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L'ATTIVITÀ DEL PARLARE E LE TIPOLOGIE DI RELAZIONE IN AMBITO GIUDIZIARIOPROF. FRANCESCO ROSA

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Università Telematica Pegaso L'attività del parlare e le tipologie

di relazione in ambito giudiziario

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 I DISCORSI PROCESSUALI ----------------------------------------------------------------------------------------------- 3

2 IL PROCESSO PENALE E LA COMUNICAZIONE EFFICACE -------------------------------------------------- 7

BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 12

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1 I discorsi processuali

Anche durante la prima e la seconda fase processuale, i discorsi si manifestano come

tipologie di relazione, perché aderiscono ai meccanismi comunicativi, che consentono agli operatori

del diritto di tessere la trama dei significati con cui sorreggono la loro esistenza all’interno del

Giudizio penale. Anche in tale contesto strutturato si manifestano come procedure di costruzione e

di attivazione dei vari sistemi di segni, che si formano nelle interazioni sociali, verificabili

pubblicamente (Canestrari e Godino, 1997). L’attività del parlare, quindi, può essere descritta nei

suoi elementi costitutivi, rappresentati dagli “atti linguistici”, che per certi scopi può essere utile

rintracciare tra gli indizi internazionali legati alle proposizioni, ma, per altri, può essere utile

indicare tra le forme globali che essa assume, ossia dai vincoli derivanti dal suo rientrare in un certo

“genere discorsivo”. Così esprimersi con gli altri interlocutori del processo penale implica

impiegare pratiche analoghe a quelle dei “discorsi quotidiani” utilizzati in altri contesti,

rappresentando “il parlare” una attività adattabile a varie situazioni di interesse sociale. Anche

nelle fasi del Giudizio, d’altro canto, i soggetti chiamati ad esprimersi, secondo le previsioni

imposte dal codice di procedura penale, compiono un riconoscimento del genere discorsivo che gli

suggerisce la condotta verbale che, di volta in volta, gli conviene avere, valutando “che cosa dire”

e “come dire”. Essi, in altri termini, partecipano, in vario modo, agli “universi di discorso” che

permette loro di circoscrivere ciò che possono fare e intendere con gli altri appartenenti al mondo

giuridico. Atti linguistici e generi discorsivi poi sono attratti da una duplice pressione psicologica

che impegna la mente dei soggetti giuridici ad elaborare una versione degli eventi e a presentare

resoconti che cercano di farsi valere. Le principali procedure psicologiche che consentono la

composizione degli atti linguistici nella struttura di un genere discorsivo (cioè il reciproco

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adattamento “micro/macro”) sono il ”narrare” e “l’argomentare” (Canestrari e Godino1997). A

un livello intermedio di analisi, risulta come qualsiasi attività linguistica rappresenti un equilibrio

tra i due principali moduli espressivi del narrare e dell’argomentare. Inoltre, parlare è sempre un po’

“raccontare” (di sé) e insieme “ragionare”. In effetti, il modulo discorsivo della mente rende

operativi due “stili di pensiero”, cioè il parlare corrisponde a due modi di funzionare della mente. Il

testo argomentativo (adottato esemplarmente dalla logica scientifica) rivela un modo di “pensare–

parlare” che consiste fondamentalmente nel fornire dei dati a sostegno di una conclusione.

“Dichiarare”, “motivare”, “provare” e “giustificare” sono i principali atti richiesti dal Diritto in

questa fase alla pari di tutte le esigenze sociali di argomentare, cioè di accreditare un’opinione o un

atteggiamento. L’attività concreta del parlare in una aula di Tribunale identifica anche le parti

processuali come attori sociali (Canestrari e Godino,1997), sia perché è modellata all’interno di

particolari copioni culturali (rintracciabili attraverso i “generi discorsivi”), sia perché rende

trasparente l’“architettura dell’intersoggettività”, che li obbliga a spiegare agli altri e a se stessi per

quali significati è di volta in volta impegnato a giocare la sua professionalità. Durante le richieste

(definite tecnicamente eccezioni preliminari) quando le parti in causa parlano, esplicitando il

contenuto del loro argomentare, capita di accorgersi che il flusso dei suoni nella produzione delle

frasi non sempre è stabile ed uniforme. Infatti, proprio come un fiume può accelerare o rallentare la

sua corrente in base alla conformazione dell’alveo, così anche il ritmo dell’eloquio del Giudice e

delle altre parti processuali sembra a volte risentire del variare delle molte condizioni in cui viene

prodotto. Loro, d’altro canto, non si limitano ad eseguire i programmi motori che collegano il

canale fonatorio alle aree semantico – concettuali che intendono mettere in comune con altri,

essendo la loro mente impegnata in una serie di procedure tra loro connesse, quali l’individuazione

dello schema sintattico, la selezione delle unità lessicali, il monitoraggio della correttezza

grammaticale, la valutazione dell’adeguatezza contestuale, ecc. Di solito tutti questi processi si

