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RASSEGNA STAMPA di giovedì 10 marzo 2016 SOMMARIO A proposito di presenze e imprese straniere, il Nordest parla sempre più cinese. Scrive il sociologo Vittorio Filippi sulla prima pagina di oggi del Corriere del Veneto: “«La Cina è vicina» è un film del lontano 1967. Prodotto da Marco Bellocchio, rievocava quel maoismo che, nell’Italia sessantottina, ispirò simpatizzanti per la cosiddetta rivoluzione culturale ed il suo famoso «libretto rosso». In un certo senso, mezzo secolo dopo, quelle utopie sono divenute realtà, anche se di segno molto diverso. Come sappiamo, la rivoluzione culturale è divenuta una enorme rivoluzione capitalistica ed il «libretto rosso» è stato sostituito dai testi manageriali. E la Cina, più che vicina, è letteralmente entrata nelle nostre realtà in modo rilevante e capillare. Abbiamo prodotti cinesi, ristoranti cinesi, immigrati cinesi, perfino turisti cinesi. E sempre più imprese cinesi. E’ questo il dato più curioso che esce dalla rilevazione della Fondazione Moressa sugli imprenditori stranieri nel nordest al 2015. Che ci dice un paio di cose. La prima è che i cinesi fanno ormai la parte del leone: nel nordest sono circa 9.400, pari all’11% dell’imprenditoria immigrata. Non solo: negli ultimi cinque anni la loro crescita è stata del 39 per cento, la più ampia dopo quelle dell’imprenditorialità nigeriana e cingalese (che però hanno valori assoluti assai più modesti). Il secondo risultato della rilevazione della Fondazione è che l’andamento delle imprese – nascite, sviluppo, cessazioni -, detto anche demografia d’impresa, segue in modo pedissequo quello della demografia vera e propria. Cioè quella che riguarda le persone. Infatti, nel Nordest che cambia crescono oggi le attività gestite o fondate da imprenditori stranieri ed indietreggiano o calano quelle degli italiani. I numeri che lo dimostrano sono impietosi: sempre negli ultimi cinque anni (anni particolarmente difficili ed assai selettivi per le imprese, com’è noto) gli imprenditori stranieri sono cresciuti di quasi il 13 per cento mentre quelli autoctoni sono calati di quasi l’8 per cento. Metà degli imprenditori stranieri si concentra nel commercio e nelle costruzioni (queste ultime però con il segno meno, vista la situazione dell’edilizia), ma crescono comunque anche il manifatturiero ed i servizi alle imprese, mentre esplodono i servizi alle persone (più 42 per cento in cinque anni). Verona e Treviso sono le province in Veneto con il maggior numero di imprenditori stranieri: qui ormai quasi un imprenditore su dieci è immigrato, una proporzione non lontana da quella della popolazione in generale. Insomma, come nella demografia delle persone, anche in quella d’impresa gli stranieri ricostituiscono e sostituiscono le trame sociali ed economiche dei nostri territori. Diceva nell’Ottocento il filosofo positivista Comte che «la demografia è il destino». Lui ovviamente pensava ai numeri delle popolazioni; ma se applicata ai numeri delle imprese e degli imprenditori la sua osservazione appare ancora più vera. Soprattutto oggi” (a.p.) 2 – DIOCESI E PARROCCHIE AVVENIRE Pag 10 Venezia, borsa di studio per bisognosi: accordo Patriarcato – Ca’ Foscari IL GAZZETTINO Pag 12 Eredità da 25 milioni agli studenti di Alvise Sperandio Anziana lascia al Patriarcato i suoi averi purché vengano destinati a giovani meritevoli. Primo atto: dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, seguiranno borse di studio e altre iniziative IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Eredità da 25 milioni agli studenti di Alvise Sperandio Prima iniziativa: una borsa di studio da 64mila euro. Poi seguiranno altri progetti nelle varie scuole. La Curia: “Una somma eccezionale tra le tante donazioni alla Chiesa”

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Page 1: Rassegna stampa 10 marzo 2016 - WebDiocesi · AVVENIRE Pag 23 Patriarchino, il canto della memoria di Alessandro Beltrami CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Don Matteo e i Prodi divisi: “Rinuncio

RASSEGNA STAMPA di giovedì 10 marzo 2016

SOMMARIO

A proposito di presenze e imprese straniere, il Nordest parla sempre più cinese. Scrive il sociologo Vittorio Filippi sulla prima pagina di oggi del Corriere del Veneto:

“«La Cina è vicina» è un film del lontano 1967. Prodotto da Marco Bellocchio, rievocava quel maoismo che, nell’Italia sessantottina, ispirò simpatizzanti per la

cosiddetta rivoluzione culturale ed il suo famoso «libretto rosso». In un certo senso, mezzo secolo dopo, quelle utopie sono divenute realtà, anche se di segno molto

diverso. Come sappiamo, la rivoluzione culturale è divenuta una enorme rivoluzione capitalistica ed il «libretto rosso» è stato sostituito dai testi manageriali. E la Cina, più che vicina, è letteralmente entrata nelle nostre realtà in modo rilevante e capillare. Abbiamo prodotti cinesi, ristoranti cinesi, immigrati cinesi, perfino turisti cinesi. E sempre più imprese cinesi. E’ questo il dato più curioso che esce dalla rilevazione

della Fondazione Moressa sugli imprenditori stranieri nel nordest al 2015. Che ci dice un paio di cose. La prima è che i cinesi fanno ormai la parte del leone: nel nordest sono circa 9.400, pari all’11% dell’imprenditoria immigrata. Non solo: negli ultimi cinque anni la loro crescita è stata del 39 per cento, la più ampia dopo quelle

dell’imprenditorialità nigeriana e cingalese (che però hanno valori assoluti assai più modesti). Il secondo risultato della rilevazione della Fondazione è che l’andamento delle imprese – nascite, sviluppo, cessazioni -, detto anche demografia d’impresa, segue in modo pedissequo quello della demografia vera e propria. Cioè quella che

riguarda le persone. Infatti, nel Nordest che cambia crescono oggi le attività gestite o fondate da imprenditori stranieri ed indietreggiano o calano quelle degli italiani. I numeri che lo dimostrano sono impietosi: sempre negli ultimi cinque anni (anni

particolarmente difficili ed assai selettivi per le imprese, com’è noto) gli imprenditori stranieri sono cresciuti di quasi il 13 per cento mentre quelli autoctoni sono calati di quasi l’8 per cento. Metà degli imprenditori stranieri si concentra nel commercio e

nelle costruzioni (queste ultime però con il segno meno, vista la situazione dell’edilizia), ma crescono comunque anche il manifatturiero ed i servizi alle imprese, mentre esplodono i servizi alle persone (più 42 per cento in cinque anni). Verona e Treviso sono le province in Veneto con il maggior numero di imprenditori stranieri:

qui ormai quasi un imprenditore su dieci è immigrato, una proporzione non lontana da quella della popolazione in generale. Insomma, come nella demografia delle persone, anche in quella d’impresa gli stranieri ricostituiscono e sostituiscono le trame sociali ed economiche dei nostri territori. Diceva nell’Ottocento il filosofo positivista Comte che «la demografia è il destino». Lui ovviamente pensava ai numeri delle popolazioni;

ma se applicata ai numeri delle imprese e degli imprenditori la sua osservazione appare ancora più vera. Soprattutto oggi” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE AVVENIRE Pag 10 Venezia, borsa di studio per bisognosi: accordo Patriarcato – Ca’ Foscari IL GAZZETTINO Pag 12 Eredità da 25 milioni agli studenti di Alvise Sperandio Anziana lascia al Patriarcato i suoi averi purché vengano destinati a giovani meritevoli. Primo atto: dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, seguiranno borse di studio e altre iniziative IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Eredità da 25 milioni agli studenti di Alvise Sperandio Prima iniziativa: una borsa di studio da 64mila euro. Poi seguiranno altri progetti nelle varie scuole. La Curia: “Una somma eccezionale tra le tante donazioni alla Chiesa”

Page 2: Rassegna stampa 10 marzo 2016 - WebDiocesi · AVVENIRE Pag 23 Patriarchino, il canto della memoria di Alessandro Beltrami CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Don Matteo e i Prodi divisi: “Rinuncio

LA NUOVA Pag 20 Nuove borse di studio dall’eredità milionaria di Nadia De Lazzari Accordo tra Ca’ Foscari e Patriarcato CORRIERE DEL VENETO Pag 13 Ca’ Foscari. Il patriarca in soccorso degli studenti più poveri di A.D’E. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Pane condiviso Esercizi spirituali della Curia romana ad Ariccia AVVENIRE Pag 23 Patriarchino, il canto della memoria di Alessandro Beltrami CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Don Matteo e i Prodi divisi: “Rinuncio all’acqua santa” di Claudia Voltattorni I due fratelli e la benedizione a scuola. Il sacerdote: porterò solo ovetti LA REPUBBLICA Pag 26 Le due infallibilità papali di Alberto Melloni IL SOLE 24 ORE Il «cammino» di Francesco tra guerra e misericordia di Carlo Marroni IL FOGLIO Pag 1 Il Papa che viene dalla fine del mondo ora è stippato dalla periferia di Matteo Matzuzzi Turbolenze in Messico, i paragoni con l’Argentina WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Küng e l’infallibilità del Papa di Andrea Tornielli Il teologo tedesco chiede a Francesco di abolire il dogma sancito dal Concilio Vaticano I. Quella «linea mediana» approvata dai padri un secolo e mezzo fa 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO Pag 1 Non basta Draghi per uscire dalla recessione di Giulio Sapelli 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Mestre, gli immigrati scelgono il centro di Elisio Trevisan e Raffaele Rosa Gli stranieri sono in aumento in tutto il comune: una “città” di 33.783 persone Pag XIX Un sogno, riportare a casa il crocifisso di Cavazuccherina di G.Bab. Jesolo, associazione “Monsignor Giovanni Marcato LA NUOVA Pag 19 “Commemoriamo per non dimenticare” di Enrico Tantucci I cinquecento anni del Ghetto, la presentazione delle iniziative CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Venezia e la gondola negata che fece infuriare il granduca di Paolo Coltro Il turismo, gli hotel dei ricchi e i primi divieti: accadeva nel 1885. E oggi…

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8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Il Nordest parla cinese di Vittorio Filippi Imprese straniere Pag 5 Tutela a Rom e Sinti, abrogata la legge: “Era vuota ma è questione di principi” di Marco Bonet Il crocifisso scatena una (nuova) lite in aula Pag 6 “Era in procinto di radersi”. Le duemila (folli) multe al popolo della povertà di Giovanni Viafora Padova, nell’archivio del prete degli ultimi IL GAZZETTINO Pag 14 Niente più soldi per i campi rom di Alda Vanzan Il consiglio regionale ha abrogato la legge del 1989 che tutelava anche il nomadismo. La protesta dei nomadi: “Ci vogliono cancellare” LA NUOVA Pag 1 Il Veneto senza magistrati di Mario Bertolissi Pag 14 Abolita la legge che tutelava i rom. Poi è bagarre sul crocifisso in aula di Filippo Tosatto La maggioranza a guida leghista cancella i fondi destinati ai campi nomadi 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 10 di Gente Veneta in uscita venerdì 11 marzo 2016: Pag 1 Il peso insopportabile di una condanna erronea di Giorgio Malavasi Pagg 1, 4 – 5 Una bussola c’è: la misericordia di Giorgio Malavasi Il libro-intervista al Papa: testimonianze a Mestre. Parlano Andrea Tornielli, Marco Tarquinio, Ernesto Olivero, Claudia Koll e il Patriarca Francesco Pag 3 Scuola: iscrizioni alle superiori paritarie, giù i licei di Chiara Semenzato In controtendenza rispetto al trend nella scuola pubblica, sono gli indirizzi professionali i più gettonati tra le scuole paritarie. Piace il settore grafico dei salesiani alla Gazzera, il turistico-sportivo del Cif di Venezia e le lingue europee del S. Caterina Pag 6 Basta un click e addio alle dimissioni in bianco di Marco Monaco La pratica colpiva fino ad ora soprattutto le donne, costrette a firmare un foglio di licenziamento al momento dell’assunzione, utile da far valere in caso di gravidanza. Ora con la procedura telematica le dimissioni si inviano on line e in tempo reale Pag 8 Eredità Chiap, ecco la prima borsa di studio di Serena Spinazzi Lucchesi Firmato l’accordo tra Diocesi e Università Ca’ Foscari per sostenere negli studi un dottorando in “Diritto, mercato e persona” nel campo dell’attività agricola e sicurezza alimentare. Il Patriarca: «E’ un intervento nel campo sociale e della formazione». Lascito stimato in 25 milioni, vincolato alla formazione dei giovani Pag 11 “Alegria”: il Grest 2016 si colora di ritmi brasiliani di Alessandro Polet La presentazione della nuova edizione avverrà giovedì 17 marzo, alle ore 20.30, al teatro Aurora di Marghera. Don Fabio Mattiuzzi: «Abbiamo scelto come ambientazione il Brasile con i suoi colori e ritmi, con le sue contraddizioni. Ci piacerebbe far capire a chi incontreremo quest’estate che Misericordia vuol dire vivere al ritmo del cuore di Dio»

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Pag 12 Cortesia, rispetto, pazienza per un buon matrimonio di Francesca Catalano Trecento fidanzati si incontrano in Basilica per l’assemblea diocesana. Il Patriarca suggerisce loro: «Non pretendete che l’altro sia per voi appagamento e soddisfazione. Ma vivete intensamente insieme tutti i momenti che sarete chiamati a vivere» Pag 14 Il “ruggito” di Claudio, dalla Giudecca a Radio2 di Serena Spinazzi Lucchesi Ha 25 anni, è scout e ha una incontenibile passione per la radio: Claudio Fantuzzo sta partecipando a un talent show promosso dalla trasmissione “Il ruggito del coniglio”: in palio la conduzione di un programma estivo. Il 18 marzo la finale … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I cittadini e il diritto di contare di Sabino Cassese Paese reale e legale Pag 10 Un pasticcio che rivela l’affanno dei democratici di Massimo Franco Pag 30 Le fantaprimarie del centrodestra di Antonio Macaluso LA STAMPA Renzi sfugge al caso primarie di Federico Geremicca IL GIORNALE Chi ha cancellato la parola «gay» dall'omicidio di Luca di Renato Farina AVVENIRE Pag 1 Per un’etica della cura di Giuseppe Anzani Cannabis, oltre quel ribadito “no” Pag 2 Grembi sotto contratto, compravendita di vita di Roberto Cogliandro Un notaio legge gli accordi per ottenere un figlio Pag 3 Un poeta ad Aushwitz (Adorno ha torto) di Ferdinando Camon Guccini con il vescovo Zuppi e una classe Pag 3 Cina – Africa, legame in crisi. E l’India può approfittarne di Luca Miele Rivoluzione nelle strategie commerciali. Pechino importa meno, il continente nero si emancipa LA NUOVA Pag 1 Scatolone di sabbia nel caos di Renzo Guolo Pag 6 Frontiere e rendite di posizione di Gigi Riva

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE AVVENIRE Pag 10 Venezia, borsa di studio per bisognosi: accordo Patriarcato – Ca’ Foscari È stata sottoscritta ieri una convenzione tra l’Università Ca’ Foscari e il Patriarcato di Venezia per istituire una borsa di studio per studenti meritevoli e bisognosi di aiuto economico nell’ambito di un dottorato di ricerca in 'Diritto, mercato e persona' per approfondire il tema 'Attività agricola e sicurezza alimentare nelle politiche dell’Ue'. La

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borsa finanziata dal Patriarcato - cui ne seguiranno altre per più livelli di formazione scolastica, professionale e accademica secondo una logica di merito e 'concentrica' rispetto alla provincia di Pordenone - dà seguito alle volontà testamentarie di Anna Maria Chiap, friulana, disposte a favore della diocesi veneziana. IL GAZZETTINO Pag 12 Eredità da 25 milioni agli studenti di Alvise Sperandio Anziana lascia al Patriarcato i suoi averi purché vengano destinati a giovani meritevoli. Primo atto: dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, seguiranno borse di studio e altre iniziative Che la Chiesa riceva eredità non è un fatto insolito. Che l'eredità sia di milioni di euro, addirittura 25, è però più unico che raro. È successo alla Diocesi di Venezia e lo stesso patriarca Francesco Moraglia era rimasto molto sorpreso nell'apprenderne la notizia. La benefattrice è Anna Maria Chiap, vicentina d'origine ma friulana d'adozione, mancata il 12 agosto 2013 a Caneva (Pordenone), a 92 anni, senza lasciare alcun erede. Si tratta, per l'esattezza, di 16 fabbricati e 56 terreni dislocati tra la stessa Caneva, Padova, dove aveva la seconda residenza, Volta Mantovana e Sacile, più diversi titoli. Ricevuto il lascito, la Curia ha operato una serie di ricognizioni, verifiche e stime per valutarne nel dettaglio il contenuto e per approfondire le finalità espresse dalla defunta. La facoltosa signora, due lauree e ultima discendente di una famiglia storica, aveva infatti subordinato l'efficacia del testamento al vincolo di utilizzare tutto il patrimonio per il mantenimento delle sue due aziende agricole e, soprattutto, per sostenere gli studi e l'avviamento professionale dei giovani meritevoli ma in difficoltà economiche. Così, una volta ricevuta l'autorizzazione della Santa Sede, come prescrivono le norme canoniche e le procedure di accordo sulle successioni tra lo Stato italiano e il Vaticano, il Patriarcato ha proceduto all'accettazione che in prima battuta era avvenuta con riserva. Ieri è stato compiuto il primo atto formale per l'adempimento della volontà di Anna Maria Chiap che, tra l’altro, in vita si era sempre battuta in difesa del verde contro gli espropri a favore dell’edilizi: monsignor Moraglia e il rettore dell'Università Ca’ Foscari, Michele Bugliesi, hanno firmato una convenzione per una borsa di studio per un dottorato di ricerca triennale da 64mila euro totali su «Diritto, mercato e persona», non a caso sul tema «Attività agricola e sicurezza alimentare nelle politiche dell'Unione europea». A questa prima iniziativa ne seguiranno altre nel campo della formazione scolastica, professionale e accademica, per un ammontare complessivo di 25 milioni che saranno distribuiti in molti anni, secondo le capacità individuali e con un criterio di «concentricità» territoriale: a parità di merito verrà data precedenza allo studente che risiede nel comune di provenienza della signora e, nell’ipotesi che ciò non possa accadere, si individuerà il beneficiario con una serie di cerchi geograficamente concentrici via via meno vicini a Caneva. «Anche con questo intervento - spiegano dal palazzo patriarcale - la Diocesi di Venezia intende muoversi nella linea del pensiero sociale della Chiesa che pone al centro la persona, con particolare attenzione alla fascia dei più deboli e dei più bisognosi di aiuto, e la sua valorizzazione, secondo i molteplici richiami di papa Francesco». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Eredità da 25 milioni agli studenti di Alvise Sperandio Prima iniziativa: una borsa di studio da 64mila euro. Poi seguiranno altri progetti nelle varie scuole. La Curia: “Una somma eccezionale tra le tante donazioni alla Chiesa” Due anni e mezzo fa, inaspettatamente, si era vista designare erede universale di ben 25 milioni di euro. Nei mesi scorsi, dopo un'accettazione fatta con riserva, in silenzio la Diocesi aveva dato il proprio assenso a prendersi carico della cospicua somma. Ieri, il patriarca Francesco Moraglia ha posto in essere il primo atto che adempie alla volontà di Anna Maria Chiap: ovvero di destinare tutti i soldi alla formazione scolastica di giovani che abbiano voglia d'impegnarsi, ma che non possono pagarsi gli studi. Il prelato ha firmato una convenzione con il rettore dell'Università Ca’ Foscari, Michele Bugliesi, con cui viene istituita una borsa di studio da 64 mila euro nell'ambito di un percorso triennale nel dottorato di ricerca dell'ateneo veneziano in "Diritto, mercato e persona", che punta all'approfondimento del tema "Attività agricola e sicurezza alimentare nelle politiche dell'Unione europea". La facoltosa signora era mancata il 12 agosto del 2013 a

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Caneva, in provincia di Pordenone, senza lasciare eredi. Vicentina di nascita, ma friulana di adozione, era l'ultima discendente di una storica famiglia molto agiata. Nel suo testamento aveva scritto che alla morte tutti i suoi beni sarebbero dovuti andare al Patriarcato con il vincolo che fossero utilizzati per il mantenimento delle attività lavorative alle quali era molto legata e, soprattutto, per sostenere gli studi e l'avviamento professionale di studenti in stato di necessità. Si trattava di 16 fabbricati, 56 terreni distribuiti tra Caneva, Padova, dove aveva la seconda residenza, Volta Mantovana e Sacile, più diversi titoli. Fatto l'inventario, gli uffici di Curia hanno avviato la lunga procedura di verifica che ha portato dapprima all'autorizzazione del Vaticano, che aveva investito della questione la Congregazione per il clero e il Dicastero economico, e in seconda battuta all'accettazione completa del lascito della Chiap. Ieri, l'avvio della prima iniziativa a cui ne seguiranno altre nel campo della formazione scolastica, professionale e accademica, che saranno declinate strada facendo nei tempi e nelle modalità. «Sono ben felice - ha commentato il rettore, Michele Bugliesi - di questa grande opportunità che rafforza una collaborazione tra il nostro ateneo e il patriarcato in corso da tempo. L'ambito della borsa di studio si lega alle nostre competenze nel settore giuridico in grado d'intercettare tematiche ampie ed è un modo per Ca’ Foscari di affrontare il tema con un approccio socio economico». «Anche con questo intervento - hanno spiegato dal palazzo patriarcale - la Diocesi intende muoversi nella linea del pensiero sociale della Chiesa, che pone al centro la persona, con particolare attenzione per le fasce più deboli e dei più bisognosi d'aiuto, e la sua valorizzazione, secondo i molteplici richiami di papa Francesco». In effetti ricevere 25 milioni in eredità non è proprio fatto di tutti i giorni, ancora di più se il patrimonio viene destinato alla crescita di chi vuole studiare ma, diversamente, non potrebbe farlo. Sola, sempre sola, tranne nell'ultimo periodo della sua vita quando ormai tanto anziana, divideva il suo appartamento di via Altinate 62 a Padova con tre badanti. Un'abitazione di 7 stanze dove Anna Maria Chiap è sempre vissuta da sola, alternando alla vita cittadina d’inverno lunghe trasferte nelle altre sue residenze a Caneva in provincia di Pordenone, paese dove era nata 92 anni fa, a Sacile sempre in Friuli Venezia Giulia dove aveva dei terreni o a Volta Mantovana in Lombardia dove c'erano il resto delle sue proprietà. A Caneva Anna Maria Chiap è ricordata come una parrocchiana come le altre, nonostante il clamore suscitato da quel’eredità milionaria, tra fabbricati e terreni, lasciati al Patriarcato di Venezia dalla donna, deceduta il 12 agosto 2013. La donna non ha mai voluto vendere i suoi terreni e la sua volontà è stata quella di lasciare intatto il verde anche in futuro. Una clausola, presente nel testamento, che impedirebbe di rendere i terreni edificabili. Anna Maria Chiap, laureata in Scienze agrarie, vedova senza figli, tornava a Caneva una volta alla settimana, per gestire le proprie attività. La vedevano arrivare nelle banche di Sacile sulla vecchia auto per seguire in prima persona gli affari delle aziende. La sua è stata una vita intensa, negli studi conseguendo due lauree e nel lavoro seguendo lei imprese. Nel 2013, alla notizia che Anna Maria Chiap aveva lasciato tutto alla Diocesi, monsignor Dino Pistolato - vicario episcopale per gli Affari generali, direttore dell'ufficio amministrativo e moderatore di Curia - aveva reagito così: «Disposizione testamentarie a favore della Diocesi non sono una novità, ma così cospicue rappresentano un'eccezione». Concetto che il braccio destro del patriarca Francesco Moraglia ribadisce anche oggi, dopo che il Patriarcato ha proceduto all'accettazione del lascito della facoltosa friulana scomparsa nell'estate di tre anni fa all'età di 92 anni: «Andando indietro con la memoria negli ultimi 30-40 anni questo è il secondo caso che riceviamo un'eredità di tale portata. Generalmente, nel corso di un anno sono al massimo una decina quelle devolute direttamente alla Diocesi, più una ventina di cui sono invece beneficiarie le parrocchie, che pure devono essere autorizzate. In ogni caso si tratta di importi certamente inferiori a quello che ci ha voluto lasciare, con precise finalità, la signora Chiap». Sottolinea monsignor Pistolato: «Capita spesso che chi muore lasci alla Chiesa i suoi averi, anche se ha coniuge o figli, decidendo per la quota disponibile dell'asse. Per questo abbiamo istituito un conto apposito dove confluiscono le risorse. È un bel segno, soprattutto quando i soldi vengono impiegati per attività caritative di vario tipo, dall'aiuto ai poveri al sostegno delle missioni. Ad esempio dieci giorni fa abbiamo

