rassegna biourbanistica 00/2011
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Rivista aperiodica della Società Internazionale di Biourbanistica. Redazione: Alessia Cerqua (Direttore), Stefano Serafini, Antonio Caperna. Per informazioni, suggerimenti e richiesta arretrati: [email protected]. Rivista licenziata sotto Creative Commons attribuzione non commerciale.
www.biourbanistica.com | www.biourbanism.org
numero zero • febbraio duemilaundici
Rassegna di
Biourbanistica Rivista della Società Internazionale di Biourbanistica
“SKYSCRAPERS”
Scritti di: Nikos Salingaros | Pietro Pagliardini | Gabriele
Tagliaventi | Paolo Masciocchi | Fabio Cremascoli | Stefano
Serafini.
Rassegna di Biourbanistica. N. 00/2011
1
INDICE
Ma è vero che i grattacieli li costruiscono per risparmiare la campagna? di Pietro Pagliardini ……………………………………………………………………………………………………
Pag. 2
I grattacieli simbolo dell'arbitrio. di Gabriele Tagliaventi…………………………………………………………………………………………………
Pag. 4
La nuova città per essere davvero moderna deve ridiventare medievale di Paolo Masciocchi, Pietro Pagliardini e Nikos A. Salìngaros………………………………………..
Pag. 6
Tracce progettuali per un nuovo rinascimento urbano di Fabio Cremascoli……………………………………………………………………………………………………...
Pag. 8
Ritorno alla città di Stefano Serafini…………………………………………………………………………………………………..……
Pag. 11
SEGNALAZIONI
Appuntamenti…………………………………………………………………………………………………..……...
Pag. 14
Rassegna di Biourbanistica è una rivista aperiodica della Società Internazionale di Biourbanistica.
Redazione: Alessia Cerqua (direttore), Stefano Serafini, Antonio Caperna. Fonti: Arianna Editrice, Movimento per la Decrescita Felice, Gruppo Salingaros. Foto di Copertina: Alessia Cerqua Per informazioni, suggerimenti, invio contributi e richiesta arretrati: [email protected]. Rivista disponibile on line su: www.biourbanistica.com Rivista licenziata sotto Creative Commons attribuzione non commerciale.
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Rassegna di Biourbanistica. N. 00/2011
2
Ma è vero che i grattacieli li costruiscono per risparmiare la campagna?
di Pietro Pagliardini - 08/02/2011
«Basta rubare terreno all’agricoltura, costruiamo in altezza!», dice sempre più
spesso chi desidera costruire grattacieli, un modello architettonico d’inizio Novecento spacciato per ultramoderno. Affermazione
insidiosa, che riferendosi alla fonte della stessa sopravvivenza umana, la produzione di cibo, si appella alle corde più sensibili
dell’ambientalismo profondo.
Sarebbe facile contestarla dal punto di vista storico, visto che la fame nel mondo, pur
rappresentando ancora un dramma planetario enorme, è fortemente diminuita
ed è ormai chiaro che le cause non sono imputabili, se non per aspetti marginali, all’occupazione urbana del suolo, ma a
cause di ordine politico ed economico generali. Esistono però ragioni più semplici per smascherare la vacuità di tale
affermazione.
Sia dunque dato un grattacielo di 20 piani, alto 70 metri e con base 25x25 metri,
inserito al centro di un lotto quadrato di 70 metri. La misura del lotto deriva dalla considerazione che due grattacieli non
possono affiancarsi come a New York per ovvi motivi di soleggiamento, sicurezza,
possibilità di parcheggi. Lo stesso Le Corbusier, nell’incubo urbano della sua Ville radieuse, distanzia i grattacieli per gli
stessi motivi. Sia dato ora lo stesso lotto di ugual misura, e si costruisca lungo il suo
perimetro un fabbricato profondo 13 metri e alto 14, cioè di 4 piani. Bastano due
moltiplicazioni per constatare che si raggiunge praticamente lo stesso volume del grattacielo (con uno scarto del solo
5%). Si badi bene che tale differenza percentuale, riportata a scala urbana, vale
solo nel caso in cui si decida di costruire una città interamente di grattacieli, ma laddove vi sia un’ovvia compresenza di
altre tipologie, è chiaro che tale percentuale diminuisce fortemente. Il risultato è che, per un pugno di metri
cubi di edificio e di metri quadrati di terreno risparmiati, che non contribuiscono in niente all’agricoltura, si
dovrebbe snaturare una città (è ad es. recente il caso di Pavia), cancellarne la storia, distruggerne la visione complessiva.