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svolgono in modalità sincrona con il farsi del discorso, ma talvolta comportano un tale accumulo di

informazione da elaborare, sì da caratterizzare al “computer mentale” di porsi momentaneamente

“in pausa” o deviare in esitazioni. Le pause cui capita di assistere, guardando il Giudice , il

Pubblico Ministero e gli Avvocati, in questa fase, sono di vario tipo. Quando le interruzioni della

catena sonora sono percepibili come silenzio, abbiamo delle “pause vuote”, che durano un po’ più a

lungo delle altre e sono talvolta precedute da espressioni come: “una specie di…”, “come dire…”.

Infatti tendono a verificarsi prima delle parole più rilevanti nell’ambito di ciò che si sta dicendo, per

cui segnalano il processo di controllo che sul piano metacognitivo la mente del parlante attiva nelle

fasi decisive della comunicazione verbale. Le “pause piene”, invece, sono delle brevi interruzioni

nella catena fonematica, che vengono coperte da vocalizzazioni (“mhm”) o da segregati vocali

come piccoli sbadigli, “mugolii” ecc. Le “pause di giuntura”, infine, sono quegli attimi di silenzio

che si verificano allorché il parlante deve articolare insieme i sintagmi di una frase o le frasi

all’interno di un più vasto segmento testuale (Rosa, 2005). Da tale classificazione delle pause si

possono già ricavare le ragioni per cui il parlare stesso comporta qualche forma di esitazione.

Naturalmente, nel processo penale, essendo tutti i parlanti maggiormente esposti ai fenomeni di

esitazione, il rischio di un flusso discontinuo si fa più elevato, soprattutto per certe personalità. E’ il

caso, per esempio, di chi non ha facile accesso alle informazioni relative al tema di cui si sta

discutendo (come può accadere al Giudice cui il Pubblico Ministero non ha ancora fornito una certa

documentazione, idonea a garantirgli la consapevolezza sull’argomento in discussione), oppure

quando lo stesso giudicante elabora ciò che sta dicendo in condizioni di stress emozionale (a motivo

della delicatezza umana dell’argomento in discussione, quale potrebbe essere una violenza carnale

compiuta su incapace). Poiché l’attività cognitiva di pianificazione e di controllo del discorso si

svolge in parallelo su più piani, può accadere che essa richieda più tempo di quanto sarebbe

necessario per eseguire un certo progetto di frase. Ne deriva di conseguenza che, quando una

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qualunque parte nel giudizio esita nel parlare, sta implicitamente dichiarando di essere impegnato a

pensare come dire meglio. Altri ragguagli sui processi cognitivi degli attori di questa fase

processuale sono forniti dalla possibilità che questi hanno di incorrere in errori. Com’è noto, Freud

(1967-1980) inserì i “lapsus linguae” tra i possibili modi di manifestarsi dell’inconscio. L’ipotesi

degli psicologi cognitivi è meno suggestiva, ma appare più controllabile a livello empirico. Infatti,

se osserviamo il Giudice o il Pubblico Ministero e gli avvocati e la varia tipologia di errori che

normalmente commettono nel parlare, quali anticipazioni, posticipazioni, permutazioni (“Hai visto

lo spettacolo di Romeo e Giulieo?”), fusioni, ecc., è possibile valutare con che il lapsus rivela

l’incepparsi della corrispondenza tra pianificazione ed esecuzione del discorso. In tali casi, i

fenomeni di esitazione non raggiungono il livello della consapevolezza perché le loro risorse

attentive sono impegnate a fronteggiare il sovraccarico cognitivo o emotivo sperimentato nel

parlare. Tuttavia, c’è una situazione in cui il difensore o il pubblico ministero sono costretti a

prendere consapevolezza del fatto di esitare, cioè quando non riescono a dire una certa parola,

proprio quella che gli serve in quel momento per riferire tecnicamente al giudicante e che, per

giunta, ammettono di avere “sulla punta della lingua”. Eppure, in tale condizione, si dispone di

molte informazioni, sia di ordine fonetico che semantico, su quella parola. In genere, chi versa in

tale situazione sa con che suono inizia o finisce il termine che non gli sovviene, riesce a dire

qualche parola simile nel significato e può essere perfino capace di rilevare di quante sillabe è

composta. I suoi tentativi di pervenire alla parola bersaglio sfruttano strategicamente proprio questo

tipo di informazioni aggiuntive. In conclusione, i vari fenomeni di esitazione nel suo parlare

indicano come sia attivamente impegnato nelle pratiche discorsive (Canestrari-Godino, 1997).