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pagato così un funerale. Sono, invece, molto più contenute le eredità destinate al sostentamento del clero, che continua ad essere totalmente in carico all'8 per mille». LA NUOVA Pag 20 Nuove borse di studio dall’eredità milionaria di Nadia De Lazzari Accordo tra Ca’ Foscari e Patriarcato Ca’ Foscari e il Patriarcato hanno sottoscritto una convenzione per istituire una borsa di studio per studenti meritevoli ma bisognosi di aiuto economico, nell’ambito di un percorso triennale di dottorato di ricerca in “Diritto, mercato e persona” per approfondire il tema “Attività agricola e sicurezza alimentare nelle politiche dell’Unione europea”. A questa ne seguiranno altre a livello di formazione scolastica, professionale, accademica. Il finanziamento proviene dai beni di Anna Maria Chiap di Caneva (Pordenone), deceduta a 92 anni nel 2013, lasciati in eredità al Patriarcato. L’anziana, nata a Vicenza il 17 novembre 1921, nel testamento pubblico aveva scritto di voler realizzare un desiderio e dare corso a una decisione maturata da anni: «quella che il patrimonio della mia famiglia non venga disperso, ma che rimanga unito». Nell’atto veniva evidenziato «di utilizzare il patrimonio e le rendite dallo stesso derivanti per aiutare i giovani meritevoli ma bisognosi di aiuto economico, fornendo loro sostegno morale e economico, eventualmente vitto e alloggio, allo scopo di consentire loro di sviluppare le capacità intellettuali di ciascuno». Poi ancora un riferimento ai giovani meritevoli ed intellettualmente dotati. «É mia intenzione, infatti, che non siano costretti a rinunciare alle loro ambizioni per mancanza del denaro sufficiente al mantenimento. È mia intenzione altresì di fornire ai giovani che lo desiderino un luogo, quale la mia proprietà in Caneva, sereno e ordinato nel quale poter vivere e studiare. Desidero che il mio patrimonio sia destinato ad aiutare i giovani privi di prospettive per il loro futuro, perché privi dell’ambiente familiare e dei mezzi per prepararsi ad un lavoro efficiente secondo le loro attitudini e possibilità intellettuali; potranno in questo modo ricavare i mezzi necessari, lavorando opportunamente la terra ed impegnandosi nell’azienda agricola». L’eredità consisteva in 16 fabbricati e 56 terreni sparsi nei quattro Comuni di Caneva (via Canevon, via Giuseppe Garibaldi, via Piccolin), Sacile (via San Michele, via Antonio Peruch), Padova (via Altinate), Volta Mantovana (Strada Belvedere). Qualcuno ha avanzato una stima approssimativa: 40 milioni di euro. La Diocesi, dopo le necessarie ricognizioni, stime, verifica e autorizzazioni, ha deciso di farsi carico del lascito. Da qui la borsa di studio. CORRIERE DEL VENETO Pag 13 Ca’ Foscari. Il patriarca in soccorso degli studenti più poveri di A.D’E. Venezia. Studenti meritevoli ma in difficoltà economiche: per loro il dottorato partirà lo stesso. A finanziare il percorso triennale in «Diritto, mercato e persona» che approfondirà il tema della sicurezza alimentare nelle politiche dell’Unione Europea sarà quest’anno una borsa di studio del Patriarcato di Venezia che darà seguito alle volontà testamentarie di Anna Maria Chiap, una signora friulana. La donna, morta nel 2013, aveva chiesto proprio alla diocesi veneziana di gestire i suoi lasciti sostenendo nello studio giovani meritevoli e, appunto, bisognosi di aiuto economico. A firmare l’accordo per attivare la prima borsa di studio ieri sono stati il rettore di Ca’ Foscari Michele Bugliesi e il patriarca Francesco Moraglia. La convenzione durerà però anche nei prossimi mesi. L’iniziativa già attivata infatti non sarà l’ultima. Altre tre borse seguiranno per diversi livelli di formazione scolastica, professionale e accademica, tutte realizzate secondo una logica di merito, così come richiesto dalla donatrice. «Anche con questo intervento il Patriarcato di Venezia intende muoversi nella linea del pensiero sociale della Chiesa, che pone al centro la persona, con particolare attenzione per le fasce più deboli, e la sua valorizzazione, secondo i molteplici richiami di Papa Francesco», sottolinea il patriarca. «Sono ben felice di questa grande opportunità che rafforza una collaborazione in corso da tempo - ha detto il rettore Bugliesi - l’ambito della borsa di studio si lega alle nostre competenze nel settore giuridico ed è un modo per Ca’ Foscari di affrontare il tema da un approccio socio economico». E sono proprio le aree economiche le più «prenotate» nei prossimi giorni per gli open day in cui Ca’ Foscari si presenterà ai

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possibili studenti del prossimo anno accademico. I ragazzi che hanno prenotato l’ingresso sono già 1800. Si comincia domani con la presentazione dei corsi di area scientifica e tecnologica al campus di via Torino a Mestre e si prosegue dal 17 al 19 marzo anche con le altre aree di Ca’ Foscari: quella economica, linguistica, umanistica. In occasione degli open day gli studenti potranno assistere alla presentazione dei corsi di laurea triennale, partecipare alle simulazioni dei test d’ammissione e anche confrontarsi con docenti e studenti cafoscarini. La conclusione sarà sabato 19 dalle 11.30 alle 12.30 a Ca’ Dolfin e in quell’occasione alcuni ex studenti dell’Ateneo si racconteranno alle future matricole. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Pane condiviso Esercizi spirituali della Curia romana ad Ariccia «La pedofilia e l’attaccamento ai soldi sono i due comportamenti del clero che più feriscono e fanno adirare il popolo cristiano». E «ciò che invece lo fa felice è il pane condiviso», una Chiesa capace di vivere la trasparenza di Gesù che, «coraggioso come un eroe e tenero come un innamorato, non si è fatto comprare da nessuno e non è mai entrato nei palazzi dei potenti se non da prigioniero». Non ha usato giri di parole padre Ermes Ronchi, mercoledì mattina 9 marzo, nella sesta meditazione degli esercizi spirituali predicati al Papa e alla Curia romana, nella cappella della Casa Divin Maestro di Ariccia. Denunciando anche lo scandalo della fame nel mondo e invitando a lottare contro gli sprechi. Per la riflessione ha preso le mosse dalla domanda di Gesù ai suoi discepoli: «Quanti pani avete?» (Marco 6, 38; 8,5; Matteo 15, 34). «Il segno del pane» ha fatto presente padre Ronchi, nel Vangelo «è il più ripetuto perché il più carico di simboli». Puntando subito lo sguardo sulla Chiesa, il predicatore ha messo in guardia dal considerarla come «un’istituzione che ripete da millenni le stesse parole e gli stessi riti; una centrale che cerca di produrre consenso o un’agenzia di rating che dà i voti sulla vita morale delle persone». La Chiesa, ha rimarcato, «è una madre che protegge la vita in tutte le sue forme, annuncia che è possibile vivere meglio per tutti e che Gesù ne possiede la chiave». «La Chiesa - ha proseguito - è Gesù-discepoli-e-folla, tutti insieme, con però qualcosa che passa di mano in mano, che li tiene legati insieme e vivi insieme: non sono dogmi o precetti, è il pane e la compassione che sono entrambi beni divini». E così «la domanda “quanti pani avete”, con l’operazione di verifica, è chiesta a tutti i discepoli anche oggi: quanti soldi hai, quante case?». E ancora «quanti gioielli possiedi, magari sotto forma di croci o anelli?». Per il predicatore, infatti, «la Chiesa non deve aver paura della trasparenza o della chiarezza sui suoi pani e i suoi pesci, sui suoi beni». Sono «invece le cortine fumogene che innalziamo, le risposte evasive dietro cui ci schermiamo che erodono la fiducia e la credibilità». Del resto, solo «con la trasparenza si è veri e quando sei vero sei anche libero». Non è un mistero, ha aggiunto, che «noi diventiamo bugiardi quando qualcuno ci compra o perché abbiamo paura». I discepoli, quella sera sul lago, hanno davvero «poco ma tutto è messo a disposizione». Ma «l’uomo è fatto per dare dal cuore». Tanto che «quando non diamo siamo tristi, entriamo nella depressione». Padre Ronchi ha anche riproposto la forza di «Gesù che non vuole allontanare da sé nessuno, vuole tutti intorno anche a mangiare: è l’immagine femminile di Dio che nutre». E così «noi cerchiamo il Dio che moltiplica i pesci e il pane» mentre «Lui cerca noi, chiede collaborazione». In conclusione, «il miracolo sono i cinque pani e i due pesci che la Chiesa nascente mette nelle mani di Cristo fidandosi, senza calcolare, senza trattenere qualcosa per sé». E «se metto a disposizione il mio pane e do da mangiare a un affamato, non cambio il mondo, non cambio le strutture dell’inequità, ma ho inoculato l’idea che la fame non è invincibile, che la fame degli altri ha dei diritti su di me, che io non abbandono alla deriva chi ha bisogno, che la condivisione è la forma più propria dell’umano». Nella meditazione di martedì sera, padre Ronchi ha voluto ricordare che «Gesù non è moralista» ma «siamo stati noi ad aver moralizzato il Vangelo». E lo ha riaffermato partendo da una domanda di Gesù: «E volgendosi verso la

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donna, disse a Simone: vedi questa donna?» (Luca 7, 44). Si tratta del racconto evangelico che vede Gesù invitato, appunto nella casa di Simone il fariseo, «rompere ogni convenzione e lasciare che una donna, per tutti la peccatrice, pianga ai suoi piedi e li asciughi con i suoi capelli, baciandoli e cospargendoli di olio profumato». E di fronte alla sorpresa scandalizzata di Simone, Gesù gli suggerisce espressamente di guardare «questa donna che da peccatrice diviene la perdonata che ha molto amato». Dunque, ha proseguito il predicatore, «a casa di Simone va in scena un conflitto sorprendente: il pio e la prostituta; il potente e la senza nome; la legge e il profumo; la regola e l’amore a confronto». Ma «solo il Vangelo è capace di proporre un conflitto così inaspettato, in cui a prevalere sono il profumo, la prostituta, la carezza». «L’errore di Simone è lo sguardo giudicante» ha spiegato padre Ronchi, mentre «Gesù, per tutta la sua esistenza, insegnerà lo sguardo non giudicante, lo sguardo misericordioso». Il Signore, infatti, al di là di ogni moralismo, «mette al centro la persona con lacrime e sorrisi, la sua carne dolente o esultante, e non la legge». E quando «ci addentriamo in quelle pagine evangeliche accese, vediamo che ricorrono con più frequenza i termini povero, poveri, che non peccatore». Proprio nel giorno della festa dell’8 marzo, il religioso ha ricordato che «al seguito di Gesù» c’erano molte donne che «lo servivano con i loro beni». E ha suggerito di domandarsi che cosa oggi «ci fa così paura che dobbiamo prendere le distanze da questa donna e dalle altre?». Da parte sua, «Gesù era sovranamente indifferente al sesso di una persona: non ragiona mai per categorie». Invece «Simone da moralista, guarda il passato della donna e vede una storia di trasgressioni». Ma Gesù in lei «riconosce il molto amore di oggi e di domani: non ignora chi è, non finge di non sapere, ma la accoglie con le sue ferite e soprattutto con la sua scintilla di luce che Lui fa sgorgare». Nella pagina del Vangelo «il centro della cena doveva essere Simone, pio e potente, e invece il centro è occupato dalla donna». È un fatto che «solo Gesù è capace di operare questo cambio di prospettiva, di fare spazio così agli ultimi. Gesù sposta il fuoco, il punto di vista dal peccato della donna alle mancanze di Simone, lo destruttura, lo mette in difficoltà come farà con gli accusatori dell’adultera nel tempio». Il predicatore, in questa prospettiva, ha concluso offrendo un consiglio ai confessori: «È così facile per noi quando siamo confessori non vedere le persone, con i loro bisogni e le loro lacrime, ma vedere la norma applicata o infranta. Generalizzare, spingere le persone dentro una categoria, classificare. E così alimentiamo la durezza del cuore, la sclerocardia, la malattia che Gesù più temeva. Diventiamo burocrati delle regole e analfabeti del cuore; non incontriamo la vita, ma solo il nostro pregiudizio». AVVENIRE Pag 23 Patriarchino, il canto della memoria di Alessandro Beltrami Dall’Istria alle Dolomiti giù fino alle rive del lago di Como, c’era una volta il canto patriarchino. Un canto antico, dall’origine misteriosa, tramandato oralmente di generazione in generazione. E che veniva intonato nelle cattedrali come nelle cappelle di montagna. Un fossile, probabilmente, della gloriosa storia del patriarcato di Aquileia, diventato nei secoli espressione tra le più schiette della devozione popolare. Oggi quasi estinto, attorno al patriarchino in Friuli si è costruita una rete di affetto e di sostegno, con una coscienza molto moderna del suo valore, storico e di fede: «Era un canto che riguardava le maggiori feste dell’anno liturgico, ma anche i riti esequiali, i vespri... Potremmo definirlo un canto dell’anima – spiega don Loris della Pietra, direttore dell’Ufficio liturgico della diocesi di Udine – , un canto commovente in senso profondo: che tocca le sfere dell’emozione. E un canto fortemente identitario». Il termine patriarchino è infatti di origine dotta. La gente in friulano dice “ cjant a la vecje“, ossia “canto all’antica”: «La sua sopravvivenza è consapevolezza dell’autonomia e dell’identità di questa terra. Non c’è nulla di tradizionalista, né spirito anticonciliare. C’è un uso tranquillo, sereno della lingua latina all’interno di liturgie in italiano o in friulano. A volte si trova la rivendicazione del patriarchino in chiave tradizionalista: ma questo è lontano dalla realtà». Sebbene sia in latino e i testi sono quelli della liturgia romana, questo canto ha poco o nulla a che fare con il gregoriano: «Il patrimonio melodico è indipendente – prosegue della Pietra – e in secondo luogo è polifonico: i cantori armonizzano le parti spontaneamente a due o tre voci. Esiste anche una ricca raccolta di canti affidati al solista, in particolare per le letture dell’ufficio. Oggi queste melodie

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talvolta vengono usate anche in lingua friulana e italiana, un tentativo valido perché non scompaiano». Il canto è sostenuto da un gruppo di “ cjantôrs di glesie”, il cui numero varia tra gli 8 e i 12 componenti. «Per tradizione i cantori, che si dispongono ai lati dell’altare sono maschi ma più recentemente si sono associate le donne, il cui compito è guidare l’assemblea». Il patrimonio liturgico e musicale era comune. Il repertorio era omogeneo, ma valorizzato da varianti locali, sentite con orgoglio dalle comunità. Questa tradizione è oggi ridotta ad alcune isole: «In una manciata di centri in Carnia ci sono gruppi strutturati di cjantôrs – spiega don Loris – mentre in altri sopravvivono solo parti di repertorio. Le zone di montagna sono più conservative, ma il patriarchino si canta ancora anche a Marano Lagunare e un patrimonio consistente si registra a Grado e nella diocesi di Gorizia. Fuori dalla regione, frammenti importanti si individuano nel bellunese, come in Val di Zoldo. E ricca è l’area istriana». Un vero e proprio dialetto musicale dell’Italia nordorientale (negli Novanta a Varenna, sul lago di Como, si è scoperto un Sacramentarium patriarchino del ’500 con melodie affini a quelle di tradizione orale), la cui scomparsa non è riconducibile, come si potrebbe supporre, alla riforma conciliare. Paradossalmente, il primo responsabile del suo declino fu proprio il gregoriano. «Se il rito patriarchino scomparve con il Concilio di Trento, sul canto per secoli non ci sono stati tentativi di normalizzazione, fino all’inizio del Novecento con il movimento ceciliano», il quale promuoveva l’esigenza di un canto ufficiale della Chiesa cattolica contro “gli abusi” liturgici. «In molte comunità si introdussero il gregoriano e la polifonia, senza per altro quelle competenze richiesta da questi generi, e il patrimonio locale venne dimenticato. Il patriarchino venne confuso con il canto “alla villotta”, un genere popolare e amoroso: si faceva passare il canto liturgico nativo come se fosse musica profana». Il patriarchino arriva al Vaticano II molto indebo-lito: «La scomparsa è successiva al Concilio non, è opportuno specificarlo, per colpa del Concilio. Certo l’introduzione delle lingue vive ha tolto l’ele-anzitutto mento linguistico del latino. Ma la riforma avrebbe consentito la valorizzazione del patrimonio antico. Il colpo di grazia è arrivato dalla moda del moderno: tutto ciò che veniva percepito come locale veniva marginalizzato. E il canto patriarchino ha subito un ostracismo generale». Negli ultimi tempi, dopo una lunga stagione di diffidenza, attorno al cjant a la vecjesi è risvegliata l’attenzione dei musicologi. Tra coloro che più di tutti hanno cercato di salvare la memoria del canto patriarchino c’è però don Giuseppe Cargnello, che già negli anni 70 ha iniziato a raccogliere le testimonianze di una storia che andava spegnendosi. E che tuttora tiene viva: con il suo coro Rôsas di Mont, con il quale nel 2014 ha pubblicato il cd Cjantis di glesie dal popul furlan; e. soprattutto, nella chiesa della pieve di Gorto, nella val Degano, in Carnia, dove è parroco dal 1972. «Ero cresciuto nel contesto di quei canti – racconta don Giuseppe –, erano il mio habitat: il gregoriano l’ho scoperto solo in seminario. Dopo l’introduzione dell’italiano nella liturgia mi resi conto che la tradizione del patriarchino sarebbe scomparsa. Capii che stava crollando qualcosa di grande, e che questo patrimonio, da sempre presente nel percorso delle nostre comunità, subiva una grande ingiustizia». Come un etnomusicologo, don Giuseppe scende in campo con registratore e carta pentagrammata: «Ho cercato di salvare quello che sentivo più urgente, a partire dalle intonazioni dell’ordinario della messa, cantate a più voci. Tutti mettevano la propria nota, vi si tuffavano dentro. Il canto era vissuto in modo viscerale, ognuno era protagonista ». Don Cargnello ha documentato alcune centinaia di brani, alcuni dei quali sono stati stampati. «La parte incisa su nastro, invece, non è mai stata pubblicata. E meriterebbe di essere riascoltata. Ci sono alcuni casi di canto della gente davvero travolgente. Commuovono fino alle lacrime, sono attimi fuori del tempo». Oggi però, dice, farebbe una scelta diversa: «Allora ero inesperto. Ora andrei a cercare altro, come le dodici Lezioni del Sabato Santo, specialmente l’ultima, che era tutta infiorata di melismi. Sembra che le melodie dei solisti siano le più antiche. Erano tramandate di padre in figlio. Sappiamo che a Zoppè di Cadore, nel bellunese, una melodia fu venduta per un carro di fieno. A 1.500 metri di altezza è un vero tesoro». Sul presente del patriarchino, don Cargnello è realistico: «L’attenzione della ricerca è importante, ma può salvare la forma non la dimensione popolare, che era la sua forza. Le comunità che l’hanno tutelato lo mantengono, dove è scomparso non si può reintrodurre. Solo in alcuni casi si è riuscito a reinserire alcuni canti, in virtù della loro bellezza. Quello che resta va custodito, senza assolutizzare: nova et vetera possono convivere».