No, il problema non sta nel “consumo di suolo”, bensì in altre considerazioni, tutte
interne all’urbanistica, all’architettura, alla visione della città, alla vita di relazione tra gli uomini, alla loro stessa salute mentale,
alla sicurezza dei cittadini dal crimine.
Christopher Alexander, il grande architetto e teorico americano, nella sua opera A
pattern language (1977), fissa in quattro piani il limite in altezza degli edifici, in base a osservazioni e studi sulla (scarsa) salute
mentale degli abitanti dei grattacieli; afferma che gli edifici alti distruggono il paesaggio urbano, lo spazio aperto
circostante e la vita sociale, promuovono il crimine, rendono la vita difficile ai bambini,
hanno costi di manutenzione altissimi. Nikos Salìngaros, il matematico e teorico dell’urbanistica, in No alle archistar, 2009,
scrive: «Il grattacielo deve essere alimentato con quantità enormi di energia.
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È costoso e impoverisce la città. Tanto maggiore è la costruzione, tanto crescerà
l’esigenza di un suo sostegno sistematico che consuma in modo parassitario la zona circostante. Il mantenimento del grattacielo
in un ambiente urbano è analogo al mantenimento di una colonia nello spazio. I
problemi sono il rifornimento e il trasporto».
A terra, intorno al grattacielo, il vuoto non
è solo fisico ma soprattutto di relazioni umane e sociali. Non esiste rapporto con la strada, non esiste la strada, in verità, se non
per le automobili. Lo spazio vuoto agevola la criminalità perché, in assenza di attività vitali urbane a terra, non ci può essere
gente, e non v’è polizia che possa tenere sotto controllo continuo immensi spazi deserti. L’alternativa al lotto con il
grattacielo, cioè l’isolato con gli edifici costruiti a bordo strada, affiancato ad altri
lotti con analoghe caratteristiche, ricrea le condizioni della città storica, permette di avere a piano terra negozi e attività varie
che riempiono i marciapiedi di gente per una gran parte della giornata, col risultato di avere una città viva e il controllo della
sicurezza affidato alla presenza stessa dei cittadini.
Spesso costruttori e politici vogliono i grattacieli, come ha recentemente
dichiarato un assessore, per avere «qualcosa di completamente innovativo. La gente che li abiterà deve essere contenta di
tornare a casa». Ma come potrà essere contenta di tornare a casa se dovrà
attraversare la sera spazi vuoti e intrinsecamente pericolosi? Oppure se dovrà parcheggiare con l’auto al secondo
piano interrato di un garage che è il luogo più desolante e pericoloso che possa esserci?
Niente negozi, niente bar, niente giornalaio e dunque le aree potranno anche essere centrali, geograficamente, ma la sostanza
resterà quella delle periferie e dei suburbi: dormitori senza vita urbana. Cari assessori, non c’è niente di innovativo nella
ripetizione lussuosa del disastro delle periferie perpetrato nel secolo scorso e
ancora in atto.
Le aree dismesse dentro la città sono certamente una grande risorsa per non
sprecare territorio, facciamone un uso attento per ricostruire la città.
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I grattacieli simbolo dell'arbitrio
di Gabriele Tagliaventi
Il Comune di Milano ha deciso di prevedere una crescita della città di 500.000 abitanti
da qui al 2030. Si cerca di tornare ai livelli del 1971 quando la metropoli lombarda
aveva 1.700.000 abitanti. Oggi sono poco più di 1.300.000. La notizia è senz’altro incoraggiante se accompagnata dalla
dichiarazione d’intenti sulla volontà di non costruire su territorio agricolo, di non mangiare ancora terreno a quello che resta
della campagna, ma di recuperare vecchie aree industriali dismesse, vecchi scali ferroviari.
La città, quindi, cerca di crescere esaltando il modello della città compatta. Meno convincente, ovviamente, è la solita,
vecchia scelta di adottare il grattacielo come strumento della crescita. Si
prevedono 50 grattacieli nell’area di via Stephenson. Già, 50 nuovi grattacieli. Perché 50 e non 70, 100, 150?
