open management: scenari e strategie per le aziende del terzo millennio

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Approfondimento di laurea per la prova finale della Laurea in Economia e Management presso l'Università degli Studi di Padova, facoltà di Economia. Siro Descrovi

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Page 1: Open Management: scenari e strategie per le aziende del terzo millennio

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA

FACOLTA’ DI ECONOMIA

CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA E MANAGEMENT

PROVA FINALE

“TITOLO”

OPEN MANAGEMENT: SCENARI E STRATEGIE PER LE AZIENDE DEL TERZO MILLENNIO

RELATORE:

CH.MO PROF. ROMANO CAPPELLARI

LAUREANDO/A: SIRO DESCROVI

MATRICOLA N. 608733

ANNO ACCADEMICO 2011 - 2012

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Indice

1. Introduzione e scenario 3

2. Il Crowdsourcing 6

3. Open Book Management 8

3.1 Le cause e l’approccio 8

3.2 Tre mosse per implementare l’OBM 8

3.3 Riflessioni 10

4. Social Media Marketing 12

4.1 Le cause e l’approccio 12

4.2 Definizione e attenzioni speciali 12

4.3 Il caso McStories 14

4.4 Riflessioni 14

5. Content Marketing 16

5.1 Definizione e scenari 16

5.2 Il caso Rivamar (caso stage) 16

5.3 Riflessioni 18

6. Conclusioni 19

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1. Introduzione e scenario

Da sempre siamo abituati ad osservare sia nell’operatività che nella direzione aziendale, flussi informativi che scendono a cascata dall’alto della piramide gerarchica verso il basso, incontrando ad ogni piano diversi scalini che filtrano l’informazione e creano attorno ad essa diverse asimmetrie informative.Che si tratti dei dati consuntivi di fine trimestre, o del rendiconto finanziario annuale, quel che la letteratura (Stiglitz, 1975)1 e la buona prassi aziendale insegna è che a seconda del grado di responsabilità e della posizione gerarchica, si ha accesso a diversi livelli informativi in funzione del grado di comprensione, di analisi e di ruolo all’interno dell’azienda.Quel che è certo quindi, è che se ogni flusso informativo subisce questo genere di percorso e deve quindi passare per ogni grado di questa filiera prima di arrivare alla base della piramide, coloro che si trovano sulla bottom line recepiscono ciò che era un dato finanziario in principio, come una pura e specifica azione piuttosto che un ordine prettamente operativo.

Si trovano invece in una diversa situazione i clienti delle aziende che nonostante la forte interazione che negli ultimi anni si sta sviluppando tra loro ed i diversi brand grazie alle piattaforme di social networking e ai diversi media tradizionali, non ricevono le informazioni che desiderano ricevere dalle aziende, pur essendo costantemente bombardati da promozioni e propagande aziendali.Stando ad una recente indagine realizzata dalla Fondazione Cuoa (2011)2, quel che emerge è che le principali cause che spingono un utente a smettere di seguire la pagina pubblicitaria di un’azienda su Facebook siano: • troppi messaggi• messaggi troppo (o solo) “pubblicitari” (cioè, autoreferenziali)• messaggi ripetuti troppe volte.Allo stesso tempo però, tale osservatorio illustra cosa si aspettano gli utenti che navigano online e seguono le aziende sul noto social network, ossia:• contenuti ed iniziative esclusive per i fan• più attenzione alle richieste e suggerimenti postati dagli utenti• assistenza su prodotti/servizi.

Osservando dunque queste due realtà aziendali da un punto di vista più ampio, quel che salta subito all’occhio del lettore è la presenza di ostacoli e asimmetrie informative che ostacolano e rendono difficile la comunicazione tra emittente e destinatario del messaggio, disegnando panorami e scenari che mancano di trasparenza e di apertura.

Analizzando più al dettaglio le due panoramiche suddette, si può riuscire ad identificare una serie di conseguenze e di ricadute che hanno significativi effetti nel business dell’azienda e nelle proprie performance.

Case (1997)3 per introdurre la teoria di management denominata Open Book, evidenzia diversi casi d’azienda in cui coloro che si trovano nella parte più bassa della struttura piramidale sono sottoposti

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1 Stiglitz, J., 1975, Incentives, Risk , and Information: Notes Towards a Theory of Hierarchy, The Bell Journal of Economics, The Rand Corporation

2 Fondazione CUOA, 2012, Cosa vogliono gli utenti dalle pagine aziendali in Facebook?, disponibile su: http://www.slideshare.net/fondazionecuoa/cosa-vogliono-gli-utenti-dalle-pagine-aziendali-in-facebook, [Data Accesso: 22/05/2012]

3 Case, J., 1997, Opening The Book, Harvard Business Review, Disponibile su: http://hbr.org/1997/03/opening-the-books/ar/pr, [Data Accesso: 22/05/2012]

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a direttive dai propri superiori che focalizzano l’attenzione soprattutto su metodi e risultati, lasciando in bianco la parte relativa al motivo ed al perché.

Questo fatto è la naturale conseguenza di quanto descritto all’inizio di questa relazione di stage: ossia di come i flussi informativi mutino e si trasformino in direttive operative allo scendere della scala gerarchica. Tutto ciò però, ha importanti ripercussioni in termini di operatività e di efficienza: se coloro che stanno sulla bottom line non conoscono le ragioni di determinati cambi organizzativi o di produzione, ma vengono sottoposti a variazioni di metodo e di risultato da parte della linea manageriale, questi tenderanno a non implementare al meglio la nuova direttiva, e se lo faranno, saranno privi delle ragioni per cui l’hanno fatto. Lo stesso Case (1997) poi, sostiene che questo comportamento potrà essere la prima di una serie di cause verso la creazione di un sentimento di perplessità verso le conoscenze del management, verso il proprio operato, fino a situazioni di malessere aziendale (faccio perché devo).È infatti dimostrato (Spreitzer, Porath, 2012)4 che fare il proprio lavoro con un’informazione vaga e poco motivata, sia difficile e poco ispirante; vengono a mancare, di conseguenza, le ragioni per proporre nuove soluzioni all’interno dell’azienda di cui si fa parte se non si riesce a vedere e capire l’impatto che queste avranno o potranno avere nel lungo periodo. Le persone possono contribuire maggiormente al business aziendale se capissero che il loro lavoro è strettamente legato alla strategia e alla mission dell’azienda.

Il secondo quadro invece, ci illustra come nonostante sia avvenuta nel corso del tempo un’importante evoluzione nel mondo del marketing, descritta da Kotler e Armstrong (2009)5 che ha visto mutare il proprio orientamento dal classico So long as black fordista incentrato sulla produzione, fino al moderno interesse per il mercato e per la relazione con il cliente, la maggior parte delle aziende non riesce ancora a cogliere con precisione ed esattezza ciò che il cliente desidera conoscere, desidera capire dell’azienda, del proprio modo di lavorare, e dei propri prodotti, perdendo molte opportunità di business sia in termini di vendite che di affiliazione del cliente.

