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SIAD Società Italiana Autori Drammatici MENSILE - NUMERO 10/11 - OTTOBRE/ NOVEMBRE 2012

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Page 1: ridotto marzo. 2009/ok · lo che gli altri ci insegnano nel momento in cui noi insegnamo. Credo che Orazio Costa abbia insegna-to in questo modo, in questa andata e ritorno. Un’altra

SIADSocietà Italiana Autori Drammatici MENSILE - NUMERO 10/11 - OTTOBRE/NOVEMBRE 2012M

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foto di Tom

maso Le

Pera

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EDITORIALE

Maestro assoluto di attori e registi per più di mez-zo secolo, Orazio Costa Giovangigli - come ave-

va voluto chiamarsi negli ultimi decenni aggiungendoal suo cognome quello della madre - ha messo in sce-na, oltre alle tragedie più significative della dramma-turgia classica greca, italiana e francese, quei testi chedalla seconda metà il Novecento ha espresso nel nostroPaese mettendo a fuoco un teatro problematico che siandava affrancando dalle tematiche piccolo-borghesi. A un pubblico non ancora abituato a confrontarsi conargomenti di impegno morale e civile Costa ha porta-to autori come Diego Fabbri, Ugo Betti, Massimo Bon-tempelli, Mario Pomilio, Gennaro Pistilli, Turi Vasi-le, Mario Luzi, oltre a proporre in chiave innovativa al-cuni fra i testi più stimolanti di D’Annunzio, Pirandello,Alfieri, Goldoni, e ad anticipare una riscoperta di Dan-te attraverso letture e spettacoli televisivi, sollecitan-do quel fervore di conoscenza che decenni dopo si ve-rificò nei confronti della Divina Commedia.Il lavoro specifico di Orazio Costa sui testi è rappre-sentato dalla ricerca del valore determinante della pa-rola nel contesto dello spettacolo. Il suo impegno dimaestro e formatore di attori e di registi si intrecciaal testo drammaturgico. Ed è la sua tenace capacità diportare un uomo alla sua interezza e dignità moraleprima che a farne un attore, a permanere come indi-cazione di forte segno espressivo, al di là delle mo-de e dei cambiamenti epocali.Quel suo metodo definito “mimico”, che mette in evi-denza la disponibilità di ogni essere umano a imme-desimarsi in ogni elemento naturale, fino ai concetti

e alla parola poetica, è la chiave dell’interpretazioneteatrale, ma anche la fonte di una creatività che ap-partiene a ogni creatura umana, mettendo in luce, diognuno, la capacità di rappresentare e di rappresen-tarsi, anche nella vita quotidiana. Attraverso un’in-tuizione, Orazio Costa ha anticipato studi scientificiche stanno mettendo in evidenza la capacità mimeti-ca dei neuroni-specchio, e individuando in tutta la na-tura vivente questa forma immedesimativa che lamuove, avendo nel teatro la sua espressione più altae significativa.Sono state raccolte numerose testimonianze fra quan-ti hanno conosciuto e apprezzato Orazio Costa per ilsuo modo di rapportarsi al teatro e per la sua perso-nalità. Numerose altre sono raccolte nei miei libri de-dicati al lavoro del Maestro e nei filmati.Il 14 novembre Ridotto sarà presentato al Teatro del-la Pergola di Firenze, dove Orazio Costa mise in sce-na alcuni fra i suoi spettacoli più significati. Propriosopra quel teatro il Maestro visse negli ultimi decen-ni, in un appartamento in cui aveva tenuto per quin-dici anni le lezioni del MIM, il Centro di Avviamen-to all’Espressione aperto ai cittadini di ogni età e cul-tura per offrir loro, con l’appoggio del Comune di Fi-renze, l’esperienza sollecitante del metodo mimico. Sarà un’occasione per far conoscere la nostra rivista,nella testimonianza di un apporto culturale e moraleda proiettare in un futuro in cui speriamo di vederepubblicati i suoi “Quaderni”, straordinario percorsodi riflessioni sul complesso universo culturale di piùdi mezzo secolo.

DEDICATO A ORAZIO COSTA

Questo numero di Ridotto vuole ricordare Orazio Costa nel centenario della sua nascita, a oltre dieci anni dalla morte

Orazio Costa(Roma, 6 agosto1911 - Firenze,14 novembre1999) durante una prova di Amleto con gli allievidell’Accademia,al Teatro StudioEleonora Duse,1992

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Io non ho nessuna competenza per parlare di Ora-zio Costa, se non il piacere e l’onore di aver pub-blicato nella collana da me diretta con CarmeloAlberti di Venezia che si chiama “La Fenice deiteatri” questo libro, talmente bello, che mi è tal-mente piaciuto che l’ho subito voluto pubblicare1. Prima delle due parole che ho pensato di dirvi,voglio notare che il fatto che stasera sia qui presen-te una specie di “crème de la crème” del teatro ita-liano dia luogo a una riflessione su quanto oggimanchino delle occasioni di questo genere, occa-sioni di ripensamento nel globale del teatro, checos’è, a che cosa serve, a parte Costa che è unesempio fondamentale, ma proprio credo il bisognodi andare un po’ alle radici, superando la routine,superando questa quotidianità delle cose di teatro…Questa forse è una situazione di questo genere, per-ché la personalità di Orazio Costa conduce a unripensamento globale del teatro. Io credo che questo libro sia importante, sia unesempio di come si dovrebbe fare la storia del tea-tro, cioè quanto più è possibile, naturalmente io lodico in senso autocritico perché io non sono dentroil teatro, quindi le poche cose che ho fatto di storiadel teatro le ho sempre fatte all’esterno, quasi tutte,salvo alcuni innamoramenti che mi hanno portato aguardarlo dall’interno. Io credo invece che la storiadel teatro vada fatta quanto più è possibile dall’in-terno, cioè partecipando, stando dentro, vedendocos’è, come funziona, come si dice, ci sono deimomenti di gloria e dei momenti oscuri, deimomenti bui, insomma seguirlo. Questo libro è fatto dall’interno del teatro di OrazioCosta, e devo dire che Maricla con molta eleganzafa parlare Orazio Costa moltissimo, quindi è unlibro di documenti, di documentazione; natural-

mente come ben sappiamo chi intervista è respon-sabile di quello che dice e in una certa misuraanche delle risposte che arrivano, perché le rispostesono risposte a domande, quindi fra domanda erisposta c’è una grande complicità, un grande meri-to reciproco. E’ un libro che ci documenta il lavorodi Orazio Costa, lo documenta dall’interno, lodocumenta con molta passione, con molta affetti-vità, naturalmente con molta intelligenza. Per una persona che è all’esterno del teatro diciamo“militante” come in questo caso sarei io, le coseche mi colpiscono di Orazio Costa enormementesono le seguenti: prima di tutto una formazione let-teraria di ferro, cioè una conoscenza dei testi, dellatraduzione, italiana non italiana, assolutamente svi-scerata, assolutamente capita, con intelligenza, conuna competenza, con una conoscenza straordinaria. Il secondo punto, credo che sia importante per Ora-zio Costa il contatto con Copeau, l’esperienza diassistente e di qualcuno che condivide questa ideadi Copeau di un teatro prosciugato fino all’essen-ziale, cioè un teatro che via via si libera degliorpelli e che si prosciuga fino all’essenziale; e que-sto essenziale che cos’è?, è questo miracolo di uncorpo che parla, che esprime qualcosa di fonda-mentale non per questo o quell’altro, ma per l’uo-mo; credo che questa cosa che è in Copeau passi aOrazio Costa, e senza eccessive schematizzazionidirei che Orazio Costa è il Copeau italiano, è ilCopeau che abbiamo avuto, che forse non abbiamosaputo meritare e non abbiamo saputo valorizzarecome i francesi avrebbero valorizzato un gioiello diquesto genere.La terza cosa che vorrei sottolineare è l’atteggia-mento umilmente didattico di Orazio Costa, cioè ilfatto che la didattica sia non solo un’arte, una voca-

ORAZIO COSTA È IL COPEAU ITALIANO

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Franca Angelini

1 Maricla Boggio, “Il corpo creativo - la parola e il gesto in Orazio Costa”, Bulzoni, 2001.

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zione, ma quasi – come dire?- un obbligo spiritua-le, quello di comunicare quello che si sa e di inse-gnare agli altri quello che si sa; naturalmente chiinsegna sa bene che si insegna sempre imparandoqualcosa dagli altri, quindi l’insegnare non è unpercorso a senso unico, ma un percorso di andata eritorno, si insegna quello che si sa e si impara quel-lo che gli altri ci insegnano nel momento in cui noiinsegnamo. Credo che Orazio Costa abbia insegna-to in questo modo, in questa andata e ritorno. Un’altra cosa che mi colpisce molto è questa idea delmetodo come gioco, questa cosa che si dice anche nelfilmato, cioè il metodo che parte dal bambino chegioca; infatti “jeu” è la parola che sostiene l’attivitàteatrale dell’attore che “joue” che fa “jeu”; natural-mente bisogna approfondirlo, ha ragione Musati adire che bisogna lavorarci anche dal punto di vista

scientifico, antropologico, bisogna farlo, ed è da fare;però io voglio ricordare l’esempio che fa Freud sulgioco del bambino – il gioco del rocchetto, lo chiamaproprio “gioco” – che soffre per la mancanza dellamadre e aspetta che la madre torni inventando questogioco del rocchetto che lancia e fa tornare indietro,inventando due parole che sono il “fort” per l’andaree il “da” per ritornare; ecco, questo “gioco del fort edel da” come lo descrive Freud è il momento dellosmarrimento dell’abbandono e della solitudine dellamadre che noi occupiamo giocando. Il gioco non èmai frivolo, è sempre l’occupazione di qualche cosache ci manca, e magari il teatro è proprio questo, inattesa di raggiungere qualche cosa che ci manca ocomunque per sostituire qualche cosa che ci manca,per supplire a una grave mancanza; così questo rap-porto con il “jeu”, con il gioco è fondamentale, aquesto punto sarebbe il caso di pensare. Voglio leggervi una cosa per terminare, ve la leggosolo perché è inedita, una lezione di Testori al TeatroOut Off di Milano nel 1988, che ha raccolto una miaallieva, e con questo termino. Naturalmente se laprende con la scenografia, con la scenotecnica, le luci,i costumi, insomma tutti gli orpelli: dico “naturalmen-te”, non è che queste cose non servano, però nel casodi cui ci stiamo occupando è chiaro che questo teatroè un teatro di attori, per gli attori.

E io non avrei potuto dire meglio quello che pensodi Orazio Costa.

Il primo regista italiano è Orazio Costa

Giovanni Testori

Teatro Out Off, Milano, 1988

“Questo canto, questa specie di paranoia della scenografia, della luce,dell’illuminazione è di pari passo la diminuzione di chi nel teatro assie-me all’autore è la colonna sacrificale, è colui che esegue il sacrificionella cerimonia teatrale come cerimonia sacrificale, cioè dell’attore chenon ha più avuto margine o forse nemmeno oggi margine, se non quelliche gli vengono concessi da questo autore senza parola, da questo auto-re che vive su una strada tradita, che è il regista demiurgo. Non è uncaso che il primo regista italiano non è né Strehler né Visconti, ma èOrazio Costa; è il primo vero regista italiano che oltre a tutto a un certopunto è il primo e il più grande, peccato che soltanto pochissimi di voiricordino – siete giovani – le sue regie di prima della guerra e di subitodopo la guerra; io ho memoria dei “Sei personaggi” fatto da Costa, e viassicuro che è uno di quegli avvenimenti di teatro totale unici a cui mi èaccaduto di assistere; ecco, non è un caso che col crescere di tutte lestrutture teatrose, statali, parastatali, comunali, paraculiche, che si sonocreate in Italia, Costa sia stato messo da parte e il nostro paese ha ilprivilegio – come dice un grande - di dissipare i propri poeti”.

Orazio Costadavanti alla scena, di TullioCosta, per “Sei personaggi in cercad’autore”, 1948

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Andrea Bisicchia

Ho visto “Mistero della Natività, Passione, eResurrezione di Nostro Signore”, con la regia

di Orazio Costa al teatro lirico di Milano l’11 feb-braio 1965, fui, pertanto, testimone di una serataindimenticabile che Paolo Emilio Poesio su LaNazione definì “eccezionale” e non si trattava dellaprima volta, dato che Costa, già nel 1939, lo avevarealizzato con La Compagnia dell’Accademia eripreso nel 1951 e nel 1956. Perché tante volte?Semplicemente perché il regista ne aveva fatto unvero e proprio manifesto programmatico, attraversoil quale riformulava la sua idea di teatro concepitocome centro della comunità, mettendo in pratical’insegnamento di Copeau, sostenuto teoricamenteanche da Mario Apollonio.Negli anni del neorealismo o del realismo dialetti-co, quasi in contrapposizione, andava diffondendo-si un teatro che poneva, non tanto l’uomo, quantolo spirito al centro della sua ricerca e, in quantospecchio del mondo, si verificava in teatro, quantoaccadeva in politica, nel senso che, mentre,durantela prima Repubblica, si affermava sulle tavole delpalcoscenico una sorta di materialismo dialetticoche rafforzava l’esplosione della sinistra, si con-trapponeva ad essa l’ansia spiritualistica dellademocrazia cristiana, dall’altra parte registi comeCosta, studiosi come Apollonio e Doglio, autoricome Fabbri e Pinelli rappresentavano la rispostacattolica a Visconti, Pandolfi, Strehler, Squarzina.Nel 1940 sul Dramma (15 novembre) Costa, a pro-posito del suo “Mistero” così scriveva: “Il palco-scenico appare nella gran luce del suo tendaggiodorato, vuoto. Lentamente, compunti entrano gliattori, tranne la vergine e gli angeli, si dispongonoa semicerchio, si guardano: attendono qualcosa:entrano due angeli all’estrema destra e all’estremasinistra. Sono essi a invitare gli attori tutti a saluta-re la vergine e a rivolgerle una preghiera; la pre-ghiera nasce sulle labbra di tutti col suo tono dichiesa. Ora un Angelo evoca l’Annunciazione,l’altro Angelo gli risponde, ed ecco appare un pri-mo prodigio. Dietro le spalle degli attori raccolti insemicerchio il velario d’oro si accende di traspa-renze, la scena evocata appare: presso gli archettila Vergine e l’Angelo”. In questo suo incipit, ilregista sosteneva, a viva forza, la matrice spiritualee l’ispirazione religiosa del suo teatro, attenta acogliere il senso profondo della rappresentazioneche doveva coincidere con quello di una comunitàpartecipativa che va a teatro per ritrovarsi, per

cogliere una specie di unità con la propria esisten-za. Ci si trovò dinanzi a una scelta controcorrentein un momento in cui la scena italiana si assumevaun compito ben preciso, quello di entrare nellastruttura sociale, più che spirituale, della comunità,una scelta che intendeva essere per i cattolici:“Imitazione creatrice che rivive nell’umana consa-pevolezza, nel verbo vivificato dallo spirito, la ric-chezza ontologica del reale”, secondo una defini-zione data da Mario Apollonio, per il quale nullaera comprensibile senza il mistero del Verbo. Laparola, quindi, al centro della scena, una parola“vivificante” che si trasforma in azione non appe-na pronunziata, se non, addirittura, in liturgia, inaltre parole, in contemplazione dell’Essere, o,meglio ancora, in mediazione tra esistente ed Ente;una parola che faceva tutt’uno col corpo concepitoin funzione spirituale, in maniera del tutto diversada quella del materialismo che lo considerava unasemplice sovrastruttura. Costa, sin dall’inizio dellasua carriera di regista, scelse il linguaggio del cor-po costruito su una mistica dualistica, un corpo chediventa coro secondo la dottrina e la prassi teoriz-zata ancora da Apollonio, concepita come parteci-pazione attiva al mistero della vita, della morte e

IL MISTERO:LA PAROLA AL CENTRO DELLA SCENA

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della resurrezione. In questa idea del corpo erapossibile individuare anche quella della mimesi,ben diversa dalla mimica essendo, quest’ultima,utilizzata professionalmente e convenzionalmentedall’attore, mentre la mimesi a cui Costa facevariferimento conteneva, in embrione, quello chesarà il suo metodo “mimico” per il quale rimandoai quattro volumi di Maricla Boggio1. Per ritornareal “Mistero” del 1965 non si possono non ricorda-re l’esperienza del Teatro Romeo, fondato nellostesso anno, oltre che i risultati acquisiti durante icinque anni del Piccolo Teatro della Città diRoma, esperienza fondante per Costa che gli per-mise di mettere in atto la sua rivoluzione estetica,quella che partendo da un testo, andava in cercadelle problematiche profonde che esso conteneva eche Costa non cercava altrove. A lui interessavaun’idea diversa di Altrove, quella che coincidevacol mistero dell’esistenza e, proprio perché miste-ro, con quello della fede. Ciò appare ancora piùevidente nella messa in scena citata soprattuttoall’inizio dello spettacolo quando maestranze eattori sono impegnati nella costruzione di un tem-pio dove poter rappresentare le Laudi frutto diun’idea di teatro comunitario che, per alcuni seco-li, aveva dettato le sue leggi alla scena medievale,quando il sacro era espressione di una realtà ope-

rante all’interno di una società non ancora assog-gettata a una riflessione tutta moderna; quando lareligiosità primitiva, in quanto fonte di un’origina-ria drammaturgia, aveva permesso di destare nel-l’uomo il sentimento del sacro inteso come parte-cipazione a qualcosa di sublime, di sorprendente,di misterioso; quando la religiosità di dottrina siera appropriata del sacro, mentre la scena lo ripro-poneva o restituiva nella sua forma più elementare.La rivoluzione di Costa consistette proprio nell’en-trare dentro questo dominio del sacro, di riscoprir-lo, di farlo vivere come universalmente umano, dimetterlo in costruzione così come si può mettere incostruzione una cattedrale, col fervore della parte-cipazione e del lavoro collettivo; ma se, per ognicostruzione è necessaria una base, alla stessamaniera, ne occorre una sulla quale appoggiare ildramma del Mistero, a cui Silvio D’Amico avevadedicato alcuni anni della sua ricerca che dovevaconfluire in uno spettacolo ideato nel 1937 per unanniversario giottesco a Padova. Il noto critico erascomparso nel 1955, ricordarlo, a dieci anni dallamorte, si trasformò in un omaggio al Maestro.Paolo Grassi lo ricordò su una pagina del program-ma di sala che riporto integralmente data l’ecce-zionalità e la difficile reperibilità del documento. Dopo il debutto, le critiche di destra e di sinistra non

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1 I quattro volumi firmati da Maricla Boggio, tutti pubblicati da Bulzoni nella Collana La fenice dei teatri diretta da Franca Ange-lini e Carmelo Alberti,fra il 2001 e il 2009, sono “Il corpo creativo – Orazio Costa il gesto e la parola”, “Mistero e teatro – Ora-zio Csota, regia e pedagogia”, “Orazio Costa, maestro di teatro”,“Orazio Costa prova Amleto”.

Il Mistero al Piccolo, un omaggio a D’Amico

Paolo Grassi

“A Silvio D’Amico la società italiana, la cultura italiana, la scena di prosa, gli uomini diteatro, soprattutto coloro delle nuove generazioni debbono il sostanziale riconoscimento diaver individuato, combattuta, condotta e vinta la grande battaglia per il rinnovamento delnostro teatro, vuoi fondando l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, prima scuola diStato di teatro in Italia, vuoi difendendo e affermando ogni spirito rinnovatore nella dram-maturgia e nell’interpretazione, vuoi difendendo e affermando il diritto di cittadinanzaanche in Italia di quella “regia” (naturalmente intesa nel senso di interpretazione critica)che aveva cambiato il volto del teatro europeo e alla quale il teatro italiano teneva tenace-mente chiuse le porte. Al di là dei volumi delle “Cronache” recentemente apparsi al di làdi tutta la pubblicistica a disposizione, al di là delle opere compiute, di Silvio D’Amico tut-ta una generazione di uomini di teatro conserva intatto il ricordo vivo di una “presenza”straordinaria che in sede nazionale e internazionale ha insegnato a molti di noi a guardareil teatro in un certo modo, a fare il teatro in un certo modo, a servire il teatro con consape-volezza estetica e civile. Silvio D’Amico è stato e ci è stato Maestro in tutto ciò: a distanzadi dieci anni dalla sua scomparsa Il Piccolo Teatro ha ritenuto che potesse avere un parti-colare significato riproporre al pubblico italiano quel “Mistero” della Natività, Passione eResurrezione di Nostro Signore che, altrimenti chiamato talvolta “Donna del Paradiso” era stato unafelice fatica di Silvio, fatica che egli aveva anche inserito in quella Compagnia dell’Accademia d’ArteDrammatica che Egli stesso aveva diretto il primo anno. La riproposta del “Mistero” al pubblico italianoda parte del Piccolo Teatro ha anche questo significato: un tributo straordinariamente sincero e profon-damente sentito di affetto, di riconoscenza immutata al Maestro e all’Amico indimenticabile.”

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si lasciarono attendere; Carlo Terron, sulle pagine delCorriere Lombardo (12 febbraio 1965) ironizzòalquanto sull’operazione, essendosi trattato, a suoavviso, di un espediente del Piccolo Teatro di “ado-perare Jacopone da Todi per farsi perdonare Brecht”,insomma di “un’operazione bassa e redditizia, comemettere il Venerdì Santo al posto del giovedì grasso,o “il Capitale “sotto la copertina della Bibbia”. Tuttala prima parte della recensione fu utilizzata da Terronper polemizzare con lo Stato maggiore marxista delPiccolo Teatro che si riposava dalle fatiche populisteprendendo esempio da Pilato. Pur dovendo ammette-re che si trattò di una messinscena spettacolare,applauditissima, Terron la definì un’idea “peregrinase non proprio originale”. Sulle pagine di Rinascita(10 aprile 1965), in occasione del debutto all’Olimpi-co di Roma, Bruno Schacherl entrò in polemica conl’idea stessa di un teatro cattolico in Italia, che secon-do lui, è una storia di ripetuti fallimenti “non tantoper una generale impossibilità di un teatro religiosoin un mondo moderno, quanto piuttosto per la ten-denza che ha prevalso tra gli uomini di teatro cattoliciche è fondata sulla concezione dello spettacolo comerito e liturgia, al di qua di ogni dialettica spirituale eideale, perduta dietro un sogno fittizio di medioevo,scontro che era già avvenuto in occasione della mes-sinscena del Galileo di Brecht con la regia di Streh-ler,accusato, da una parte della critica cattolica,inverità un po’ estremista,di blasfemia e di elefantismoproduttivo. Il difetto che il critico del settimanalecomunista imputava allo spettacolo era l’assenza delrealismo, quello che, per esempio, aveva riscontratoin un testo analogo, come la Passione di Czesto-chowa, messa in scena dal regista polacco Dejmek.Ancora una volta lo scontro avvenne sulla contrappo-sizione di due correnti, quella spiritualistica e quellarealistica. A ben guardare la messinscena, Costa, pro-prio all’inizio dello spettacolo ,fa agire il mondo dellavoro, quello delle Arti e Mestieri, degli operai, del-

le maestranze, degli artigiani, dei vetrai, dei pittoriche, su ponteggi e impalcature svolgono la loro atti-vità durante la costruzione di una cattedrale in cuiidentificare il proprio modo d’essere, la propria voca-zione, se non la propria fede. Se trascuriamo le ideo-logie e cerchiamo di spiegare quanto accadeva sulpalcoscenico dove si muovevano più di cinquantaattori, in una produzione altrettanto elefantiaca,non sipuò non riconoscere la chiave popolare della rappre-sentazione con la conseguente ispirazione religiosa,come se a Costa interessasse mettere in scena un’e-sperienza autentica, dettata dal mistero della fede,quello che, in fondo, era il vero significato del Miste-ro. Dietro tutto questo c’era anche un’idea ludica delteatro, il gioco come simbolo del mondo (titolofamoso di E. Fink ) rappresentata da tutti quei bambi-ni che, nell’ora di pausa, chiedono ai lavoratori dirappresentare la Passione, Morte, Resurrezione diCristo, essendo nato, in loro, il desiderio di veder agi-re i personaggi che appartenevano ai racconti ascolta-ti più volte dai loro genitori. In fondo, il mito cristia-no è ricco di favole, come lo era stato quello greco,favole edificanti che, per il credente si trasformavanoin azione e, per Costa, in spettacolo, se non addirittu-ra in un’idea di teatro in cui credere e per cui battersi,un teatro il cui scopo era quello di fondere teofania emisticismo e di concepire la regia come un vero eproprio atto spirituale.