Totale arbitrio.
E perché i proprietari di un’area dovrebbero beneficiare della possibilità di
costruire un grattacielo e quelli di un’altra no? Siamo, ahinoi, alle solite. L’architettura svela, come sempre, l’immagine di una
società, e la società italiana si svela completamente dominata dall’arbitrio. Senza solide basi democratiche. Senza
regole condivise.
Sembra, infatti, che l’idea di base della
politica sia quella di conquistare il potere e,
poi, premiare gli “amici”. E non è questione di vecchi schemi come “Destra” e “Sinistra”.
Il metodo è lo stesso ovunque. Perchè a Milano i proprietari di un’area dovrebbero poter costruire grattacieli e quelli di
un’altra no? Sarebbe come immaginare che a Bologna, per esempio, Unipol o una Coop
potessero costruire un grattacielo e gli altri proprietari no. Assurdo, completamente arbitrario.
I grattacieli non sono un tipo proprio del DNA della città italiana. Vengono introdotti negli Stati Uniti ben due secoli fa. A Chicago
e New York nella seconda metà dell’Ottocento. Ci sono in moltissime città americane. Ma non in tutte. E’ un problema
di Democrazia. Di regole. Di uguaglianza di Diritti. Di civiltà, infine. O tutti possono costruire grattacieli, e arricchirsi con essi, o
nessuno.
Così funziona. Ogni città fa la sua scelta. Ma,
una volta fatta la scelta, le regole sono uguali per tutti. Il signor Rossi, ma anche il signor Neri. E, pure, il signor Bianchi. E,
pensate, anche il signor Gialli, Verdi, Blu, Grigi, etc. Tutti. O nessuno. Tutti a Dallas. Nessuno a Washington D.C. Nessuno nella
città capitale degli Stati Uniti. Nè il signor Apple, nè il signor Microsoft, nè il signor McDonalds, nè il signor Google, neppure il
signor Amazon, neanche il signor Walmart. Non importa il livello di ricchezza personale. Tutti devono rispettare il livello
di altezza fissato dal regolamento urbanistico. Nessuno può superarlo. Tutti i
cittadini della capitale degli Stati Uniti possono costruire, sul loro terreno di proprietà, edifici che non possono mai
superare l’altezza della prima trabeazione
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del Campidoglio. Nessuno, cioè, può costruire più in altro della sede della
Democrazia. Il Parlamento.
Un’immagine chiara, un profilo della città chiaro, un sistema di regole chiare e
comprensibili. E lo stesso succede nella città capitale dello stato del Maryland,
Annapolis, lo stesso nella città capitale dello Stato che ha visto, ieri notte, trionfare i Green Bay Packers al 45° Superbowl,
Madison, Wisconsin. O tutti o nessuno.
Come succedeva in tutte le città europee. A Parigi esisteva un regolamento edilizio che
fissava a 21 metri il limite di altezza. A Berlino a 22 metri. Solo gli edifici pubblici: il Parlamento, la Chiesa, il Campanile, il
Beffroi, etc. potevano superare in altezza il limite imposto a tutti. La Tour Eiffel è una Torre. Un monumento. Non un grattacielo!
Ha solo 3 piani… Così funzionava anche la città capitale del Regno Sabaudo: la bella
Torino modello di urbanistica. Tutte le famiglie della nobiltà dovevano costruire palazzi che rispettavano il limite di altezza
fissato dal Regolamento Urbanistico. Così funzionava anche nella Venezia capitale di un impero commerciale: tutte le famiglie
della nobiltà dovevano rispettare gli stessi limiti di altezza. Solo il Campanile di San Marco poteva, e doveva, svettare sulla
silhouette della città. E’ tempo che gli amministratori della cosa pubblica si ricordino dei principi che regolano la vita
della società democratica.
L’arbitrio del grattacielo è il retaggio di
un’epoca di capitalismo selvaggio. Una società liberale e democratica si dota di regole chiare. A partire dall’architettura. E’
tempo che i cittadini si riapproprino del loro fondamentale diritto di poter costruire
secondo regole condivise e comprensibili.
Tutti devono pagare le tasse. Tutti devono rispettare gli stessi limiti di altezza.
