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62 Le Scienze 512 aprile 2011 www.lescienze.it Le Scienze 63 Tom Whalen Lera Boroditsky è professore associato di psicologia cognitiva alla Stanford University e direttore di «Frontiers in Cultural Psychology». Il suo gruppo conduce ricerche in tutto il mondo e si occupa della rappresentazione mentale e degli effetti delle lingue sui processi cognitivi. PSICOLOGIA COGNITIVA Linguaggio e pensiero di Lera Boroditsky Le lingue che parliamo influenzano la nostra percezione del mondo Le persone comunicano grazie a migliaia di lingue diverse che cambiano notevolmente l’informazione trasmessa. Da tempo gli scienziati si chiedono se lingue differenti possano dare abilità cognitive diverse. Di recente si sono ottenute prove di questa relazione causale, un indizio che la lingua madre plasma il modo in cui si valutano molti aspetti del mondo, inclusi lo spazio e il tempo. Le ultime scoperte suggeriscono che la lingua è parte integrante di molti più aspetti del pensiero rispetto a quanto ipotizzato dagli scienziati. IN BREVE T empo fa mi trovavo a Pormpuraaw, comunità di aborigeni sul margine occidentale di Capo York, nell’Australia settentrionale. Accanto a me c’era una bambina di cinque anni. A un certo punto le ho chiesto di indicare il nord. Lei ha punta- to il dito con precisione, senza esitare, e la bus- sola ha confermato: la bambina aveva ragione. Tempo dopo, nell’aula magna della Stanford University ho fatto la stessa domanda a un pubblico di eminenti studiosi, alcuni dei qua- li da oltre quarant’anni frequentano proprio quell’aula. A un certo punto ho chiesto loro di chiudere gli occhi, affinché non barassero, e di puntare l’indice verso nord. Molti si sono rifiutati perché non conoscevano la risposta. Quelli che hanno accettato, invece, pri- ma hanno riflettuto e poi hanno puntato il dito in tutte le direzio- ni possibili. Ho ripetuto lo stesso esercizio ad Harvard, Princeton, Mosca, Londra e Pechino, sempre con gli stessi risultati. Una bambina di cinque anni di una particolare cultura porta a termine con disinvoltura un compito che mette in difficoltà emi- nenti scienziati di altre culture. Come si spiega questa grande dif- ferenza di capacità cognitive? La risposta, forse, è il linguaggio. Da secoli si ipotizza che lingue diverse potrebbero dare capacità co- gnitive differenti. A partire dagli anni trenta questa ipotesi è sta- ta associata ai linguisti statunitensi Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, che avevano studiato come variano le lingue e avevano ipotizzato che lingue diverse potrebbero far pensare in modo diffe- rente. All’inizio l’ipotesi era stata accolta con entusiasmo, ma c’era un problema: l’assenza quasi totale di prove. Verso gli anni settanta l’ipotesi di Sapir-Whorf è stata abbandonata per teorie secondo cui linguaggio e pensiero sono universali che irrompono sulla scena. Di recente però sono emersi nuovi riscontri empirici a soste- gno dell’ipotesi secondo cui le lingue plasmano il pensiero. Que- ste nuove prove ribaltano il dogma ormai decennale sull’univer- salità e generano idee affascinanti sulle origini della conoscenza e la costruzione della realtà. I risultati hanno implicazioni impor- tanti su diversi aspetti della cultura umana, come il diritto, la poli- tica e l’istruzione. Spazio, tempo e lingue Nel mondo si parlano circa 7000 lingue, ciascuna delle quali ri- chiede capacità molto differenti. Poniamo che voglia dirvi: «Ho vi- sto Zio Vanja sulla 42ma strada». Nella lingua mian, parlata in Pa- pua Nuova Guinea, il verbo che ho usato rivelerebbe se l’evento è

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62 Le Scienze 512 aprile 2011 www.lescienze.it Le Scienze 63

