. Quel-la del Lou Reed di fine anni ottanta è la New York delle strade, della gente comune. Già le liriche del bistrattato album precedente (Mistrial), ultimo mal-destro tentativo di cercare una modernità che non gli apparteneva, erano improntate non più sulla sua rinnovata sfera privata, quanto su quella dei suoi vicini di casa. Reduci del Vietnam, drogati senza speranza, malati di AIDS, politici corrotti, venditori di speranze e uomini di paglia, New York è la più completa galleria di personaggi della Grande Mela, descritta con un piglio letterario ben poco da rock-writer. Nasce il suono del Lou Reed moderno, e fini-scono anche i suoi tentativi di cantare normalmente come un pop-singer in favore di un nuovo stile par-lato e declamatorio. Nei tour successivi, quando questa metamorfosi verrà portata all'estreme con-seguenze con Songs For Drella e Magic And Loss, si presenterà in pubblico con occhialini e leggio, zit-tendo le urla e invitando tutti ad ascoltare suoni e parole come se fosse un reading di poesia. Eppure il sound di New York è quanto di più selvaggiamen-te e puramente rock sia mai emerso dalla sua di-scografia. E in questa contraddizione sta la ragione dell'amore incondizionato che si prova per questo disco.

(Nicola Gervasini)

55.55.

Tom PettyTom Petty Wildflowers Warner 1994

[125 pt.] Manca la firma degli inseparabili Heartbreakers, ma è come se ci fossero, anche perchè le presenze di Mike Campbell e Bemmonth Tench (oltre al com-pianto bassista Howie Epstein) non sono affatto secondarie durante le sessioni di Wildflowers. Di fatto però la seconda sortita solista di Tom Petty dopo Full Moon Fever raccoglie un repertorio certa-mente più policromo e personale, esattamente lì dove il folksinger si unisce al rocker di razza, oppu-re lo scrittore pop guarda alle radici, mettendo così insieme i pezzi di un sound leggendario per tutto il suono mainstream americano degli ultimi trent'an-ni. Anche questa volta è un produttore (come av-venne con Jeff Lynne nel citato Full Moon Fever) a far germogliare un irripetibile binomio artistico con il musicista della Florida. Rick Rubin però corre nel-la direzione opposta: niente artifici pop (seppure la coda romantica di Wake Up Time e della struggen-te, bellissima Crawling Back To You ne evochino l'influenza) e molta sostanza roots, in un disco che esalta l'intimità dell'interprete, catturando una di-mensione persino rustica. L'alternarsi di ninne nan-ne acustiche (dalla title track all'agrodolce To Find a Friend) e sferzate rock dal sapore vintage (You Wreck Me e Honey Bee i due pugni da capogiro) dipinge l'intera gamma del linguaggio di Petty, ani-ma appassionata che ha saputo sintetizzare in un colpo solo Creedence e Beatles, Stones e Beach Boys. Dio lo abbia in gloria

(Fabio Cerbone)

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54.54.

Crosby Stills Nash & YoungCrosby Stills Nash & Young Dejà Vu Atlantic 1970

[125 pt.] Il suono e la nostalgia dell'era dell'Acquario, Déjà Vu racchiuderà per sempre lo spirito dei tempi del-la controcultura americana all'alba deglia anni Set-tanta. In realtà circondati già dalla disgregazione e dall'imminente fallimento di un sogno, le personali-tà di Crosby, Stills, Nash e del nuovo arrivato Neil Young sono troppo ingombranti per non raccogliere la sfida di portabandiera e testimoni vivi del movi-mento. La colonna sonora di questa investitura è segnata da Carry On e Woodstock (brano di Joni Mitchell), folk rock corale che rappresenta anche il picco della collaborazione del quartetto, singolar-mente stelle della nuova frontiera rock californiana (compresi due "espatriati" come Nash e Young) che non rinunciano a considerare il progetto Déjà Vu anche (forse soprattutto) come una palestra per il proprio ego artistico. Nonostante ciò l'album vive di una uniformità che è figlia di quella irripetibile esta-si del momento: per cui alle lunghe sedute di regi-strazione ciascun autore porta il suo contributo alla causa, dalla confessione allucinata di Almost Cut my hair, capolavoro di tensione a firma Crosby, alla incantata dolcezza pop di Our House (Graham Nash) fino al country pastorale di Helpless (un Neil Young mai completamente "convinto" dal progetto, tanto da entrarne e uscirne a più riprese negli anni successivi). Il singolo di maggiore successo però resta Teach Your Children, preghiera hippie che riassume tutto l'ingenuo idealismo di una genera-zione pronta di lì a poco a scontrarsi con le barrica-te di Nixon e le bare che tornano a grappoli dal Vietnam.

(Fabio Cerbone)

53.53.

Led ZeppelinLed Zeppelin Led Zeppelin II Atlantic 1969

[126 pt.] Per rinnovare e capitalizzare il successo della loro prima opera, la band diede inizio ad una serie infi-nita di tour che li portò non solo ad affinare ed affi-lare il loro sound ma anche a pensare in fretta ad un nuova scaletta di brani da portare in studio. Sorprendentemente i Led Zeppelin riuscirono a registrare in brevissimo tempo una straordinaria sequenza di brani, non particolarmente "originali", in quanto marcatamente debitori del canovaccio blues, ma straordinari proprio nella loro reinterpre-tazione. La plasticità, l'eleganza, la potenza oltre che la tecnica dei singoli esecutori che il suono Led Zeppelin aveva, da quel momento definito hard rock, fu dall'uscita del disco riconoscibile come un classico nella musica del periodo e punto di riferi-mento per tutto quello che venne nei decenni suc-cessivi. Whole Lotta Love, The Lemon Song o Moby Dick definiscono i Led Zeppelin maestri del genere heavy rock, ma quando arrivano pezzi come What Is and What Should Never Be, o la ballata (con un meraviglioso organo Hammond sugli scudi, suonato dal polistrumentista John Paul Jones) Thank You, ci si inginocchia dinnanzi alla classe di cesellatori di melodie. Con Bring it On Home (rifacimento spudo-rato di un classico di Sonny Boy Williamson) si comprende invece il significato di quando si afferma che l'allievo ha superato il maestro, con un Robert Plant straordinario interprete della musica del dia-volo. (Silvio Vinci)

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52.52.

Hank WilliamsHank Williams 40 Greatest Hits Polydor 1978

[127 pt.] Nonostante la pletora di antologie e cofanetti che si sono succeduti nel tempo, causa oggi anche una più facile libertà d'azione in tema di diritti d'autore, il sintetico 40 Greatest Hits, nella sua improponi-bile copertina giallo canarino con al centro una foto sbiadita in bianco e nero resta ancora la summa più travolgente dell'arte drammatica di Hank Wil-

liams. Quaranta tappe di un brevissimo (cinque anni scarsi dal maggio '47 al capodanno del '53) eppure interminabile calvario umano tradotto in musica, per una delle icone assolute della musica popolare americana. Come Johnny Cash, Woody Guthrie e pochi altri Williams è stato dentro il gene-re e fuori dai generi, caposaldo di una verità country spiattellata con cruda fermezza e al tempo stesso autore che ha trasceso la nicchia dell'odiata Nashville (quella che lo cacciò con infamia) per arri-vare a tutti i cuori infranti della nazione. La sua musica, i suoi versi, schietti, tragici contengono una realtà che raramente capita di incontrare: sono spesso la cronaca di un'autodistruzione, ma anche la fotografia di un uomo spiritato, innamorato, oltre i limiti, capace di rendere irrimediabilmente sue e soltanto sue (pochi se lo possono permettere) Lo-vesick Blues e Lost Highway, così come di inchio-darti al muro nel volgere di I'm So Lonesome I Could Cry o nel destino scritto di I'll Never Get Out of This World Alive. Sul dato strettamente musicale c'è poco altro da aggiungere: 40 Greatest Hits è il testo sacro del country fuorilegge, la bibbia di una musica che ha raccontato l'eslusione e i dolori della working class bianca americana.

(Fabio Cerbone)

51.51.

TelevisionTelevision Marquee Moon Elektra 1977

[128 pt.] Un disco etereo, imperfetto, fragile e inclassificabile nella sua costruzione avant garde, con l'apoteosi dei suoni Fender (chitarre più amplificatori) cristal-lini e lancinanti a circoscrivere le canzoni dei Tele-

vision. Un gruppo di jazzisti più che una rock'n'roll band: le chitarre di Tom Verlaine e Richard Lloyd si alternano secondo schemi ben organizzati, seguen-do l'alternarsi dei temi, per poi divagare su assoli trascinanti e riff brucianti e intensi. Basso (Fred Smith) e batteria (Billy Ficca) hanno uno swing tut-to loro, pulsante e minimale e l'insieme non ha pa-ragoni se non, in parte, nei primissimi Talking He-ads. D'altra parte Marquee Moon sarà importante e influente almeno quanto Horses di Patti Smith, anche se in modo più meno viscerale e più sottile. Dai R.E.M. ai Radiohead devono tutti moltissimo a Marquee Moon e, per estensione, ad Adventure. Qui vale la pena anche di sfatare l'opinione, larga-mente diffusa ma non per questo altrettanto credi-bile, che Adventure sia il sequel sfortunato di Mar-quee Moon. In realtà è un disco con caratteristiche molto diverse e che segnava già alcuni progressi sostanziali con un suono meno teso più elastico e più lirico. Certo, non ha la lunga celebrazione della suite psichedelica di Marquee Moon ma non è diffi-cile considerarlo l'altra metà della breve vita dei Television. Si dice che Marquee Moon e Adventure vendettero pochissimo, ma si vede che finirono nel-le mani giuste visto che sono sempre citatissimi (nel caso, chiedete persino agli U2 che su quei suo-ni ci hanno costruito un'industria).

(Marco Denti)

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RootsHighway Desert Island

50.50.

Van MorrisonVan Morrison Into the Music Mercury 1979

[128 pt.] Ci saranno ancora picchi creativi sparsi per buona parte dei due decenni successivi, ma non facciamo torto a nessuno se consideriamo Into the Music forse l'ultimo grande lavoro del periodo "storico" di Van Morrison, la summa artistica di un viaggio iniziato nei primi anni 70 e che aveva attraversato l'intera gamma dei colori, dal blue eyed soul al folk della verde Irlanda, che si compenetravano nel lin-guaggio musicale dell'autore di Astral Weeks. Irri-petibile è soprattutto la coesione strumentale e la forza d'insieme dell'album, senza dubbio tra i più giocosi, brillanti e incantevoli registrati in carriera, simbiosi fra un ritorno alla spontaneità e una ricer-ca di trascendenza. Apparentemente più "leggero" se confrontato ad altre produzioni morrisoniane del decennio, è un disco a tratti semplicemente irresi-stibile, non fosse altro per l'incalzante armonica bluesy che apre le danze di Bright Side of the Road e il luminoso r&b di You Make Me Feel So Free e Full Force Gale. Into the Music si svela strada fa-cendo come il giusto compromesso fra le divergenti anime dell'artista, un saliscendi umorale che non rinuncia comunque a quella "verbosità" astrale per cui Van è giustamente passato alla storia (qui il capolavoro si intitola And The Healing Has Begun e sono otto minuti di pura invocazione) né tanto me-no alle radici, siano esse volte con lo sguardo al Dublino (Troubadours e Rolling Hills, in cui appare Robin Williamson della Incredible String band) o verso l'amata America della black music.

(Fabio Cerbone)

49.49.

The The Black CrowesBlack Crowes The Southern Harmony and Mucical Companion Def American 1992

[129 pt.] Consacrazione orgiastica di un nuovo suono sudista nel pieno dell'era grunge, The Southern Harmony

and Musical Companion è per la band della Geor-gia un notevole (e forse al tempo persino inaspet-tato) passo avanti rispetto al pur fortunato esordio Shake Your Money Maker. Aggiunto lo straordinario feeling solista del nuovo arrivato Marc Ford alla macchina da riff di Rich Robinson, i Black Crowes compiono un balzo verso le stelle, rimpolpando il rock'n'roll stradaiolo e di stretta osservanza Stones del debutto con fughe lisergiche, assoli lancinanti, cori gospel e profumi di jam anni Settanta. Un di-sco all'apparenza anacronistico, in realtà posiziona-to dentro l'anima di questa musica, per questo an-cora più coraggioso in tempi di sfracelli alternative rock nelle classifiche di mezzo mondo. La ditta dei fratelli Robinson frulla in un colpo solo Allman Bro-thers e Led Zeppelin, Grateful Dead e Lynyrd Skynyrd aggiungendovi il profondo sud della Stax, il soul nero e il country bianco. L'esito passa dalla travolgente energia di Sting Me e Remedy al grani-to di No Speak No Slave, dalla passione rosso fuoco di Sometimes Salvation ai viaggi onirici di Thorn in My Pride, mentre il produttore George Drakoulias inventa intorno ad un gruppo in stato di grazia quel suono che resterà irripetibile per gli stessi Corvi: denso, febbrile, roccioso, riporta al centro dell'at-tenzione una stagione che sembrava definitivamen-te sepolta sotto le ceneri del sogno hippy e dei grandi raduni elettrici.

(Fabio Cerbone)

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RootsHighway Desert Island

48.48.