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La nuova città per essere davvero moderna deve ridiventare medievale
di Paolo Masciocchi, Pietro Pagliardini e Nikos A. Salìngaros
Il dibattito di questa stagione politica, teso tra città da ricostruire e incentivi a
rideterminare periferie e aree urbane sterili, mostra che l’Italia si sta preparando a un’importante revisione del pensiero
urbanistico delle città. Per meglio contribuire a questo cambiamento radicale, desideriamo esporre la nostra proposta.
La ragione per la quale si realizza una città è la costruzione e la crescita della comunità
dei cittadini che la abitano. E la comunità urbana non riesce a svilupparsi al di fuori di proprietà geometriche molto precise
dell’abitato. “Città” significa una rete di spazi pubblici definiti dal tessuto edilizio urbano, da realizzare con dimensioni in
scala umana, secondo proporzioni e rapporti matematici che possono risultare facilmente sensibili all’intervento umano.
Su questa struttura geometrica, che richiede l’attività degli esperti e non può essere demandata alla politica, va a
sovrapporsi lo sviluppo di una maglia connettiva che permette l’interazione di
singole reti molto diverse tra loro, come quella pedonale, del trasporto pubblico, la rete automobilistica e la rete industriale
degli autotrasporti e delle ferrovie. In forza di questa visione, è possibile creare una città compatta nella dimensione
orizzontale, che costituisce il punto di partenza per uno sviluppo corretto dello
spazio civico. È uno sbaglio credere di ottenere la densità giusta attraverso una
crescita verticale della città, perché tale dimensione alimenta un processo di scollegamento tra gli èlementi urbani e tra
le persone. La nostra soluzione vuole spazzare via la debolezza delle posizioni
circolanti con alcune indicazioni precise.
Riteniamo occorra una progettazione delle piazze pubbliche in situ, senza
preconfezionate geometrie standard (tipiche quelle a semicerchio), perché ogni luogo genera la propria geometria urbana
come conseguenza naturale dell’applicazione di codici generativi.
La nuova città va concepita come una rete di connessioni a cui case ed edifici si devono adattare. [Il tessuto urbano vive di
questa simbiosi, e i manufatti architettonici devono trovare collocazione nella sfera della geometria connettiva degli spazi della
città. E ancora, desideriamo allontanarci dai prodotti abitativi mirati e dedicati ad una specifica funzione: i quartieri solo
residenziali, le aree solo commerciali, o industriali, o di servizi, nonché le soluzioni
urbanistiche rivolte ad un target determinato].
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La nuova città costruita secondo il nostro modello assomiglia più al tessuto urbano
medioevale che a quello tipico della pianificazione di stampo moderno. La natura è inclusa in modo intimo, su piccola
scala, e strettamente collegata alle strutture artificiali, con la stessa logica dei
frattali. Se dunque la matrice centrale è l’individuo, tutto ciò che straborda dalle dimensioni umane è da eliminare alla
radice.
Lo studio della biofilia urbanistica ha dimostrato che l’uomo ha bisogno d’uno
stretto contatto con la natura, cioè la città umana deve mescolarsi con piante e verde alla scala più intima dell’ambito cittadino,
quella del diretto contatto. Tuttavia non basta unire edifici e verde senza criterio, specie se la natura diviene un elemento
addolcente e giustificativo di orrori architettonici.
Operare secondo il gusto compositivo individuale dell’urbanista, può condurre facilmente a far smarrire alla natura la sua
stessa funzione integrante l’abitato, come è accaduto nelle città intrise del modernismo di Le Corbusier, dei palazzi fluttuanti tra
prati sterili e non vissuti.
Gli esempi migliori di aggregazione di edificato e natura sono da ricercare in ciò
che rimane dei piccoli giardini della città tradizionale ottocentesca, e ancora nei centri storici delle città europee che sono
gli unici a favorire lo scambio sociale. È invece fuori da ogni logica scientifica di
vivibilità il miscuglio delle tipologie urbane verticaliste con il verde a corollario, anche inserito a dosi massicce. Tutte le soluzioni
così prospettate sono dei non-luoghi utopici, validi solo a suscitare le attenzioni
del marketing e un fracasso sensoriale. Infatti, queste tipologie artificiali di abitato non definiscono comunità di esseri umani a
causa della loro geometria, che risulta ostativa per sua natura a tale sviluppo.
