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Un libro che non può mancare nella libreria di un gastronomo.

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Nessia LaniadoPIZZA!

Storia, segreti, ricette

© Idealibri, Via San Tomaso lO, Milano

Edizione Euroclub Italia divisione dellaCartiere del Garda S.pA

su licenza di Idealibriprima edizione 1989

Fotografie in bianco e nero: p. 35, Alinari;p. 55, A. Tondini/Focus Team/AFE; p. 61, Marco Viganòda "L'Etichetta", anno 5 n. 1 p. 41; p. 63, Lorenzo Amato.

L'illustrazione di p. 205 è dell'Archivio E. Castruccio, Milano.

T utti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione di testie illustrazioni senza il permesso scritto dell'Editore.

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SOMMARIO

PREMESSAPREFAZIONEPROLOGOPANE E PIZZANEL SEGNO DI CEREREQUANDO SI TINGE DI ROSSOUN PIATTO DA REPIZZAIOLI E PIZZERIEDA NAPOLI A TUTIO IL MONDO

. LA PIZZA DIVENTA DOCCOME SI FA LA PIZZAINGREDIENTI E VALORE ALIMENTARELE RICETTE

La ricetta per la pastaLe classicheIl calzoneLe regionaliLe creativeLe abusiveLe estere

130 PIZZERIE INTERESSANTIINDICE DELLE RICETTEBIBLIOGRAFIA

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PREMESSA

Dal momento in cui abbiamo deciso di pubblicare un li­bro sulla pizza, ci siamo posti il problema della personacui affidare la prefazione: il solito gastronomo? un napo­letano eminente? qualche attore ben conosciuto?Il caso ha risolto ilproblema facendoci pervenire l'appas­sionato racconto di un pizzaiolo che ha deciso di diventa­re libraio senza scrollarsi di dosso la sua passione primor­diale. Ci è parsa una buona idea premettere questo scrit­to quale prefazione al nostro lavoro.Per una volta la strada è stata percorsa in modo inverso:non un intellettuale che si diletta con la pizza, ma un piz­zaiolo che si occupa di libri.

L'Editore

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PREFAZIONE

La pizza è un 'idea, pazza;forse un sognoe dà la gioia.

Nella mia carriera di pizzaiolo ho preparato circa due­centomila pizze. Per imparare a fare una pizza a regolad'arte mi ci volle un anno sotto la tutela di Giggino Can­natiello, napoletano verace nato a Porta Capuana e "do­cente" presso la Pizzeria Del Drago a Milano.Ero arrivato a Milano all'età di sedici anni da Montesca­glioso, in Basilicata. Assunto come cameriere presso unristorante, mi trovai a fare l'aiuto pizzaiolo in sostituzionedi un ragazzo assente per malattia. Da allora, per moltianni, quasi per predestinazione, non abbandonai ilbancodel pizzaiolo.Il maestro mi iniziò alla conoscenza del forno insegna n­domi a riconoscere dal colore più o meno scuro dellemattonelle le temperature all'interno della cupola. Prestoacquistai abilità nel manovrare le pale, in particolarequella di legno, che deve entrare e uscire dal forno comela lingua nella bocca di un serpente senza diventare untizzone atro. Con la pratica appresi a fermare la giusta to­nalità di rosso, indice di buona cottura, sul bordo rigonfiodella pasta.Un giorno, nel piegarmi a prelevare la legna sistematanel vano sotto il forno, persi l'equilibrio e mi aggrappai al­la pala metallica, rovente. Ildolore fu pungente. E lo scon­forto altrettanto acuto. Ma il maestro sorrideva: avevoavuto il battesimo del fuoco, al quale nessun pizza iolopuò sottrarsi. Mi si awicinò e disse: "Oggi sei diventatofornaio professionista; domani proverai a fare la pizza".Mi buttai all'opera. Le mie mani si muovevano in modoscoordinato, stesi la pasta con fatica e approssimazione,a stento riuscii a condirla e a tirarla sulla pala per infor­narla. Quando cercai di controlla me la cottura, si aprì un

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buco dal quale colarono pomodoro e mozzarella che,bruciati dai mattoni roventi, riempirono il forno di fumo.Tirai fuori un amalgama indecifrabile, bianco, rosso e ne­ro. Per coerenza mangiai il tutto, ma ero awilito. Il mae­stro sorrise e mi incoraggiò a continuare. Dopo un anno,controllare che la pizza cuocesse omogeneamente, rigi­randola, awicinandola e allontanandola dalla fiamma,spostandola nei punti più o meno caldi del forno secondoil bisogno divenne maestria; accendere il forno un'arte.Potevo esibirmi davanti agli occhi attoniti dei turisti giap­ponesi facendo volteggiare in alto i dischi di pasta e riac­chiappandoli al volo. Ero un pizzaiolo professionista!Ilsogno di un pizzaiolo è di aprire una pizzeria in proprio.Per me è andata diversamente, ho aperto una libreria. Lascelta può sembrare senza nesso. In realtà come pizzaio­lo ero riuscito a soddisfare ilbisogno primario di mangia­re, come libraio cerco di soddisfare l'altro mio bisogno,quello di conoscere. Un libro sulla pizza unisce le due esi­genze: è un viaggio culturale e gastronomico attorno aun piatto che pur essendo "fast" gode di una prestigiosatradizione storica e nasconde inenarrabili delizie.Parola di pizzaiolo e di libraio!

Antonio Nobile

Montescaglioso, aprile 1988 L'ERUZIONE DEL VESUVIO DEL 1822.

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PROLOGO

Napule fa' tu.

E I n p !etani l'hanno fatto. Hanno trasformato in fa­v I I più banale realtà. Hanno appagato l'elusivo so­cn di Pulcinella che sotto i morsi della fame vaneggiavadi potersi mangiare, alla fine del pasto, anche il piatto.Per secoli i lazzari hanno vissuto accompagnati dall'assil­lo della fame, racimolando un' elemosina, accontentan­dosi dei rifiuti della pesca. Ma ilpiatto pareva avere la ma­laugurata capacità di rimanere sempre vuoto, spettral­mente bianco. La realtà ha superato il sogno quando ilI?iatto è esploso di sapori, profumi e colori.E la pizza. Un disponibile, consolatorio, meraviglioso an­tidoto che con un solo boccone fa dimenticare le anghe­rie dei potenti. Il modo più fantastico per soprawiveresenza dover ricorrere alla monotona e malinconica es­senzialità del pane.Mangiare il piatto in cui si mangia.La felicità del sogno awerato ha contagiato il mondo,che al pari di Pulcinella esulta, si commuove, si delizia, sisazia 'nnanze 'stu piatto ch'è primmo, sicondo, ch'è terzo,ch'è frutta, ch'è tutto! ch'è cena, ch'è pranzo, ch'è culazio­ne; 'stu piatto ch'è o piatto d"e ricche barone, d"a poveragente, d"e diavole e sante, d"e grande scienziate, artiste,studiente ... cantava Giuseppe Cicala, poeta napoletanodel secolo scorso.Vale la pena di ritrovare la strada che ha portato a questocapolavoro gastronomico. Di ripercorrere i molteplicitentativi che nel corso dei secoli l'uomo ha compiuto percreare un alimento definito "lievito della vita," "pezzo disole al tramonto" o, per dirla con Pietro Mascagni, "istitu­zione: la più nobile, la più geniale, la più degna di essereconsiderata".Perché la pizza, nella sua semplicità, nasconde intrigan­tissime raffinatezze. Solo un pane. Ma è un pane condito,arricchito, colorato, incivilito: un unico, universale piattoin grado di ospitare i sapori del desiderio.

