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Oxford Library Oxford Library - Silvana Cincotti e Livio Secco – venerdì 24 aprile 2020 – N.5
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Non avere nulla nella tua casa
che non sai essere utile o credi essere bello.
William Morris è uno dei primi artisti ad essere
riconosciuto come designer. Siamo nell’Ottocento,
figura chiave nel movimento conosciuto come Arts &
Crafts, egli sostenne sempre il principio di produzione
artigianale nonostante l’entusiasmo e l’attenzione, in
epoca vittoriana, sul processo di produzione industriale.
Nacque a Walthamstow, nella zona est di Londra nel
1834 e il benessere economico della famiglia gli permise
un'infanzia privilegiata nonché un'eredità abbastanza
cospicua da permettergli di non avere bisogno di un
reddito. Il tempo trascorso ad esplorare i parchi, le
foreste e le chiese locali e l'entusiasmo per le storie di
Walter Scott, lo aiutarono a sviluppare una forte affinità
con il paesaggio, gli edifici e il romanticismo storico. Iniziò gli studi all'Università di Oxford e qui
incontrò alcuni amici che divennero fondamentali per la sua formazione artistica, tra cui Edward
Burne-Jones, che sarebbe diventato uno dei pittori più famosi dell'epoca.
Nel 1855, Morris e Burne-Jones intrapresero un tour architettonico nel nord della Francia,
comprendendo entrambi quanto fossero più attirati dall’architettura che dallo studio all’università.
Poco dopo, Morris iniziò a lavorare nell'ufficio di George Edmund Street, il principale architetto neo-
gotico dell'epoca ma lasciò l'ufficio di
Street dopo soli otto mesi, per iniziare
una carriera come artista. Il contatto con
Burne-Jones e con il celebre Dante
Gabriele Rossetti, portò presto a Morris
a maturare uno stile decorativo
personale.
Mentre lavorava a Oxford, ebbe
l'opportunità di conoscere Jane Burden,
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la figlia di uno stalliere locale. Disinteressato alle regole
sociali, Morris sposò Jane nel 1859 e la bellezza sorprendente
della donna, la pelle candida, la sua languida silhouette e la
folta chioma corvina, ne fecero un modello di bellezza
idealizzata dagli artisti dell’epoca per i successivi trent'anni.
Morris commissionò all'architetto Philip Webb, la
progettazione e la costruzione di una casa nelle campagne del
Kent; voleva realizzare una comunità artistica basata
sull'artigianato, un progetto di cui lui e Burne-Jones avevano a
lungo discusso. Il risultato fu la Red House, una proprietà che
sarebbe stata "medievale nello spirito" e in grado di ospitare
più di una famiglia. Morris e Jane si trasferirono nella Casa
Rossa nel 1860 e, scontenti di ciò che era in commercio, trascorsero i due anni successivi a arredare
e decorare gli interni con l'aiuto dei membri della loro cerchia artistica. Soprattutto iniziarono una
splendida produzione di tessuti ricamati a mano, creando l'atmosfera di un maniero storico. Spinti dal
successo dei loro sforzi e dall'esperienza di "gioia nel lavoro collettivo", Morris e i suoi amici decisero
nel 1861 di fondare una prima società di Studio di Interni, tra i primi nella storia del design. Sebbene
nei primi anni la compagnia non guadagnasse molto, vinse una serie di commissioni per decorare
chiese di nuova costruzione e divenne famosa per la creazione ed il restauro di vetrate. Nonostante il
desiderio di mantenere i laboratori nella Red House, le restrizioni pratiche di un piccolo laboratorio
rurale ne determinarono la chiusura. La Red House fu venduta nel 1865 e la famiglia tornò a Londra.