Stando ad una recente inchiesta portata avanti dalla Chief Marketing Officer Council (CMO, 2011)6, agenzia di web marketing statunitense, si apprende che nonostante il 52% delle aziende intervistate veda l’influenza del proprio brand crescere tramite l’utilizzo dei social media e sia quindi consapevole dell’importanza di questi strumenti nell’attuale scenario mondiale, il 34% che ritiene di avere una strategia web based, la descrive “di supporto alla comunicazione aziendale e non completamente integrata con la strategia di marketing” (CMO, 2011).Il dato che però ci fornisce il quadro completo e le ragioni di questo ritardo nella cura del web marketing, e quindi nella difficoltà di capire ed interpretare i bisogni informativi del cliente in merito al proprio brand, si trova quando si scopre che il 67% delle aziende intervistate dichiara che il problema maggiore nella cura delle iniziative sviluppate attraverso i social media sia la mancanza di risorse e di tempo da poter investire in questo tipo di dialogo con il cliente e con il proprio target.Manca dunque una cultura organizzativa nelle aziende legata all’ascolto del cliente non solo in termini di ricerche di mercato e di produzione, ma anche di comunicazione e promotion, al fine di

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4 Spreitzer, G., Porath, C., 2012, Creating Sustainable Performance, In: Harvard Business Review

5 Kotler, P., Armstrong, G., 2009, Principi Di Marketing, 13° ed. Milano: Pearson Pavaria Bruno Mondadori S.p.A.

6 CMO Council, 2011, Variance In The Social Media Experience, disponibile su: http://www.slideshare.net/fullscreen/ricardodepaula/social-brand-experience/2, [Data Accesso: 22/05/2012]

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individuare quelli che siano i reali interessi del target di riferimento per riuscire ad instaurare un dialogo che porterà benefici per entrambi i soggetti coinvolti.

Arrivati a questo punto, occorre fare un ulteriore passo indietro prima di cimentarsi nell’analisi delle soluzioni che vadano a colmare questo lack informativo, per capire le cause comuni che comportano la situazione attuale.

Se si riesce ad immaginare ed osservare da un punto di vista esterno la struttura gerarchica delle aziende, per poi disegnarci il flusso informativo che scorre al proprio interno, quel che si evince è che i dialoghi e le informazioni seguono e rispettano sia i piani che i confini gerarchici, creando delle forti asimmetrie informative a più direzioni: all’interno della piramide tra i livelli organizzativi, e verso l’esterno con i clienti e gli stakeholder ai quali vengono consegnate, nel migliore dei casi, poche e formali informazioni, senza consegnare alcun valore aggiunto (Vogel, 2005)7.

I tradizionali modelli organizzativi (Mintzberg, 1979)8 basati sulla minimizzazione dei costi, sul potere, sul controllo delle contingenze e sulle motivazioni estrinseche, e dove l’innovazione è in mano solo all’azienda o a pochi partner fidati deve essere integrato con un modello organizzativo basato sulla logica dell’apertura, sulla condivisione, sulle motivazioni intrinseche e sulla comunità (Lakhani, Lifshitz-Assaf, Tushman, 2012)9.

Per riuscire dunque a risolvere tale problema e ad implementare questa nuova cultura organizzativa, occorre mettere in atto una serie soluzioni che vadano a modificare la cultura organizzativa delle aziende, ridefinendo alcuni concetti legati alle asimmetrie informative , alla trasparenza aziendale ed alla visibilità dei propri processi (Slack, et all., 2007)10; occorre dunque abbandonare la mentalità che ha accompagnato le aziende per tutto il novecento, ossia quella di tante informazioni in mano a poche persone, per aprirsi verso il nuovo millennio, verso una nuova mentalità, in due parole: Open Management!

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7 Vogel, D., 2005, The Market for Virtue, Arlington, Virginia: R. R. Donnelly

8 Mintzberg, H., 1979, The Structuring of Organizational Structrures, Prentice Hall, Englewood Cliffs

9 Lakhani, K., Lifshitz-Assaf, H., Tushman, M., 2012, Open Innovation and Organizational Boundaries: The Impact of Task Decomposition and Knowledge Distribution on the Locus of Innovation, In: Harvard Business School

10 Slack, N., et all., 2007, Gestione delle Operations e dei processi, Milano: Pearson Pavaria Bruno Mondadori S.p.A.

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2. Il Crowdsourcing

Tante belle parole, ottime opportunità, rosei futuri, ma concordando con quanto sostenuto da Charlene Li (2010)11, quando i manager delle aziende osservano questi valori, la loro mente ed il loro pensiero di fare business li trasforma in una forte minaccia di perdita del controllo, incapacità di gestire il flusso ordinato di informazioni, smarrimento nel caos anarchico aziendale.Il concetto che sta alla base dell’evoluzione della cultura aziendale e del modo operandis interno verso l’open leadership è abbandonarsi all’idea di dover perdere il controllo sulla propria organizzazione per poter avere risultati utili nel lungo periodo. (Li, 2010).

Per motivare questa frase, ritengo opportuno riportare una celebre frase di Samuel Huntington (1968)12 che recitava: “Un re lungimirante, che concede diritti e libertà ai servi della gleba e li trasforma in cittadini, sarà costretto alla fine ad abdicare allorché quei nuovi cittadini iniziano a ribellarsi per chiedere ancor più libertà. Ma un destino ancor peggiore attende i sovrani dal pungo di ferro, che rifiutano le riforme e adottano misure repressive: la domanda di potere fin ad allora soffocata, quando il popolo scopre nuovi modi per organizzarsi e comunicare, genera una reazione esplosiva: solitamente con il risultato che il leader perde non solo il trono, ma anche la testa”.Tale citazione ritrova un forte riscontro nell’attualità delle Primavere arabe, ed allo stesso tempo, se riportata ed interpretata in ottica aziendale, conferma quanto sostenuto fortemente da Charlene Li (2010), la quale dichiara che l’attuale economia vede gerarchie classiche di comando e controllo immutate dal Dopoguerra minacciate da un forte senso di apertura e di fiducia rilasciato da tante aziende che invece hanno deciso di adoperare uno stile di management basato sui valori suddetti, dimenticando il controllo come unità di misura, a favore della pura innovazione.

InnoCentive per esempio, è un’azienda specializzata in ricerca e sviluppo (R&S) per problemi scientifici di ogni genere, e pone al centro del proprio core business il crowdsourcing. Fondata dal gigante farmaceutico Eli Lilly, InnoCentive dà l’opportunità a scienziati di tutto il mondo di ricevere ricompense professionali e premi monetari tramite la risoluzione di sfide di R&S.Ma facciamo un passo indietro: cos’è il crowdsourcing e come può aiutare un’azienda ad essere più open?

Il termine Crowdsourcing è stato coniato da Jeff Howe e Mark Robinson nel 2006 (Howe, 2006)13 ed indica “un nuovo modello di business web-based che sfrutta le soluzioni creative di un network di soggetti e di innovazioni per riuscire ad ottenere una proposta, un ideale di cambiamento”.