The Beach BoysThe Beach Boys Pet Sounds Capitol 1966

[130 pt.] L'innocenza perduta per Brian Wilson significa in-gaggiare una lotta strenua con il suo genio, for-giando un disco che ancora oggi risuona ambizioso e oltre qualsiasi logica che non sia la propria insod-disfazione personale, di lì a poco deleteria per la sua stessa salute. Bilanciamento mirabile fra esi-genze artistiche e perfezione melodica, Pet

Sounds resta uno degli oggetti di culto della "golden age" del rock, al tempo stesso punto di rottura nella direzione dello sperimentalismo di fine sixties e annuncio di un imminente crepuscolo per la spensierata gioventù californiana. Letteramente ossessionato dalla qualità di scrittura dei Beatles, che con Rubber Soul ribalatano le certezze di una band nata sui singoli, Wilson conduce i Beach

Boys fuori dal mondo ovattato della surf music e di una canzone pop ormai giunta alla sua massima espressione. L'esito è un album fagocitato da ospiti e session stratificate, dove la vocalità celestiale del gruppo resta l'unico appiglio con il passato: nel mezzo passano invece arrangiamenti, suoni, colori che schizzano in ogni direzione, aggiungendo più livelli di orchestrazioni, strumenti inusuali, giochi ritmici, frizzi e lazzi tra rumori e versi di animali. L'anima resta però a pannaggio di canzoni formal-mente ineccepibili nella loro grazia sospesa: difficile resistere alle tonalità sgargianti di Wouldn't It Be Nice e Sloop John B, oppure non sciogliersi di fron-te alla bellezza di God Only Knows, momento di assoluta armonia. Ma sono forse i brani meno cele-brati (da You Still Believe in Me a I Just Wasn't Ma-de for These Times) a rendere Pet Sounds quel ca-leidoscopio di estasi pop oggi riconosciuto da tutti.

(Fabio Cerbone)

47.47.

Tom Petty and The HeartbreakersTom Petty and The Heartbreakers

Damn the Torpedoes MCA 1979

[132 pt.] Gli Heartbreakers alzano i vessilli e si lanciano alla conquista del mondo con il loro primo disco di plati-no: Damn The Torpedoes rappresenterà il loro indiscusso capolavoro nonché l'album che trasfor-merà il leader Tom Petty in una rockstar di prima grandezza, spalancando alla band le porte dorate dello starsystem californiano, con collaborazioni e amicizie importanti. Resta indiscutibilmente una delle testimonianze più felici del mainstream rock diventato arte: l'equilibrio perfetto fra la dimensio-ne più popolare e al tempo stesso commerciale del rock'n'roll, adattando la sua forma alla sostanza del songwriting. Malinconico e irascibile a tratti, inno ai loser di ogni latitudine, pieno di speranza e rimorsi (esce dopo una battaglia legale fratricida ingaggiata da Petty con la MCA, che lo porterà sull'orlo della bancarotta), Damn the Torpedoes è il manifesto di una musica che parte dal basso e dalla passione mai nascosta di Petty come autentico rock'n'roll fan. Gli elementi chiave restano le chitarre di Mike Campbell e il piano di Bemmonth Tench, da cui sca-turisce quel confronto fra l'armonia dei Byrds e dei Beatles da una parte e la sfacciataggine elettrica degli Stones o la profondità delle radici dei Cree-dence dall'altra: il riassunto è nelle note di Here Comes My Girl e Even the Losers, nelle fiammate di Century City e What Are You Doin' in My Life?, mentre Refugee è il singolo per eccellenza, che compendia come nessun altro l'Heartbreaker-pensiero e Don't Do Me Like That l'altra faccia del gruppo, quella malandrina e pop.

(Fabio Cerbone)

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RootsHighway Desert Island

46.46.

Jackson BrowneJackson Browne Late for the Sky Asylum 1974

[133 pt.] "Tutte le parole erano state pronunciate, ma in

qualche modo la sensazione non era ancora quella

giusta. E ancora abbiamo continuato per tutta la

notte a tracciare i nostri passi dall'inizio fino a

quando non sono spariti nell'aria, cercando di capi-

re come le nostre vite ci avevano portato fin lì". E' tutta nei primi versi della title-track la vera rivolu-zione di Late For The Sky di Jackson Browne, il disco che ha definitivamente spostato l'attenzione del songwriting americano dalla visione pubblica, comunitaria e sociale del fare musica che era degli anni Sessanta, ad un ridimensionamento di oriz-zonti dove solo la sfera personale con i suoi guai pratici ed esistenziali poteva contare. D'altronde già tre anni prima il suo primo singolo Doctor My Eyes implorava di non dover più vedere (e dunque com-mentare) le brutture del mondo e della guerra, ma qui la chiusura in quella sfera personale e casalinga simboleggiata dalla copertina che omaggiava Ma-gritte raggiungeva il suo estremo. Il suono della West Coast venne rallentato e dilatato a dismisura, ottenendo un sound indolente, triste ed ipnotico che resterà il suo marchio di fabbrica. Uno stile vo-lutamente monotono che poteva reggere solo se supportato da grandi canzoni, e che risulterà poi all'indomani di Running On Empty del 1977 anche la sua prigione, decretando una seconda parte di carriera decisamente al di sotto di queste premes-se. Ma qui classici e pagine di pura letteratura rock convivevano alla perfezione, risultando ancora oggi un titolo di obbligato confronto per qualsiasi buon autore del globo. (Nicola Gervasini)

45.45.

Lynyrd SkynyrdLynyrd Skynyrd

Second Helping MCA 1974

[134 pt.] I Lynyrd Skynyrd sono il simbolo del rock del sud degli States. Eccessivi, ribelli, grezzi, volgari, di-ventano un mito dal 20 ottobre del '77, quando l'aereo che li trasporta precipita nei prezzi di Gil-lsburg provocando la morte del cantante e leader Ronnie Van Zant, del chitarrista Steve Gaines e della sorella Cassie e causando danni fisici perma-nenti al chitarrista Allen Collins. Se gli Allman Bro-thers hanno creato le basi del southern rock, ma nello stesso tempo lo hanno superato, gli Skynyrd ne hanno rappresentato l'anima e ne hanno dettato le linee fondamentali già con l'omonimo esordio e ancora meglio con Second Helping. Frutto di tu-multuose sessions con il produttore Al Kooper (i ragazzi non erano molto malleabili), l'album com-prende almeno cinque classici, dal rock trascinante di Workin' For Mca alla melodica The Ballad Of Cur-tis Loew, dalla serrata The Needle And The Spoon alla brillante cover di Call Me The Breeze di J.J. Ca-le. Ma il simbolo di Second Helping è lo storico riff di Sweet Home Alabama, brano odiato da Kooper sia per il testo controverso (una risposta ad Ohio di Neil Young, che si poteva interpretare come una difesa di George Wallace, governatore segregazio-nista dell'Alabama), sia per l'assolo particolare di Ed King. A fatica la band convinse la Mca ad inserir-lo nell'album; in breve tempo divenne un inno ra-diofonico costringendo la label a pubblicarlo come secondo singolo. Sweet Home Alabama entrò nei Top Ten trascinando l'album nei Top Twenty e fa-cendo diventare gli Skynyrd una delle band più po-polari del periodo.

(Paolo Baiotti)

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RootsHighway Desert Island

44.44.

Bob SegerBob Seger Night Moves Capitol 1976

[134 pt.] Il livello da principiante che regna perlomeno nelle prime 5 opere di Bob Seger era stato superato da una nuova veemenza rock che aveva avuto il suo apice nel Live Bullet del 1975. Ma il primo album in studio veramente degno della parola capolavoro arrivò solo nel 1976, dopo più di dieci anni di ono-rata carriera in attesa del momento propizio. Che arrivò quando improvvisamente, forse senza nean-che troppo volerlo, diventò il paladino di una gene-razione di beautiful losers americani che avevano perso i grandi sogni degli anni 60 e si erano ritro-vati con in mano solo occupazioni in squallide fab-briche di periferia. Lui parlò della Motor City mentre dall'altra parte dell'America gli faceva eco lo Sprin-gsteen delle spiagge del New Jersey, e rappresentò la perdita dell'innocenza di tutta una generazione con una canzone che parlava con nostalgia di vec-chie pomiciate in macchina e movimenti notturni nei drive-in fatti per perdere quel "teenage blues" che invece regnava in quell'anno tra le nuove gene-razioni. Nove brani dove Seger rappresentò tutto il meglio della sua arte, dagli energici anthem da are-na alle ballate crepuscolari, fino ad elaborate co-struzioni di nuova epica americana come Sun-burnst. Una stagione irripetibile che scemerà via via verso l'inevitabile appiattimento nel mainstream radiofonico, pur conservando sempre una dignità che l'ha reso comunque un eroe della working-class anche quando ha cominciato a vivere in una delle ville più lussuose di Detroit.

(Nicola Gervasini)

43.43.

The BandThe Band

Music from Big Pink Capitol 1968

[135 pt.] Nel 1967 una improbabile casa rosa persa nelle campagne di Woodstock diventò la forgia di una stagione di capolavori. Quando Rick Danko l'affittò, non aveva idea che sarebbe stata la culla del primo album della sua band. Che aveva un nome (gli Hawks) che nessuno voleva più avere, nato per fare assonanza con il nome di Ronnie Hawkins quando nei primi anni 60 gli facevano da backing-band. Ma loro ora erano "La Band" di Dylan, e la Big Pink doveva essere proprio il luogo dove sareb-be nato l'atteso album in studio con il Gran Capo, dopo che Robertson e soci avevano dovuto soppor-tare lo sgarbo delle registrazioni di Blonde On Blon-de (Dylan iniziò a registrare il disco con loro, ma, insoddisfatto del risultato, rifece tutto a Nashville con session-man locali). Il disco con Dylan venne registrato ma non uscì mai, se non come The Base-ment Tapes nel 1975. Invece nacque subito Music From Big Pink, in cui la collaborazione con Bob (r)esisteva nei 3 brani co-firmati (Tears Of Rage, This Wheel's On Fire e I Shall Be Realeased), tutti nati già classici ancora prima di venire pubblicati. Ma il resto era farina del loro sacco, da The Weight che resta il loro brano più celebre e riletto, al famoso incipit al limite del prog di Chest Fever. Per anni i fans hanno discusso se il capolavoro fosse questo o il più strutturato e definito "brown-album" che se-guì. Entrambi sono forse il miglior esempio di come anche un gruppo composto da sei talenti forti e in-gombranti poteva raggiungere risultati grandiosi e unitari. E ancora oggi miriadi di gruppi tentano di costruirsi una propria Big Pink per cercare la stessa magica ispirazione di quella cantina.

(Nicola Gervasini)

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RootsHighway Desert Island

42.42.

Little FeatLittle Feat Waiting for Columbus Warner 1978

[134 pt.] I Settanta sono stati anni gloriosi per il rock a stelle e strisce in tutte le sue varie sfaccettature, con una fervente attività in studio e non, con la relativa pubblicazione di album dal vivo entrati di diritto nella storia, per importanza storica e musicale. Waiting for Columbus, uscito nel 1978, oltre a far parte di questi ultimi, ha anche il pregio di foto-grafare un gruppo, i Little Feat, in uno dei mo-menti di loro massimo splendore. La band capitana-ta dal corpulento asso della chitarra slide, Lowell George, sembra nata per calcare le assi di un pal-coscenico, dove la loro intrigante formula sonora a base di blues, folk, elementi soul e un'impronta ritmica tipicamente neworleansiana, è libera di e-mergere in tutta la sua magnificenza. Attorniato da strumentisti dalle eccelse doti tecniche (Paul Barre-re e Bill Payne su tutti) George ci guida in un orgia-stico calderone sonoro che a partire dalla saraban-da ritmica in puro stile New Orleans di Fath Man in the Bathtub, passando per il r'n'b in salsa southern di Oh Atlanta si conclude con il tripudio finale di una Feats Don't Fail Me Now mai così intensa e tra-scinante. A questi si aggiungono dilatate versioni di classici come Dixie Chicken e Sailin Shoes, la sua-dente Spanish Moon e l'immortale Willin, a comple-tare un'incandescente magma sonoro capace di inglobare al suo interno sia le assolate sonorità di stampo californiano che gli oscuri ritmi voodoo del-la Louisiana.

(Marco Poggio)

41.41.

GenesisGenesis

Selling England by The Pound Charisma 1973

[136 pt.] Il fatto che Selling England sia nella classifica dei lettori di un sito lontano dal rock progressivo come Rootshighway è la conferma della bellezza indiscus-sa di questo disco, anche rispetto agli altri del pri-mo periodo della band britannica, quello con Peter Gabriel alla voce solista. In effetti se Nursery Crime comprende un brano simbolo del prog (la magica The Musical Box) ed il successore Foxtrot è carat-tterizzato dalla suite simbolo del genere (Supper's Ready), è indubbio che il terzo tassello della trilogia dei primi anni 70 sia il più completo ed equilibrato, aggiungendo al prog romantico e melodico dei pre-cedenti un tocco di pop che prenderà lentamente, ma inesorabilmente il sopravvento nel periodo col-linsiano della band (quando Phil Collins si trasferì dalla batteria alla voce solista sostituendo Gabriel). Selling England è basato su quattro lunghi brani: l'iniziale Dancing With The Moonlit Knight, la splen-dida Firth Of Fifth, che si guadagna l'immortalità per l'intro di piano e l'assolo di chitarra di Steve Hackett (senza dimenticarne il mirabile andamento melodico), la contrastata The Battle Of Epping Fo-rest e l'evocativa The Cinema Show. La voce calda ed espressiva di Gabriel (spesso affiancata dai con-trocanti di Collins) è essenziale nel dare diverse tonalità anche all'interno dello stesso brano, men-tre le tastiere di Tony Banks sono l'anima musicale della band. Il disco è completato da due tracce più brevi, ma non meno significative: I Know What I Like rappresenta il primo tentativo riuscito di fon-dere prog e pop con una scrittura più diretta ed essenziale, More Fool Me è il primo brano cantato da Phil Collins, anticipazione di quanto avverrà due anni dopo.