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PANE E PIZZA

La storia della pizza è intimamente intrecciata all'av­ventura della trasformazione del cereale in pane.Nell'antichissimo libro cinese dei Mutamenti, l'I Ching, siracconta ilpassaggio dalla caccia all'agricoltura nella sto­ria dell'umanità: "Quando il clan dei cacciatori fu passatosorse il clan del Divino Agricoltore". Egli spaccò un legnoa vomere e piegò un legno a stanga e insegnò agli uomi­ni di tutto ilmondo ilvantaggio di aprire la terra con l'ara­tro per cibarsi dei frutti del cereale. Frumento e orzo nelMediterraneo, grano saraceno nell'Africa settentrionale,avena nelle regioni scandinave, riso in Oriente, segala neipaesi anglosassoni.La coltivazione dei cereali apparve quasi contempora­neamente tra tutti i popoli della terra. Da tutti venneroprescelti per essere la base dell'alimentazione dell'uomo.Da tutti, infine, vennero cotti o impastati in acqua salata,l'acqua del mare da cui è sorta la vita.In origine i chicchi venivano abbrustoliti su pietre roventi,ma il risultato non era entusiasmante. Qualcuno pensòallora di macinarli e di preparare con la farina così otte­nuta un miscuglio che benevolmente si può descriverecome pane, ma che in realtà era una austera polentina.Per secoli, forse millenni, il porridge di cereali abbrustoli­ti, seguito da focacce di farina d'orzo e di frumento, rima­se la massima espressione della gastronomia neolitica.Finché, seimila anni orsono, in Egitto non ci si accorseche l'impasto di farina e acqua a volte veniva invaso daforze misteriose che lo facevano gonfiare.Fu così che gli egizi, scoperta la lievitazione, divennero iprimi panificatori dell'umanità.Subito cercarono di cuocere il pane con mezzi più ade­guati delle arcaiche pietre roventi. Tentarono con larghidischi di coccio, ma l'urgenza di aumentare la produzio­ne richiese l'impiego di superfici ancora più ampie. Si leg­ge, nei codici egizi, di un faraone che si lamentava del ca-

po panificatore: aveva immagazzinato nei depositi sol­tanto 114.094 pani.I! piatto di coccio si trasformò in cono. AI suo interno siaccendeva il fuoco mentre sulla parete esterna venivanodisposti i pani, che necessariamente dovevano esserepiatti e sottili per potervi aderire. Quando cadevano dallaparete del forno erano cotti da una parte: venivano alloraraccolti e risistemati sul forno per ultimare la cottura.I! procedimento venne presto considerato inadeguatoanche per i modesti standard igienici dell'antichità. L'ideadel forno conico era però difficile da abbandonare.Si decise di rovesciare la base del cono: il fuoco fu appli­cato tutt'intorno e il pane venne disposto sulle pareti in­terne. Sorgeva a questo punto un altro problema: comerecuperare il pane dal forno. Le difficoltà del meccani­smo vengono rilevate in un papiro di Ramsete III:"I! for­naio inforna con la testa nel forno e intanto un suo figlio­lo lo tiene per le gambe. Guai se gli dovesse sfuggire dimano: il fornaio cadrebbe sulle pietre roventi".Nonostante questi problemi di stdtica, gli egizi divenneroesperti panificatori. Se agli inizi era impossibile differen­ziare il pane dalle focacce, in epoche più tarde la distin- 15

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zi ne divenne un fatto acquisito: sedicimila pani buoni,tredicimila pani mediocri e quattrocento focacce erano ilfabbisogno quotidiano di una città, secondo quanto ci èstato tramandato dallo scrittore egizio Eunanu.Nel 240 avanti Cristo si conoscevano oltre cinquanta va­rietà di pane, dolce, salato, al latte, all'olio, al miele, all'ani­ce, all'uovo ...:tutti sono descritti in quello che viene consi­derato il primo trattato teorico sulla panificazione, redat­to dal gr co Cri ippo di Thiana. Ma non ovunque si era-n r iunti i livelli di greci ed egizi.l r mani, che pure avevano conquistato il mondo, quan­do i greci vennero tradotti a Roma come schiavi si accon­tentavano ancora di una frugale polenta di grano spezza­to chiamata pulsoFurono gli schiavi greci a impiantare nella capitaledell'impero una solida industria panificatrice, e dovettetrascorrere molto tempo prima che i romani imparasseroa differenziare la primitiva polentina di farina e acqua dapani, focacce, schiacciati ne, piadine.Di queste prime focacce, che stanno alla pizza come laplastilina modellata da un bambino sta alla creta dell'arti­.sta, è rimasta( traccia in alcuni piatti.Nell'Appennino tosco-emiliano si preparano le tigelle, fo­cacce di farina di frumento che derivano il nome dai di­

schi di argilla su cui venivano cotte. Parenti delle tigellesono la yufka turca, la taguella dei tuareg, spesso a basedi miglio, la burgutta eritrea.Gli indiani cucinano il chapati, un pane composto di fari­na integrale, sale e acqua. Viene impastato, lasciato ripo­sare per mezz'ora, quindi cotto senza aggiunta di grassisul tawa, una pentola che di norma viene usata con il latoconvesso all'insù. Questa almeno è l'usanza più antica,che richiama la tradizione dell'arcaico forno egizio mache, per inevitabili contrapposizioni etniche, non vieneseguita dagli indiani musulmani, iquali usano il tawa conil lato convesso rivolto verso il basso.Un metodo di cottura pressoché identico a quello dei for­nai egizi è tuttora praticato dai nomadi dell'Iran. Il loropane sottile viene gettato in un forno ottenuto con un fo­ro rotondo sca~ato nella pietra, che di volta in volta vienereso incandescente. Ad altre latitudini si trovano il banikdegli esquimesi, una focaccia lievitata condita con grasso

di foca, o l'hannock degli scozzesi.Ma si può affermare che questi pani siano i progenitoridell'attuale pizza? C'è chi sostiene con uguale ragioneche siano invece i padri della pastasciutta, e citano i testa­roli lunigiani, larghi dischi di pasta di pane stesa sui testi(dal latino testum, coccio), tagliati quindi in forma di ta­gliatelle, cotti in acqua bollente e conditi con olio profu­mato e formaggio. Che cosa allora distingue la vera pizzadalla pletora di pani, paste e focacce che si incontrano inogni angolo dell'universo gastronomico?Solo tre caratteristiche, fondamentali. La pizza deve esse­re di pasta lievitata. Deve essere condita solo sulla super­ficie e non nell'impasto. Deve essere cotta con tempi rapi­dissimi in un forno di temperatura molto elevata, megliose con fuoco di trucioli e fascine di legna.Fatte queste premesse, è inevitabile che ci si limiti a rac­contare esclusivamente la storia di una pizza: la napoleta­na, l'unica ad avere conquistato il mondo intero.