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CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Don Matteo e i Prodi divisi: “Rinuncio all’acqua santa” di Claudia Voltattorni I due fratelli e la benedizione a scuola. Il sacerdote: porterò solo ovetti Benedire, dice don Matteo, «significa suscitare il bene, portarlo negli ambienti della vita di tutti i giorni, nei luoghi e verso le persone che li frequentano». Normalmente lui, parroco di Santa Maria di Ponte Ronca, frazioncina di Zola Predosa a pochi chilometri da Bologna, lo fa con l’acqua benedetta. Per circa due mesi gira case, scuole, aziende, uffici e negozi e li benedice. Però, dice, «non posso pensare che questo sia capace di portare a tanta rabbia», e «se buttare qualche goccia d’acqua fa così male, vuol dire che la benedizione non suscita del bene, bisogna quindi cambiare strada». E allora, «perché negli uffici e nelle scuole non portiamo qualche ovetto (di Pasqua), suggerendo di portarlo a qualcuno, magari proprio a chi nessuno lo porterebbe mai?». Sorride don Matteo. E poi precisa: «Il mio è un divertissement , ma è anche un modo per svelenire il dibattito, per dire “cambiamo registro” e smettiamola di incaponirci su una questione il cui obiettivo è solo portare il bene agli altri». La questione, che da oltre un anno a Bologna accende molto gli animi, riguarda la benedizione pasquale a scuola, decisa da un consiglio d’istituto (ma in orario extrascolastico), bocciata dal Tar cui si è rivolto un comitato di genitori e professori, e pronta a essere reintrodotta dal Consiglio di Stato che nel frattempo ha sospeso la sentenza del Tar, su richiesta del ministero dell’Istruzione («Non si può parlare di discriminazione, la libertà religiosa include la libertà di praticare e quella di non praticare»). Ma da ieri trova su fronti (quasi) opposti anche due fratelli, don Matteo, il parroco, e Giovanni, il presidente del Consiglio d’istituto della scuola Ic20 Bologna che nel 2015 ha dato l’ok alla locazione di alcuni spazi a tre parroci per la benedizione pasquale. I due fratelli di cognome si chiamano Prodi, sono i figli di Vittorio e nipoti di Romano, l’ex presidente del Consiglio. «Non sono molto d’accordo con Giovanni - spiega don Matteo -, se la benedizione diventa un’alzata di steccati per dire “tu sì, tu no” e scatenare forme di laicismo che non hanno senso». Meglio allora «eliminare l’acqua santa, il prete e tutto il resto e renderla più laica spiegando che tutti possono portare del bene agli altri, anche solo con degli ovetti di Pasqua (è abbastanza laico?)». Don Matteo nel suo giro di benedizioni va anche da chi crede ad altro. «Mi capita di andare in case di famiglie musulmane: lì la mia benedizione diventa una visita alle persone, un “portare il bene”, appunto». Ma Giovanni Prodi, il presidente del Consiglio d’istituto, invece rilancia la sua «benedizione religiosa» e spiega che «può diventare piuttosto un momento di condivisione e apertura, un simbolo di pace e fratellanza, per accogliere e non escludere, magari coinvolgendo anche ebrei, musulmani e perfino i laici: questa sarebbe la vera sfida». Ma riconosce che «forse il clima in questo momento a Bologna non è favorevole, ma non capisco che male faccia alla laicità una benedizione». Per il 2016, il Consiglio d’istituto non ha ancora deciso se autorizzare le benedizioni pasquali, se ne parlerà nei prossimi giorni. Giovanni Prodi si mostra sereno: «Sono tranquillo e sarei contento se si potessero fare, ma servirebbe una discussione costruttiva, non il clima da battaglia dello scorso anno». LA REPUBBLICA Pag 26 Le due infallibilità papali di Alberto Melloni Ci sono almeno due modi di leggere la prerogativa della infallibilità personale del romano pontefice definita al concilio Vaticano I nel 1870: uno eccitante ed uno rigoroso. Il primo modo, non estraneo a Pio IX, è quello che mette enfaticamente l'accento su questa decisione facendo diventare l'infallibilità personale una infallibilità tout court. Massimalisti del tempo e dello spazio, questi lettori del Vaticano I presentano per ragioni ora apologetiche ora polemiche quel dogma come un potere che non nasceva dalla lotta dell'Ottocento fra chiesa e modernità, ma da una necessità teologica. Pio IX - ma non era né il primo né l'ultimo - non vedeva in quella lotta l'agonia del regime di cristianità che aveva dato alla chiesa potere e ne aveva appannato l'evangelicità, ma unicamente una minaccia. Se dunque si fosse dato il caso di una perversione generalizzata della chiesa, sarebbe rimasta nel "papa solus" tutto il potere per dire in modo solenne, dunque "ex cathedra", la verità della fede. Questo, secondo i massimalisti, modificava lo

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statuto stesso del papato: rendeva insomma indispensabile perfino una certa "devozione al papa", come custode ultimo di un tesoro essenzialissimo di verità sulla fede e sui costumi. Ma su questo era in certo modo d'accordo anche chi - come Hans Küng - negli anni Settanta vedeva nella infallibilità l'ostacolo all'ecumenismo e la consacrazione di un regime monarchico del cattolicesimo che in parte ha ispirato gli ultimi dieci secoli. L'altro modo di pensare alla infallibilità del papa era ed è meno entusiasmante: non eccita il super-papismo e non piace tanto nemmeno a quei critici che vedono lì lo snodo identitario di un cattolicesimo. È il modo di chi sottolinea che nella definizione del Vaticano I non si crea nulla: anzi si perimetra quella prerogativa così bene da renderla quasi inutilizzabile. Fin dal diritto canonico medievale si discettava sulla possibilità che nella apostasia generale lo Spirito custodisse la fede in alcuni, in pochissimi, o, come pensava Ockham, in uno solo. Ed erano stati proprio i francescani detti "spirituali", legati alla pratica rigorosa della povertà sancita dal papa, che sostennero ed argomentarono la irreformabilità delle prime decisioni papali contro quelle più lassiste prese dai successori. Così che, per mettere al riparo un principio di pauperismo estremo, dovettero diventare estremamente "papisti". Più tardi, al concilio di Firenze del 1438-1439 si codificò il principio che l'infallibilità della chiesa nel credere potesse concentrarsi in circostanze estreme nel solo papa di Roma: e da lì fu possibile al Vaticano I fare una definizione poco fruibile. Perché la storia dice questo: e infatti l'infallibilità personale del pontefice non è stata praticamente mai usata, mai nelle condizioni estreme previste da Pio IX. Il dogma dell'assunzione di Maria - comune anche all'oriente cristiano che lo chiama "dormizione" - fu proclamato da Pio XII nell'anno santo del 1950: ma non con l'infallibilità personale. La Munificentissimus Deus di papa Pacelli dice infatti: egli risponde "al singolare consenso" di vescovi e fedeli, al "consenso universale" del magistero e dei cristiani e al "quasi unanime consenso" dell'episcopato consultato. Non dunque una infallibilità personale e solitaria del papa, ma una concordia di cui il papa si fa voce. Tantomeno il papato successivo ha mai usato di quella prerogativa, che il Vaticano II riconduce dentro l'alveo di una concezione della chiesa come comunione. Solo una riga della Evangelium Vitae - quella nella quale Giovanni Paolo II dice di voler "confermare" che l'aborto è "disordine morale grave" - può essere considerata un pronunciamento infallibile. Molti sostengono che fu merito di Joseph Ratzinger aver circoscritto con quelle virgolette le tre parole della pronuncia papale: ma che essa abbia il crisma della solennità dottrinale o dell' infallibilità personale, è applicata ad un principio condiviso dai teologi. La perimetrazione così stretta della infallibilità ha insomma impedito che la condanna della contraccezione ormonale o meccanica da parte di Paolo VI venisse letta, come qualcuno tentò di fare come una pronuncia infallibile. E ha spinto lo stesso Ratzinger come prefetto di curia a costruire una terza figura - quella del magistero "definitivo" - nell'illusione di mettere al riparo di un aggettivo diverso temi a suo giudizio rilevantissimi: e che invece, come notava non senza amarezza in un discorso del 2000, proprio per questo sono stati discussi e spesso decostruiti dai teologi. Per questo risulta difficile credere che il problema delle riforme di Papa Francesco passi dalla impensabile cancellazione di un atto conciliare del 1870. È se mai la comprensione storica di quel testo e della sua efficacia che può cambiarne il "funzionamento" anche in senso ecumenico. Perché quando Francesco dice il vescovo ha da stare ora in testa, ora in mezzo, ora dietro un gregge di cui riconosce l'intuito di fede (il "sensus fidei"), disegna un altro modo di esercitare la funzione episcopale e dunque anche la funzione del vescovo di Roma e il ministero come papa nella comunione fra le chiese. Che lascia quelle discussioni ad una stagione violenta della vita cattolica - quella delle condanne del post-concilio di cui Küng è stato bersaglio catarinfrangente - e guarda ad una stagione nella quale l'infallibilità della chiesa torna ad esprimersi nel consenso che incontra lo sforzo di comunione delle chiese. IL SOLE 24 ORE Il «cammino» di Francesco tra guerra e misericordia di Carlo Marroni «E adesso incominciamo questo cammino». Sono passati tre anni da quel 13 marzo 2013 quando Francesco si affacciò per la prima volta a San Pietro. E fu subito chiaro che qualcosa era cambiato di colpo, per la Chiesa e anche per il mondo. Da subito ha denunciato una terza guerra mondiale combattuta a pezzi e che ora avverte della sua

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progressiva trasformazione in un conflitto globale. È la pace il vero "bene comune", che Francesco ha declinato con il grande abbraccio della Misericordia. In tre anni il mondo è cambiato e così la Chiesa (dei fedeli) che - nonostante i meriti di Benedetto XVI, primo tra tutti l' aver dato uno scossone epocale con la sua rinuncia - dopo un periodo di sbandamento d' un tratto ha ritrovato una forte guida in cui riconoscersi. Non solo: in Francesco si riconosce la maggioranza degli abitanti del mondo, quelli a cui nessuno mai si rivolgeva, che denuncia la corruzione e il denaro sporco, che non teme l' ira dei potenti. Tre anni di pontificato che hanno già segnato la storia, fatti di atti, gesti, sguardi, decisioni, ma anche portatori di enormi aspettative. Giubileo - Fu annunciato senza preavviso esattamente un anno fa, il giorno del secondo anniversario. È l' evento simbolo (fino ad oggi) del pontificato, scaturito dalla dottrina-Bergoglio, incentrata sulla conversione pastorale del mondo. È iniziato l'8 dicembre e proseguirà fino al 20 novembre: gli eventi di maggiore affluenza devono ancora arrivare, ma questo Giubileo è strutturalmente diverso da quello del 2000. Infatti Francesco ha voluto che fosse possibile per i fedeli "fare" l'Anno Santo in ogni basilica del pianeta e anche in ogni carcere, senza quindi dover raggiungere Roma. Accessibile a tutti, a partire dagli ultimi, come ha dimostrato l'apertura della prima Porta Santa a Bangui in Centro Africa. Famiglia - A fine ottobre si è chiuso il Sinodo ordinario, che seguiva quello straordinario di un anno prima. La strada della "inclusione" dentro la Chiesa per le famiglie ferite (a partire dai divorziati risposati) è stata aperta, con la chiave gesuitica del "discernimento", ma il confronto è stato molto duro e ha evidenziato come ci sia dentro la gerarchia una forte opposizione (fatta anche di gesti clamorosi) alle aperture, segno che non tutti i cardinali sono d'accordo sulla strada tracciata da Francesco. A breve il Papa pubblicherà il documento con le sue decisioni sulla famiglia. Ma non è l' unica novità: le nuove norme sull' annullamento da parte dei tribunali ecclesiastici aprono degli spazi di "perdono" fino ad oggi impensabili, e anche questo ha suscitato opposizione. Ma sul resto nessuna rivoluzione: Bergoglio è sulla linea tradizionale della Chiesa sia sul matrimonio (tra uomo e donna) e sulla difesa della vita (dal concepimento alla morte naturale). È diverso l'approccio: accoglienza e aiuto, e non condanna o esclusione. Emblematica la frase sul volo di ritorno dal Messico sul nodo politico italiano delle unioni civili, che ha visto una presa di posizione dei vescovi: «Non mi immischio nella politica italiana», ha tagliato corto. E questa è la linea, chiara sin dall'inizio del pontificato. Migranti - Il suo primo viaggio fuori dal Vaticano, nel luglio 2013, fu a Lampedusa, dove denunciò la «globalizzazione dell' indifferenza». È costante il suo richiamo alla tragedia dei rifugiati, vittime della guerra globale, ma anche di un modello che mette l' uomo dopo ogni altra priorità economica. Memorabile il discorso a Strasburgo sulle radici ideali dell'Europa su questo tema, che è di drammatica attualità. E anche la recente visita in Messico con la preghiera all' Altare del Migrante, sulla frontiera con gli Usa. Religioni - Un fortissimo impulso in questo anno appena trascorso è arrivato nei rapporti ecumenici e con le altre religioni. L'incontro storico a Cuba con il patriarca di Mosca Kirill è un passo destinato a lasciare traccia indelebile: il riavvicinamento con gli ortodossi (in tutto oltre 300 milioni) è una strada segnata, ma ancora lunga. Non solo: dialogo anche con valdesi, metodisti, evangelici e luterani, che visiterà a Lund in Svezia, a fine ottobre. Eppoi il rapporto con le altre religioni: la visita al Tempio Maggiore di Roma di gennaio è più di un gesto verso gli ebrei, in un momento in cui l'antisemitismo rialza la testa in Europa, sia nelle fasce estremiste delle periferie che nelle azioni di vero e proprio terrorismo. A breve inoltre è attesa la visita alla Moschea di Roma, la più grande d' Europa (ha già visitato quelle di Istanbul e di Bangui). Pedofilia - La piaga degli abusi su minori è un tema centrale dell' azione di Francesco. Ha costituito una Commissione per la tutela, dove sono stati ammessi anche rappresentanti delle vittime, a dimostrazione che bisogna andare più a fondo in un percorso avviato da Ratzinger, su questo pubblicamente ringraziato da Francesco. Le audizioni del cardinale Pell (verso cui il Papa mantiene la fiducia) e il Premio Oscar a Spotlight hanno riportato il tema alla ribalta ma la Chiesa di Bergoglio si mostra pronta: serve ora che ci sia maggiore decisione da parte delle conferenze episcopali, a volte un po' restie a interagire con decisione con le autorità giudiziarie. Emblematico il caso del nunzio

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Wesolowski (deceduto per cause naturali prima del processo penale vaticano) ridotto allo stato laicale in breve tempo. Cina - La "geopolitica pastorale" di Francesco è globale, e diverge dai parametri tradizionali di alleanze temporanee, più o meno "sante", per obiettivi specifici. Ma nell' agenda di Bergoglio forse in cima c' è la Cina: i segnali sono continui e sostanziali, come l' intervista ad Asia Times di poche settimane fa, il cui impatto a Pechino è stato enorme. Forse è presto per una visita (anche se ha detto e ripetuto che "sogna" un viaggio in Cina) e anche per un riconoscimento diplomatico, ma la politica dei piccoli passi per la libertà religiosa - non da tutti condivisa dentro la Chiesa - potrebbe avere dei risultati sostanziali a breve. Intanto le diplomazie sono al lavoro, sotto la regia del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Riforme (e Vatileaks) - Il processo di riforma della Curia è entrato in una fase di marcia normale, dopo le accelerazioni del primo anno e mezzo concentrate soprattutto sui gangli finanziari: su questo fronte è in atto un assestamento, specie sul bilanciamento dei poteri, ma per adesso il Papa sembra non voler riaprire il dossier. I dicasteri procedono ad accorpamenti progressivi per materie contigue (famiglia, carità), e lo stesso è sui media, con la nascita della Segreteria per l' Informazione. Si pensa alle riforme e viene a galla il processo per Vatileaks-2, che deve far luce sulla fuoriuscita di documenti dalla commissione di riforme ormai disciolta: il processo riprende sabato, con gli interrogatori da lunedì prossimo. La volontà è di procedere rapidamente con la fase dibattimentale, mai iniziata per l' esame delle perizie. Viaggi - Un'agenda molto fitta ha contrassegnato i tre anni, dal Brasile alla Terra Santa: nell' anno appena trascorso è stato in Asia (Sri Lanka e Filippine), America Latina (Bolivia, Ecuador e Paraguay), Stati Uniti e Cuba, Africa (Kenya, Uganda e Centroafrica), Messico (e la fermata a Cuba per la firma con Kirill), oltre che a Sarajevo. I prossimi mesi saranno meno fitti di impegni, anche per poter seguire gli impegni giubilari: al momento sono in calendario il viaggio in luglio a Cracovia per la giornata mondiale dei giovani (con la visita molto probabile alla vicina Auschwitz), mentre è da fissare, forse per settembre, il viaggio in Armenia e probabilmente anche in Georgia e Azerbaijan. IL FOGLIO Pag 1 Il Papa che viene dalla fine del mondo ora è stippato dalla periferia di Matteo Matzuzzi Turbolenze in Messico, i paragoni con l’Argentina Roma. Con un editoriale non firmato (ma a lui riconducibile), il cardinale arcivescovo di Città del Messico, Norberto Rivera Carrera, primate cattolico del paese centroamericano, ha attaccato frontalmente il Papa per il discorso tenuto tre settimane fa dinanzi ai vescovi messicani, nella cattedrale metropolitana della capitale. Il testo dell' articolo - pubblicato sia sulla rivista diocesana "Desde la fe" sia sul sito dell'arcidiocesi stessa - pone al centro della critica quanto Francesco disse a braccio, tralasciando il testo scritto. In particolare, a creare malumori è stato il passaggio in cui Bergoglio ha richiamato i vescovi al dovere di "mantenere l' unità del corpo episcopale". "Se dovete litigare - ha detto - litigate; se avete delle cose da dirvi, ditevele; però da uomini, in faccia, e come uomini di Dio che poi vanno a pregare insieme, a fare discernimento insieme; e se avete passato il limite, a chiedervi perdono". Insomma, aggiungeva il Papa: "Comunione e unità tra di voi. La comunione è la forma vitale della chiesa e l'unità dei suoi pastori dà prova della sua veracità. Non c'è bisogno di prìncipi, bensì di una comunità di testimoni del Signore". Il cardinale Rivera Carrera non ci sta e replica: "Il Papa ha qualche motivo per rimproverare così i vescovi messicani? Ciò che il Papa sa, e sa molto bene, è che la chiesa in Messico rappresenta un caso atipico se confrontato con gli altri paesi americani. In primo luogo, in termini percentuali il nostro paese ospita il maggior numero di cattolici, con l'81 per cento della popolazione nel 2014 (93 milioni circa, ndr) ed è proprio in virtù di questa ampia e consolidata presenza di cattolici che ci distinguiamo dagli altri paesi del continente". Chiaro, benché implicito, il riferimento non solo alla situazione di altre realtà latinoamericane (come l'Honduras del cardinale Oscar Rodríguez Maradiaga, assai influente a Roma ma alle prese con l'emorragia di cattolici in patria, scesi dal 76 per cento al 47 in vent'anni), ma anche e soprattutto all'Argentina dell'ex primate Jorge Mario Bergoglio, anch'essa alla prese con un calo rilevante di

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fedeli. Un rapporto del centro studi Latinobarómetro, due anni fa, sottolineava che le uniche due eccezioni all'arrancamento del cattolicesimo in America centro -meridionale erano rappresentate dalla Repubblica Dominicana e dal Messico. E Rivera Carrera ci tiene a ribadirlo, quando osserva che "sarebbe assurdo pensare che Sua Santità ignori la grande resistenza che la chiesa cattolica messicana ha opposto all' espansione delle comunità protestanti di stampo carismatico e pentecostale che si propagano senza ostacoli in altri paesi". Da qui la domanda che l'editoriale si pone: "Non sarà che le parole improvvisate del Santo Padre sono la conseguenza di un cattivo consiglio datogli da qualcuno che gli sta vicino? Chi ha consigliato male il Papa?". E ancora, "perché si cerca di sminuire il lavoro dei vescovi messicani? Per fortuna - è la chiosa - il popolo conosce i suoi pastori e li accompagna nella costruzione del regno di Dio, quale che sia il prezzo, come dimostra la storia di questo paese". Che ci sia qualche consigliere tutt' altro che disinteressato, il porporato messicano lo ribadisce in conclusione dello scritto, quando sottolinea che "la mano della discordia" è intenta a lavorare affinché la gente sia portata a ritenere che "le tentazioni sono mali dell' episcopato". I richiami contenuti nel discorso papale non erano - quanto a tono e impostazione - troppo dissimili da quelli già sentiti in analoghe occasioni, come a Washington davanti ai vescovi statunitensi o a Firenze dinanzi alla Cei, lo scorso novembre. In nessun caso, però, s'era levata una protesta da parte dell'autorità più rappresentativa della gerarchia nazionale, anzi: si era registrato un corale apprezzamento per la salutare scossa data dal Papa ai vecchi schemi episcopali, troppo distanti dalla visione d' una chiesa perennemente in uscita. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Küng e l’infallibilità del Papa di Andrea Tornielli Il teologo tedesco chiede a Francesco di abolire il dogma sancito dal Concilio Vaticano I. Quella «linea mediana» approvata dai padri un secolo e mezzo fa Il teologo tedesco Hans Küng è tornato a riproporre una revisione e un’abolizione del dogma dell’infallibilità papale, sancito da Pio IX e dal Concilio Vaticano I nel 1870. «Vorrei rivolgere di nuovo al Papa un appello che ho più volte inutilmente lanciato nel corso di una discussione pluridecennale in materia di teologia e di politica della Chiesa», ha scritto Küng. «Imploro papa Francesco, che mi ha sempre risposto in modo fraterno: riceva questa ampia documentazione e consenta nella nostra Chiesa una discussione libera, non prevenuta e aperta su tutte le questioni irrisolte e rimosse legate al dogma dell’infallibilità. Non si tratta di banale relativismo, che mina i fondamenti etici della Chiesa e della società. E nemmeno di rigido e insulso dogmatismo legato all’interpretazione letterale. È in gioco il bene della Chiesa e dell’ecumene». La proposta dei gesuiti - Vale la pena ricordare, al di là delle semplificazioni e anche dell’idea talvolta assunta da parte dell’opinione pubblica, come si è arrivati, quasi 150 anni fa, alla proclamazione del dogma dell’infallibilità: una decisione che, come negli altri casi di solenni definizioni dogmatiche, ha sancito qualcosa di già creduto e vissuto dalla Chiesa. Nella bolla di indizione del Concilio Vaticano I non c’era alcun cenno al tema dell’infallibilità pontificia, che fece il suo ingresso nella discussione pubblica qualche mese prima dell’inizio del concilio, il 6 febbraio 1869, a causa di una «corrispondenza dalla Francia» de «La Civiltà Cattolica», nella quale si auspicava una proclamazione «per acclamazione» del dogma dell’infallibilità personale del Pontefice. La proposta, dato lo stretto legame tra la rivista dei gesuiti e Papa Mastai, viene subito considerata come «ispirata» dallo stesso Pio IX. Reazioni negative - Le reazioni negative si scatenarono immediatamente, com’era peraltro comprensibile. Il vescovo di Orléans, Félix Antoine Dupanloup, nel marzo 1869 scrisse due articoli, pubblicati in forma anonima sul giornale «Français», mentre l’11 novembre, ormai a ridosso della data di apertura del Vaticano I, firmò un opuscolo intitolato «Observations sur la controverse soulevée relativement à la definition de l’infallibilité au futur concile», nel quale dichiarava di credere all’infallibilità ma di non considerare opportuna la sua definizione dogmatica in quel momento. È interessante notare la reazione di Pio IX a questa presa di posizione di Dupanloup. Pur essendo dispiaciuto per la tesi contenuta nell’opuscolo, il Papa ricevette in udienza il vescovo di Orléans e con i collaboratori commentò: «Ha fatto bene pel passato, e spero che ne farà anche per l’avvenire». Più dura fu la reazione di un altro vescovo francese, Henri Maret,