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Silvio D’Amico,Costa, Barrault in Accademia

“Mistero dellaNatività,

Passione eResurrezione di

NostroSignore”, laudidel XIII e XIV

secolo,adattamento di

S. D’Amico,edizione del

Teatro Romeo,1965

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Simone Faucci

Approdo di domani, ormai raggiuntaisola, o luna, sogno di strateghi,ti contendono a noi calcoli e macchine.Ancora per poche ore resti immunedi logistiche offese, ancora assempria lettere d’amore, amato viso.Non v’è più ignota terra che ci attendanei sogni, senza frastuoni,se non fra gli astri irraggiungibilmente.

Questo scrive Orazio Costa Giovangigli nel 1952 co-me reazione al progetto che l’uomo voleva anda-

re sulla luna. Questo mi rimane quando, come un tic, li-scio con le dita la medaglietta d’argento che il maestroCosta fece fare tanto orgogliosamente per il “grande”evento dello sbarco sulla luna: superficie lunare sul da-vanti, incisione “La luna in mano 23-7-969 Per fede nel-la poesia da Orazio Costa Giovangigli” sul retro.Questo mi fa pensare a una vita dedicata al teatro conforte poesia e sensibilità. Io conobbi Orazio Costa nel1996, quando appena maggiorenne volli intraprenderela strada dell’attore. Non sapendo dove sbattere la te-sta dopo alcune esperienze non molto positive, apriiun libro di storia del teatro e cercando quali fosseroi grandi maestri viventi del nostro teatro trovai due no-mi: Giorgio Strehler e Orazio Costa Giovangigli.Il primo stava a Milano e allora non era agevole per meraggiungerlo; l’altro stava a Firenze, guarda caso proprionella città dove abitavo. Mi dissi: “Andare subito da lui!”.Mentre cercavo in tutti i modi un suo contatto, mi fudetto che avrei trovato semplicemente il suo numerosull’elenco telefonico e che lo avrei potuto tranquil-lamente chiamare. E così fu: ottenni un appuntamento.Con la mia ingenuità e ignoranza non sapevo chi sta-

vo andando a incontrare, cioè sapevo il nome di que-st’uomo ma non proprio quello che rappresentava.Forse fu questo atteggiamento un po’ naif che fecescattare in Costa una simpatia nei miei confronti. Mi ricevette un pomeriggio e lo passammo a parlare ditutto tranne che di teatro: parlammo della bellezza del-le pietre preziose, dello snowboard che aveva visto intelevisione e che secondo lui era un’arte, del rapportodi un essere singolo nella società e soprattutto del rap-porto tra me e un mio nonno morto tre anni prima del-la mia nascita; il mio atteggiamento era euforico manello stesso tempo un po’ stranito. Alla fine, dopo treore di conversazione, dal nulla mi chiese se avessi qual-cosa da fargli sentire e io gli risposi che ero andato dalui col cuore in mano solo a chiedere dei consigli; luimi chiese di ritornare con qualcosa di pronto. E così fe-ci: nonostante la paura che si impadroniva di me reci-tai davanti a lui, forse grazie all’onda che stavo caval-cando nata da quel mio stato così naif.Quella volta non so ancora cosa combinai, ma mi sonoreso conto che non feci niente di sconvolgente, almenoin senso positivo. Dopo mi diede “consigli-correzioni”su quello che avevo fatto e mi chiese se ero interessatoal suo metodo: avrebbe avuto piacere di seguirmi! Sem-pre col mio spirito naif, risposi: “Sì, sì…”, rendendomiconto solo a metà di quello che mi stava capitando. Co-sì iniziò questo rapporto quasi poetico, che in qualchemodo ancora esiste, con questa austera anziana figura cheio non ho conosciuto come la ritraggono altre testimo-nianze, ma che ho conosciuto come un “nonno-maestro”. Non solo c’era un rapporto maestro-allievo ma anche unconfronto di due persone in cui Orazio Costa aveva bi-sogno di “passare qualcosa”. È stata un’urgenza da par-te sua di trasmettermi l’insegnamento per imparare il “fa-re per il fare”: l’atteggiamento che uno deve avere quan-do intraprende una strada, una scelta che si voglia per-correre. E tutto questo me lo ha trasmesso senza che iome ne accorgessi, sapendo che lo avrei scoperto via viache percorrevo la mia strada, con la sua luna in mano.

LA LUNA IN MANO

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Orazio Costasfoglia “Luna di casa” a casaBoggio, 1992

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Orazio era stato compagno di liceo di mio padre(il critico e autore Giorgio Prosperi), ne aveva

sempre conservato l’amicizia, li univa anche la pre-dilezione di Silvio D’Amico: Orazio ne aveva eredi-tato la direzione dell’Accademia d’Arte Drammaticae mio padre la rubrica di critica teatrale sul quotidia-no Il Tempo. Fin da bambino lo vedevo girare per ca-sa. La sua presenza era carismatica, il motivo che lomuoveva era sempre una qualche sfida intellettuale.Ricordo una volta che, svegliandomi al mattino perandare a scuola, dopo che Orazio aveva cenato connoi, trovai che i miei genitori erano ancora svegli dal-la sera precedente, ascoltando Orazio leggere il Fi-lippo II di Alfieri – leggere, interpretare, commenta-re, rileggere – e avevano perso del tutto il senso deltempo. Parevano svegli, ma erano pallidi e stremati,i loro occhi era come se stessero sognando. C’era qualcosa che spiazzava e metteva soggezionein Orazio. Fedele alla fede cristiana, che condivide-va con D’Amico e con l’altro suo maestro, JacquesCopeau, ne era un difensore laico, non popolare macolto e aristocratico, come Manzoni di cui era uno stu-dioso appassionato. Io ero un po’ spaventato da Orazio, il suo rigore sicontagiava a chi lo avvicinava, se ne restava avvintima anche intimiditi. Di me, dei miei fervori, si accorseche ero ancora un liceale e si propose di indicarmi lastrada. Andai a pranzo con lui in un ristorante del-l’Acqua Acetosa; era un commensale gradevole,aveva molta comunicativa con i giovani, era già mae-stro all’Accademia di molti tra i migliori artisti ita-liani, quasi tutti i più bravi. Ma io non pensavo di fa-re l’attore, ero attirato più dallo scrivere. E il teatromi appariva qualcosa di pericoloso. A Orazio debbo il garbo, la finezza e la testimonianzadiretta con cui presentava il lavoro teatrale al massimodelle sue virtualità intellettuali. Era molto originale inquesto. L’intellettuale italiano aveva tradizionalmenteclassificato il teatro come qualcosa di non del tutto de-gno di uno scrittore. La recitazione era se mai un’arteminore. Orazio era affascinato da un’idea antica, sacra,rituale in cui la parola era per il gesto, e l’espressionedel viso non doveva commentare psicologicamente labattuta ma assumere l’identità spirituale del personag-gio e la sua centrale tensione drammatica: se fosse sta-to Eschilo avrebbe anche lui introdotto la maschera.

Le persone da lui conquistate lo seguivano spesso in mo-do eccessivo. Assumevano di Orazio lo sguardo pene-trante, la voce tagliente, il corpo magro, agile, il gestomimico tutt’uno con la parola, energico, scandito, ipno-tico. Cito Vittorio Gassman, Roberto Herlitzka, Gian-carlo Giannini, Gabriele Lavia. Ci misero del tempo afuoriuscire da quel modello. Chiunque fu iniziato al tea-tro in quegli anni a Roma fu condizionato profondamentee quasi unicamente da Orazio Costa. Anche persone chedissentivano da lui come, su versanti opposti, Luca Ron-coni e Renzo Giovampietro, ne portavano i segni.Io non m’iscrissi all’Accademia. Cercavo di fare all’u-niversità più esami possibile di letteratura, storia, filo-sofia… ma vidi Cesco Baseggio in una straordinaria in-terpretazione del Parlamento de Ruzante, quindi feci lamia tesi di laurea sul Ruzante, e lo studio del teatro ri-nascimentale mi ricondusse a Orazio Costa. Il quale erastracarico di debiti per l’esperienza del “Piccolo” di Ro-ma che, diversamente dal Piccolo di Milano, non ave-va trovato soldi e appoggi e aveva dovuto chiudere.La cultura di sinistra avanzava e la fedeltà di OrazioCosta alla tradizione culturale cristiana e a un reper-torio di classici – come Sofocle, Dante, Jacopone daTodi, Shakespeare, Molière, De Vigny, Manzoni, acui associò alcuni contemporanei come l’Eliot del-l’Assassinio nella cattedrale, il Copeau del Poverel-lo di Assisi, fino al Mario Luzi di Ipazia – ne facevaun testimone scomodo, avversato con insofferenza dachi gli contendeva il magistero intellettuale e ancheil denaro pubblico. Il Teatro di Roma che nacque, do-po l’esperienza del “Piccolo” con la presidenza di Vi-to Pandolfi, chiamò piuttosto come regista LuchinoVisconti. Gli stessi allievi dell’Accademia, di cui Ora-zio era stato il maestro carismatico, cominciarono adopporgli una contestazione ideologica.Ma Orazio non si piegò, proseguì anzi sfidando col suorigore qualunque compiacenza. Costituì un teatroprogrammaticamente religioso che chiamò teatro“Romeo”, ovvero pellegrino, in una accezione fran-

ORAZIO ERA AFFASCINATO DA UN’IDEA ANTICA, SACRA, RITUALE IN CUI LA PAROLA ERA PER IL GESTO

Mario Prosperi

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cescana sulle orme di Jacques Copeau. Ricordo di que-sto teatro una rappresentazione del Mistero – laudi me-dievali montate da D’Amico in uno spettacolo già ne-gli anni Trenta – in un grande teatro con un numeroeccezionale di attori, nella scena bellissima che mo-strava una cattedrale in costruzione. La rappresenta-zione, fascinosa e autorevole, ebbe quella sera, mecompreso, spettatori tre. C’era della gloria in quell’e-vento, che mi metteva però – ancora – un po’ di sog-gezione. Non sapevo allora che gli attori indiani, unavolta alla settimana, eseguono lo spettacolo senza ilpubblico, come offerta agli dei; e l’esecuzione – dicechi se ne intende – è per solito la migliore della setti-mana. Orazio Costa andò infatti in India, prima che tut-ti lo facessero; e studiò forme di teatro (ram-lila) den-se di mito e di rito; in più perfezionò la sua pratica del-lo yoga che non lasciò più per tutta la vita. Io fui suo assistente alla regia nel 1974, prima di an-dare a New York con una borsa di studio. Era un’I-figenia in Aulide di Euripide nel teatro immenso di Si-racusa. Io curavo certe correzioni che Orazio esige-va nella traduzione di Eugenio Della Valle. In più, ca-poralescamente tenevo in riga i giocatori di calcio delSiracusa che, in abiti di Achei, creavano il contestomilitare dell’accampamento in Aulide. La protago-nista, Clitennestra, era Gabriella Giacobbe, già riccadi rapporti interpretativi con Orazio. Gabriella avevaprotestato per il costume – di Valeria Costa, sorelladi Orazio – e il giorno della prima era visibilmentecontrariata. Nel teatro c’erano circa diecimila spet-tatori. Io stavo in un retropalco a volta con il carro ei cocchieri che dovevano portare Clitennestra nellospazio dell’orchestra con la figlia Ifigenia - Ilaria Oc-chini- destinata al sacrificio. Ma, al momento di sa-lire sul carro, Gabriella Giacobbe non si trova. Unacoreuta corre a dire che “Gabriella si sente male”. So-no spedito a dirlo a Orazio perché fermi lo spettaco-lo già iniziato. Io mi precipito. Orazio era al centrodella cavea, con un fazzoletto in testa a quattro nodicome portavano gli operai per difendersi dal sole e,

saputo che la protagonista non entrava in scena, sor-rise con una strana determinazione e mi disse: “Cli-tennestra la leggi tu”. Feci appena in tempo a torna-re sul carro che questo si mosse, mentre il Coro in-tonava i benvenuti in versi alla regina. Io avevo i jeanse la maglietta con il coccodrillo, il copione in manoe, per uno che non desiderava recitare, la situazioneera paradossale. Vedevo Orazio che ridacchiava di-vertito; il pubblico mormorò (nessuno lo aveva av-vertito della sostituzione), ma rimase al suo posto. Ioleggevo ad alta voce; lo spettacolo proseguiva. Ma sa-pevo che a un certo punto Achille - Osvaldo Rugge-ri -, vedendo Clitennestra (nell’occasione io) diceva:“Vedo là una donna ed ha un aspetto nobile!”.Ero rassegnato alla risata di diecimila persone e la ri-sata venne, inevitabile. Ma non così impietosa come miaspettavo. Quelle persone ascoltavano la storia che Eu-ripide stava raccontando; avevano tollerato che Cli-tennestra fosse questa impropria cosa, ovvero il loro im-maginario veniva sostituendo quello che trasmetteva laretina e non mi chiedevano, sorprendentemente, di es-sere neutro, ma di esprimere senza tante storie i doloridi quella regina. Orazio mi guardava col suo sorriso sar-donico, mi aspettava al varco; ed io intonai, nell’into-nazione che ben conoscevo di Gabriella Giacobbe: “Ahi, madre, ahi, figlia! / Fugge tuo padre e me / al-l’Ade abbandona!”Sentii il pubblico soddisfatto, avido di potersi com-muovere, benché straniato, e salii, scesi con i tonidrammatici della protagonista, tacqui e piansi, male-dissi Agamennone (il mio grande amico Renzo Gio-vampietro, che era più sbalordito di me). Per Orazioera una riuscita, una festa. Alla fine mi presi tanti ap-plausi, i complimenti del traduttore Della Valle,quelli esilarati di Raffaele La Capria, che era lì qua-le marito di Ilaria Occhini (Ifigenia). Orazio aveva vinto in tutto. A me aveva svelato “sulcampo” che avrei fatto, benché tardivamente, l’atto-re; e anche Gabriella Giacobbe, risanata, accettò il co-stume che Orazio le aveva assegnato.

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Orazio Costa con MariclaBoggio durante le riprese del film“L’uomo e l’attore- Orazio Costa,lezioni di teatro”,a Taormina con “Il mercante di Venezia”, 1986

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Marco Giorgetti

Meglio di qualunque racconto, può far com-prendere qualcosa di questo specialissimo

rapporto lo scritto che ho ritrovato fra i miei appun-ti di studio di attore.Teatro Verdi di Pisa, fine anni Settanta. O forseBagni di Lucca, o altro luogo toscano.Riunione / convegno delle maggiori scuole di tea-tro europee, giornate di lavoro e studio in cui ci siconfronta approfonditamente sulle metodologie, sicomparano risultati, si affrontano le complesse pro-blematiche della pedagogia del teatro. Fra i grandimaestri presenti non può mancare Orazio Costa edunque la nuova struttura che ha fondato a Firenzeda quando ha lasciato più o meno volontariamentel’Accademia Nazionale di Roma: il Centro diAvviamento all’Espressione. Lì lui non forma atto-ri, ma uomini, facendo, per uno strano comunedestino, lo stesso percorso del suo maestro Copeau.Nella giornata finale della manifestazione ogniscuola mostra il meglio dei suoi studi e delle suemetodologie, i suoi migliori allievi.Attori tedeschi, norvegesi, inglesi, italiani, di scuo-le importanti come quella del Piccolo e altre, si esi-biscono in maniera strepitosa e pirotecnica davantia un pubblico composto da esperti e da appassiona-ti in un teatro gremito per un evento unico.Orazio Costa vuole che noi, suoi primi allievi delCentro di Avviamento all’Espressione, siamo rigo-rosamente presenti, ma non ci farà esibire. Noi sof-friamo molto per questo, perché vediamo i colleghiche mostrano tutti una tecnica super strutturata inpezzi teatrali tecnologicamente confortati, strap-pando applausi, apprezzamenti, delusioni. Spetta-colo! E noi lì a guardare…Arriva la volta del Centro di Avviamento all’E-spressione, annunciato dal conduttore.Dopo i lampi e i fulgori degli altri, le luci progres-sivamente si spengono, poi dal buio una piccolaluce accompagna l’ingresso quasi dimesso di unbambino che si ferma al centro del palcoscenicovuoto. Orazio Costa si alza con calma dalla suapoltrona in platea, si appoggia al proscenio e vol-tando le spalle al pubblico si rivolge al bambino.Costa: Ciao AndreaAndrea: CiaoCosta: Quanti anni hai Andrea?Andrea: SetteCosta: Andrea, com’è il vento?Andrea esegue la mimica del vento.Il pubblico ha una reazione di sorriso e di tenerezza.Costa: E la pioggia?Andrea esegue.

Costa: E il fumo?Andrea esegue con assoluta agile efficacia tutte leimmagini che Orazio Costa via via gli suggerisce,in un crescendo di ritmi, materie e complessitàstraordinario per varietà e completezza, suscitandoreazioni sempre più stupite del pubblico fino a verie propri boati di ammirazione.Il pubblico è rapito dalla straordinaria forza di unbambino che gioca le diverse immagini in una dan-za di una leggerezza strepitosa, apparentementesenza alcuna fatica, annientando completamentetutto quanto fatto prima dai super tecnici e superstrutturati attori delle altre scuole. Dimenticati,azzerati da una forza che assomiglia a quella dellaVerità, fatta di acqua, grandine, erba, vento,fumo… A un tratto Costa lo ferma un istante perfarlo riposare.Costa: Andrea, che cos’è il teatro?Andrea: Non lo so bene, ma penso che sia questo,cioè che io sono qui e tutti gli altri lì, però sempregiocando seriamente.Costa: Che cosa ti piace di questo nostro gioco?Andrea: Che posso fare senza nulla tutte le coseche voglio e che se un giorno ho voglia di andare almare e non posso andarci, io lo posso fare.Costa: Fare cosa?Andrea: Il mare. Ma anche la montagna, il sole eanche il gatto che io vorrei ma che la mia mammanon vuole prendere.Costa: Com’è il tuo gatto, me lo fai vedere?Andrea realizza il gatto (un gattino piccolo e mor-

IL TEATRO DI ANDREA

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bido proprio come lo vorrebbe lui) in modo talmen-te convincente e toccante che il pubblico scoppia inun lunghissimo applauso fragoroso.Orazio Costa prende in collo Andrea e salutando esce.

Questo è il ricordo più indelebile che ho di queiprimi miei incontri con il Metodo.Esperienza travolgente e indimenticabile, lezione diumiltà che il mio Maestro dette a tutti coloro cheerano presenti e che mi ha aiutato ad accettare econtinuare questo lavoro per tutto il resto della miaesistenza in una continua inesausta ricerca.Ancora oggi, se continuo a ricercare ancora in tea-tro insegnando, studiando, recitando è per ritrovarela semplicità travolgente di Andrea.La cerco in ogni attore, e ancora in me, in ognigesto o spettacolo, ovunque avvenga qualcosa chesi possa chiamare teatro.La cerco senza ancora trovarla con quella compiu-tezza disarmante che ricordo come fosse ora, quellaassoluta travolgente semplicità.Che sia questo il segreto che ci ha lasciato?

L’unico premio che avrebbe considerato tale, rispon-deva a chi gli offriva l’occasione di una serata d’o-nore, sarebbe stato quello di tornare sul palcoscenicoa leggere Alfieri per un pubblico di bambini.

Dall’anno della sua morte il Teatro della Pergola, alquale ha affidato il suo patrimonio documentale elibrario, per iniziativa del sottoscritto e di MariclaBoggio, ha continuato a mantenere viva la memoriadel Maestro con momenti celebrativi, presentazioni dilibri e video e con laboratori di Metodo Mimico rivol-ti a giovani, appassionati e attori in perfezionamento.Con la nascita della nuova Fondazione Teatro dellaPergola rinasce anche a pieno titolo il Centro diAvviamento all’Espressione, che si propone comesettore di attività formativa e di studio della Fonda-zione stessa, in continuità con le finalità di quellocreato da Costa alla fine degli anni Settanta per ladivulgazione e il perfezionamento costante delMetodo e per lo sviluppo di una ricerca che, comesappiamo, per la natura stessa del teatro e dell’uo-mo, è inesauribile.