Tom

Wha

len

Lera Boroditsky è professore associato di psicologia cognitiva alla Stanford University e direttore di «Frontiers in Cultural Psychology». Il suo gruppo conduce ricerche in tutto il mondo e si occupa della rappresentazione mentale e degli effetti delle lingue sui processi cognitivi.

psicologia cognitiva

Linguaggio e pensiero

di Lera Boroditsky

Le lingue che parliamo influenzano la nostra percezione del mondo

Le persone comunicano grazie a migliaia di lingue diverse che cambiano notevolmente l’informazione trasmessa.

Da tempo gli scienziati si chiedono se lingue differenti possano dare abilità cognitive diverse.Di recente si sono ottenute prove

di questa relazione causale, un indizio che la lingua madre plasma il modo in cui si valutano molti aspetti del mondo, inclusi lo spazio e il tempo.

Le ultime scoperte suggeriscono che la lingua è parte integrante di molti più aspetti del pensiero rispetto a quanto ipotizzato dagli scienziati.

I n b r e v e

Tempo fa mi trovavo a Pormpuraaw, comunità di aborigeni sul margine occidentale di Capo York, nell’Australia settentrionale. Accanto a me c’era una bambina di cinque anni. A un certo punto le ho chiesto di indicare il nord. Lei ha punta-to il dito con precisione, senza esitare, e la bus-sola ha confermato: la bambina aveva ragione.

Tempo dopo, nell’aula magna della Stanford University ho fatto la stessa domanda a un pubblico di eminenti studiosi, alcuni dei qua-li da oltre quarant’anni frequentano proprio quell’aula. A un certo punto ho chiesto loro di chiudere gli occhi, affinché non barassero, e di puntare l’indice verso nord. Molti si sono rifiutati perché non conoscevano la risposta. Quelli che hanno accettato, invece, pri-ma hanno riflettuto e poi hanno puntato il dito in tutte le direzio-ni possibili. Ho ripetuto lo stesso esercizio ad Harvard, Princeton, Mosca, Londra e Pechino, sempre con gli stessi risultati.

Una bambina di cinque anni di una particolare cultura porta a termine con disinvoltura un compito che mette in difficoltà emi-nenti scienziati di altre culture. Come si spiega questa grande dif-ferenza di capacità cognitive? La risposta, forse, è il linguaggio. Da secoli si ipotizza che lingue diverse potrebbero dare capacità co-

gnitive differenti. A partire dagli anni trenta questa ipotesi è sta-ta associata ai linguisti statunitensi Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, che avevano studiato come variano le lingue e avevano ipotizzato che lingue diverse potrebbero far pensare in modo diffe-rente. All’inizio l’ipotesi era stata accolta con entusiasmo, ma c’era un problema: l’assenza quasi totale di prove. Verso gli anni settanta l’ipotesi di Sapir-Whorf è stata abbandonata per teorie secondo cui linguaggio e pensiero sono universali che irrompono sulla scena.

Di recente però sono emersi nuovi riscontri empirici a soste-gno dell’ipotesi secondo cui le lingue plasmano il pensiero. Que-ste nuove prove ribaltano il dogma ormai decennale sull’univer-salità e generano idee affascinanti sulle origini della conoscenza e la costruzione della realtà. I risultati hanno implicazioni impor-tanti su diversi aspetti della cultura umana, come il diritto, la poli-tica e l’istruzione.

