oggetti - la repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf ·...

15
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008 D omenica La di Repubblica LAMPEDUSA L’ altra vita la buttano in mare, la gettano via. E sca- gliano fra le onde tutto quello che proviene dal lo- ro mondo. Sui barconi che si avvicinano alla costa già si abbandonano ai sogni, le pene che dovran- no patire neppure le immaginano. Non conoscono le paure degli altri, le nostre paure. Troppo lontane dalla loro fame e dalle loro guerre. Al largo si liberano degli stracci che hanno addosso, dei documenti veri o falsi, di quei borsoni sfondati, delle lettere. Carte e cose che possono diventare tracce di un’identità, di un passato. Anche il ro- tolo di dinari che a Tripoli e a Bengasi era un piccolo tesoro finisce là in fondo, in pasto ai pesci. È il mare che possiede tutto. È diven- tato la cassaforte dei loro segreti. Di molti segreti, ma mai di tutti. Sulla chiglia del “Saber”, nel cimitero dei barconi di Lampedu- sa, scivola ancora un po’ d’acqua che trasporta verso poppa una piccola busta di plastica trasparente. Dentro la busta galleggia un’agendina nera. Il primo foglio è strappato. Anche il secondo non c’è più. Poi un nome e un numero: Shamir 071992057. Sulla paginetta che segue i nomi sono tre — Muajud, Cismann, Khalif — e quattro sono i numeri: 2026391789, 2026365095, 2024094750, 35227. Pagine sbiadite, incartapecorite dall’umidità, l’inchiostro che sbava e mescola i tratti di biro blu e quelli verdi. L’acqua ha can- cellato altri ventisei fogli. (segue nelle pagine successive) ATTILIO BOLZONI Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO e DARIO FO i sapori Chicago, ecco la cucina di Obama MARIO CALABRESI e LICIA GRANELLO la società La posta censurata dei matti di Volterra ALDA MERINI e LAURA MONTANARI l’incontro Amélie Nothomb, metodo e best seller ELENA STANCANELLI i luoghi Bari, il porto senza più mare GIANRICO CAROFIGLIO cultura Norman Mailer parla con Dio ANTONIO GNOLI e NORMAN MAILER Sul fondo dei barconi spiaggiati restano le cose buttate o abbandonate dai migranti Sulla soglia di una crisi dove tutto potrebbe e dovrebbe cambiare FOTO MASHID MOHADJERIN/REDUX/CONTRASTO Clandestini C he cosa resta di una vita quando tutto ti abbandona, quando quella vita diventa un fardello da trasporta- re sulle spalle stanche, in uno sguardo spezzato, con una speranza sottile come un foglio di carta velina? Cosa resta di un viaggio disseminato di prove e a volte interrotto dalla morte? Qualche oggetto, piccole cose della vita quotidiana che non hanno valore se non perché testimoniano un dramma. Gli oggetti sono cattivi. Sono specchi che ci seguono e ci oppri- mono. Qui, con queste fotografie, non ci sono processi e neanche accuse. Sono indizi, corpi del reato. Tracce di quella che è potuta sembrare una vita. Ovviamente un uomo vale l’altro. Ma quando il destino si accanisce sulla tua terra, sulla tua famiglia, quando la sventura ronza incessantemente intorno alla tua vita e vedi che forse la soluzione è nell’esilio, te ne vai senza voltarti indietro a guardare forse per l’ultima volta i tuoi figli, i tuoi genitori, quelli per cui intraprendi un viaggio lungo e dall’esito incerto. Alcuni si por- tano via una manciata di terra dentro un fazzoletto, altri qualche sorso d’acqua del pozzo. Un modo per non dimenticare. Lasciare il villaggio, attraversare il paese, poi il deserto, poi altri paesi e infine il mare per arrivare dentro una notte buia sulle coste italiane o spagnole con l’immensa speranza di sfuggire alla sorve- glianza e mescolarsi alla folla per trovare un lavoro e salvare quelli che ci si è lasciati alle spalle. Quella è la prova. Quello il destino. (segue nelle pagine successive) TAHAR BEN JELLOUN Repubblica Nazionale