Orazio Costadurante unaesercitazionemimica tenutadalla insegnanteCinzia Ulivelli, coni bambini dellascuola materna diPonte agli Stalli,Firenze, 1986

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SINTESI MEMORIALE DI UN’AMICIZIA

Mario Luzi

(…) Conobbi Orazio quando nei suoi programmi di-dattici di drammatizzazione di testi letterari decise diaffrontare con i suoi allievi la Vita nuova di Dante.Ero stato fino ad allora contrario per principio alleconversioni teatrali di opere nate in altra forma e strut-tura. Quella recita a cui Orazio mi chiese di assiste-re mi indusse a cambiare parere: la potenza dram-matica nascosta negli eventi interiori e chiusa nelleperfette forme di quell’opera giovanile di Dantevenne tutta in luce come drammaturgia nuda e sa-piente. Fu una rivelazione nuova di un libro a cui eromolto devoto.Da allora cominciammo a tenerci al corrente, di noi,del nostro lavoro. Nel 1978 Orazio mi comunicò cheavendo adottato nella sua scuola come testo di quel-l’anno la mia Ipazia, desiderava concludere il corsocon un saggio di recitazione pubblica e mi chiedevail consenso e la collaborazione. Quel saggio tenuto inun salone dell’Educandato della SS. Annunziata a Pog-gio Imperiale divenne poi la prima ufficiale all’Istitutodel Dramma Popolare a San Miniato. Non avevo maiscritto per il teatro se non molti anni prima, antefattodimenticato, pietra oscura. Neanche scrivendo Ipaziasecondo una morfologia drammaturgica avevo pensatodavvero a una possibile rappresentazione.Ebbi allora modo di ammirare la sua lettura affilata,aderente, precisa: questa offriva e questa esigeva da-gli attori; da là doveva sprigionarsi l’energia della re-citazione. Dalla intelligenza effettiva doveva nasce-re il pathos. E su questo mi pareva implacabile. Qual-che attore di grido sopportava male la sua regia. Tut-tavia lo ammirava. Del resto era stato il maestro diquasi tutti all’Accademia.Ci ritrovammo poi affiancati nella preparazione di Ro-sales per il teatro di Genova che esordì però al Mag-gio fiorentino, nel 1983, alla Pergola.Ci furono poi occasioni innumerevoli di collabora-

zione a partire dalle letture dantesche nella chiesa diBadia che curò meticolosamente per anni. Anche iolessi qualche canto della Commedia davanti a quelpubblico, in quella atmosfera.Ci furono anche vagheggiamenti, sogni che rimase-ro tali. Un desiderio inappagato di Orazio fu che io micimentassi con Emmaus. Era un tema vertiginoso dicui si parlò più volte. Ma io non lo sentivo in formadrammaturgica, ma piuttosto come un assoluto sim-bolico. Lui però insisteva e io non rinunziai del tut-to al progetto, intanto gli anni passavano.Il fatto è che Orazio era, sì, un grande uomo di teatroe aveva insegnato il teatro a tutta la mia generazionee alle seguenti, ma lo era in una visuale più ampia ecerta di poesia. Era dottissimo nella letteratura poeti-ca di ogni età e la composizione di poesie occupò nonpoca parte del tempo che l’attività teatrale gli lascia-va libero. In anni recenti scelse con l’aiuto di Sauro Al-bisani alcuni gruppi delle sue poesie e ne fece un vo-lume cospicuo a cui stesi una breve prefazione. Conun fermo risentimento stilistico soggettivo passavanoin quelle pagine parecchie delle fasi di ricerca dellapoesia novecentesca in Italia e in Europa. La sua ari-stocrazia naturale e ben coltivata traspariva subito. (…)

Lo scritto è tratto da ETInforma dedicato al ricordodi Orazio Costa all’epoca della sua scomparsa, 2000

Mario Luzi sullaterrazza di CasaCosta a Firenze,

con MariclaBoggio, OrazioCosta e GiannaGiachetti, 1986

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TUTTE LE VOLTE MI VENIVANO LE LACRIME

Mario Ferrero1

Tutte le sere che ero lì vicino al suggeritore, per da-re i segnali di luce e queste cose qui, mi ricordo

che tutte le volte mi venivano le lacrime. Tutte le se-re… pensa!, io poi assolutamente laico come so-no…Infatti non si parlava mai tra me e lui di fede edi queste cose. Tutti mi dicono che le cose religioseche ho fatto sono state molto belle, e io ho detto sem-pre: “Perché avevo dietro Costa”, perché ero nato aquella scuola, e le cose religiose anche non creden-doci mi sono sempre venute piuttosto bene. E la pre-dica degli uccelli era veramente straordinaria perchéera una cosa così semplice, proprio alla Copeau, quel-le cose fatte con niente… – nel “Miracolo di Sant’U-liva” il mare in tempesta erano dei teli bianchi che gliattori facevano il gesto di scuotere, ma non da fuori,in scena, e questi lenzuoli sembravano il mare in bur-rasca - , e la regìa del “Poverello” era un po’ così, per-ché quando San Francesco – Pierfederici faceva lapredica agli uccelli, tutti i frati erano messi per que-ste scale che guardavano San Francesco di spalle al

pubblico, e cominciavano ognuno a fare un verso diun uccello, che si erano studiati tutti, e si capiva chequesti uccelli andavano addosso a San Francesco per-ché lui cominciava a fare così con la mano perché seli sentiva sul collo, sulla testa, gli facevano il solle-tico... Poi a un certo punto lui li via; questo fffrrrr equesti qui che si voltavano erano una cosa incredibi-le, veramente! E la morte era un momento straordi-nario, e le stigmate!…C’erano dei momenti di regìameravigliosi. E devo dire che per tutta la vita, anchequando ci siamo trovati in Accademia, perché anch’ioero stato chiamato a insegnare, Orazio mi ha detto:“Pensa Mario che io ho fatto “Il Poverello” in venti-due giorni!”. Anche “Le Carmelitane”, uno degli spet-tacoli a cui tenne di più e che ottenne un enorme suc-cesso, ebbero poche prove. C’erano tanti suoi allie-vi, Edmonda Aldini, Anna Miserocchi, e poi la Mal-tagliati, Ave Ninchi che faceva la seconda Priora, eWarner Bentivegna, Mauro Carbonoli, Luca Ronco-ni che allora recitava, e anche Monica Vitti, che sichiamava ancora Marisa Ceciarelli, e c’era anche Ti-no Carraro. E io lo spettacolo lo portai io in tutta l’I-talia, da Enna fai conto ad Aosta, lui non venne per-ché rimaneva a Roma al Teatro, e noi si andò con que-sta cosa che ebbe un successo enorme dappertutto. Costa delle volte aveva delle intuizioni splendide. Adesempio, l’impostazione del secondo spettacolo del suoPiccolo Teatro di Roma quando si era ancora al teatrinodi via Vittoria: in quello spazio Costa decise di fare un“Edipo re”, dove il Messaggero lo interpretava De Lul-lo. Lui disse: “Siamo al teatrino, non siamo a Siracu-sa, devo inventare qualche cosa”. E inventò questoMessaggero che era rimasto talmente sconvolto dal ve-dere Giocasta impiccata, che aveva come perso la vo-ce, per cui arrivava sfinito e tutta la sua battuta la di-ceva con voce roca, smozzicata, balbettante, ed erastraordinario. Venne su Luchino e a Orazio disse del-le cose bellissime: “Dio, ma che bella trovata che haiavuto! Questa cosa ci ha preso lo stomaco”.

1 Mario Ferrero (1922-2012) parlò di questa sua esperienza a Casa Boggio, il 7 febbraio 2004.

Orazio Costa con la madre alla“prima” de “IlPoverello” diCapeau a SanMiniato, 1950. A destra ValeriaCosta - sue lescene - insieme aCosta e D’Amico

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UNA VOLTA ME LO CARICAISULLA VESPA

Riccardo Bàrbera

Nel 1977 succedono tante cose importanti per l’Ita-lia, alcune per me: termina Carosello in tv, arre-

stano Vallanzasca, contestano Luciano Lama, in RAIva in onda Mistero buffo di Dario Fo tra le polemiche,in America esce il primo Guerre stellari,Tortora presentaPortobello, Orazio Costa non insegna più in Accademia,l’Accademia non ha più una sede, io entro in Accade-mia. Il telegramma è ancora là, ingiallito. Mi ero iscrit-to all’esame di ammissione due anni prima, spinto da unasuperficiale e temporanea (pensavo) passione. Non sapevobene perché fosse così importante l’Accademia Nazionaled’Arte Drammatica Silvio D’Amico; qualcuno mi con-sigliò Milano… Strehler… “Scherzi? – mi disse un altro- Alla D’Amico c’è Orazio Costa!”. E mi spiegano chiè. Io faccio domanda, a Palazzo del Drago a via Quat-tro Fontane, affreschi e fregi dappertutto, faceva un po’paura. Sul muro un elenco di insegnanti. Camilleri, Ber-tinetti, Musati, Perno, Salveti, Povoledo, Pampiglio-ne… e Costa? Eccolo, scritto a parte, importante. Pas-sa un vecchio; chiedo a un tizio: “Scusi, quello lì è Ora-zio Costa?”. Macché, è un usciere. “Sei qui per iscri-verti? Inutile provarci, tutti raccomandati”. Certo, c’èpressione dall’alto – penso - tutti vogliono studiare conOrazio Costa. Quell’anno non si fecero esami d’am-missione (Palazzo del Drago fu dichiarato inagibile),e dopo un altro anno, universitario – ormai dimenticodi palcoscenici, partecipo per sfizio e mi prendono. Co-noscerò Orazio Costa? No, non c’è più. Chiedo. Un al-lievo dalla chioma ricciutissima (Fantastichini) mi rac-conta che Orazio (così lo chiama) è stato duramentecontestato dagli allievi 75/76 che gli imputavano prin-cipalmente il fatto stesso di essere un maestro, anzi, IlMaestro, tanto da metterlo nelle condizioni di ritirarsia Firenze per fondarvi la sua scuola di preparazione ediffusione del Metodo Mimico. A Firenze. Ma qui?Chiedo: ma non ci sentiremo sbandati senza più pro-fessori? Quelli del terzo mi rispondono infastiditi: “Glisbandati sono loro. Che vuoi che ti insegni un regista?Il SUO teatro. Si privilegia il lavoro di gruppo e la ri-cerca. L’improvvisazione e la scrittura scenica”. Il tempo passò in una sequela di esperienze dominatedall’assenza di Costa, ma anche da mille incontri, pas-sioni, vita. La diaspora delle lezioni in vari luoghi del-la città, l’assessore alla Cultura Nicolini che, alla gui-da di un Ciao sgangherato, ci consegna in un appun-tamento segreto alle prime luci del giorno le chiavi peroccupare una scuola in disuso, Camilleri e i suoi mil-le aneddoti, il fascino di Jacobbi, l’incredibile Musatiche insegnava storia del teatro in caffetano e zoccoli,Vera Bertinetti (chioccia per noi tutti), il Living Thea-

tre (con la scoperta che non improvvisavano un belniente, ma, come i Grotoskiani e i Barbisti, erano se-guaci di una difficile e precisissima tecnica di base), leimprovvisazioni sonore con Alvin Curran, il mimo conMarise, e poi le esperienze col giovane Prosperi frescodella sua esperienza americana, Maricla Boggio col suoapproccio drammaturgico e le sue “Troiane” e poi Mo-nica Vitti, Ronconi e la Fabbri… Tutti gli attori che contavano, però, nel mondo del tea-tro, erano stati forgiati da Costa, e lo dichiaravano congrande sussiego. Noi no. Una sera, a fine lezione, qual-cuno disse: “E se lo chiamassimo?”. “Chi?”. “Costa”.“Ma và, quello è a Firenze e ormai ce l’ha con l’Acca-demia”. “Beh, provarci…”. Qui mi soccorre la memo-ria di Miana Merisi. Compagna di allora e amica di sem-pre. Abbiamo figli che hanno l’età nostra di allora.“Miana, chi telefonò a Costa?”- E lei, come se il ’78 nonfosse 34 anni fa: “Fu Vera Bertinetti”. E’ vero, l’inse-gnante con cui avevamo un legame più profondo era,tra gli insegnanti rimasti in Accademia, l’unica che aves-se ancora rapporti strettissimi col Maestro. Raccolse ilnostro disagio e chiamò. E fu il miracolo, ma un mira-colo segreto. Qualche settimana dopo Orazio Costa Gio-vangigli, un mito vivente, sessantasette anni suonati, pre-se a Firenze a spese sue il primo treno del mattino. Giun-to a Roma, fu caricato su una ’500 cadente e condottoal mitico teatrino di Via Vittoria. Ad attenderlo lì, unaquindicina di allievi “carbonari” un gruppo misto tra letre classi. Questi carbonari si erano procurati occulta-mente le chiavi del teatro. Entrammo, salimmo sul pal-co, Quell’uomo canuto, elegante, asciutto, dagli occhimobilissimi, invece di piazzarsi su una poltrona, si se-dette in terra a gambe incrociate, con una leggerezza eun’agilità insospettabili e iniziò a parlare a bassa voce.Voce flautata. Mi limiterò a ricordare solo una delle pri-me frasi che disse (mutuando Copeau) “Il mestiere sen-za arte non ha ragione di esistere, ma l’arte senza il me-stiere è un fantasma inafferrabile”. Dopo tre ore lo ri-portammo alla stazione. Risalendo sul treno disse, luia noi, “Grazie”. I magici incontri si ripeterono, dome-nica dopo domenica, per qualche settimana, di nasco-sto. Una volta me lo caricai sulla Vespa. Tremavo gui-dando. Avevamo paura a parlarne con chiunque, per-ché temevamo che ce lo vietassero. Perché è stato co-sì generoso con noi? Non posso dire di averlo avuto co-me insegnante, perché la cosa non risulta da nessun do-cumento ufficiale. Non mi ha mai diretto in una regia.Mi/ci ha solo incontrato, ed erano incontri da par suo.

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COSTA AVEVA IL CORAGGIODELLO SPIRITO

Andrea Camilleri

(…) Costa, uno dei cervelli più acuti che abbia maiincontrato in vita mia.(…) Quando nel ’50 mise in scena “Il poverello” di Co-peau, assistetti ad una irruzione di Silvio D’Amico chevoleva sconsigliare Costa dal rappresentare quel testo:gli sembrava un elenco telefonico. Orazio lo mise in sce-na lo stesso e devo dire che è lo spettacolo più bello cheabbia mai visto in vita mia. In virtù di quella capacità cheCosta aveva di scoprire la spiritualità che ogni atto di tea-tro contiene. Voglio fare un esempio. Nel finale del pri-mo tempo, Francesco, finalmente spoglio dei vistosi abi-ti da ricco, indossato il saio fatto di juta, scalzo, con unbastone in mano, felice della trovata povertà, faceva unurlo sovrumano ( con il quale Tonino Pierfederici rischiòdi rimetterci i polmoni) poi spezzava il bastone sul gi-nocchio, e cominciava a ballare da solo seguendo un suopensiero. Credevo che ci avrebbero linciato. Invece ci fuun momento di commozione e di applauso a scena aper-ta. Costa aveva il coraggio dello spirito.(…) L’unico maestro che ho avuto e che sono dispostoa riconoscere come tale è Orazio Costa. Cosa con-servo del teatro? La mia aspirazione di scrittura cheè già ne “La concessione del telefono” o “Il birraio diPreston” è di arrivare ad una sorta di sguardo extra-diegetico. Quando si apre il sipario, vediamo appari-

re due personaggi che nessuno ha descritto. Li ve-diamo in quel momento e desumiamo tutto dal mo-do in cui parlano. Ora a me succede di scrivere i dia-loghi e da questi desumere l’aspetto fisico dei perso-naggi: è quasi una prassi teatrale e non letteraria. Fac-cio uso, per esempio, di quelli che Orazio chiamavai colpi di scena minuscoli che poi preannuncianoeventi importanti: tutti i miei romanzi sono costruitisecondo una scenica teatrale anche se teatrali non so-no. Più in generale, è confluita nel romanzo l’idea del-lo spettacolo, nel senso che io non riesco a scrivereun capitolo in senso tradizionale, ma per sequenze. (…) Gli anticipai che il romanzo che stavo scriven-do ( “La gita a Tindari”, Sellerio) l’avrei dedicato alui. Perché racconto, tra le altre cose, il rapporto mi-mico di un uomo con un albero.

Le dichiarazioni di Andrea Camilleri sono tratte dal-l’intervista di Katia Ippaso apparsa su ETInforma de-dicato a Orazio Costa, 2000.

In basso, la scenade “Il Poverello”alla fine dellospettacolo. In altoal centro RossellaFalk, gli ultimi adestra AntonioPierfederici - San Francesco - e Costa

A destra, AndreaCamilleri durantele prove di unospettacolo inAccademia

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“NON MALE, MARIANO”

Mariano Rigillo

“Non male, Mariano – mi dicesti e per la primavolta sentii il mio nome attraversato dalla tua

celebrata erre - però se avessi messo la tuta l’avrestidetta meglio”. (Già, la “tuta” quasi tutti noi la met-tevamo malvolentieri!) Mi avevi voluto in “pedana”per sentirmi dire “Le ricordanze” di Giacomo Leo-pardi! Fu questo il nostro primo rapporto diretto. Mimettesti in guardia : “Attento a non compiacerti del-la tua voce. Non lasciarla sedere in gola! Diventeràinespressiva, ti sarà difficile modularla, muoverla,cambiare registro e tante altre cose necessarie per da-re VITA a quello che dici.”“VITA, ragazzi, VITA! “ – dicevi spesso per spro-narci. “Dite quello che dite! Attenti a sapere sempreciò che state dicendo.” L’ho tenuto ,e tengo ancora og-gi, sempre in mente. Dopo quel primo anno ricco di scoperte e pieno di in-tense aspettative per noi allievi, meravigliosamenteproiettati in un nuovo mondo, all’improvviso, ci la-sciasti orfani. Partisti per l’India. E noi tutti a sforzarci per tenerevivi e mettere a frutto i tuoi preziosi ammaestramenti,

benevolmente aiutati dai migliori tra i tuoi assisten-ti, Andrea Camilleri (sic!) e l’infaticabile Paolo Giu-ranna. Ritornasti. Ma si faticò a vederti. Sembravamo tutti come gli apostoli dopo la notiziadella resurrezione del Cristo. Qualcuno veniva a ri-ferire di averti visto e diventava immediatamente unprediletto dalla sorte e certo un po’ lo invidiavamo!Poi, quasi a fine anno, apparisti! Finalmente! Al terzo anno, però, ti dedicasti a noi con rinnovataenergia e molto lavorammo insieme, anche con lapartecipazione di alcuni insegnati del presente o del-l’immediato passato, tra cui Elena da Venezia e Car-lo d’Angelo …. Circostanza fortunata per noi si rivelòl’assenza di allievi registi nel nostro corso. E allo-ra, dopo averne scelto i testi, decidesti di curare tustesso la regìa dei nostri saggi finali!.Ed ebbi così la grande e invidiata fortuna di essere date scelto e guidato nell’interpretazione del pastoreBrand, protagonista dell’omonimo dramma di H. Ib-sen! Esperienza forte e indimenticata! Rimasta sem-pre presente in me per tutti i personaggi che ho in-terpretato fino ad oggi, e non sono pochi. L’ultimo in ordine di tempo (settembre2012) è statoPulcinella, offertomi dal Napoli Teatro Festival Ita-lia. Non un Pulcinella qualunque intendiamoci, manientemeno uno scritto e interpretato a suo tempo dalgrande Antonio Petito. Temevo molto, ma tutto è an-dato benissimo. Perché dietro quella maschera insieme con me sei sta-to ancora una volta tu, Maestro mio, Orazio amatis-simo! Ti abbraccio forte con amore e gratitudine gran-de. Tuo Mariano

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Luca Ronconi

(…)Abbandonando il punto di vista generale a vantaggiodi una prospettiva più personale, devo subito co-minciare con l’ammettere che per primo appartengoalla gran massa degli uomini di teatro italiani che nonpossono negare i propri obblighi di riconoscenza neiconfronti di questo grande Maestro. Nel biennio1951-52/1952-53 ebbi Costa come insegnante di re-citazione in Accademia e in quegli anni mi trovai pu-re a seguire le sue lezioni di regia; subito dopo il miodebutto come attore sotto la guida di Squarzina in Trequarti di luna nel 1953, proprio diretto da Orazio Co-sta mi trovai poi a cimentarmi nella mia seconda pro-va d’attore in una messa in scena di Candida di Geor-ge Bernard Shaw prodotta dal Teatro Stabile di Ro-ma nel 1954. Il successivo appuntamento professio-nale – ma questa volta a ruoli invertiti – col mio exinsegnante risale a una ventina d’anni dopo la mes-sa in scena shawiana appena ricordata, quando vol-li cioè Orazio come attore nella versione televisivadi Orlando furioso. Al di là delle profonde differen-ze di gusto e di orientamento culturale che ci hannoseparati, non posso e non voglio nascondere che Co-sta ha ricoperto un ruolo determinante nella mia for-mazione teatrale. Certo non mi sono mai riconosciutonel metodo Costa, ma da Costa ho imparato la ne-cessità di fondare su basi etiche (più ancora che mi-stiche) il rapporto con la scena, il piacere di analiz-zare le questioni interpretative risollevandole divolta in volta secondo le loro irriducibili specificitànell’ambito di una robusta “quadratura” intellettua-le e, pur se forse sulla base di diversi presupposti este-tici, con Costa ho condiviso la passione per la paro-la-in-scena. In fondo alle origini della mia visione delteatro come momento di conoscenza c’è anche l’ideacostiana del teatro come “misura dello spirito”, alleradici del mio approccio empirico all’esperienza re-gistica ci sono i ricordi di certe lezioni di Costa e dicerti suoi suggerimenti su come “scartocciare” – misi passi il termine – logicamente i problemi di sen-so; forse il mio rispetto quasi maniacale del testo nonpoggia sulla fede nel logos, ma sicuramente la curaattenta che cerco di dedicare alla restituzione teatra-le della parola non è troppo lontana dal rigore con cuiCosta “leggeva in scena” Ibsen o Molière, Goldonio Alfieri o i classi del teatro religioso medioevale. E’proprio per questa via, ossia attraverso un aperto ri-conoscimento di quanto ho appreso da Orazio Costa,che posso arrivare a parlare del senso autentico diqueste mie frammentarie note.

A fronte della sincera ammissione dell’influenza cheCosta ha avuto sul mio percorso teatrale, influenza chea dire il vero non ho mai voluto negare o celare, c’èda parte mia un’acuta percezione dell’ingratitudineche, di fatto, ho riservato, e forse in questo non sonoahimé stato il solo, a questo grande uomo di teatro. Siachiaro che chiamando in causa la società teatrale ita-liana – o quanto meno parte di essa – nel mio discor-so non intendo sottrarmi a quelle che sono e so esse-re le mie personali responsabilità, né, men che meno,voglio accusare qualcuno in particolare, ma sforzan-domi di essere il più possibile lucido vorrei cercare direndere il giusto riconoscimento a Cosa, tentando, perquanto possibile, di trarre anche da un avvenimentodoloroso come la sua scomparsa un insegnamento oper lo meno un motivo di riflessione. Credo sia fuordi dubbio che, fatte alcune debite eccezioni, il teatroitaliano, di cui torno a dire io per primo faccio parte,si sia mostrato nei fatti, anche se certo non per deli-berata cattiva intenzione, irriconoscente verso OrazioCosta, che proprio il teatro italiano ha consacrato l’in-tera esistenza: l’isolamento in cui non si può negareCosta abbia vissuto negli ultimi anni della sua vita èlì a dimostrarlo, costringendoci a prendere posizionisu quale sia l’essenza dei nostri costumi teatrali. (…)

Il testo è tratto da una dichiarazione riportata suETInforma dedicato alla scomparsa di Orazio Costa,2000.

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PIÙ CHE UN MODELLO DI TEATRO, UN ESEMPIO DI VITA

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Ilaria Occhini1

Il mio essere attrice è stato legato totalmente, in-fluenzato totalmente da Costa; tutte le mie speran-ze, dove arrivare, con me stessa, è stato sempre Ora-zio il mio maestro, il mio ispiratore è stato lui. E do-po la sua morte mi è successa una cosa molto strana.Anni prima avevo fatto delle letture di Dante, a Paler-mo; la cosa meravigliosa era che io queste letture le pre-paravo, poi andavo da Orazio e lui, in maniera maga-ri superiore, faceva esattamente la mia lettura, per dir-ti come io ero entrata bene nel suo mondo. Un anno do-po la sua morte, a Palermo io avevo da fare un cantodifficilissimo del Purgatorio; l’ho studiato, secondoOrazio; sono sicura di aver fatto una buona lettura, hoavuto successo, ma il fatto di non avere lui – che perme è stato un padre spirituale -, non mi fidavo più.Tu sei stata sua allieva in Accademia. Si era già ma-nifestata allora questa sintonia con lui?Forse allora non aveva una totale fiducia in me… Eramolto severo nel suo giudizio, anche se ti voleva be-ne. Il mio debutto con lui l’ho fatto dopo, nella “Fran-cesca da Rimini2”. Ero già fuori dall’Accademia; ave-vo fatto con Luchino Visconti “Uno sguardo dal pon-te”. Orazio mi chiamò per Francesca, e fu una grandeesperienza sul verso, ho ancora il copione tutto segnato.Costa voleva proprio che ognuno facesse sue le in-dicazioni che lui suggeriva. Dopo questa primaesperienza, hai avuto altri incontri importanti con Co-sta, per esempio la Nina del “Gabbiano”.L’abbiamo fatto solo in televisione, ma lavorando co-me se fosse per il teatro; un mese di prove. Era av-venuto questo. Facevamo un “Oreste” con lui, in ra-dio, e io vedo entrare Gabriele Lavia,. un ragazzi-no…,, si mette a sedere e brrummmm!, aveva un vo-cione! Io lo guardo e lo riguardo - allora in televisioneavevo un nome forte – e dico: “Dottor Costa, può fa-re Costantino, Lavia?”. “Cerrto che potrrebbe!”. “ Eio potrei fare Nina?”. “Ci devo pensarre…”.Costa non aveva ancora previsto di fare “Il gabbia-no” in televisione?No, sono stata io, a suggerirglielo. Molte cose, inTV… Anche il Duvigny, “Chatterton”. Poi, in teatro,“Tre sorelle”…In occasione dello spettacolo lui scrisse quella no-

ta polemica, “Crisi della regìa”3…Lui aveva un lato distruttivo. La polemica la portava a de-gli estremi che poi non gli consentivano di fare lui. Mitelefona Squarzina, che allora era direttore del Teatro diRoma: “Ilaria, ho trovato la cosa per Costa!”, tutto feli-ce; perché io allo Stabile con Squarzina facevo “CasaCuorinfranto” e mi ero messa in mente di fare una co-sa con Costa perché mi sembrava ridicolo, vergognoso,che lui non facesse più delle regìe. “Telefono subito aOrazio”, mi dice Squarzina e io: “Ah! Che bellezza!”. MaCosta poi tanto ha fatto, che non l’ha messo in scena. Purtroppo dopo la messa in onda “Carmelitane”, dicui Ilaria era una delle protagoniste, è stato distrut-to dalla stessa televisione, una distruzione che lo ave-va amareggiato particolarmente.È stata una cosa di una crudeltà, aver distrutto le “Car-melitane”! Noi le abbiamo provate un tempo enormein rapporto ai giorni di prove della TV… Lo sai checos’erano “Le Carmelitane” per lui, e per me è statoproprio un fatto spirituale e religioso. Io ero Blanchede Le Fort, Costanza era la Lazzarini, la Madre Su-periora la Maltagliati. Era talmente forte lo sforzo in-teriore di concentrazione, che non era solo la perso-na che parlava, ma proprio uno spirito che parlava at-traverso questa faccia, e mi ricordo questi occhi gran-di, questa tensione… Orazio poi era molto contento,e mi è rimasta così impressa questa mia interpreta-zione, per dire “Guarda a che cosa può arrivare un at-tore con un regista, un autore e un personaggio!”.