Filo conduttore tra R&S e Marketing, il crowdsourcing è stata la chiave di volta per molte aziende che hanno sfruttato questa soluzione per ideare nuovi prodotti e servizi partendo dalle idee dei propri consumatori, dei propri collaboratori e dipendenti, di chiunque avesse voluto contribuire.Campbell’s per esempio, dedica un’intera sezione del proprio sito per incoraggiare chiunque volesse collaborare a proporre le proprie idee per innovare prodotti, packaging, processi e addirittura ricette.Dell invece ha sapientemente unito la forza del proprio brand con il target di riferimento creando due diverse tipologie di crowdsourcing: da un lato la Dell Social Innovation Challenge invita i

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11 Li, C., 2010, Open Leadership. How Social Technology Can Trasform The Way You Lead, New York: Jossey-Bass

12 Huntington, S., 1968, Political Order in Changing Societies, Yale University Press

13 Howe, J., 2006, "The Rise of Crowdsourcing", Wired, Disponibile su: http://www.wired.com/wired/archive/14.06/crowds.html, [Data Accesso: 20/05/2012]

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giovani social innovatori a dare soluzioni per risolvere i più difficoltosi problemi presenti al mondo, premiando le idee più votate sul sito web; dall’altro invece, Idea Storm: una community in cui Dell dà l’opportunità a professionisti e non del settore di incontrarsi, condividere e votare le proprie idee, per vederle trasformare in prodotti e servizi. Uno dei primi successi di questo programma è stato il lancio di un Pc per il mercato consumer con sistema operativo Linux, in soli due mesi (anziché i consueti dodici-diciotto mesi).

Detto questo, si possono notare, di conseguenza, i grandissimi benefici di iniziative come quelle descritte, e di tante altre che si stanno realizzando nel mondo, anche grazie all’impatto comunicativo e di buzz portato dai social media.Se dal lato del marketing, l’azienda ha l’opportunità di dare una forte rinfrescata alla propria brand image, e proporsi al proprio target come azienda innovatrice e 2.0, dall’altro lato riesce ad avere un forte beneficio anche in termini di ricerca e sviluppo: processi più snelli e meno costosi di quelli tradizionali, possono portare a soluzioni di forte impatto economico, oltre ad aumentare il tasso di innovazione aziendale (Lakhani, Lifshitz-Assaf, Tushman, 2012).Inserire dunque questa nuova cultura organizzativa, non solo in termini di clienti e professionisti esterni, ma anche di personale interno dell’azienda, può essere un ottimo passo verso il ringiovanimento delle rigide gerarchie aziendali.

È emblematico il caso di 3M, raccontato dall’azienda sul proprio sito web, che ha portato il pionieristico “15 percent time” da benefit a vero e proprio punto focale per la propria strategia.Il 15 percent time è una porzione di tempo, pagato dall’azienda, in cui i dipendenti possono ideare e portare avanti i propri progetti per nuovi prodotti per l’azienda, dando un forte contributo creativo e di R&S all’azienda stessa. Uno dei più grandi successi di questo particolare programma fu il Post-It Note, ossia il prodotto che è diventato simbolo di tutta la 3M.

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3. Open Book Management

Creatività, ricerca, sviluppo, sono le uniche leve che possono essere condivise con i dipendenti senza osservare la divisione o la funzione aziendale di riferimento, o anche dati finanziari e quozienti di redditività tipiche dell’analisi di bilancio possono essere mostrate e discusse in tutto l’apparato aziendale?

3.1 Le cause e l’approccio

Alla base di questa provocazione sta il fatto che la linea manageriale tende sempre più spesso a mostrare ai dipendenti ciò che essi devono fare piuttosto che motivare il perché debbano farlo (Case, 1997).

Nasce da qui l’approccio sviluppato da John Case (1997) nella metà degli anni 90, ed indicato come Open Book Management che si rifà alle teorie di Jack Stack e Bo Burlingham sviluppate in The Great Game of Business (1994)14.Il nome di questa teoria si deve all’idea che sta alla base di essa, ossia al fatto che non basta mostrare ai dipendenti i modi di operare e di ridurre i costi, ma occorre insidiare nel loro modo di pensare una vista più ampia, che abbia come obiettivo non solo la qualità, l’efficienza od altre singole performance variabili, bensì il successo dell’intera impresa (Case, 1997).

A tal proposito, la teoria suddetta suggerisce di condividere e mostrare a tutti i dipendenti dell’azienda i documenti economico-finanziari della stessa, condividendo trasversalmente gli obiettivi preventivi ed i dati consultivi, analisi finanziarie ed altri indici di performance (Kaplan, R., Norton, D., 1992)15, dando a questi valori un significato ed insegnando ai dipendenti da cosa derivano e come devono essere interpretati tali numeri. Così facendo, l’azienda riuscirà ad integrare ogni dipendente in un dibattito manageriale, ottenendo proposte e soluzioni volte ad aumentare la produttività, la redditività aziendale, incrementando, al tempo stesso, il senso di contribuzione di ogni singolo dipendente.

Per rendere ciò possibile, non bastano di certo un paio di comunicati interni o una circolare piena di dati appesa in bacheca affianco alle macchinette del caffè, ma occorre mettere in atto una lenta e pianificata strategia di cambiamento culturale d’impresa.

3.2 Tre mosse per implementare l’OBM

Come spiega John Case (1997), le fasi da mettere in pratica sono tre.

Il primo passo da porre in atto, e forse il più difficile, è in mano alla linea manageriale, che deve riuscire a prevedere e immaginare tutti i possibili scenari che si possono sviluppare durante la fase di training, in cui la metamorfosi aziendale viene messa in atto. Per avere lo sperato cambiamento di mentalità, che conferisca ad ognuno dei singoli lavoratori dell’azienda uno sguardo d’insieme, critico, e di lungo periodo, occorre dunque definire una serie di configurazioni che vadano dall’insegnamento delle materie economiche, alla simulazione di casi aziendali fino

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14 Stack, J., Burlingham, B., 1994, The Great Game of Business, Currency/ Doubleday

15 Kaplan, R., Norton, D., 1992, The Balanced Scorecard - Measures that Drive Performance, In: Harvard Business Review

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all’assunzione di tali concetti, al fine di trasmettere ad ogni persona che lavora in azienda il significato dei numeri, dei valori finanziari, di come questi rispecchino ogni modifica produttiva e quanto ogni performance del singolo influenzi l’andamento d’insieme dell’azienda.