Upload: others

Post on 26-Jun-2020

2 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

Page 1: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

DomenicaLa

di Repubblica

LAMPEDUSA

L’altra vita la buttano in mare, la gettano via. E sca-gliano fra le onde tutto quello che proviene dal lo-ro mondo. Sui barconi che si avvicinano alla costagià si abbandonano ai sogni, le pene che dovran-

no patire neppure le immaginano. Non conoscono le paure deglialtri, le nostre paure. Troppo lontane dalla loro fame e dalle loroguerre.Al largo si liberano degli stracci che hanno addosso, dei documentiveri o falsi, di quei borsoni sfondati, delle lettere. Carte e cose chepossono diventare tracce di un’identità, di un passato. Anche il ro-tolo di dinari che a Tripoli e a Bengasi era un piccolo tesoro finiscelà in fondo, in pasto ai pesci. È il mare che possiede tutto. È diven-tato la cassaforte dei loro segreti. Di molti segreti, ma mai di tutti.

Sulla chiglia del “Saber”, nel cimitero dei barconi di Lampedu-sa, scivola ancora un po’ d’acqua che trasporta verso poppa unapiccola busta di plastica trasparente. Dentro la busta galleggiaun’agendina nera. Il primo foglio è strappato. Anche il secondonon c’è più. Poi un nome e un numero: Shamir 071992057. Sullapaginetta che segue i nomi sono tre — Muajud, Cismann, Khalif— e quattro sono i numeri: 2026391789, 2026365095, 2024094750,35227. Pagine sbiadite, incartapecorite dall’umidità, l’inchiostroche sbava e mescola i tratti di biro blu e quelli verdi. L’acqua ha can-cellato altri ventisei fogli.

(segue nelle pagine successive)

ATTILIO BOLZONI

Oggetti

spettacoli

Il Paese dei teatri dimenticatiRODOLFO DI GIAMMARCO e DARIO FO

i sapori

Chicago, ecco la cucina di ObamaMARIO CALABRESI e LICIA GRANELLO

la società

La posta censurata dei matti di VolterraALDA MERINI e LAURA MONTANARI

l’incontro

Amélie Nothomb, metodo e best sellerELENA STANCANELLI

i luoghi

Bari, il porto senza più mareGIANRICO CAROFIGLIO

cultura

Norman Mailer parla con DioANTONIO GNOLI e NORMAN MAILER

Sul fondo dei barconispiaggiati restano le cosebuttate o abbandonatedai migrantiSulla soglia di una crisidove tutto potrebbee dovrebbe cambiare

FO

TO

MA

SH

ID M

OH

AD

JE

RIN

/RE

DU

X/C

ON

TR

AS

TO

ClandestiniChe cosa resta di una vita quando tutto ti abbandona,

quando quella vita diventa un fardello da trasporta-re sulle spalle stanche, in uno sguardo spezzato, conuna speranza sottile come un foglio di carta velina?

Cosa resta di un viaggio disseminato di prove e a volte interrottodalla morte? Qualche oggetto, piccole cose della vita quotidianache non hanno valore se non perché testimoniano un dramma.

Gli oggetti sono cattivi. Sono specchi che ci seguono e ci oppri-mono. Qui, con queste fotografie, non ci sono processi e neancheaccuse. Sono indizi, corpi del reato. Tracce di quella che è potutasembrare una vita. Ovviamente un uomo vale l’altro. Ma quandoil destino si accanisce sulla tua terra, sulla tua famiglia, quando lasventura ronza incessantemente intorno alla tua vita e vedi cheforse la soluzione è nell’esilio, te ne vai senza voltarti indietro aguardare forse per l’ultima volta i tuoi figli, i tuoi genitori, quelli percui intraprendi un viaggio lungo e dall’esito incerto. Alcuni si por-tano via una manciata di terra dentro un fazzoletto, altri qualchesorso d’acqua del pozzo. Un modo per non dimenticare.

Lasciare il villaggio, attraversare il paese, poi il deserto, poi altripaesi e infine il mare per arrivare dentro una notte buia sulle costeitaliane o spagnole con l’immensa speranza di sfuggire alla sorve-glianza e mescolarsi alla folla per trovare un lavoro e salvare quelliche ci si è lasciati alle spalle. Quella è la prova. Quello il destino.