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NON ERA SOLO LA PERSONACHE PARLAVA, MA PROPRIO UNO SPIRITO

1 M. Boggio ha incontrato Ilaria Occhini nella sua casa, il 6 feb-braio 2004.

2 “Francesca da Rimini” di Gabriele D’Annunzio andò in sce-na nel 1960 a Gardone, al Teatro del Vittoriale.

3 Con il titolo “L’uomo del teatro” un documento pubblicato in“Mistero e teatro”, Bulzoni, 2004.

“Francesca daRimini,

protagonista laOcchini. Le

musiche erano diRoman Vlad,Teatro delVittoriale,

Gardone. 1960

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Glauco Mauri1

Volendo esprimere su Costa le cose che sentoprofondamente, è come se avessi una tavoloz-

za con tanti colori, perché Costa è stato per me tea-tralmente la persona più importante. Io ho comin-ciato a recitare quando avevo quindici anni e tremesi. E quando sono salito sul palcoscenico di unaparrocchia, a Pesaro, mi sembrava che il palcosce-nico fosse la mia casa; però poi sono entrato inAccademia, e Costa mi ha spiegato che cosa è ilteatro. Innanzitutto, la cosa che devo a lui oltre agliinsegnamenti che mi ha dato come maestro, è statoun insegnamento di base. Ho sempre creduto, dagiovane, che la regola - la disciplina - fosse un tar-pare le ali alla fantasia; invece Costa mi ha inse-gnato che la disciplina, specialmente se uno haqualità artistiche, non è una cosa che ingabbia latua fantasia, ma che dà modo alla tua creatività - sec’è - di potersi manifestare con più sicurezza: equesta è la cosa fondamentale che mi ha datoCosta. Il nostro lavoro prima di tutto è un artigiana-to - qualcuno può fare cose artistiche -; la discipli-na che mi ha inculcato Costa è stata - come ti possodire? - una cosa bella che ha fatto germogliare inme la fantasia, e questa è stata una delle primecose, fondamentali che ho imparato da Costa.(…)Io devo tutto a Costa, mi ha insegnato tutto. Gene-ralmente quando si pensa di mettersi al servizio diun personaggio, lo si pensa sempre in modo superfi-ciale. Costa mi ha insegnato a mettermi al serviziodi un personaggio partendo dalla radice del perso-naggio. Poi a livello tecnico Costa mi dato altriinsegnamenti, quel famoso “rintotetivo” - ritmo,intensità, tono, tempo, timbro, volume...- che rac-chiudeva un po’ tutte le regole... Ti sembrerà strano,ma quando io ho cominciato a conoscere e a studia-re Brecht, tante cose che Brecht dice io le avevo giàimparate con più poesia da Costa. Quando lui ha

fatto “Il poverello” di Copeau a San Miniato, c’erauna cosa strepitosa, ed era la predica agli uccelli chefaceva Tonino Pierfederici, l’interprete di France-sco. Io ero al primo anno dell’Accademia, fra gliattori c’erano Edmonda Aldini, Sperlì, Franco Gra-ziosi... Noi facevamo i frati, ed era una cosa incredi-bile!... Costa disse: “Uscite uno alla volta, peròimmaginate che cinque sono le rondini, quattro ipasserotti, e così via... Io, mi ricordo, ero la rondine.Come cammina una rondine?... Io allora uscivo conquesto ritmo, della rondine... il passerotto uscivacon un altro ritmo... E c’erano cinque o sei specie diuccelli; per cui queste uscite erano tutte estrema-mente diverse, e quando si arrivava lì, si stava tuttidi spalle; a un certo punto Francesco benediva gliuccelli, e noi ci dovevamo voltare e fare tutti quanti“ffffff” ( emette un leggero sibilo prolungato),ognuno col proprio fischio, di uccello (esegue sibilie cinguettii di vario tipo)... Ed era un teatro di unapoesia didascalica incredibile...

1 Maricla Boggio ha incontrato Glauco Mauri nel suocamerino al Teatro Quirino, prima della rappresentazionede “”Il bugiardo” di Carlo Goldoni, allestito con la suacompagnia e da lui interpretato nella parte di Pantalone,nella stagione 2003/2004.

MI HA INSEGNATO TUTTO

Orazio Costa, una persona luminosa.Una luce dello spirito.

ROMAN VLAD

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Luigi Squarzina

Nel 1945 il diploma di regia era più un pericolo-so identikit che un passaporto. Né Guido Salvi-

ni né Ettore Giannini a cui mi ero proposto come as-sistente avevano niente per me; Costa mi disse di sìe partii ipso facto per Milano. Su suo consiglio più dafratello maggiore che paterno, gli copiai le in-confondibili scarpe Vibram con le suole di gomma du-ra a carro armato, provvidenziali nella poltiglia in-vernale di quella Milano 1945 quasi senza riscalda-mento né mezzi di trasporto. Andava in scena il se-condo spettacolo della Compagnia Borboni – Ran-done – Carnabuci – Cei di cui Costa era direttore, Ven-to notturno di Ugo Betti. Il primo era stato un gran-de successo milanese, Giorni senza fine di O’Neill, unO’Neill alla ricerca di Dio giocato su uno sdoppia-mento, lo scrittore John Loving e il suo cattivo dé-mone, Randone e Carnabuci. Io ero assistente non al-la regia – non ce n’era nessuno – ma alla Compagnia,Randone mi parve eccelso nella parte bettiana del-l’anziano solitario che comunica a distanza conun’altra solitudine. I due spettacoli che avevo il com-pito di seguire in tournée ottennero a Firenze lusin-ghiere recensioni da parte di Eugenio Montale, criti-co teatrale (competentissimo!) del quotidiano di Fi-renze che riprendeva le pubblicazioni. Scrisse Mon-tale sulla “Nazione del Popolo”: “Orazio Costa, unodei migliori nostri registi e dei più colti, ha tratto ec-cellenti effetti dal nuovo lavoro di O’Neill, facendocentro naturalmente sul personaggio sdoppiato”.Quanto a Betti, Montale giudicò “la commedia... cer-to fra le sue migliori”, la regia “abile e intonata” eRandone “attore fra i nostri migliori”. Le scenogra-fie consistevano di alcuni tralicci per O’Neill, verni-ciati di bianco su un panorama di panno nero, e di unaparapettata di tela per Betti; i tramonti li facevo io gi-rando lentamente a mano un paio di padelloni. (…)Era tipico della intransigenza di Costa avere propo-sto un repertorio austero in una Italia che desideravasolo tirare il fiato, ed è storicamente da rimarcare –a correzione di certi luoghi comuni sulla regia che sa-rebbe venuta imponendosi a suon di allestimenti – cheil nuovo stava nascendo soprattutto dal rigore, dallatensione, dalla convinzione di offerte rischiose. (…)Venne poi in via Vittoria, sull’esempio di via Rovel-lo a Milano, l’avventura del Piccolo Teatro della Cittàdi Roma, non riconosciuto tale né dal Comune né dalSottosegretariato allo Spettacolo. I cattolici al potere

nello Stato e nella capitale aiutavano poco un registasinceramente e dichiaratamente religioso che a onordel vero ben poco gli somigliava; non fu sufficientel’influenza di Silvio d’Amico, il quale d’altronde nonpoteva avere solo quel pensiero tanto più che con Co-sta l’Accademia procedeva sulla giusta strada: non ba-starono la compattezza della Compagnia quasi tutta diex allievi, un ensemble bellissimo (anche per le gra-zie delle giovani attrici), il più prossimo che Costa siariuscito a riunire alla sua concezione, scrisse GiorgioProsperi, “tra l’ordine monastico e il sodalizio me-dievale” – ma erano ragazzi allegri e innamorati; equanto più sorprendenti e ispirati erano stati i Sei Per-sonaggi del ’48 con i giovanissimi Rossella Falk, Ti-no Buazzelli, Gianrico Tedeschi, Giancarlo Sbragia,su un palcoscenico presentano a rovescio, rispetto al-la pur autorevole messinscena di un anno e mezzo pri-ma con tanto di Ferrari, Pilotto e Tofano; non bastò laserietà del repertorio. E’ stato notato che la metodo-logia mimetica di Costa, su cui non è mio compito sof-fermarmi, sembrava trasparire dai suoi spettacoli me-no chiaramente di altre, storicistica, epica, critica, digruppo, di immagine, di strada, di cantina, neodadai-sta, neobarocca, decostruzionistica, di metateatro, dicontaminazione, povera, provocatoria, crudele e tan-te ancora, del cui avvicendarsi però si dovrà pur di-scutere altrettanto in termini di maggiore o minore ade-renza delle messinscene ai presupposti teorici.(…) Via Rovello gli dette spazio. Nel maggio 1955 io eroalla prima di Processo a Gesù. Era una delle volte in cuiFabbri aveva scritto con convinzione; Costa, con TeresaFranchini (“Lasciateci Gesù!”), Antonio Crast e AugustoMastrantoni seppe rendere convincentissima, al limite, au-reo in quel caso, della mozione degli affetti, la pur sconta-ta assoluzione finale del Messia. Non ho visto, anche se og-gi mi sembra strano, nessuno degli spettacoli in cui Costadispiegava la sua vocazione all’uso del coro, ambito in cuil’eccellenza gli veniva riconosciuta fino alla benevola o in-vidiosa presa in giro; la coralità era patrimonio dell’Acca-demia; ma da quel Processo a Gesù, retto da attori di gran-de professionismo, emanava una musicalità vocale d’in-sieme e un contrappunto di gesti (alcuni proprio “suoi”, esor-cisti) che solo un mago dei cori poteva conseguire.

La testimonianza di L. Squarzina (1922-2010) è sta-ta tratta da ETInforma dedicato a Orazio Costa,2000.

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IL NUOVO STAVA NASCENDO DAL RIGORE, DALLA TENSIONE, DALLA CONVINZIONE DI OFFERTE RISCHIOSE

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Nino Manfredi

Il mio primo ricordo di Orazio Costa? Non ciandavo molto d’accordo, perché immaginavo ilteatro in un altro modo e invece Costa è quello chepoi m’ha insegnato veramente tutto: come affronta-re, come educare il corpo a esprimersi. Questo èimportantissimo, ma l’ho capito tardi io, insommace so’ arrivato, piano piano. E mi ricordo che ioavevo una voce inascoltabile quando sono entratoin Accademia, però mi ammisero perché ero iscrit-to all’Università, a Giurisprudenza, e mi ricordol’esame che ho fatto con Orazio: lo chiamo Orazioperché per me è immortale. Allora Costa: “Manfre-di vai in pedana...”. Recita il monologo di Amle-to...”. Me mettevo lì, io poi che credevo di essereassolutamente drammatico - perché ognuno di noipensa sempre all’inizio di essere un attore dramma-tico - mi mettevo lì e cominciavo a fare sul serio,mi concentravo, “Essere o non essere, questo è ilproblema!”. I compagni miei ridevano... e io m’ar-rabbiavo, “Ma che ve ridete?”. E il grande mae-stro, “Vai avanti!”, e io andavo avanti. Intanto ioavevo una voce inascoltabile, mi scrissero addirit-tura “inascoltabile negli acuti. Ho dovuto comin-ciare a fare esercizi, fino ad avere una voce che mi

partisse da qui. Quella volta, quando so’ uscito, ioero bello arrabbiato, e Orazio Costa mi prese sotto-braccio e mi disse: “Caro Manfredi, tu non ti deviarrabbiare quando i tuoi compagni ridono”, “Comenon me devo arrabbià?”, “Perché tu hai una nota inpiù, l’ironia”. “Che vo’ di’?”. “Tu non lo sai anco-ra. L’ironia è una nota naturale che uno ha, o cel’hai o non ce l’hai, non è che poi annà ar mercato,me dai un chilo d’ironia, du’ chili d’ironia. No! tuce l’hai e la devi usare. Ricordati sempre: ‘Castigatridendo mores’. Ricordati sempre di affrontare itemi drammatici facendo nascere un sorriso sullabocca della gente”. Questa è stata la prima grandelezione stupenda, per cui io ho cominciato ad ama-

re Orazio Costa come un grande... va beh, mejo chenon ne parlamo. Un giorno me fa: “Manfredi, va inpedana”. Vado in pedana. “Fammi un cielo sere-no...”. Cielo sereno, come se fa’ il cielo sereno?“Che cos’è un cielo?... “. E io feci istintivamenteun gesto largo. “Ecco, bravo è uno spazio enorme...“. “Eh!, ma io ci ho le braccia fino a qui... “. “Benebasta così, però non è cielo sereno quello che staifacendo”. “Perché?”. “Fammelo sereno”. E iofeci... (fa un sorriso). “Ecco, ci sei quasi vicino.Cielo sereno, il cielo si rannuvola”. “Daje!”, dico,tutte a me me dovevano capità”. “Il cielo si rannu-vola. Le nubi lo coprono”. “Io non sapevo più doveguardà... “. “Cadono le prime gocce... “. “Daje!...”.“Bravo, bravo così. Si trasforma in una pioggerelli-na. S’alza anche un po’ di vento”. Daje!, so’ uscitopure senza ombrello. Facevo così, così, così. A uncerto momento, “Cadono le ultime gocce... Le nubisi diradano”, “’namo bene!”. “E il cielo ridiventasereno”. Io continuavo a muovermi seguendo le sueindicazioni. Ho avuto l’applauso di tutti i compa-gni, dice “Ammazza oh!”. Io me so’ divertito a far-lo. “Questo lo dovrai fare sempre. Devi ricordartiche bisogna educare il corpo a esprimersi senzaaver quasi più bisogno della parola”. Questo ci hainsegnato il sor Orazio Costa, grande maestro.

Alla LUMSA, dove è stato presentato “Il corpocreativo”, Nino Manfredi (1921-2004) si è rivoltoagli studenti usando un tono scanzonato.

“FAMMI UN CIELO SERENO”

Costa con NinoManfredi, Boggioe Niccolini, in unincontro con gliallievi della Scuoladi Bari, al TeatroPiccinni durantele riprese de“L’uomo el’attore”, 1986

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Renzo Tian

Nel 1973 Renzo Tian venne chiamato ad assume-re la carica di direttore dell’Accademia Nazio-

nale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” e rimasea dirigerla per dodici anni. Orazio Costa vi insegnavada circa trent’anni.

BOGGIO - Come risultava collegato il metodo mi-mico di Orazio Costa con gli insegnamenti degli at-tori che lavoravano in Accademia?TIAN - Ecco, il metodo di Costa - tanto è vero che ilprimo contatto che gli allievi avevano, entrando in Ac-cademia, era proprio con l’insegnamento di Orazio Co-sta, e questo valeva tanto per gli allievi attori che per gliallievi registi -, il metodo di Costa era fondato su di unaintuizione molto precisa, che cioè esistesse in ciascunodi noi un’attitudine giacente, che un certo tipo di edu-cazione o attenuava o addirittura soffocava, ed era l’at-titudine mimica, l’attitudine a esprimersi, a parlare at-traverso un certo uso del proprio corpo, e che quindi daquesta attitudine giacente bisognava partire per risve-gliarla, per darne a ciascuno consapevolezza e per im-piegarla. Era quindi un metodo, non una tecnica. Era unmetodo che, anche se veniva applicato, come veniva ap-plicato, era un metodo teorico e quindi non poteva ave-re granché in comune con i sistemi degli altri insegnanti,che solitamente partivano dalla trasmissione di espe-rienze acquisite, e che quindi proponevano a volte unaforma di imitazione del loro modello. Era un metodo chesi rivolgeva nello stesso momento all’intelligenza ra-zionale degli allievi attori e registi e a questa loro sen-sibilità giacente, in molti casi nascosta, a questa speciedi linguaggio nascosto riportato alla superficie. Eccoperché il metodo di Costa era la base, il fondamento, unavolta posto il quale si potevano, su questo tronco, in-nestare i rami della altre diverse esperienze.BOGGIO - Alcuni attori, anche famosi, che insegna-vano in Accademia, proponevano dei modelli che ri-schiavano di essere l’opposto della base del metodo, ma

che potevano servire agli allievi sul piano di un’espe-rienza di mestiere e come esempio di interpretazione...TIAN - Rimaneva tuttavia quella base, quel fonda-mento che soltanto il metodo di Costa poteva dare.Soltanto il metodo di Costa, nel senso che era il so-lo metodo vero, dotato cioè di premesse teoriche e dicapacità di applicazioni pratiche.BOGGIO - Ci sono stati però degli spettacoli, in Ac-cademia, in cui Costa ha realizzato una regìa mimi-ca, riservando cioè, in un saggio con gli allievi, unospazio totale al suo discorso mimico. Questo è avve-nuto, ad esempio, con il “Sogno di una notte di mez-za estate”, che i ragazzi interpretarono guidati dalmaestro, in una regìa che venne definita “mimica” .TIAN - Certo. Era qualche cosa di più che un saggio,era qualche cosa di più dell’esempio di un lavoro svol-to da un gruppo di attori, proprio perché proponevae curiosamente, in un certo senso, così come il me-todo di Costa, nei primi anni Sessanta - quando io hoavuto l’occasione di conoscerlo da vicino - anticipavadelle spinte clamorose e spesso superficiali che sa-rebbero poi venute alla fine degli anni Settanta, cosìquello spettacolo - che venne dato al Quirino e, mi ri-cordo, risvegliò un notevole interesse, anche dal pun-to di vista professionale - anticipava curiosamente unaltro “Sogno di una notte di mezza estate” che sarebbevenuto in Italia, da noi in visita: un famoso spettaco-lo di Peter Brook, che fu presentato qualche anno do-po alla Biennale di Venezia, e in fondo partiva da pre-messe analoghe, se non uguali, rispetto a quelle da cuiera partito il lavoro di Orazio Costa.

Questa intervista è tratta dal libro “Il corpo creati-vo”, Bulzoni ed., 2001

UN METODO, NON UNA TECNICA

Le due scenesono tratte dal

“Sogno”realizzato da

Costa nel 1968

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Ferruccio Marotti

BOGGIO - Ferruccio, nel corso dei quattro anni in cuihai diretto il Centro e il Laboratorio, vi hanno tenu-to lezioni personalità di altissimo livello del mondoteatrale internazionale.MAROTTI - Sì, direi che la presenza di Orazio Co-sta rappresenta la seconda fase di esperienza. Cioènella prima fase al Teatro Ateneo abbiamo invita-to Peter Brook, Jerzy Grotowski, Dario Fo, Gas-sman e così via. Lì abbiamo fatto due esperienze dicarattere teorico, con Eduardo De Filippo e conGrotowski. Ora, in questo Teatro Laboratorio Uni-versitario dedicato alla memoria di Eduardo De Fi-lippo, iniziamo una fase di sperimentazione e ricercapratica. Mi è parso doveroso invitare il più grandemaestro italiano ad esporre una prima fase intro-duttiva del suo metodo mimico, a cui spero seguiràl’anno prossimo una fase più ampia, sempre rivol-ta agli studenti. La mia idea al riguardo non è quel-la di fare degli attori, ma di permettere a dei giovanidi conoscere più a fondo il teatro, dal punto di vi-sta di chi fa teatro; qualcuno farà l’attore, qualchealtro - spero molti - diventeranno un pubblico piùattento, migliore, un nuovo pubblico per il teatro. Ed’altronde il metodo mimico di Costa è rivolto nonall’attore in quanto tale, o non soltanto all’attore, maa qualunque individuo, per potenziarne e liberarne

l’espressività, che è il problema di fondo dell’essereumano di oggi.BOGGIO - La prima tesi di laurea sul metodo mimico da-ta in un’università italiana è proprio partita dal tuo corso.MAROTTI - Infatti, è stato Giangiacomo Colli a fa-re un’eccellente tesi di laurea. Non ritengo che ci siauna necessità di separazione fra il lavoro storico, il la-voro teorico e quello pratico. Questa tesi - come al-tre, su altre grandi personalità del mondo dello spet-tacolo- si prefigge un’interazione fra il momento pra-tico operativo e la ricerca teorica e storica.

L’intervento di Ferruccio Marotti, professore emeritonell’Università La Sapienza di Roma, fa parte di undialogo con Maricla Boggio tratto da “Il corpo crea-tivo”, Bulzoni, 2001.

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IL PROBLEMA DELL'ESSERE UMANO DI OGGI

Studenti di variefacoltà de LaSapienza di Romalavorano almetodo mimiconel Laboratorio“Eduardo DeFilippo” doveMarotti, suodirettore, hainvitato Costa atenere un corsonel 1986

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Gian Giacomo Colli

Mio padre, Giacomo, aveva frequentato i corsi diregìa all’Accademia ed era stato allievo ed as-

sistente di Orazio Costa verso la metà degli anni ‘50.Durante l’università io mi interessavo già di teatro estavo cercando una scuola vera che fosse informata aun metodo preciso. Orazio Costa non insegnava più al-l’Accademia, ma io lo conoscevo attraverso quanto mene aveva detto mio padre. Andai a trovarlo verso la fi-ne degli anni ‘70 - mi ero già iscritto all’università -e gli proposi di fare la mia tesi di laurea sul suo me-todo. Via via che lo conoscevo mi sono sempre più in-teressato ed entusiasmato. Lui poi mi diede la possi-bilità di lavorare nell’”Edipo Re” a Vicenza, al Tea-

tro Olimpico. Recitando nel coro, speri-mentai sulla mia pelle la validità del me-todo mimico e potei vedere che cosa ac-cadeva, e poi ho frequentato i suoi corsia Firenze. Credo che fra qualche annoavremo degli attori completamente infor-mati a questo metodo, con tutte le con-seguenze che ne deriveranno sul tipo diproduzioni teatrali, anche sotto il profilodella regìa. Costa negli ultimi anni non hapiù usato la definizione di regista per isuoi spettacoli, ma quella di coordinato-re, per sottolineare proprio questo punto.

La tesi di Giangiacomo Colli nella cattedra di Fer-ruccio Marotti è stata pubblicata con il titolo “Una pe-dagogia dell’attore – l’insegnamento di Orazio Costa”,Bulzoni Editore, Roma, 1989 – 1996. Colli tiene da an-ni dei corsi improntati al metodo mimico in _Canadae negli Stati Uniti. La sua dichiarazione appare nel film“L’uomo e l’attore - Orazio Costa, lezioni di teatro”.