Spazio, tempo e lingueNel mondo si parlano circa 7000 lingue, ciascuna delle quali ri-

chiede capacità molto differenti. Poniamo che voglia dirvi: «Ho vi-sto Zio Vanja sulla 42ma strada». Nella lingua mian, parlata in Pa-pua Nuova Guinea, il verbo che ho usato rivelerebbe se l’evento è

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accaduto poco fa, ieri o in un passato lontano; in indonesiano, in-vece, il verbo nemmeno ci direbbe se è già accaduto o se sta per verificarsi; in russo rivelerebbe il mio genere sessuale; in manda-rino dovrei specificare se lo zio è quello materno o paterno e se è mio parente di sangue oppure acquisito, perché ci sono parole differenti per questi vari tipi di zio (è un fratello della madre, co-me chiarisce la traduzione in cinese). E in pirahã, lingua parlata in Amazzonia, non potrei dire quarantaduesima, perché non ci sono parole per numeri esatti, ma solo parole per «pochi» e «molti».

Le differenze tra le lingue sono innumerevoli, ma questo non significa necessariamente che persone che parlano lingue diverse pensano anche in modo diverso. Come possiamo stabilire se perso-ne che si esprimono inglese, cinese, pirahã e russo interagiscono in modi differenti con il mondo proprio a causa delle lingue diverse che parlano? Per rispondere, i ricercatori del mio e di altri labora-tori hanno analizzato come il linguaggio modella anche le dimen-sioni più fondamentali dell’esperienza: spazio, tempo, causalità e rapporto con gli altri.

Ritorniamo a Pormpuraaw. A differenza dell’inglese, la lingua kuuk thaayorre parlata a Pormpuraaw non usa termini spazia-li relativi, come destra e sinistra. Gli aborigeni che parlano kuuk thaayorre si esprimono riferendosi ai punti cardinali assoluti: nord, sud, est e ovest. Naturalmente anche in inglese (o in italiano) usiamo i termini riferiti ai punti cardina-li, ma solo per scale spaziali di grandi dimensioni. Non diremmo mai: «Hanno messo le forchette dell’insalata a sud-est delle forchette normali, quei bifolchi!». Invece, nella lingua kuuk tha-ayorre le direzioni cardinali sono usate a ogni scala. Significa che è possibile sentire frasi del tipo: «La tazza è a sud-est del piatto» o «il ra-gazzo a sud di Mary è mio fratello». A Pormpu-raaw bisogna rimanere sempre orientati per par-lare correttamente.

Negli ultimi vent’anni inoltre alcune ricerche inno-vative di Stephen C. Levinson, del Max-Planck-Institut für Psy-cholinguistik con sede a Nimega, nei Paesi Bassi, e di John B. Haviland, dell’Università della California a San Diego, hanno di-mostrato che le persone che parlano lingue in cui si fa riferimen-to a direzioni assolute stabiliscono in modo eccellente il punto in cui si trovano, anche in ambienti sconosciuti o in edifici mai visi-tati. E ci riescono meglio delle persone che vivono in quegli stessi ambienti ma che non parlano quelle lingue, addirittura meglio di quanto avevano ipotizzato gli scienziati. Le richieste delle loro lin-gue impongono e addestrano questa abilità cognitiva.

Le persone che pensano lo spazio in modo differente probabil-mente pensano in maniera differente anche il tempo. Per esempio con Alice Gaby, dell’Università della California a Berkeley, abbia-mo dato a persone di lingua kuuk thaayorre alcune fotografie che mostravano una progressione temporale: un uomo che invecchia, un coccodrillo che cresce, una banana che viene mangiata. Poi ab-biamo chiesto di disporre sul terreno le immagini mescolate e di indicare il corretto ordine temporale.

Ciascuna persona ha fatto il test due volte, e ogni volta era ri-volta verso un punto cardinale diverso. Le persone di lingua ingle-se ordinavano le foto in modo che il tempo procedesse da sinistra verso destra, e quelle di lingua ebraica tendevano a disporre le foto da destra a sinistra. È la dimostrazione che la direzione della scrit-tura influenza l’organizzazione del tempo. Invece, di regola i Kuuk Thaayorre non disponevano le foto da sinistra a destra, né da de-

stra a sinistra, ma da est a ovest. Ovvero: quando erano rivolti a sud, disponevano le immagini da sinistra verso destra, quando era-no rivolti a nord le foto seguivano l’ordine da destra verso sinistra, quando guardavano a est le carte si avvicinavano al corpo e co-sì via. Non abbiamo mai rivelato ai partecipanti la direzione in cui erano rivolti. I Kuuk Thaayorre lo sapevano già, e usavano l’orien-tamento spaziale per costruire la rappresentazione del tempo.