Per riuscire in questa fase, Don Robb, manager della R.R. Donnelley & Sons, azienda americana di stampe commerciali che conta oltre 38.000 dipendenti, a cui nel 1995 era stato affidato l’incarico di implementare la strategia dell’OPM nella divisione Northeastern, ha curato ogni passaggio di questa prima fase con scrupolosa attenzione, inserendo in ogni situazione la vera e propria cultura open che caratterizza tale strategia: nella fase embrionale infatti, egli ha trascorso molto tempo con ogni persona in azienda per divulgare questo pensiero manageriale, dando materiale illustrativo e soprattutto, ascoltando quel che ognuno di essi poteva pensare a riguardo. Non è stata dunque una forte e rapida imposizione dall’alto, ma una lenta costruzione di un tessuto organico propugnata dal basso.Da lì poi, l’insegnamento delle dinamiche economico-finanziarie è avvenuto grazie ad un team di docenti che attraverso lezioni, business game e simulazioni didattiche, ha portato il personale dell’azienda ad imparare a conoscere i numeri ed i loro significati, di come i risultati della loro business unit influissero sui risultati aziendali.

Il secondo passo poi, una volta assodato in maniera significativa il primo, consiste nella responsabilizzazione dei singoli dipendenti sulla creazione dei propri budget funzionali, e nei rispettivi obiettivi di profitto.Da questa seconda attività, i dipendenti di basso livello nella piramide gerarchica aziendale, sono incentivati ad individuare in primis le key drivers del proprio ambiente lavorativo, ed in un secondo momento a prevedere, modificare e analizzare i possibili trade-off e le varie configurazioni che i relativi budget possono assumere in differenti condizioni operative. Da questa analisi poi, contestuale ed effettuata da coloro che operativamente lavorano quotidianamente su quanto sta ad oggetto di budget, si potranno identificare possibili miglioramenti produttivi volti ad aumentare l’efficienza di reparto e a conseguire risultati e performance migliori disponendo sempre delle stesse risorse (Arcari, 2010)16.

Essere consapevoli del proprio ruolo e di come questo incida in termini finanziari a livello aziendale, ed avere a disposizione gli strumenti per poter apportare il proprio contributo all’azienda anche oltre le routinaria operatività, significa poter ambire ad integrare le proprie idee con quelle dei propri superiori, interagire con l’azienda anche oltre il proprio compito operativo, ma diventare parte integrante del business aziendale.

Ecco quindi che se gli obiettivi che il vertice piramidale si prefigge di raggiungere nell’arco dell’esercizio vengono condivisi con la bottom line della piramide aziendale, si conferisce a questa la possibilità di pensare ed ideare autonomamente i modi per arrivare a determinate soglie obiettivo, ed il raggiungimento delle stesse avrà un sapore ben diverso dalla mera attuazione di semplici comandi, ma verrà interpretato come una vera e propria sfida da vincere (Stack, Burlingham, 1994).

Tutte queste motivazioni però, non possono prescindere da una chiave salariale e retributiva che deve accompagnare passo dopo passo l’implementazione di tale strategia.

916 Arcari, A., 2010, Programmazione e Controllo, Milano: McGraw-Hill

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Con questa affermazione dunque, si arriva al terzo punto chiave, ossia: la predisposizione di un adeguato sistema di retribuzioni che miri ad incentivare la messa in pratica di tali strategie e dia un ritorno economico a coloro che hanno successo in tale esercizio.

Per la corretta implementazione di questo sistema dunque, occorrerà mettere a disposizione dei dipendenti un piano di gainsharing, ossia “una formula di incentivazione che ha come scopo il miglioramento di certi indici di risultato” (Costa, Gianecchini, 2009)17. Attraverso un appropriato piano retributivo variabile dunque, è possibile aumentare l’orientamento ai risultati da parte dei lavoratori, e grazie alle conoscenze acquisite da questi, i dipendenti stessi potranno essere in grado da capire maggiormente l’equità della loro retribuzione, e conoscere in anticipo quale sarà l’entità del proprio bonus.Un problema che infatti le aziende hanno nell’attuare il gainsharing è la mancanza di conoscenze finanziarie ed economiche da parte dei dipendenti che mal interpretano o non gestiscono adeguatamente tutto il potenziale di tale strumento retributivo (Costa, Gianecchini, 2009).

Alla Hexacomb Corporation, per esempio, ai dipendenti è stato assegnato un piano di “beat the budget”, ossia un sistema bonus in cui ogni reparto dell’azienda ha un annuale piano budget redatto in sinergia tra manager e personale subordinato, che se superato in termini di performance durante l’esercizio genera un sovra reddito rispetto alle attese, che viene diviso 50-50 tra azienda e dipendenti. Quest’ultimi potranno avere la loro parte se e solo se la propria business unit ha superato le soglie del proprio budget di fine anno.Un sistema retributivo incentivante dunque, che si autoregola e i cui dettagli non sono mistero a nessun dipendente dell’azienda.

L’effetto benevolo di tale piano poi, si può leggere anche nel fatto che ogni lavoratore, oltre a contribuire alla riuscita, individua e ricerca autonomamente e con il proprio team i modi per raggiungere tali obiettivi, leggendo ed interpretando i numeri dei valori economico-finanziari che costantemente vengono forniti ad ogni singolo dipendente.Ed i successi non pagano solo i lavoratori, che vedono un aumento salariale, ma anche l’azienda: la Hexacomb Corporation ha difatti registrato un aumento di produttività del 13% annuo per i successivi tre anni dall’implementazione di questo metodo.

3.3 Riflessioni

A rendere tale sistema complesso nell’implementazione però, è il difficile processo di insegnamento di una serie di nozioni economico-finanziarie a coloro che risiedono nella bottom line della piramide gerarchica dell’azienda (Case, 1997).Critica più che sensata se si pensa che la formazione tramite lezioni o le docenze esterne diano contenuti che molto spesso sono lontani sia dalla realtà che dalla quotidianità dell’azienda, oltre a rivelarsi noiose e poco flessibili nella maggior parte dei casi (Costa, Gianecchini, 2009).Per rispondere a tali critiche, è utile evidenziare quanto realizzato da Don Robb alla R.R. Donnelley & Sons: nella divisione Northeastern infatti, la parte legata all’insegnamento è stata affrontata su due livelli di individuali lezioni computer-based. Ad ognuno è stato assegnato un PC in cui inizialmente venivano insegnate le competenze di base, che il dipendente poteva facilmente rivedere anche a casa.

1017 Costa, G., Gianecchini, M., 2009, Risorse Umane, 2° ed. Milano: McGraw-Hill

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Fatto questo, è stato realizzato un software che permettesse di gestire una piccola realtà aziendale, creando una simulazione virtuale dell’ambiente lavorativo, in cui i singoli dipendenti avrebbero potuto ideare ed implementare soluzioni per migliorare le performance del proprio business virtuale. Attraverso operazioni strategico-finanziarie e la supervisione di determinati dati, gli imprenditori virtuali hanno imparato, mettendo in pratica, le dinamiche precedentemente studiate, ed acquisito le competenze da applicare al mondo reale.

La componente ludica per implementare questa strategia dunque, è essenziale per far sì che tutte le competenze vengano acquisite, ed una volta che i dipendenti capiscono il significato dei numeri, essi cambieranno il modo di lavorare, di organizzarsi e di lavorare in gruppo (Stack, Burlingham, 1994).