Alla fine del 1860, due prestigiose commissioni di decorazione contribuirono a stabilire la
reputazione del lavoro di Morris: una per una nuova sala da pranzo al South Kensington Museum
(che più tardi diventerà il celebre Victoria & Albert Museum) e
un'altra al St. James's Palace. Durante questo periodo, Morris
lavorò al progetto letterario The Earthly Paradise, un poema epico
con un messaggio anti-industriale e iniziò la produzione dei suoi
primi sfondi, i cui disegni erano ispirati ai giardini inglesi e alle
siepi. Per realizzarli riportò in vita antichi metodi di stampa e di
tintura e nel corso del decennio successivo continuò a progettarne
ad un ritmo impressionante, creando collezioni di tessuti stampati,
carte da parati, tappeti, moquette, ricami e arazzi. Con moderno
spirito imprenditoriale, tutto era acquistabile nel negozio che
Morris aprì a Oxford Street nel 1877, in uno spazio alla moda che
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offriva un nuovo tipo di esperienza di vendita, con
consulenti che potevano creare l’intero ambiente
di una casa. Nel 1881 Morris aveva accumulato
abbastanza capitale per comprare una fabbrica
tessile nel sud di Londra e ciò gli permise di riunire
tutti i workshop dell'azienda in un unico posto e di
avere un controllo più stretto sulla produzione.
Continuò il suo interesse per gli arazzi e negli
ultimi cinque anni della sua vita si dedicò alla
progettazione di un set di pannelli dedicato alla ricerca del Santo Graal. Negli ultimi anni della sua
vita si dedicò all’editoria, stampando e rilegando libri in stile medievale, disegnando caratteri, lettere
iniziali e bordi come un miniaturista medievale. La più famosa di queste edizioni venne pubblicata
nel 1896, pochi mesi prima della morte di Morris.
Piccolo e prezioso
Edo è il vecchio nome della città che oggi conosciamo come Tokyo. Siamo in una forbice temporale
compresa tra l’inizio del 1600 e la prima metà dell’Ottocento. In questo sofisticato centro urbano, in
cui gli uomini indossano abiti alla moda e accessori scelti con cura per dimostrare il loro status e stile
personale, il kimono è d’obbligo. Tuttavia questa veste, a forma di T, non prevede tasche. Potete
immaginare, soprattutto per un uomo d’affari, la limitazione: divenne allora ben presto abitudine
portare appesa alla fascia stretta in vita un sacchetto contenente beni personali, tra cui l’occorrente
per fumare. Dall’altra parte della fascia spuntava, come contrappeso per tenere ferma la borsetta di
tessuto, un piccolo ciondolo, che divenne un vero e proprio status symbol, piccole opere d’arte
finemente lavorate e cesellate: i netuske.
I netsuke (il cui significato è “bottone di legno”) erano utilizzati da tutte le classi sociali, soprattutto
dai commercianti che volevano dimostrare la loro ricchezza, proprio
come gli orologi e i gemelli rivelano nel mondo occidentale il gusto
sartoriale di chi li indossa. Questi monili erano disponibili in una varietà
di forme e materiali; legno, avorio, porcellana, argento e sono oggi di
alto valore collezionistico, apprezzati dai musei ed esposti in tutto il
mondo. I netsuke sono piccoli, possono variare dai quattro ai cinque
centimetri, vere e proprie sculture in miniatura: figure umane, fantasmi,
animali, scheletri, soggetti botanici e maschere. Sapientemente lavorati,
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questi oggetti forniscono una finestra sulla cultura e la vita quotidiana
giapponese. Non sono importanti solo i soggetti, ma come i soggetti
stessi sono trattati: quali abiti indossano i vari personaggi, quali arnesi
o strumenti sono talvolta raffigurati, Alcuni erano talmente tanto
preziosi da riportare la firma dell’artigiano che li aveva creati ed in
questo modo oggi gli studiosi possono ricostruire la presenza sul
territorio delle diverse botteghe d’arte. Quando il Giappone prese parte
all'Esposizione Mondiale di Parigi del 1867 e di Vienna del 1873, le arti
e i manufatti giapponesi divennero di gran moda e i netsuke assunsero
un ruolo principale. Era la stagione dell’Impressionismo e i quadri degli artisti, ricordiamo ad esempio
Van Gogh, si popolarono di motivi che guardavano al Sol Levante. I netsuke divennero presto oggetto
di collezione e le Case d’Asta li quotano oggi per un valore che può raggiungere anche i quattromila
dollari. Un vero e proprio piccolo tesoro.