(Paolo Baiotti)

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40.40.

Pink FloydPink Floyd The Dark Side of the Moon EMI 1973

[137 pt.] La linea melodica di Speak To Me/Breathe è come un tramonto del 1973, in technicolor; i tramonti allora erano di un arancione intenso, tersi e dal freddo pungente. L'ineluttabilità, la profonda, vitale malinconia, l'alienazione proseguono sui sintetizza-tori di On The Run e sugli esperimenti che conduco-no a Time, forse uno dei brani più profondi della storia del rock. Già, la storia del rock, Dark Side Of The Moon è uno di quegli album che, più di tantissimi altri, merita un trattato tutto per sé; con-cepito con lo stesso approccio dei precedenti ha finito per essere "casualmente" curato in ogni mini-mo particolare. Ma non sono queste le ragioni per cui è assolutamente obbligatorio includerlo in qual-siasi scaffale dal contenuto culturale, non solo mu-sicale; non è l'assolo vocale da "gospel mama" di Clare Torry in The Great Gig In The Sky, né la me-lodia ideata da Richard Wright, né i cori della citata Time, richiamanti le atmosfere di Abbey Road, inte-so come l'epico album dei Beatles, né i sette quarti di Money; e nemmeno i resoconti oramai non più attendibili sulle vendite dal marzo 1973 attraverso quarant'anni di ristampe. Quel che conta poi è il vinile originale, opera d'arte, pur'essa originale e non più manomettibile, l'indiscutibile, intrinseca bellezza di Us And Then, Any Color You Like, Brain Damage, della ripresa di Breathe e di tutte le altre. Troppo ovvio identificare o associare il "lato oscuro della luna" a quello della vita. E' stato riportato in un vecchio sondaggio che Great Gig è la canzone ideale per l'amplesso amoroso, così come che molti all'epoca dei fatti acquistarono il disco per la coper-tina targato Hipgnosis: affascinante come le canzo-ni del disco. (Roberto Giuli)

39.39.

The Velvet UndergroundThe Velvet Underground

The Velvet Underground & Nico Verve 1967

[140 pt.] Alla metà degli anni '60, mentre nella West Coast fermentava la Summer of Love e il flower power, nei cafè "underground" del Lower East Side della grande mela nascevano i Velvet Underground. Nessuno se ne accorse a parte Andy Warhol, il guru della pop art, che lì tirò fuori dall'anonimato inse-rendoli nei suoi spettacoli totali. Una storia affasci-nante quella dei Velvet, che con l'ausilio della voce glaciale di Nico debuttarono con VU & Nico cam-biando per sempre la percezione di fare musica, con quel blend di folk acido elettrico composto da Sterling Morrison, Lou Reed (alle chitarre), Moe Tucker (e il suo drumming ossessivo e tribale) e John Cale (viola). Un debutto folgorante con suoni ed atmosfere che si ripercuoteranno per sempre nel rock a venire, dal punk al glam, dalla new wave al Detroit sound, che aveva ben poco a vedere con il pop e il rock dell'epoca e con testi che inneggiava-no alla diversità sessuale e alla tossicodipendenza. Registrato in soli due giorni, contiene capolavori come il poema di strada Waiting For My Man (un r'n r scarno e ripetitivo), l'ipnotica Venus in Furs (ispirato al romanzo Venere in Pelliccia), la riverbe-rata Sunday Morning (con quell'inimitabile suono di carrillon), la serenata I'll Be Your Mirror (dedica di Lou alla bellezza statuaria di Nico), il delirio psiche-delico di Heroin fino al caos di Black Angel's Death Song. Forse il disco più influente della storia del rock, nessuno all'epoca lo comprò (solo 100 copie) e i pochi che lo fecero, divennero o musicisti o criti-ci musicali (come disse Brian Eno).

(Emilio Mera)

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38.38.

David CrosbyDavid Crosby If I Could Only Remember My Name Atlantic 1971

[142 pt.]

Esplicativo fin dal titolo If I Could Only Remem-

ber My Name, rappresenta l'epitaffio musicale di

un'era, quella del flower power, giunta ormai alla

sua conclusione. Era quest'ultima che aveva porta-

to, sia sul piano sociale che su quello musicale, alla

nascita di speranze e sogni per un futuro migliore.

Ed è quindi con rassegnazione che viene accettata

la triste realtà di un mondo in cui non c'è spazio

per "pace, amore e musica", e nel quale i sogni di

cambiamento vengono il più delle volte disillusi.

Seppur consci del tramonto di una stagione irripeti-

bile, un gruppo di compagni e musicisti decidono di

riunirsi intorno al comune amico David Crosby,

nonché catalizzatore e figura simbolo della love

generation, per scrivere una sorta di testamento

musicale del movimento. Graham Nash, Neil

Young, Joni Mitchell, membri di Jefferson Airplane e

Grateful Dead, David Frieberg dei Quicksilver Mes-

senger Service, uniscono le proprie forze per dare

alla luce un album vivo e pulsante pur nell'accetta-

zione di una triste quanto inevitabile realtà. Uno

sforzo corale di sublime splendore, tra fluttuanti

arpeggi di chitarra, rimandi lisergici ed oniriche

composizioni. Un album che va ascoltato e riascol-

tato per ricordarci di un'epoca in cui si era ancora

capaci di sognare.

(Marco Poggio)

37.37.

The Rolling StonesThe Rolling Stones

Let It Bleed ABKCO/ Decca 1969

[146 pt.] Dopo l'uscita di Sgt.Pepper's nel 1967 i baronetti di Liverpool, stremati dalla pressione dei media si riti-rarono dai grandi e massacranti tour per creare in studio le loro complesse opere, portando al termine la loro parabola, mentre i Rolling Stones, anch'es-si fagocitati nel complesso mediatico del periodo, non erano mai stati dei diligenti topi da studio, bensì anarchici animali da palcoscenico. Let It Ble-ed è uno dei capolavori riconosciuti degli Stones, perfetto punto d'incontro tra la pigra ballata e l'al-colica cavalcata blues. Mick Taylor prende il posto dello scomparso Brian Jones, e la sua chitarra, blues, acida e virtuosa è come una spinta creativa per Keith Richards, che mai prima di adesso è stato libero di graffiare la sua sei corde senza l'ansia di sbagliare nota. Creativo e diabolico, efficace son-gwriter insieme al suo gemello Mick Jagger, che sguazza divinamente nelle paludi del Delta e nel fango della campagna statunitense. Gimme Shelter è un calice di vino rosso di pregiata fattura, Mid-night Rambler è un boogie ipnotico, perfetto, Let it Bleed e Live with Me seguono le tracce di Beggar's Banquet, incastrandosi a dovere tra le rurali e nere Love In Vain, You Got The Silver e Country Honk. Le gemme del disco sono Monkey Man, tesa e acida come il periodo che gli Stones vivono, e la strepito-sa You Can't Always Get What You Want, ballatona da due accordi, ricca di fraseggi tra chitarra, piano ed Hammond e caratterizzata da un epico coro di apertura, un invito degli dei a banchettare con loro, il diavolo in paradiso.

(Silvio Vinci)

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36.36.

Lynyrd SkynyrdLynyrd Skynyrd One More from The Road MCA 1976

[150 pt.] Nell'epoca per eccellenza dell'epica rock dal vivo, questo disco rappresenta l'altra faccia della musica sudista rispetto all'altrettanto fondamentale At Fil-lmore East dell'Allman Brothers Band. Non a caso entrambi i dischi hanno beneficiato di una sacro-santa edizione deluxe, dove i concerti originali sono stati ampliati con una scaletta inedita. Tanto è co-smico, jammato e bluesy il disco dell'Allman, quan-to suona serrato, furioso, eccitato questo One Mo-re from the Road (titolo che gioca in realtà con l'errore fra le preposizioni from e for, a sancire il sacrificio della band e dei musicisti per il clichè del rock'n'roll). I Lynyrd Skynyrd lo registrano nel corso di tre bollenti serate di inizio luglio 1976 al Fox theatre di Atlanta, Georgia: con un pubblico a favore il gruppo gioca in scioltezza e consacra so-prattutto il repertorio dei primi tre album, quelli che li hanno imposti come la voce più rozza, autentica del rock sudista. Fa male ancora una volta consta-tare come il sogno si spezzerà ad un solo anno di distanza dalla pubblicazione di One More from the Road, in quel maledetto incidente aereo. Qui tutto è perfetto e i Lynyrd sono al picco della loro poten-za sonora, con lo spiegamento di tre chitarre soli-ste: per cominciare la chilometrica, leggendaria versione di Free Bird, quindi le rocciose Searching e Gimme back my Bullets, l'immancabile Sweet Home Alabama proposta in due versioni, ma anche le riletture del traditional T For Texas di Jimmie Rodgers e del classico Crossroads di Robert Jo-hnson, che mostra quanto la band fosse debitrice dell'esperienza del british blues

(Davide Albini)

35.35.

The BeatlesThe Beatles

The Beatles (White Album) Apple 1968

[152 pt.] Una copertina immacolata, bianca e misteriosa: dopo la grande confusione iconografica di Sgt. Pep-per i Fab Four della fine del 1968 sono semplice-mente The Beatles. Il disco passerà però alla sto-ria come 'The White Album', doppia raccolta che schizza verso poli distanti e attrae nel suo caleido-scopio di stili e umori fuori controllo. Frutto di ses-sioni interminabili, registrando più brani e più parti nello stesso giorno ma in studi differenti, il doppio bianco è al tempo stesso il disco della disgregazio-ne e della piena sbocciatura dei singoli. Impossibile non cogliere nel suo cammino le diversità di intenti, gli stimoli di ciascun autore, anticipazione di quell'i-solamento e incomunicabilità che farà divergere entro poco tempo le strade di John, Paul, George e Ringo. In questi solchi però tutto si tiene magica-mente insieme proprio nella contraddizione degli opposti, rislutando opera visionaria e totalizzante, che anticipa e ancora oggi supera molti temi del pop contemporaneo. Nel calderone finiscono gli zampilli psichedelici di Glass Onion, gli strali di Yer Blues, la frenesia rock'n'roll di Birthday e Back in USSR e il punk ante litteram di Helter Skelter, per non dire di una collezione di filastrocche folk e pop eterei. Lennon lascia alla memoria due della sue ballate più intense personali (Dear Prudence e Ju-lia), McCartney risponde con la dolcezza acustica di Blackbird e Rocky Racoon e il gusto retrò di Honey Pie, Harrison indovina un altro capolavoro grazie alla lacrimante While My Guitar Gently Weeps, mar-chiata dalla partecipazione della solista di Eric Clap-ton. Il singolo prescelto è Revolution, dove il sarca-smo politico di Lennon anticipa la sua carriera soli-sta

(Fabio Cerbone)

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RootsHighway Desert Island

34.34.

John HiattJohn Hiatt Bring the Family A&M 1987

[154 pt.] Il disco della vita, una favola a lieto fine: dopo un decennio di alti e bassi, sia in senso strettamente artistico (doveva diventare il nuovo Costello ameri-cano, stava finendo per essere uno degli innumere-voli loser dell'industria discografica), sia in senso personale (vizi e stravizi, come da copione), John

Hiatt mette insieme la band dei suoi sogni. Sono tutti amici fidati, hanno tempo e dedizione da offri-re: Ry Cooder, Jim Keltner e Nick Lowe sono la squadra delle meraviglie, ma se il suono di Bring the Family è il loro, un concentrato di finezze rock & soul sudiste che porta il marchio di Memphis, il merito della profondità dell'album è tutto nelle can-zoni di Hiatt. Qui lo stato di grazia è irripetibile e le stelle stanno a guardare: la carica strafottente di Memphis in the Meantime, il tiro imbizzarrito di Thing Called Love e Thank You Girl, la dolcezza di Tip of my Tongue e Learning How to Love You, so-prattutto lo struggente romanticismo del capolavo-ro pianistico Have a Little faith In Me, ballata per sciogliere i sensi di qualsiasi amata. Quattro giorni di sessioni portano in dono tutto questo ben di dio: la chitarra di Cooder ha il tocco assassino nello sli-din' di Alone in the Dark, ma sa ricamare di fino e giocare con partiture sghembe, mentre la sezione ritmica insegna il bignami della perfetta produzione roots rock. In quegli anni di fredda risacca e pop plastificato, Bring the Family è il disco culto per eccellenza del cantautorato americano. John Hiatt ci campa di rendita ancora oggi e ne ha tutte le ragioni.

(Davide Albini)

33.33.