(segue nelle pagine successive)

TAHAR BEN JELLOUN

Repubblica Nazionale

Page 2: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

(segue dalla copertina)

Chissà quanti altri nomi equanti altri numeri avràsegnato l’uomo o la donnache l’ha portata con sé dal-l’altra parte del Mediterra-neo. È arrivata con lui o con

lei anche questa agendina nera, alla finedella lunga traversata. Qualcosa resta.Qualcosa resta sempre sulle chiglie deibarconi dei migranti.

Il “Saber” è in mezzo a un campo di ar-busti, in bilico su un’altra carcassa di le-gno che è incastrata nella pancia di unoscafo in vetroresina spaccato in due dal-

lo speronamento di una motovedetta.Una barca sopra l’altra, una barca den-tro l’altra. Saranno cinquanta, forse ses-santa. Le hanno trascinate lontane dalporto, in una radura alle spalle della di-scarica comunale. Le fiancate dei bar-coni sono sfasciate, i loro nomi non sivedono più fra i legni fradici. Il “Saber”fa ancora puzza di nafta e di cordame.Un cane bastardo dal pelo bianco ha tro-vato la sua cuccia a prua, di tanto in tan-to calpesta una latta arrugginita, una ve-ste colorata, un paio di guanti bucati. Al-tri avanzi di vita.

Il bastardo addenta una busta di lattee la porta in un angolo, vicino agli scar-

poni infangati. Sono di finta pelle, ma-cerati dalla salsedine. Come le Nike e leReebok taroccate che sono lì vicino esparse fra gli asciugamani, un costumecolor arancio, un giubbotto bianco conl’etichetta ancora attaccata — “Ice BoysBest Fashion” — quattro pantaloni di te-la e una camicia insanguinata. C’è an-che un velo viola, abbandonato o di-menticato in qualche trasbordo dallasua padrona. In una cesta di vimini resi-stono rimasugli di cibo. Pane ammuffi-to, limoni marci, cannucce infilzate nel-le bustine vuote dei succhi di frutta, unascatoletta di sardine, le bottiglie d’acqua“Al Zahra” da un litro e mezzo e i botti-glioni da cinque litri accartocciati giùnella stiva. C’è un orsacchiotto di pelou-che bagnato, c’è una tartarughina diplastica. C’erano tanti bambini sul “Sa-ber”, tirato a riva una notte di tanto tem-po fa a Lampedusa.

Gli uomini si liberano di tutto. Na-scondono da qualche parte solo quegliappunti, gli indirizzi, i nomi e i numeri,tutti i contatti che li faranno sopravvive-re nell’Europa dei loro miraggi. Le don-ne, più dei loro mariti o dei loro padri,cercano di difendere la memoria di unaffetto o di un luogo, di fare giungere conloro da questa parte del mare anche lepersone care. Non resistono a quellatentazione: portano sempre una foto. Avolte è un album intero che gelosamen-te celano sotto le larghe vesti. È come segli uomini, una volta sbarcati su questasponda, vogliano ricominciare dacca-po, è come se le donne non vogliano onon possano mai dimenticare tutto.

Shaben, che cosa hai portato dal Gha-na? «Nulla, non ho portato nulla», ri-sponde il ragazzo che ha sedici anni ed èapprodato ieri l’altro sullo scoglio diLampedusa con altri quarantacinqueneri. Non ha niente Shaben. Non ha unsoldo, non ha un documento, non ha unciondolo o un anello, un bigliettino di

suo padre o di sua madre, di un fratello,di un amico. Si tira su i pantaloni dellatuta che gli hanno infilato quando eraancora sul molo dell’isola, si cala sullafronte la visiera del cappellino che glihanno regalato i poliziotti italiani.Anuar, che cosa hai portato? «Nulla», ri-sponde il tunisino che è di Monastir, unacittà ad appena ottantasette miglia dadove l’hanno ripescato sette giorni fa.Anche lui è in tuta, anche lui con il cap-pellino della polizia di frontiera in testa,e anche lui si è spogliato di ogni ricordo.Tutta l’esistenza precedente di Shabene di Anuar è finita nel mare.