Le rappresentazioni del tempo variano moltissimo nelle diverse aree del mondo. Per esempio le persone che parlano inglese con-siderano il futuro «davanti» e il passato «dietro». Nel 2010 Lyn-den Miles, dell’Università di Aberdeen in Scozia, ha scoperto che le persone di lingua inglese fanno oscillare inconsciamente il corpo in avanti quando pensano al futuro e all’indietro quando pensa-no al passato. Ma in aymara, lingua parlata sulle Ande, il passato è considerato davanti e il futuro dietro. E il linguaggio del corpo de-gli Aymara corrisponde al loro modo di parlare: nel 2006 Raphael Núñez, dell’Università della California a San Diego, ed Eve Sweet-ser, dell’Università della California a Berkeley, hanno scoperto che gli Aymara si esprimono con gesti davanti al corpo quando parla-no del passato e dietro al corpo quando discutono del futuro.

Chi è stato?Persone di lingua diversa differiscono anche nel modo di descrivere gli eventi e, di conseguenza, nel

modo di ricordare chi ha fatto che cosa. Tutti gli eventi, anche quelli di poche frazioni di secon-do, sono complicati e ci obbligano a costruire e a interpretare che cosa è accaduto. Conside-riamo per esempio l’incidente avvenuto in una caccia alla quaglia, durante la quale l’ex vi-ce presidente degli Stati Uniti Dick Cheney ha

sparato inavvertitamente a Harry Whittington. Potremmo dire: «Cheney ha sparato a Whitting-

ton» (e in questo caso Cheney è la causa diretta) oppure «Whittington ha ricevuto uno sparo da Che-

ney» (facendo prendere a Cheney le distanze dalla con-seguenza) o ancora «Whittington è stato centrato per bene»

(escludendo Cheney). Lo stesso vice presidente ha dichiarato: «In definitiva, sono il tipo che ha premuto il grilletto che ha spa-rato il colpo che ha colpito Harry», ponendo una lunga catena di eventi tra la sua persona e l’esito. L’interpretazione del presidente George Bush – «[Cheney] ha sentito un improvviso rumore di uc-cello, si è voltato, ha premuto il grilletto e ha visto che l’amico era stato ferito» – è stata una discolpa ancora più magistrale, in poche parole ha trasformato Cheney da protagonista a mero testimone.

Uno stile tanto contorto impressiona raramente l’opinione pub-blica degli Stati Uniti, perché in inglese il linguaggio privo di sog-getti che agiscono suona evasivo, è visto come prerogativa dei bambini o degli uomini politici che tentano di alleggerirsi da una colpa. Chi parla in inglese tende a esprimere le cose in termini di persone che fanno le cose, e sceglie costrutti transitivi come «John ha rotto il vaso», anche in caso di evento fortuito. Viceversa, chi parla giapponese o spagnolo menziona più raramente la persona che agisce quando descrive un evento accidentale. In spagnolo si potrebbe dire: «Se rompió el florero», cioè «il vaso si è rotto».