The DoorsThe Doors

The Doors Elektra 1967

[157 pt.] La popolarità dei Doors è legata indiscutibilmente al mito di Jim Morrison, il cantante morto nel '71 a Parigi e sepolto nel cimitero di Pere Lachaise. Ma la grandezza della band risiede nel fulminante esordio del '67, uno dei più importanti e carismatici della storia del rock. Frutto dell'unione tra due studenti della Ucla (Morrison e il tastierista Ray Manzarek) con due componenti degli Psychedelic Rangers (il batterista John Desmore e il chitarrista Robbie Krie-ger), senza bassista (sostituito da un basso a ta-stiera), i Doors affiancano al fascino delle liriche spregiudicate ed influenzate dai classici del cantan-te (dotato di una voce profonda e di un carisma sciamanico) una musica morbidamente psichedeli-ca, guidata dalle tastiere di Manzarek e dalla chitar-ra bluesata di Krieger, entrambi capaci di comporre e di improvvisare. La sequenza dell'esordio è da paura: il rock energico di Break On Through e di Soul Kitchen, la melanconica The Crystal Ship, il rock melodico di Twentieth Century Fox ed il cabaret mitteleuropeo della brechtiana Alabama Song sono un antipasto gustoso che precede il ca-polavoro Light My Fire, brano di una fluidità im-pressionante e singolo di grande successo (privato per le radio del lungo e storico assolo di Krieger). Così nel secondo lato la sfacciata cover del blues Back Door Man, il pop leggero di Looked At You, la psichedelica End Of The Night e la melodia sixties di Take It As It Comes precedono l'epilogo indimen-ticabile di The End, dramma edipico con un testo malsano che risulta coraggioso anche quarant'anni dopo ed una tensione musicale incredibile. Un disco fantastico, forte ed energico come pochi altri.

(Paolo Baiotti)

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RootsHighway Desert Island

32.32.

Lucinda WilliamsLucinda Williams Car Wheels on a Gravel Road Mercury 1998

[158 pt.] La rottura definitiva col partner di vecchia data Gurf Morlix, una sfilza di controversie coi produttori (prima il citato Morlix, poi un seccato Steve Earle, in tandem con Ray Kennedy nel cosiddetto Twan-gtrust, e infine un provvidenziale Roy Bittan), sei anni di registrazioni ininterrotte tra Austin e Na-shville, vari esaurimenti nervosi: questo, in sintesi, il prezzo pagato da Lucinda Williams per incidere il suo quinto album. Tanto che viene da domandarsi se le aspre recriminazioni tra garage e roots-rock di Joy ("Hai rubato la mia gioia / La voglio indietro / Non avevi alcun diritto di prendere la mia gioia / La rivoglio indietro") non siano in effetti indirizzate allo stesso Car Wheels On A Gravel Road. Considera-to il capitolo cruciale della carriera dell'artista, Car Wheels, nondimeno, non risulta il più elegante né il più rockista, non il più suggestivo né il più pestato (titoli che spettano, rispettivamente, a West [2007], Blessed ['11], Essence ['01] e World Wi-thout Tears ['03]). Solo, forse, il più sentito, quello maggiormente rappresentativo di un verbigerare intenso, appassionato e spiazzante dove trovano posto, accanto alle storie e ai colori di Texas e Loui-siana, il folk straccione e irresistibile delle ballate, i chiari di luna, il rock e le radici, le delusioni e i ma-goni, la rabbia e lo scetticismo, gli slanci e le no-stalgie, la poesia e le birre, il country-blues febbrile di I Lost It e gli anthem rockisti di Metal Firecracker e Drunken Angel. Un disco a suo modo urticante e intossicante al tempo stesso.

(Gianfranco Callieri)

31.31.

John MellencampJohn Mellencamp

The Lonesome Jubilee Mercury 1987

[159 pt.] Dopo anni passati a rincorrere un effimero succes-so, fra produzioni pacchiane e magniloquenti e cambi di pseudonimo, era prevedibile che prima o poi John Mellencamp, non a caso soprannominato "Piccolo Bastardo", ne avrebbe avuto le palle piene e avrebbe finalmente deciso di fare di testa sua. Così, dopo tre ottimi dischi di blue collar rock della migliore specie e complice un produttore finalmente lungimirante come Don Gehman, Mellencamp ha l'intuizione geniale che avrebbe cambiato la propria carriera e aperto la strada ad una scena di impron-ta puramente roots: al suono classico ed elettrico delle chitarre e della sezione ritmica aggiunge un turbinio di strumenti "tradizionali" come violino, fisarmonica e banjo. Il risultato è una festa di suo-ni, un disco seminale che getta le basi del roots-rock che sarebbe venuto di lì in poi. Ma gran parte del merito di Mellencamp e della forza del disco sta nella grandezza delle canzoni, potenti ed al con-tempo gioiose ed incazzate, ricche di memorie per-sonali e familiari e di istanze sociali. E, miracolosa-mente, arrivò anche il successo (ovviamente ameri-cano) grazie anche alla trascinante forza dei singoli Paper on Fire, Cherry Bomb e Check it Out, tutte e tre a lungo in top ten dei brani più venduti. Ovvia-mente, mai successo fu più meritato per un disco che rientra nella categoria degli album seminali.

(Gabriele Gatto)

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RootsHighway Desert Island

30.30.

Neil YoungNeil Young After the Gold Rush Reprise 1970

[160 pt.]

Cosa scegliere? L'elettricità epilettica di Everybody

Knows This is Nowhere o l'ingannevole tranquillità

agreste di Harvest? L'elegia notturna di Tonight's

the Night o le canzoni da spiaggia deturpata

(dell'anima) di On the Beach? Naturalmente il con-

siglio è di prendere tutto: ma se si decide di portar-

ne a casa solo uno, tra i dischi del periodo

"classico" del canadese, allora che sia After the

Goldrush. Perché è il più equilibrato (almeno fino a

Rust Never Sleeps, che però divide le due anime

del nostro - acustica ed elettrica - in due facciate

distinte); perché testimonia un periodo cruciale e

irripetibile dell'ispirazione e della vita di Neil

Young (giusto a ridosso del tour di CSN&Y); per-

ché arricchisce il suono spigoloso dei Crazy Horse

(vedi Southern Man) con i ricami di pianoforte di un

diciassettenne Nils Lofgren. Perché Young lo canta

portando al massimo dell'espressività la sua vocali-

tà limitata e sofferta (da dove esce quel filo di voce

strozzato con cui ti si piantano in cuore le prime

strofe di Don't Let It Bring You Down?). Non ultimo,

perché ci ricorda, con la naturalezza e l'abbandono

di una confessione, che l'amore può spezzarci il

cuore. Solo Ian Curtis, qualche anno dopo, lo saprà

dire con altrettanta convinzione.

(Yuri Susanna)

29.29.

Counting CrowsCounting Crows

August and Everything After Geffen 1993

[161 pt.] Ti ricordi di quell'agosto, e di tutto quel che è suc-cesso dopo… I dischi di Bob Dylan e dei Byrds e della Band, quei vecchi lp (sì, c'era anche Joni Mi-tchell), con le macchie di caffé sulle copertine, quelli che ti aveva regalato Anna. Ricordi come tre-mava, quanto era spaventata? E dopo l'agosto, ri-cordi le piogge autunnali a Baltimora, il freddo pun-gente di San Francisco, New York luccicante di ne-ve, a Natale, e le nostre facce a congelare davanti alle vetrine, verso l'alba, di fronte a quei palazzi blu? Volevamo solo concederci il lusso di un po' di smemoratezza, volevamo sembrare zingari, roman-tici e hippie come tutta quella gente a Woodstock, come Picasso, come Gram Parsons, e invece eccoci qui, a ricordare di nuovo. Le canzoni di Alex Chilton e le camminate notturne su Sullivan Street. I pianti di Maria. Ricordi quando stava su quel cornicione, quando diceva di essere "stanca e nauseata dalla vita"? Tutti siamo stanchi di qualcosa. E che band sognavamo di essere. Avremmo messo insieme il folk e il rock, come i gruppi degli anni '70 che ci piacevano da morire, avremmo avuto i pianoforti e le chitarre, l'organo e la fisarmonica, i mandolini e i nostri amici a cantare. Avremmo avuto tutto. Sì, ho sempre il numero di quella ragazza di New York. Tanto lei sta sempre sveglia, così quando proprio non ce la faccio non sono costretto a dormire da solo. Dio, ma in quel maglione ci stai tre volte. Le sigarette sono lì, su tavolo. Un giorno dovrò deci-dermi a pulire le finestre. Un giorno tutta questa pioggia finirà per annegarci. Un giorno.

(Gianfranco Callieri)

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RootsHighway Desert Island

28.28.

R.E.M.R.E.M. Automatic for the People Warner 1992

[161 pt.] C'erano in effetti molte riserve da parte dei fan sto-rici della college rock band per eccellenza che ave-va accompagnato il mondo indie da Athens, Geor-gia, fin lassù, in alta quota. Il passaggio dalla I.R.S. alla Warner non era iniziato male, Green aveva la-sciato ben sperare, Buck, Stipe, Mills e Berry non sembravano dei venduti qualunque, pronti a metter su casa accanto ai divi di Hollywood. Ma Out of Time no, era stato un affronto. Va bene, sì, un mandolino in classifica, quello di Losing My Reli-gion, non è che si vedesse spesso, ma per il resto no, non c'eravamo proprio. Estimatori dell'ultim'ora che mai avevano sentito parlare dei R.E.M. adesso stavano lì a sollazzarsi e disquisire. No, sembrava proprio finita. E allora eccolo, il capolavoro, solo un anno dopo. Di commerciale non c'è più niente, i testi sono intimisti e parlano di dolore, di perdita, di morte. Il suono è abbastanza spoglio, di impianto prevalentemente acustico, con archi e tastiere a imprimere delicatamente il passo. Bozzetti di folk moderno. Magica l'apparente leggerezza di The Si-dewinder Sleeps Tonite, colpi al cuore Try Not to Breathe e quella semplicità al limite di Everybody Hurts, che racconta tutto della vita. Nightswimming è una nuotata nei ricordi e nella bellezza semplice dell'esistenza, Man on the Moon lo stile R.E.M. per eccellenza. Non mancano stilettate contro la politi-ca e il declino morale della società. Il primo grande disco per la Warner, probabilmente il loro disco mi-gliore di sempre.

(David Nieri)

27.27.

The BandThe Band

The Band Capitol 1969

[162 pt.] Uscito dopo il pastorale Music from Big Pink, l'omo-nimo disco della Band, noto ai più anche con il no-me di "Brown album", è l'opera della maturità del gruppo americano. Se infatti con l'esordio dell'anno precedente i nostri avevano saputo trasporre in musica il mondo rurale statunitense, gettando al contempo le basi del cosiddetto suono Americana, è proprio con questo secondo album che focalizzano ulteriormente il loro lavoro di ricerca. L'opener A-cross the Great Divide è emblematica di come il gruppo voglia attraversare ogni confine, sia esso fisico o sonoro, tra nord e sud, tra le bucoliche zone rurali e i caotici agglomerati urbani. In un suggesti-vo excursus musicale si passa così dall'incalzante piano di Rag Mama Rag alla sincopata Up on Crip-ple Creek, con in entrambe la voce, dalla profonda inflessione sudista, di Levon Helm in primo piano, fino alla corale e conclusiva King harvest (Has Su-rely Come). Ad incantare in Whispering pines è in-vece la leggiadria vocale di Richard Manuel, mentre l'epicità narrativa di The Night they Drove Old Dixie Down rimane uno dei punti più alti raggiunti dal songwriting di Robbie Robertson. Se Music from Big Pink resta avvolto dall'aura del mito, il "Brown al-bum", dal canto suo, rappresenta il capolavoro di quell'eccelso e leggendario quintetto chiamato sem-plicemente The Band.

(Marco Poggio)

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26.26.

Ryan AdamsRyan Adams Gold Lost Highway 2001

[165 pt.] Gli Allman Brothers di Ramblin' Man trasfigurati nel classic-rock irresistibile di New York, New York, Van Morrison e la Band evocati durante Answering Bell, gli Stones a rotolarsi nello sferzare hendrixiano di Tina Toledo's Street Walkin' Blues, il Neil Young fragile e sentimentale di When The Stars Go Blue e Sylvia Plath, il roots-rock per armonica di Firecra-cker, il banjo rurale di Sweet Black Magic, il feeling disincantato e metropolitano di The Bar Is A Beauti-ful Place (con gli echi springsteeniani di tromba e sax), gli up-tempos alla John Mellencamp di Rosalie Come And Go e Cannonball Days, il soul formato Tom Petty della ruggente Touch, Feel & Lose, l'hard-rock scartavetrato di Enemy Fire, la maturità folkie di Wild Flowers, l'apoteosi di assoli e schitar-rate della lunga Nobody Girl, il country eccentrico di Someday, Somehow e la canzone d'autore purissi-ma di Harder Now That It's Over, il pop rockista del primo Elton John affiorante in The Rescue Blues, gli Who avvinghiati ai riff di Gonna Make You Love Me, il pianoforte di Billy Joel nel congedo malinconico di Goodnight, Hollywood Blvd. e il country-rock acco-rato di La Cienega Just Smiled. Gold, secondo al-bum solista di Ryan Adams dopo l'epopea alt.country dei Whiskeytown, non è un bignami di storia del rock (né, tantomeno, un'enciclopedia) ma uno di quei rari album dove, oltre ad accadere di tutto, ogni elemento sembra brillare di luce propria, riverberando risonanze del passato e gettando un ponte verso il futuro tramite uno stile proprietario. Un'opera toccata dalla grazia, e tanto basta.

(Gianfranco Callieri)

25.25.

R.E.M.R.E.M.

Lifes Rich Pageant IRS 1986

[166 pt.]