Dunque, occorre capire cosa si nasconda dietro l’espressione “città-giardino”, perché il nome in sé esercita fascino su molti,
inducendo una visione semplice e immediata fatta di un sentimento di ritorno alla natura e di una reazione al caos e al
disordine della città contemporanea. Il movimento d’opinione e l’eco mediatico indirizzato a proporre nuovi orizzonti di
urbanità ci spinge a consigliare ai politici di non seguire modelli già risultati fallimentari. Tra gli slogan della sinistra
pseudo-ambientalista e la visione decisionista della destra, che nelle
amministrazioni locali fanno il gioco delle archistar e degli immobiliaristi, occorre che si faccia largo un’opzione innovativa e
culturalmente valida, da cui chi governa può attingere senza pregiudizi.
L’urbanistica è una scienza giovane, che
risulta essere ancora incompleta, perché dominata da uno spirito fondato su dogmi autoreferenziali. È tempo che la politica e i
cittadini se ne accorgano, e contribuiscano a favorire una visione più corretta del rapporto tra il costruire e il vivere bene.
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Tracce progettuali per un nuovo rinascimento urbano
di Fabio Cremascoli
La chiave del cambiamento sta anche nella
rigenerazione delle città. Un nuovo
significato di efficienza urbana, l’approccio
“umano” della biourbanistica e l’attivazione
delle comunità locali, possono orientare la
transizione.
Ragionare in termini di
complessità e di efficienza urbana
Se dal 2008 la popolazione che vive in
ambienti urbani ha superato la metà della popolazione complessiva mondiale (1) e
nel 2050 la Terra avrà circa 9 miliardi di abitanti, la maggior parte dei quali vivranno nelle città dei cosiddetti paesi in
via di sviluppo (2), allora dobbiamo cominciare a ragionare oggi, velocemente, su come non portare le città di domani al
collasso, avviando un “percorso di salvataggio”.
Per realizzare un piano così ambizioso
dobbiamo assumere un atteggiamento di tipo riflessivo (3), ponendo una particolare attenzione agli errori compiuti sino ad oggi,
per ridefinire nel corso dell’azione sia l’approccio metodologico alla
pianificazione urbanistica, sia il significato di qualità di vita urbana.
In tal senso credo che un ambito di
riflessione da prendere in considerazione nell’immediato sia quello della rigenerazione delle città attraverso una
ridefinizione del concetto di “efficienza urbana” e con una pianificazione
urbanistica e territoriale realmente efficace (4).
In un articolo pubblicato su un blog che tratta temi economici e sociali (5), con una “metafora organicista” viene evidenziato
che se prendiamo in causa i sistemi complessi di tipo biologico, come il corpo
umano o le altre specie, possiamo notare che ogni singola componente degli esseri viventi considerati, ha una funzione
specifica che serve per mantenere il proprio ecosistema di riferimento in uno stato di equilibrio rispetto agli input che
provengono dall’esterno.
I sistemi complessi naturali sono entità dinamiche capaci di sentire cosa succede
nell’ambiente che li circonda e di reagire con intelligenza o appunto “ efficienza”, agli stimoli esterni e di modificare le loro
strutture per adattarsi ai cambiamenti (6).
Questa impostazione teorica si può
applicare altrettanto bene alle nostre strutture economiche globali, sociali, culturali, politiche e alle aree urbane in
quanto anche esse sono sistemi complessi che hanno specifiche modalità di funzionamento e che si relazionano tra loro
e con i limiti del mondo fisico.
Tali sistemi però, a differenza di quelli biologici, sono in genere inefficienti perché
impostati secondo il principio della crescita infinita. In essi non scatta “automaticamente”, in situazioni
prevedibili di pericolo, quel meccanismo di tipo adattivo (feedback) che può
preservarne lo stato di equilibrio.
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In particolare le città sono attualmente tra i sistemi complessi meno efficienti in
assoluto in termini di bilancio ecologico, necessitano infatti di una concentrazione di cibo, acqua, energia e materiali che la
natura non può fornire con gli attuali ritmi di crescita dei sistemi urbani. Convogliare
questa massa di materia, per poi smaltirla sotto forma di rifiuti, liquame e di sostanze inquinanti dell’aria e dell’acqua costituisce
una importante sfida per il futuro (7).