L’acqua ha scolorito anche i versettidel piccolo Corano che Hud ogni seralegge prima di addormentarsi. È tuttociò che si è salvato nel naufragio. È tuttoquello che è rimasto a Hud, adolescentedel Burkina Faso. Il suo compagno diviaggio Jude ha ancora la maglia rosso-blù del Barcellona. Il numero 5 stampa-to sulle schiena. È l’unico oggetto arri-vato con lui da Ouagadougou, la capita-le del paese lontano dove Jude e Hudabitavano. La lavano ogni due o tre gior-ni quella maglietta. Poi come una reli-quia la stendono al sole sulla rete metal-lica che separa gli uomini dalle donnenella loro nuova casa in Italia, il “centrodi prima accoglienza” di Lampedusa.

La bambina si chiama Sabrin, ha do-dici anni. È eritrea. Ha vissuto un annoin Libia ma è come se avesse perso la me-moria. Sua madre Regat è rimasta chiu-sa per quattordici mesi in una prigionedi Tripoli, suo padre non è mai partitoper la Sicilia. «Questa foto è del 2005, l’hofatta in Sudan», racconta la donna che ti-ra fuori da un sacchettino di tela le im-magini che ricostruiscono il suo pere-grinare. Ogni foto è un intreccio, un pez-zo di vita, un amore e un dolore, un lut-to, una speranza. C’è Helen, fotografatain uno studio di Khartoum, lei sorriden-te fra drappi rossi, i riflettori che scara-

ventano la luce sul suo viso. Helen è l’a-mica di una cognata di Regat, affogatasei anni fa in un’altra traversata. Regatha conosciuto Helen in Sudan. La primavolta c’era andata quindici anni fa, Sa-brin non era ancora nata. Regat facevapulizie in una casa di signorotti, suo ma-rito Beilul la picchiava sempre. Poi è ar-rivata Sabrin. E tutti e tre sono tornati inEritrea. Mamma e figlia dopo un po’ so-no scappate dall’uomo e dalla miseria.Un’altra foto, scattata il 2 novembre2002 in Sudan — nella parte posteriore èindicata anche l’ora della stampa, 8,31del mattino — quando Sabrin aveva giàsei anni. È piccola, minuta, in posa per lanonna. Sul retro, con scrittura malfermaun pensierino per la madre di sua ma-

dre, Akbart, che non l’aveva mai vista:«Sono la tua nipotina Sabrin, prima opoi tornerò ad Asmara…». Il potere diuna fotografia, ritratti che ricompongo-no le vite.

Ha solo una collanina d’oro al colloNeama. Ha un anellino al dito Nadifa.Ha solo voglia di andarsene via Vivian,ragazza del Ghana che è entrata in Italiaquasi due settimane fa ed è ancora qui, aLampedusa. Suo marito Peter è nel pa-diglione degli uomini, con la tuta ugua-le a quella di tutti gli altri. Quando è arri-vato non aveva neanche le scarpe. Comel’algerino Mahraz, che si è liberato ditutto quando ancora brillavano le luci

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

la copertinaOggetti clandestini

I relitti del passato perduto

Una fotografa si è attardata nel barcone abbandonatodal quale erano appena sbarcati a Lampedusaduecentocinquanta migranti e ha realizzato queste fotoUn inviato di “Repubblica” racconta i destinidei sopravvissuti. Un grande scrittore nordafricanodà voce alle speranze di coloro che affrontano il viaggio

ATTILIO BOLZONI

LE IMMAGINI

Mashid Mohadjerin, l’autrice

del servizio fotografico

che pubblichiamo in queste pagine,

ha realizzato il suo reportage

a Lampedusa alla fine dello scorso luglio

«Una mattina», racconta la fotografa,

«250 migranti sono sbarcati

da un’imbarcazione chiamata

“B’ism’l Allah Masha’Allah”

Ho approfittato della confusione

e sono salita a bordo

dopo che tutti quanti erano scesi

Ho notato gli oggetti che erano stati

abbandonati nella fretta dello sbarco

Oggetti comuni che raccontano

la storia del viaggio»

In un sacchetto di telale foto sgualciteconservateper non dimenticare

Scarpe di finta pelle,vesti multicolorie un orsacchiottodi pelouche

Repubblica Nazionale

Page 3: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

(segue dalla copertina)