C'era un tempo in cui i produttori facevano la diffe-

renza (ovvero, si potrebbe anche metterla così:

c'era un tempo in cui i dischi venivano "prodotti",

spendendo tempo, denaro e creatività alla ricerca

di un suono). Prendete il quarto lp degli R.E.M. e

pensate a quanto il tocco mainstream di Don Ge-

hman - la voce di Michael Stipe finalmente nitida e

intellegibile, la sezione ritmica portata in primo pia-

no, la definizione degli strumenti - sia l'elemento

decisivo per sottolineare e rendere più appetibile la

maturazione della band della Georgia. Senza nulla

togliere al fascino naif dei primi lavori, la maggiore

complessità di scrittura raggiunta in Lifes Rich

Pageant beneficia enormemente dei suoni cuciti

addosso alle canzoni. Che sono tutte memorabili,

dall'assalto di Begin the Begin al pop con caratteri-

stico jingle jangle dell'ecologista Fall on Me, dalla

melodia sognante di Flowers of Guatemala (uno dei

classici nascosti del loro songbook) al folk ipnotico

di Swan Swan H. Neanche lo scherzo conclusivo di

Superman, cantata dal bassista Mike Mills, riesce a

suonare fuori posto, tra tanto ben di dio.

(Yuri Susanna)

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RootsHighway Desert Island

24.24.

The BeatlesThe Beatles Revolver Parlophone 1966

[170 pt.] Nell'epoca per eccellenza dell'epica rock dal vivo, questo disco rappresenta l'altra faccia della musica sudista rispetto all'altrettanto fondamentale At Fil-lmore East dell'Allman Brothers Band. Non a caso entrambi i dischi hanno beneficiato di una sacro-santa edizione deluxe, dove i concerti originali sono stati ampliati con una scaletta inedita. Tanto è co-smico, jammato e bluesy il disco dell'Allman, quan-to suona serrato, furioso, eccitato questo One Mo-re from the Road (titolo che gioca in realtà con l'errore fra le preposizioni from e for, a sancire il sacrificio della band e dei musicisti per il clichè del rock'n'roll). I Lynyrd Skynyrd lo registrano nel corso di tre bollenti serate di inizio luglio 1976 al Fox theatre di Atlanta, Georgia: con un pubblico a favore il gruppo gioca in scioltezza e consacra so-prattutto il repertorio dei primi tre album, quelli che li hanno imposti come la voce più rozza, autentica del rock sudista. Fa male ancora una volta consta-tare come il sogno si spezzerà ad un solo anno di distanza dalla pubblicazione di One More from the Road, in quel maledetto incidente aereo. Qui tutto è perfetto e i Lynyrd sono al picco della loro poten-za sonora, con lo spiegamento di tre chitarre soli-ste: per cominciare la chilometrica, leggendaria versione di Free Bird, quindi le rocciose Searching e Gimme back my Bullets, l'immancabile Sweet Home Alabama proposta in due versioni, ma anche le riletture del traditional T For Texas di Jimmie Rodgers e del classico Crossroads di Robert Jo-hnson, che mostra quanto la band fosse debitrice dell'esperienza del british blues

(Davide Albini)

23.23.

Neil YoungNeil Young

On the Beach Reprise 1974

[172 pt.] Dopo il successo planetario di After the Gold Rush e Harvest, Neil Young crolla in una profonda crisi umana a seguito della perdita per overdose degli amici Danny Whitten e Bruce Berry. I tre dischi se-guenti ci consegnano il ritratto di un artista in pre-da alle proprie angosce: in On The Beach il senso di colpa e la sofferenza personale si trasformano in una più ampia disamina sociale e politica sulla de-cadenza degli anni 70 e sulla dolorosa presa d'atto che i sogni e le utopie dell'adolescenza si sono di-mostrate solo delle illusioni. I giovani figli dei fiori che sognavano con le droghe lisergiche sono diven-tati ora dei junkies eroinomani, il mito di una socie-tà migliore viene annegato nella cinica politica di Nixon, nello scandalo Watergate, nel terrorismo e nella crisi petrolifera. Frutto di sessioni di registra-zioni improvvisate in un clima convulso e sotto l'ef-fetto delle micidiali honey slides, ovvero frittelle di mariujana e miele che tenevano giù il tono della voce rilassando la mente e il corpo, le 8 tracce di On The Beach ci catapultano in blues visionario e malinconico in grado di rappresentare al meglio i tempi in cui la società americana viveva. Su tutte l'apocalittica Revolution Blues che rimanda alle livi-de vicende della family di Manson, manifesto delle disillusioni della controcultura sixties e la conclusiva folkie Ambulance Blues, una delle vette compositive della poetica di Neil Young in cui l'artista canta l'i-nequivocabile frase "state solo pisciando contro vento" rivolta ai vecchi compagni della 'summer of love', che continuano a salire su un palco pur non avendo più nulla da dire, incapaci di comprendere la svolta dei tempi.

(Gianluca Serra)

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RootsHighway Desert Island

22.22.

John MellencampJohn Mellencamp Scarecrow Riva 1985

[173 pt.] Dismessi gli abiti dell'american fool che nel 1982 scalò le classifiche americane con la zuccherosa ballata Jack & Diane, John "Cougar" Mellen-

camp, dopo la svolta rock di Uh-Huh, raggiunge nel 1985 con Scarecrow la maturità artistica (ed umana) riscoprendo le proprie radici, ovvero quel Midwest agricolo fatto di piccole comunità rurali piene di gente semplice, un tempo cuore pulsante del paese ed ora luogo depresso e dimenticato dalle politiche liberiste dell'amministrazione repubblica-na. Coadiuvato da una band che è l'essenza del rock di strada americano (Larry Crane e Mike Wanic alle chitarra, Toby Myers al basso e soprattutto Kenny Aronoff al drumming), Little Bastard canta di piccole città dimenticate (Small Town), di territori agricoli ridotti sul lastrico (Rain on the Scarecrow), di disoccupazione e miseria (Face of the Nation), di ricordi d'infanzia (Minutes of Memories) senza alcu-na commiserazione o resa. Scarecrow è infatti un disco politico, un rock'n roll ruvido, energico e vita-le che viene direttamente dal cuore per dare voce e dignità ad un'America rurale che non si riconosce nella proprie istituzioni e vuole un cambiamento. Riascoltare Scarecrow oggi non è solo un piacere per le nostre orecchie e la nostra anima, ma è so-prattutto un dovere per ogni vero appassionato di rock'n roll, perché al di la dell'evidente attualità delle tematiche narrate, ci rimanda ad un epoca meravigliosa e ormai purtroppo svanita in un cui la musica rock era ancora un mezzo di coinvolgimento e di autoaffermazione sociale con cui esprimere le proprie idee e cercare di cambiare le cose.

(Gianluca Serra)

21.21.

U2U2

The Joshua Tree Island 1987

[175 pt.] Dopo il successo di The Unforgettable Fire, per gli U2 è tempo di alzare il tiro, di assurgere definitiva-mente a band del decennio. Per farlo Bono, The Edge, Clayton e Mullen capiscono che l’Irlanda non basta più, bisogna allargare i confini, magari guar-dando proprio a quell’America che è stata terra promessa per una moltitudine di loro connazionali. E così il loro rock si fa più levigato e globale, apre al country e al blues, strizza l’occhio alla frontiera pur conservando l’immediatezza, il pathos, la ge-nuinità dei dischi precedenti. Nasce così The Jo-shua Tree, non necessariamente il più bel disco dei quattro di Dublino, ma senza dubbio quello più famoso, il loro best seller (28 milioni di copie), il loro passaporto per l’Olimpo. C’è tutto l’U2-pensiero: brani epici che diventano degli istant classic (le iniziali Where the Streets Have No Name, ispirata a Bono da un viaggio in Etiopia e I Still Ha-ven’t Found Ahat I’m Looking For), i temi sociali tanto cari al frontman (i minatori di Red Hill Mining Town, i desaparecidos di Mothers of the Disappea-red, la dipendenza da eroina di Running to Stand Still), le pennellate naif tanto care a The Edge (In God’s country, uno dei vertici assoluti dell'album e non solo), la ballata spezzacuori (With or Without You), il colpo a sorpresa (il noir-rock di Exit). Mis-sione compiuta: gli anni 80 finiscono con gli U2 ben saldi sul trono del rock mondiale.

(Gianuario Rivelli)

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RootsHighway Desert Island

20.20.

Neil YoungNeil Young Harvest Reprise 1972

[179 pt.] Forse non è casuale che Jonathan Demme abbia intitolato Heart of Gold il suo film-concerto dedicato a Neil Young. L'album da cui proviene questo bra-no - Harvest appunto- pur collocandosi esatta-mente tra due pezzi da novanta come After the Goldrush e On the Beach, li stacca in volata. Che si tratti di uno special one nella discografia del nostro bisonte preferito lo dimostra, tra l'altro, il ricorso ad una backing band inusuale, gli Stray Gators, che per una volta rubano la scena agli istituzionali Crazy Horse. Che dire di Harvest se non che è stato un bildungsroman per la mia generazione, quella, per intenderci, che aveva quindicianni quando uscì? Chiedete alla mia paziente Epiphone quante volte in quarantanni ha dovuto sopportare tentativi di ripro-duzione di The Needle and the Damage Done, cui mancava sempre qualche nota. Harvest ha orienta-to senza scampo i nostri gusti musicali verso quel genere che allora chiamavamo semplicemente West Coast, un luogo dell'anima più che una regione ge-ografica. Ci ha traspostati dall'ipnosi del vinile ro-tante sui Lesa alla magia di Laurel Canyon, grazie anche alle additional vocals di James Taylor, Linda Ronstadt e C.S.&N. Al punto da poter dire che, sen-za l'accordo in FM7 che introduce Old Man, il nostro destino di musicofili sarebbe stato diverso. Al punto da osare affermare che questa ballata è tanto bella nel suo languore steel guitar, da piacerci anche nel-la versione hip hop di Redlight King, con voce cam-pionata dello stesso Neil. Il quale del resto, lo sap-piamo, ci avrebbe abituati negli anni a venire a una metronomica, bipolare alternanza di meraviglie e stranezze.

(Donata Ricci)

19.19.

The Dream SyndicateThe Dream Syndicate

Medicine Show A&M 1984

[185 pt.] Una discesa agli inferi della narrazione hard-boiled compiuta ricorrendo all'enfasi allucinata dello Sprin-gsteen di Born To Run, alla melodia morbosa dei Velvet del terzo album, alle spettrali preghiere lai-che del Neil Young di Tonight's The Night: Medici-ne Show, secondo capitolo dell'avventura troppo breve dei Dream Syndicate di Steve Wynn e Karl Precoda, apostoli della psichedelia minacciosa, ro-vente e chitarristica dei Television, ruota intorno a un centro assieme oscuro e luminoso, tra il male radicale inchiodato nei destini dei suoi protagonisti e l'orgoglio solenne di un suono denso, epico, am-bizioso. Fuoriuscita la bassista Kendra Smith, arte-fice non secondaria delle atmosfere torbide e vel-vettiane del precedente The Days Of Wine And Ro-ses (1982), e subentrati il sostituto Dave Provost e il produttore Sandy Pearlman (ancora lui), nonché Tom Zvoncheck al pianoforte (i suoi duelli con gli assoli della sei corde di Precoda intrecciano lirismo e disperazione in modo sublime), l'acid-rock della California diventa una cattedrale di melodrammi urbani (Merrittville), punk e blues rimescolati in jam febbricitanti (John Coltrane Stereo Blues), sfer-raglianti corse verso il nulla di un Ovest trasfigurato e spaventoso (la title-track). Per definire questa musica, benché accolta da un insuccesso clamoro-so, si ricorse perfino a definizioni apposite: "Paisley underground", "il nuovo rock degli anni '80" etc. Ma la classificazione più adatta a Medicine Show, oggi come allora, è soltanto una: quella di classico senza tempo, da sempre attuale e per sempre giovane.

(Gianfranco Callieri)

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RootsHighway Desert Island

18.18.

The WaterboysThe Waterboys Fisherman’s Blues Ensign 1988

[194 pt.] Nonostante l'accorata invocazione della title track ("Vorrei essere un pescatore che ruzzola sui mari/ lontano dalla terra arida e dai suoi amari ricordi"), Fisherman's Blues è il disco che riporta i ragazzi d'acqua sulla terraferma. Non tanto nella natia Sco-zia, ma piuttosto al riparo degli accoglienti porti irlandesi (metà del disco è registrata a Dublino, il resto tra Spiddal e Galway). Un viaggio alla ricerca delle radici, siano autoctone (l'immancabile Yeats, la coraggiosa e riuscita rilettura del Van Morrison "astrale" di Sweet Thing), oppure aliene (gli omaggi a Hank Williams e Woody Guthrie). Il punto di arri-vo della ricerca, da parte di Mike Scott, di un ap-prodo concreto, che odori di terra e tramandi l'eco di vecchie storie ancora buone da raccontare, sotto cieli bassi che sembrano infiniti (come un mare ca-povolto, in fondo). Al di là delle elucubrazioni su quale incarnazione della band sia stata più impor-tante (se questa, leggiadra e ariosa, della svolta folk o quella, epica e densa, della "big music" di This is the Sea e A Pagan Place), la bellezza senza tempo di questa raccolta di canzoni rende pleona-stica ogni discussione. E, come accade con certe conchiglie trovate insabbiate sulla battigia, se si avvicina l'orecchio si può anche sentire il mare.

(Yuri Susanna)

17.17.