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La pretesa della mia tesi in Storia del Teatro, pressoil D.A.M.S. dell’Università di Palermo, è stata

quella di mettere in evidenza la “religiosità” di OrazioCosta, nel suo insegnamento pedagogico, nell’elabo-razione del metodo mimico, nella formazione dell’uo-mo-attore e nelle sue regie. “Religiosità” per cosi direlaica, che parte dalla dimensione dell’essere umanoper approdare a quella divina, vissuta non come veritàindiscussa ma come luogo di un’ispirazione umanissi-ma. Il filo conduttore del mio lavoro è stata l’esperien-za mistica vissuta in prima persona da Orazio Costa e,quindi, tradotta nella sua attività di uomo di teatro. Iltitolo che riporta la mia tesi di laurea - discussa nel2012 - infatti è: “Orazio Costa: l’attore dalle pratichealla mistica. Un esempio di religiosità laica”, che hoscelto insieme al mio relatore Renato Tomasino, pro-fessore di Storia del Teatro e dello Spettacolo e presi-dente del corso di laurea in D.A.M.S.Il mio studio ha cercato di spiegare quanto la mimicadiviene con Costa un processo che non riguarda sologli attori, anche se a loro è maggiormente rivolta,ma tutti gli uomini e non applicabile soltanto allapedagogia, ma ad ogni disciplina dell’apprendimen-to. Ho cercato di evidenziare la fedeltà alla tradizio-

ne dell’insegnamento costiano come processo fonda-to sulla trasmissione della parola e nella concezionedella vita come opera e dell’opera come vita.Ho esaminato anche alcune delle sue regie, nellequali è presente l’alto valore spirituale e mimico;ho messo a fuoco le caratteristiche comuni tra lateoria pedagogica di formazione dell’attore e la pra-tica scenica, fino ad approdare all’esito ultimo dellavoro: la mistica. Tutto ciò è stato svolto senza tra-scurare le radici del pensiero di Costa, riprese dalsuo maestro Jacques Copeau, che lo portano dall’e-sperienza naturalistica all’impegno pedagogico, allaricerca religiosa dell’assoluto. Infine, ho intervistato personalmente Maricla Bog-gio, testimone diretta dell’immensa eredità costia-na, e il Maestro Mario Ferrero che fu assistente,collega e fedele amico di Costa. Le loro testimo-nianze, uniche e suggestive, sono riportate integralinella mia tesi di laurea.Credo che Orazio Costa, maestro di notevolerigore morale, di eleganza e riservatezza, con ilcoraggio delle sue scelte etiche ha consegnatoall’uomo come sua preziosa eredità, più ancorache un modello di teatro, un esempio di vita.

UNA PEDAGOGIA DELL’ATTORE

UN ESEMPIO DI RELIGIOSITÀ LAICA

Nicasio Catanese

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Stefania Porrino

Non ho avuto la fortuna di conoscere personal-mente Orazio Costa, ma ne ho conosciuto la

profondità di pensiero e la strutturazione del suometodo mimico attraverso la lettura dei volumi alui dedicati da Maricla Boggio, che raccolgonoun’ampia parte dei materiali scritti e filmati riguar-danti l’attività di regista e di docente del Maestro. Come docente, a mia volta, di Arte Scenica e diRegia del teatro musicale presso il Conservatorio diFrosinone, ho trovato grande interesse e utilità per lamia attività di insegnante, sia con gli allievi cantantiche con gli allievi registi, nello studio di questi libri.Tre sono gli elementi su cui ho riscontrato una par-ticolare consonanza di pensiero e che voglio quiricordare. Il primo riguarda l’importanza dell’im-medesimazione, che anche io ritengo fondamentalepunto di partenza per chiunque voglia accostarsiall’arte della recitazione. L’innata capacità del bam-bino di “essere” ciò che vede, ciò che desidera, ciòche vuole conoscere, e che Costa individua cosìacutamente come cellula originaria del processo diidentificazione e immedesimazione nel personag-gio, è a mio parere il punto di aggancio più forteche consente agli allievi, che per la prima volta siaccingono a trasformarsi in attori, di raggiungere inbreve tempo una comprensione piena – sia mentaleche fisica – di ciò che significa interpretare un per-sonaggio. Il secondo elemento, del quale continua-mente riscontro l’utilissima funzione strutturantesia nella scrittura drammaturgica (quando scrivo imiei testi), sia a livello di regia (quando realizzouna regia o la insegno) che come metodo per l’atto-re (quando insegno ai cantanti), è l’individuazionedei “nodi drammatici” e dei “colpi di scena”. Costa definisce in modo preciso questi cardini deldiscorso drammaturgico e registico: «Questi nodidrammatici per intenderci sono culmini, vertici ver-so i quali tendono le situazioni che li precedono, eda cui dipendono e defluiscono quelle che li seguo-no. Le larghe linee del movimento spirituale deldramma, e che poi si traducono in un movimentomateriale, (vedremo che il movimento di una mes-sa in scena non è qualcosa di arbitrario e decorati-vo, ma strettamente legato al testo) sono già conte-nute nell’individuazione dei nodi drammatici, chesono i momenti essenziali in cui si scaricano, comeper contatto, le energie che si accumulano nellesituazioni del dramma; le quali situazioni sono alarghi tratti delimitate da questi punti fermi.»1Utilizzando questo metodo, nel momento in cui ci siaccinge a costruire l’impostazione critica di una

regia, il fatto stesso di individuarne i nodi drammati-ci e concentrare la propria inventiva scenica su quel-li prescelti, consente di creare una struttura registicadi base non solo riguardante il movimento scenicoma anche tutte le possibili invenzioni di scenografia,costumi e luci in modo coerente e rigoroso, passan-do così dai “nodi drammatici” ai “colpi di scena”:«Io credo che la parte più delicata del lavoro del regi-sta, e la più fattiva, sia proprio l’individuazione delcolpo di scena, la sua valutazione nel quadro dell’a-zione e finalmente la dinamica traduzione drammati-ca, senza la quale ogni lavoro precedente andrebbeperduto. […] Il susseguirsi dei colpi di scena non èsoltanto la rivelazione delle qualità drammatiche insi-te nell’opera ma è anche la trasformazione del pen-siero drammatico in movimento: ogni colpo di scenaè un incentivo al movimento scenico. Movimentospiritualmente inteso come processo fantastico emovimento materiale effettivo, inteso come sposta-mento e azione dei personaggi». 2Il terzo campo di applicazione in cui ho trovato mol-to utile l’insegnamento di Costa è proprio l’utilizzodel metodo mimico in se stesso applicato nelle variefasi, così come sono state elaborate dal Maestro.Spesso ho potuto verificare concretamente comeanche soggetti particolarmente insicuri e introversi,nel momento in cui si offre loro la possibilità di“nascondersi” e al tempo stesso “aprirsi” in un’im-magine da mimare (la nuvola, l’albero, il vento,ecc.) riescano più facilmente ad abbandonare le lororesistenze psico-fisiche e a lasciarsi andare all’istintocreativo che giace ancora insondato dentro di loro.Soprattutto con gli allievi provenienti dall’oriente(in Conservatorio abbiamo molti coreani che fre-quentano i corsi di canto), spesso impacciati e abi-tuati a non esprimere sentimenti, sia nel viso chenella gestualità del corpo, il metodo mimico diven-ta spesso la chiave di volta per spezzare abitudini eatteggiamenti bloccati e inespressivi.Per me, dunque, la conoscenza – anche se libresca– di Orazio Costa ha significato avere una chiave inpiù, capace di aprire diverse serrature.

1 Maricla Boggio, Mistero e Teatro - Orazio Costa, regia epedagogia, Bulzoni Editore, Roma, 2004, p. 34.

INCONTRO CON I LIBRI SU ORAZIO COSTA

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Francesca Benedetti

BENEDETTI - Il mio era un anno particolarmen-te fortunato. C’erano Volontè, Orsini... IlariaOcchini...Con Costa feci l’”Ifigenia in Tauride”,un grosso spettacolo girovagante che toccò tutti iteatri greci della Sicilia fuorché Siracusa. Fu unagrande esperienza, umana, artistica...C’era uncoro straordinario, istruito da Orazio con pazien-za certosina, e noi eravamo dentro una situazionedi grande fervore. Orazio ha un rapporto con laparola - che si trasmette agli attori che seguono isuoi dettami -, che diventava un oggetto straordi-nario, come un oggetto da laboratorio, da vivise-zionare, che aveva delle risonanze, delle implica-zioni...La parola come oggetto da trattare foneti-camente, linguisticamente e anche moralmente,perché la parola con Costa ha sempre avuto unpeso morale. Infatti, se c’è una cosa che si puòcertamente ricavare dall’insegnamento di Costa,

perlomeno per il filtro mio personale, è la grandepregnanza morale, la grande castità, la mancanzadi effettismi, di barocchismi. Il vigore morale dicui è sostanziato l’insegnamento di Costa, credoche non lo si possa ritrovare da nessuna parte.Per rigore morale intendo poi la perspicuità arti-stica, la chiarezza, la mancanza di bellurie,ecco!, la straordinaria logica. Questo è l’inse-gnamento che ci ha dato Orazio Costa e che cisiamo portati dietro nel tempo.

IL PESO MORALEDELLA PAROLA

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Massimo Foschi

(…) Orazio sapeva fare tutto del mestiere del teatro.Quando lavoravo più tardi con Luca Ronconi e stava-mo facendo le prove dell’ “Orestiade” - tutte e tre le piè-ces, quindi sette ore di spettacolo ecc. -, Luca un gior-no disse: “Io vorrei avere Orazio qui perché ci sono del-le cose che io non so indicarvi, i cori prima di tutto e poitante altre cose”. Lavorando poi con Strehler ho in-contrato un maestro molto simile a Orazio; non per nien-te Strehler e Paolo Grassi avevano invitato Orazio Co-sta, l’unico regista italiano con diversa ideologia – di-ciamo -, ma con la stessa ideologia relativamente al tea-tro, a collaborare con loro. Anch’io ho lavorato nel-l’ultima riedizione del “Mistero” di Silvio D’Amico alLirico a Milano, prodotto dal Piccolo Teatro, poi por-tato a Roma e disertato, completamente, dalla Roma cat-tolica. Orazio era un uomo di una dirittura morale tre-menda. Non perdonava niente a se stesso. Perdonava ab-bastanza agli altri. La sua dirittura morale ha fatto sì chenon scendesse quasi mai a compromessi. Ecco perchéla cattolicità lo ha relegato, anche se lui era il più gran-de regista cattolico in Italia. Non lo hanno aiutato, per-ché doveva scendere a compromessi ai quali lui non sisottoponeva. Io sono un agnostico, però per me la gran-dezza del Cristianesimo è che Dio si è fatto uomo e at-traverso l’amore l’uomo si unisce a Dio. Non possiamoparlare dell’uomo soltanto quando ha la crisi religiosaoppure deve decidere se far abortire la moglie, ecc.L’uomo è sempre, è tutto. Questo era Orazio. Perché,cattolico come era, ha sempre praticato anche l’estre-mismo di certi testi che non erano decisamente catto-lici. Racconterò un episodio, ora lo posso fare perchéOrazio non è più con noi. Ho avuto la fortuna di fare tan-ti spettacoli con lui – diciotto, credo -, teatro, televisione,radio. Nell’Ottanta facevamo l’”Edipo” al TeatroOlimpico a Vicenza; aveva i suoi attori, Salvo Rando-ne, Anna Miserocchi; io ero giovane e aveva caricatole mie spalle del peso di Edipo, però lui era stato mol-to bravo. Aveva preso tanti ragazzi per il coro che si sen-tivano tutti primattori, quindi in mezzo al coro c’era unbailamme, come capita. Un giorno, durante le prove si

accese una disputa tra i galli del coro; la cosa fu seda-ta, si riaccese, fu sedata, si riaccese… A un certo pun-to Orazio disse “Basta!” e bestemmiò. Ci fu un gelo…,perché Orazio che bestemmiava non poteva mai passareper la nostra testa. Uscì, ritornò dopo un’ora, ripreserole prove che funzionarono meravigliosamente, perchétutti eravamo rimasti colpiti da questo fatto. Parecchi an-ni dopo, quando Orazio era già stabilmente a Firenze,mi chiamò per fare una lettura; lo raggiunsi a Firenze;nel suo studio cominciammo a lavorare, poi a un certopunto, dopo un paio d’ore, mi disse: “Vuoi un tè, uncaffè?”. Dico: “Volentieri, un tè”. “Vado a prepararlo”.E andò a prepararlo in cucina. Rimasi nello studio, luiusava un tavolo alto sul quale lavorava stando in piedie cominciai a guardare intorno; dò un’occhiata ai librie poi l’occhio mi cade su un quaderno, uno dei suoi fa-mosi quaderni, che - come Maricla scrive - speriamo chevengano pubblicati, perché tutti dobbiamo fruire di quel-lo che è la sapienza che c’è dentro quei quaderni. C’e-ra un quaderno aperto. Vedo la data, settembre 1980. Eno!, questo mi riguarda, è il periodo dell’Edipo. Den-tro di me dico: “Orazio scusa, leggo”. E leggo: “Oggimi sono comportato come un animale. Oggi ho be-stemmiato, cosa che un uomo non dovrebbe mai fare.Oggi mi vergogno di me”. Queste cose le aveva scrit-te la sera di quel giorno. Vi assicuro che mi emozionaicome sono emozionato adesso, perché un uomo che rie-sce a non passare sopra a una cosa così, eh! vivaddio,ce ne fossero! Perché Orazio, nei tanti anni in cui ci sia-mo frequentati, era un poco un padre spirituale, anchese diceva sempre “Ma insomma, tu fai sempre quelloche vuoi!...”. Per lui la vita in teatro era: alle dieci delmattino si è in teatro, si fa ginnastica, si provano eser-cizi vocali, ecc., fino all’una; pausa di tre quarti d’ora,un’ora massimo, alle due si ricomincia; prove dello spet-tacolo che dovrà andare in scena; alle sette si smette,un’ora di intervallo in teatro per fare le recite dello spet-tacolo che è in scena, si finisce a mezzanotte; si va amangiare. Al mattino dopo alle dieci, di nuovo ecc. Eio, di fronte a questa prospettiva gli dissi: “Dottore e iola mia vita, quando la vivo? “. “Figliolo, questa do-vrebbe essere la tua vita”. Dico: “Devo pensarci”.Dal Convegno all’Accademia per la presentazione de“Il corpo creativo”, 2003

C’ERA UN QUADERNO APERTO…

Costa al TeatroPiccinni conMassimo Foschi

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Valeria Costa

VALERIA COSTA - Sì, fin dalle prime sue regìesono stata io a fargli le scene, e anche i costumi. Miconsiderava una parte di lui, io ero la sua mano...MC.B. - Quali sono i ricordi che hai più evidentidei lavori che hai realizzato per Orazio?V.C. - Mah! Forse proprio quelli che facevamo daragazzi, quando ci divertivamo a fare il teatro incasa, insieme a degli altri nostri amici. Mi ricordoin particolare le streghe del “Macbeth”. Avevamopreso dei lenzuoli e ci divertivamo così, a inventaredei costumi con quello che trovavamo in casa.MC:B: - Chi erano gli attori di questi spettacoli?V.C. - Eravamo noi stessi; non io, che rimanevo aguardare; mi sedevo su di un baule che stava nel-l’ingresso di casa nostra, dove mettevamo poi tutti inostri costumi e gli attrezzi, gli oggetti degli spetta-coli... Era il baule che aveva portato mia madre dal-la Corsica, pieno del suo corredo, quando era venu-ta in Italia per sposarsi. Recitavano i nostri amici,che erano ragazzi che abitavano nella nostra stessacasa. Proprio sul nostro stesso pianerottolo abitava

una ragazzina che faceva sempre parte del nostrogruppo, si chiamava Peppina... E io mettevo insie-me i costumi, inventavo la scena, e poi rimanevo aguardare gli altri che recitavano... C’era tanto entu-siasmo, e ci divertivamo, ci divertivamo proprio.MC.B. - Che spazio usavate per le vostre rappre-sentazioni?V.C. - L’entrata del nostro appartamento. Davantic’era la porta di casa, e il pianerottolo, potevamousarlo perché lì c’eravamo soltanto noi e la fami-glia di Peppina.

L’intervista è tratta dal libro “Mistero e teatro –Orazio Costa, regia e pedagogia”, Bulzoni ed.,2004. Valeria è morta qualche anno dopo Oraziodi cui era poco più giovane.

IO ERO LA SUA MANO…

“Oreste” di Alfieri,scene e costumisono di ValeriaCosta, 1949

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Ennio Coltorti

“Maestro, mi dicono che faccio troppo, è vero?”“Un arrrtista deve farrre tanto”.

Così, con la sua erre arrotata ma forte e aristocratica,mi rispose Orazio Costa quando, diplomato da pochianni, lo raggiunsi presso il Residence di via del Ba-buino per un intervista che mi accordò per la mia te-si di laurea. Orazio Costa Giovangigli è stato un gran-de maestro. Entrai in Accademia alla fine degli anniSettanta, gli echi del Sessantotto tardavano a spegner-si; si rifiutava, anche se sempre più stancamente e sem-pre meno motivatamente, la figura del “papà”, del pun-to di riferimento. L’irriverenza, addirittura l’irrisionedelle regole del passato rapporto insegnante-allievo era-no atteggiamenti sempre più frequenti se non sconta-ti. Costa non sembrava nemmeno accorgersene. Ri-maneva lì, ieratico, solenne, coraggioso, a continuareil suo percorso di ricerca quasi mistica dell’”essenza”del recitare e della generosa profusione di quanto, in an-ni di appassionato lavoro, aveva acquisito. Quando, inseguito a sgradevoli e italianissimi giochi di potere asuo danno, preferì lasciare l’Accademia, fino ad allo-ra parte integrante della sua vita, io avvertii che sarebbemancata una forte guida didattica e chiesi perciò, for-te dell’adesione di un nutrito gruppo di allievi attori eregisti, di poter disporre di un corso autogestito sul tea-tro elisabettiano. Questa autonomia gestionale permi-se di chiamare ad insegnare in Accademia, scegliendolotra una rosa di “esperti” proposti dall’allora direttoredell’Accademia Ruggero Jacobbi, quello in seguito di-ventato l’attuale direttore, Lorenzo Salveti, allievo delgrande Aldo Trionfo, laureato con una tesi proprio sulteatro elisabettiano. L’esperienza fu meravigliosa mapiù ci addentrammo nell’anno accademico più ci fu evi-dente che la mancanza di quel “papà”, di quella guida,che era stato Orazio Costa si faceva profonda. Nonostante fosse un regista e un insegnante importan-te e rispettato, Costa dovette combattere tutta la vita con-tro la figura di un altro regista, Luchino Visconti. Il “ri-vale” di Costa godeva di una popolarità mediatica schiac-ciante. Questo forse potrà aver provocato in Costa qual-che dispiacere e in Visconti una qualche certezza di su-periorità, ma, al di là delle opposte strade culturali, ognu-no dei due doveva in qualche modo riconoscere il valoredell’altro. Ne ebbi la prova quando, durante il mio esa-me del primo anno di regia, mostrai il progetto di unamessa in scena del Macbeth in cui avevo previsto un pa-vimento in ferro. Le scarpe delle armature al contatto conl’impiantito avrebbero provocato un suono inquietantee violento. Costa mi chiese se fossi a conoscenza che Vi-sconti aveva utilizzato questo espediente in un allesti-

mento del Macbeth verdiano. Io non ne ero al correntee risposi che la cosa mi gratificava perché voleva dire cheavevo avuto una buona idea. Temetti che ci rimanessemale, invece sorrise (cosa rara) e disse a mezza voce: “Sì,può rivelarsi molto efficace”. La aristocratica rivalità trai due registi in ogni caso esisteva davvero; perciò io, cheapprezzavo il lavoro di entrambi, un giorno uscendo in-sieme a lui dal teatrino di Via Vittoria, mi decisi e glichiesi quasi a bruciapelo: “Cosa pensa di Luchino Vi-sconti?“. Lui prese una pausa riflessiva di non più di tresecondi (tipicamente teatrale), poi rispose deciso consimpatica aria di sufficienza: “Un buon arrredatorrre…”.Chiudo questa rievocazione della figura di un maestrounico, ideatore di una tecnica interpretativa all’este-ro profondamente apprezzata (non è certo il nostro pri-mo connazionale ignorato e osteggiato da noi e cele-brato altrove), citando le sue parole, da me registratein occasione dell’intervista citata, a proposito dellaesperienza pluriennale da lui sostenuta agli inizi del-la sua carriera al Teatro Valle per la costituzione di unTeatro Stabile Romano allora inesistente: “… andaiavanti con la compagnia del Piccolo di Roma per otto an-ni riuscendo a trovare capitali e produttori e mettendo inscena più di 40 spettacoli. Ero certo che prima o poi que-sto avrebbe permesso di ottenere il sostegno del Ministerodello Spettacolo per la creazione di una Stabile Roma-na da me continuamente auspicata. Ma niente succede-va. Mi rivolsi allora ad Andreotti per ottenere un aiuto inquesta mia iniziativa. Mi rispose che non potevo esseresostenuto in quanto di area cattolica: esisteva un accor-do politico, dettato dalle grande potenze uscite vincitri-ci dalla guerra, che assegnava ai partiti di sinistra la cul-tura poiché alla Democrazia Cristiana erano stati assegnatitutti gli altri dicasteri”. Questi avvenimenti furono for-se i primi passi verso l’attuale disastro economico, po-litico e culturale del nostro paese; tuttavia, anche sequell’accordo riuscì a fermare un’iniziativa cosi benavviata e promettente, non bastò certo a far arrende-re un uomo come Costa che aveva consacrato la suaesistenza al teatro e alla cultura: per anni continuò aformare grandi attori e grandi registi, a regalare al pub-blico allestimenti memorabili e a lasciare in eredità anoi il suo straordinario metodo, e soprattutto il suoesempio. Grazie Maestro. Grazie Orazio.

IERATICO, SOLENNE, CORAGGIOSO

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Alessandra Niccolini

«Come insegnanti vi dovete porre la domanda:“Che ne faccio io di questa mimica? La vendo almigliore offerente? La spiattello in due soldi?Cerco di farla capire onestamente?” Può esse-re molto rischioso renderla ovvia e banale. Nonè ovvio e banale per chi l’ha praticata per un an-no, per due anni, per tre anni, può essere diven-tata perfino facile, ma c’è un gran rischio a mo-strare l’ovvietà di qualcosa che c’è costata mol-to. Un insegnante deve dirsi: “Voglio cercare diarrivare a darmi gli argomenti, le pezze di ap-poggio, voglio poter dire che non è solo il frut-to di una certa esperienza, il frutto di certi ri-sultati del tale attore o del tale altro attore, mache è anche qualcosa che ormai sono veramen-te convinto che sia così.”»(Corso tenuto al Centro Avviamento all’Espressione di Firenze.)