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NEL SEGNO DI CERERE

"La pizza nacque a Eleusi" proclamò nel 1967 dalle pa­gine del Rievocatore, periodico di cultura partenopea, Mi­chele D'Avino, grecista e latinista di Portici. A Eleusi i gre­ci celebravano Demetra, la Cerere dei romani, dea dellemessi e del raccolto, simbolo di fecondità per la terra eprincipio di vita per gli uomini.Secondo il mito, Demetra giunse a Eleusi folle di dispera­zione per il rapimento della figlia Persefone andata insposa al dio degli Inferi. Il silenzioso lutto della GrandeMadre portò sulla terra carestia, morte, siccità. Zeus le re­stituì allora la figlia per sei mesi all'anno. E da allora, ognianno, in primavera, con il ritorno di Persefone, torna la vi­ta sulla terra.Nel tempio di Eleusi i greci rivivevano con riti segreti e ini­ziatici il ciclo della morte e della rigenerazione: erano iMi­steri di Demetra, cui potevano accedere solo gli iniziati edi cui mai nessuno osò rivelare gli arcani.Ma il professor D'Avino non si arrende di fronte a questomuro di silenzio. Riferendosi a una lapide ritrovata nelmonastero di Santa Maria Egiziaca a Forcella, dove si no­mina una Tettia Casta Sacerdotessa di Cerere che offrealla dea "farina con acqua e frangente puleggio", tira lasua conclusione, lapalissiana: farina con acqua è la pastaper pizza, puleggio è il basilico: ecco la prima ricetta origi­nale. Non tutti apprezzano l'entusiasmo del professorepartenopeo; molti però ne condividono l'impegno neltrovare ascendenze auliche alla pizza."A Pompei in Via dell'Abbondanza", scrive Roberto Mi­nervini, "qualche bottega richiama al ricordo le nostre an­tiche e caratteristiche pizzerie con mensolette di pietra egradinate per deporvi, tra l'altro, le scodelle del cacio e lacuccuma dell'olio, alias 'o pizzo'e ll'uoglio"'. A sua volta,l'archeologo Amedeo Maiuri non ha esitato a battezzareuna statuetta pompeiana del Museo Nazionale di Napoli"il pizz i I "p r il LI P rti I r t1' i m nt . N n

PERSEFONE E IL DIO DEGLI INFERI; BASSORILIEVO DA LOCRI.REGGIO CALABRIA, MUSEO NAZIONALE.

da escludere che in queste attribuzioni i due studiosi sisiano fatti influenzare dal fatto di trovarsi in quella chenel corso dei secoli sarebbe diventata la patria della pizza.C'è allora chi, per cercare di stabilire le vere origini dellapizza napoletana, si affida all'imparzialità dell' etimologia.Gaetano Valeriani, divulgatore di antichi usi e costuminapoletani, propende per un'origine ellenica e si riferisceal vocabolo greco pitta, che significa schiacciata o focac­cia. Il dizionario del Galiani fa derivare pizza dal latino pi­stus, matterello per spianare, mentre D'Avino imboccaun t rz trad p r Il r I pizz Im nd I iI V dil ri li izz<1 (l N,1P ,Iì (' I ( 111/) 'i V 'nìv( Il hi nlt li

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placentari. Dal termine greco plax deriva il termine pla­centa, che significa superficie piana, schiacciata. Placen­tari, è la tesi del D'Avino, non potevano certamente esse­re, nell'antichità, i venditori di pane, che come mostranole teche di Pompei e del Museo di Napoli si presentava in­vece alto e tozzo: erano dunque, già nel mondo classico, ivenditori di pizza.Divagazioni cervellotiche. Per Alberto Cunsolo, siciliano,la pizza non ha nulla a che vedere con romani, greci ocampani: sono gli arabi a importarla nel Meridione. Ciòspiegherebbe il primitivo modo di prepararla, intridendola farina soltanto di acqua, senza alcun grasso, che è lamaniera tipica dei nomadi di approntare le focacce.Il nome, poi, non avrebbe valenze elleniche né latine, masolo un'umile origine onomatopeica. Pits farebbe la pizzanel momento in cui viene staccata dalla spianatoia, e pit­

ta gli arabi chiamano il loro pane tondo e piatto. Da pits apizza il passo, foneticamente parlando, è breve ma nonconvincente, se è vero che c'è chi non accetta neppureuna lontana parentela tra la pizza e il pane del nomadearabo.G. Princi Braccini sembra aver trovato la spiegazione de­finitiva. Nell'articolo Etimo germanico e itinerario italianodi Pizza apparso negli Archivi di Glottologia Italiani so­stiene che pizza non sia altro che "l'equivalente nel ger­manico d'Italia (gotico e/o longobardico) dell'antico altotedesco blzzo-plzzo (tedesco moderno Bissen) documen­tato nelle accezioni di 'morso', 'boccone', 'pezzo', 'pezzodi pane', 'forma di pane', 'focaccia"'.

Dove nasceForse queste ipotesi fantasiose nascondono una verità eun messaggio: è inutile ricercare per quali vie la pizza siaarrivata a Napoli, se attraverso etruschi, latini, greci, arabio tedeschi. Resta il fatto che a Napoli ha trovato il terrenodove fiorire e offrirsi a una tradizione di alimenti poverima essenziali, da consumare di vicolo in vicolo.

E tengo caure, caure e pizze!E tengo c' '0 fungetiello e cu' 'alice!E bide sòreta che dice!Sòreta dice: E magnatela 'a pizzac'o fungetiello e alice!

!