Per questo motivo una più corretta interpretazione del concetto di efficienza
urbana, sull’esempio dei modelli biologici citati ed in presenza di esternalità negative, dovrebbe contemplare anche la possibilità
della non-crescita, attraverso l’implementazione politiche (policy) dedicate, tra cui l’introduzione di un “limite
al consumo di territorio” da parte della città.
Cambiare l’approccio progettuale delle nostre città
La pianificazione territoriale e urbanistica,
così come l’architettura globalizzata (8) che hanno operato sino ad oggi, non hanno invece tenuto conto di questo assunto, per
questo motivo le nostre città versano quasi tutte in condizioni qualitative disastrose e provocano diseconomie stratificate, che si
ripercuotono anche psicologicamente ed emotivamente su chi le abita.
Infatti, oggi più che in passato, le persone
che vivono nelle grandi e medie aree urbane assumono atteggiamenti di tipo “blasè”, dati dalla “perdita di
interconnessione” con l’ambiente che le
circonda, dall’indifferenza e dallo scetticismo avviati da processi di sovra
stimolazione sensoriale, provocata anche dalla frammentazione degli spazi e dei tempi delle città (9).
Per cercare di superare questa condizione psicologica e relazionale possiamo
nuovamente ispirarci ai principi biologici e ci può venire incontro la nozione di “biofilia”, una scienza secondo la quale (in
estrema sintesi) “gli esseri viventi non possono avere una vita sana lontana dalla natura perché sono predisposti
biologicamente a cercare il contatto con la complessa geometria delle forme naturali, tanto quanto necessitiamo per il nostro
metabolismo di elementi nutritivi e di ossigeno”(10).
Ciò non significa fuggire dalla città per
andare a vivere in campagna, pensiero frequente di molti cittadini urbanizzati, ma
rivedere complessivamente le modalità progettuali delle città per creare una più efficace armonizzazione dell’ambiente
antropico e di quello naturale urbano, in un’ottica ecosistemica, di non separazione.
La pianificazione urbanistica del futuro
dovrà quindi orientarsi da una parte verso un accurato recupero dell’esistente, evitando l’espansione della città ed
orientando la riqualificazione in termini di eco-autosufficienza energetica e all’adeguamento tecnologico,
possibilmente nel rispetto delle tecniche costruttive tradizionali ancora efficienti.
Dall’altra dovrà essere ricercata una nuova immagine urbana, a partire della
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10
ridefinizione della forma e dell’“apparato sensoriale” delle aree interessate dalla
rigenerazione, per creare quartieri “a misura d’uomo, di donna e di bambino”, secondo i principi della “biourbanistica”
(11). In questo senso anche il tema della demolizione e ricostruzione di case o
luoghi degradati secondo i nuovi criteri, potrebbe essere ripreso e approfondito nel dibattito pubblico.
Allo stesso tempo sarà però necessario attuare anche una riqualificazione delle zone rurali per fare in modo che eventuali
flussi migratori campagna-città e città-campagna, possano stabilizzarsi, evitando in tal modo sia che nelle zone rurali si
possa verificare “l’effetto città”dato dalla presenza di diseconomie urbane in assenza di alcune condizioni favorevoli che possono
essere date dalla “scala o dimensione urbana” e che, all’opposto si verifichi un
nuovo inurbamento con le conseguenze che conosciamo.
Governare la transizione dal basso
verso l’alto, dal micro al macro.
In relazione ai temi dell’incertezza energetica e climatica che potrebbero
caratterizzare le città di domani ed influenzare l’approccio alla risoluzione delle questioni urbane (12), sarà
necessario avviare processi di costruzione della resilienza locale (13), ovvero la capacità di far fronte alle possibili crisi
provocate da fattori esogeni quali la scarsità di combustibili a buon mercato, i cambiamenti del clima, la crisi economica,
ecc..
In tutto questo gioco gli attori pubblici istituzionali dovrebbero avere un ruolo
strategico di coordinamento generale e i soggetti della società civile e gli operatori virtuosi quello di parti attive del processo.
In particolare si dovrebbero valorizzare le comunità locali, anche con l’utilizzo di
strumenti di attivazione sociale (empowerment di comunità) e di animazione territoriale (14).