Jimi Hendrix ExperienceJimi Hendrix Experience

Electric Ladylan Reprise 1968

[198 pt.] Dopo quasi quarantacinque anni dalla sua pubblica-zione, un album come Electric Ladyland suona ancora attuale, oggi più di allora. Jimi Hendrix apriva ai suoni un altro universo da esplorare, e-sperimento probabilmente riuscito solo a geni come Cecil Taylor, Ornette Coleman e John Coltrane. Ri-ferimento insuperabile di limiti mai valicati, denso e ambizioso, oscuro e solare. "Intorno a me esplode-vano bombe atomiche, e missili teleguidati volava-no da tutte le parti: non so nemmeno spiegare quali suoni riuscisse a tirare fuori dal suo strumen-to", questa l'incredulità di Mike Bloomfield dopo aver visto Hendrix. Electric Ladyland suscitò grande fragore per i suoi contenuti musicali, per la sua controversa copertina originale con venti donne nude e per i testi, surreali e messianici nel contenu-to, ingredienti per una vera rivoluzione non capita da tutti. Il blues astrale rappresentato da Voodoo Chile resta l'espressione piena di questo grande lavoro e in cui suonano Steve Winwood e Jack Ca-sady. Il blues come esperienza vissuta non solo riconducibile ad una sequenza di note. Occorre menzionare l'innovazione psichedelica di Burning Of The Midnight Lamp, la geniale 1883… e la nota All Along The Watchtower di Dylan. Questo album è la sintesi del suono hendrixiano, termine utilizzato per definire tuttora plagiatori e musicisti a lui devoti. "…mostrarti emozioni diverse, cavalcare tra suoni e movimenti. La signora elettrica ci aspetta…", dal blues di Have You Ever Been, il secondo brano di questo doppio album che resterà nella storia della musica.

(Antonio Avalle)

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RootsHighway Desert Island

16.16.

Van MorrisonVan Morrison Astral Weeks Warner 1968

[201 pt.]

Da Belfast a New York. Lo stream of consciousness

di W.B. Yeats e l'Elvis Presley di All Shook Up. Van

Morrison è diventato grande di botto e si è preso

qualche settimana di vacanza tra le stelle, dove ha

trascinato con sé la sua musa scontrosa, avven-

turandosi ("If I ventured in the slipstream"…) sulla

scia di ricordi di infanzia vissuti dal lato sbagliato

della strada (Cyprus Avenue), raffigurazioni di loci

amoeni bagnati dalla pioggia (Sweet Thing), storie

di presunti travestiti (Madame George), immagini di

ballerine intraviste in un tour di qualche anno

prima… E' blues (ma non nella forma), è folk

(nell'anima), è jazz (la sezione ritmica, le improv-

visazioni strumentali), è musica da camera (le sov-

raincisioni di un quartetto d'archi). E', ancora e

nonostante le apparenze, rock & roll, almeno nello

spirito. Anzi, il momento di massima trascendenza

raggiunto nel rock & roll (fino a quel momento e,

molto probabilmente, anche dopo): una trance mis-

tica indotta da quella voce inarrivabile, strumento

selvatico e sciamanico. Chiedete a Lester Bangs, se

avete dei dubbi.

(Yuri Susanna)

15.15.

The Rolling StonesThe Rolling Stones

Sticky Fingers Rolling Stones Records 1971

[203 pt.] In mezzo ad altri 2 capolavori come Let It Bleed e Exile On Main St., troviamo l'opera più completa degli Stones: Sticky Fingers, l'album dalla famosa zip apribile (realizzata da Andy Warhol). Anche se le sessioni di registrazioni dell'album iniziarono un anno prima della pubblicazione, le Pietre Rotolanti avevano già registrato parte del materiale nei fa-mosi Muscle Shoals Studios, ad eccezione della nar-cotica Sister Morphine che risaliva alle session di Let It Bleed. Dopo aver finalmente sciolto il con-tratto con la Decca (la London per gli USA) che li aveva tenuti legati dal '63, gli Stones si sentirono finalmente liberi di esprimersi senza condiziona-menti con la loro musica, senza la necessità di con-frontarsi con i Beatles ormai sciolti. E' anche il pri-mo album dove trova pianta stabile Mick Taylor e il primo senza Brian Jones, con sessionmen di primo piano quali Ian Stewart, Bobby Keys, Pete To-wnshend e Ry Cooder. Sticky Fingers ha tutto quel-lo che si chiede a un album rock: l'essenza del blues sanguigno di You Gotta Move (di Fred Mc Do-well), il rock classico di Brown Sugar (uno dei più grandi opener di sempre), melodie country dell'in-dimenticabile Wild Horses (forse il brano più memo-rabile), il R'n'B di I got The Blues, il funky di Can't Your Hear Me Knocking, le ballate memorabili di Dead Flowers e Sway fino al rock orchestrato della finale Moonlight Mile. La bellezza dell'album risiede nella sua grande varietà, possedendo allo stesso tempo la classicità del predecessore insieme alla spregiudicatezza del successivo Exile. Attraverso jam spontanee, solos e semplici melodie, Sticky Fingers rimane "forse" la loro migliore raccolta.

(Emilio Mera)

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RootsHighway Desert Island

14.14.

Jeff BuckleyJeff Buckley Grace Columbia 1994

[214 pt.] Fu un fulmine a ciel sereno l'esordio nel 1994 di questo figlio d'arte, che aveva ereditato dal padre Tim una vocalità quasi angelica e spinta fino a quattro ottave di estensione. Fu un fulmine a ciel sereno perché nessuno pensava che in un disco solo si potesse sintetizzare lo spirito di un decennio di fuoco (in ambito musicale, ovviamente) come gli anni Novanta, con il lirismo di Cohen e Van Morri-son, la grazia di Edith Piaf e Nina Simone e le tessi-ture classiche di Benjamin Britten. Il risultato di questa miscela, al quale va aggiunta la chitarra di Jeff, uno dei chitarristi più grandi e sottovalutati degli ultimi vent'anni, è un disco che sembra quasi privo di collocazione spaziotemporale, etereo e cor-poso allo stesso tempo, sospeso fra raffiche del torrido vento di Seattle, ma elevato a livelli celesti dal volo della voce di Buckley. Il resto lo fanno can-zoni come Grace, Lover You Should've Come Over o Last Goodbye, oltre all'ormai inflazionatissima cover di Hallelujah di Cohen, che qui sembra vivere di una vita lontana anni luce dall'originaria versione del canadese. Difficile dire se parte dell'aura che circonda questo disco sia dovuta anche alla prema-tura morte di Buckley, inghiottito da un gorgo nel Mississippi prima di potere giungere alla fatidica prova del secondo disco. Tuttavia, la foggia di Gra-ce rifulge di luce propria, collocandosi di diritto fra i più grandi dischi della storia del rock.

(Gabriele Gatto)

13.13.

The WhoThe Who

Who’s Next Polydor 1971

[228 pt.] Primi anni '70. Ennesimo bollettino della distruzio-ne. A seguito della deflagrazione conosciuta come Live At Leeds (1970), gli Who, o per meglio dire Pete Townshend, compositore instancabile e assas-sino della chitarra, mettono in cantiere, dopo Tommy ('69), un'altra "rock-opera" destinata a ri-manere incompiuta. L'inaudito volume di fuoco del-la voce di Roger Daltrey e la sezione ritmica di un John Entwistle e di un Keith Moon più violenti e sconquassanti che mai portano i rimasugli dell'idea originale a sbriciolarsi nelle canzoni furiose di Who-

's Next, uno degli album più crudi, brutali e rissosi di sempre. L'energia degli esordi all'insegna di un flirt irruente tra pop, beat e blues elettrico letteral-mente esplode in una colata lavica di riff pesanti come macigni, colpi di rullante simili a continue frustate, linee di basso che scorticano la pelle e urli primitivi in grado di frantumare ogni resistenza. I sintetizzatori (ascoltate i drones minimalisti di Baba O'Riley e Won't Get Fooled Again), i ricami acustici (appaiono all'inizio di Behind Blue Eyes), il piano-forte delicato di Nicky Hopkins (The Song Is Over) o i momenti di relax del canto (Bargain), tutti ele-menti incollati dal produttore Glyn Johns in pratica rivoluzionando il concetto stesso di ingegneria del suono attraverso dinamiche ancora oggi inaudite per potenza ed espressività, non diluiscono, anzi, enfatizzano la rabbia assordante del disco. Nella copertina, gli Who danno le spalle a un monolite di cemento nella campagna nordorientale di Easington Colliery, sul quale hanno appena pisciato. L'ennesi-mo simbolo del passato fatto a pezzi. Chi è il pros-simo?

(Gianfranco Callieri)

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12.12.

Van MorrisonVan Morrison Moondance Warner 1970

[259 pt.]

Dopo le meravigliose digressioni musicali delle

"settimane astrali", il cantante irlandese decide di

esplorare la dimensione più intima e raccolta della

propria musica, dando alle stampe Moondance.

Qui a riaffiorare sono reminescenze blues, gospel,

folk e jazz, da sempre tuttavia presenti nel

background del nostro. Abbandonate le dilatate

composizioni del precedente album qui ci troviamo

di fronte a dieci brani facenti capo alla più classica

forma canzone, sia per impostazione che per dura-

ta. Dieci brani nei quali l'indiscussa protagonista è

la voce di Morrison, capace di raggiungere livelli

eccelsi. Su tutte spicca, proprio a livello di presta-

zione vocale lo swing di Moondance, che al pari al-

l'ariosa Into the Mystic, rappresenta l'apice dell'al-

bum per purezza sonora. La penna di "The Man" si

conferma tuttavia sempre di altissimo livello, dando

alla luce altri piccoli capolavori come la struggente

Crazy Love, l'incalzante Caravan e la sensualità

della magnifica And it Stoned Me. Un disco essen-

ziale, ennesimo straordinario capitolo della disco-

grafia di un musicista capace di stupire e conqui-

stare ogni qualvolta prenda un microfono tra le ma-

ni.

(Marco Poggio)

11.11.

Tom WaitsTom Waits

Raindogs Island 1985

[314 pt.] "Non esiste il diavolo. E' solo dio quando è ubriaco" sostiene Tom Waits. Questo è in sintesi il rapporto tra Waits e il blues e gli effetti del dopo Raindogs sono assimilabili ad una sorta di stato di ebbrezza. Effetti che riprendono, ma con maggior fruibilità, quanto espresso e avvertito nel rivoluzionario Swordfishtrombones, che non fece strage di vendi-te ma di cuori degli addetti ai lavori. Fu amore a prima vista. Raindogs è il compendio di tutti quei segni distintivi che identificavano Waits negli anni Ottanta: arrangiamenti frantumati, testi ambigui, un ampio spettro di riferimenti musicali, stravaganti personaggi, il rumore delle superfici (utilizzando il recipiente dei panni sporchi al posto della batteria o oggetti raccattati per strada, con una voce inimita-bile e ancora chiara). Il collante che lega tutte le 19 tracce dell'album è unico, tentacolare, tra blues scarni e viscerali, jazz notturno, tanghi cubani, cabaret parodistici, ritmi spezzati di rock'n'roll e suoni mescolati a marcette funebri in atmosfere New Orleans. In Raindogs troviamo sia il Waits del primo periodo rappresentato da Hang Down Your Head, Downtown Train e Time, che brani come Sin-gapore, Tango Till They're Sore e Walking Spanish i quali hanno condizionato ogni nota della sua produ-zione successiva, con indizi già presenti chiaramen-te nel precedente Swordfishtrombones. Raindogs rappresenta un gran turbinio di note in cui viene voglia di fischiettare il ritornello di Jockey Full Of Bourbon, preso a prestito da una filastrocca infanti-le o di battere il piede sulle note blues di Gun Street Gil. La scoperta di Kurt Weill e l'inserimento alle chitarre di Marc Ribot bagnati nel blues di Ho-wlin' Wolf creano una geografia musicale tutta sua a cui Waits non saprà prescindere.

(Antonio Avalle)

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10.10.

Bob DylanBob Dylan Blonde on Blonde Columbia 1966

[340 pt.] Mentre il mondo gli chiedeva di tenere fede al suo ruolo di nuova guida spirituale delle nuove masse di giovani americani, nel 1966 Dylan si dimette defi-nitivamente da nuovo santone rock con il suo disco oggi più riconosciuto e celebrato. Cosciente fin dal brano d'apertura della lapidazione a cui andava in-contro (everybody must get stoned…), questo Dylan resta ancora oggi il più credibile esempio del-l'artista che, sordo alle necessità del proprio ruolo di star, propone con fierezza la propria personale visione della vita. Questo spiega come mai, a parte Just Like A Woman che è canzone nota anche a chi non mastica il verbo Zimmerman, e tolte forse I Want You e Rainy Day Woman (che non mancano mai nei The Best e nei tributi all'autore), il resto di questo doppio album è composto principalmente da ostici e verbosi brani adorati dai fans, ma ben poco masticati dal grande pubblico. Il simbolo del disco è dunque Visions Of Johanna, per molti - ma anche a detta del suo stesso autore - uno dei testi più alti della sua opera, brano difficile che rappresenta pe-rò al meglio dove Dylan stava andando a parare in quel 1966. Disco governato dalle figure femminili, dalla Joan Baez che stava lasciando alla Sara con cui si era sposato tre mesi prima della pubblicazio-ne, il Dylan di Blonde On Blonde guardava infatti ormai solo al privato, in un momento in cui tutti gli chiedevano di continuare a combattere per il pub-blico. Ma la sua risposta stavolta non soffiava nel vento, ma era tutta in quell'espressione tesa e infa-stidita della foto della copertina. Sbiadita, come lo era la sua voglia di essere una rockstar.

(Nicola Gervasini)

09.09.