Così gridavano fino a non molti anni fa i pizzaioli ambu­lanti su e giù per le strade intorno al porto, contribuendoa fare della pizza la Signora di Napoli, interprete dei desi­deri più saporiti di guaglioni e lazzaroni.I lazzaroni, dallo spagnolo ldzaro, cencioso, povero comeSan Lazzaro, non erano semplicemente lumpen Proleta­riat: oltre alla miseria avevano uno stile di vita e una filo­sofia che sconcertavano e affascinavano gli osservatoristranieri. "Certo non si può dire che lavorino con l'impe­gno di un taglialegna tedesco. Ma perché dovrebbero far­lo?", si domandava l'onesto Carl August Mayer, figlioesemplare delle calviniste e laboriose contrade nordiche:"gli abiti sono sufficienti dato il clima; il letto, sia esso ungradino o una panca, li soddisfa; gli scarsi guadagni ba­stano loro non solo per nutrirsi, perché sono sobri e nonbevono, ma anche per divertirsi entro limiti molto mode­sti", il che consisteva principalmente nel consumare spa­ghetti e pizze. "È vero, infatti", scrive Matilde Serao nelVentre di Napoli: "la pizza rientra nella larga categoriadei commestibili che costano un soldo, e di cui è formatala colazione, o il pranzo, di moltissima parte del popolonapoletano".Sessantamila lazzaroni che giornalmente divoravanopizza e spaghetti costituivano una solida base per !'indu­stria locale e una enorme attrattiva turistica per iviaggia­tori dell'Ottocento, che ritornavano a Londra, Parigi eMonaco portando !'immagine del maccheronaro, del la­druncolo, del pizzaiuolo, personaggi esclusivamente na­poletani.Fino a non molto tempo fa, infatti, pizzaiuolo era un ter­mine dialettale. "Salvatore di Giacomo", scriveva nel1961 E. Renuzzi in Una lingua per gli italiani, "lo mettevain corsivo e usava la forma 'pizzaria', alla napoletana". Dapochi decenni pizza e pizzaiuoli sono diventati universali.A farli conoscere al mondo, insieme agli spaghetti, fu unaltro protagonista, che con buona pace di filologi, etnolo­gi, professori e sabotatori fu, questo sì, "inventato" a Na­poli: il pomodoro.

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QUANDO SI TINGE DI ROSSO

Quando giunse dalle Americhe in Europa, nel XVI se­colo, il pomodoro non ebbe certo accoglienze trionfali.Era sospettato di legami pericolosi. Membro della pocosimpatica famiglia botanica delle solanacee, visse permolto tempo imbarazzato dalla cattiva nomea dei suoivelenosi parenti: tabacco, mandragola e belladonna. Lastessa sorte avevano subIto le altre solanacee.La forma selvatica della melanzana, infatti, per la sua so­miglianza con la mandragola aveva già indotto gli studio­si a chiamarla mala insana. A sua volta la patata, ancoranel Settecento, veniva considerata adatta solo a "un gu­sto crudo e uno stomaco di cuoio"; mentre il peperoneera sdegnosamente relegato al ruolo infimo e negletto di"rustico volgar cibo".Il pomodoro, significativamente, era stato chiamato daibotanici Lycopersicum, "pesca da lupi", portatore di vele­no e infamia, e ancora nel 1585, quando venne pubblica­to a Roma l'Herbario del Durante, viene descritto con di­stratta approssimazione come "una specie di melanza­na". I testi di cucina del Cinquecento e del Seicento nonlo nominano e fu solo nel Settecento che gli studiosi ag­giunsero al selvaggio Lycopersicum l'aggettivo più inno­cente e casalingo di escu/endum, mangereccio.Fin allora, per secoli, sulle tavole dei potenti le vivande ve­nivano servite con salse e condimenti a base di cannella,zucchero, diluvi di pepe, zenzero, ginepro, zafferano, ga­rofano, noce moscata, aglio, aceto, mostarda di fruttacombinati in modo tale da rendere difficilmente definibileil confine tra il dolce e il salato.Carni arrostite, torte, pasticci venivano associati ai saporipiù eterogenei e presentati con decorazioni, trofei e dora­ture che dimostravano come valesse più la quantità diaromi e spezie introdotta in un piatto che non il loro ma­trimonio.Faticosamente il Medioevo ebbe fine anche in cucina. Si

recuperarono i sapori naturali accostando con più accu­ratezza gli alimenti. La gastronomia iniziò a essere consi­derata come una scienza vicina alla chimica, dove il mi­scuglio non è la vera combinazione. Il dolce e il salato sisepararono, le spezie vennero usate con maggior crite­rio, i piatti si semplificarono, anche se per i più la basedell'alimentazione restò sempre la stessa: pochi cerealiaccostati a poche verdure.Cominciarono a essere ricordati con orrore" icibi solidi eduri, i condimenti grossolani, l'unione di cose ripugnantie strane, le bizzarie non ordinarie di cervello" (dalla prefa­zione al Cuoco Galante, 1773) che avevano costituito lacucina del passato. Si capì finalmente che l'arte non con­siste nel far violenza alla natura delle cose snaturandole,ma anzi nel farla signoreggiare associandola a compa­gnie convenienti. La forza distruttrice delle spezied'Oriente venne dosata e sostituita da nuovi frutti capacidi modificare, conciliare, associare, legare naturalmente isapori.Il Cuoco Galante di Vincenzo Corrado, edito a Napoli,così recita: "I pomi d'oro sono di piacere. Per servirli biso­gna prima rotolarli sulle braci o per poco metterli nell'ac­qua bollente per toglierii la pelle. Se li tolgano i semi o di­videndoli per metà, oppure facendoli una buca". Dopo diche vengono consigliati farciti al vitello, al burro o alle er­bette, al riso o alla corradina, al pesce, alla salsa di tartufi,in crocchette, in frittelle, in budino o alla napoletana. Maquest'ultima non è, come si sarebbe portati a pensare, laricetta della "pommarola", bensì una variante di pomodo­ri al forno.Il pomodoro sta iniziando la sua ascesa ma non è consi­derato il condimento dominante, se è vero che, ancoranel 1835, Alessandro Dumas scrive nel suo Curricolo:"La pizza è all'olio, al lardo, alla sugna, al formaggio, alpomodoro, ai pesciolini". Vent'anni dopo, in Usi e Costu­mi di Napoli e Contorni del De Boucard, si confermeran­no le impressioni del romanziere gastronomo: "Le pizzepiù ordinarie, dette con l'aglio e con l'olio, hanno per con­dimento l'olio, e sopra vi si sparge oltre il sale, l'origano espicchi d'aglio tritati minutamente, sopra qualche fogliadi basilico. Alle prime spesso si aggiunge del pesce minu­to, alle seconde delle sottili fette di mozzarella. Talvolta si