E le aziende? Che risultati riscontrano? Stando alla ricerca effettuata da due docenti iraniani (Nikzad, Maryam, 2012)18 laddove sia stata applicata una filosofia di OPM, sono emersi significativi effetti positivi legati alla fiducia verso l’azienda da parte dei propri dipendenti, i quali hanno poi portato a risultati positivi negli indicatori finanziari delle aziende oggetto d’analisi, a conferma che tale strategia di management ha effetti non solo nel clima e nel modo operandi aziendale, ma anche nei valori finanziari.

Una strategia che paga nel lungo periodo e la cui implementazione non è delle più facili: ecco cosa significa Open Book Management, una cultura aziendale che responsabilizza, consapevolizza e dà l’opportunità ad ogni singolo dipendente di aumentare il proprio apporto e la propria contribuzione all’azienda. La filosofia dunque sta nel fatto che se tutti capiscono le ragioni del successo finanziario dell’ente per cui lavorano, e vedono da dove e come esso deriva, potranno capire come la produzione del valore per l’azienda, dipenda da loro stessi. Questo farà sì che essi agiranno non più da dipendenti, bensì da proprietari, da manager, organizzando il proprio lavoro e operando al meglio, in quanto nella loro cultura aziendale sarà chiaro il fatto che maggior valore sarà generato nell’azienda nel complesso, maggiore sarà il beneficio diretto che essi riceveranno (Stack, Burlingham, 1994). Così facendo ci si dimenticherà dell’idea delle otto ore operative, del compito semplice e sterile del lavoratore/operatore, ma si inseriranno alcune dinamiche culturali che spingeranno l’individuo ad interessarsi maggiormente alla propria azienda, ad affinare le proprie competenze, le proprie skills, perché si sentirà responsabile del buon andamento dell’azienda, protagonista nell’ambiente lavorativo, e non solo un passivo numero di matricola o una semplice pedina.Per concludere questo tema, è necessario rileggere le parole di John Case che sostiene: "a company performs best when its people see themselves as partners in the business rather than as hired hands" (Case, 1997).

1118 Nikzad, M., Maryam, G., 2012, The relationship between open book management and trust with organization financial performance, sl: Elsevier

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4. Social Media Marketing

Arrivati a questo punto, avendo scoperto diversi modi per abbattere le barriere all’interno dell’azienda e creare un ambiente in cui tutti possono contribuire al benessere aziendale, spostiamo la nostra analisi sul come sia possibile creare ulteriori varchi nei muri che stanno tra l’interno dell’azienda ed il cliente, aumentando così l’interazione e la comunicazione tra queste due realtà.

4.1 Le cause e l’approccio

Per analizzare la prossima iniziativa per diventare open, occorre fare un passo indietro nella letteratura organizzativa e richiamare in causa Goleman (2002)19, il quale sosteneva che il buon leader deve essere colui che sappia parlare alle persone con intelligenza emotiva, indicando loro direzioni, valori e priorità dell’azienda e del business per cui lavorano.

Ad oggi, finché scrivo (2012) tutto ciò, non basta più.La figura di leader nelle aziende open infatti, deve essere indossata da una persona che non si limiti a parlare, ma che per prima cosa ascolti (Li, 2010). Non è retorica ma una vera e propria necessità sviluppata ed alimentata attraverso i canali social media quella di scendere dalla posizione sopraelevata su cui da sempre si è esposto il leader, per abbassarsi ad un livello più democratico, ad un’altezza 2.0.

I social network, ossia piattaforme digitali web-based create per mettere in contatto i diversi utenti iscritti, hanno un ruolo fondamentale nella società attuale, tra le persone, nella vita di tutti i giorni, e puntualmente si sono inseriti anche nel rapporto tra azienda e cliente.Se fino all’avvento di quest’ondata digitale la comunicazione d’impresa era sviluppata attraverso forme 1.0, ossia unidirezionali volte a mostrare e pubblicizzare i prodotti ed i servizi venduti dall’azienda, ma senza che i consumatori avessero la possibilità di rispondere a tali campagne pubblicitarie, salvo quando esplicitamente richiesto con questionari di costumer satisfaction, ora le aziende si trovano davanti ad una schiera di clienti armati di mouse e tastiera pronti a puntare il dito e a commentare ogni loro singola mossa.

In questo ambiente dinamico e complesso, dove ogni parola che esce dalla bocca dell’azienda passa sotto milioni di riflettori per essere analizzata, criticata, elogiata, e commentata, si inserisce il social media marketing.

4.2 Definizione e attenzioni speciali

Il social media marketing è una branchia del web marketing che basa la propria esistenza sul rapporto di social network online, ossia su comunità sociali online (blog, siti Web di social network e anche mondi virtuali) in cui le persone socializzano o si scambiano informazioni e opinioni (Kotler, Armstrong, 2009).

1219 Goleman, D., Boyatzis, R., McKee, A., 2002, Primal Leadership, In: Harvard Business School

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Le tecnologie Web 2.0 stanno trasformando la comunicazione mediatica unidirezionale (uno a tanti), a favore di un dialogo sociale (tanti a tanti). La cultura social media quindi, non è nient’altro che il prodotto dell’applicazione delle tecnologie web-based 2.0. (Berthon et al., 2012)20

Questo mezzo è uno strumento fondamentale di dialogo per l’azienda, sia in termini di marketing relazionale (Kotler, Armstrong, 2009), che di brand reputation (Lombardi, 1998)21, e per questa ragione occorre adoperarlo con cognizione di causa, stando attenti alle diverse netiquette online e imparando a gestire le eccezioni che si possono creare (Crisis Management).I numeri d'altronde parlano chiaro: con oltre 2 miliardi e 300 milioni di persone online (Fonte: WorldoMeters http://www.worldometers.info/ accesso dati: giugno 2012), e ben oltre 900 milioni di utenti attivi sul principale social network attuale, Facebook (Fonte: elaborazione Axia su dati societari Facebook aprile 2012), tale realtà non può essere ignorata, ma anzi deve essere inserita nella strategia di marketing aziendale.

Per fare ciò e cogliere da questo strumento ogni possibile beneficio, occorre focalizzare l’attenzione e tener bene presente qualche punto fondamentale che indirizzi tale strategia e la renda apprezzabile anche agli occhi di chi la guarda, il cliente, a cui diamo in mano le sorti non solo dei prodotti o dei servizi emessi, ma anche del modo in cui comunichiamo.

Per prima cosa occorre che ci sia coerenza tra contenuti offline ed online, bisogna dunque aver ben chiara la brand image dell’azienda, ossia il complesso delle proprietà funzionali e simboliche attribuite da un consumatore ad una marca/prodotto; l’insieme delle rappresentazioni mentali, credenze o conoscenze ad essa/o associate (Lombardi, 1998).I contenuti, le campagne pubblicitarie pubblicate sulle riviste, giornali, televisioni, sui media tradizionali insomma, devono essere coerenti con quanto sviluppato online, e l’azienda deve saper interpretare se stessa, i propri valori e la propria mission, ad ogni commento o tweet esca dal proprio account.