Allman Brothers BandAllman Brothers Band

At Fillmore/ Fillmore Concerts Capricorn 1971

[377 pt.] Quando salgono sul palco del Fillmore East il 12 e 13 marzo del '71, gli Allman Brothers sono una band in crescita, reduce da due interessanti album in studio che hanno venduto discretamente, ma la fama dei loro concerti è di gran lunga superiore. Duane Allman, chitarrista straordinario per creativi-tà e originalità, è il leader indiscusso; a solo 25 an-ni ha già participato come session man dei Fame Studios a dischi importanti e pochi mesi prima ha stregato Eric Clapton rivitalizzando le registrazione di Layla di Derek & The Dominos. Il risultato delle due serate è diverso e superiore rispetto a quanto la band ha prodotto fino ad allora: è la perfezione assoluta, una mirabile fusione di rock, blues e soul, improvvisata con una fluidità propria dei migliori jazzisti .Un disco che non si può spiegare, ma si deve semplicemente ascoltare, possibilmente in cuffia per apprezzare l'incredibile fraseggio delle due chitarre (l'apporto dell'altro chitarrista Dickey Betts è altrettanto importante), il tappeto sonoro della sezione ritmica (basso e doppia batteria), le tastiere e la meravigliosa voce soul di Gregg, fratel-lo minore di Duane. Solo la sorte poteva fermare una formazione di questa qualità; e ci riesce benis-simo visto che Duane muore il 29 ottobre dello stesso anno, seguito tredici mesi dopo dal bassista Berry Oakley. Ma la musica resta, più forte e bella che mai.

(Paolo Baiotti)

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08.08.

Creedence Clearwater RevivalCreedence Clearwater Revival Cosmo’s Factory Fantasy 1970

[386 pt.] Cosmo's Factory, il quinto e migliore album dei Creedence, è la quintessenza del Sound America-no; la band californiana riesce non solo a mescolare le sue radici, dal soul al country, dal blues al più sanguigno rock'n'roll ma riesce anche a creare una miscela esplosiva, un suono inconfondibile diretto e spontaneo. Il loro essere fuori dal tempo e dalle mode (camice a quadri, occhialoni con grosse mon-tature contro i vestiti sgargianti degli hippie dell'e-poca) è stato il loro punto di forza facendoli diven-tare i veri precursori dell'american music per tutte le band a venire. Cosmo's Factory è il punto più alto raggiunto nella loro discografia: la magia del singolo Travellin' Band, l'interpretazione da capogiri di Before You Accuse Me (Bo Diddley) insieme alle esuberanti versioni di classici della Sun Record (OobY DooBy di Roy Orbison e My Baby Left Me) sono solo alcuni esempi di una raccolta che non ha nessun calo di tono. I CCR sono capaci anche di ipnotizzarci con jam strumentali come l'ineguaglia-bile rifacimento del classico di Marvin Gaye I Heard It Through The Grapevine, con ballad senza tempo come Lookin'Out My back Door o con ruggenti swamp blues che sanno di polvere e Louisiana co-me Run Through The Jungle (con un testo sulla guerra in Vietnam). Il loro brano migliore, ricono-sciuto come un evergreen classic, è la dolce Who's Stop The Rain, una ballad capace di provocare bri-vidi alla schiena a ogni suo ascolto. Una pietra mi-liare del rock americano, da ascoltare all'infinito.

(Emilio Mera)

07.07.

Bob DylanBob Dylan

Highway 61 Revisited Columbia 1965

[420 pt.] Highway 61 Revisted, sesto album per il mene-strello di Duluth, nasce dopo un profondo cambia-mento personale; stanco di cantare le solite canzo-ni di protesta che tutti volevano ascoltare, lo ritro-viamo a 24 anni come un uomo cambiato, che in-dossa una camicia dai colori sgargianti. Di ritorno da una tournee in terra albionica comincia ad ab-bozzare un testo di sfogo di 20 pagine da cui viene tratta la famosa Like A Rolling Stones, il singolo dello scandalo, un torrente emotivo di più di 6 mi-nuti. Highway 61 è il disco della svolta elettrica de-finitiva (il precedente Bringing It all Back Home presentava solo il lato A), forse più rappresentativo dell'intera discografia dylaniana, l'album del non ritorno, del distacco definitivo dal popolo militante di Newport e del folk revival. Dylan si getta nel r'n'r e nel blues prendendo a prestito il nome dalla più famosa arteria che connette Duluth nel Minne-sota alle famose città del Sud, le strade che hanno visto la nascita del country blues e del r'n r delle origini. Le registrazioni sono dominate da uno spiri-to "free" che si respira in tutto l'album e che vede una vera e propria band, tra cui spiccano i nomi di Mike Bloomfield (della Paul Butterfield Band) alla chitarra e un giovane Al Kooper all'organo. E Dylan comincia a lanciare le sue pietre rotolanti come il blues cadenzato di Ballad Of a Thin Man, il fraseg-gio psichedelico di Tombstone Blues e le indimenti-cabili ballate di Queen Jane Approximately e Just Like Tom Thumb's. Ma la sorpresa è la leggiadra armonia dell'unica canzone acustica della raccolta, quella Desolation Row forse apice compositivo del-l'hobo del Minnesota, costruito sul picking di 2 chi-tarre. Highway rimane l'album del tradimento ma anche della sua rinascita.

(Emilio Mera)

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06.06.

Bruce SpringsteenBruce Springsteen Born to Run Columbia 1975

[470 pt.] … And the lights go out on Broadway. Dopo aver celebrato le storie e il folkore delle piccole città di mare del New Jersey, nel 1975 Bruce Spring-

steen compie il salto sull'Oceano Atlantico e, at-traversata Long Island, raggiunge New York e la fotografa, la ritrae, la dipinge; soprattutto la filma, in fotogrammi sontuosi, romantici e disperati dove la giungla d'asfalto, gli irlandesi di Hell's Kitchen, le notti ubriache, i criminali di mezza tacca con ap-puntamento sul fiume Hudson, il fuoco delle strade secondarie e una Manhattan sempre in procinto di affondare nelle acque sotto il peso di peccati e cuori spezzati si inseguono in un trompe l'oeil metropoli-tano fiammeggiante e pieno di malinconia. Nella testa dell'artista ci sono le parole vomitate da Bob Dylan e le stratificazioni di suono ideate da Phil Spector, ma le canzoni vengono rimaneggiate di continuo e i tempi di registrazione sfiorano la du-rata-record dei quindici mesi. Il risultato, intera-mente composto al pianoforte, prende la sensualità dei gruppi femminili degli anni '60, il rhytm'n'blues delle bar-bands della Costa Est e il doo-wop ita-loamericano del Bronx per rovesciargli addosso una scarica di rabbia, violenza e dramma culminante nella voglia di fuga di Thunder Road, nel rimpianto sanguinario e tagliente di Backstreets, nella gran-deur urbana in formato musical di Jungleland, nelle tastiere e nei fiati selvaggi della title-track. Born To Run ha la fisionomia di un sogno clandestino: una corsa di carne e visioni, la sinfonia di nervi scoperti e amori impossibili. Il disco di chiunque abbia mai desiderato, anche una sola volta nella vita, di scappare via.

(Gianfranco Callieri)

05.05.

Bob DylanBob Dylan

Blood on the Tracks Columbia 1975

[495 pt.] E' l'abbandono l'ispirazione più potente dell'arte. Vale anche per Bob Dylan visto che dopo essere diventato, più o meno intenzionalmente, il portavo-ce di una generazione inquieta e aver firmato l'in-nodia del movement, si affida ad un amore perduto (la separazione dalla prima moglie Sara) per com-porre uno dei suoi capolavori indiscussi. Stavolta anzichè noi adepti, è lui stesso a sentirsi dylaniato. E' impigliato nella tristezza (Tangled Up in Blue), s'inventa la consolazione di una semplice disconti-nuità del destino (Simple Twist of Fate), cerca infi-ne riparo dalla tempesta (Shelter from the Storm). Potremmo fermarci qui, ipotizzare altre chiavi di lettura ci farebbe deragliare e i binari sono già sporchi di sangue. Nulla aggiungerebbe alla gran-dezza di Blood on the Tracks, una testimonianza di dolore poliedricamente declinato: ora languido (If You See Her, Say Hello), ora rabbioso (Idiot Wind). Fa tenerezza questo Dylan non più ragazzo, che dismette i panni di cantore un po' saccente del-la protesta e rende visibile la sua vulnerabilità più intima. Nello scantinato di Montague Street la fre-nesia di Brooklyn gli arriva ovattata, anche se nei caffè gira molta musica e si respira "revolution in the air". I suoi amici immaginari sono Verlaine e Rimbaud, in testa ha una donna da reincontrare, prima o poi. Che sia a Tangeri, nella vecchia Hono-lulu o ad Ashtabula, o più semplicemente lungo qualche avenue newyorchese. Tra i cento dischi da isola deserta, a Blood on the Tracks un posto sul podio non dovrebbe essere negato.

(Donata Ricci)

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04.04.

Bruce SpringsteenBruce Springsteen The River Columbia 1980

[507 pt.] Il capolavoro di Bruce Springsteen con la E Street Band. Amaro, struggente, coraggioso, The River cristallizza un suono che poi diventerà un marchio, di più, uno stile e porterà Springsteen a confrontar-si con un tempo e con un'età sempre più difficili. La risposta è un doppio album la cui ricchezza di solu-zioni, di composizioni e di ispirazioni (si va da Hank Williams, alla fonte di tutto, alla Band, da Bob Dylan agli Stones) è parallela all'uniformità del suo-no, alla qualità delle canzoni, alla perfezione di una visione ormai adulta, precisa, completa. Il songwri-ter e la rock'n'roll band, insieme e mai così grandi (almeno in studio di registrazione), l'inizio e la fine di una grande storia americana: The River è un dia-rio a cuore aperto e le canzoni diventano, una dopo l'altra, le scene di una vita in bianco e nero a cui soltanto il rock'n'roll riesce a dare un senso. Vale la pena di riscoprire e riascoltare con rinnovata atten-zione la seconda parte di The River, quella dove (giusto per ricordarlo) Danny Federici sfodera il meglio di sé, perché è forse il lato più ambizioso, dal punto di vista del suono e del songwriting, mai raggiunto da Bruce Springsteen. Nessuno dei tenta-tivi successivi (salvo Nebraska, che è e resta un caso a parte, e per certi versi The Ghost Of Tom Joad) riuscirà a essere altrettanto ricco e focalizza-to, intenso e appassionato, come se fosse un ro-manzo più che un album. The River è anche quello, tra l'altro essendo, un disco che non finisce mai, perché contiene moltitudini.

(Marco Denti)

03.03.

The ClashThe Clash

London Calling CBS 1979

[544 pt.] Londra chiama, dopo l'esplosione tra punk e Stones di un esordio che brucia ancora per ambizione, pas-sione e irruenza. Londra chiama, dopo la "guerra civile inglese" di un secondo album prodotto da Sandy Pearlman dei Blue Öyster Cult. Londra chia-ma, e Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e Topper Headon rispondono con un'apocalisse di suoni, stili, nostalgie e colori che cita la grafica del primo album di Elvis Presley mentre un basso sta per essere fracassato sulle assi del palcoscenico. Londra chiama, e la gioventù britannica replica con un travolgente frullato di generi dove reggae, ska, garage-rock, rockabilly, disco, funky e rasoiate punk vengono attraversati con incoscienza, rabbia e furore. Londra chiama, e se la Cbs nicchia, pre-tendendo un album di sole due facciate, i "quattro cavalieri" giocano d'astuzia e fingono di contrattare per un unico lp, salvo aggiungere un extended che lo rende in pratica doppio (ma sempre venduto al prezzo di un singolo), in barba alle richieste della casa discografica. Londra chiama, e il produttore Guy Stevens, alcolizzato e drogato, già in cabina di regia per Procol Harum e Mott The Hoople, replica sfasciando sedie in studio e suggerendo di sovrap-porre doppie registrazioni di ogni pezzo, affinché tutto suoni più "grande" e definitivo. "Londra affo-ga / E io vivo vicino al fiume" canta Strummer: i Clash di London Calling celebrano la storia del rock sventrandone genitori e figli, in un album tan-to eterogeneo quanto affilato. Per tutte le vittime di guerra della vita quotidiana: "E dopo tutto questo / Non mi faresti un sorriso?".

(Gianfranco Callieri)

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02.02.

Bruce SpringsteenBruce Springsteen Darkness on the Edge of Town Columbia 1978

[574 pt.] Non esiste recensione o scritto su Darkness On The Edge Of Town che non parta dalla sofferta genesi del disco e dalla tragedia di un artista nel pieno dello zenith creativo costretto a tenere nel cassetto tonnellate di materiale di primissima quali-tà per meri motivi contrattuali. E proprio dalla scel-ta dolorosa di dover arrivare a dieci brani su alme-no una cinquantina papabili nasce anche l'eterna discussione se era questo poi il disco migliore che lo Springsteen del 78 poteva far uscire o no. Di certo, al di là della riconosciuta grandezza del ma-teriale (che ne fa il disco più amato dai suoi hard-fans), lo straordinario risultato della raccolta fu pro-prio quello di apparire come un opera unitaria, qua-si un concept-album dedicato alla grande depres-sione del sogno americano post-Nixon e post-Vietnam, un diario perfetto di quel viaggio immagi-nario che dalle Badlands del mondo post-industriale del New Jersey e delle sue oscure periferie, portava ad una terra promessa ormai lontana. Tracks e The Promise hanno dato conferma che ci sarebbe potu-to stare anche dell'altro, ma alla fine è meglio che sia andata così, perché anche la sostituzione di al-cuni brani considerati "minori" come Factory o Stre-ets Of Fire avrebbe tolto mattonelle portanti ad una costruzione pressoché perfetta. Il risultato è il suo disco più dark, l'altra faccia del tronfio e battagliero Born To Run, quella della foto di copertina dove sembra che abbia appena smesso di piangere e stia cercando una qualche motivazione per ripartire.