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fa uso di prosciutto affettato, di pomodoro, di arselle, ec­cetera. Talora, ripiegando la pasta su di se stessa, se neforma quel che chiamasi calzone".Fu tardi, solo alla fine dell'Ottocento che ilpomodoro en­trò a dominare trionfalmente sul tricolore gastronomico.Lo dimostra l'Artusi (1891) quando cita l'aneddoto di quelprete di una città di Romagna che cacciava il naso dap­pertutto volendo mettere lo zampino in ogni affare do­mestico delle famiglie: "era, d'altra parte, un onest'uomo,e poiché dal suo zelo scaturiva più bene che male, lo la-

sciavano fare; ma il popolo arguto lo aveva battezzatoDon Pomodoro, per indicare che i pomodori entrano pertutto; quindi una buona salsa di questo frutto sarà per lacucina un aiuto pregevole".Non si sa chi per primo avesse sposato la pizza con il po­modoro: come spesso nei matrimoni d'amore, tutto av­venne alla chetichella, senza un grande cuoco che cele­brasse il rito né un illustre studioso che ne promuovessel'incontro.A poco a poco esenza dare nell'occhio, si iniziò ad asso­ciare il pomodoro a paste e pizze finché un giorno qual­cuno cominciò a chiedersi perché mai ilpomodoro appa­risse trionfante in ogni cucina. Le supposizioni più variefurono azzardate senza risparmio, le teorie più elaboratefurono avanzate dai ricercatori più agguerriti, ma la spie­gazione più bizzarra venne data dal chiarissimo profes­sor Rognoni che, nella Coltivazione del pomodoro nellaprovincia di Parma, fece. luce su un particolare fin allorasfuggito alla considerazione di tutti, e cioè che ilpomodo­ro per la sua peculiarità di dare lavoro da aprile a settem­bre a donne, vecchi e fanciulli, un lavoro - precisa lo stu­dioso - che si può dire continuo ma non faticoso, va esal­tato per le sue "benemerenze" morali e sociali. Se a que­sta commendevole spiegazione aggiungiamo il motto diBrillat-Savarin, uno dei più grandi luminari della gastro­nomia, "la scoperta di un nuovo piatto rende più felice ilgenere umano della scoperta di una n\)ova stella", allorail pomodoro merita l'apoteosi. Perché grazie a esso dipiatti ne furono scoperti non uno ma migliaia: basti pertutti la pizza Margherita.

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UN PIATTO DA RE

Tebe dalle sette porte chi la costruì?Ci sono i nomi dei re dentro i libri.Sono stati i re a strascicarliquei blocchi di pietra?

Forse è lecito applicare iversi di Bertolt Brecht anche aquel capolavoro di gastronomia anonima e popolare cheè la pizza. Fu urhe a introdurre la pizza sui tavoli dei cetielevati; fu un altro re a consacrarne il prestigio; e fu unaregina a regalare ilproprio nome alla più celebre di tuttele pizze, la Margherita.Quando entrò nei palazzi reali, la pizza a Napoli esistevada tempo. "Era - come si racconta in Usi e costumi di Na­poli e Contorni del De Boucard - ilsecondo piatto nazio­nale di Partenope", il primo essendo gli spaghetti. Questisi mangiavano nei giorni di festa, mentre la pizza era ilpiatto di tutti i giorni, un piatto unico, totale, che aveva altempo stesso la monotonia dei cibi essenziali e l'inesauri­bile varietà di sapori e combinazioni che la fantasia popo­lare riusciva a conferirgli.Ecco la storia della sua ascesa al trono, così come gli scar­ni frammenti delle cronache ci permettono di ricostruirla.Si narra che nel 1762 Ferdinando di Borbone, sovrano aNapoli dal 1751 al 1825, avesse violato le regole dell'eti­chetta entrando inaspettatamente nella pizzeria di Anto­nio Testa, detto 'Ntuono, che aveva bottega alla salitaSanta Teresa. Volle assaggiare le diverse varietà di quelpiatto che tanto piaceva al suo popolo, e poco dopo, tor­nato a corte, lo descrisse con ispirate parole. La notizia sidiffuse fulmineamente in tutta la città: il re si era degnatodi entrare in una delle più umili botteghe di Napoli. Moltinobiluomini e nobildonne si affrettarono a imitarlo e fucosì che la bottega di AntonioTesta divenne un locale al­la moda. 'Ntuono sgombrò i lazzaroni delle pizze da ducentesimi per accogliere i gran signori. Ma la regin , M .

LA REGINA MARGHERITA DI SAVOIA,ALLA QUALE È STATA DEDICATA

LA PIZZA PiÙ RICHIESTA,LA MARGHERITA.

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ria Carolina d'Asburgo, non condivideva il generale entu­siasmo e mai permise che nella reggia entrassero piattiplebei. Ferdinando di Borbone si piegò al volere dellaconsorte, adattandosi a frequentare le taverne per potermangiare la pizza.L'insicurezza del suo carattere, confermata da questoepisodio, è stata fotografata nella storia dall'incertezzadel suo nome. Ferdinando è infatti citato nelle cronachecome Ferdinando I in qualità di re delle Due Sicilie, Ferdi­nando IV in qualità di re di Napoli e Ferdinando IIIin qua­lità di re di Sicilia: tale garbuglio rende perdonabile laconfusione sulla sua precisa attribuzione numerica in cuimolti autori incorrono.Ilsuo successore, Ferdinando II,non ebbe invece alcun ri­tegno nel manifestare la predilezione per i piatti del suopopolo. "A Ferdinando II, napoletano in tutto - narra ilDe Cesare nella Fine di un regno - piacevano quei cibigrossolani dei quali i napoletani sono ghiotti: il baccalà, ilsoffritto, la mozzarella, le pizze e i vermicelli al pomodo­ro". Al contrario del suo predecessore, piuttosto che ri­nunciare alle proprie propensioni costrinse gli altri adadattarvisi. Iniziò con i vermicelli.A quel tempo gli operai napoletani, per formare l'impa­sto degli spaghetti, pestavano con i piedi la semola e l'ac­qua. Il re, mal sopportando che i vermicelli si preparasse­ro con i piedi e si mangiassero con le mani, convocò ilsuoconsigliere Gennaro Spadaccini, Cavaliere dell'OrdineCostantiniano di San Giorgio, e gli affidò due compiti de­licati: inventare un modo più igienico per fabbricare spa­ghetti e un modo più adeguato alle bocche reali per man­giarli.Dopo lunghe ricerche lo Spadaccini riuscì a presentareal sovrano un "onesto progetto per un novello e grandestabilimento di pasta con l'uomo di bronzo, per toglierel'uso abominevole di impastare con i piedi". Dopo l'entu­siasmo iniziale i fondi della cassa reale si esaurirono: l'uo­mo di bronzo rimase fermo e gli operai napoletani conti­nuarono fino agli albori del Novecento a servirsi dei piediper fare la pasta.Il secondo compito venne invece risolto brillantemente.Molti sostengono infatti che fu Spadaccini a inv nt r Imoderna forchetta a quattro punt, p di ff rr r