Prendiamo ad esempio Hermès, azienda fashion la cui mission si basa sull’eccellenza della qualità, sull’eleganza, e sulla tradizione: qualora questa si interfacciasse con il proprio audit online dovrà tenere un linguaggio in linea con i propri valori, tenendo ben presente i dovuti formalismi e trattando l’utente online come se fosse un cliente in punto vendita.Diesel invece, che da sempre si propone come un brand irriverente ed anticonformista, può permettersi di usare un linguaggio più giovane, più trendy, utilizzando magari espressioni più colorite che siano in sintonia con quanto trasmesso da sempre ai propri clienti.

Altro importante elemento da tenere sempre in considerazione è che queste piattaforme rappresentano la trasparenza per definizione: il profilo pubblico dell’azienda infatti, è aperto a chiunque, ed il dialogo può essere pertanto intrapreso sia dall’azienda che dai clienti. In questo secondo caso dunque, l’azienda deve saper rispondere in ogni caso, con correttezza ed un certo modo, tenendo sempre presente che la propria risposta sarà letta pubblicamente da tutti coloro che la seguono, e che ogni commento è un pezzo aggiuntivo di personalità del brand nella mente del consumatore.

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20 Berthon, R., et all., 2012, Marketing meets Web 2.0, social media, and creative consumers: Implications for international marketing strategy, Business Horizons, Kelley School Of Business

21 Lombardi, M., 1998, Il Nuovo Manuale Di Tecniche Pubblicitarie, 11° (sl): Franco Angeli

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Il lettore capirà bene che se davanti ad una domanda scomoda, l‘azienda invece di rispondere argomentando la propria posizione si rifugia in una ben più comoda censura, questa sarà attaccata fortemente da una buona parte del network, posizionandosi in cattiva luce anche verso i propri clienti.Bisogna dunque tenere a mente tutti i possibili scenari che si possono verificare in risposta ad una certa campagna online, in quanto una volta iniziata, le redini del dialogo non sono più in mano all’azienda, bensì ai consumatori.

4.3 Il caso McStories

Non ha curato bene questo aspetto, per esempio, McDonald’s che all’inizio del 2012 è stata vittima della sua stessa strategia di comunicazione sviluppata tramite social media. La promozione Twitter McStories che si proponeva di stimolare gli utenti a raccontare le loro esperienze (sottinteso positive!) con i famosi panini si è trasformata in una campagna boomerang. Il popolo di internet si è scatenato in una serie di tweet che in 140 caratteri hanno raccontato di disagi intestinali, ricoveri in ospedale per intossicazioni alimentari ed altre spiacevoli situazioni. Qualcuno poi ha tirato in ballo anche le drammatiche condizioni di vita alle quali sono sottoposti gli animali utilizzati per produrre gli hamburger e le condizioni di lavoro dei dipendenti, generando una situazione piuttosto imbarazzante per l’azienda americana che di fatto ha potuto fare ben poco per fermare quest’ondata virale negativa.E non è tutto: per tentare di salvare il salvabile infatti, McDonald’s, ha successivamente deciso di ritirare l’iniziativa, quando ormai, era troppo tardi. Centinaia di blog infatti, avevano già ritratto la vicenda ed il successivo ritiro della campagna ha causato un effetto ancora peggiore, come precedentemente teorizzato.Il paradigma del Social Media infatti, è l’ascolto: aspettarsi che si parli solo bene del proprio brand è utopistico, ma scegliere la via fuga di fronte a feedback negativi è un vero e proprio suicidio.

Quello che l’open management deve cogliere da queste esperienze e da questi casi è che esporsi al dialogo significa anche e soprattutto ascoltare, dimostrare interesse, accogliere le critiche e rispondere con uno spirito di confronto. Gli utenti web non sono l’ufficio stampa delle aziende, e non sono quindi pagati per far fare ad essa bella figura. Se li si fa parlare dunque, occorre ascoltare quello che hanno da dire e cercare di instaurare un dialogo, in ogni modo possibile.

4.4 Riflessioni

Di fronte a questa case history, e a quanto dedotto successivamente, verrebbe dunque da pensare che sono più i rischi che i benefici quelli che si ricevono con una strategia di marketing basata sui social media. Questo, ovviamente, è del tutto falso.

Che ci siano molte nuove variabili da tenere in considerazione è innegabile, ma il potenziale di questi strumenti non è da mettere minimamente in discussione.

Il 21° secolo infatti, ha portato sia opportunità che sfide in questo mondo globalizzato e senza confini. I marketing managers devono dunque affrontare un dinamico ed interconnesso mondo internazionale. Come tale, devono considerare le diverse opportunità e paure che il Web 2.0, i social media e i consumatori creativi presentano, imparando a lavorare all’interno di questo

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scenario caratterizzato da forti cambiamenti delle attività, del potere, e del valore. (Berthon et al., 2012)

Tramite i citati strumenti infatti, l’azienda può trarre enormi benefici sia in termini di comunicazione, che in termini di ricerca.Essa infatti, ha la possibilità di entrare direttamente in contatto con il cliente senza passare attraverso ricerche di mercato o focus group ed eliminando tutta una serie di distorsioni intrinseche nella comunicazione e nel dialogo offline che avviene tra azienda e cliente. Basti pensare a temi quali il groupthinking, la timidezza delle persone o semplicemente ai costi che tali indagini possono avere (Kotler, Armstrong, 2009).Dal lato ricerche di mercato e survey, per esempio, le piattaforme social offrono molte soluzioni in merito che si dividono in due macro aree di riferimento: 1. da un lato abbiamo le interazioni spontanee fatte dagli utenti del social network di riferimento,

che possono criticare, elogiare, suggerire contenuti all’azienda; 2. dall’altro invece abbiamo vere e proprie tecnologie che si integrano perfettamente con queste

piattaforme e che attraverso la sottoposizione di questionari online riescono a definire e a delineare i caratteri semantici di ogni cliente, andando a definire con precisione le diverse esigenze e i diversi disagi, discriminandole per variabili di diverso genere.

Il tutto con il grandissimo vantaggio che il cliente, godendo dell’anonimato e rispondendo da un luogo confidenziale, quale possa essere la propria casa, il proprio ufficio, o quant’altro, è molto più libero nell’esporre le proprie idee, beneficiando così l’azienda di una sincerità tanto rara quanto preziosa.

Un altro forte vantaggio è legato all’idea che tramite una strategia di web marketing, l’azienda può prendere il consumatore dalle diverse finestre di comunicazione a disposizione, siano esse offline che online, e portarlo in un proprio spazio web, accessibile tramite il proprio PC, o il proprio smartphone, e mostrargli un’incredibile quantità di contenuti da sfogliare, leggere, vedere, che mostrino e diano al cliente una serie di notizie, informazioni, esperienze aggiuntive che finora, con i tradizionali media era difficile dare (salvo casi eccezionali).Con questa pratica dunque, l’azienda farà sì che sarà il cliente stesso ad andare a cercare la pubblicità dell’azienda, il contenuto speciale, o il video sponsor, senza invadere gli spazi di lettura e di entertainment dell’utente (come invece ha fatto fin’ora), diventando meno invasiva e più ricercata, diminuendo il senso di sovraesposizione ed esaltando quello di consapevolezza nella ricezione del messaggio da parte del cliente.