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docente di teologia a Parigi e vicino alle idee liberali, che nei due volumi intitolati «Du Concil générale et de la paix religieuse» spiega come l’autorità della Chiesa risieda nel papa unito ai vescovi e non nel papa da solo e che dunque le definizioni dogmatiche esigono il consenso dell’episcopato. Maggiormente violenta, la reazione del teologo tedesco Ignaz von Döllinger, che sotto lo pseudonimo di «Janus» pubblicò alcuni articoli sull’«Allgemeine Zeitung» arrivando a definire il papato «un tumore che sfigura la Chiesa e la fa soffocare» e descrivendo il Papa come vittima dei gesuiti. Favorevoli e contrari - L’infallibilità del Papa e le sue condizioni rappresenteranno il vero nodo del Concilio Vaticano I. Nessuno dei vescovi la negava di per sé, ma un quarto degli intervenuti non riteneva opportuna in quel momento la proclamazione del dogma, mentre diversi prelati temevano un’eccessiva riduzione dell’autorità episcopale a scapito di quella papale. C’era poi il problema di specificare esattamente l’oggetto dell’infallibilità. Il Papa era infallibile soltanto quando promulgava definizioni solenni o anche nel cosiddetto magistero ordinario, come ad esempio nelle encicliche? E poi, le definizioni solenni dovevano avvenire previa consultazione dell’episcopato o potevano essere proclamate dal solo Papa? La cosiddetta «minoranza antinfallibilista», composta da circa 150 padri conciliari, desiderava limitare l’infallibilità alle sole definizioni ex cathedra facendo esplicitamente menzione all’unione del Papa con i vescovi di tutto il mondo. C’era poi una maggioranza portata a estendere l’infallibilità anche alle encicliche che era contraria a qualsiasi condizionamento dell’autorità papale da parte dei vescovi. La «linea mediana» - Ad uscire vincitrice dal concilio, sarà una posizione intermedia, peraltro diversa da quella auspicata dallo stesso Pontefice. Papa Mastai, infatti, avrebbe desiderato una definizione dell’infallibilità che contenesse anche le encicliche o analoghi documenti dottrinali, come il Sillabo. Venne precisato, nelle discussioni, che l’infallibilità del Papa è la stessa della Chiesa e ha lo stesso ambito e lo stesso oggetto. Il vescovo di Poitiers, Louis Pie, introdusse lo schema pronunciando un importante discorso, nel quale spiegava che il Papa è «l’organo della Chiesa» perché non può mai insegnare una data dottrina se non ha la certezza che essa non solo sia fondata sulla rivelazione ma anche che sia condivisa da tutta la Chiesa, proprio come il sangue che circola in tutto il corpo umano . Il Pontefice dunque nelle sue definizioni dogmatiche è sempre unito alla Chiesa. In effetti così era accaduto qualche anno prima, quando Pio IX, desiderando proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, aveva interpellato i vescovi di tutto il mondo. Il cardinale Filippo Maria Guidi, che aveva tentato una mediazione fra maggioranza e minoranza conciliare, propose di escludere dalla definizione le parole «personale» e «separata» relative all’infallibilità papale per sostituirle con espressioni che maggiormente espressive della collaborazione dei vescovi negli atti di magistero solenne. Quanto già creduto dalla Chiesa - Le due correnti di pensiero continuano a confrontarsi. Il Papa non volle cedere alle richieste della minoranza che avrebbe voluto inserire nella definizione una frase riferita alla cooperazione dell’episcopato. Fece invece inserire, dal presidente della commissione conciliare, il cardinale Luigi Maria Bilio, una frase di segno opposto, che gli era stata suggerita da un vescovo italiano della maggioranza, il quale riteneva impossibile e inutile qualsiasi tentativo di accordo con gli anti-infallibilisti. Il suo nome è rimasto sconosciuto perché Pio IX aveva strappato dai fogli con la proposta la firma del prelato. La frase «huismodi definitiones esse ex sese irreformabiles» («tali definizioni sono immutabili per se stesse»), diventava così «huismodi Romani Pontificis definitiones ex sese, non autem ex consensu Ecclesiae, irreformabiles esse» («tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse e non per il consenso della Chiesa»). Queste parole venivano spiegate in questo senso: «indicavano – scrive padre Giacomo Martina, gesuita, il più importante biografo di Pio IX – la fonte ultima dell’infallibilità, l’autorità papale, ma supponevano sempre che il capo della Chiesa non avrebbe insegnato e definito se non quanto fa parte della tradizione rivelata, cioè quanto di fatto è già ammesso e creduto da essa». La proclamazione e i dissenzienti - Si arrivò così al 18 luglio 1870. Sulla città di Roma infuriava un violento temporale, la Basilica di San Pietro era avvolta dall’oscurità, rotta soltanto dalla flebile luce di qualche candela. La costituzione «Pastor Aeternus» ottenne 535 placet e due non placet (subito dopo ritirati). La minoranza antifallibilista non si era presenta nell’aula conciliare, ma per rispetto al Papa aveva deciso di lasciare Roma senza manifestare il proprio dissenso nella sessione pubblica. Nella lettera che i vescovi

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dissenzienti inviarono a Pio IX spiegando le ragioni del loro gesto è comunque riaffermata la piena fedeltà e ubbidienza al successore di Pietro. Quasi tutti, nei mesi successivi, manifesteranno pubblicamente la loro adesione al documento conciliare, sia per motivi pastorali, cioè per non creare divisioni nella Chiesa e sconcerto tra i fedeli, sia perché la stragrande maggioranza aveva approvato la definizione che era dunque legittimamente stata promulgata. La definizione - Nel primo capitolo, il testo conciliare afferma che quello del Vescovo di Roma non è un primato d’onore, ma «una vera e propria giurisdizione»; il secondo afferma che il primato di Pietro ha origine divina e che tutti i suoi successori hanno questo primato. Il terzo capitolo specifica che il Papa ha il potere di pascere, reggere e governare tutta la Chiesa, con giurisdizione suprema, ordinaria e immediata, universale e indipendente da ogni potere civile. Il testo della costituzione riporta la definizione del concilio di Firenze (4 settembre 1439), nella quale si legge che «Il Pontefice Romano, vero Vicario di Cristo, è il capo di tutta la Chiesa, il padre e il maestro di tutti i Cristiani: a lui, nella persona del beato Pietro, è stato affidato, da nostro Signore Gesù Cristo, il supremo potere di reggere e di governare tutta la Chiesa». «Perciò Noi – si legge nella parte finale della Pastor Aeternus - mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa». Infallibile, ma solo a precise condizioni - Infallibilità sì, ma solo se il Papa parla «come Dottore e Pastore universale; deve usare della pienezza della sua autorità apostolica; deve manifestare l’intenzione di “definire”; deve trattare, infine, di fede o di costumi». Lo stesso Pio IX, in vari interventi degli anni successivi, prenderà le distanze dalle interpretazioni massimaliste del dogma, lodando invece l’esegesi dei vescovi tedeschi, che in un documento avevano ribadito che il primato non attribuiva al Papa alcun potere sulle autorità civili, che era delimitato dalla costituzione divina della Chiesa e non rendeva il Pontefice un sovrano assoluto, né soffocava il potere dei vescovi che non erano ridotti a semplici funzionari papali. «La definizione – ha osservato padre Martina – come era stata formulata il 18 luglio, pur accentuando fortemente il ruolo del papato, non avviliva l’episcopato, e restava sostanzialmente equilibrata. Dal punto di vista puramente dottrinale, essa non portava nessuna novità vera e propria: si ribadivano le tesi classiche, proprie di larghe correnti teologiche… dal secolo XIII in poi». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO Pag 1 Non basta Draghi per uscire dalla recessione di Giulio Sapelli Il mondo non è solo immenso, è anche immensamente vario. In Giappone, per esempio, i sindacati del settore bancario e assicurativo, vera potenza per iscritti e influenza politica, hanno annunciato che rinunceranno, dopo anni di rivendicazioni, a chiedere i consueti adeguamenti salariali perché preoccupati delle conseguenze in termini occupazionali della politica di tassi negativi praticata dalla locale Banca centrale. Inoltre, i dipendenti del gruppo Sumitomo-Mitsui, della Mizuho e delle compagnie Tokio Marine e Sompo Japan accusano la BoJ di minare in tal modo i bilanci dei loro datori di lavoro e di indurre le piccole imprese a tagliare i salari per timore delle negative conseguenze che ne possono derivare. Insomma, un mondo che si è capovolto se il paragone corre a qualche anno fa. Del resto, sempre più la stampa internazionale appare titubante sulle possibili conseguenze della decisione della Bce di continuare a tenere i tassi a misura di

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zero o addirittura sotto lo zero. Di più. I dubbi sull’azione avviata da Mario Draghi si vanno infittendo anche fra coloro che lo hanno sempre sostenuto. Negli Stati Uniti crescono i timori per l’Europa in deflazione, soprattutto perché pesa come un macigno sul disegno neoimperiale del Trattato Trans- Atlantico su cui si gioca ormai il ruolo stesso degli Usa su scala mondiale, soprattutto se si pensa che tale disegno si accompagna all’altrettanto grande progetto di Trattato, in questo caso Trans-Pacifico. Quest’ultimo coinvolge gli Stati dell’America del Sud e gran parte dei Paesi asiatici, con l’esclusione però di Cina e l’inclusione di due suoi nemici storici: Giappone e Vietnam. Mai come oggi l’economia è legata alla geostrategia attraverso l’anello del potere mondiale e del suo sistema di pesi e di rilevanze. È proprio questo sistema di pesi e rilevanze che le politiche della Bce rischiano di modificare con conseguenze possibili sul sistema di alleanze. Anche nella City londinese inizia a serpeggiare tra i suoi esponenti una crescente insofferenza per l’Europa: si sente salire il tasso di consenso verso Brexit, incoraggiati, coloro che vogliono rompere con l’Europa, dal regime di iper regolazione che ormai vige nel Vecchio Continente e che francamente è divenuto un vero ostacolo all’attività bancaria e assicurativa. Una iper regolazione, peraltro, che non ha incentivato processi di clearing house, ossia di trasparenza e di eliminazione delle shadow bank e delle shadow pools, ossia quelle scatole nere dove si effettuano transazioni di derivati e di titoli tossici senza controllo. Ma vi è un problema assai più grave ed è quello della mancata crescita economica e quindi della mancata benemerita ascesa del tasso di inflazione (l’inflation targeting di cui discettava Ben Bernanke). Di più: la deflazione continua invece a manifestarsi, lasciando sgomento ogni monetarista che crede ancora nel ruolo salvifico della moneta. La circolazione monetaria si rivela essere non solo un segmento - e non il tutto - dell’ accumulazione capitalistica, ma addirittura diventa ostacolo ad essa quando si separa dall’economia reale. È ciò che è accaduto sino a ora con eccessi di liquidità uniti a eccessi di risparmio in una tipica trappola che avevamo già visto scattare in Giappone venticinque anni or sono e che esigenze geopolitiche hanno costretto - sotto la spinta degli Stati Uniti - ad affrontare seriamente per uscire da una stagnazione secolare segnata da deflazione. Una trappola che ciò che rimane dell’Occidente non può permettersi più di fronte al crescere aggressivo della Cina: un Giappone forte economicamente è condizione per il suo riarmo. Del resto, quest’ultimo è impossibile senza ripresa della crescita e senza inflazione. Ciò vale per il Giappone come per l’Europa. L’esempio della Federal Reserve, che per fronteggiare la crisi da subito ha attivato meccanismi d’intervento sia acquistando a manetta titoli di Stato sia sostenendo direttamente il sistema bancario, è stato imitato probabilmente con troppo ritardo. A questo punto se davvero si vuole che si innesti un percorso di crescita sostenibile occorre favorire un massiccio processo di investimenti onde creare nuovi posti di lavoro così da porre su nuove basi la domanda interna. Proseguire sulla strada sin qui percorsa se corroborare l’attività della Bce porterà fatalmente a restringere sempre più le possibilità di ripresa. Non v’è dubbio che sino a oggi il Quantitative easy e le politiche di tassi negativi abbiano prodotto una temporanea difesa dinanzi all’esplodere di una crisi anzitutto finanziaria di grandi proporzioni, ma di fatto hanno consentito di guadagnare tempo, non di andare alla radice del male. Che non è oscuro: il male è l’eccesso di risparmio prodotto da un eccesso di speculazione che ha puntato tutto sulle esportazioni, alla fine persino contribuendo a provocare la frenata della stessa Cina. È dunque fallito il modello della crescita fondata sull’esportazione, tanto cara alla Germania, a discapito della domanda interna. Ed è dunque fallito - anche a causa dell’inerzia di certi governi - pure il modello che Draghi aveva condiviso in una qualche misura sperando di occultarlo con le eterodossie monetarie. La verità è che le politiche monetarie da sole non riescono a invertire il processo di stagnazione secolare che abbiamo iniziato a percorrere con l’unificazione monetaria europea, con la Germania che trascina nel suo surplus commerciale una catena di nazioni che finanziano a debito ciò che non possono più finanziare con il lavoro dipendente ben pagato e una politica di valorizzazione del profitto industriale anziché della rendita finanziaria. L’ora della verità è infine giunta, ma sarebbe un grave errore addossare la colpa a Draghi. Egli è fautore di una politica economica senza sbocco che in ogni caso è stata ed è meno negativa dell’ordoliberalismo e della deflazione sostenuta dalla Germania. Qualsiasi decisione possa assumere oggi la Bce deve essere chiaro che essa deve essere pertinente, se vogliamo tornare a crescere, con un insieme di politiche anti-austerità che devono conservare il nocciolo del processo

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unitario europeo, ossia la moneta unica, ma devono rimettere in gioco i Trattati restituendo - sul modello americano - libertà di bilancio alle nazioni europee, pena il disfacimento dell’Europa medesima. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Mestre, gli immigrati scelgono il centro di Elisio Trevisan e Raffaele Rosa Gli stranieri sono in aumento in tutto il comune: una “città” di 33.783 persone Gli stranieri preferiscono il centro città a Mestre. Grazie tante: chiunque, potendo, preferisce andare in centro. Il problema è che, più ci si avvicina a piazza Ferretto più le case costano un occhio della testa, nonostante la crisi immobiliare cominciata nel 2008 e mai finita. A meno che non si scelgano gli appartamenti più vecchi e più bisognosi di manutenzioni. La fotografia scattata al cuore della terraferma mostra che gli stranieri si stabiliscono molto di più nei rioni centrali e scelgono gli appartamenti di metrature maggiori, capaci di contenere nuclei familiari numerosi. E un altro dato molto interessante, è che i migranti in fuga dalle guerre in Africa e Medio Oriente scelgono solo in minima parte la nostra città. È il primo esito di un lavoro avviato dal Servizio tecnico della Municipalità di Mestre ad inizio del 2015. Luisa Cini, Rosaria Di Meglio, Michela Bianchi e Luigina Novello, assieme a Lorita Caccin, hanno creato un database sul numero e la provenienza dei richiedenti alloggio da Stati non facenti parte dell’Unione Europea. Siccome la richiesta di alloggio è un passaggio fondamentale per ottenere il permesso di permanenza sul territorio nazionale, e la maggior parte delle richieste è finalizzata a ottenere permessi di soggiorno e ricongiungimenti familiari, se ne ricava che i dati sono basilari per comprendere le tendenze e studiare i flussi di stranieri nella nostra città, e per poter elaborare politiche sociali appropriate. E non a caso il presidente della Municipalità Vincenzo Conte sottolinea, in polemica con la decisione di spogliare le Municipalità delle varie competenze, che «questo lavoro evidenzia la peculiarità, la competenza e particolare conoscenza che gli uffici delle Istituzioni decentrate hanno acquisito e consolidato nella gestione delle varie problematiche». Nel 2015 sono stati rilasciati 706 certificati di idoneità alloggio, che chiaramente si vanno ad aggiungere a quelli degli anni precedenti. Questi 706, però, ora sono dentro un archivio digitale che crescerà di anno in anno. Si comprende, ad esempio, la distribuzione territoriale dei cittadini extracomunitari (grazie anche alla suddivisione della Municipalità in 8 aree), non solo nel senso che preferiscono il centro, ma anche in base alle provenienze: i cinesi hanno costituito la loro comunità nella parte nord del quartiere Piave; i bangladesi sono tra San Giuliano, via Torino, Corso del Popolo, Piave sud, viale San Marco, dintorni di piazza Ferretto e Carpenedo Ovest; i moldavi Piave sud, via Circonvallazione, viale San Marco nord, Carpenedo sud e Bissuola; gli albanesi scelgono soprattutto via Ca’ Rossa. Queste sono le quattro nazionalità più numerose a Mestre: nel 2015, delle 706 richieste di idoneità alloggio, 236 sono di bangladesi, 116 cinesi, 100 moldavi e 35 albanesi. Poi ce ne sono anche di parecchie altre nazionalità ma in numero minore: 34 ucraini, 28 filippini, 21 kossovari, 19 dallo Sri Lanka, e via via di altri Paesi. I cittadini stranieri residenti nel Comune di Venezia sono aumentati alla data del 31 dicembre del 2015 di 672 unità. Un anno fa di questi tempi erano in 33.111 i cittadini con passaporto non italiano che abitavano in città. Alla data di poco più di due mesi fa, secondo i dati del servizio statistiche del Comune di Venezia, l'aumento ha portato il territorio comunale ad avere 33.783 persone straniere. La comunità più numerosa è quella bengalese con 5.386 residenti (erano 5.364 a fine 2014), seguiti dai Moldavi che sono in 4.836 (calati rispetto ai 4996 del 2014) e dai romeni che sono 4.718 (ben oltre 400 in più rispetto ai 4299 del 2014). I cittadini europei residenti sono ovviamente i più numerosi con 18.538 persone (erano 18.224), seguiti dagli asiatici con 11.635 cittadini (11.339 l'anno prima). Quella romena è anche la comunità cresciuta maggiormente a livello numerico, seguita dai cinesi (2.803 al 31 dicembre rispetto ai 2607 dell'anno precedente). Diminuito di 4 unità il numero degli originari degli stati americani (1071

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contro i 1075). Le comunità africane hanno tutte aumentato il numero dei residenti (i marocchini da 423 a 458). Sul numero di presenze maschile e femminili, il bilancio totale parla di 15.541 persone di sesso maschile e di 18.242 di sesso femminile, un certo equilibrio che rispetto all'anno precedente non varia molto. Quella di Mestre-Carpenedo continua ad essere la Municipalità più multietnica, anche se i dati definitivi non sono ancora aggiornati suddivisi per quartiere. Il territorio del comune lagunare, dunque, funge ancora da attrattore per i cittadini che, in senso assoluto, sono cresciuti in quasi tutte le nazionalità come residenti, Moldavia a parte. Il dato che riguarda la comunità bengalese conferma quello che ogni giorno sia a Venezia, dove molti lavorano come camerieri, cuochi e lavapiatti, sia a Mestre dove risiedono spesso con la famiglia ricongiunta, è sotto gli occhi di tutti e facilmente verificabile. Pag XIX Un sogno, riportare a casa il crocifisso di Cavazuccherina di G.Bab. Jesolo, associazione “Monsignor Giovanni Marcato Jesolo - Far ritornare in città l'antico crocifisso della chiesa di Cavazuccherina. È il sogno al quale sta lavorando l'associazione "Monsignor Giovanni Marcato" che sta cercando di far arrivare nelle chiesa di San Giovanni Battista l'imponente opera, alta più di 2 metri, attribuita a Niccolò Semitecolo (seconda metà del 1300). Un'opera dal grande valore e attualmente custodita nelle Galleria dell'Accademia di Venezia, non esposta al pubblico. Per questo tra gli iscritti dell'associazione jesolana si è sviluppata l'idea di provare a riportare "a casa", seppur per un periodo limitato, l’immagine lignea, realizzando non solo un sogno ma al tempo stesso un'importante iniziativa storico-culturale e per certi versi anche turistica. L'impegno non mancherà soprattutto perché sarà necessario effettuare un trasporto speciale e garantire una serie di requisiti durante l'esposizione. «Ci stiamo lavorando - ammette il presidente, Giampaolo Rossi - tuttavia per il momento non c'è nulla ancora di definito. A spingerci in questa strada c'è l'attività del nostro gruppo impegnato nella scoperta delle radici di Jesolo. In questo ambito c'è ovviamente anche la storia religiosa». LA NUOVA Pag 19 “Commemoriamo per non dimenticare” di Enrico Tantucci I cinquecento anni del Ghetto, la presentazione delle iniziative «Gli ebrei non hanno alcuna nostalgia del ghetto. Il ghetto rappresenta segregazione. Per questo motivo non festeggiamo nulla, ma commemoriamo un fatto che rimane una tragedia». Con queste parole forti, il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche Italiane, Renzo Gattegna, ha presentato ieri a Roma le manifestazioni programmate a Venezia per i 500 anni del Ghetto, il più antico d’Europa, che prenderanno il via il 29 marzo. Era il 29 marzo 1516 quando il Senato veneziano decretava che tutti li giudei dovessero abitare insieme non più alla Giudecca, come era avvenuto in precedenza, ma in un'area recintata e sorvegliata della città: il quartiere veneziano “Geto”, pronunziato ghèto dai locali ebrei Aschenaziti di origine tedesca, inteso come getto, cioè la gettata di metallo fuso dove venivano smaltiti i resti delle lavorazioni di una fonderia di rame. Ma dalla creazione del ghetto, ha proseguito Gattegna, «venne fuori un esempio di altissima tradizione culturale, intellettuale e religiosa». E l’anniversario sarà anche occasione, hanno ricordato ieri il presidente della Regione Luca Zaia e il sindaco Luigi Brugnaro, «per combattere l'antisemitismo e il negazionismo di oggi». Il nutrito programma, che renderà il 2016 un anno speciale per la storia dell’ebraismo a Venezia, è stato presentato, nella sede della Sala Stampa estera, alla presenza, tra gli altri, anche del Presidente della Comunità ebraica di Venezia Paolo Gnignati e del presidente della Fondazione Musei Civici Mariacristina Gribaudi e del direttore del Comitato di Salvaguardia statunitense per Venezia Venetian Heritage - che ha lanciato una raccolta fondi internazionale per il restauro del Museo Ebraico e delle sinagoghe cinquecentesche - Toto Bergamo. Tanti gli eventi fra mostre, musica e conferenze - di cui riferiamo a parte - in programma dal 29 marzo, partendo con il concerto dell’Orchestra della Fenice diretta dall’israeliano Omer Meir Wellber. «Siamo di fronte a una ricorrenza dai significati molteplici» ha sottolineato Zaia «con la quale però prima di tutto bisogna ricordare ancora una volta, per non dimenticare mai un orrore senza pari, la Shoah, l’Olocausto, le