L’approccio metodologico potrebbe essere basato sulla definizione condivisa di uno scenario strategico desiderabile per la città,
che può essere realizzato attraverso azioni localizzate nei quartieri, ma tra loro interrelate, per avere una visione olistica
del cambiamento urbano.
Per governare la complessità del territorio potrebbe essere utile istituire in ogni
municipio o consiglio di zona/circoscrizione della città delle
“agenzie di quartiere” (o urban centre di quartiere), con un ruolo di regia locale (15) e di raccordo con il livello di
coordinamento e pianificazione comunale.
Questi luoghi, attraverso lo scambio di saperi esperti e non (istituzioni, enti,
cittadini, scuole, ecc.), potrebbero diventare gli ambiti ideali per la sperimentazione delle buone pratiche
progettuali che possano orientare la transizione.
Note
1) Worldwatch Institute, “State of the world 2007: Our Urban Future” 2) United Nation, “World Population Prospect: The 2008 Revision”
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3) Shon D., 1993, Il Professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Dedalo, Bari 4) Balducci A., 1991, Disegnare il futuro. Il problema dell’efficacia nella pianificazione urbanistica, Il Mulino, Bologna 5) theautomaticearth.blogspot.com 6) Gandolfi A., 1999, Formicai, imperi, cervelli. Introduzione alla scienza della complessità, Bollati Boringhieri, Milano 7) Brown L., Piano B 4.0. Mobilitarci per salvare la civiltà, Edizioni Ambiente, Milano 8) Caperna A., 2010, Il Crepuscolo della contemporaneità (disponibile su www.biourbanistica.com) 9) Simmel G., 1971, Mertropoli e personalità, in Elia Gian Franco, Sociologia Urbana, Hoepli, Milano 10) Salingaros N., Masden K., “Biofilia, architettura per la mente” 11) www.biourbanism.org 12) Lerch D., Post Carbon Cities: Planning for Energy and Climate Uncertainty 13) Hopkins R., Manuale pratico della transizione. Dalla dipendenza dal petrolio alla forza delle comunità locali, Arianna editrice (collana Il filo verde), Bologna 14) Tosi A., 1994, Abitanti. Le nuove strategie dell’abitare, Il Mulino, Bologna 15) Laino G., Le Regie di quartiere: un dispositivo di cittadinanza attiva Nota: Questo saggio di Fabio Cremascoli è stato pubblicato
dal Movimento per la Decrescita Felice.
Ritorno alla città
di Stefano Serafini
Riportiamo qui testi con i quali la Società
Internazionale di Biourbanistica ed il
Gruppo Salingaros hanno accompagnato
l'intervento di Nikos Salingaros al Convegno
“Back to the City – Ritorno alla città” dello
scorso dicembre 2010.
Con largo anticipo – era il 1976 – Jean
Baudrillard previde la nascita della Green Economy e smascherò la sottostruttura
finanziaria della “sostenibilità”. Ciò non impedì lo spettacolo, e oggi in Architettura ammiriamo falansteri “capolavori
urbanistici”, grattacieli “ecologici”, accessori tecnologico-industriali “sostenibili”, devastazioni territoriali “a
misura d’uomo”.
La proposta dal Gruppo Salìngaros nasce dalla constatazione che la transizione che
stiamo vivendo, di cui la crisi economica, dell’acqua, e del petrolio, è solo un assaggio, spazzerà via il teatro dei doppi
vetri industriali e delle auto elettriche. Occorre perciò andare a monte, a una
sostenibilità strutturale: immaginale, psichica, etica, sociale, economica, politica. Occorre recuperare, momento per
momento, l’ordine di natura che precede e quindi determina il benessere dell’ecosistema. Un ordine che viene
identificato innanzitutto dal benessere integrale della persona umana, senza distinzioni di classe o cultura e senza
artificiose derive consumistiche che gerarchizzino l’accesso alla vita.