Così c’è scritto nel mio quaderno di appunti presidurante un corso per istruttori di metodo mimico,

tenuto dal dottor Costa nel 1985. Dopo tanti anni de-dicati all’insegnamento e all’approfondimento del me-todo mimico, credo di aver trovato alcuni argomentie pezze d’appoggio che mi offrono uno strumento inpiù per aiutare gli studenti a comprendere in cosa con-sista l’attitudine mimica. Fin dall’inizio ho sentito l’ur-genza di approfondire alcuni suoi aspetti che si pre-sentavano sotto forma didomande: “In che senso l’at-titudine mimica è uno strumento organico? Perché sec’è tutta questa attività mimica in noi, non si manife-sta sempre in un movimento palese e spesso rimanenascosta in noi? Quale didattica attuare per passaredallo studio dei fenomeni naturali a quello delle pa-role di un testo, anche quelle che non hanno riferi-mento con i fenomeni naturali e che pure sono nel no-stro corpo?Una volta il dottor Costa, durante un cor-so su Giacomo Leopardi, mi tenne venti minuti a fa-re la mimica di “tornare ancor per uso” insistendoaffinché trovassi la differenza tra le diverse parole econ l’esercizio mimico mi portò a scoprire che ogni pa-rola aveva un suo mondo espressivo, perché ogni pa-rola transitava un’esperienza specifica, un’ azione di-

versa. Per rispondere alle mie domande, mi sono ri-volta alla ricerca scientifica e in particolare alle neu-roscienze. Le scoperte fatte in questi ambiti scientifi-ci, non solo confermano l’intuizione costiana che in-dividua nell’attitudine mimica, l’attitudine responsa-bile dell’agire umano, ma aprono un nuovo ambitosperimentale del metodo mimico. Porrò la mia atten-zione sulle azioni percettive, perché l’attitudine mi-mica è la manifestazione palese e magnificata dell’a-zioni della percezione. In un saggio di Alain Berthoz:Il Senso del Movimento, l’autore dimostra come la per-cezione avvenga anche con il contributo dell’appara-to muscolo-scheletrico e con la propriocezione, e, dun-que, come la percezione sia anche un’azione. Le azio-ni promosse dalla percezione non sono azioni qual-siasi, ma stanno con l’oggetto percepito in una rela-zione di similitudine, perché il nostro organismoestrapola qualità dall’oggetto e le traduce in corri-spondenti proprietà corporee. Le azioni che avvengononelle percezione non si manifestano sempre tutte ester-namente, sarebbe un inutile dispendio di energie e ilnostro organismo economizza e le manifesta soloquando è necessario. Dunque, quando stiamo guar-dando un oggetto con una certa attenzione, anche seesternamente siamo fermi, il nostro corpo internamentesi sta muovendo; se poi decidiamo di agire sull’og-getto, basterà agire l’azione interna fuori di noi e sul-l’oggetto. Alain Berthoz riporta una frase di P. Janet:«Quando noi percepiamo un oggetto, per esempio unapoltrona, pensiamo di non compiere in quel momen-to nessuna azione, per il solo fatto che percependolarestiamo in piedi, immobili. Tuttavia questa è un’il-lusione: in realtà abbiamo già dentro di noi l’atto ca-ratteristico della poltrona [...].L’atto caratteristico della poltrona è la traduzione di al-cuni parametri fisici della poltrona in altrettanti para-metri corporei per assolvere al compito di sedersi. Adogni incontro con un oggetto della percezione il nostroorganismo seleziona parametri diversi secondo inten-zioni ed urgenze diverse. Se io guardo questo libro conl’intenzione di prenderlo, ho già pronte, nella mano enel braccio, tutte le condizioni plastiche che mi servo-no per prenderlo. Che l’azione sia già pronta, in anticipo,attivata direttamente dalla percezione, lo dimostra il fat-

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L'ATTITUDINE MIMICA METAFORA DEL MONDO

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to che se c’è un errore percettivo, l’azione fallisce. Sesi prende una bottiglia che ci sembrava piena e inveceè vuota, la si alza molto più del necessario, perché ave-vamo già adeguato i muscoli per sollevare un litro, so-lo guardando la bottiglia senza pensare a come pren-derla. Le qualità fisiche estrapolate dalla percezione ven-gono poi attribuite all’oggetto percepito: posso dire cheil libro è rigido, perché percepisco che la mia mano, toc-candolo, è diventata rigida. C’è una pertinenza tra leazioni della percezione e l’oggetto percepito: se così nonfosse, non potremmo agire efficacemente sull’oggetto;infatti se la mia mano non si facesse rigida non potrebbeafferrare il libro. Le azioni fisiche prodotte dalla per-cezione non imitano l’oggetto percepito: il corpo nonimita la poltrona e la mano non imita il libro, ma cor-po e mano stanno in una relazione mimica con gli og-getti, cioè in una relazione che traduce, dunque inter-preta, in azioni fisiche, la realtà percepita. Berthoz af-ferma che la percezione è un’interpretazione. Questaoperatività della percezione non avviene solo nel casodi un’azione diretta sull’oggetto, ma anche in circo-stanze di semplice fruizione come, ad esempio, quan-do osserviamo un quadro o ascoltiamo una musica. An-cora più interessante è il fatto che anche quando ricor-diamo un oggetto o un evento, il nostro organismo riat-tiva, internamente, i movimenti muscolo-scheletrici oc-corsi durante la percezione diretta. Dunque, per ricor-dare, dobbiamo richiamare alla memoria anche leazioni percettive, in assenza delle quali il ricordo nonsarebbe possibile. L’azione percettiva non si limita alrapporto con gli oggetti o eventi esterni al nostro cor-po, seppur ricordati, ma si estende anche ai prodotti in-terni della nostra mente, come i concetti. Per comprendere come questo avvenga possiamo pren-dere in analisi la formazione di categorie percettive; es-se sono la discriminazione selettiva di oggetti o eventida altri oggetti o eventi con diversi gradi di generaliz-zazione come, ad esempio: cavallo, quadrupede e ani-male o ruscello, acqua e fluidità. Per poter produrre ca-tegorie è necessario che il cervello elabori i risultati del-l’esperienza fisica che il corpo ha avuto durante la per-cezione dei singoli oggetti o eventi incontrati. L’ela-borazione avviene selezionando e poi associando e dis-sociando le qualità estrapolate dall’azione percettiva.Ogni categoria è formata dall’assemblaggio di oggettied esperienze sulla base di qualità comuni. Una voltaprodotta una categoria, ogni nuovo oggetto percepito

viene riconfrontato con la categoria. Prendiamo comeesempio l’atto caratteristico della poltrona di cui par-la P. Janet: qualunque oggetto riproduca l’atto carat-teristico della poltronamemorizzata dal corpo, verrà in-cluso nella categoria poltrona e la categoria stessa verràrimodellata dalla nuova percezione e con questo pro-cesso, nel corso del tempo, noi gli oggetti non li cono-sciamo, ma li ri-conosciamo. Il procedimento delle azio-ni percettive è anche responsabile della produzione dimetafore. La metafora, infatti, consente di fare inferenzetra ambiti concettuali diversi. L’ inferenza tra ambiticoncettuali è possibile grazie allo stesso procedimentocon cui possiamo formare categorie, ovvero il cervel-lo rintraccia, nell’esperienza fisica, risultati simili in am-biti molto diversi. La Linguistica Cognitiva sostiene chenon solo il linguaggio poetico si avvale di metafore, maanche il nostro linguaggio quotidiano e afferma che lametafora linguistica è l’occorrenza linguistica della me-tafora cognitiva. E’ il procedimento stesso dalla per-cezione ad essere già una metafora cognitiva, perché lapercezione è una traduzione, un’interpretazione che rac-conta in altri termini l’oggetto o l’evento percepito.George Lakoff e Mark Johnson in Metafora e Vita Quo-tidiana e in Elementi di Linguistica Cognitiva, dimo-strano come il nostro linguaggio si avvalga di metafo-re anche quando a noi non sembra affatto di utilizzar-ne, come le metafore di orientamento spaziale: su-giù,dentro-fuori, davanti-dietro, profondo-superficiale,centrale-periferico. Sembra strano che degli avverbi diluogo come su e giù funzionino come metafore, eppu-re quante volte diciamo: “mi sento giù”, per dire che sista male o “mi sento su”, per dire che si sta bene e perestensione diciamo: “il mio morale è a terra, è al cul-mine della carriera, l’impresa è in declino”. L’azionepercettiva, come l’attitudine mimica, non imita il mon-do che ci circonda, ma lo interpreta ed è il frutto di unarelazione. L’attitudine mimica è metafora del mondo ela nostra conoscenza dell’ambiente in cui siamo immersiprocede per metafore, metafore cognitive che, all’oc-correnza, diventano metafore linguistiche; per questo lapoesia sta al cuore della comprensione del mondo. Co-sta insisteva sulla analogia come la chiave per com-prendere l’attitudine mimica; infatti il procedimento chepermette la formazione di categorie e di metafore è unprocedimento per analogia, ovvero, rapporto di pro-porzione continua, in cui il termine conosciuto è il cor-po, mediatore della proporzione.

Una “coreografianaturale”realizzata daAlessandraNiccolini con ilmetodo mimico, a cui staassistendoCosta, Bari,Teatro Piccinni,1986

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Mirella Bordoni1

Poco dopo il diploma all’Accademia protagonista de“La ragazza di campagna”, per la regia di OrazioCosta, Mirella Bordoni alla mimica si è dedicata findagli anni della Scuola di Bari, insegnandola poi agliallievi della Scuola Nazionale di Cinema di Roma.

Ho conosciuto Orazio nel ’75 quando mi sonoiscritta all’Accademia, ho lavorato poi con lui

come attrice, e dopo al MIM di Firenze e alla Scuo-la di Bari, e io stessa ho applicato il suo metodocome insegnante al Centro Sperimentale di cinema-tografia. Più che sul teatro, con Costa, lavoravamosulla poesia con gli allievi; insieme abbiamo fattodei meravigliosi viaggi sui luoghi poetici. L’Oraziodei viaggi reali era diverso, io lo ricordo con piacerein questi momenti. Siamo andati in Francia, a Fon-taine de Vaucluse, dove c’erano le famose acque diPetrarca: lui mi ci ha voluto portare, anche perchéfra noi c’era una specie di questione sospesa, se fos-se più alta la poesia di Dante o quella di Petrarca: iodicevo Dante e lui Petrarca… Siamo anche stati in

Spagna; una sera andammo avisitare l’Alambra, lui aveva ilsuo abito bianco… Non cono-scevo questo posto, ne rimasisorpresa, mi sembrava il Paradi-so, e lui di solito così “gotico”qui si sentiva a suo agio, ed erasoave. Poi c’è questa ereditàstraordinaria, del metodo. Iovoglio ringraziare Maricla perquesto suo libro, per i film cheha fatto con la RAI, su di lui esullo sviluppo della mimica,perché noi Orazio lo abbiamo conosciuto, abbiamolavorato con lui, è stato Orazio via via a darci delleindicazioni, a farci capire, ma i nostri allievi non lohanno conosciuto, ed è importante che possano sen-tirlo, vederlo, mentre recita, mentre indica come sideve interpretare, come si deve ritrovare in se stessila propria creatività, sopita o ignorata. Io mi auguroche questa serata insieme, che è rara, possa davverosortire dei progetti, per poter continuare a diffonde-re questo metodo; io lo applico, tento di lavorarcisempre, sto cercando di farlo anche per le scuole…

E’ l’intervento di Mirella Bordoni il 31 marzo 2003,in occasione della presentazione de “Il corpo creati-vo” al Teatro Studio Eleonora Duse dell’Accademia.

LA SCUOLA SOGNATAPino Manzari

La differenza maggiore da altre scuole di interpreta-zione è la realizzazione di un sogno di Orazio Co-

sta, cioè una scuola che fosse tutta incentrata su questametodologia mimica. Ci si riesce in parte, perché nel-lo stesso tempo stiamo preparando un corpo insegnan-te che possa svolgere questo lavoro fino in fondo. Sia-mo riusciti a lavorare in équipe, che è una novità ab-bastanza importante: tutti gli insegnanti - almeno di re-citazione - lavorano insieme, nelle stesse classi, quindicon possibilità di interventi reciproci, aiutandosi amantenere fedeltà proprio a questa metodologia, e a in-centrare tutto il lavoro intorno ad essa. Il punto da cuipartiamo è l’osservazione che l’espressività mimica èun fatto organico nell’uomo; quindi noi parliamo di“classe di mimica” e nello stesso tempo di “dramma-turgia organica”. La classe poi trova applicazione at-traverso la lettura della poesia, del testo prosastico e co-sì via, senza entrare ancora nel teatro per tutto questo pri-mo anno, dedicato alla scoperta della dimensione or-ganica espressiva. Gli allievi sono venti, più cinque ac-cettati come uditori per ragioni di età o di diverse con-dizioni. I corsi si tengono dal mattino alla sera, per set-

te ore al giorno, dal lunedì al ve-nerdì. Un aspetto importante del-l’iniziativa è che si mantenga unadimensione di serietà, di possibi-lità di approfondimento - comeavviene nelle scuole più impor-tanti d’Italia -, pur localizzandosiquesta scuola in una regione unpo’ lontana dagli eventi teatrali;ma questo perché si pensa un in-carnarsi del teatro nella situazionelocale. Prima di tutto è scuola diespressione, e poi di interpreta-zione scenica; noi crediamo che esista un terreno co-mune alle arti, comune anche alle varie attività umane,comune all’uomo. E’ l’uomo, cioè, che ha questo bi-sogno di comunicazione, altrimenti muore. Le crisi chevediamo attorno all’arte, attorno alla parola sono poi te-stificazioni di questo rischio di morte, di cui ci accor-giamo per tanti motivi. Rifondare nell’uomo il discor-so espressivo significa anche adire alla pluralità, non si-gnifica un discorso finalizzato soltanto a un mestiere.

Pino Manzari è stato il direttore della Scuola diEspressione e Interpretazione scenica di Bari, fondatadaL Maestro. Dal film “L’uomo e l’attore” è trattaquesta sua testimonianza.

QUESTA EREDITÀ STRAORDINARIA

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LA PAROLA DIVENTA VERBO,SI INCARNA

Anna Proclemer

L’esperienza della “Mirra” fu eccezionale, perchélui dalla parola cavava tutto, la parola diventaval’essenza di un testo, attraverso l’accostamento di certeconsonanti, nel valore di certi iati, nel ritmo insopprimi-bile di certi accenti. Era un lavoro durissimo, che miportava a volte alla disperazione: quindici, venti oreconsecutive di lavoro che mi lasciavano stremata, maanche piena di fervore. Se oggi io so dire i versi, lodevo al lavoro con lui. Con Costa la parola diventa ver-bo, si incarna, diventa carne. Quindi non c’è bisogno dicercare molto fuori, è tutto lì. Naturalmente questo èpiù apprezzabile se tu fai dei testi nella lingua originale,che non siano tradotti, e ancora di più se tu fai dei versi.Se tu pensi come recitano oggi i giovani, perché nonhanno questa base!… In teatro io ho fatto perfino la far-sa, con dei ritmi vertiginosi, però avere quella base didizione, di esposizione, di proiezione, mi è servito mol-tissimo. Non è che se uno sa dire i versi bene, poi quan-do recita parla impalcato, non è così. Nel ’49, dopo“Mirra”, feci Shakespeare di “Dodicesima notte”, e“Venezia salva” di Bontempelli alla Fenice di Venezia,al Festival della Prosa, che fu un tonfo, ci fischiaronocome pazzi, nonostante una distribuzione in cui c’eranoBuazzelli, la Falk, De Lullo… Poi feci “Intermezzo” diGiraudoux e “Le colonne della società” di Ibsen, sem-pre nel ’51. Nel ’52 ho cominciato i tre anni con Gas-sman, e poi con Albertazzi facemmo compagnia. Costaci restava anche male che noi non lo chiamassimo, conla nostra compagnia, perché lui era straordinario e peri-coloso, come regista. Infatti “Requiem per una mona-ca” mi ricordo che fu una regìa bellissima, splendida;aveva fatto degli effetti sonori, elettronici, quindi ancheante litteram, che però erano troppi, per esempio quan-do lei andava in carcere a trovare la nera, zzziiii…brrll-ll…e il cancello si apriva, ma si apriva quattordici vol-

te, ne bastavano tre; la sera della “prima”, alla sesta vol-ta cominciarono a beccare! Ad esempio, io mescolo iltè, bbblllllùùùggg…, una serie di effetti!, a volte eranocose carine, comunque sempre molto intelligenti, peròlui non aveva il senso della misura, in questo caso. For-se il mio vero maestro è stato lui. Tre sono stati i mieimaestri: uno lui, uno Gassman, uno Albertazzi. Permaestri intendo gente da cui ho assorbito, preso, osser-vato, ho cercato di capire cosa facevano, come faceva-no, ho rubato…gli attori sono dei ladri!, come tutti gliartisti… C’è anche un fatto affettivo. Io ero molto lega-ta a Orazio, perché lui aveva una sorta di fanatismo nellavoro che assomiglia molto al mio, e che io trovo qua-si sempre insoddisfatto. Io non lavoro bene con i regi-sti, quasi mai, perché sono divi. Con Strehler io duevolte ho lavorato, nel ’48 feci “Il gabbiano” con la Bri-gnone, Santuccio, Battistella; io ero Nina naturalmente.“Il gabbiano” l’ho fatto anche con Costa in televisione,dove ero Arkadina accanto a Gabriele Lavia che eraKostia e alla Occhini, Nina. Orazio non sapeva nientedella televisione, si perdeva un sacco di tempo, perchélui inquadrava una scena di qua e poi per far uscire deipersonaggi ribaltava tutto il campo con tutte le luci perfare quell’uscita e perdeva tre ore…, pensava teatral-mente. Mentre lo facevo non mi pareva un granché, poiquando l’ho visto mi è sembrato buono. (…) Ma a mequesta forma un po’ di fanatismo sul lavoro, questa suaqualità un po’ ossessiva… mi piaceva, anche se io erouno degli sgavazzoni. Io mi trovo molto meglio coifanatici che coi cialtroni, quindi mi trovavo bene conOrazio per questa sua capacità di insistere su una paro-la, su di una battuta per ore e ore…

Maricla Boggio ha incontrato Anna Proclemer acasa sua, il 3 febbraio 2004.

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Anna Proclemercon GabrieleLavianell’edizionetelevisiva del“Gabbiano”,1969

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IL SENSO DI GIUSTIZIAFrancisco Mele

F. M. - La domanda che mi sono posto, se il senso del-la giustizia è quello legato soprattutto a certi principie che dovremmo teoricamente tutti sviluppare, è: do-ve ciascuno di noi prende questo senso di giustizia? Se-condo te, la famiglia è in grado di fornirlo ai figli?O. C. - Il senso di giustizia è uno - credo - dei sensi in-nati più presenti ancora. Non so quanto resterà, però ve-ramente me lo ricordo anche personalmente, quanto ilsenso di giustizia contraddetto crei proprio disperazio-ne addirittura; uno dei primi grandi traumi della vita èquando non ti credono, quando ti offendono, questa èuna base molto importante, però chi l’amministra nel-la famiglia? Il senso della giustizia viene spessissimofrustrato, e allora il bambino non capisce più a chi de-ve credere, se a papà, a mamma, o anche semplicementea se stesso, e purtroppo il bambino è portato ad accor-gersi prestissimo della sua doppia realtà - noi siamo tut-ti doppi - e a un certo punto deve scegliere quello chedicono gli altri, buoni, o quello che dice in se stesso, piùo meno incoraggiato dagli altri, chiamiamoli cattivi. F. M. - Tu hai posto il problema: un individuo non nascecome se stesso, ma si costruisce attraverso l’altro. Si po-trebbe qui inserire il discorso dei neuroni-specchio facendoriferimento anche alla teoria dello specchio di Lacan a pro-posito del bambino e della madre. Quando manca questosguardo materno, il bambino osserva un corpo spezzet-tato e senza unità che lo porta a un livello altissimo di an-goscia. Ma questo discorso dei neuroni-specchio viene aconfermare l’intuizione di René Girard: l’antropologo af-ferma l’importanza della mimesi nell’apprendimento diogni bambino e soprattutto nel voler possedere quello chel’altro desidera. Tale desiderio è alla genesi del conflitto.O. C. - Io naturalmente mi son fatto molte volte questadomanda, proprio per ragioni del mio mestiere, oltre chequelle del mio mestiere di uomo. Il problema dell’e-spressione facciale nei rapporti con gli altri e, per con-seguenza anche con la teorica maschera. Il fatto è che ilbambino, fin da bambino, tende a esprimere quello cheha dentro, la sua buona volontà, il suo sorriso, il suo con-discendere alle richieste, e si accorge che quello che gliappare in viso è molto immediatamente capito e accet-tato, sia quando accetta sorridendo, sia quando non vuo-le. Progressivamente ma molto presto si accorge che c’èuna leggibilità del suo volto che non è a suo vantaggio:è meglio che il volto resti illeggibile, e impari addiritturaa nasconderlo e a dire il contrario di quello che sente.Quindi c’è questa fatale sensazione del doppio, e que-sto comporta una certa atonìa dell’espressione e una gui-da volontaria di espressione più o meno falsa; la volontàdi sembrare dello stesso parere porta a una espressione;la volontà di non far capire che non si è dello stesso pa-rere porta a un’altra espressione, e questo poi si mani-festa in tanti problemi, anche scenici e particolarmentecinematografici, dove l’espressione naturale, come cre-

diamo di chiamarla, non esiste più, esiste solo un’e-spressione sociale più o meno falsificata, che si sciogliein alcuni casi particolari, negli affetti, nell’amore, nei rap-porti più intimi; si scioglie, ma non c’è dubbio che esi-ste chi resiste anche allo scioglimento verso la comuni-cazione assolutamente diretta. Quando può sembrare chesia importante un’espressione addirittura aperta impu-dicamente al piacere sessuale, non è più detto nemme-no che quello sia vero, può essere una finzione, per ra-gioni di coppia, di contatto, addirittura per ragionicommerciali, diciamo; ma quando per fortuna queste ra-gioni commerciali reali non esistono, purtroppo esiste -questo lo sai meglio di me - una specie di politica istin-tiva dei sentimenti, che arriva soltanto in casi felicissi-mi ad essere sciolta e resa comunicabile; che la coppiadiventi un’unità, è un fatto certamente molto raro; su-perato il momento del connubio, che resti, che si conti-nui... Purtroppo il problema dell’essere letto, da legge-re per l’altro, è un problema... Noi lo rifiutiamo, e unadelle cose che ci domandiamo più spesso è: “Che hai?”.“Che hai?” vuol dire che ho l’impressione di leggere sultuo volto qualche cosa che non vuoi o non puoi comu-nicarmi. “Ma che hai? Che hai, oggi?” è - credo - unadelle frasi che non si dice, che torna continuamente, matorna. Ed è reciproco, questo.F. M. - Nello stesso modo che l’altro cerca di leggere innoi, e io cerco di nascondermi alla lettura dell’altro, ne-gando, affermando, c’è anche una difficoltà, poi, a leg-gere la propria vita. Qui allora interviene la psicoanali-si, a ricostruire la storia del soggetto. La lettura psicoa-nalitica è diacronica, senza perdere la dimensione pre-sente della sincronicità. Io considero necessario che unapersona ricordi non solo quelli che lo hanno umiliato, maanche quelli che lo hanno sostenuto e hanno creduto inlui. La funzione del maestro è quella di portare alla lu-ce i talenti che l’allievo non sempre sa di possedere. Adifferenza di altri maestri, tu hai saputo rispettare la per-sonalità dell’attore accompagnandolo nella sua cresci-ta professionale e umana. Non per caso tu affermi che,prima di fare un attore, si deve fare un uomo.

Il dialogo con Orazio Costa nella sua casa di Firenzeè avvenuto nel 1996 ed è pubblicato nel libro di Fran-cisco Mele “Io diviso/Io riunito – per una psicoetica del-l’operatore sociale”, FrancoAngeli, Milano, 2001.