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persecuzioni e il ghetto come luogo di reclusione». «Venezia é sempre stata città di integrazione» ha sottolineato ancora Brugnaro «e vogliamo lo sia sempre. A Venezia si testimonia come la comunità ebraica sia riuscita a scrivere la storia della Repubblica veneziana. Ma accendiamo i riflettori: oggi testimoniare l'appartenenza alla comunità ebraica può essere in Europa un problema, anche di sicurezza». Per valorizzare al meglio questa storica data è stato costituito a Venezia il Comitato “I 500 anni del Ghetto di Venezia”, presieduto dal Presidente della Comunità ebraica di Venezia Paolo Gnignati. Scopo primario del Comitato è l’organizzazione e promozione di manifestazioni e iniziative che affrontino temi di interesse internazionale, nazionale, cittadino, prendendo spunto dalla storia ebraica veneziana e dal Ghetto. I tre eventi principali promossi dal comitato saranno appunto la cerimonia-concerto inaugurale al Teatro La Fenice il 29 marzo 2016, la mostra a Palazzo Ducale “Venezia, gli ebrei e l’Europa. 1516-2016” e il radicale restauro del Museo ebraico, ma molte sono le iniziative in programma in città nell’anno 2016 e collegate al Cinquecentenario. Sarà un concerto di gala quello del 29 marzo alla Fenice che aprirà ufficialmente le celebrazioni per i cinquecento anni di vita del Ghetto di Venezia, con il sostegno del World Jewish Congress e dell’Associazione europea per la conservazione e la promozione della cultura e del patrimonio ebraico, in presenza di personalità del mondo della scienza, dell’economia, dell’arte e della cultura. Sarà del famoso storico britannico dell’arte Simon Schama il discorso introduttivo e poi il maestro Omer Wellber dirigerà l’Orchestra della Fenice eseguendo la Sinfonia numero 1 in Re maggiore di Mahler. Tra le iniziative più importante del cinquecentenario spicca la mostra internazionale «Venezia, gli Ebrei e l’Europa. 1516-2016» in collaborazione con la Fondazione Musei Civici e ospitata inoltre negli Appartamento del Doge di Palazzo Ducale dal 19 giugno al 13 novembre. L’esposizione - curata da un Comitato scientifico presieduto dalla storica dell’architettura veneziana Donatella Calabi - sarà incentrata appunto sul Ghetto di Venezia, la sua crescita, la sua architettura, il suo assetto sociale e la sua vita materiale anche in relazione agli altri insediamenti ebraici in Europa. Esposti anche capolavori della pittura in rapporto con il mondo ebraico e proposta anche una ricostruzione virtuale del Ghetto nelle sue diverse fasi storiche. Ma ci sarà spazio anche per oggetti rituali e per libri, con l’esempio del Talmud stampato a Venezia per la prima volta. «Con questa esposizione che speriamo diventi almeno in parte itinerante» ha detto ieri Calabi «vogliamo raggiungere il più amplio pubblico possibile. Spiegheremo come vivevano gli ebrei all'epoca, i mestieri svolgevano all'interno del ghetto così come il contesto cittadino esterno, andando anche oltre al momento in cui le porte vennero aperte - e simbolicamente bruciate - con l'arrivo di Napoleone». Altro ambizioso progetto riguarda l'imponente raccolta fondi internazionale - con l’obiettivo di toccare gli 8,5 milioni di euro - gestita dalla fondazione Venetian Heritage e dedicata alla radicale trasformazione ed al restauro del Museo ebraico di Venezia nato nel 1954 e delle sinagoghe cinquecentesche. Il progetto, lanciato nel 2014, ha raccolto per ora circa 4 milioni di euro di finanziamenti e si aspetta ora di raggiungere l’altra metà della cifra per far partire nei prossimi anni l’imponente progetto di restauri. Tra il 26 e il 31 luglio, invece, Campo del Ghetto vedrà «Il Mercante di Venezia» di William Shakespeare messo in scena per la prima volta nella sua ambientazione originale. Previsti inoltre numerosi convegni in città sempre legati alla celebrazione, come quello del 5 maggio nella Sala del Piovego dedicato alla nascita e all’evoluzione del Ghetto di Venezia tra il 1516 e il 1797. CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Venezia e la gondola negata che fece infuriare il granduca di Paolo Coltro Il turismo, gli hotel dei ricchi e i primi divieti: accadeva nel 1885. E oggi… Roba da rischiare un incidente diplomatico, quel 5 maggio 1885. Due guardie di pubblica sicurezza della Municipalità veneziana fermano sulla riva davanti alla stazione ferroviaria il granduca Costantino di Russia, intimandogli di non servirsi della sfarzosa gondola dell’hotel Britannia sulla quale era arrivato e con la quale voleva tornare. Il granduca su quella gondola aveva accompagnato dall’albergo alla stazione il suo amico duca di Sassonia Altenburg: non l’avesse mai fatto, aveva infranto una freschissima disposizione della Municipalità, che dal 1° maggio vietava agli alberghi di tenere servizio di gondola

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(gratuito) per i loro illustri ospiti, verso qualsiasi destinazione, stazione massimamente compresa. «Deve servirsi delle gondole pubbliche», dicono le guardie al granduca, ma Costantino di Russia aggira divieti, imposizioni e multe semplicemente attraversando il Canal Grande sul ponte di ferro e salendo, sull’altra riva, sulla gondola del Britannia che lo aspettava. Episodio curioso raccontato sul Corriere di quel giorno, che definisce il divieto comunale una «misura improvvida» e parla di «albergatori indignati». Chiosa il corrispondente da Venezia: «Che si direbbe a Milano o altrove se il Municipio vietasse agli alberghi di tenere i loro omnibus particolari?». Ma la Municipalità veneziana difende i gondolieri privati, che un tempo avevano come concorrenti solo le gondole «de casada», cioè delle famiglie nobili, ed ora devono vedersela con i servizi offerti al turismo nascente. E già da qualche anno sono minacciati da un mostro irrefrenabile: il motore. Quattro anni prima, nel 1881, c’è stata una gran protesta per la concessione ad un privato del primo servizio pubblici di vaporetto in Canalazzo. «E’ troppo», avevano strillato i duemila gondolieri con le loro famiglie, ma si capiva che sarebbe stata una battaglia dura. In tempi in cui non si potevano immaginare i danni del moto ondoso, il sindaco Dante di Serego Alighieri rispose che i vaporetti sono «troppo corrispondenti ai bisogni della civiltà e hanno troppo acquistato le simpatie della popolazione». Replay dei gondolieri nel 1887, quando l’amministrazione dà il via libera alle corse notturne dei battelli tra Santa Lucia e Rialto: dieci giorni di sciopero in piena estate, dal 12 al 21 agosto. Questa volta la Municipalità recede e i gondolieri tornano al remo. Ma sempre meno, perché lance e motoscafi popolano sempre più i decenni entranti del Novecento. La difesa dei gondolieri da allora in poi segue altre strade: come sacrosanta giustificazione ideologica la lotta al moto ondoso, come strumento pratico il numero chiuso delle licenze, sia per gondolieri che per motoscafisti, leggi taxi acquei. E se non c’è più quell’ordinanza che vieta sic e simpliciter le barche degli alberghi, c’è una marea di leggi, regolamenti e disposizioni che viene elegantemente definita «una normativa complessa». Possono gli albergatori trasportare i loro clienti? Sì, no, ni, solo su barche di proprietà e non prese a noleggio, e il passaggio dev’essere compreso nel prezzo dell’ospitalità, e non in ogni percorso. Ad una legge regionale, la numero 63 del ‘93, si aggiunge il regolamento comunale del ‘97, poi rivisto e adeguato negli anni, fino al 2014. Ma non è finita, perché la competenza sulle acque è diversa. Il canale della Giudecca è area portuale marittima, il Comune non ha competenza. Così le navette gialle dell’Hilton Stucky vanno e vengono ogni 40 minuti tra l’hotel, le zattere e San Marco, ma guai a far salire chi non è ospite dell’albergo. Nessun albergo ha più la gondola, l’ultima privata «de casada» è stata quella di Peggy Guggenheim ed è morta con lei. I gondolieri sono 433, ma quelli che hanno la licenza sono più di seicento, quelli in sovrannumero fanno i sostituti e aspettano il loro turno. La lotta non è più contro i vaporetti e neppure i motoscafi, ma con il fisco. Le gondole sono il baluardo dell’immagine, distribuiscono ricordi, poesia, canzoni ed euro sonanti, anche le magliette-divise ora hanno un marchio e sono prodotte e commercializzate da un rinomato brand veneziano della moda. Le uniche gondole che non hanno la licenza sono quelle che solcano le acque della California: Los Angeles, Long Beach, San Diego, Naples Island, ma l’oceano di mezzo stempera la concorrenza e i prezzi sono simili: 80 euro a Venezia, un centinaio di dollari negli States. Il protezionismo si è trasferito sui taxi acquei, che sono più o meno trecento, con licenze gialle, verdi e rosse, litigano tra loro e tutti insieme contro gli abusivi. E contro il pericolo giallo: c’è qualche intraprendente cinese con che con mototopo da 40 hp non ha bisogno nemmeno della patente nautica per portare familiari, amici, turisti a gruppi che salutano con la manina e si fanno selfie.... L’hotel Britannia c’è ancora fisicamente, ma è passato di mano tre volte ed ora si chiama Westin Europa & Regina. Non ha più la gondola, nemmeno il motoscafo. Si sono di molto diradati granduchi e principi, in compenso i turisti da poche migliaia sono arrivati a trenta milioni..Si sono moltiplicate le norme e i vigili, ma ci sono meno abitanti e meno divieti. L’ultimo è stato quello che ha impedito ai taxi l’attracco al molo di San Marco durante le esequie di Valeria Solesin in piazza. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST

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CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Il Nordest parla cinese di Vittorio Filippi Imprese straniere «La Cina è vicina» è un film del lontano 1967. Prodotto da Marco Bellocchio, rievocava quel maoismo che, nell’Italia sessantottina, ispirò simpatizzanti per la cosiddetta rivoluzione culturale ed il suo famoso «libretto rosso». In un certo senso, mezzo secolo dopo, quelle utopie sono divenute realtà, anche se di segno molto diverso. Come sappiamo, la rivoluzione culturale è divenuta una enorme rivoluzione capitalistica ed il «libretto rosso» è stato sostituito dai testi manageriali. E la Cina, più che vicina, è letteralmente entrata nelle nostre realtà in modo rilevante e capillare. Abbiamo prodotti cinesi, ristoranti cinesi, immigrati cinesi, perfino turisti cinesi. E sempre più imprese cinesi. E’ questo il dato più curioso che esce dalla rilevazione della Fondazione Moressa sugli imprenditori stranieri nel nordest al 2015. Che ci dice un paio di cose. La prima è che i cinesi fanno ormai la parte del leone: nel nordest sono circa 9.400, pari all’11% dell’imprenditoria immigrata. Non solo: negli ultimi cinque anni la loro crescita è stata del 39 per cento, la più ampia dopo quelle dell’imprenditorialità nigeriana e cingalese (che però hanno valori assoluti assai più modesti). Il secondo risultato della rilevazione della Fondazione è che l’andamento delle imprese – nascite, sviluppo, cessazioni -, detto anche demografia d’impresa, segue in modo pedissequo quello della demografia vera e propria. Cioè quella che riguarda le persone. Infatti, nel Nordest che cambia crescono oggi le attività gestite o fondate da imprenditori stranieri ed indietreggiano o calano quelle degli italiani. I numeri che lo dimostrano sono impietosi: sempre negli ultimi cinque anni (anni particolarmente difficili ed assai selettivi per le imprese, com’è noto) gli imprenditori stranieri sono cresciuti di quasi il 13 per cento mentre quelli autoctoni sono calati di quasi l’8 per cento. Metà degli imprenditori stranieri si concentra nel commercio e nelle costruzioni (queste ultime però con il segno meno, vista la situazione dell’edilizia), ma crescono comunque anche il manifatturiero ed i servizi alle imprese, mentre esplodono i servizi alle persone (più 42 per cento in cinque anni). Verona e Treviso sono le province in Veneto con il maggior numero di imprenditori stranieri: qui ormai quasi un imprenditore su dieci è immigrato, una proporzione non lontana da quella della popolazione in generale. Insomma, come nella demografia delle persone, anche in quella d’impresa gli stranieri ricostituiscono e sostituiscono le trame sociali ed economiche dei nostri territori. Diceva nell’Ottocento il filosofo positivista Comte che «la demografia è il destino». Lui ovviamente pensava ai numeri delle popolazioni; ma se applicata ai numeri delle imprese e degli imprenditori la sua osservazione appare ancora più vera. Soprattutto oggi. Pag 5 Tutela a Rom e Sinti, abrogata la legge: “Era vuota ma è questione di principi” di Marco Bonet Il crocifisso scatena una (nuova) lite in aula Venezia. E dunque alla fine ce l’ha fatta, la Lega, a cancellare la famigerata legge regionale 22 dicembre 1989, n. 54, «a tutela della cultura dei Rom e dei Sinti». Ci stava provando da dieci anni, da quando cioè a Palazzo Balbi sedeva ancora Giancarlo Galan, e ieri è arrivata allo showdown, sommando ai suoi voti quelli delle altre anime della maggioranza Zaia ma pure dei «tosiani» e del Movimento Cinque Stelle (non tutto: Patrizia Bartelle, ormai un caso, ha votato contro). Difficile che Rom, Sinti e Comuni (cui erano destinati i contributi per la realizzazione e la gestione dei campi attrezzati) si accorgano della novità: la legge, infatti, non era più finanziata dal 2005 e fra il 1992 e il 2004 aveva goduto della bellezza di 1 milione 267 mila euro. Ha avuto ragione l’assessore all’Istruzione Elena Donazzan quando, annunciando il suo voto favorevole all’abrogazione, ha avvertito: «Si tratta di una scelta prettamente ideologica, siamo chiamati solo a dire da che parte stiamo: di qua o di là». Una strategia messa in atto con una certa malizia dal capogruppo della Lega Nicola Finco (primo firmatario della proposta) che per tutto il dibattito ha ripetuto come un mantra col resto dei Salvini’s: «Noi siamo contro i nomadi che rubano, rapinano, vivono tra fuochi e copertoni, costringono i figli a non andare a scuola per chiedere l’elemosina agli angoli delle strade. Stupisce che voi (dove “voi” era il Pd, ndr .) siate a favore e li difendiate». Ora, è chiaro

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che nessuno, né in maggioranza né in minoranza, si è mai eretto a baluardo del banditismo. Semplicemente, come hanno tentato di spiegare i dem Francesca Zottis, Claudio Sinigaglia e Piero Ruzzante , «cancellando la legge non si cancellano i campi Rom dalla faccia della Terra, si cancella l’unico tentativo, sicuramente perfettibile, di inserire queste persone in percorsi di legalità, scolarizzazione, stanzialità». Di più: «Cancellando la legge si alimenta l'illegalità, si finge di non vedere il problema». Niente da fare, Finco è stato irremovibile («Ci vuole il pugno di ferro, la ruspa, tolleranza zero») e l’assessore allo Sviluppo Roberto Marcato è andato giù piatto: «Ma quale cultura dovremmo difendere? Non mi risulta che le pinacoteche e le biblioteche siano piene di opere dell’ingegno Rom e Sinti e comunque a loro non interessa nulla integrarsi». A rinforzare il fronte si è aggiunto anche il M5s, confortato dalle recenti parole della candidata sindaco di Roma Virginia Raggi: «No alle corsie preferenziali - ha detto Jacopo Berti - e no ai campi trasformati in sacche di illegalità». E però c’è un però ed è il fatto che Patrizia Bartelle, consigliere del Polesine «fuori dal gruppo» pentastellato praticamente dal giorno in cui ci è entrata, ancora una volta ha scelto di votare in controtendenza: «Mi sono sempre battuta per la dignità di tutti, contro ogni demagogia - ha spiegato - e ricordo che uno dei capisaldi del Movimento è sempre stato: nessuno deve rimanere indietro». Per la cronaca: Bartelle, già al centro di un contestato caso sulla quota dello stipendio da restituire come da vademecum di Grillo, aveva votato contro il suo gruppo anche nella scorsa seduta, in occasione dell’elezione del segretario generale del consiglio, e si è ripetuta ieri sera, sull’ennesima legge Berlato sui capanni di caccia. Berti & co non ne possono più ma non sanno bene come comportarsi, e si sono rasseganti a vivere da separati in casa. Si attende per le prossime ore intervento chiarificatore dalla Casaleggio & associati. Venezia. Per essere «un simbolo di pace», come l’ha definito il consigliere «tosiano» Stefano Casali quando è riuscito a farlo appendere alla parete, certo il crocifisso di Palazzo Ferro Fini fa litigare parecchio. È accaduto, di nuovo, ieri sera e a ben vedere non si capisce perché, visto che il crocifisso in questione, un ex voto del diciassettesimo secolo donato dalla Procuratoria di San Marco, fa bella mostra di sé ormai dal 22 dicembre scorso. Tant’è, è bastata una mozione che ribadisce le ragioni della decisione presa dall’Ufficio di presidenza per scatenare una lite tra i consiglieri ed in particolare tra l’alfiere del Movimento Cinque Stelle Patrizia Bartelle e quello dei «tosiani» Andrea Bassi, che accusa la prima di aver utilizzato parole «poco rispettose nei confronti di un simbolo che deve rimanere a Palazzo Ferro Fini non per il suo valore religioso ma per quello civile, visto che incarna la storia dell’Europa». La risoluzione, nonostante i tentativi dei Cinque Stelle e di parte del Pd di far saltare il numero legale, alla fine è passata. Al mattino era invece stata approvata in commissione Affari istituzionali la proposta di legge statale presentata dall’indipendentista Antonio Guadagnini per regionalizzare l’Irpef, proposta che ora passa al vaglio dell’aula (e un domani dovrebbe andare in parlamento): «Sul modello della Svizzera, proponiamo di trasformare l’Irpef da imposta erariale, incassata dallo Stato e ritrasferita alla Regione in capitoli vincolati, in un’imposta incassata e di competenza della Regione, che ne potrebbe disporre in piena autonomia - spiega Guadagnini -. In cambio, la Regione restituirebbe allo Stato le imposte che oggi di sua competenza. Un’operazione da 10 miliardi ma sostanzialmente a costo zero per Roma». Sempre in tema autonomia, il gruppo di Forza Italia ha organizzato una giornata di studio con i suoi amministratori sabato, dalle 9.30, a Villa Bonin a Vicenza. Pag 6 “Era in procinto di radersi”. Le duemila (folli) multe al popolo della povertà di Giovanni Viafora Padova, nell’archivio del prete degli ultimi Padova. Mattina d’estate: all’esterno dell’ospedale di Padova due giovani donne italiane, nomadi, cercano di intascare qualche spiccio vendendo piantine di fiori ai passanti. Ad un tratto spuntano due uomini. Sono in borghese. Uno di loro estrae il tesserino della polizia municipale: «Che fai qui?», dice rivolto alla più giovane delle mendicanti, una trentenne. «Vendo delle piantine per mantenere i miei figli», gli risponde lei. A quel punto l’agente le prende il polso sinistro e la trascina dall’altra parte della strada.

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«Venga con me, dove pensa di andare?». Quindi apre la porta dell’auto, una Fiat Punto, ed estrae il blocchetto di ordinanza: «Su via Ospedale all’intersezione con via Gabelli – vi scrive – la su indicata effettuava il commercio su area pubblica priva dell’autorizzazione amministrativa. Pagamento in misura ridotta entro 60 giorni: euro 5164,00». Quindi l’agente strappa il primo foglio, afferra un altro blocco e annota: «Descrizione della merce sequestrata: numero 1 cesto di vimini, numero 4 piante di fiori». Alla compagna della donna, una quarantaduenne, spetta la stessa sorte: sequestro di «numero tre piante di fiori e numero uno cesto di vimini». E anche per lei la stessa multa: 5164 euro. Facendo i conti: oltre diecimila euro di multa per sette piantine di fiori. Il mausoleo delle multe - La chiamano la guerra ai poveri. Guerra strenua, dispendiosa che ormai da circa due anni – da quanto cioè sono entrate in vigore le ordinanze contro l’accattonaggio (prima quella di Ivo Rossi, fatta a pochi mesi dalle elezioni, poi soprattutto quella di Massimo Bitonci, ancora più rigida perché diretta a colpire l’elemosina tout court ) – l’amministrazione comunale di Padova combatte contro i «trasgressori» della città. Una guerra mossa a colpi di verbali di accertamento e di sequestro, che oggi siamo in grado di documentare grazie ad una circostanza che ha dell’eccezionale: ovvero che la gran parte di quei verbali, e sono migliaia, come quello da cui è tratto l’episodio raccontato qui sopra (avvenuto il 25 agosto 2014), si trovi tutta accatastata in un unico luogo: la grande sala spoglia, adibita a dispensa di generi di prima necessità, al piano terra della sede dei «Beati i costruttori di Pace», alla Stanga. È qui, infatti, che, giorno dopo giorno, li ha depositati don Albino Bizzotto, sacerdote degli ultimi e fondatore dell’associazione, a cui i mendicanti, in questi anni, si sono rivolti dopo ogni contestazione presa sulla strada. In questa stanza, come abbiamo potuto riscontrare, leggendo e catalogando per un mese il materiale, si è andata formando una sorta di mausoleo che rappresenta uno spaccato dell’emarginazione cittadina, quella forse più «deteriore»; ma che fa emergere anche dubbi sull’efficacia delle politiche sanzionatorie dell’amministrazione. Le motivazioni - Le multe qui sono 1852: 144 risalgono all’epoca in cui era sindaco Ivo Rossi, 1708 invece a quella del leghista Bitonci, cominciata nel giugno 2014 (per dare una misura, a Venezia in tutto il 2015, le multe sono state 250). Considerando questi numeri parliamo di una media di 89 al mese, cioè 3 al giorno. Sono il segno dello sforzo profuso da questo Comune contro il problema dell’accattonaggio: un problema serio, controverso, di difficile soluzione, in grado di dividere lo stesso mondo cattolico. Cosa fare nei confronti di questa gente che spesso vive ai confini della legalità, senza regole? Vedere assieme tutte queste multe comunque fa impressione: centinaia di contravvenzioni, in tutto simili a quelle che troviamo sui parabrezza delle auto, dove però, al posto della sosta vietata, viene sanzionata l’«elemosina». Dentro a questi foglietti rosa, all’apparenza uguali, si nasconde un universo complesso e frastagliato. A partire dalle motivazioni adottate dagli agenti per punire i mendicanti. Molti vigili si affidano al burocratese, usando formule come «espletava l’attività di accattonaggio». Altri, invece, puntano sui dettagli. Che alle volte risultano del tutto pleonastici, come nel verbale del 4 ottobre 2014, nei confronti di G.G., classe 1968, che «chiede l’elemosina con insistenza ponendo la mano destra verso i passanti ». Altre volte, però, sono importanti: ci aiutano a vedere da vicino il degrado. Ma forse anche la cecità di certi provvedimenti. Così A.G., classe 1979, il 16 dicembre 2014 viene multata perché «chiedeva l’elemosina in area pubblica sotto al Salone. La stessa afferma di essere persona diversamente abile viene rinvenuta all’atto di verbale seduta su carrozzina con rotelle. La stessa sostiene di essere stata portata dalla mamma». L’arbitrarietà - Tuttavia, la disparità delle formulazioni, che già di per sé rileverebbe, non è nulla di fronte all’arbitrarietà che si riscontra nella quantificazione delle sanzioni. Per la stessa fattispecie e sotto le medesime motivazioni, infatti, si trovano indifferentemente multe da 50 euro o da 100 euro. Con casi che arrivano al paradossale, come quello che coinvolge S.T., romena, classe 1975, che nello stesso giorno, e a distanza di meno di un’ora l’una dall’altra, prende due multe da due agenti diversi: alle 15.50 100 euro, alle 16.20 50 euro. Quella delle sanzioni plurime nei confronti delle stesse persone, per altro, è una delle criticità più evidenti che emerge dalla lettura dei verbali. Ci sono accattoni letteralmente bersagliati: A.T., in quattro mesi, cioè da dicembre ad agosto 2014, raccoglie 50 multe; M.S., da dicembre ad agosto, 77; S.B., che dal 2 marzo 2014 al 18 dicembre 2014, addirittura 130. Ciò è dovuto al fatto che spesso gli agenti adottano una