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Per ottenere tale misura non si può usare il dogma di scuola, l’ideologizzazione
estetica, interna a una visione antropologica seicentesca ormai vistosamente fallita. Occorre un nuovo
metodo scientifico, cioè aperto e verificabile, che ad es. preveda la
partecipazione degli abitanti alla progettazione (P2P Urbanism), con particolare riferimento alle reazioni dei
sistemi neurofisiologici (Biofilia). Ci riferiamo a nuovi paradigmi epistemologici che superano il concetto ingenuo di
oggettività lineare, dal quale deriva una progettazione disastrosa per la vita, con una logica “ad albero” dall’alto verso il
basso. E ci riferiamo alla straordinaria complessità urbana che può essere validamente affrontata imparando dal
ritorno delle leggi della forma in Fisica, Chimica, Biologia, Informatica, ecc., facendo
collaborare gli architetti e gli urbanisti con specialisti di frontiera di altre discipline, come già avviene nella Biourbanistica.
Gli studi sulla sociogeometria urbana di Nikos Salìngaros sono certamente all’avanguardia in tal senso, come peraltro
sono strumenti indispensabili la morfometria urbana di Sergio Porta, le analisi urbanistiche post-petrolio di
Gabriele Tagliaventi e Alessandro Bucci, il recupero del senso isomorfico delle tecniche tradizionali di Ettore Mazzola, ecc.
Ma è chiaro che la forza di tali idee poggia sul cambiamento di una mentalità
complessiva.
L'incontro “Ritorno alla città” (Roma, 1-2 dicembre 2010), voluto dal comune di
Roma per discutere delle periferie, ha
luogo paradossalmente presso un edificio che è la contraddizione costruita
dell'approccio necessario a sanare il dramma sociale ed ecologico delle periferie, cioè la milionaria Teca dell'Ara
Pacis di Meier, da noi più volte contestata, eretta sull’ormai perduto Porto di Ripetta.
Per fortuna, almeno, non ospita questa volta costose archistar la cui presenza
costituiva il vertice della contraddizione, una autentica beffa per gli abitanti degli slab della Capitale e d'Italia. Dopo due anni
di opposizione innovativa e multidisciplinare al modello antropologico – e poi sociale, economico, politico – che ha
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generato un'urbanistica distruttiva delle relazioni sociali e della qualità della vita, il
Gruppo Salìngaros è presente con la pia speranza che possano essere ascoltate le proposte di un’architettura umile,
funzionale, vincente: quella della vita. Siamo però al convegno anche perché le
nostre idee stano avendo risonanza, e c’è chi nel mondo degli affari se ne appropria in modo opportunistico, banalizzandole.
Abbiamo dedicato molti sforzi per riportare l'urbanistica al centro di un'attenzione culturale critica,
strappandola ai dibattiti per specialisti, e siamo fieri di continuare la nostra battaglia per svelare il valore politico dello spazio e
della sua gestione; della fondazione di un nuovo criterio architettonico; della partecipazione nell’organizzare lo spazio
civico; di una visione scientifica dei bisogni di connessione degli esseri umani.
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APPUNTAMENTI
Convegno: Biourbanistica e Politica. La dimensione sociopolitica dello spazio urbano nell’epoca della transizione Sabato 5 Marzo 2011, ore 10.00. Aula magna della Facoltà di Ingegneria, Sapienza Università di Roma, Via Eudossiana, 18. Tavola rotonda con: Teodoro Buontempo (Assessore Regione Lazio), Antonio Caperna (Presidente Soc. Int. Biourbanistica), Giulietto Chiesa (presidente Alternativa), Carlo Ripa di Meana (presidente Italia Nostra, Roma), Enzo Scandurra (Università “La Sapienza”)
Conferenza sulla rigenerazione delle periferie italiane Palermo, 02.03.2011 - S. Filippo Neri, Salone Parrocchiale – via Fausto Coppi. Interventi di Ettore Maria Mazzola, Ciro Lomonte, Miguel Pertini, Nadia Spallitta.
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Rassegna di Biourbanistica è una rivista aperiodica della Società Internazionale di Biourbanistica.
Redazione: Alessia Cerqua (direttore), Stefano Serafini, Antonio Caperna. Fonti: Arianna Editrice, Movimento per la Decrescita Felice, Gruppo Salingaros. Foto di Copertina: Alessia Cerqua Per informazioni, suggerimenti, invio contributi e richiesta arretrati: [email protected]. Rivista disponibile on line su: www.biourbanistica.com Rivista licenziata sotto Creative Commons Attribuzione Non commerciale.
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