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UN’APERTURA TOTALE ALLE DIVERSE FORME DI ESPRESSIONE ARTISTICA

Elena De Giusti

L’esperienza di queste giornate di laboratorio milascia sensazioni molto vivide in quanto speri-mentate, vissute.Non conoscevo il metodo mimico ma ne sono rimastaaffascinata. Di quanto detto in aula e delle dispense micolpisce molto la vasta gamma di applicazioni pratichedel metodo che ha come finalità non esclusivamente ilfatto scenico ma principalmente l’educazione del-l’uomo. Questo, come dice lo stesso Costa, permetteun’apertura totale alle diverse forme di espressione ar-tistica come abbiamo sperimentato durante il labora-torio utilizzando la pittura e analizzando la poesia.L’azione educativa, nel suo significato etimologico di“tirare fuori”, si concretizza infatti nell’interpretazioneche non è una mera imitazione dell’oggetto osserva-to o di un grande attore che declama dei versi, ma di-viene un’identificazione dell’osservatore con l’og-getto. In questo modo chi interpreta è chiamato aun’osservazione attenta ma anche ad un ascolto in-teriore che gli permette di liberare quella forzaespressiva di cui ogni essere umano è dotato.Osservare attentamente per diventare l’oggetto del-l’osservazione e quindi esprimere ciò attraverso l’a-zione creativa mi ha permesso di ascoltarmi mag-giormente e di utilizzare ritmi, movimenti, vocaliz-zazioni che normalmente non manifesto ma che sen-to appartenermi nel profondo. Sono modalità espres-sive che rimangono sopite se non addirittura trattenutedalla meccanicità delle azioni quotidiane e dal ruoloche ognuno di noi riveste, diventando quindi un per-sonaggio definito e spesso etichettato nel contesto incui vive. Significativi sono stati per me i commentidei miei compagni di corso esterni al laboratorio diespressione teatrale che, stupiti, mi hanno fatto notareil cambiamento del mio atteggiamento. Un cambia-mento che io ho vissuto come il risveglio di una di-mensione creativa accantonata da tempo e per questo

causa di mutamenti nel mio modo di socializzare.Mi ha sorpreso l’apparente semplicità della proposta delMaestro Costa, che si basa su qualcosa che appartie-ne all’uomo dai suoi primordi ovvero sull’istinto adat-tativo e sulla capacità creativa di imitare l’ambiente peradattarvisi. Con l’acuirsi delle capacità di osservazio-ne si risveglia in noi quell’istinto sopito che un tempoci era utile alla sopravvivenza mentre oggi ci offre lapossibilità di ampliare il nostro vocabolario, le nostrecapacità espressive e, come conseguenza, di allargaregli orizzonti della nostra consapevolezza della realtà.Questo tornare ai primordi ci permette di riscoprire illegame intimo e la profonda comunicazione che in-tercorre tra l’uomo e la natura, cosa che abbiamo di-menticato nella quotidianità delle nostre azioni ma cherimane latente in noi, scritta nelle nostre cellule.Ritengo che il metodo mimico possa risultare d’aiu-to per l’educatore nell’esercizio dell’ascolto di per-sone che spesso utilizzano modalità di comunicazionediverse dalle nostre. L’osservazione e l’ascolto di in-dizi appartenenti all’altro, in particolare al suo mon-do esteriore, ci possono portare al suo mondo inte-riore così come il procedere a ritroso nel precorsocreativo del poeta ci conduce all’emozione provatadal poeta stesso nello scrivere i versi che vogliamointerpretare.

Queste riflessioni sono di una allieva del corso tenutoda Maricla Boggio, 2011-2012 all’Istituto Progetto Uo-mo - Università Salesiana di Scienza della Formazionedi Viterbo.

Momenti dilavoro ispirati al metodomimico

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IL “SOGNO” COLOSSEO

Ettore Zocaro

Era una bella mattina di sole quando un addet-to stampa mi telefonò per invitarmi a un

incontro con Orazio Costa. Chi mi chiamò era unamico, per cui mi sarei aspettato qualche spiega-zione sul carattere dell’incontro, ma lui nonaggiunse altro. L’appuntamento avvenne in unbar di via dei Fori Imperiali, luogo del tuttoinconsueto per un appuntamento stampa. Il cheaccrebbe la mia curiosità per il carattere dell’in-contro che si profilava sempre meno esplicito.Giunsi puntuale verso mezzogiorno e trovaiCosta ad aspettarmi. Subito mi sorprese dicendo-mi: “Andiamo a fare una passeggiata al Colos-seo”. Percorremmo un centinaio di metri e poifummo introdotti all’interno da un custode.Cominciammo ad arrampicarci sulle imperviegradinate del millenario edificio, entrambi conuna certa fatica. Non avrei mai immaginato ditrovarmi io e Costa insieme proprio lì. Era dav-vero per me qualcosa di sorprendente e assoluta-mente emozionante. A un certo punto gli doman-dai: “Perché siamo qui?”, ed egli mi rispose:“Perché spero di mettere in scena in questo luogo

uno spettacolo teatrale. Idea che da qualche tem-po porto con me. Ritengo che la magnificenzadel teatro abbia bisogno ogni tanto di postistraordinari”. Continuammo a salire, fino all’ul-tima rampa, lasciandoci dietro centinaia di incan-tati turisti stranieri. Orazio Costa appariva felicenell’illustrare il progetto, determinato di poterprima o poi realizzarlo. Quando arrivammo incima, dove si poteva vedere e ammirare nella suapienezza l’intera struttura, mi svelò che il suointento era quello di allestirvi una versione tea-trale della “Divina Commedia” di Dante Alighie-ri. “Ci penso spesso – mi disse – , anche se si

“Inferno diDante”, per la Rai-

TV, 1967.Roberto Herlitzkainterpreta Dante

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tratta di un’operazione piuttosto complicata ecostosa, ma ora è forse giunto il momento final-mente per attuarla. Mi sento confortato e inco-raggiato da diversi collaboratori”. Rimasiimpressionato dall’originalità e dall’audacia delprogetto. Anche se in cuor mio mi sembravaun’impresa quasi impossibile per il teatro moder-no. Fino a quel momento nessuno aveva osatoriportare il teatro in un luogo che in passato ave-va accolto gladiatori e funamboli. “Vedi – spiegòCosta – metterò il pubblico al centro dell’arenaaffinché veda la rappresentazione dell’Inferno alprimo piano, il Purgatorio al secondo, il Paradisoal terzo. Momenti alternati da interventi di illu-stri poeti che dicono i versi danteschi. Natural-mente sarà il lavoro più ambizioso, ma probabil-mente anche il più bello della mia carriera”.Costa continuò ad analizzare alcuni particolaridell’eventuale allestimento, come avrebbe dispo-sto le scene e i movimenti degli attori, pur nonnascondendo le tante difficoltà. Ci salutammocon l’auspicio di ritrovarci presto al Colosseo.Purtroppo questo non avvenne perché nonostantemi fossi servito dei mezzi di comunicazione cheavevo a disposizione per diffondere la notizia, ilprogetto non andò avanti. Comunque, Costa ave-va certamente visto giusto, nello sperare di ria-prire il Colosseo a un evento teatrale, in quantoqualche anno dopo non mancarono di approdarenell’antico monumento alcuni spettacoli dram-matici di compagnie straniere e importanti con-certi sinfonici. Per Costa, dunque, un sogno non

realizzato che un artista del suo assoluto livello,fautore di un teatro innovativo in continuo dive-nire, avrebbe certamente meritato.

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DA LUI HO ASSORBITO TUTTO

Roberto Herlitzka

MARICLA BOGGIO - Anni fu hai fatto un “Amle-to” che hai intitolato “ ‘Ex Amleto’, di Shakespea-re, da Roberto Herlitzka”. Quando sono venuta a ve-derti mi dicesti: “Non dire a Costa che io faccio que-sto Amleto, perché sicuramente mi criticherà, non glipiacerà, e io non voglio affrontare questo rischio”. Ioinvece, essendomi molto piaciuto lo spettacolo e co-noscendo Orazio, gliene parlai. Lui venne a vederti,ti fece tantissimi complimenti, e a me poi disse cheera una delle cose più belle che avevi fatto. ROBERTO HERLITZKA - Andai a fare questospettacolo a Firenze, al Ridotto della Pergola. Lo fa-cevo un giorno solo e lui mi chiese di venire il gior-no prima; io facevo sempre una prova di memoria, evolevo vedere anche le luci e tutto quanto. Io dissi:“Ma guardi dottore, questa è una prova di memoria,non è uno spettacolo...”. “Eh! ma io domani non pos-so..., ci tengo molto...”. Venne, unico spettatore, ac-compagnato da Chiara1 che gli dava il braccio, si se-dette lì e cominciò a dire: “Scusa Rroberto, non hosentito...”. “Dottore sì, ha ragione, ma io non possoadesso fare troppo forte, perché poi mi stanco, è unaprova di memoria...”. “Sì sì certo certo...”. Poi siccome c’era un palcosceni-co un po’ rilevato, io invece questa cosa la faccio pre-feribilmente tenendo il pubblico allo stesso livello, e giàquesto mi creava un po’ di problemi, e lui dice: “Ma Rroberto, perrché non scendi, ti appoggi così, auna colonna...”. “ Ma guardi dottore non è che io adesso sto organiz-zandomi, è uno spettacolo che ho già fatto, non cam-bio i movimenti...”. “Ah sì sì, sì certo...”. Ricomincio e lui: “Quando di-ci quella cosa, non ho sentito...”. “Dottore, io credoche la prova la farò in albergo”. Gli ho detto propriocosì. E lui: “No no per carità...”. E da quel momento è stato zitto. Poi, Chiara che lospiava ha visto che la cosa gli interessava, gli piace-va evidentemente. Alla fine ci fu un grande silenzio,poi cominciò a dire: “Hai fatto un lavoro...”., e pen-savo stesse dicendo: “Hai fatto un lavoro per niente”,invece venne fuori a dire: “Questo è l’Amleto che hosempre pensato, questo Amleto che è veramente paz-zo, quello che io mi sogno...Ma tu questo lo hai fat-to con una furia recitativa! - mi piacque molto que-sta espressione applicata a me - Tu devi farne non uno,ma sei film!”. Poi gli proponemmo di andare a cenaassieme, e lui disse: “No, non mi sento”, sembrava chefosse veramente colpito e volesse rimuginarsi la co-sa e non si sentisse di parlarne. Poi io gli scrissi unalettera in cui gli dicevo che la sua approvazione erastata per me il più alto riconoscimento che abbia avu-

to nella mia carriera - ed è vero -, che nessun premiovarrà mai quanto una sua così intensa approvazione,anche perché credevo che il mio Amleto gli avrebbefatto schifo. Invece no.M. B. - Avevi paura del suo giudizio per aver tocca-to il testo?R. H. – Immaginavo che il mio modo era talmentelontano da quello che supponevo che fosse il suo; inrealtà lui era a volte imprevedibile, però un’idea unose la faceva, del suo mondo espressivo; il mio per-sonale, malgrado la vicinanza, era tutto un altro, e ioera il mio che avevo seguito... E anche una mia for-ma di ironia nei confronti di un testo, che uso abba-stanza e so che in certi casi a lui non poteva andare.Invece lì evidentemente gli è andata.M. B. -. Certamente il tuo spettacolo è venuto dopoil lavoro che Costa ha fatto con gli allievi dell’Acca-demia, proprio sull’ “Amleto”2.R. H. - Onestamente non saprei le ragioni per cui que-sto mio spettacolo gli sia piaciuto tanto. Comunque, que-sta lettera che io gli mandai, qualcuno mi disse che sela portava sempre dietro, cosa che mi ha veramente mol-to emozionato. Poi una cosa di cui mi sono pentito ama-ramente è avvenuta l’estate dopo, quando lui mi telefonòdicendo che, siccome voleva fare in Accademia - o inun altro posto - degli esercizi sull’Amleto, disse: “Vo-glio partire proprio dal tuo”. E io gli dissi: “No, guar-di, dottore, perché se ci mettiamo insieme, il suo Am-leto è troppo più forte del mio”. “No - disse lui, e gli di-spiacque veramente -, io voglio partire proprio dal tuo”.M. B. - Questa sincerità con cui hai risposto era an-che la sua.

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E’ stato detto più volte che tu sei assolutamente costiano. R. H. – Sì, io da lui ho assorbito tutto, perché mi af-fascinava, certamente come persona, come intelli-genza, come capacità di insegnare, ma soprattutto co-me attore; il vederlo recitare, a me apriva dei mondi,mi faceva capire che cosa si può arrivare a fare reci-tando. E questo mi ha affascinato talmente che io misono buttato nelle cose che faceva lui, non è che io vo-lessi imitarlo, ma non mi sembrava possibile fare inun altro modo. E il risultato era che mi davano delpazzoide, del cretino. Lui poi mi trattava male, malecome trattava le persone che amava, da cui sentiva diessere amato, da padre, ma severo... E certi mi dice-vano: “Ma ti fai trattare così da Costa?”. E io dice-vo: “Facendomi trattare così, io prendo tali cose chevale la pena di farsi trattare malissimo”, tanto più che

lui non era mai volgare, poteva essere perfido, peròera sempre nei limiti di una assoluta civiltà, non è cheti insultasse, non ha mai insultato nessuno, lo facevamagari con il tono...M. B. - Negli ultimi tempi lui mi diceva: “Mi sono re-so conto che la vita è passata e io ho sempre lavora-to, troppo; dovevo godere di più la vita”. E quando en-trava nel bar ascoltava quello che gli raccontava l’o-mino al banco, oppure andava in campagna in auto conun altro omino che gli faceva dei lavori in casa, chelo accompagnava a vedere delle cascine...Costa capi-va che c’erano delle altre dimensioni della vita che nonerano soltanto e sempre fare degli spettacoli.R. H. - Lui d’altronde mi disse una cosa meraviglio-sa3, una specie di piccola parabola. Eravamo alla ra-dio a Firenze, era un meraviglioso ottobre, una do-menica - lavoravamo anche la domenica - e lui dis-se: “Quando morirò, Dio mi chiamerà e mi dirà: ‘Tudov’eri il giorno dieci ottobre dell’anno tal dei tali?’,e io gli dirò: ‘Signore, ero a lavorare’. ‘Io avevo man-dato - dirà Dio - una meravigliosa giornata da passa-re nei prati, e tu l’hai trascurata!’ “.

Il dialogo è ripreso da un’intervista pubblicata nel li-bro “Mistero e teatro – Orazio Costa, regia e peda-gogia”, Bulzoni Ed., 2004

1 Chiara Caioli, moglie di Roberto Herlitzka, anche lei diplomatain recitazione all’Accademia.

2 Orazio Costa tornò in Accademia per due anni accademici, dal1992 al 1993, facendo parecchie lezioni sul metodo mimicoe iniziando poi un lavoro sull’“Amleto” che alla conclusionedel primo anno venne portato al Festival di Taormina, e con-tinuò a essere elaborato per un altro anno.

3 La testimonianza di Roberto Herlitzka si trova su ETInforma,anno V, numero 1 -2000, p. 43.

“Il Poverello diCopeau diretto da Costaper la Rai-Tv,protagonistaHerlitzka, 1967

Roberto Herlitzkaa un incontro alMIM - centro diavviamentoall’espressione di Firenze, 1986

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“RICORDATI GABRIELE, IL PUNTO DI ARRIVO DELLA MIMICA È L’IMMOBILITÀ”

Gabriele Lavia 1

Le prove sono andate così. Io non vedevo mai glialtri attori e loro non vedevano me. Io non pro-

vavo le battute del messaggero, ma facevo solo la mi-mica. Quando ho fatto i tre anni di Accademia nonho mai avuto Costa come insegnante: non c’era mai,una volta stava in India, un’altra volta doveva fare unospettacolo…Il mio incontro con Orazio è avvenuto percaso, quando, dovendo fare un incontro di scuole d’ar-te drammatica a cui partecipava anche l’Accademia,Orazio per un mese ci preparò dei pezzi, io credo chefacessi l’ “Oreste” di Alfieri: Orazio mi manifestò su-bito il suo affetto e il suo interesse per le doti che miintravvedeva, e mi disse anche: “Ah! Carrro, ti devodare una brutta notizia, un giorno tu farai il regista,farai il mestiere dei frustrrati…”, e io: “No mai!”, “Eppurre vedrrai, un giorrno farrai il rregista!”, e ciaveva preso, “Perché orra tu mi hai detto una cosa chenon è una cosa che dicono gli attorri, è una cosa chedicono i rregisti”, e lui, il probo regista, è stato anchequello che capì subito che la regìa si infilava in un vi-colo cieco e che avrebbe poi strozzato il teatro tra lafigura del regista e la figura del critico, togliendo po-co alla volta lo spazio alla figura dell’attore, al gestodell’attore, e al gesto che deve fare anche il pubbli-co. Infatti negli ultimi anni Costa non si chiamò più

regista, ma diceva “coordinatore” e non dava all’at-tore le indicazioni…:”Ma che cosa devo fare? Ma dadove entro?”, diceva l’attore ; “Ma carro, tu sei l’at-tore, lo devi saperre da solo da dove entrri”: con que-ste parole lui voleva far capire all’attore come la re-sponsabilità fosse soltanto sua, e come l’appropriar-si dello spazio da parte dell’attore era un dovere du-ro e terribile. Non si può parlare di Orazio senza par-lare di Orazio uomo, dei suoi rapporti con le altre per-sone, dei suoi rapporti con l’altro sesso anche; è dif-ficile, perché questa eleganza distaccata, questo mo-do di dire le parole accarezzando lo spazio …lui quan-do parla fa sempre così con la mano, come le sue pa-role che girano attorno alle cose e mai aggressiva-mente… Insomma, per concludere con questo “Edi-po re”, alla fine ci incontrammo con la compagnia -

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Gabriele Lavia aun incontro alMIM di Firenze

durante le ripresedel film “L’uomo el’attore” - OrazioCosta, lezioni diteatro”, 1986

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Bosetti faceva Edipo, Franca Nuti Giocasta, poi c’e-ra Ettore Toscano… Mario Valgoi faceva Creonte -, alla prova generale: io ho visto Edipo dalle quinte,come quel fantasticato Messaggero vi avrebbe assi-stito, qualora quell’azione fosse stata la verità stori-ca allora nella notte dei tempi, da dentro la reggia,guardando di sguincio e sentendo più che altro l’a-zione. Io sentivo Bosetti, a volte tra una porta e l’al-tra delle tre porte lo intravvedevo; a un certo momentotoccava a me; e uscivo a fare questo pezzo che nonso se ebbe successo, perché la critica fu terribile, que-sta me la ricordo… disse che questo Gabriele Laviarecitava come un attore del Living theatre; il criticodi Trieste lo scrisse inorridito, mentre per me era uncomplimento. Invece sul pubblico, che ha sempre unasua sapienza perché è antico quanto il teatro, facevaun effetto positivo; non è mai avvenuto che alla finedella performance non venisse l’applauso; il che vuoldire che se non altro da un punto di vista biecamen-te teatrale arrivava qualche cosa; forse non capivano,però dicevano: “Toh! questo ragazzo!”. Io poi non da-vo tanto peso a queste critiche; dentro di me, non socome, mi sentivo che c’era qualche cosa… E il Mes-saggero, l’anno dopo, De Lullo me lo ha fatto fare al-la Scala di Milano e mi ha detto: “Fallo uguale a co-me lo hai fatto con Orazio” ed ebbi un grande suc-cesso. Fu un’esperienza davvero indimenticabile.Ma una volta Costa mi disse: “Ricordati Gabriele, ilpunto di arrivo della mimica è l’immobilità”, tuttoquesto sposare, congiungersi, coniugarsi, con la na-tura, con i sentimenti doveva arrivare a raggiungerel’immobilità. Io ho un grande affetto per Orazio, l’hovisto poco prima che morisse, tanto che nello spetta-colo “Dopo la prova”2 racconto questo mio ultimo in-contro con lui, e faccio una citazione di Orazio, la fac-cio sempre perché Orazio mi ha dato molto, non so-lo da un punto di vista artistico, ma anche da un pun-to di vista umano.(…)

La cosa più bella che ho visto di Orazio è stato l’“Am-leto” che ha messo in scena a Taormina. Era vera-mente qualche cosa di particolare, quel lavoro su“Amleto”.

Quanto dice Gabriele Lavia è tratto da un dialogo conMaricla Boggio pubblicato in “Il corpo creativo”,Bulzoni ed., 2001 Lavia interpretò il Messaggero nell’“Edipo” con laregìa di Costa, nel 1967.

1 Lavia mise in scena questo testo di Ingmar Bergman.2 Si tratta di un work in progress che Orazio Costa aveva rea-

lizzato con gli allievi dell’Accademia, che venne invitato al Fe-stival di Taormina di cui era direttore Lavia nel 1992.

Lavia con gliallievi del MIM di Firenze, 1986

Gabriele Laviaduranteun’esercitazionemimica inAccademia, 1963-66

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CONSERVO GELOSAMENTE GLI APPUNTI DI QUELLE GIORNATE

Fabrizio Gifuni

Nel biennio 1992-93, Orazio Costa tenne in Ac-cademia circa centosessanta lezioni, interamen-

te dedicate all’Amleto di Shakespeare. Questo straor-dinario momento di studio faceva seguito a un altro ci-clo di lezioni sul cosiddetto ‘metodo mimico’ tenutoda Pino Manzari e da Costa stesso l’anno precedente.Conservo gelosamente gli appunti di quelle giornate.Il testo su cui si lavorava era quello integrale, dal pri-mo all’ultimo verso. Sette o otto traduzioni a con-fronto, più quella di Costa, da leggersi - come alcu-ni romanzi di Gadda - vocabolario alla mano. Tutti iruoli erano a disposizione di tutti. Donne e uomini po-tevano cimentarsi indifferentemente su Amleto o Ger-trude, Ofelia o Osric, Claudio o Polonio.Mi è capitato diverse volte durante gli ultimi quindi-ci anni – sia che stessi lavorando a uno spettacolo siache mi stessi preparando a un film - di sfogliare a ca-so quegli appunti, quasi scaramanticamente, per ri-cercarvi risposte a improvvisi quesiti, come nell’an-tico libro cinese dei Mutamenti, l’I Ching.

“E’ l’aldilà che introduce il teatro, sono i fantasmi cheguidano la nostra storia. L’uomo è sempre in colloquiocon questi personaggi ideali, la cui presenza è sicura..”“Il sipario in Amleto potrebbe aprirsi quando appa-re il Fantasma. Tutto sommato fino al suo apparire,in scena si realizza – sia pure con i dovuti incidenti– una ‘commediola militare’.”“La capacità di ripetere identico un suono o un ru-more è un fatto di prodigiosa importanza. Ogni at-tore dovrebbe sapere esattamente quali siano leproprie condizioni audiometriche. Le attuali condi-zioni del nostro orecchio devono essere tenute sottocontrollo e accuratamente esercitate. E il Coro èsenz’altro uno dei modi più efficaci per farlo.”“San Paolo diceva : ‘Che guerra in me, in cui vivo-no due uomini diversi’. Io dico, beato lui che ne ave-va soltanto due... ”“Non basta trovare la propria voce, è necessario vol-ta per volta trovare la voce di un personaggio..”“Siete in una posizione privilegiata. Il teatro è una dellepoche strade rimaste all’uomo per salvarsi. Gli attori so-no punte ai margini dell’esistenza. Gli altri sono già mor-ti e non sentono, per fortuna loro, la puzza che fanno...”“Non troverete molte persone che vi correggeranno‘onestamente’ : siete soli e dovete sentire tutta la re-sponsabilità di essere parte di questo tessuto esistenteche è la lingua italiana.”“‘Colpi di scena’ e ‘nodi drammatici’ fanno si che unfenomeno possa essere compreso nella sua interezza:

non c’è bisogno di conoscere tutte le gocce che com-pongono un temporale per ‘essere’ quel temporale. Icaratteri distintivi di un fenomeno (una foglia può es-sere lanceolata, oblunga, a forma di cuore, a trifoglio,etc.), non devono allontanarci dal considerare che, perfortuna, i fenomeni in natura sono omogenei e si pos-sono descrivere con alcuni ‘colpi di scena’ contestuali.Un albero si può descrivere con tre ‘colpi di scena’.”“In questo momento noi facciamo questo tipo di lavorosul personaggio Amleto, ma il vantaggio che ne avràchiunque un domani si trovi ad affrontare altri personaggisarà quello di aver guadagnato ‘un fondo di Amleto’..”“Il timbro (o colore o metallo) è l’aspetto più per-sonale di una voce, ed è una variabile che l’attore cu-ra troppo poco. Nella vita di tutti i giorni diamo luo-go continuamente ad un processo di mimesi sponta-neo – anche dal punto di vista timbrico – rispetto al-le persone con cui parliamo : a seconda della loroetà, del sesso.. Cercate di ricordarvelo.”“C’è una splendida frase di Cicerone che dice : nonesiste per l’uomo miglior teatro di quello che gli of-fre la propria coscienza.” ( Etc.etc..)