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strategia che appare quasi studiata a tavolino: quella della multa tripla. Funziona così: gli agenti si avvicinano alla persona che si trova al semaforo a mendicare e gli danno 100 euro di multa per l’elemosina. Non basta: dopo avergli consegnato il verbale, gliene compilano un altro perché «da pedone sosta o indugia sulla carreggiata» (25 euro). E quando, a quel punto, il mendicante è costretto ad attraversare la strada per tornarsene sul marciapiede, ecco la terza sanzione, pure questa da 25 euro: perché «attraversa la carreggiata diagonalmente». Sono decine i casi simili. Nessuno paga - Il punto, tuttavia, è che nessuno paga. Se solo contassimo a spanne una media di 70 euro per multa e la moltiplicassimo per i 1852 verbali che si trovano da don Bizzotto, ci troveremmo con un conto di 129.640 euro. Ha senso? E come si giustifica questo impegno dell’amministrazione se poi in tasca non arriva un soldo e l’effetto deterrente praticamente non esiste? Ben altri dubbi tuttavia emergono entrando nel merito delle motivazioni. Ce ne sono alcune che, quanto meno, appaiono deboli dal punto di vista del diritto. Il 30 ottobre 2015, in piazza Rabin, S.T., romena classe 1979, prende 100 euro di multa perché – trascriviamo testualmente – «si proponeva in attività di ausilio non richiesta all’altezza della cassa del parcheggio Aps». Stando alla lettera, rischierebbero una sanzione anche gli scout che si offrono di far attraversare la strada ad una vecchietta. Il 31 marzo 2015, invece, M.A., classe 1980, viene multato con 100 euro perché «si sedeva a terra e in particolar modo sull’isola spartitraffico vicino al distributore di bevande». È un reato? Il 24 maggio 2015, 100 euro anche a A.M., 29enne, perché «in isola Memmia era in procinto di radersi utilizzando l’acqua della fontana adiacente». L’assurdo lo forniscono poi le contorsioni sintattiche e logiche compiute degli agenti. Per cui il 12 marzo 2015, M.L., classe 1975, viene multato perché «quale pedone non faceva uso del marciapiede benché fosse presente» . Chi: il pedone o il marciapiede? Oppure il 15 marzo 2015, A.I., 23 anni, viene sanzionato perché «chiedeva l’elemosina ai veicoli fermi ». Ai veicoli, non ai conducenti. E, infine, A.B., il 24 gennaio 2015, perché «esercitava abusivamente l’attività di parcheggiatore abusivo» (c’è da chiedersi se si possa esercitare lecitamente un’attività abusiva…). E verrebbero da citare anche altri casi significativi, dove si mescolano rigidità e intransigenze: i 300 euro a D.N., alle 15 del 29 ottobre, perché «deteneva e sorseggiava una bottiglia con gradazione alcolica 5% “Dreer”». O le multe, elevate a notte fonda, a chi «si sdraia per terra al fine di dormire». Serie questioni legali li pongono poi i sequestri dell’elemosina. Verbali che per altro necessitano di molto tempo per essere compilati, in cui vengono elencate una per una tutte le monetine portate via a questi poveracci. Il 3 novembre 2014 in corso Stati Uniti, due agenti fermano, M.E., classe ’80, gli fanno la multa e gli svuotano il borsello, contando: «Numero 2 monete da 20 centesimi, numero 1 monete da 10 centesimi, numero 5 monete da 5 centesimi, etc…». Totale: 58 centesimi. Altre volte, invece, i vigili requisiscono gli oggetti che servono agli accattoni per mendicare e li descrivono, con effetti che sfiorano il grottesco: «Numero uno spazzola lavavetri a manico lungo» (5 giugno 2015) o «Numero una spugna lavavetri di colore nero» (3 giugno). Il punto però è questo: è lecito sequestrare i soldi in tasca a questa gente? E come distinguere il denaro di proprietà di questi soggetti, da quello che gli stessi hanno raccolto grazie all’elemosina? Le testimonianze - Qui si apre una questione spinosa. Non di rado accade infatti che gli accattoni si presentino da don Bizzotto con le multe in mano, raccontando di essere stati vittime di soprusi da parte dei vigili: come S.B., che il 21 marzo 2014, afferma: «La donna vigile ha fatto svuotare per terra i soldi che stavano nella borsetta legata alla vita. Raccolte tutte le monetine senza fornire ricevuta. Senza pretendere precisione le monete potevano arrivare a 40 euro. Il giorno precedente prelevati 5 euro». Il sacerdote, in questi anni, ha trascritto e raccolto le loro dichiarazioni, allegandole ai verbali con l’intenzione di presentarle in tribunale. Ce ne sono anche di più pesanti, ma teniamo a sottolineare che si tratta di affermazioni di parte, rilasciate spesso senza il supporto di testimonianze: è in sostanza la parola degli accattoni contro quella dei vigili; per cui sarà la magistratura eventualmente a valutare chi abbia ragione o no. Ma altre volte le dichiarazioni dei mendicanti vengono inserite a verbale dai vigili. E allora fanno «legge». Sono le parole di analfabeti, disperati che si trascinano ai margini della società, spesso in balia del racket. Parole semplici, però. Come quelle di M.B., classe 1947, che dopo essere stato multato in via Altinate «mentre chiedeva la carità con mano protesa verso i passanti e le gambe sotto una coperta», chiede ai vigili di mettere a verbale questa

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semplice questione: «Perché non si può chiedere l’elemosina?». Una domanda che necessiterebbe una risposta seria e dentro cui, probabilmente, si racchiude tutto. IL GAZZETTINO Pag 14 Niente più soldi per i campi rom di Alda Vanzan Il consiglio regionale ha abrogato la legge del 1989 che tutelava anche il nomadismo. La protesta dei nomadi: “Ci vogliono cancellare” "La Regione del Veneto intende tutelare con forme apposite di intervento la cultura dei Rom e dei Sinti, ivi compreso il diritto al nomadismo e alla sosta all’interno del territorio regionale". Questo diceva la legge regionale numero 54 approvata nel 1989 e rimasta, negli ultimi dieci anni, letteralmente in un cassetto: in vigore, sì, ma non applicata perché non era più stata finanziata. Da ieri quella legge è sparita. Cancellata. Con 34 voti a favore e 12 contrari il consiglio regionale del Veneto l’ha abrogata. E per mezza giornata le due diverse fazioni, i favorevoli e i contrari, si sono più o meno ideologicamente scontrate. E qui va fatta una puntualizzazione, perché sui Rom si è coagulata una maggioranza anomala, con il Movimento 5 stelle che ufficialmente si è schierato con leghisti, zaiani, tosiani e centristi e assieme a loro ha votato sì anche Pietro Dalla Libera di Veneto civico, monogruppo che sulla carta dovrebbe sostenere Alessandra Moretti. «Ma io voto pensando ai cittadini non ai partiti - ha detto Dalla Libera - Sono stato sindaco di Oderzo e il campo dei Rom che era stato "sopportato" per quindici anni dai leghisti l’ho fatto chiudere io». In compenso i pentastellati si sono trasformati in «tetrastelle» (copyright dello zaiano Alberto Villanova), visto che per la seconda volta - la prima al consiglio precedente sul voto del segretario generale Roberto Valente - anche sui Rom la consigliera polesana Patrizia Bartelle in Grillo si è distinta votando in maniera difforme rispetto al proprio gruppo. E cioè contraria, assieme al Pd, alla cancellazione della legge che tutelava Rom e Sinti, con la motivazione che così si lasciano i sindaci soli. (Tra parentesi, anche sul successivo provvedimento sui capanni da caccia Bartelle ha votato contro mentre il resto del M5s si è astenuto, e Dalla Pietra ha votato a favore assieme a Berlato, Lega &C.). Quanto alla legge sui Rom e sui Sinti, il fronte del no è stato capeggiato dal leghista Nicola Finco: «La legge dell’89, demagogica e assistenzialistica e in gran parte disattesa dalle amministrazioni locali, si è dimostrata del tutto inadeguata a risolvere il problema del nomadismo. Vogliamo dare un segnale politico molto forte, Rom e Sinti devono sapere che se hanno bisogno di un aiuto da parte del pubblico si devono mettere in fila, esattamente come fanno i cittadini italiani e veneti, attraverso graduatorie presso i Comuni». «Abrogando la legge non cancellate Rom e Sinti che tra l’altro per quattro quinti vivono già in appartamenti stanziali», ha replicato il Pd, con Alessandra Moretti, Francesca Zottis, Claudio Sinigaglia, Orietta Salemi e Piero Ruzzante che hanno denunciato: «La maggioranza favorisce l’illegalità, lascia un vuoto normativo e abbandona tra mille problemi i Comuni». Il consiglio ha poi approvato a maggioranza la norma sugli appostamenti fissi di caccia voluti da Sergio Berlato (FdI), quindi una risoluzione sempre di Berlato per esporre il crocifisso nell’aula consiliare (dove peraltro è già esposto da prima di Natale). La prossima seduta il 22 marzo, sarà un consiglio straordinario chiesto dalle opposizioni (prima firmataria Cristina Guarda) per fare chiarezza sull’inquinamento delle falde da Pfas. «Hanno abolito la legge? Bene!». Come, scusi? «Bene, non vogliono riconoscere la cultura rom e sinti: vedono solo le persone che commettono un reato e applicano la logica dell’uno colpevole, tutti colpevoli». Davide Casadio è il presidente della federazione nazionale Rom e Sinti insieme. La sua analisi è chiara: siamo di fronte ad un attacco alla minoranze. «Il fatto è che non si vuole l’inclusione, e la Lega in particolare ha sempre attaccato l’integrazione - dice - Si vuole l’assimilazione. In sostanza si dice: tu devi vivere come me, intanto una cultura scompare. In sostanza tu non devi esistere». E Casadio è molto perplesso. «Hanno tolto la legge del 1989 che dava la possibilità di creare campi nomadi attrezzati - aggiunge - ma qual è l’alternativa? Chi si trova su terreni privati, d’ora in poi non dovrà più esistere?». La pietra di paragone è l’Emilia Romagna che per chiudere i campi più affollati emesso un bando dotato di un milione di euro per l’intervento di Comuni o Unioni. «L’iniziativa è partita da poco -

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spiega Casadio - ci vuole tempo, però là almeno si lavora insieme con le amministrazioni e gli enti locali». LA NUOVA Pag 1 Il Veneto senza magistrati di Mario Bertolissi Da quando? Da sempre! Di che cosa stiamo parlando? Della irrazionale distribuzione dei magistrati sul territorio nazionale! Riguarda anche il Veneto? Al pari di quanto accade per tanti altri fenomeni analoghi, il Veneto è un fanalino di coda. Comunque, una delle ultime Regioni ad essere presa in considerazione. Un ulteriore, recente esempio, per tutti: la spesa pubblica per abitante, che vede ai primi posti della scala le Province autonome di Trento e Bolzano, in cui svetta, come beneficiaria della solidarietà «politica, economica e sociale» (articolo 2 della Costituzione) Eva Klotz. Questa è l’Italia, bellezza! Ci si potrebbe fermare qui. Se non fosse che molti sono propensi a credere che le attuali sfortune della Repubblica sono da addebitare alle Province prima e alla Regioni poi, secondo il collaudato adagio per cui, di notte, tutte le vacche sono nere. Di notte, quando non si vede, non si valuta, non si distingue e non si sceglie. Appunto, si fa di ogni erba un fascio, da veri, grandi, inossidabili riformatori al contrario. Eppure, in un Paese, come l’Italia, tra i più centralisti al mondo - lo ha provato, con dovizia di argomenti, Zefiro Ciuffoletti - ordine e razionalità, quale sinonimo di equilibrio, dovrebbero farla da padrona. In ogni caso e, in particolare, quando il bastone del comando è nelle mani dello Stato. Non dovrebbe essere così? Non è vero, infatti, che il disordine è da addebitare alla scellerata riforma costituzionale del 2001? Al novellato Titolo V della Parte II, che impedisce allo Stato di governare? Perché, se lo Stato potesse decidere davvero, allora sì, potremmo vivere - come narra una favola qualunque a lieto fine - tutti felici e contenti. Se si favoleggia, perché la realtà è ben diversa. Radicalmente diversa, se non addirittura antitetica, fatti alla mano. I quali dimostrano che pure quando il potere spetta a Roma, perché la competenza di cui si discute è attribuita allo Stato in via esclusiva, si può concludere che niente c’è di nuovo sotto il sole. L’articolo 117, 2° comma, della Costituzione afferma che «lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: … lett. l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa». Mentre, per quanto concerne lo stato giuridico, l’attribuzione delle funzioni e la destinazione nei vari uffici del magistrato, a ciò provvede l’organo di autogoverno, vale a dire il Consiglio superiore della magistratura. Quel che ha denunciato nei giorni scorsi l’attuale presidente della Corte d’Appello di Venezia, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario 2016, non fa altro che segnalare all’opinione pubblica e alle istituzioni dati di fatto che sono tali da decenni. Una comparazione, del tutto casuale ma significativa, ci dice che in Molise c’è un magistrato ogni 5.136 abitanti, nel Veneto ogni 13.105. Un governante, degno di questo nome, dovrebbe chiedersi se questa differenza ha una sua precisa causa di giustificazione. Oltretutto, perché il Veneto è terra di imprese, è proiettato nel cuore dell’Europa, può essere oppure no sede di investimenti stranieri. Ma se la giustizia versa in queste condizioni, come si può pensare di attrarre investimenti; favorire la produzione, l’occupazione, lo sviluppo che comporta crescita vera e non soltanto alchimie statistiche che si contraddicono l’una con l’altra? La conclusione - di un bipede che pensa, che non ha le orecchie lunghe, che non è emotivo, che non si esalta continuamente, che non si deprime quando è costretto a frequentare quadrupedi - è disarmante: limpida nella sua crudezza. Difficile mettere ordine nella Repubblica se si naviga a vista. Se si continua a credere che si debba sostituire, a un modello organizzativo che non funziona, uno nuovo che si incentra su premesse destinate a perpetuare il passato. Questo si insinua nel corpo del sedicente nuovo e ne replica le inconcludenze. Purtroppo, è così, malinconicamente così. Perché ciò che deve essere riformato ha un nome ben preciso: sono i costumi. I modi di pensare, di agire, di scegliere, prima di dare e poi di ricevere. Per ora, gli italiani non si sentono azionisti della Repubblica. Sono ad essa estranei e la Repubblica li ripaga con la disorganizzazione e l’inefficienza. Quanto a Roma, un tempo caput mundi, è il luogo in cui «tutte le idee muoiono». Parola di Raffaele La Capria! Pag 14 Abolita la legge che tutelava i rom. Poi è bagarre sul crocifisso in aula di Filippo Tosatto

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La maggioranza a guida leghista cancella i fondi destinati ai campi nomadi Venezia. Figli del vento nella millenaria cultura gitana. Figli di nessuno nel Veneto leghista. Con un colpo di spugna, l'assemblea di Palazzo Ferro-Fini ha abrogato la legge n. 54 del 22 dicembre 1989 - «Interventi a tutela della cultura dei Rom e dei Sinti ivi compreso il diritto al nomadismo e alla sosta nel territorio regionale» - e con essa i contributi destinati ai comuni disponibili ad attrezzare i campi dotandoli di servizi igienici, prese idriche e allacciamenti elettrici. Le risorse in ballo erano poco più che simboliche (1,26 milioni stanziati fino 2005, poi il fondo non è stato più rifinanziato) ma il manifesto ideologico è aggressivo: «I campi nomadi sono diventati un luogo di illegalità e degrado, è immorale che gli zingari godano di una corsia preferenziale rispetto agli altri cittadini, a cominciare dai veneti che vivono nel bisogno», scandisce lo speaker della Lega Nicola Finco «noi crediamo nell’eguaglianza di diritti e doveri nella tolleranza zero verso chi delinque. Avanti con le ruspe». Rincara la dose l’assessore Roberto “bulldog” Marcato: «Di che cultura rom stiamo parlando?», azzanna «di quella che rifiuta ogni integrazione nella società civile, fa vivere i bambini in mezzo ai topi e poi li manda ad accattonare perché il padre vuole una Mercedes sotto il sedere?». Sul fronte opposto il Pd, compatto nel definire «strumentale e irresponsabile» l’iniziativa della maggioranza: «La legge va riformata, non cancellata, incentivando l’istruzione dei minori e il lavoro degli adulti» (Francesca Zottis); «Siamo alla mera propaganda, sapete bene che i campi nomadi non spariranno, sono previsti dalla legislazione italiana e da norme europee, ma a voi non importa risolvere i problemi, vi limitate ad esorcizzarli, scaricandoli su municipi, assistenti sociali e Ulss» (Claudio Sinigaglia); «A eliminare i nomadi dalla faccia della terra ci hanno provato invano i pogrom, Hitler e Stalin; non sarete voi a riuscirci, anzi ne favorirete la parte peggiore, quella che rifiuta i percorsi di legalità» (Piero Ruzzante); «Vi battete per l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici e poi a calpestate i valori evangelici di carità, accoglienza e pietà. Che ipocrisia» (Alessandra Moretti). Sì all’abrogazione dal M5S: «Da anni questa legge è lettera morta», afferma Jacopo Berti «ed è evidente che i campi rom ospitano pericolose sacche di illegalità, invece il rispetto delle regole deve valere per tutti, nomadi e stanziali»; ma il gruppo pentastellato non è unanime: «Da poliziotta, ho arrestato ladri italiani e stranieri ma credo nel valore del reinserimento e chiedo che questa legge non sia cancellata ma rinviata in commissione e aggiornata», le parole di Patrizia Bartelle, in aperto dissenso - una volta ancora - dal suo capogruppo. Favorevoli all’abrogazione, invece, tosiani, forzisti e Fratelli d’Italia. Alla fine, la fatidica legge diventa carta straccia con 34 sì e 12 no. A proposito di crocifisso: a conclusione della seduta è stata posta in votazione una mozione di maggioranza (sostenuta da tosiani e centristi, in primis Stefano Casali) che impegna il Consiglio «ad esporlo stabilmente in aula sensibilizzare le altre istituzioni pubbliche al rispetto e alla difesa dei simboli che rappresentano le nostre radici cristiane»; in effetti, nell’emiciclo veneziano campeggia da tempo un esemplare di Cristo sulla croce risalente al Quattrocento e concesso in prestito dalla Procuratoria di San Marco. La circostanza induce i dem e i 5 Stelle a definire superflua la votazione, alternando rispetto verso i credenti e tributo alla laicità delle istituzioni. Ad accendere la miccia, ancora lei, è Patrizia Bartelle: «Io sono cattolica e praticante», esordisce «ma stiamo parlando di due pezzi di legno incrociati, niente di più». Parole che suscitano la reazione furiosa dei consiglieri cattolici: «Lei sta bestemmiando, non ha il diritto di offendere chi crede», tuona Luciano Sandonà; «Si vergogni», fanno eco Sergio Berlato e Alessandro Montagnoli; volano parole grosse, la pentastellata ribadisce il concetto, l’opposizione esce dall’aula - ad eccezione del dem Andrea Zanoni, che voterà sì - mentre il leghista Marino Finozzi si astiene. Mozione approvata, nervi sempre più tesi. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I cittadini e il diritto di contare di Sabino Cassese Paese reale e legale