gli imprendibili vermicelli al sugo in quanto più corta edagguerrita della forchetta allora in voga, a tre punte lun­ghe e affilate, che si usava per servirsi delle carni.Per la pizza le difficoltà furono infinitamente minori. Nel1832 Ferdinando II fece costruire a Domenico Testa, fi­glio del grande 'Ntuono, un forno per pizze nel parco del­la reggia di Capodimonte, accanto ai magnifici forni co­struiti dagli Asburgo per la cottura delle ceramiche. Da al­lora nei giardini di Caserta si potè mangiare con le manila "volgare pietanza", piegata in quattro come facevano ilazzaroni, giacché, a differenza degli spaghetti, per la piz­za la forchetta non venne mai definita d'obbligo.Con l'awento dell'unità d'Italia la benevolenza reale per ipizzaioli non subì flessioni.Quando Umberto I e la regina Margherita, in visita a Na­poli, mandarono a chiamare il pizzaiolo Raffaele Esposi­to, detto Naso 'e cane, non erano motivati unicamente daragioni gastronomiche. Prestandosi a gustare i prodottitipici dei napoletani, i sovrani venuti dal nord avrebberocertamente registrato una impennata nei loro indici digradimento presso la popolazione.Don Raffaele non stette a soppesare ragioni di opportu­nità politica, subito saltò sul calesse e corse alla reggiacon la moglie R6sina Brandi. La regina assaggiò le variepizze preparate da don Raffaele e, dichiarando di apprez­zare soprattutto quella guarnita con la mozzarella, diedeordine di mandargli una lettera sormontata dallo stem­ma sabaudo: "Casa di Sua Maestà - Ispezione Ufficio diBocca - Capodimonte, Il Giugno 1889. PregiatissimoSignor Raffaele Esposito, Napoli. Le confermo che le trequalità di pizze da Lei confezionate per Sua Maestà le Re­gina vennero trovate buonissime. Mi creda di Lei devotis­simo Galli Camillo, Capo dei Servizi di Tavola della RealCasa."

Queste tre righe di riconoscimento entusiasmarono ilpiz­zaiolo, che da quel giorno dedicò la sua pizza con la moz­zarella alla regina, chiamandola Margherita.Le altre due pizze, sugna formaggio e basilico l'una, aglioolio e pomodoro l'altra, non entrarono nella storia se nonin qu Il ign t h f mi i t lli I n tr viv r qu ­j'ili n ,ildi I )n (bllel(~"'lll ,Il uii~l(nli r l' ni l'i!10"()tH) f.1I Il,,,lIltlll' 11 «(ll()h' d(,II(, I()to IiIIPI(',,(',

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PIZZAIOLI E PIZZERIE

Chieiarsela a libretto: letteralmente "piegarsela a li­bretto", in senso traslato "sopportare e svignarsela".L'espressione avrebbe avuto origine ai tempi della domi­nazione spagnola a Napoli. I soldati spagnoli che stazio­navano presso la Taverna del Cerriglio difficilmente re­stavano indifferenti di fronte alle profumate seduzionidelle pizze sfornate in quel locale. Ma l'indulgenza allagola comportava un rischio: ai napoletani non piacevanoquegli sbirri sempre affaccendati a riscuotere tasse o am­manettare onorati professionisti dell'arte di arrangiarsi.Per conciliare le esigenze del palato con quelle della so­pravvivenza gli spagnoli introdussero il costume di man­giare velocemente la pizza in piedi, piegata come un li­bro, con un occhio attento a schivare la traditrice coltella­ta alla schiena.Si era nel XVII secolo, e questo frammento di cronaca ciassicura che a quel tempo la pizza veniva ancora prepa­rata nelle taverne. Solo con il trascorrere degli anni e l'au­mento di popolarità della pizza si crearono i locali esclusi­vamente dediti alla sua preparazione.Qualcuno insiste nel voler dimostrare che autentiche piz­zerie esistevano già al tempo dei romani, ma sono forza­ture volute per confermare l'inconfutabilità dell'originenapoletana della pizza. Forse è più saggio sostenere chele pizzerie, come la pizza, non abbiano una precisa datadi nascita e che piuttosto siano cresciute sul secolare al­bero delle osterie e delle taverne finendo con inglobarle etrasformarle.Vincenzo Rovi, studioso di cose napoletane, afferma chela più antica pizzeria sia quella di Zi' Ciccia, creata agli ini­zi del Settecento nello slargo che si chiamò poi piazzaCavour. C'è chi indica in Antonio Testa il fondatore,nell'Ottocento, della prima pizzeria alla salita di Santa Te­resa al Museo, e chi invece individua nel locale di Port'AI­ba il prototipo di tutte le pizzerie che ai primi dell'Otto-

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cento proliferarono nel triangolo compreso tra piazzaCavour, il Conservatorio e quella lunga via che taglia Na­poli a metà meritandosi il nome di Spaccanapoli.Certo è che nella prima metà dell'Ottocento le pizzerie,intese come locali autonomi che servono soprattutto piz­ze, erano molte diffuse e già erano entrate a far parte delcostume locale. Nel romanzo Ciccia, ilpizzaiolo di BorgoLoreto di Francesco Mastriani, pubblicato nel 1886 maambientato nella Napoli di cinquant'anni prima, si rive-

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lano le astuzie dei nuovi ristoratori: "Il pizzaiolo è tuttooccupato a battere e spalmare pasta, facendo quel rumo­re che è proprio dei pizzaioli e che essi rendono il più so­noro che possono per mostrare che il loro locale è fre­quentato da mane a sera e che la pasta non riposa unistante sul bancone".La leggenda tramanda i nomi dei grandi maestri: Pappo­ne, Gigino acino 'e pepe, Vicienzo '0 pacchiano, Raffaelemachiulel/a, Ciccillo '0 pazzariel/o. E, come in tutte le epo­pee, si ricordano le grandi famiglie: i Condurro, i Testa, iBrandi, i Pace, che ebbero in Ciro un audace innovatore.A lui viene concordemente attribuita l'invenzione della

pizza giardinetta o a quattro strati, più conosciuta comela quattro stagioni.Per quei tempi fu un'invenzione geniale: permetteva diconciliare i diversi gusti di una famiglia che difficilmentesi poteva permettere di acquistare più di una pizza.

P'otto solde solamentese pòffa' 'e quattro manere!Pe' 'na mamma è nu piacere;quando 'a sparte, fa accusÌ:'A nennel/a cu' 'a pummarola'0 nennillo cu '0 ceceniel/o'0 cchiù gruosso cu 'o funcetiel/ol/'atu riesto s' 'o vede mammà.

In tempi viziati dall'abbondanza i versi entusiastici di Gio­vanni Capurro possono far sorridere. Non così a Napoli,dove per decenni la pizza fu, come scrive Mario Stefanile,"cibo per poveri, pietanza per frettolosi, alimento per va­gabondi; vivanda da piegarsi in quattro appena uscitacaldissima e fumante da un fiammeggiante forno di arbu­sti e da mangiare così, magari in piedi e magari in un an­golo di strada, sotto gli occhi di tutti".Contraddizioni dell'economia della miseria. Chi ha la di­spensa stabilmente vuota non si mette neppure a cucina­re, gli mancano gli ingredienti essenziali: olio, farina, sale.Soprawive giorno per giorno aggrappandosi alla zatteradi salvezza di un cibo già pronto e a poco prezzo in cuispende ipochi spiccioli racimolati a stento dopo una gior­nata trascorsa a "faticare".