Una delle collezioni più interessanti è quella posseduta da Edmund de Waal, storico dell’arte e
professore di ceramica alla Università di Westmister, in Inghilterra. Nel suo libro Un’eredità di avorio
e ambra (Bollati Boringhieri, 2011) racconta come queste 264 straordinarie sculture giapponesi, non
più grandi di una scatola di fiammiferi, siano finite in suo possesso. Oggi sono conservati all’interno
di una vetrina, i figli di de Waal possono giocare con questi minuscoli oggetti, come facevano, ha
scoperto l’autore, i piccoli figli di Viktor e Emmy von Ephrussi, suoi bisnonni, nella camera della
madre, in un fastoso palazzo viennese della Ringstrasse, un secolo prima. Prima che Hitler entrasse
in trionfo a Vienna e avessero inizio le persecuzioni e i saccheggi nelle case degli ebrei. Ebrei di
Odessa erano appunto gli Ephrussi, commercianti di cereali e poi banchieri ricchi e famosi quanto i
Rothschild, con ville e palazzi sparsi in tutta Europa. L’imponente edificio di Vienna, dove i netsuke
arrivano nel 1899 da Parigi, dono di nozze di Charles Ephrussi, famoso
collezionista, mecenate, amico di Renoir, Degas e Proust, conteneva
tante e tali opere d’arte che i minuscoli oggetti sfuggirono all’attenzione
dei nazisti. Affascinato dall’eleganza, dalla precisione, dalle
straordinarie qualità tattili delle sculture, l’autore, decide di ricostruire
la storia dei loro passaggi da una città all’altra, da un palazzo all’altro,
da una mano all’altra. Cercando e trovando così le radici della sua
famiglia. Viaggiando per anni tra l’Europa e il Giappone, attingendo a
disparati materiali d’archivio ma soprattutto rivivendo le vicende dei
suoi antenati nei luoghi da loro abitati, osservandole con gli occhi
dell’artista, l’autore dà voce a questi straordinari oggetti d’arte.
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Riprendiamo la lezione su Caravaggio…
Durante i primi anni di permanenza a Roma, Caravaggio
dipinse alcune opere che annunciarono di punto in bianco la
presenza di un talento libero e geniale:
- Giovane che sbuccia un frutto (del quale abbiamo allo stato
attuale solo copie)
- Giovane (forse Bacco) con un grappolo d’uva in mano
- Giovane con cesto di frutta
- Fanciullo morso da un ramarro.
Giovane (forse Bacco) con un grappolo d’uva in mano:
questo quadro è uno dei primi tra quelli realizzati da
Caravaggio. Rappresenta forse un Bacco, un giovinetto con
edera sul capo e un grappolo d’uva in mano. Probabilmente
Caravaggio la dipinse al termine di una convalescenza. Il
soggetto stesso rappresenta una sfida alle convenzioni: Bacco
dio del vino, della danza e della musica era sempre ritratto in
perfetta salute, rubicondo e gioviale, Caravaggio invece lo
trasforma in un malato dalle labbra grigie (forse lui stesso
uscito dall’ospedale), la pelle gialla, la ghirlanda talmente
carica da risultare eccessiva. Una divinità mitica diventa qui
un mortale in ghingheri, immagine non di immortalità ma del
suo opposto, di decadenza, con unghie sporche il dio ci offre
dell'uva talmente matura da essere guasta. Al 1595 risale il
Fanciullo morso da un ramarro. L'opera è un attento
campionario di tutti i talenti che l'artista stava sviluppando, il
riflesso sul vaso di vetro pieno d'acqua, la resa per effetto
dell'improvviso gesto, la pelle arrossata e poi la luce,
straordinaria, netta, concentrata con sapiente intensità sulla
figura. L'abilità dell'artista è chiara da queste prime tele: se
spesso i pittori di genere affollavano la scena con una
moltitudine di personaggi Caravaggio sovverte questa
tendenza, lo spazio pittorico si svuota, poche figure restano
titaniche tanto da essere opprimenti per chi osserva.