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I votanti diminuiscono, i partiti si svuotano, i sindacati divengono afoni. Ha ragione Ferruccio de Bortoli (Corriere della Sera, 5 marzo 2016) nel rilevare che si apre un fossato tra cittadini e istituzioni. Il divario tra «Paese reale» e «Paese legale» - come si diceva nell’Ottocento - è un problema che si riaffaccia periodicamente, ma in termini nuovi, in tutte le democrazie. Una volta era questione di ampiezza del suffragio. Conquistato il suffragio universale, è divenuto problema di canali di comunicazione tra società e Stato, prima tenuti aperti da partiti e sindacati (di lavoratori e di datori di lavoro). Questi hanno sempre meno iscritti, sono meno vitali, meno diffusi sul territorio. Non assicurano, quindi, quella trasmissione di domande sociali alle istituzioni che costituisce il loro compito principale. Contemporaneamente, nelle istituzioni, c’è dovunque la necessità di un accentramento dei poteri, imposto dalla globalizzazione: basti pensare ai diversi vertici europei e mondiali, ai quali non possono certo partecipare gli interi governi e che richiedono la presenza dei soli capi degli esecutivi. Questo malessere, se non crisi, della democrazia, emerge in un momento nel quale, paradossalmente, l’offerta di istituzioni democratiche aumenta, gli stessi partiti si aprono, il «capitale sociale» cresce. Basti pensare alla diffusione mondiale di organismi intermedi, tra Comune e Stato, chiamati Regioni, territori, comunità, per dare un’altra voce ai cittadini. Basti pensare alla introduzione di elezioni primarie, sull’esempio americano, per aumentare il tasso di democraticità degli stessi partiti (che, da strumento della democrazia, divengono essi stessi obiettivi della democrazia) e all’aumento del «capitale sociale», costituito da quelle reti di cooperazione che arricchiscono il tessuto comunitario e danno occasione ai cittadini di «svolgere la propria personalità», come dice la Costituzione. L’apparente contraddizione si spiega in un solo modo: accanto all’aumento di offerta di democrazia, all’apertura dei partiti e alla crescita sociale, si registra anche un aumento della domanda di democrazia. Dopo un ciclo secolare o semisecolare - a seconda degli Stati - di vita del suffragio universale, i cittadini si sentono padroni e questo fa emergere la debolezza originaria della democrazia moderna: essa è in realtà una oligarchia corretta da periodiche elezioni delle persone alle quali è affidato il potere (democrazia delegata o indiretta). Di qui la ricerca di rimedi, surrogati o alternative. I referendum, che si prestano però ad appelli al popolo di tipo gollista. La democrazia detta deliberativa, cioè la consultazione dei cittadini sulle politiche pubbliche, che però non può esercitarsi su tutte le decisioni e non può condurre a una integrale socializzazione del potere (un sogno inseguito da varie correnti del socialismo nell’Ottocento e all’inizio del Novecento). Il ricorso alla rete, con tutte le arbitrarietà alle quali si presta. In Italia il malessere dei cittadini è più accentuato perché non funzionano male solo i rami alti, ma anche quelli bassi delle istituzioni, scuole, ospedali, università, trasporti, strade, giustizia. Ne sono un segno i periodici sondaggi sulla fiducia dei cittadini, che mettono in alto forze dell’ordine, chiesa, autorità indipendenti e molto in basso amministrazioni pubbliche, servizi a rete, corti. Giustamente Maria Elena Boschi (Corriere della Sera del 6 marzo 2016) punta su «un Paese più semplice e più giusto», perché il malfunzionamento dei rami bassi produce diseguaglianze tra chi non può fare a meno di servizi pubblici e chi ha i mezzi per evitare di ricorrere a essi. Pag 10 Un pasticcio che rivela l’affanno dei democratici di Massimo Franco Si può dare la colpa a qualche dirigente maldestro o truffaldino, secondo lo schema delle «mele marce» in un albero sano. O magari additare l’insostenibilità del doppio incarico premier-segretario di Matteo Renzi. O ancora accusare il metodo delle primarie come inadeguato e tutto da rivedere, fino al «cupio dissolvi» di una minoranza incapace di essere alternativa. Sono tutte spiegazioni plausibili, di fronte alla figuraccia del Pd nella scelta dei candidati a sindaco. Si insinua un sospetto fastidioso, però, che va oltre i singoli episodi. Li declassa a sintomi di una crisi di leadership e di modello di governo. Dopo due anni da capo del partito e premier, comincia a farsi strada l’idea che Renzi non sia riuscito a selezionare una classe dirigente diversa dal passato; non abbia unito il Pd; e abbia perso almeno in parte l’andatura che lo metteva in sintonia con l’opinione pubblica. Rimane il piglio, che si è perfino accentuato, provocando qualche ironia dei giornali tedeschi. Ma il flop di partecipazione, i presunti brogli, le schede bianche sospette non sono figlie solo di Mafia Capitale o della «napoletanità». Nascono anche

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della sensazione diffusa che il Pd stia cambiando meno di quanto dichiara. Replicare il «soccorso» di Denis Verdini alle primarie, come in Senato, non cancella l’immagine di una forza intrappolata nelle contraddizioni e nella retorica. C’entrano poco gli avversari interni, che si sono confermati incapaci di andare oltre la fronda o la testimonianza. Quando l’ex segretario Pierluigi Bersani e altri criticano le «risposte burocratiche» e chiedono di non minimizzare le irregolarità a Napoli, dicono il minimo. Sanno di non avere la forza per imporre una linea diversa, né per decidere una scissione che li renderebbe ancora più residuali. Ma questo non può consolare i vertici del Pd. I problemi non vengono dai conflitti nel suo ceto politico; e dunque non basterà risolvere quelli per trovare l’armonia. L’astensionismo dipende molto più dalla sproporzione tra la narrativa di Palazzo Chigi e la realtà: e dalle previsioni dell’Istat che con lo 0,4 per cento avvicinano la crescita dell’Italia allo zero anche per il 2016. Se il «renzismo» non vivesse una fase, forse temporanea, di crisi e di affanno, il dopo-primarie sarebbe diverso. Le polemiche, anche strumentali, sulle persone pagate per votare in alcuni seggi di Napoli, o sulle schede bianche a Roma, non morderebbero, annegate in un mare di partecipazione. E invece molti sono rimasti a casa. «Il partito è sano», assicura il vicesegretario Lorenzo Guerini. E invita il Pd a non suicidarsi con candidati di sinistra contro quelli renziani. Ma in generale, tra i Dem si colgono imbarazzo e sottovalutazione. Eppure, leggere le cose con occhi freddi sarebbe l’antidoto al dubbio insidioso che appaia malato l’albero del Pd, non solo alcune «mele». Pag 30 Le fantaprimarie del centrodestra di Antonio Macaluso Sarà che non le hanno mai fatte e quindi di primarie non sono molto pratici. Ma qualcuno dovrebbe spiegare ai leader del centrodestra che le primarie si fanno prima di scegliere i candidati, non dopo. E che si fanno proprio per scegliere un candidato tra più partecipanti. Perché altrimenti non si chiamano primarie ma si tratta di un plebiscito di romana, antica memoria o di un referendum. Delle elezioni amministrative prossime venture tutto si potrà dire nei futuri libri di storia, tranne che siano state noiose. Ogni giorno c’è qualche sorpresa in ciascuno degli schieramenti, ma il centrodestra si sta distinguendo per fantasia e improvvisazione. Roma è l’emblema in presa diretta di qualcosa a metà tra un documentario sul lento disfacimento di un blocco politico-sociale e una commedia all’italiana. Una sequenza che a tratti, nella sua drammaticità, riesce a strappare dei sorrisi increduli al pur disincantato elettore romano. Che è sempre stato, in buona parte e spesso in netta maggioranza, un elettore di centrodestra. Si capisce quindi perché tanta gente, dal Tuscolano ai Parioli, dalla Magliana al centro storico, si senta smarrita proprio nel momento in cui, vista la situazione in cui versa la città, dovrebbe poter contare su qualcuno e qualcosa. A tre mesi dal voto, il centrodestra non ha ancora trovato un suo candidato unitario. Che unitario, comunque, difficilmente potrà essere visto che Francesco Storace è già sceso in campo da settimane e va declinando per la città il suo programma che prevede - tra l’altro - la chiusura di tutti i ristoranti indiani se anche il secondo marò non sarà rimandato in Italia. Alla sua destra, CasaPound ha candidato il suo vicepresidente Simone Di Stefano. Il programma è scontato e piace soprattutto ai ragazzi di destra, che a Roma non sono pochi. Dunque, consensi in uscita dal corpaccione malato del centrodestra acchiappavoti del passato recente. Un centrodestra per il quale una volta Silvio Berlusconi, che ne era testa, cuore e gambe (ma anche portafoglio), non voleva sentir neanche parlare di primarie. Se le facessero, sulla rive gauche, Prodi e D’Alema, Veltroni e Bersani… Lui che bisogno ne aveva? Elezioni politiche? Il capo era lui e le candidature dovevano comunque passare dal suo tavolo. Europee? Stessa cosa. Amministrative? I candidati li sceglieva lui, lasciando qualche strapuntino agli alleati. Altro che primarie! Poi, la musica è cambiata: piccoli leader - Matteo Salvini e Giorgia Meloni - sono cresciuti anche perché Berlusconi ha visto pian piano sfaldarsi il suo potere e ha preso atto di avere sì tanti amici, sostenitori e devoti, ma anche parecchi soldati di ventura, pronti a cambiar casacca. Con quel che gli resta dell’antico carisma, ha fatto ingoiare la candidatura di Guido Bertolaso a Salvini e alla Meloni. Ingoiare ma non digerire. Talché la rissa è ripresa più feroce di prima: Salvini si è fatto le sue primarie, vinte dall’indipendente Alfio Marchini; la Meloni ha messo in campo - per bandiera - il suo capogruppo alla Camera Fabio Rampelli, lasciando aperta una porticina per se stessa in caso di chiamata dell’ultimo istante;

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Bertolaso, che pure di emergenze ne ha vissute e risolte molte, gira, lavora e rassicura, ma ha il sorriso scarico. Ecco allora che Berlusconi vuole una seconda investitura del suo candidato, questa volta a furor di voto, con delle primarie convocate per il prossimo weekend. Peccato che non sia previsto uno straccio di alternativa, che Bertolaso sia tutto solo. Roba che i 47 mila (schede bianche permettendo) che domenica scorsa hanno scelto - tra sei - il candidato del Pd assumono il peso di una valanga (anche se, come ha ben scritto Antonio Polito ieri, si pone la questione di una normativa in materia). Francamente, gli elettori del centrodestra non meritano una beffa del genere, hanno diritto al rispetto che sempre va garantito a chi vota. E questo, senza neanche voler prendere in considerazione come vere le accuse di aver scelto un candidato perdente in nome di un surrettiziamente rinato patto del Nazareno. Se è perfino comprensibile che Berlusconi ritenga ancora di poter far cadere dall’alto le sue decisioni, è più grave che i suoi due alleati non siano in grado di imporre una svolta vera. Assecondare le scelte di un capo in difficoltà non costituisce il miglior viatico per il futuro. Il che pone la ben più generale questione sullo spessore politico (e culturale) dei candidati a ereditare un patrimonio che, elezione dopo elezione, si assottiglia e si disperde. LA STAMPA Renzi sfugge al caso primarie di Federico Geremicca C’è qualcosa di paradossale nella circostanza che l’istituto delle primarie stia vivendo la sua crisi più seria proprio nel momento di massimo potere del leader che può, a buon titolo, esserne definito il «campione»: e cioè Matteo Renzi. E c’è qualcosa di seriamente incomprensibile, invece, nel fatto che quel «campione» non batta ciglio di fronte alle cronache degli ultimi giorni. E accetti, con indifferenza o con rassegnazione, questa sorta di crepuscolo della partecipazione, fatto di voti comprati e affluenze gonfiate. Telefonate di complimenti ai vincitori, e sul resto una scrollata di spalle: come se la cosa non fosse importante o non lo riguardasse. Fatte le giuste differenze, è come se il vecchio partito radicale di Marco Pannella ed Emma Bonino avesse supinamente accettato - ai tempi d’oro - lo smantellamento dell’istituto referendario; o se Silvio Berlusconi - quando era il Cavaliere - avesse rinunciato alle televisioni come fidate e potenti compagne di battaglia. Vedremo se e come il segretario-presidente deciderà di spendere una parola: per ora, in verità, la sua rassegnata prudenza - ai limiti dell’assenza - ricorda l’atteggiamento del famoso tizio che sega il ramo sul quale è seduto. Infatti, a parte tutto il resto, proprio le primarie da lui vinte l’8 dicembre del 2013 rappresentano ancor oggi - in fondo - la sua assicurazione sulla vita: impedendo che colpi di mano, cambi di maggioranza e giochi di palazzo possano rovesciare una segreteria a lui assegnata da milioni di cittadini. Non fosse che per questo, dopo i fatti di Napoli e di Roma da Matteo Renzi si attendono parole di severità e di chiarezza: anche se è evidente che non è solo questo - e cioè l’interesse politico-personale del premier - ad esser in gioco in queste ore. La scelta frettolosa e burocratica di respingere e archiviare il ricorso di Antonio Bassolino perché presentato fuori tempo massimo (24 ore) non è un buon viatico per un partito che punta a riconquistare la terza città d’Italia. E certi balbettii intorno al numero effettivo dei votanti alle primarie di Roma, consolidano un quadro con poche luci e molte ombre. Per il partito democratico ed il suo segretario, insomma, sembra davvero venuto il momento di una scelta. E il bivio che hanno di fronte non è difficile da individuare: da una parte c’è la regolamentazione per legge dell’istituto delle primarie, dall’altra l’agonia (voluta?) di uno strumento di partecipazione che, così continuando, non potrà che finire rottamato e stipato in qualche cantina. Da un po’ di anni a questa parte, del resto, i costi politici di certe primarie sono, per il Pd, nettamente superiori ai benefici. Non è nemmeno necessario tornare alla Napoli delle primarie 2011, con le file di cinesi, l’ombra della camorra, la consultazione annullata e la città consegnata a De Magistris. Basta ripensare alla sfida ligure e all’addio di Cofferati, o ad alcune contestatissime primarie siciliane. Ma anche a Milano - dove pure tutto è andato per il meglio - certi annunci di queste ore (la non candidatura di Francesca Balzani, sfidante di Sala) lasciano intravedere eredità velenosissime. A tutto questo va aggiunto, naturalmente, il pesante handicap politico che grava sul candidato uscito vincente da primarie opache: un regalo agli avversari (i Cinque Stelle hanno già cominciato) che potranno fare una campagna elettorale sull’onda di slogan del tipo «ha truccato e comprato le primarie, figuratevi

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cosa farebbe da sindaco della città...». Ce ne sarebbe a sufficienza per non continuare a sottovalutare un problema ormai ineludibile, e il Pd ha infatti convocato una riunione di Direzione per discutere il da fare: vedremo. Infine un’ultima questione, che sarebbe troppo facile archiviare sotto il titolo «retorica politica»: quanto favoriscono, simili vicende, il moltiplicarsi della disaffezione dei cittadini? Non è né ingenuo né retorico porre un simile interrogativo: soprattutto ad un partito che risponde alle inevitabili accuse di Beppe Grillo con il solito «voi fate un clic, noi portiamo la gente a votare». E’ vero, loro fanno un clic. Ma si faccia attenzione: perchè a furia di primarie così, gli iscritti e i militanti finiranno per restarsene a casa. E a quel punto, purtroppo, a chi vorrà partecipare non resterà che un asettico e incontrollabile clic. IL GIORNALE Chi ha cancellato la parola «gay» dall'omicidio di Luca di Renato Farina I fatti. C' è un ragazzo di 22 anni, Luca Varani, assoldato per 100 euro come giocattolo erotico, e poi c'è il suo assassinio perpetrato da due torturatori, violentatori, deturpatori di cadavere, Manuel Foffo e Marc Prato. Il tutto a Roma, durante l'ultimo fine settimana. Il delitto italiano più orrendo di questo secolo ha dunque avuto per sfondo la droga e il sesso portati al diapason e oltre. Gli assassini hanno agito in uno stato di esaltazione tale da protrarsi oltre la morte (non la loro, però), come se la violenza non bastasse mai, e dovessero inseguire la vittima per farla soffrire anche nell' aldilà, come nelle leggende azteche. Qua e là sui giornali, con timidezza, è apparsa la parola «gay». Nei titoli, mai. Nessuno ha scritto «balletti verdi», come usava una volta. Oppure, più modernamente: eros e morte tra gay. I quotidiani e la cultura dominante per una volta non hanno fatto sociologia. Non sono andati a indagare sulla psiche coltivata nei circoli omosessuali, non ci sono stati criminologi che hanno dissertato sulle ossessioni che fioriscono dentro le fantasie sodomitiche condite di cocaina, né ci sono stati intellettuali che sui grandi quotidiani abbiano fatto a pezzi l'immagine amorevole della coppia gay o dell'odio che cova sotto la solidarietà di genere Lgbt. Salvo casi sporadici subito sottoposti ad accuse di sciacallaggio, non c' è stata alcuna campagna di demonizzazione delle unioni omosex sulla base di questo delitto eretto a paradigma. Giusto. Non capita beninteso solo tra gli omosessuali, di ammazzarsi. Va bene così. Finalmente. Il male non ha per origine l'anonimato di una classe sociale, e non è nemmeno deducibile dall'appartenenza a questo o quel genere o preferenza sessuale. Non è colpa della società, o di suoi settori, insomma. Un uomo, una donna, un/una trans sono capaci di bene e di male, perché appartenenti alla razza umana. Ciò non di meno è stato un privilegio raro quello di cui ha goduto la comunità gay. La quale comunità peraltro ha taciuto, non potendo in questo caso denunciare alcun delitto omofobico. Mi domando però ugualmente, senza generalizzare, se ci sia qualche rapporto tra questa spaventosa carica di sadismo e la cultura dominante nel nostro tempo, che ha la sua punta di diamante nelle avanguardie gay. Secondo questa visione non esiste limite sociale all'espressione dell'istinto, essendo esso un problema di scelta e di diritto individuale, quando non ci sia coercizione. Nessuno deve mettere becco nel consumo di droga e di sesso liberamente accettati per denari o gratis da chi vuole. Vietato vietare. Siamo sicuri che la libertà di dare spazio all'istinto individuale senza limiti, specie se alimentata da molto denaro e dalla presunzione di esercitare un diritto, sia così innocente? Io credo che anche le scelte apparentemente private e dunque legali alla fine possano travolgere i più deboli che hanno la sfiga di attraversare la strada della personalità così audacemente trasgressiva. È una legge della natura umana, non etero né omo, ma semplicemente umana. Noi non siamo monadi isolate, siamo persone in una comunità, le nostre scelte risuonano e vibrano in chi ci è accanto. Quando si perde la misura del bene e del male e la società assiste neutrale, allora si guarda sgomenti a questi fatti e si esprimono solo «ahi» e «ahimè», ma giudizi niente, nessuno osa più. Ben altrimenti accadde quando Erika, sedici anni, con la complicità del fidanzatino Omar, uccise la mamma e il fratellino a Novi Ligure. O ancora prima, allorché Pietro Maso assassinò turpemente i genitori. Sul rogo fu piazzata dalla stessa cultura che ora rispettosamente tace, la famiglia come generatrice di mostri. L' Unità ironizzò sul «quadretto» (testuale) e come questi delitti fossero esplosi non a caso in «famiglie di buona educazione, cattolicissime», sempre e comunque nel classico ambiente «tradizionale e tradizionalista». Il titolo «Quando in

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famiglia si nasconde il killer» (Oreste Pivetta, 26 marzo 2007). Normale in Italia. Per fortuna una volta tanto nessuno ha scritto un articolo intitolato: «Quando tra i gay si nascondono i killer». Ancora. I preti identificati con i pedofili. Esempio. Maurizio Crozza su La7 dedica questa battuta al figlio avuto con la maternità surrogata da Vendola: «Tobia, avrai i preti contro. Meglio così». Chiara l'allusione. La sociologia della demolizione in Italia è stata riservata alla famiglia e agli oratori e alle parrocchie, visti come luoghi di perversione. Qui non si tratta di fare una gara a chi è più cattivo, ma di smetterla di impiccare categorie sociali al proprio pregiudizio. O se proprio si devono appendere, appendiamoli tutti. Anche i gay. Ma auspicherei di no. AVVENIRE Pag 1 Per un’etica della cura di Giuseppe Anzani Cannabis, oltre quel ribadito “no” Coltivare la cannabis è un reato punito con la reclusione e con la multa, e reato rimane giustamente anche di fronte alle norme della Costituzione, anche quando di tratta di una coltivazione domestica, a uso proprio, fatta per il consumo personale della droga che ne estrae. La Corte Costituzionale, provocata a un ennesimo vaglio della questione da una vicenda penale modesta (otto piantine di cannabis coltivate nel garage di casa, 25 grammi di marjuana nel comodino) ha ribadito il suo 'no' all’ipotesi di trattare la coltivazione casalinga alla stessa stregua di chi compra la droga e la detiene per uso personale, con sanzioni solo amministrative. A oggi non altro conosciamo, circa le ragioni che hanno indotto la Corte a ritenere «non fondata» la questione di legittimità costituzionale, se non il breve comunicato che le mette «nel solco delle precedenti pronunce». Ma il solco, per chi rammenta le precedenti pronunce, è chiarissimo. Esso si incide, da decenni, dentro un campo di norme internazionali condivise, ratificate, citate nelle vecchie sentenze. E rimaste ferme, sullo sfondo della nostra variabile legislazione interna, a partire dalla Convenzione di New York del 30 marzo 1961, fino alla Convenzione Onu adottata a Vienna il 20 dicembre 1988. Perché la droga è flagello mondiale. E in forza degli impegni che l’Italia ha firmato in faccia agli altri Paesi del mondo, la legislazione antidroga ha dei vincoli non superabili ad libitum. Fondamentale fu la sentenza n. 360 del 1995 della Consulta, dopo l’avvenuta depenalizzazione dell’acquisto e detenzione di droga per uso personale: essa affrontò l’identico odierno quesito, cioè se fosse ragionevole e giusto far differenza fra possesso di droga comprata e coltivazione fatta da sé, sempre per uso personale. E disse che, sì, le cose erano davvero diverse, e che la cintura di sanzioni disposte attorno al nucleo centrale della condotta da contrastare potevano differenziarsi, in ragione del diverso pericolo sociale; coltivare significa accrescere la massa, la fonte, la diffusione della droga. Il fatto che qualche giudice di merito sia tornato a investire la Consulta del medesimo quesito, ottenendo peraltro la medesima risposta, può farci riflettere sulle possibili disarmonie che si annidano nell’albero giuridico della legislazione singhiozzante sulla droga, sui suoi sussulti referendari, sulle impennate di lassità e rigidità, sui sistemi metrici effimeri (modica quantità, dose giornaliera, uso personale) che hanno vorticato; e persino su qualche sbadataggine di confezione pagata cara come accadde per il decreto legge 272 piombato a fine anno 2005 sulle Olimpiadi di Torino. E mentre centelliniamo le sfumature della dottrina giuridica, raffinata fino alla estenuazione, ci chiediamo che cosa ne è stato in tutti questi anni della nostra speranza di sconfiggere il flagello; dico la speranza di casa nostra, dei nostri figli, della mentalità che assimilano e dello stile di vita che adottano, se il problema della droga è rimasto per noi come decidere il catalogo e il dosaggio dei castighi col bilancino e non invece l’impegno corale a levare di mezzo risolutivamente questi veleni dalla civiltà umana. Sapere, dal responso della Consulta, che lo Stato può continuare a colpire con la legge penale i coltivatori domestici della cannabis fatta in casa ci pare ora un modesto guizzo di serietà. Ma è necessario qualcosa di più di questo colpo di tosse, se si vuol liberare il polmone, svuotarlo dai depositi collosi di una predicazione, non ancora stanca, di impunito consumo o di libera droga leggera. Prevenire è meglio che curare, mettere in salvo è più vantaggioso che dover ricostruire. Quanto il consumo di droga inneschi la commissione di svariati delitti, sono le cronache a mettercelo sotto gli occhi. In Svezia, messo al bando totale il