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2 Il Processo penale e la comunicazione efficace

Risulta quindi importante in questo particolare momento del processo penale che la

comunicazione sia efficace ed, a tal fine, è necessario che risulti conforme a certe regole o

convenzioni di base. E’ così particolarmente importante che il parlante di questa fase, nel formulare

eccezioni, segua il principio di cooperazione, secondo il quale dovrebbe fare del suo meglio per

essere cooperativo con il destinatario delle medesime, attenendosi alle seguenti quattro massime in

cui si articola il principio stesso, al fine di garantirsi che la decisione del Giudice sia conforme a

giustizia:

1. massima di quantità, secondo la quale il parlante (difensore o Pubblico Ministero) dovrebbe

fornire la quantità di informazioni necessaria alla comprensione del Giudice, ma non di più;

2. massima di qualità, che prescrive di fornire al Giudice un contributo vero, evitando cioè di

dargli informazioni false o non sostenute da prove adeguate;

3. massima di relazione, che afferma che il parlante (quindi il difensore e il pubblico ministero)

dovrebbero fornire informazioni pertinenti, ossia congruenti con la comunicazione in corso;

4. massima di modo, che invita il difensore o il pubblico ministero ad esprimersi nel modo più

comprensibile possibile, evitando espressioni oscure, ambiguità, lungaggini e confusioni.

Per essere sicuri di rispettare la massima di quantità, diventa rilevante il fattore “contesto”.

Ad esempio, la parte offesa di un procedimento penale potrebbe dire “quello laggiù è il mio

aggressore” soltanto se c’è un solo uomo nella direzione indicata. Ma se ci sono tanti uomini, uno

vicino all’altro, sarà necessario specificare “quello con il maglione blu ed il pantalone nero è il mio

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aggressore” in modo da consentire al Giudice di identificare anche visivamente l’aggressore del

parlante, con precisione. Un altro fattore rilevante per la comprensione della massima di quantità è

il cosiddetto “terreno comune”, ossia la condivisione di conoscenze e credenze tra parlanti ed

ascoltatore. In generale due amici hanno un terreno comune molto più esteso di due persone che si

conoscono in maniera superficiale o di un avvocato e un giudice, che discutono solo del caso

giudiziario in esame nell’aula e non si incontrano mai fuori da tale contesto, per discutere di altro.

Infatti, se non è necessario con un amico in un salotto fornire tanti dettagli per essere capiti, essendo

peraltro superflui e non richiesti nella comunicazione informale, diversamente avviene in un’aula

penale, la cui comunicazione oltre ad essere tecnica e tra persone poste su due diversi piani di

rapporto ed, altresì, imposta dalle regole del codice di procedura penale. Inoltre, secondo esiste una

importante distinzione tra “informazioni date” e “informazioni nuove”. Le informazioni date sono

informazioni che il parlante assume siano già note all’ascoltatore, laddove le informazioni nuove

sono ritenute ignote all’ascoltatore. Spesso il difensore considera come “informazioni date” quelle

che riguardano le norme sostanziali o procedurali e “informazioni nuove” quelle che riguardano

alcune situazioni del fascicolo che, per esempio, possono riguardare il merito (i fatti) o comportare

specifiche nullità o previsioni giurisprudenziali, magari nuove e non riguardanti argomenti

ricorrenti in quella giurisdizione, o non eclatanti per l’opinione pubblica. I parlanti generalmente

cercano di conformarsi al contratto informazioni date-nuove. In una frase le informazioni date

generalmente precedono quelle nuove. La comprensione sarebbe stata più lenta se il contratto

informazioni date-nuove fosse stato violato. Di seguito è riportato un esempio di questa violazione:

• Massimiliano gradiva una videocamera per la sua laurea

• La videocamera è stato il regalo che gli è piaciuto di più

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Poiché l’ascoltatore non sa che Massimiliano ha avuto in regalo una videocamera dovrebbe

impiegare un po’ di tempo a capire la seconda frase. Come previsto, gli ascoltatori impiegarono più

tempo a capire la seconda frase rispetto a quando questa era preceduta da una frase che forniva tutte

le informazioni necessarie per comprendere il contesto (“A Massimiliano è stata regalata una

videocamera per la sua laurea”). Sono state proposte numerose teorie sulla produzione del

linguaggio parlato, tra cui quelle di, Dell (1986). In primo luogo, essa condivide l’assunto che i