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A Roma all'epoca la regola numero uno era il
disegno, saper disegnare permetteva all’artista
di possedere le competenze primarie e
necessarie. Se, nell'ultimo decennio del ‘500, vi
foste aggirati fra le collezioni di statue classiche
appartenenti a papi e cardinali avreste visto
giovani artisti intenti a disegnare studi anatomici
dell'Ercole Farnese, del Laocoonte, dell'Apollo
del Belvedere. Per l'Accademia di San Luca non
poteva esistere arte senza un addestramento
rigoroso al disegno. Di Caravaggio non ci resta
alcun suo schizzo preparatorio tanto meno un
suo disegno di antichità. Queste prime opere (tra cui I bari e La Buona Ventura) stupirono tanto il
mercante d'arte Costantino Spata (suo compagno di bevute, tra l'altro) da fargliele esporre nel suo
negozio in piazza San Luigi dei Francesi. Lì I bari 1596, furono visti e acquistati da qualcuno che
avrebbe cambiato la vita di Caravaggio per sempre: il cardinale Francesco Maria Del Monte. Non era
il cardinale più ricco di Roma, la sua famiglia non era allo stesso livello delle grandi dinastie dei
Farnese, Orsini, Colonna, ma possedeva qualcosa che molti gli invidiavano, un legame diretto con i
Medici granduchi di Firenze. Combinazione vincente di conoscitore d’arte e ecclesiastico aveva
appreso la cultura e la vita di corte nel luogo e dall’uomo che la definirono: ad Urbino, da Baldassarre
Castiglione. Legato alla famiglia Medici (e quindi ai francesi, mentre la famiglia Farnese aveva
legami con gli spagnoli ed avevano assoldato i Carracci), vicino alle posizioni degli Oratoriani, era
rimasto folgorato dalla rivelazione di queste opere. Propose all’autore del quadro vitto, alloggio, uno
studio all’interno di Palazzo Madama (dove
oggi ha sede il Senato) e la possibilità di vivere
alla sua corte. Caravaggio si trasferirà qui e qui
rimase per sei anni a partire dal 1595. Molti
dipinti di questo periodo riflettono la cultura
raffinata e colta in cui si trovò presto ad operare.
Appassionato di musica il cardinale acquistava
strumenti d’ogni genere e provenienza,
commissionava pezzi ai cantanti e ai musicisti
dell’epoca e assoldava i famosi castrati per
organizzare a proprie spese concerti.
I bari, Michelangelo Merisi da Caravaggio, 1594, olio su tela,
94×131 cm, Kimbell Art Museum, Fort Worth
Buona Ventura (prima versione), Caravaggio, tra il 1593 ed il 1595,
Olio su tela, 115×150 cm, Pinacoteca Capitolina, Roma
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UN DIO, UN RE (web liviosecco.it)
Molti sono i gruppi statuari egizi che riempiono di grande emozione gli appassionati che vanno a
visitarli. Saranno le loro dimensioni, oppure i materiali o anche l’abilità dell’artigiano che li
suggestiona quando si pongono davanti ad essi per osservarli!
Un gruppo che da sempre mi ha particolarmente colpito è proprio a Torino e fa bella mostra di sé
nella Galleria dei Re. Il suo numero di catalogo è 768 (RCGE 5488).
È un gruppo importante ma non tra i maggiori. I colossi egizi ci hanno abituato a ben altre dimensioni.
In ogni caso la sua fattura è notevole e la prima impressione nasconde che le misure restano comunque
ragguardevoli essendo 209 cm di altezza, 90 cm di larghezza e 112 cm di profondità.
Pur essendo avvezzi alla qualità della statuaria egizia mi ha sempre impressionato la pulizia di questo
gruppo ricavata da un unico blocco di calcite alabastrina. Le linee sono precise. Reali. Naturali.
Ancora molto amarniane. I due personaggi comunicano immediatamente, al visitatore, tutta la loro
importanza infondendo un atteggiamento di rispetto senza ingenerare timore.
Gli sguardi sono aristocratici. Non comunicano democraticità, ma sudditanza. Sanno di essere
superiori a tutto ciò che li circonda. E nobili lo sono davvero. Assiso è il dio Amon, a lato è il
governatore dell’Egitto unito.
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Amon è facilmente riconoscibile per la tipica corona piumata che indossa. Il modio traccia la forma
base della corona rossa ma al di sopra di essa si innalzano le due piume affiancate tipiche della
divinità. Amon, il nascosto, il dio del vento. Il dio dinastico che, con la XVIII dinastia, permise al suo
clero di assurgere ad una potenza economica mai vista precedentemente e che ben presto sconfinò
nella politica in competizione con la monarchia. Questa sembra essere la ragione della celeberrima
eresia amarniana di Akhenaton.