Dalle pizzerie stabili una rete di venditori ambulanti rag­giungevano gli angoli più oscuri dei vicoliper offrire a tut­ti la possibilità di garantirsi il pasto quotidiano."Il pizzaiolo che ha bottega" racconta Matilde Serao nelVentre di Napoli, "nella notte fa un gran numero di que­ste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si bruciama non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, diaglio, di pepe, di origano: queste pizze in tanti settori daun soldo, sono affidate a un garzone, che le va a venderein qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulan­te e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizzache si gelano al freddo, che si ingialliscono al sole, man­giati dalle mosche. Vi sono anche delle fette di due cente­simi, pei bimbi che vanno a scuola; quando la prowigio­ne è finita, il pizzaiuolo la rifornisce, sino a notte. Vi sonoanche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa ungrande scudo convesso di stagno, entro cui stanno que­ste fette di pizza e girano pei vicoli e danno un grido spe­ciale, dicendo che la pizza l'hanno col pomidoro e conl'aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le poveredonne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e ce­nano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza."

Cheste songo 'e sotto 'o Vesuvio!Ne' 'è scurrita 'à lava 'e ll'uoglio!

V'aggio fatto 'e pastiere! Ches~~ so'meglie 'chel/e d'ajere! Se l'ha magnatapure 'o cavaliere!

'A tengo càvera e chien'alice 'a pizza!Brioscia! Brioscia! Mozzeca 'mponta!Na bbona marenna! Magnateve 'a brioscia!

Erano le "voci" napoletane, "la tenera malinconia del ve­spro, la tristezza della notte, la letizia del solleone, la cate­na di piccole cose da sistemare fra ora e ora della propriagiornata", scrive Mario Stefanile. "Una 'voce' gentile divenditore s'alternava a una 'voce' scialata altissima erombante che la seguiva: e Napoli viveva al di là della bar­riera del silenzio, aperta in un suo linguaggio elementaree immediato che diventava canto, si faceva poesia e dolo-

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re, speranza, amore e incantesimo. Napoli visse delle 'vo­ci' dei suoi venditori fin che credette alla logica metafisicadella vita, alla forza del simbolo, dell'allusione, fin che mu­tava in metafore canore i suoi sentimenti e i suoi istinti, ilgioco difficiledi vivere da gran signori in una terra poverae avara".

Jammo, jà, acalate '0 panaro, ca 'e tengocàvere, càvere 'e pizze! Vullente! Vullente!So' cu' ll'uoglio e 'a pummarola!'E tengo pure cu' 'e cecenielle! Magnate!

Così gridava Vicienzo '0 pacchiano, uno dei venditori piùpopolari, fermo all'imbocco del vicolo dopo aver attrattotutte le donne alle finestre con il suono spiritato della suaocarina. Spesso, anziché vullente (bollenti) le pizze eranogelide. In quei casi c'era uno sconto: per un soldo si dava'a mamma e 'a figlia, una fetta grande con l'aggiunta diuna fettina più sottile.Le pizze seguivano, come i titoli in borsa, le fluttuazionidel mercato. Se la pizza 'a cecenielli (minuscole alici)scendeva di prezzo era segno che la pesca era stata ab­bondante; quando la pizza all'olio costava un grano, vole­va dire che il raccolto delle olive non era stato esuberante.A chi non possedeva neppure la modesta somma neces­saria per assicurarsi la pizza venivano concesse varie for­me di credito. Ad esempio si faceva credito fino al giornodell'uscita dei numeri del lotto, nella in'~onsulta speranzache qualcuno del quartiere vincesse per poter pagare lapizza a tutti. Oppure, in attesa della paga settimanale, sidava la pizza 'ogge a otto, cioè la pizza che viene mangia­ta oggi (non, come scrisse Alessandro Dumas, preparataotto giorni prima) e pagata fra una settimana segnandosu un libretto bisunto il nome dell'acquirente. Succedevache il napoletano ogni giorno l11angiava una pizza e ognigiorno ne pagava una, ma non pagava quella mangiatain giornata, bensì quella mangiata una settimana prima.Il debito diventava eterno e il pizzaiolo prosperava."Queste pizze", scrive Giuseppe Marotta, "gonfie di fon­dente ricotta e non prive di qualche truciolo di prosciutto,si pagano soltanto fra otto giorni. Rendetevi conto checiò stimola e incoraggia il consumatore. Molte cose pos-

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sono succedere in otto giorni, non esclusa la morte, sen­za eredi, dello stesso rosticciere; per questo e per altre ra­gioni, non dissociabili dal cielo e dalle pietre di Napoli,succede che stomachi di infima capacità per gli alimentipagati alla consegna risultino in grado di contenere unimpressionante numero di pizze dilazionate."Ormai la pizza ogge 'a otto è scomparsa, sia come formadi r dito, sia come specialità culinaria. Vero anello tra lapizza e il fritto misto, non c'è più nessuno che la propone

rimane solo nel ricordo di alcuni anziani awentori.

'e vuote tengo tanta nustalgiap' 'a pizza fritta, 'a pizza a ogge 'a otto.Cu dcole, ricotta e muzzarella- robba senza magagna -ndurata, quanno asceva d' 'a tiellaabbuffata, pareva na muntagna!

Nemmeno c'è più posto per il venditore ambulante. Dadecenni quell'ornino si è slacciato il grembiulone, ha con­finato tavolino, stufa, cestino, paletta e coltello in soffittaed è scomparso nella folla dei fantasmi del tempo.Sono rimaste le pizzerie. Ma anche queste hanno subìtol'inevitabile trasformazione degli anni. Una accurata de­scrizione delle pizzerie ottocentesche ci è stata lasciatada Emmanuele Rocco, filologo e memorialista, in Usi eCostumi di Napoli e Contorni del De Boucard, nel 1853."La bottega del pizzaiuolo si compone di un banco su cuisi manipolano le pizze, sormontato da una specie di scaf­fale ove sono in mostra i commestibili, e ingombro di vasicontenenti sale, formaggio grattugiato, origano, pezzettidi aglio ecc., di una serie altresì più o meno estesa di ca­merini nei quali si mangia e che spesso hanno l'accompa­gnamento di una camera superiore dove si sta con più li­bertà; e di un forno sempre acceso che mai non sazia labramosa bocca. Oltre alle pizze, vi si può mangiare tuttociò che può essere messo in una tegghia o in un tegame ecotto nel forno.