Ora però, bisogna voltare pagina, ed analizzare dunque, il Content Marketing.

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5. Content Marketing

Per affrontare questo tema, occorre partire da un nesso importante, che si rifà alle parole di Benkler (2006)22, il quale sostiene: “La decentralizzazione radicale dell’intelligenza nelle reti di comunicazione e la centralità di idee, informazione, cultura e conoscenza per l’attività economica avanzata stanno conducendo a una nuova fase: l’economia dell’informazione in rete.”

Considerando dunque tale rapporto tra idee e rete, qualora si voglia incrementare la strategia web marketing al fine di aumentare il rapporto che lega il cliente all’azienda, occorre creare una serie di contenuti originali ed informativi che vengano interpretati dal lettore come una moneta virtuale per la propria attenzione.

5.1 Definizione e scenari

Il content marketing dunque, si pone come strategia di affiliazione del cliente attraverso l’emissione di contenuti legati all’azienda che vadano oltre l’advertising autoreferenziale, ma che diano al consumatore informazioni aggiuntive legate al settore in cui è inserita l’azienda.

Tale operazione va fatta mantenendo determinate linee guida di oggettività e netiquette fondamentali per la gestione del proprio brand e la neutralità del servizio informativo dato.Quando si interagisce nel web con un utente applicando una strategia di content marketing infatti, non basta comunicare messaggi o semplici comunicati stampa, ma occorre prestare bene attenzione a due tipi di economie che si sono sviluppate online e per cui l’uomo non è abituato (Anderson, 2009)23, e che sono:• l’economia dell’attenzione• l’economia della reputazione.

Per poter comprendere a fondo quest’argomento soffermiamo l’attenzione su tali definizioni. L’economia dell’attenzione si basa sul principio che dato che un consumatore medio è costantemente oggetto di messaggi informativi, piuttosto che pubblicitari, la risorse attenzione diventa ad essere un bene raro e prezioso. L’azienda che desidera avere questo bene, deve dunque essere in grado di creare contenuti che siano per il lettore meritevoli di tale risorsa. Qui si evolve dunque l’economia della reputazione, ossia il controvalore che si riceve per aver generato dei contenuti che siano stati apprezzati dai lettori e quindi condivisi tramite piattaforme online. Grazie a questa forma di worth-of-mouth, l’azienda emittente godrà di una serie di benefici reputazionali che porteranno un ROI positivo all’attività informativa, in funzione della qualità e della ricercatezza di ciò che è stato proposto (Anderson, 2009).

Due facce della stessa medaglia dunque, che mostrano come il content marketing sia uno strumento che se usato con la dovuta cura possa portare molte soddisfazioni all’azienda in termini di conoscibilità che di autorevolezza dell’azienda sul settore di riferimento ed oltre.

5.2 Il caso Rivamar (caso stage)

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22 Benkler, Y., 2006, La Ricchezza Della Rete, Milano: EGEA

23 Anderson, C., 2009, Free, Milano: Rizzoli

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Un caso aziendale di successo (di cui io stesso ho preso parte durante il periodo di stage) è l’azienda Rivamar Srl che ha utilizzato al meglio tale forma di marketing riportando interessanti risultati a fronte degli obiettivi preventivati.Rivamar Srl è l’azienda italiana leader nel settore della congelazione e surgelazione di prodotto ittico; opera prevalentemente nel settore B2B e ha deciso di utilizzare una forte strategia di web marketing per aumentare la conoscibilità del brand ed imporsi ulteriormente a livello nazionale.Per fare ciò, oltre alla strategia di social media marketing, dove l’azienda è presente in diversi canali social media, essa ha preventivato anche un forte carattere informativo per generare del contenuto che possa essere apprezzato dal consumatore o da colui che potrà esserlo un domani.Tale strategia dunque si struttura in due parti: il blog aziendale Ideapesce e la Pescapedia (il glossario del mondo ittico).

Il blog aziendale è un sito web parallelo a quello dell’azienda in cui vengono inserite notizie dal mondo, curiosità legate al mondo della pesca, aggiornamenti legali su tali temi con l’obiettivo di generare un traffico di navigatori particolarmente sensibile al tema di riferimento dell’azienda, in questo caso, il pesce. Tale sito viene curato con una forma impersonale, dando dunque un taglio il più possibile neutrale ai fatti. Tale blog poi viene collegato al sito aziendale (obiettivo della strategia), attraverso un’inserzione sulla testata, o tramite determinati link inseriti negli articoli che rimandano a contenuti presenti nel sito dell’azienda.

Così facendo coloro che cercheranno tramite i motori di ricerca determinate parole chiave relative a fatti, curiosità e news del mondo ittico (per questo caso) verranno riportati su questo spazio civetta, nella speranza che poi siano convertiti in traffico sul sito di Rivamar.

La seconda mossa strategica per generare contenuti e dunque, traffico, si rifà ad un’altra teoria di Chris Anderson (2007)24, denominata Coda lunga, la quale sostiene che nelle economie web la massa delle tante parole chiave la cui frequenza di ricerca è bassa, equivale alla somma delle poche parole la cui frequenza è alta.Tale teoria ha dunque importantissime riflessioni sul piano operativo e strategico in quanto dimostra come specializzarsi su determinate parole chiave per il proprio business non sia l’unico modo efficace per essere rintracciati sul web. Esiste invece un ampio numero di keywords che se inserite in modo coerente con i propri contenuti possono portare traffico sul proprio sito, andando dunque a raggiungere gli obiettivi di copertura prefissi dall’azienda.Per implementare tale teoria dunque, Rivamar ha predisposto sul proprio sito web una sezione chiamata Pescapedia: un’enciclopedia marittima in cui vengono spiegati tutti quei termini legati al mondo marittimo che difficilmente si trovano online.Grazie a questa sezione dunque, l’azienda porta sul proprio portale virtuale tutti quei navigatori (potenziali clienti dunque) che sono interessati ad un particolare dettaglio ittico. In questo modo, il pubblico che si andrà ad intercettare sarà altamente targetizzato secondo le proprie esigenze, e si andrà a generare contenuti unici e preziosi per il potenziale consumatore che quindi leggerà nella brand identity aziendale una forte autorevolezza e competenza nel proprio settore.

Grazie a questa strategia, unita a quella di social media marketing, le visite al sito aziendale sono aumentate di oltre il 500% nel corso dell’ultimo anno e mezzo, come mostra il grafico delle statistiche del sito internet (Fonte: Google Analytics, Data di accesso: 29/05/2012).