Accanto, per dimensione e stile delle figure, c’è Tutankhamon. Per gli egittologi il gruppo è databile
proprio alla XVIII dinastia (1550-1295 a.C.), al regno di Tutankhamon (1336-1327 a.C.). Il sovrano
è in piedi accanto al dio. Il suo braccio destro si allunga passando dietro le spalle divine cingendolo
in un abbraccio che testimonia una ritrovata riconciliazione. Il re indossa la nemes con l’uraeus, il
cobra reale, che ne determina la funzione. Le due barbe posticce indossate stabiliscono che stiamo
assistendo ad un importante momento liturgico.
Il gruppo riporta delle epigrafi geroglifiche che lo assegnano ad Horemheb, sovrano che è succeduto
ad Ay il quale era a sua volta succeduto a Tutankhamon. Il breve regno di Tutankhamon, circa nove
anni senza eredi, e quello minore ancora di Ay, quattro anni senza eredi, creò una potenziale crisi
dinastica che fu risolta, per fortuna dell’Egitto, con l’elevazione al trono del comandante dell’esercito
Horemheb. Storicamente Horemheb
conclude la XVIII dinastia che si estinse così
senza discendenti diretti. Essendo un militare
lo si può ritenere un colpo di stato, per buona
sorte, incruento. D’altra parte sul trono
doveva salire un personaggio dall’autorità
riconosciuta dalla monarchia e che fosse
gradito al clero. Il generale non si era fatto
coinvolgere in modo compromettente
dall’eresia di Akhenaton e pertanto risultava
l’individuo più papabile.
Si dimostrò un sovrano energico. Perseguì
pesantemente la corruzione che era diventata
opprimente e fuori controllo proseguendo la
ricomposizione dell’eresia amarniana con
polso. Al clero di Amon fu concesso solo
quanto non era possibile rifiutare senza farne
un avversario vittorioso in assoluto. Il culto
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di Amon fu ripristinato dopo quello di Ra e di Ptah e gli
interessi economici sequestrati da Akhenaton furono ristabiliti
senza sollecitudine.
Il clero di Amon riuscirà a rialzare la testa solo dopo la XX
dinastia ed allora per l’Egitto sarà davvero l’inizio di una
discesa lentissima, questa volta definitiva.
Veniamo ora, come di consueto, all’analisi filologia dei testi.
Sulla parte superiore, dietro al faraone, compare una zona
epigrafata della quale si distingue subito che i geroglifici
scolpiti sono posizionati su due colonne affiancate e poi su una
riga sotto i cartigli. La direzione di lettura la deriviamo dai
geroglifici asimmetrici, preferibilmente umani od animali.
Dalla posizione dell’ape e dell’anitra voltati verso sinistra
otteniamo quindi il senso di lettura: da sinistra a destra,
dall’alto verso il basso. Ricordiamo che i geroglifici guardano
l’inizio della frase e quindi vanno letti andando loro incontro.
Riconosciamo in prima battuta la presenza di due cartigli e quindi sappiamo di trovarci in presenza
del IV e del V Protocollo Reale; infatti sono gli unici racchiusi in questo tipo di cornici. In realtà i
cartigli sono dei nodi di corda normalmente arrotondati che qui risultano deformati ed ovalizzati per
contenere i nomi del sovrano.
Il suo significato è abbastanza evidente.
La corda fu uno strumento importantissimo del catasto egizio che era incaricato a ritracciare i confini
delle proprietà dopo che il Nilo, ritirandosi dalla sua piena, li aveva evidentemente cancellati. Quindi
il re è il padrone di ogni cosa che circonda il sole: il re è il signore di tutta la terra.
(ny-)swt-bit(y) nb tAwy nisut-biti il Re dell’Alto e Basso Egitto neb taui il Signore delle Due Terre
Si tratta di due titolature. La prima letteralmente identifica il sovrano come “Colui che appartiene al
carice e all’ape”. La giuncacea è un simbolo della Valle del Nilo mentre l’insetto è un emblema del
Delta. Nel tempo finiscono per diventare metafore araldiche di quelle che, nel secondo titolo, sono
chiamate appunto Due Terre. Quindi il sovrano regna su tutto l’Egitto unificato, sull’Alto e sul Basso.