Ogni bottega ha i suoi posti avanzati, cioè dei venditori dipiccole pizze di un grano o di grosse pizze tagliate in piùpezzi sopra tavolini leggerissimi con cui cangiano agevol­mente di luogo. Il grido ordinario di costoro è nu ra e una

e meza (un grano un m zz) Imonotona cantilena del pizzaiuolo amiano: Na prùbbeca, na prùbbeca!I monelli o i fanciulli che vanno a bottega fanno colazio­ne colla pizza. Più tardi, a misura che le pizze si fannofredde, i pezzi si fanno più grandi per allettare il compra­tore. Poi il forno rimane quasi completamente in ozio fi­no alla sera, e si passa il tempo a intridere, a dimenare lapasta, a grattugiare formaggio, ad affettar muzzarelle, atagliuzzare agli, a soffregar fra le mani l'origano per to­glierne via gli steli, e mille altre operazioni preparatorie.Quindi s'incomincia a prowedere alle merende e alle ce­ne dei fattorini e degli operai. Nelle ore più tardi compari­scono dei plenipotenziari che hanno l'alta missione di or­dinar pizze da portarsi in casa, e contemporaneamentequalche allegra truppa viene ad occupare i luridi cameri­ni del pizzaiuolo."Oggi alle piastrelle bianche e ai tavoli con il ripiano inmarmo si sono sostituite le pareti coperte di calce viva e itavolini in formica. Le pizzerie dell'ultima generazione sirifanno a elaborati moduli liberty o ad architetture post­moderne. Sono soprawissuti invece i raduni chiassosi eun po' goliardici di chi vuole passare una serata senza in­toppi di etichetta e preoccupazioni di portafoglio. "La piz­zeria", affermaRossano Quiriconi, ideatore delle catenedi pizzerie Calafuria e Malastrana, "è un locale per tuttidove si trovano a proprio agio Berlusconi e Mimì metal­lurgico, il Conte della Rovere e il signo'r Rossi, impiegatodi concetto".I nuovi arredamenti, essenziali, non si rivolgono a un cetoparticolare, sono aperti sia verso l'interno sia versol'esterno e si traducono spesso in pareti a calce o con rive­stimento in legno grezzo, piastrelle colorate, ampie vetra­te che sottolineano e riprendono le tinte calde degli ingre­dienti base di una pizza: il giallo dell'olio, il rosso del po­modoro, il bianco della mozzarella, il verde del basilico.

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DA NAPOLI A TUITO IL MONDO

Scriveva n I1852 Carlo De Ferraris sulla rivista L'Om­nlbu Fitt r s o: "Un giorno le quindici provincie al diqu ,I tt al di là del Faro, gareggeranno nell'introdu­zi n d!le pizzerie e de' pizzaiuoli ambulanti, e Napoli

vrà la gloria di aver dato a tutto il Reame un piatto chenon può non far gola". Ancora a metà Ottocento la pizzaera dunque un fenomeno esclusivamente locale ristrettoa Napoli e ai suoi più immediati dintorni. "Vedi~mo concompiacenza" continua il cronista dell'Omnibus "comela pizza cominci a estendere il suo dominio anch~ fuori lemura della città, e il pizzaiuolo è già uno degli ornamentidei vicini paesi di Portici e Aversa."Quel che colpisce in queste righe è il contrasto tra la cer­tezza che la pizza sia una grande invenzione gastronomi­ca, vanto della cucina partenopea, e i1localismo delle pro­spettive, che rispecchia fedelmente le opinioni del tempo.Anche Matilde Sera o, infatti, nel Ventre di Napoli si di­chiara convinta che la pizza sia un fenomeno strettamen­te napoletano e racconta, a scopo paradigmatico, il falli­mento di un industiale napoletano che "un giorno, ebbeun'idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni cuci­narie napoletane, sapendo che la colonia napoletana inRoma è larghissima, pensò di aprire una piZzeria in Ro­ma. Il rame delle casseruole e dei ruoti vi luccicava; il for­no vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si trovavano: pizza alpomodoro, pizza con muzzarella e formaggio, pizza conalici e olio, pizza con olio, origano e aglio.Sulle prime la folla vi accorse; poi andò scemando. Lapizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una sto­natura e rappresentava una indigestione; il suo astro im­pallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in que­sta solennità romana."Oggi le cellule cerebrali del buon De Ferraris impazzireb­bero se potessero ascoltare le cifre attuali del consumo dipizza e sapessero che il termine pizzeria è la parola italia-

na più diffusa nel mondo. Solo negli Stati Uniti, la pizzamangiata ogni giorno potrebbe coprire un'area di trentaettari: tale superficie è stata calcolata in base a undici mi­liardi di porzioni l'anno, pari a un consumo medio pro ca­pite di dieci chilogrammi, un giro d'affari di due miliardi didollari e un ritmo di sviluppo più rapido di quello dell'in­dustria degli hamburgers.I francesi, i quali hanno progressivamente trasformato inpizzerie le brasseries di stile alsazianD che si erano molti­plicate tra le due guerre, contano oggi tremila pizzerie dicui settecento dislocate nella capitale mondiale della ga­stronomia.In Inghilterra, se parlate di pizza agli esperti britannici dicatering, vedrete i loro occhi illuminarsi. La pizza, in for­tissima espansione dal 1970, è infatti l'unico prodotto ingrado di opporsi alla colonizzazione degli hamburgers.Perfino le arcigne associazioni britanniche dei consuma­tori ammettono che il successo della pizza is a goodthing: in una delle recenti edizioni della Budget Good &Food Guide (Guida al buon cibo a buon mercato), una ca­tena di Pizza Houses denominata Pizza Express è riusci­ta a ottenere una menzione in cui si giudicano "eccellen­ti" i piatti serviti.I quali, molto lievitati e poco cotti, secondo la ricetta ame­ricana, vengono presentati al cliente offrendogli la sceltadella dimensione (piccola, media o grande), e del rivesti­mento (topping). Ogni topping (olive, capperi, peperoni,salame, wOrstel, sottaceti) costa circa 500 lire. Questo si­stema viene adottato dalle tre maggiori catene di pizze­rie, ognuna delle quali conta solo a Londra dai venti aitrenta locali accuratamente evitati dagli italiani. La Chi­cago Pizza Fadory, una catena americana, è specializza­ta in pizza "chicaghese": salsicce, peperoni, pasta moltolievitata, dimensioni enormi e prezzi altrettanto elevati, vi­cini a quelli delle rare pizzerie di stampo italiano, che so­no invece considerate locali chic, come il Pizza Pomodo­ro in Beauchamp PIace o il Pizza on the Park a Knight­bridge.Per il Giappone la scoperta della pizza è più recente: nel1984 una delegazione del Comune di Kobe è giunta a Mi­lano decisa a portarsi a casa, a qualsiasi prezzo, un auten­tico pizzaiolo italiano, mentre in Urss sono le cooperative

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