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consumo, la tolleranza zero per ogni droga è diventata una sorta di 'etica della cura'. E sta funzionando, con carceri meno affollate, con meno vite guastate. Pag 2 Grembi sotto contratto, compravendita di vita di Roberto Cogliandro Un notaio legge gli accordi per ottenere un figlio Caro direttore, non abbiamo avuto nemmeno il tempo di ragionare se la legge Cirinnà potesse minare le fondamenta giuridicosociali legate al concetto di famiglia che dalla politica arriva una fortissima provocazione, che suona come un atto di imposizione teso ad affermare una forma di egoismo orientata a mutare l’ordine naturale delle cose, accostando il concetto di procreazione a una logica di compravendita. Ragioniamo sugli aspetti giuridici connessi al tema della maternità surrogata dopo il clamore suscitato dal caso Vendola e la decisione di realizzare il proprio disegno genitoriale servendosi dell’utero di una donna. La vicenda apre scenari giuridici interessanti in quanto, a Costituzione invariata, sono molteplici le violazioni di leggi poste in essere da coloro i quali, per la sola legge Californiana, sono genitori effettivi del nascituro. Di dubbia legittimità, dal punto di vista sia giuridico che morale, è innanzitutto il contratto di maternità surrogata stipulato dai soggetti interessati. Il contratto di maternità surrogata può essere tacciato di nullità virtuale, giacché viola l’ordine pubblico e le norme imperative che si oppongono alla legittimità di una tale operazione (il riferimento è al divieto di effettuare atti di disposizione del proprio corpo che siano contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume, articolo 5 Codice civile). In particolare, la maternità surrogata viola anche la norma imperativa di cui all’articolo 269 Codice civile secondo cui il rapporto di parentela si instaura solo con colei che abbia effettivamente partorito il figlio, a prescindere da chi abbia 'fornito' il materiale genetico. La Corte di Cassazione mantiene un atteggiamento di chiusura al riconoscimento della pratica della maternità surrogata, riassunto nell’ormai famosa sentenza dell’11 novembre 2014 n. 24.001, in cui è stata negata ogni possibilità di vedere riconosciuta in Italia la pratica dell’utero in affitto sulla base del richiamo al «limite generale dell’ordine pubblico», non modificato dalla disciplina estera sulla filiazione, in quanto relativo non solo a valori condivisi della comunità internazionale ma anche a principi e valori esclusivamente propri purché fondamentali e perciò irrinunciabili. E tale non può non ritenersi il divieto della surrogazione della maternità, tanto più che esso è rafforzato anche da una sanzione penale, posta proprio a presidio del principio per cui «madre è colei che partorisce» (articolo 269 cc). La stessa Corte ha rilevato come il superiore interesse del minore può realizzarsi affidando il nato a chi l’ha partorito oppure ricorrendo all’adozione, perché soltanto a tale istituto «l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato». Se la posizione della Suprema Corte si staglia nel panorama normativo vigente, rispettandone la ratio legis e la più profonda genuinità, destano certamente maggiore perplessità le più recenti pronunce di merito che hanno pian piano aperto la strada al riconoscimento di tale pratica, assolvendo gli imputati dalla fattispecie criminosa di alterazione di stato sulla base di un’interpretazione della norma conforme alle disposizioni e alla giurisprudenza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che in due recenti sentenze ha ravvisato la violazione dell’articolo 8 della Convenzione. A fronte di tale complessità nel panorama giurisprudenziale, se è vero che le aperture 'convenzionali' hanno molto spesso dato la stura a importanti novità sul piano giurisprudenziale, tracciando un solco sul quale il legislatore non ha esitato a muoversi, è altrettanto vero che il riconoscimento di una pratica in aperto contrasto con il dato normativo e costituzionale vigente, oltre che destare notevoli dibattiti sul piano etico-sociale, non può e non deve – in uno stato che si affermi consapevolmente di diritto come il nostro – passare solo attraverso il recepimento della giurisprudenza comunitaria da parte della più 'ardita' giurisprudenza di merito. Pag 3 Un poeta ad Aushwitz (Adorno ha torto) di Ferdinando Camon Guccini con il vescovo Zuppi e una classe Venerdì avverrà un fatto che Theodor W. Adorno riteneva impossibile: un poeta (o cantante, che è lo stesso), che ha scritto una poesia (o una canzone, che è lo stesso) su

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Auschwitz, andrà a visitare Auschwitz. Si tratta di Francesco Guccini. Parte oggi in treno, da Milano, dal binario 21, quello da cui partivano i treni degli ebrei. Ci va insieme con un vescovo, Matteo Maria Zuppi che è padre nella Chiesa di Bologna, e con una classe di seconda media. Dunque, la poesia, la fede e l’innocenza entrano in Auschwitz. La domanda non è: 'Possono capirsi?', ma è: 'Possono accettarsi?'. Parlando di un incontro tra poesia e Auschwitz, Adorno lo definiva impossibile, tanto da scrivere: «Dopo Auschwitz, scrivere una poesia sarà un gesto di barbarie». A me la citazione fu fornita la prima volta da Franco Fortini, ebreo, con un’interpretazione che la rendeva accettabile, e cioè: dopo Auschwitz, tutto quello che facciamo noi umani, anzitutto scrivere poesie, non potrà più essere come prima, ma dovrà tener conto che c’è stato Auschwitz. Auschwitz cambia tutto. Cambia la storia, l’uomo, la parola. Andare ad Auschwitz significa andare nel centro da cui è partito il cambiamento, il punto dov’è morta la vecchia storia e da cui parte una nuova storia. Nessun uomo doveva uscire dal secolo scorso senza essere stato ad Auschwitz, e nessun italiano senza aver letto 'I sommersi e i salvati'. Io, cattolico, sono andato a parlare con Primo Levi, ebreo, per una breve conversazione, che ora esiste in francese, spagnolo, tedesco, inglese…, perché provavo verso Levi un senso di vergogna: andando da lui, andavo a Canossa. Critici italiani e stranieri m’han chiesto perché. Ho risposto: «Perché sono uomo». Quel che è avvenuto ad Auschwitz, l’han fatto gli uomini, e ogni uomo deve vergognarsene, per il semplice fatto di appartenere all’umanità. Auschwitz fu liberato dall’Armata Rossa. Quel giorno Primo Levi era ad Auschwitz 1, in cortile, stava seppellendo un amico, e vide arrivare sulla strada (che lì è più alta del campo) quattro soldati russi a cavallo, col mitra a tracolla: fermi, alti, guardavano il campo, pieno di cadaveri e di malati, senza dire una parola, bloccati da un senso di vergogna: loro non c’entravano niente con quell’abominio, ma non pensavano che l’umanità fosse capace di tanto, scoprivano che ne era stata capace, e se ne vergognavano. Oggi Guccini, e il vescovo di Bologna, e una seconda media, vanno nel luogo della vergogna umana. Il problema è Guccini, che ci va da cantautore. La maledizione di Adorno è contro di lui. Ha ragione Adorno? Ha torto Guccini? Guccini è un barbaro? Partendo, Guccini dice: «Non so cosa proverò». Non c’è mai stato prima d’ora. Ha scritto una canzone, che vive ancora, ma l’ha scritta sull’emozione di ciò che aveva letto. Ho qui quella canzone-poesia, ed è sulla base di queste parole che si può dire se il cantautore è un barbaro o un uomo. Come lo stesso Adorno si rendeva conto più tardi, 17 anni dopo, la poesia è parola, e la parola per l’uomo è insopprimibile, affermare che l’uomo, che vede l’orrore, non può parlare, è come affermare che l’uomo che patisce l’orrore non può urlare. In realtà, l’uomo che lo patisce non può fare altro, e il poeta che lo vede non può parlare d’altro. Se parla d’altro, è un barbaro, se parla di quello, è un uomo. Deve parlare di quello anche quando parla d’altro. La poesia-canzone di Guccini non è un urlo, è un pianto. Comincia così: «Son morto con altri cento / son morto ch’ero bambino / passato per il camino / e adesso sono nel vento / e adesso sono nel vento». La parola 'bambino' è tenue, la tragedia non ha bisogno di un bambino per essere una tragedia immane, e adesso Guccini lo capirà, vedendo. La canzone è poco tragica all’inizio, forse troppo poco, molto disperata alla fine, forse troppo. Ma quell’«essere nel vento», leitmotiv di tutta la canzone, è perfetto. Auschwitz-Birkenau è in pianura, il vento la spazza sempre. Lì son morti non a centinaia, ma a centinaia di migliaia. Nel vento li senti passarti accanto, così tanti che sono dappertutto. Se li senti una volta, li sentirai sempre. Loro vogliono che tu li senta, e lo dica a tutti. E quel che loro vogliono è giusto. Adorno ha torto. Pag 3 Cina – Africa, legame in crisi. E l’India può approfittarne di Luca Miele Rivoluzione nelle strategie commerciali. Pechino importa meno, il continente nero si emancipa Per decenni, mattone dopo mattone, affare dopo affare, hanno costruito un legame di ferro. Tanto che, in molti, hanno visto nell’abbraccio tra Cina e Africa il rischio di uno stritolamento del continente e delle sue potenzialità di crescita. È un fatto che i due sistemi economici siano oggi sempre più compenetrati. Gli scambi commerciali hanno superato il miliardo di dollari nel 1990, dieci anni più tardi la quota era salita a 10 miliardi, nel 2011 a 150 miliardi. La crescita è stata vertiginosa: 198 miliardi nel 2012, 210 miliardi dollari nel 2013, ben 21 volte superiore a quello del 2000. L’obiettivo per il

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2020, in accordo con la passione tutta cinese per la programmazione, è ambizioso: raggiungere la soglia dei 400 miliardi di dollari di scambi con l’Africa. In questo processo, il 2009 è considerato come una tappa simbolica, una sorta di spartiacque: è l’anno in cui Pechino ha strappato agli Stati Uniti lo scettro di primo partner commerciale del continente. Eppure oggi l’asse tra Cina e Africa mostra vistosi segni di cedimento. E la luna di miele potrebbe finire. Complice il rallentamento – ma c’è ci parla di vero e proprio “tonfo”– dell’economia del Dragone. Un dato in particolare fotografa le difficoltà che il gigante asiatico sta attraversando: a febbraio le esportazioni cinesi hanno fatto registrare un crollo del 20,6% rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Il calo segue la performance, anche essa poco brillante, di gennaio: meno 6,6%. La stessa leadership del Paese ha dovuto prendere atto della situazione. Aprendo la scorsa settimana i lavori annuali del Congresso nazionale del Popolo chiamato ad approvare il piano quinquennale 201620 – il primo sotto la presidenza di Xi Jinping –, il premier Li Keqiang ha parlato apertamente di un Paese costretto «a fronteggiare maggiori e più difficili problemi e sfide nel suo sviluppo quest’anno», invitando «a essere pienamente preparati per combattere una battaglia difficile». Pechino ha quindi ufficializzato il taglio alle stime di crescita del Pil, previsto per quest’anno, portandole al 6,5-7%, contro il più 6,9% dello scorso anno che ha rappresentato il ritmo più lento degli ultimi 25 anni, mentre il deficit vola dal 2,3% al 3%, ai livelli più alti mai registrati. L’attivismo del Dragone in Africa è catturato dai numeri: sono 2.500 le imprese cinesi che hanno investito in Africa, l’investimento totale targato 'made in China' ha raggiunto quota 25 miliardi di dollari, negli ultimi dieci anni sono più di un milione i cinesi che hanno fatto le valigie per andare a lavorare in Africa. In totale sono 1.673 progetti cinesi in Africa, disseminati in 51 Paesi. L’attenzione del Dragone per il continente non è casuale, ma il frutto di una scelta strategica: saziare la fame di energia, procacciarsi la 'benzina' che ha consentito al motore del Dragone di inanellare una crescita spettacolare per almeno 30 anni. Pechino oggi è seconda solo agli Stati Uniti per il consumo di petrolio. Ma ancora per poco. Secondo il World Energy Outlook 2014, il Dragone supererà gli Stati Uniti nel 2030. Per la US Energy Information Administration (Eia), il Paese importerà oltre il 66 per cento di oro nero entro il 2020, il 72 per cento entro il 2040. Da dove arriva il petrolio che 'accende' l’industria cinese? Poco più della metà arriva dal Medio Oriente, (che detiene quasi il 62% delle riserve mondiali): 2,9 milioni di barili al giorno, pari al 52% del volume di petrolio importato dal gigante asiatico nel 2013. Al secondo posto, nella lista dei fornitori, si colloca proprio l’Africa: 1,3 milioni di barili al giorno, pari al 23% del totale. I maggiori fornitori sono l’Angola, la Guinea Equatoriale, la Nigeria, la Repubblica del Congo e il Sudan. Da parte sua la Cina esporta macchinari e mezzi di trasporto, apparecchiature di comunicazione, elettronica ai Paesi africani. Eppure qualcosa nel rapporto tra Africa e Cina sta cambiando. A rompere i vecchi equilibri, il profondo mutamento che ha investito l’economia cinese. Pechino, sotto l’urto della crisi mondiale, è stata costretta a 'correggere' il proprio modello di sviluppo, puntando sempre più sui consumi interni. Risultato: si è registrata una caduta delle esportazioni di materie prime dall’Africa. Di conseguenza la crescita del Continente nel 2015 ha subito una contrazione rispetto agli anni precedenti. Si è verificato anche un declino sul versante degli investimenti. I l numero di progetti registrati presso il Ministero cinese del Commercio è sceso da 311 nel 2014 a 260 nel 2015. Nel maggio 2015 il ministero ha stimato un calo del 45,9% dei flussi nel corso del primo trimestre del 2015. Ma non basta. Le valute dei Paesi africani che esportano verso la Cina, come Sudafrica (oro e vino), Angola (olio), e Zambia (rame) hanno subito pesanti 'perdite' dopo la mossa di Pechino per svalutare lo yuan. In molti Stati africani crescono così i dubbi sull’impatto che l’afflusso di merci cinesi e dell’esportazione delle risorse africane ha sull’economia del Continente. Il presidente sudafricano Jacob Zuma ha recentemente ammesso che «il modello che si è imposto nelle relazioni tra Africa e Cina è insostenibile nel lungo periodo». Le industrie africane sono spesso colpite dalle esportazioni cinesi. Il motivo? Le merci esportate in Africa hanno un prezzo troppo basso che finisce per 'affondare' i produttori locali. Questo a sua volta provoca la perdita di posti di lavoro. Ma non basta. A intaccare la supremazia cinese c’è un altro attore emergente che, come il Dragone, sta guardando con sempre maggiore interesse alle dinamiche dell’economia africana. Si tratta dell’altro gigante asiatico: l’India. Il commercio tra New Delhi e il Continente ha toccato quota 100 miliardi di dollari nel 2015, contro i 70 miliardi di dollari nel 2013. Un balzo enorme se si tiene

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presente che un decennio fa l’ammontare era appena di 5 miliardi di dollari. A favorire l’India rispetto alla Cina è l’approccio diverso. Mentre ad esempio Pechino ha sempre penalizzato la manodopera locale, l’India la privilegia. Un gruppo come Mahindra, che recentemente ha assorbito Pininfarina, si propone di assumere il 90% dei dipendenti sul mercato locale, con l’obiettivo di raggiungere quota 95%. Inoltre l’India gioca la carta della solidarietà. Un dato su tutti: nel solo Sud Sudan il Paese ha dispiegato 2.200 uomini nell’ambito della missione di pace delle Nazioni Unite (Unmiss), lo stesso numero di soldati che la Cina distribuisce in tutto il Continente. Pechino, insomma, è avvertita. LA NUOVA Pag 1 Scatolone di sabbia nel caos di Renzo Guolo In Parlamento il ministro degli Esteri Gentiloni ribadisce la linea prudente sulla Libia. Confermando che, contrariamente a quanto vorrebbero i nostri alleati, Usa e Francia in testa, il governo italiano non si farà trascinare in «avventure inutili e perfino pericolose per la nostra sicurezza nazionale». Parole chiare, quelle del titolare della Farnesina: sino a quando non ci sarà un governo di unità nazionale e una formale richiesta di intervento, non ci sarà nemmeno una missione internazionale a guida italiana. E, se e quando essa avverrà, sarà autorizzata dal Parlamento. Posizione ineccepibile: non solo dal punto di vista della procedura costituzionale. Il nodo, infatti, non è solo la lotta all’Is ma il futuro della Libia. Se vi fosse un intervento militare senza la presenza di un governo libico che abbia qualche vaga possibilità di imporre la sua autorità, il contingente guidato da Roma potrebbe trovarsi sia sotto il fuoco dell’Is sia delle molte milizie che rifiutano la presenza di forze straniere nel paese. Le difficoltà politiche nel chiudere l’accordo sull’esecutivo sponsorizzato dall’Onu, l’arresto di tre dei suoi futuri membri al loro rientro a Tripoli, così come le intricate e penose vicende legate alla liberazione dei tecnici sequestrati e alla restituzione delle salme dei due connazionali uccisi a Sabratha, la stessa accelerazione dell’offensiva a Bengasi del generale Haftar, pomo della discordia tra i due governi esistenti, la dicono lunga sullo stato delle cose nell’ex Quarta Sponda. Un caos nel quale ciascuna milizia, gruppo di potere, banda o fazione, lucra rendite di posizione, e non solo, che impediscono una soluzione politica che consenta quella stabilizzazione destinata a mettere a a rischio quelle stesse rendite. Da qui la fretta di Washington, Londra e Parigi, che senza attendere il varo del nuovo governo, hanno deciso di impiegare le loro forze speciali a sostegno delle milizie, in particolare quelle di Misurata, decise a combattere l’Is nel frattempo sottoposto all’annunciata ondata di bombardamenti a stelle e striscie. Una strategia che vede come solo problema il radicalismo jihadista mentre la priorità delle milizie, si tratti di quelle alleate di Tripoli o di Tobruk, non è combattere l’Is, quanto indebolire i rivali interni. Anche per rispondere alle pressioni dei loro partner esterni: Turchia e Qatar da una parte, Egitto e Emirati Arabi dall’altra. La lotta all’Is in un quadro di tutti contro tutti, rischia poi di spezzare la residua unità del paese poiché è chiaro che, in assenza di un governo centrale, ciascuna coalizione cercherebbe di opporsi all’altra ostacolandone il controllo del territorio. Prospettiva che potrebbe alimentare la divisione della Libia in tre aree, Fezzan compreso: non sgradita a qualcuno dei nostri alleati, con i quali, sin dai tempi della caduta di Gheddafi, è in corso una partita, anche in campo energetico, per ridefinire le rispettive aree di influenza. Il quadro, dunque, si fa sempre più complesso. Non è casuale che lo stesso Gentiloni, evocando il maggio del 1915, abbia detto che il governo non è sensibile «al rullar di tamburi e a radiose giornate interventiste». E che, in effetti, anche i più accesi fautori a oltranza dell’intervento, si siano placati o defilati nelle ultime settimane. Forse quelli che reclamavano uno sbarco con migliaia di effettivi si sono ricordati, più che del “maggio radioso”, del mese che lo precede evocato da Eliot: «Aprile è il più crudele dei mesi, genera lillà da terra morta, confondendo memoria e desiderio, risvegliando le radici sopite con la pioggia della primavera». Senza che vi sia un progetto politico per il dopo, la Libia potrebbe diventare, più ancora di quanto lo sia adesso, la nuova Terra desolata. E questo dopo, a parte la necessità di sconfiggere l’Is in riva al Mediterraneo, ancora non si intravvede. Von Clausewitz sosteneva che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi: se non c’è una politica, la guerra rischia di diventare solo quell’atto isolato che proprio il teorico militare prussiano, saggiamente, disdegnava.

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Pag 6 Frontiere e rendite di posizione di Gigi Riva «La rotta balcanica dei migranti è chiusa». È davvero difficile immaginare una frase più cinica dell’enfasi retorica, degna di un “bollettino della vittoria”, con cui la civile Europa, per bocca del suo presidente del Consiglio Donald Tusk (polacco), ha annunciato di aver sconfitto la terribile armata di popoli in fuga da guerre, carestie e miseria. Non una «iniziativa unilaterale», attenzione, ma una «decisione comune» di 28 Paesi coalizzati contro bambini, donne, anziani, uomini, partiti sulla via di Vienna, si sarebbe detto in altri tempi, forti delle loro di valigie di cartone e in qualche caso neanche di quelle. E lo hanno fatto, i 28 leader, in nome nostro. Dovremmo dunque essere orgogliosi di aver fermato sull’uscio di casa, alle barriere progressivamente erette in Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia, decine di migliaia di profughi, di averli chiusi nel limbo di terre di nessuno, che poi è il limbo delle nostre coscienze. Impossibilitati ad avanzare o a regredire, cristallizzati nella loro esistenza raminga senza orizzonte. Atterrisce la siderale distanza tra pensosi vertici in giacca e cravatta in cui si discute di quote, ripartizioni, denari (quanto vale un migrante?) e l’effetto immediato di conclusioni asettiche sulla carne viva di persone che hanno sentimenti, speranze, ferite aperte, disagio. È scomparso l’umano, da troppo tempo ormai, nel calcolo cinico (val la pena di ripetere l’aggettivo) con cui si mercanteggia la pelle altrui, dimentichi del soccorso dovuto al forestiero, della parabola del buon samaritano inutilmente letta nelle messe cantate delle chiese di un’Europa che si pretende cristiana. E che, anche nella sua dimensione laica, ha perso di vista qualcosa di simile, i diritti di cui si è fatta portatrice e di cui va (andava?) giustamente fiera. Sotto schiaffo per il perenne problema del consenso, minacciate dalle sirene populiste degli impresari della paura, le leadership sono incapaci di esercitare quello che in fondo sarebbe loro richiesto: l’esercizio del governo anche a costo dell’impopolarità quando una cosa si ritenga “giusta” e non solo utile. Viene in mente Blaise Pascal: «Non potendo fare che quello che è giusto fosse forte, abbiamo fatto che quello che è forte fosse giusto». Forte è, oggi, il terrore di giocarsi un’elezione amministrativa, come la Merkel nei tre laender dove si voterà domenica prossima. Forte è oggi il ricatto dei Paesi dell’Est dove recenti democrazie nascondono le loro fragilità dietro la faccia truce contro i più deboli. Forte la rendita di posizione del Sultano Erdogan che bussa a quattrini in cambio di una fetta del lavoro sporco. Forte l’incubo delle consolidate democrazie occidentali davanti all’antipolitica xenofoba e razzista. E nessuno che abbia la voglia, il coraggio, di voltare il cannocchiale e chiedersi cosa farebbe se fosse quel padre, quella madre obbligati almeno a immaginarlo un futuro per se stessi e i loro figli al riparo dalle bombe o dalla miseria. Si vorrebbe, come d’incanto, che con un colpo di bacchetta magica, in seguito a un protocollo firmato a Bruxelles, i profughi semplicemente scomparissero. Relitti umani gettati in discarica in questo inverno tardivo. Cancellati come un colpo di spugna su una lavagna. E invece, piaccia o meno, quelli sono cuori che pulsano, gambe che corrono, cervelli che pensano. E pensano a come sopravvivere, a come superare quelle maledette barriere, come aggirare gli ostacoli. Perché è la natura stessa che detta le regole molto più dei protocolli ufficiali. Succederà come nei vasi comunicanti e ci saranno altre rotte disegnate dalla disperazione, altri mercanti di essere umani a raccogliere il testimone di un business che non avrà fine perché non ha mai fine la speranza. E allora saremo costretti, presto o tardi, a constatare come sono vuote le parole di Tusk, quella nostra pretesa di alzare ponti levatoi, in un Medioevo contemporaneo dove, non andrebbe mai dimenticato, è chi si chiude nella fortezza ad essere assediato. È il muro nelle nostre teste che ci condannerà. Molto più dei muri di filo spinato e di cemento armato. Torna al sommario