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Dsr-xprw-ra stp-n-ra geser-cheperu-ra Sacre sono le manifestazioni di Ra setep-en-ra l’eletto di Ra
È il Quarto Protocollo Reale, il nome di intronizzazione con il quale il sovrano egizio è conosciuto
presso le corti straniere. Interessantissimo il fenomeno grafico di trasposizione del disco solare:
essendo il nome del dio Ra è posto davanti in prima posizione della rispettiva locuzione. Il fenomeno
prende il nome di metatesi onorifica. Al momento della lettura, però, va riposizionato correttamente
al suo posto nella frase. Infatti letteralmente, nella prima parte, si leggerebbe ra-geser-cheperu cioè
Ra sacre sono le manifestazioni di mentre, nella seconda parte incolonnata, si leggerebbe ra-setep-en
cioè Ra l’eletto di. Questo fenomeno fu riconosciuto solo all’inizio del XX secolo.
Leggiamo ora la seconda colonna.
sa rA nb xaw sa ra il Figlio di Ra neb cau il Signore delle Corone
Anche in questo caso si tratta di due titolature. La prima determina che il sovrano è figlio divino di
Ra, la seconda ribadisce che il re è il padrone di tutte le corone dell’Egitto unificato.
mry-n-imn Hrw-m-Hb meri-en-imen Colui che Amon ama heru-em-heb Horemheb
È il Quinto Protocollo Reale, il nome che i genitori assegnarono al re al momento della nascita. Anche
in questo caso, nella prima parte, notiamo una metatesi onorifica del nome divino Amon. La seconda
parte, Horemheb, significa letteralmente Horus è in festa. Quasi certamente il giorno in cui il re
nacque doveva essere un giorno di festa dedicato al dio Horus. Assegnare ai bambini il nome di
importanti feste che coincidono con la loro nascita è un’usanza che abbiamo ancora noi. Vedi i nostri
Natale, Natalino, Pasquale, Pasqualino, Stefano, Immacolata, ecc.
d(w) anx mi ra Dt du anc dotato (=gratificato) di vita mi ra come Ra get eternamente
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La formula eulogica finale riporta anch’essa una metatesi
onorifica. Infatti il disco solare precede la reticella del latte
facendoci leggere letteralmente ra mi Ra come.
Ora che abbiamo analizzato l’epigrafia in alto ci rendiamo
meglio conto che vicino alle gambe di Amon è nuovamente
riportato il protocollo reale del faraone con leggere varianti.
Lo riportiamo senza ulteriori dettagli.
Gamba sinistra (punto di vista del visitatore), lettura da destra
a sinistra, dall’alto verso il basso:
nTr nfr nb tAwy Dsr-xprw-ra stp-n-ra necer nefer il dio perfetto nb taui il Signore delle Due
Terre geser-cheperura Sono sacre le manifestazioni di Ra
setep-en-ra l’eletto di Ra.
mry imn-ra d(w) anx meri Amon-Ra Colui che Amon-Ra ama du anc dotato (=gratificato) di vita
Gamba destra (punto di vista del visitatore), da sinistra a destra, dall’alto verso il basso:
sA ra nb xaw mry-n-imn Hrw-m-Hb sa ra il Figlio di Ra neb cau il Signore delle Corone meri-en-amon Colui che Amon ama heru-
em-heb Horemheb
mry imn-ra d(w) anx meri amon-ra Colui che Amon-Ra ama du anc dotato (=gratificato) di vita.
Horemheb inaugurò una breve serie di sovrani di origine militare o di spiccate attitudini marziali.
Dopo di lui Ramesse I, Sethy I, Ramesse II. Più tardi ci sarà ancora Ramesse III.
Poi, per l’Egitto classico, c’è solo più una progressiva agonia.
(in verde la pronuncia, in blu la traslitterazione)
Quarto e Quinto Protocollo Reale vicino alla gamba sinistra e alla gamba
destra dal punto di vista del visitatore