Con la studentessa Caitlin M. Fausey abbiamo scoperto che que-ste differenze linguistiche influenzano il modo di ricostruire gli eventi e hanno conseguenze sui ricordi dei testimoni oculari. Nel nostro studio pubblicato nel 2010, volontari di lingua inglese, giap-ponese e spagnola hanno osservato filmati di due ragazzi che face-

vano scoppiare palloncini, rompevano uova e rovesciavano bevan-de, intenzionalmente o accidentalmente. Poi, a sorpresa, abbiamo fatto un test di memoria in cui si doveva indicare quale dei due ra-gazzi aveva compiuto l’atto osservato. Un altro gruppo di volon-tari di lingua inglese, spagnola e giapponese ha descritto gli stessi eventi. Come risultato abbiamo trovato proprio le differenze nella memoria dei testimoni oculari previste dai modelli linguistici. I vo-lontari di tutte e tre le lingue descrivevano gli eventi intenzionali indicando un responsabile, dicendo cose del tipo «lui ha fatto scop-piare il palloncino», e tutti e tre i gruppi ricordavano bene l’auto-re di queste azioni intenzionali. Nel caso di eventi accidentali, però, sono emerse differenze interessanti: i volontari spagnoli e giappo-nesi erano meno inclini degli inglesi a descrivere gli eventi come opera di una persona e, coerentemente, ricordavano l’autore meno bene rispetto ai volontari di lingua inglese. Non era un problema di memoria più scarsa, ricordavano i responsabili degli eventi inten-zionali altrettanto bene dei volontari di lingua inglese.

Non solo le lingue influenzano ciò che ricordiamo, ma la loro struttura può facilitare o complicare l’apprendimento di cose nuo-ve. Per esempio, in alcune lingue le parole che indicano i nume-ri rivelano la struttura a base dieci in modo più trasparente rispet-to alla lingua inglese, quindi i bambini che apprendono quelle lingue imparano più rapidamente il segreto della base dieci. E a seconda di quante sillabe hanno i numeri sarà più facile o più difficile tenere a mente un nu-mero di telefono o fare calcoli mentali. La lingua può addirittura influenzare la rapidità con cui i bambini capiscono se sono maschi o femmi-ne. Nel 1983 Alexander Guiora, dell’Università del Michigan ad Ann Arbor, ha confrontato tre gruppi di bambini cresciuti con l’ebraico, l’in-glese o il finlandese come lingue native. L’ebrai-co indica il genere in modo prolifico: persino la parola «tu» è differente in base al genere; il finlan-dese non ha marcatori di genere e l’inglese è a metà stra-da. I bambini di madrelingua ebraica identificavano il proprio ge-nere sessuale circa un anno prima dei bambini finlandesi, mentre i bambini di lingua inglese si trovavano in mezzo.

Prima la mente o la lingua?Queste sono solo alcune delle tante affascinanti scoperte riguar-

do le differenze cognitive nelle varie lingue. Ma come facciamo a sapere se sono le differenze linguistiche a creare le differenze de-gli schemi mentali o viceversa? A quanto pare, valgono entram-bi i casi: il nostro modo di pensare influenza il modo di parlare, ma questa influenza agisce anche in senso contrario. Negli ultimi dieci anni numerosi studi hanno dimostrato che la lingua genera i pro-cessi mentali e che cambiare il nostro modo di parlare cambia i no-stri schemi mentali. Per esempio, se impariamo nuovi termini per i colori, cambia la nostra capacità di distinguerli, se impariamo un nuovo modo per parlare del tempo, lo concepiremo diversamente.

Un altro modo per affrontare la questione è studiare persone che parlano fluentemente due lingue. Secondo le ricerche, chi è bi-lingue cambia il modo di vedere il mondo in base alla lingua che parla. Due ricerche pubblicate nel 2010 hanno mostrato che ad-dirittura qualcosa di fondamentale come il grado di simpatia o di antipatia verso una persona dipende dalla lingua in cui ci è chie-sto il parere. Questi studi – il primo di Oludamini Ogunnaike della Harvard University, il secondo di Shai Danziger della Ben-Gurion University del Negev, in Israele – hanno riguardato persone bi-