parlanti pianifichino ciò che intendono dire prima di dirlo. I parlanti tendono a produrre circa sei

parole tra una pausa e l’altra (Canestrari e Godino, 1997) e ciò consente di inferire che la

pianificazione di ciò che verrà detto copra approssimativamente sei parole. Una seconda

caratteristica in comune tra la maggior parte delle teorie è la nozione secondo cui i processi di

produzione del linguaggio parlato procedano dal generare (il significato che il parlante intende

veicolare). In termini generali, i processi implicati nella produzione del linguaggio parlato operano

in direzione opposta a quelli implicati nella comprensione, poiché la comprensione inizia con il

messaggio fisico (visivo o uditivo) e procede verso la comprensione del suo significato. Una terza

caratteristica in comune è che esiste un ragionevole accordo sul numero e sulla natura dei processi

implicati nella produzione del linguaggio verbale. Quasi tutte le teorie assumono che esistano

almeno tre fasi di elaborazione, la prima delle quali riguarda il significato che il parlante intende

esprimere e la seconda la struttura grammaticale. Una terza caratteristica in comune è che la

maggior parte delle evidenze empiriche a sostegno delle varie teorie proviene dagli errori nel

linguaggio parlato. I tipi di errori compiuti dai parlanti possono dirci molto sui processi sottesi alla

produzione del linguaggio verbale. Secondo la teoria della diffusione dell’attivazione, gli errori nel

discorso hanno luogo quando un elemento non corretto è più attivato di uno corretto. Molti dei più

comuni errori del discorso possono essere previsti da tale teoria. Un esempio e ciò che è noto come

errore di anticipazione, nel quale una parola compare troppo precocemente in un enunciato (es.

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“Dovrei mettere la gabbia fuori dalla gabbia”). Gli errori di anticipazione hanno luogo perché

nella pianificazione della frase tutte le parole sono attivate ad un livello precoce, cosicché una

parola successiva può essere più attivata della parola che si sarebbe dovuta pronunciare. Gli errori

di anticipazione spesso diventano errori di scambio di parole, consistenti nell’inversione di due

parole in una frase (“devo far uscire la gabbia dal criceto”). Una delle ragioni per cui questi errori

si verificano è perché il livello di attivazione di una parola selezionata scende a zero. Nell’esempio,

l’uso prematuro della parola “gabbia” può impedire che il suo livello di attivazione torni ad essere

così elevato da consentire al termine di essere usato in modo appropriato alla fine della frase. Va

sottolineato che due parole implicate negli errori di scambio appartengono quasi sempre alla stessa

categoria grammaticale, ossia gli scambi tendono ad avvenire tra due nomi, due verbi, due aggettivi

ecc., ma non tra un nome e un avverbio, un verbo e un nome ecc. La teoria della diffusione

dell’attivazione è in grado di rendere conto di questo fenomeno in virtù del ruolo centrale attribuito

alle regole categoriali. Secondo questa teoria, l’elaborazione della struttura grammaticale e dei

morfemi, o unità basilari di significato, ha luogo a differenti livelli. Un supporto a questa visione è

stato fornito dagli errori di scambio di morfemi. Questi errori consistono nel fatto che sono

scambiati i morfemi di due parole differenti anche se i suffissi associati o l’inflessione rimangono al

loro posto. Un esempio di errore di scambio di morfemi è la frase “ella rosa le ame” (invece di ama

le rose).L’analisi degli errori nel discorso si è mostrata molto utile per mettere alla prova le teorie

della produzione del linguaggio verbale anche se non sono mancati i dubbi circa la validità di

questo approccio. Innanzitutto, la maggior parte delle raccolte di errori del discorso (Stemberger,

1982) sono basate su errori ascoltati dagli stessi ricercatori e non è da escludere l’ipotesi che essi

fossero più attenti a recepire certi tipi di errori piuttosto che altri. Se così fosse, si può attribuire una

scarsa validità alle frequenze relative delle varie categorie di errori. In seconda istanza, numerose

categorie di errori hanno luogo molto raramente nel discorso normale. In alcuni casi l’incidenza è

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approssimativamente di 1 su 10.000 e sembra poco saggio usare queste prove per corroborare o

confutare le teorie sulla produzione del linguaggio verbale. Infine, è opinione comune tra i

ricercatori che non si debba fare affidamento solo sugli errori del discorso per studiare la

produzione del linguaggio parlato. Come hanno affermato Levelt et al. (1991), “un approccio

basato esclusivamente sugli errori per…..studiare la produzione del linguaggio verbale è

inconcepibile così come un approccio alla percezione basato esclusivamente sulle illusioni”.

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di relazione in ambito giudiziario

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