Scorrendo quei taccuini, che hanno resistito a diver-si traslochi, ogni volta mi domando quanti altri uo-mini, in Italia, abbiano dedicato con la stessa inten-

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Da destra,Fabrizio Gifuni eLuigi Lo Cascio

durante unalezione su

Amleto, 1992

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sità tutta la loro vita al lavoro dell’attore. So con cer-tezza che uno dei pensieri che hanno ossessionato Co-sta fino all’ultimo istante è stato come si potesse rap-presentare il fantasma del padre di Amleto, in scena,senza scadere nel ridicolo.

Chi ha avuto l’immensa fortuna di partecipare a quel-le lezioni d’Arte sa che ha passato sicuramente mol-te più ore ad ascoltare la sua voce inconfondibile o arecitare in Coro tutto l’Amleto, di quante non ne ab-bia passate a provare una scena o un monologo, inquesto o quel ruolo. Senza accorgersi, allora, che quel-la condizione di incomprensibile attesa a cui Costa

spesso ci sottoponeva per ore e ore, era il modo mi-gliore per infiammare la nostra fornace. E che quelmorso tenuto sulla bocca del cavallo fino a farlo schiu-mare, era il modo migliore per prepararlo alla corsa.A una corsa lunga e insidiosa, in cui è facile perder-si o cadere sfiniti. Ci allenava, il maestro. Ci educa-va all’Ascolto, condizione primaria di qualsiasi pras-si attoriale, teatrale o cinematografica. E ci insegna-va al contempo, attraverso l’antica esperienza del Co-ro, che non si è mai ‘solisti’, anche quando si è soliin scena o si monologa.Precondizione di qualsiasi lavoro sul testo o sul per-sonaggio, il risveglio dell’infanzia e del suo infalli-bile istinto mimico. Riavvicinarsi sempre di più aquell’innata capacità di diventare ‘qualsiasi cosa’ chehanno i bambini nei primissimi anni di vita. Un viag-gio a ritroso alla ricerca di un’età dell’oro - il primostadio dell’esistenza - in cui famiglia, scuola e con-venzioni sociali, non hanno ancora avuto il tempo dichiudere la propria morsa infernale sui nostri corpi,interrompendo quel fiume di energia spudorata e be-nedetta. Che è mimica allo stato puro. ‘Scatenarsi’ di nuovo nel gioco, recuperarne le rego-le, smarrire il tempo e abbandonarsi.Costa si preoccupava del ‘nucleo originario’ dell’atti-vità espressiva, del ri-avviamento all’Espressione.Stava all’attore scegliere successivamente la propriastrada, che fosse la Fonè di Carmelo, la comicità di Pa-nelli o il realismo mimetico di Volontè. In questo sta la grandezza della sua intuizione e l’uni-cità del suo insegnamento: il metodo mimico si ante-pone a qualsiasi altra tecnica, dandogli linfa e anima. Non può contrapporsi a nessun’altra pedagogia per-ché, inevitabilmente, la precede.

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Un momento di una lezione su Amleto con gli allievidell’Accademia

Fabrizio Gifuniprova una battutadell’Attore in Amleto, 1992

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L’UNICO MAESTRO

Sandra Toffolatti

“L’incontro con Orazio Costa è quello che con-ta. Il suo modo di spiazzare ogni situazione,di andare al di là”.“È meno costiano lui dei suoi allievi che applicanoil metodo!”.“Stavamo lavorando alla scena in cui Polonio in-contrando Amleto assorto in un libro gli domanda:‘Che cosa state leggendo?’, e lui risponde ‘Parole pa-role parole…’. Costa ci chiese che cosa secondo noistava leggendo Amleto. Noi a dire le cose più com-plicate, storiche, filosofiche, e lui (imita la voce di Co-sta con la erre arrotata), si mise a ridere:‘Io credo che stia leggendo una poesia di Rimbaud!’, la-sciando tutti a bocca aperta per quella libertà di inven-tare senza timore di apparire poco aderente al testo.“Quattro ore mi ha tenuta un pomeriggio per dire labattuta di Marcello ‘C’è del marcio in Danimarca!’.La rifacevo: ‘No no!’ La riprovavo con mille into-nazioni, con vocalità via via differenti, dal quasi sot-tovoce a quella urlata, dilatata, grottesca…: ‘No!nooo! Riprova’. Fino all’esaurimento, all’afasia, al-la follia, all’esasperazione ad un passo dall’abban-dono. Mi manda al posto: ‘Un altro!’. E via di nuo-vo, a rifare infiniti modi di interpretazione”.“Mi è venuto in mente dopo, che cosa voleva dire Co-sta con tutto quel provare e riprovare. Mi sono resa con-to che per quattro ore io avevo cercato di fare bene quel-la battuta; mi ero preoccupata che mi dicesse che ero riu-scita a dirla bene. Invece Costa voleva ‘cercare’”.“Era rigido, non concedeva niente al facile. Una vol-ta siamo stati ore, tutti quanti, a dire il monologo diAmleto sugli spalti – ‘Angeli e ministri… Spirito disalvezza o dannazione…’ – tutti in ginocchio, andandosu e giù: ‘Dovete farlo con le ginocchia!’. Non capi-vamo perché, ma ce la mettevamo tutta, e in quel granfaticare forse veniva qualcosa di nuovo, trascuravamo

le belle posizioni, ci dimenticavamo di noi stessi…”.“Difficile da vivere, in quei giorni, però bella, una di-stanza tra lui e noi, ma che in realtà era una grandeimmersione nel lavoro”.“In quell’età lì uno non vede l’ora di venir fuori, difarsi vedere, di mettersi in mostra in una parte… Il la-voro piccolo non conta”.L’anno in cui avevo seguito le prove dell’Amleto, Co-sta portò gli allievi al Festival di Taormina, invitatoda Gabriele Lavia.Sandra riandava agli atteggiamenti suoi e dei com-pagni, giudicando quello che allora era sentito comeun diritto usurpato.“Per costume avevamo una tutina grigia chiara le al-lieve, un po’ più scura gli allievi. Tutti uguali, per deiragazzi di vent’anni può essere frustrante. E non sape-vamo che cosa avremmo fatto, come spettacolo. Pote-vamo interpretare tutto tutti quanti. Ma Costa non ci ave-va detto niente, fino a quel giorno. Prima di andare inscena ci ha chiamati, e ha detto: “Tu fai questo…, tu faiquesto… e tu questo”. E noi che sapevamo fare tutto,abbiamo fatto, così, con facilità, semplicemente”.“Quello che mi resta, un grandissimo insegnamentodi umiltà, senza mai una concessione a qualcosa di fa-cile. Mai un compiacimento, schivo sempre dagli ef-fetti. L’unico maestro, Costa. Lo scopo, la ricerca”.

Il testo è tratto dall’intervista pubblicata nel libro“Orazio Costa prova Amleto”, Bulzoni Ed. 2008

Gli allievi provanomimicamente

l’apparizione delfantasma

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LA MOLTEPLICITÀ DELLE POTENZIALITÀ E DELLE RISORSE

Luigi Lo Cascio

(…) Questo cammino (del metodo), questo transito,bisogna compierlo in prima persona per compren-derlo al di là della pagina scritta. Ecco perché ilmetodo mimico può aver dato luogo a sospetti odiffidenze in chi, dal di fuori, l’ha potuto avvertirecome una procedura esoterica, dai tratti iniziatici eperciò nebulosi, se non addirittura, carichi di uncerto mistico vaneggiamento.Più che ricostruire ciò che ormai si è convertito innatura, si tratta allora di evidenziare le implicazioni, leconseguenze, i significati che derivano dal fatto diaver seguito l’insegnamento di Orazio Costa. D’al-tronde, gli effetti che si possono ricavare dall’azioneche il metodo mimico ha su chi lo adotta, coincidonopoi con le sue premesse teoriche, con le intuizioni ori-

ginarie che il nostro maestro (noi lo chiamavamo dot-tor Costa) ha continuamente messo alla prova dellepiù recenti acquisizioni della scienza, in particolaredella neurologia e, ancor più a fondo, della biochimi-ca in gioco nei processi cellulari. La prima acquisizio-ne (talmente evidente e sotto gli occhi di tutti da pas-sare forse per questo inosservata) è quella che portal’attore a constatare su di sé l’illimitata plasticità del-l’essere umano. In totale disaccordo con le scuole direcitazione che riferiscono l’interpretazione di un per-sonaggio alla specifica natura emotiva ed esistenzialedell’attore, il metodo mimico ripone la propria atten-zione sulla costituzione materica (senza per questoescludere la componente spirituale, o comunque dina-mica, che ovunque innesca impulso e movimento) delmondo delle persone, degli animali dei fenomeni

atmosferici, delle piante e delle cose. (…)La pratica del metodo mimico non soltanto agisce sulcorpo, trasformandolo, ma, più esattamente, imprimenella sensibilità diffusa in tutta la persona un’attitudinealla mutazione così spiccata da far pensare alla rapiditàdi automatismo di un riflesso. Il corpo riconosce i pre-supposti della propria duttilità. Il metodo porta dunquel’attore a introiettare la logica che sostiene due dellequalità più caratteristiche della spinta metamorfica:l’immediatezza e l’irrefrenabile senso di gioia che puòaccompagnarsi ad ogni cambiamento di stato. L’attoresi abitua a pensarsi come un essere costituito da unasostanza che somiglia alla creta e che pertanto può con-solidarsi, in virtù dell’effetto demiurgico dell’immagi-nazione, in infinite forme. Gli effetti più considerevolidi questa prospettiva sono legati alla torsione che l’al-lievo compie in direzione di una maggiore attenzioneper l’esterno che non verso il proprio (soprattutto all’i-nizio) minuscolo quoziente di proprietà.Il metodo mimico, favorendo il gioco dell’immagina-zione che si diverte a scoprire le fisionomie più variedella realtà circostante (sia gli aspetti eclatanti chequelli più minuti e riposti), dismette l’eccesso di atten-zione che il giovane attore potrebbe indirizzare versoun se stesso ingiustamente incensato, per favorire lamoltiplicazione delle potenzialità e delle risorse. Oltrea ridimensionare l’io (e lo studio sul coro rafforzaquesta tendenza: per lo stile personale c’è sempretempo) e liberarlo da forme d’ingiustificata e precocemegalomania, il metodo mimico sviluppa nell’attoreuna spiccata curiosità e capacità d’attenzione nei con-fronti di tutto ciò che si presenta al suo sguardo. Dellanatura delle cose si osservano struttura, ritmo e segre-ta melodia racchiusa nel mistero delle forme. E ancheciò che appare fortemente distante per dimensioni oconsistenza può essere riprodotto fedelmente andandoad attivare quelle corrispondenze che animano ilnostro corpo di analoghe concrete tessiture.

Lo scritto è tratto da “Gettarsi oltre se stessi”pubblicato in “Orazio Costa prova Amleto”, 2008

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Una prova di Amleto,Teatrinodell’Accademia,1992

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DIALOGO CON IL MAESTRO

Maricla Boggio

Aconclusione di queste testimonianze, hotenuto per me un dialogo con il Maestro. E’

il racconto di un figlio, in viaggio per ritrovarela casa della madre, in Corsica. Costa mi invitòad accompagnarlo, nella Pasqua del 1989. Nesono emersi aspetti ignorati del suo carattere,spesso frainteso per una forma di rigidezza appa-rente. In momenti non finalizzati al lavoro ma auno scambio interindividuale si manifestava inlui una vena di forte curiosità, un impulso vitalea godere pienamente del mondo e a parteciparvi.Come quando incontrammo Domenico Modugno,sofferente, paralizzato, avvolto in un plaid su diuna sedia a rotelle all’aeroporto di Bari dove ungiorno, finite le lezioni alla Scuola, anche noieravamo in partenza: andò a salutarlo con unapremura affettuosa, pur non avendolo mai cono-sciuto. Una sera a Firenze, dopo una lezione,

invitò a cena i suoi allievi e fece lui il pane nelforno di casa. Una volta minacciò di gettare aterra una pila di piatti afferrata con impeto in unristorante perché il chiasso di una festa di com-pleanno gli impediva di proseguire un discorso,subito dopo scherzando con i camerieri sulla suaira, mimandosi per gioco…

IN VIAGGIO

Orazio Costa aveva deciso di fare un viaggio in Cor-sica per ritrovare i luoghi in cui sua madre era nata ecresciuta. Mi invitò ad accompagnarlo. Ci imbar-cammo a Livorno, la mattina del Venerdì Santo del1989 sulla nave Moby Dick che sarebbe approdata aBastia. Splendeva il sole, stavamo in coperta, c’era unvento forte che spingeva la nave. Arrivati a Bastia,prendemmo un sentiero verso la montagna, cammi-nando fino a un lago asciutto circondato da nodositronchi disseccati. Eravamo immersi nel paesaggiotormentato di una terra antica, quello che Costa so-prattutto amava, intuendone l’intima consonanzacon la complessità interiore dei pensieri, con l’in-trecciarsi contraddittorio dei sentimenti e il mutare im-prevedibile degli stati d’animo.

“ Se potessi, vivrei sempre qui - esclamò d’un tratto-, oppure in fondo a una grotta di stalattiti...”.

Gli piacevano le pietre grezze, le delicate paesine, leconchiglie fossili e i cristalli di quarzo: ne aveva una col-lezione preziosa esposta in vetrine fin da quando abi-tava a Roma in viale Parioli, nella casa di famiglia ven-duta con rimpianto per vivere a Firenze, dove aveva fon-dato il MIM; e amava andare nei parchi, anche in città,a disegnare con la penna a china pini scheletriti dal ful-mine, tronchi di ulivi millenari, betulle spoglie e roccenelle cui profondità immaginare volti in un corruccia-to articolarsi di pensieri, una natura in cui intravvede-re per analogia il complesso interrogarsi dell’uomo.Camminava in silenzio. Quanto somigliava ai tronchicontorti, al fondo fangoso segnato di tagli profondi perl’arsura; ci si stava immedesimando nell’andatura, purdritto e agile nonostante l’età.

“Rimprovero alla Chiesa di aver tirato fuori il DioBambino – disse seguendo un pensiero – e poi di es-sersene dimenticata”.

Un dialogo conil Maestro al

Teatro Piccinnidi Bari, durantele riprese del

film “L’uomo el’attore” 1986

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Vero. Di Gesù Bambino si parla soltanto a Natale. Enon si dice “Dio”, parola importante.

“L’avvenire, il mistero, è l’infanzia. Dio Bambino èl’immensa scoperta del Cristianesimo, altre religio-ni che hanno rivendicato l’originalità dell’infanzianon ce ne sono. Il seme da cui nasce qualunque bam-bino è un concentrato di pensiero e noi lo trattiamocosì... Bisogna convertirsi. Un bambino merita di es-sere adorato prima che diventi un assassino. Ci vuo-le qualche santo della forza di San Francesco.

San Francesco, Costa vi aveva trovato una coinci-denza di ideali drammaturgici e religiosi: “Il pove-rello”, testo-chiave di Copeau, era stato il primo ametterlo in scena, a San Miniato. Quei frati-uccelli svolettanti intorno al Santo agonizzante,quale prova più alta per una mimica che esprimevafervore, devozione, amore, oltre la parola?

“Essere bambini. Cristo lo ha anche detto. Non hadetto tutto, non potevano capire”.

Ecco il Maestro che aveva portato i suoi spettacoli da-vanti a tre papi. Che molti ritenevano legato alla Chie-sa, perfino schierato politicamente. Lui lasciava dire, con-sapevole di pagare la sua libertà con l’emarginazione, l’o-scuramento dei ministri e degli assessori beoti, dopo cen-tinaia di spettacoli che avevano fatto stupire pubblici ita-liani e stranieri. Ma quale alto personaggio poteva pas-seggiare libero come lui sulla riva di un lago prosciu-gato? Più avanti un’immensa crosta di pietra levigata cor-rosa da infiniti buchi si profilava come il dorso di un mo-stro preistorico. Ci si sdraiò, aderendovi. Intorno, cicla-mini e betulle, e uno svariato cantare di uccelli. Sembrava un tutt’uno con la roccia. Glielo dissi.

“Non l’ho inventata io la mimica. C’è”.

Il sole era forte, la pietra scottava.

“E’ una cosa che noi portiamo, e che non abbiamoimparato a sfruttare”.

Camminando variava il discorso, senza preordinarne i temi.

Quello della mimica emergeva ogni tanto sponta-neamente. Quale il suo fine?

Di “essere” le cose. C’è un’istintività mimica che spesso nonè decifrabile. E l’attore, non è detto che sia consapevole.

Si sentiva in lontananza una musica, forse da un’au-tomobile o da un casolare. Costa accompagnava la melodia con un gesto ampiodella mano.

La mano. Tutti sanno che il direttore d’orchestra di-rige con la mano, fa vivere la sua mano. C’è una cor-rispondenza ritmica, ma è interiore, per arrivare aquel gesto. Mancano strumenti elettronici ideali cheprendano dalla mano queste sottili impressioni.

Si arrestò pensando.

E’ da trovare ancora. E’ un compito per l’elettronica.

Le “sottili impressioni”...

Le conosce il danzatore, il pianista, il violinista. Maper ora uno strumento legato alla fisicità di questi fat-ti non c’è. Si finisce per ridurre a fatti tecnici ritmi-ci, ma sotto c’è qualcosa di più.

E allora?

Se ci si arriverà, ci si arriva attraverso la convenzionemimica.

Il senso mimico ce l’hanno tutti. Ma un grande arti-sta lo ha più sviluppato.

Copeau lo aveva. Che avesse un senso mimicoprofondissimo è indubbio, ma è difficile dire in chesenso e come. E’ nel suggerire a un personaggio, ènello spirito di questo movimento.

E’ istintivo, lo spirito mimico.

In Copeau lo era, ma può essere anche ragionato, co-me in Barrault.

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Senza confondere istinto mimico con mimo, mimi-ca francese.

Spesso si genera l’equivoco.

Copeau e Barrault da una parte. Lecoq, Marceau?

C’è differenza tra Lecoq e noi. Lui è spinto da preoc-cupazioni imitative. Generalizza. E’ uno splendidotecnico. Marceau, la mimica l’ha vissuta bene e a va-ri livelli; somiglia alla nostra.

Più volte hai detto che nel teatro l’invenzione poeti-ca è accettata e riconosciuta come natura. Come si po-ne, secondo questa concezione, il problema dell’in-terpretazione?

E’ necessario risalire all’origine di quella serie dimanifestazioni che è alla base del processo della me-tafora, e che produce o comunque suscita la creazionepoetica e nello stesso tempo l’attitudine a riprodur-ne le condizioni native: l’istinto mimico.

Penso al teatro, oggi. Di che cosa ha bisogno, secon-do te, per rivitalizzarsi?Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una seriedi eventi teatrali che in modi differenti andavano sco-prendo e valorizzando le potenzialità espressive cor-porali e vocali, a rivendicazione di una più ricca gam-ma rispetto a quella codificata di certo teatro di pa-rola enunciato. Io ho spesso sostenuto la priorità deldiscorso mimico rispetto a questi movimenti.

Momenti di dialogo, senza finalità didattiche. La mi-mica viveva nell’incontro con le paludi fangose e itronchi levigati, di fronte agli animali selvatici che nonsi impaurivano nella consonanza con i ritmi del no-stro passo e del nostro respiro.

In un ristorante sul mare, Orazio si fermò incuriosi-to a guardare un’aragosta che dal vetro della vasca sisporgeva verso di lui: l’espressione del suo viso siproiettò sul crostaceo in una simpatia istintiva, mi-mica, e ne ritornò con quell’impronta. Ebbi il tempodi fotografarlo. Si riscosse e tornò Orazio. Ridendoandammo a pranzo.

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Nella foto disinistra, Orazio

Costa sullanave verso la

Corsica

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RIDOTTO

FRANCA ANGELINI, Costa è il Copeau italiano

GIOVANNI TESTORI, Il privilegio di dissipare i poeti

ANDREA BISICCHIA, Il Mistero: la parola al centro della scena

PAOLO GRASSI, Il Mistero al Piccolo, un omaggio a D’Amico

SIMONE FAUCCI, La luna in mano

MARIO PROSPERI, La parola era per il gesto

MARCO GIORGETTI, Il teatro di Andrea

MARIO LUZI, Sintesi memoriale di un’amicizia

MARIO FERRERO, Tutte le volte mi venivano le lacrime

RICCARDO BÀRBERA, Una volta me lo caricai sulla Vespa

ANDREA CAMILLERI, Costa aveva il coraggio dello spirito

MARIANO RIGILLO, “Non male, Mariano”

LUCA RONCONI, Più che un modello di teatro, un esempio di vita

ILARIA OCCHINI, Non era solo la persona che parlava, ma proprio uno spirito

GLAUCO MAURI, Mi ha insegnato tutto

ROMAN VLAD, Una luce dello spirito

LUIGI SQUARZINA, Il nuovo stava nascendo dal rigore, dalla convinzione di scelte rischiose

NINO MANFREDI, “Fammi un cielo sereno”

RENZO TIAN, Era un metodo, non una tecnica

FERRUCCIO MAROTTI, Il problema dell’essere umano di oggi

GIANGIACOMO COLLI, La prima tesi di laurea

NICASIO CATANESE, L’attore dalla pratica alla mistica, la mia tesi

STEFANIA PORRINO, Incontro con i libri su Orazio Costa

FRANCESCA BENEDETTI, Il peso morale della parola

MASSIMO FOSCHI, C’era un quaderno aperto…

VALERIA COSTA, Io ero la sua mano

ENNIO COLTORTI, Ieratico, solenne, coraggioso

ALESSANDRA NICCOLINI, L’attitudine mimica metafora del mondo

PINO MANZARI, La scuola sognata

MIRELLA BORDONI, Questa eredità straordinaria

ANNA PROCLEMER, La parola diventa verbo, si incarna

FRANCISCO MELE, Il senso di giustizia

ELENA DE GIUSTI, Un’apertura totale alle diverse forme di espressione artistica

ETTORE ZOCARO, Il “sogno” Colosseo

ROBERTO HERLITZKA, Da lui ho assorbito tutto

GABRIELE LAVIA, “Ricordati Gabriele, il punto di arrivo della mimica è l’immobilità”

FABRIZIO GIFUNI, Conservo gelosamente gli appunti di quelle giornate

SANDRA TOFFOLATTI, L’unico maestro

LUIGI LO CASCIO, La molteplicità delle potenzialità e delle risorse

MARICLA BOGGIO, Dialogo con il Maestro

IN VIAGGIO

DEDICATO A ORAZIO COSTA

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ANNO 60° – numero 10-11, ottobre-novembre 2012 - finito di stampare nel mese di novembre 2012

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