1724 Anderson, C., 2007, La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, (sl): Codice

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5.3 Riflessioni

Dare contenuti unici ed esclusivi, mostrare i retroscena aziendali ai propri clienti, ai propri brand evangelist, è questo che i clienti si aspettano dalle aziende, e da fattori motivanti stanno sempre più diventando fattori igienici (Herzberg, 1966)25, poiché laddove non sono presenti, i clienti sospettano ci sia qualcosa da nascondere, qualche elemento scomodo, qualcosa per cui non bisogna fidarsi. E come abbiamo più volte detto, la fiducia è fondamentale.Rivamar comunque non è l’unica realtà che si presti a tali esempi: Paul Smith per esempio tiene un blog in cui lo stesso stilista racconta le proprie giornate, e tiene un diario molto seguito da tutti gli appassionati di moda; ha fatto lo stesso fino al 2010 Ducati con Desmoblog: un sito in cui venivano postati contenuti speciali da parte dell’azienda che potevano andare dall’intervista speciale alla novità in anteprima assoluta. Un eccellente posto in cui l’azienda poteva abbattere i formalismi dei comunicati stampa per dare (e farsi dare) del tu al cliente (e dal cliente).

Ecco dunque come un social network, uno spazio web, possano rivelarsi un tassello fondamentale per la strategia di marketing di un’azienda, e diventare un punto di dialogo con il cliente.Per fare ciò però, è necessario che l’azienda per prima ascolti il proprio cliente, lo conosca, lo capisca, e gli dia ciò che vuole, provando e sbagliando, ma costruendo insieme ad esso un percorso di crescita e di fidelizzazione che non si esaurisca nel punto vendita, ma che continui fuori, tra le pagine del web e la condivisione online.Ormai il worth-of-mouth conosciuto finora, quello del passaparola umano, si è rivoluzionato in termini digitali, ampliandosi e diventando ciò che in letteratura è definito buzz: un rumore, un brusio, una condivisione dinamica di contenuti, idee, che per la loro natura hanno ispirato lo spettatore alla viralità e ne hanno esaltato le visualizzazioni, la copertura e la ricezione degli stessi, e che se sfruttato in maniera adeguata può conferire all’azienda benefici ben più alti di quanto ella non abbia mai ricevuto nella storia della pubblicità. (Kotler, Armstrong, 2009)

1825 Herzberg, F., 1966, Work and the Nature of Man, New York: World Pub

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6. Conclusioni

Arrivati a questo punto, dopo aver osservato ed analizzato diverse soluzioni che le aziende possono implementare per rendere la propria cultura organizzativa più open, è necessario ripartire dalle provocazioni introdotte all’inizio del testo ed unire i diversi punti affrontati nel corso di questa relazione di stage per riuscire a dare un senso ed un punto di vista organico a quanto osservato finora.

Nel terzo millennio le aziende devono fare i conti con un radicale cambiamento dei consumi che si sta lentamente attuando nelle popolazioni di tutto il mondo, e con un mutamento globale dato dall’inserimento di nuove tecnologie, nuovi modi per interpretare i propri bisogni e per condividerli con gli altri.All’interno di questo scenario, tanto dinamico quanto frastagliato, è molto probabile che solo coloro che riusciranno a cogliere per primi la matrice del cambiamento in atto, e a sfruttarne benefici in ottica di lungo periodo riusciranno a sopravvivere. (Nelson, Winter, 1982)26.

Alla luce di quanto detto dunque, il management che vuole utilizzare questa fase per aumentare le chance della propria azienda di essere competitiva nel futuro deve guardare oltre la crisi attuale, e pensare all’evoluzione del rapporto tra l’interno delle mura aziendali e l’esterno, con il cliente.

Il crowdsourcing, il social media marketing e il content marketing sono strumenti che per funzionare non devono essere gestiti in maniera asettica e dati in mano a terzi, ad agenzie, che per loro natura non colgono a pieno il core business aziendale e ciò che può interessare il cliente target dell’azienda, ma devono essere internalizzati e gestiti quotidianamente da tutto il personale.Occorre che il management sia lungimirante e renda queste leve parte integrata nella cultura aziendale, predisponendo e instaurando un dialogo tra i singoli dipendenti ed i consumatori, in modo che ognuno di essi sia in grado di comunicare con l’esterno, dando il proprio contributo per consolidare la brand image aziendale ed aumentarne la trasparenza.Per fare ciò, è necessario educare i propri collaboratori a questa prospettiva, dando delle guide lines che descrivano accuratamente la policy aziendale, che suggeriscano i modi e il tone of voice da utilizzare quando si parla attraverso il brand per cui si lavora.

L’open book management invece, ha dato un forte contributo per intuire quale sia la strada da percorrere all’interno dell’organizzazione per trasformare le mentalità schive e diffidenti tipiche del Novecento in una leadership più aperta e sostenibile a fronte del terzo millennio in cui stiamo vivendo.

L’apertura dell’organizzazione è dunque una manovra necessaria per affrontare le sfide future imposte dai mercati reali e finanziari, per essere in grado di cavalcare il nuovo modo di fare business che, come ci ha recentemente mostrato la crisi del 2008, non può più reggere su vecchi archetipi e culture aziendali basati su un’autorità centralizzata, su segreti aziendali ed informazioni riservate, istanze di comando e controllo, ma deve essere edificato su idee di condivisione e di ascolto, di responsabilizzazione dei collaboratori e fiducia negli stessi.Occorre infatti trasformare l’azienda in questo senso, e dunque non posso non essere d’accordo con Charlene Li (2010) quando afferma che per fare ciò occorre pianificare dettagliatamente tale trasformazione, osservando quattro passaggi chiave nella realizzazione della stessa, che sono:

1926 Nelson, R., Winter, S., 1982, An Evolutionary Theory Of Economic Change, Boston: The Bleknapp Press

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1. I valori orientano la visione: occorre ridefinire i propri valori aziendali in ottica futura, open, e di lungo periodo;

2. I leader sono d’esempio per gli altri: occorre che sia presente una testimonianza personale che offra la propria esperienza per dare un punto di riferimento in questa fase di cambiamento;

3. Portare la vecchia cultura nella nuova: occorre capire su che fondamenta di valori è costruita la propria organizzazione, e partendo proprio da quelli, cercare la propria best way per introdurre la mentalità open;

4. Sistemi e struttura sostengono la trasformazione: incentivi, riconoscimenti, processi e procedure sono fondamentali per implementare tale strategia! Occorre dunque architettarli con attenzione, per assicurarsi fondamenta forti e solide.

La mentalità delle persone là fuori sta cambiando, i mercati e gli stili di consumo stanno avendo un’evoluzione drastica nella storia dell’uomo; gli strumenti, le tecnologie, ed i processi di supporto sono presenti ed anzi, sono in continuo aggiornamento: ora tocca alle aziende rimboccarsi le maniche, perdere il controllo su loro stesse, per poterlo ritrovare e riuscire sopravvivere nel lungo periodo.

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