lingui arabo-francese in Marocco, bilingui spagnolo-inglese negli Stati Uniti e bilingui arabo-ebraico in Israele, valutando in ciascun caso le preferenze implicite dei partecipanti. Per esempio, ai bilin-gui arabo-ebraici è stato chiesto di premere rapidamente un pul-sante come risposta ad alcune parole e in diversi contesti. In uno, se vedevano un nome ebreo come «Yair» o un tratto positivo co-me «buono» o «forte», erano istruiti a premere «M»; se vedevano un nome arabo come «Ahmed» o un tratto negativo come «vile» o «de-bole» erano invitati a premere «X». Nell’altro, l’accoppiamento era invertito, in modo che nomi ebraici e tratti negativi condividesse-ro il pulsante di risposta, come pure i nomi arabi e i tratti positi-vi. A quel punto i ricercatori hanno misurato la rapidità di risposta in entrambi contesti. Questa modalità sperimentale è stata ampia-mente usata per misurare pregiudizi involontari o automatici, va-le a dire la naturalezza con cui le cose – come un tratto positivo e i gruppi etnici – sembrano stare insieme nella nostra mente.

Con sorpresa, gli scienziati hanno scoperto ampie variazioni in questi pregiudizi automatici involontari nei bilingui, in funzione dalla lingua del test. Per esempio i bilingui arabo-ebraico manife-stavano atteggiamenti impliciti più positivi verso gli ebrei quando il test era in ebraico rispetto a quando era in arabo.

Inoltre la lingua sembrerebbe più coinvolta nella vita men-tale rispetto a quanto ipotizzato dagli scienziati. Ci af-

fidiamo alla lingua anche per compiti semplici, co-me distinguere macchie di colore, contare pallini su uno schermo oppure orientarci in una picco-la stanza. Per esempio, soggetti con accesso li-mitato alle proprie facoltà linguistiche perché impegnati in compiti verbali interferenti, co-me ripetere notizie, sono meno abili a svolge-re proprio quel compito. Significa che categorie

e distinzioni in una particolare lingua si intrec-ciano profondamente nella nostra vita mentale.

Quello che gli scienziati chiamano «pensiero» in re-altà sembra un insieme di processi linguistici e non

linguistici. Di conseguenza potrebbe non esserci molto pensiero adulto dove il linguaggio non ha un ruolo.

Un tratto peculiare dell’intelligenza umana è la sua adattabili-tà, la sua capacità di inventare e riorganizzare concezioni del mon-do per adattarsi a obiettivi o ambienti mutevoli. Una conseguenza di questa flessibilità è la grande diversità di lingue in tutto il mon-do. Ciascuna fornisce il proprio armamentario cognitivo e riassume la conoscenza e la visione del mondo sviluppatasi per millenni in una cultura. E ognuna contiene strategie per percepire, categorizza-re e creare significati nel mondo, un’impagabile guida sviluppata e perfezionata dai nostri antenati. Gli studi sulla capacità delle lingue di plasmare il nostro stile di pensiero aiutano a capire come creia-mo conoscenza e costruiamo la realtà, e come abbiamo raggiunto questo grado di intelligenza e raffinatezza. A sua volta questa co-noscenza aiuta a capire che cosa ci rende umani. n

Language Changes Implicit Associations between Ethnic Groups and Evaluation in Bilinguals. Danziger S. e Ward R., in «Psychological Science», Vol. 21, n. 6, pp. 799-800, giugno 2010.

Constructing Agency: The Role of Language. Fausey C.M. e altri, in «Frontiers in Cultural Psychology», Vol. 1, articolo 162, 15 ottobre 2010.

Remembrances of Times East: Absolute Spatial Representations of Time in an Australian Aboriginal Community. Boroditsky L. e Gaby A., in «Psychological Science», Vol. 21, n. 11, pp. 1635-1639, novembre 2010.

l e t t u r e

Persone di lingua diversa

differiscono anche nella capacità di

ricordare chi ha fatto cosa

Una persona bilingue cambia

visione del mondo a

seconda della lingua che

sta parlando