(Nicola Gervasini)

01.01.

The Rolling StonesThe Rolling Stones

Exile on Main Street Rolling Stones Records 1972

[613 pt.] Esiste un disco che riassume con più approsimazio-ne, abbandono, mistero e malattia la densa stratifi-cazione operata dalle e nelle radici del rock'n'roll? Probabilmente no ed è per questo che Exile on a Main St. è un luogo dell'anima prima ancora che una vera raccolta di canzoni, un rifugio per "esiliati" di ogni sorta dove sentirsi fuori posto, dalla parte sbagliata di quella strada che resta un principio di sopravvivenza e al tempo stesso una dichiarazione di intenti. Immersi in un'atmosfera orgiastica e de-candente, nella Francia dei primi anni 70 in cui ri-pararono, guidati dalla febbrile ispirazione di Keith Richards, vero condottiero occulto dell'intero pro-getto, gli Stones di Exile lambiscono la sintesi del loro schietto pensiero in termini di rock'n'roll, ap-prodando così alle fondamenta della sempre amata America. Doppio album controverso e persino non completamente compreso all'epoca della sua uscita, è in verità lo zenith di un'intera scuola di pensiero, quella che guarda più alla profondità dei legami e dei linguaggi primari del rock che non al suo pre-sunto futuro. Da qui il senso atemporale che perva-de queste canzoni: un baccanale di blues e country rurale che si affianca al rock'n'roll più spiritato e percorso da fremiti gospel, tra i capolavori Rocks Off, Tumbling Dice, Torn and Frayed, All Down the Line, Shine a Light, nella dolcezza crepuscolare e tradizionalista di Sweet Virginia e Sweet Black An-gel, fino alla restaurazione blues di Rip This Joint e Stop Breaking Down, evocando gli spiriti di Slim Harpo e Robert Johnson. Jagger canta con un ab-bandono e una lascivia che non ritroverà mai più, mentre la band balla letteralmente sul precipizio, sempre sull'orlo di un crollo, eppure mai così lanci-nante.

(Fabio Cerbone)

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100 dischi da Isola Deserta 100 dischi da Isola Deserta

Classifica Finale Classifica Finale -- Top 100 e Top 200 (Runners) Top 100 e Top 200 (Runners)

Top 100Top 100

1. Rolling Stones - Exile On A Main St. [613 pt.]

2. Bruce Springsteen - Darkness Of The Edge Of

Town [574]

3. The Clash - London Calling [544]

4. Bruce Springsteen - The River [507]

5. Bob Dylan - Blood On The Tracks [495]

6. Bruce Springsteen - Born To Run [470]

7. Bob Dylan - Highway 61 Revisited [420]

8. Credence Clearwater Revival - Cosmo's Fac-

tory [386]

9. Allman Brothers Band - At Fillmore East [377]

10. Bob Dylan - Blonde On Blonde [340]

11. Tom Waits - Rain Dogs [314]

12. Van Morrison - Moondance [259]

13. The Who - Who's Next [228]

14. Jeff Buckley - Grace [214]

15. The Rolling Stones - Sticky Fingers [203]

16. Van Morrison - Astral Weeks [201]

17. Jimi Hendrix - Electric Ladyland [198]

18. The Waterboys - Fisherman's Blues [194]

19. Dream Syndicate - Medicine Show [185]

20. Neil Young - Harvest [179]

21. U2 - The Joshua Tree [175]

22. John Mellencamp - Scarecrow [173]

23. Neil Young - On The Beach [172]

24. The Beatles - Revolver [170]

25. R.E.M. - Lifes Rich Pageant [166]

26. Ryan Adams - Gold [ 165]

27. The Band - The Band [162]

28. R.E.M. - Automatic For The People [161]

29. Counting Crows - August & Everything

After [161]

30. Neil Young - After The Gold Rush [160]

31. John Mellencamp - The Lonesome Jubilee

[159]

32. Lucinda Williams - Car Wheels On A

Gravel Road [158]

33. The Doors - The Doors [157]

34. John Hiatt - Bring The Family [154]

35. The Beatles - The Beatles (White Album)

[152]

36. Lynyrd Skynyrd - One More From

The Road [150]

37. Rolling Stones - Let It Bleed [146]

38. David Crosby - If I Could Only Remember

My Name [142]

39. The Velvet Underground - The Velvet Under-

ground & Nico [140]

40. Pink Floyd - The Dark Side Of The

Moon [137]

41. Genesis - Selling England By The

Pound [136]

42. Little Feat - Waiting For Columbus [136]

43. The Band - Music From Big Pink [135]

44. Bob Seger - Night Moves [134]

45. Lynyrd Skynyrd - Second Helping [134]

46. Jackson Browne - Late For The Sky [133]

47. Tom Petty - Damn The Torpedoes [132]

48. The Beach Boys - Pet Sounds [130]

49. The Black Crowes - The Southern Harmony

and Musical Companion [129]

50. Van Morrison - Into The Music [128]

51. Television - Marquee Moon [128]

52. Hank Williams - 40 Greatest Hits [127]

53. Led Zeppelin - II [126]

54. CSN&Y - Dejà Vù [125]

55. Tom Petty - Wildflowers [125]

56. Lou Reed - New York [123]

57. Neil Young - Rust Never Sleeps [121]

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RootsHighway Desert Island

58. Husker Du - Warehouse: Songs

And Stories [119]

59. The Black Crowes - Amorica [118]

60. CSN&Y - 4 Way Street [118]

61. Talking Heads - Remain In Light [117]

62. Bruce Springsteen - Nebraska [115]

63. Jayhawks - Hollywood Town Hall [114]

64. Otis Redding - Otis Blue [113]

65. Guy Clark - Old N.1 [112]

66. Johnny Cash - American III:

Solitary Man [110]

67. Miles Davis - Kind Of Blue [110]

68. Pearl Jam - Ten [106]

69. Uncle Tupelo - March 16-20 1992 [105]

70. Led Zeppelin - Led Zeppelin [103]

71. Radiohead - Ok Computer [102]

72. Derek & The Dominoes - Layla & Other

Assorted Love Songs [101]

73. Led Zeppelin - IV [100]

74. John Hiatt - Slow Turning [98]

75. The Beatles - Sgt Pepper's Lonely Hearts

Club Band [98]

76. Jethro Tull - Aqualung [97]

77. Bob Dylan - Oh Mercy [96]

78. Los Lobos - Kiko [94]

79. Patti Smith - Horses [94]

80. The Byrds - Sweetheart Of The Rodeo [92]

81. Quicksilver Messenger Service - Happy

Trails [92]

82. Whiskeytown - Stranger's Almanac [91]

83. Lou Reed - Berlin [90]

84. Blasters - Hard Line [87]

85. The Byrds - Younger than Yesterday [86]

86. David Bowie - The Rise and Fall of Ziggy

Stardust ad Spiders from Mars [85]

87. Pink Floyd - The Wall [85]

88. The Who - Quadrophenia [84]

89. Robert Johnson - King Of Delta Blues [82]

90. Joe Ely - Letter To Laredo [81]

91. R.E.M. - Murmur [79]

92. Jimi Hendrix - Are You Experienced [78]

93. John Coltrane - A Love Supreme [78]

94. Neil Young - Tonight's The Night [77]

95. Rolling Stones - Beggars Banquet [77]

96. Tom Waits - Blue Valentine [76]

97. Grateful Dead - American Beauty [74]

98. Leonard Cohen - Songs Of Leonard

Cohen [74]

99. Violent Femmes - Violent Femmes [72]

100. Wilco - Being There [72]

Top 200 (Runners)Top 200 (Runners)

101. Ryan Adams - Cold Roses [70]

102. Jackson Browne - Running On Empty [69]

103. Dream Syndicate - Live At Raji's [67]

104. Ry Cooder - Bop Til You Drop [67]

105. Fabrizio De André - Creuza De Ma [66]

106. King Crimson - In The Court Of The

Crimson King [65]

107. The Who - Live At Leeds [63]

108. Pearl Jam - Vitalogy [63]

109. Neil Young - Weld [62]

110. Bob Dylan & The Band - Before The

Flood (Live) [62]

111. Dire Straits - Dire Straits [60]

112. Matthew Ryan - May Day [59]

113. Husker Du - Zen Arcade [59]

114. Uncle Tupelo - Still Feel Gone [59]

115. Stevie Ray Vaughan - Texas Flood [58]

116. Led Zeppelin - III [57]

117. Nick Drake - Five Leaves Left [56]

118. Bruce Springsteen - The Ghost Of

Tom Joad [56]

119. Neil Young & Crazy Horse - Zuma [56]

120. The Stooges - Fun House [55]

121. Flying Burrito Brothers - The Gilded Palace

Of Sin [55]

122. Steve Earle - El Corazon [55]

123. The Pogues - If I Should Fall From Grace

With God [54]

124. Warren Zevon - Warren Zevon [54]

125. Wilco - A Ghost is Born [54]

Page 57: RootsHighway Desert Island

57

RootsHighway Desert Island

126. Bob Dylan - Bootleg Series Vol 5 (Rolling

Thunder Revue) [54]

127. John Mayall & The Bluesbreakers - With

Eric Clapton [53]

128. The Clash - Sandinista [53]

129. Bruce Springsteen - The Wild, The Innocent

And The E-Street Shuffle [53]

130. Wilco - Kicking Television [52]

131. The Beatles - Abbey Road [52]

132. The Beatles - Rubber Soul [51]

133. Mink De Ville - Coupe De Grace [51]

134. Van Morrison - It's Too Late To

Stop Now [51]

135. Bob Dylan - Desire [50]

136. Jim Carroll - Catholic Boy [50]

137. Paul Simon - Graceland [50]

138. Rod Stewart - Every Picture Tells

A Story [50]

139. Keith Jarrett - The Koln Concert [49]

140. Pearl Jam - Vs [48]

141. Aretha Franklin - I Never Loved a Man the

way I Love You [47]

142. Black Crowes - Shake Your Money

Maker [47]

143. Joni Michell - Blue [47]

144. The Replacements - Let It Be [46]

145. Vinicio Capossela - Canzoni A

Manovella [46]

146. Creedence Clearwater Revival - Green

River [46]

147. Eric Andersen - Blue River [44]

148. Nick Cave & The Bad Seeds - No More

Shall We Part [44]

149. Rolling Stones - Get Yer Ya Yas Out [42]

150. Natalie Merchant - Motherland [42]

151. The Smiths - The Queen Is Dead [42]

152. The Band - The Last Waltz [41]

153. Joe Henry - Shuffletown [41]

154. The Who - Tommy [41]

155. Mark Lanegan - Whiskey For The Holy

Ghost [41]

156. Neutral Milk Hotel - In the Aeroplane over

the Sea [41]

157. The Pogues - Rum Sodomy & Lash [40]

158. Uncle Tupelo - Anodyne [40]

159. Johnny Cash - American IV: The Man

Comes Around [40]

160. Gram Parsons - Grevious Angel [39]

161. U2 - Achtung Baby [39]

162. Big Star - Third/ Sister Lovers [38]

163. Led Zeppelin - Physical Graffiti [38]

164. Randy Newman - Good Old Boys [38]

165. Tom Waits - Bone Machine [38]

166. Townes Van Zandt - Live At The Old

Quarter [37]

167. Wilco - Yankee Hotel Foxtrot [37]

168. Johnny Cash - At Folsom Prison [37]

169. Del Fuegos - Boston Mass. [37]

170. Green On Red - Gas Food Lodging [36]

171. Morphine - Cure For Pain [36]

172. Sam Cooke - Live At The Harlem Square

Club, 1963 [35]

173. Elvis Costello - This Year's Model [35]

174. Marvin Gaye - What's Goin' On [35]

175. Steve Earle - Copperhead Road [35]

176. Van Morrison - No Guru, No Method, No

Teacher [34]

177. Curtis Mayfield - Curtis [34]

178. Bob Dylan - Time Out Of Mind [33]

179. Del Fuegos - Smoking in the Fields [33]

180. Phil Cody - The Sons Of Intemperance

Offering [33]

181. Nirvana - Nevermind [33]

182. Janis Joplin - Pearl [33]

183. Love - Forever Changes [32]

184. Joe Henry - A Short Man's Room [32]

185. Miles Davis - In A Silent Way [32]

186. Muddy Waters - Hard Again [32]

187. Steve Earle - Train A Comin' [32]

188. Thin White Rope - In The Spanish

Cave [31]

189. Tom Waits - Swordfishtrombones [31]

190. Janis Joplin - Cheap Thrills [31]

191. The Eagles - Hotel California [31]

192. Ac/Dc - Back In Black [31]

193. Dave Alvin - Blackjack David [30]

194. The Gun Club - Miami [30]

195. Drive By Truckers - Southern Rock

Opera [30]

196. John Lee Hooker - Live At Cafe Au

Go-Go [30]

197. Little Feat - Dixie Chicken [30]

198. The Stooges - The Stooges [29]

199. Nick Drake - Pink Moon [29]

200. The Gaslight Anthem - The 59 Sound [29]

NB: in caso di parità di punteggio nella classifica è stato favorito il

disco con un numero maggiore di singole segnalazioni, quindi il

semplice ordine alfabetico.

Page 58: RootsHighway Desert Island

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RootsHighway Desert Island