Èun viaggio fatto ogni giorno. Le immagini dei cor-pi annegati, le scarpe sul molo, un documento ap-pena leggibile, un pacchetto di sigarette del paese

d’origine, uno sciroppo per la gola aggredita dal freddoe dalla fame, qualche mozzicone di sigaretta, la faccia diGheddafi su un brandello di banconota, un Gheddafitrionfante e indifferente al destino del suo popolo, unavecchia spazzola e forse anche un portafogli con le fotodei figli, tutte quelle immagini che ci mostrano da anninon hanno mai avuto l’effetto previsto, quello di sco-raggiare uomini e donne dal tentare la sorte in terra eu-ropea. I volti cambiano. I corpi sopportano la fatica. E infondo agli occhi la stessa domanda: perché tanta ingiu-stizia? perché tutta quella miseria? saremo gli eterni“dannati della Terra”?

La crisi. Ma quale crisi? La loro o quella dell’Europa?Per loro la crisi significa che la loro sventura sarà anco-ra più profonda, più crudele. La traversata costerà piùcara, i rischi saranno maggiori. Tutto qui. Loro, che han-no interiorizzato l’idea della morte, non hanno paura diniente, perché non hanno più niente da perdere. Certoche c’è la crisi. Ne hanno sentito parlare, ma come mi-lioni di poveri non ne capiscono il significato e ancormeno le conseguenze. E poi la crisi sta appena inizian-do. Quando la disoccupazione continuerà a crescere,quando gli immigrati regolari cominceranno a ripartireperché le fabbriche saranno chiuse, allora, forse, i can-didati all’esilio clandestino capiranno. Ma non basteràa fermare i sogni.

Per gli abitanti dell’Africa subsahariana è difficile ac-cogliere nel proprio immaginario la nozione di crisi fi-nanziaria mondiale. Sono nati nella crisi e vissuti e so-pravvissuti nel niente, nell’assenza del minimo vitale.In ogni modo, anche se perde denaro, l’Europa saràsempre ricca. È un’idea che non si può cambiare nellaloro visione del mondo. Certi sono stati nel baratro del-la miseria. Della vita i loro figli hanno visto solo imma-gini e promesse, un po’ come il ragazzino di Ladri di bi-ciclette, il film di Vittorio De Sica.

Come si può dirgli che l’Europa sarà meno ricca, di-mostrargli che l’esilio non è la soluzione ai loro proble-mi? Vi risponderanno: non parliamo la stessa lingua,non abbiamo gli stessi bisogni. Voi avete il superfluo, a

noi manca l’indispensabile! Una conversazione tra sor-di.

Le soluzioni non verranno dai bassifondi della dispe-razione. Verranno dalla volontà concreta degli europeiche continuano ad approfittare di certi paesi africani so-stenendo regimi dittatoriali, accettando l’esercizio del-la corruzione e l’impoverimento di milioni di africaniche non profittano delle proprie ricchezze minerarie epetrolifere. Allora l’Europa dovrà diventare un’entitàmorale. Investire, certo, ma anche diventare il “carabi-niere” del diritto, della giustizia e della democrazia. InFrancia abbiamo visto quello che si nascondeva sotto loscandalo della compagnia Elf: corruzione, spartizionedelle ricchezze, commissioni esorbitanti e disprezzoper i cittadini africani.

Alcuni di quei viaggiatori senza speranza vengono dapaesi molto ricchi, come la Nigeria, altri dal Gabon o dal-l’Algeria. Conosciamo il dramma delle giovani nigeria-ne che si prostituiscono nelle periferie delle città italia-ne, ma fa ancora più rabbia quando scopriamo quantimiliardi di dollari si ammassano in quei Paesi per la ven-dita del petrolio o del gas. Dove vanno a finire tutti queisoldi? Perché degli Stati ricchi hanno popolazioni pove-re? Perché dei giovani corrono il rischio di morire nelleacque europee quando il loro paese ha i mezzi per darloro un lavoro e anche di più?

Bisognerà farla finita con la ragion di Stato e la conni-venza con regimi impopolari e corrotti. È una questio-ne etica, prima che economica. Per non vedere più suinostri schermi quegli sventurati riacciuffati dal destinoe umiliati dopo mesi di prove e di cammino, bisogneràandare alla radice del male e la radice è condivisa tra cer-ti europei e certi africani.

Uno degli effetti della crisi sarà la ridistribuzione del-le carte. Stiamo attraversando un momento storico. Lemigrazioni su scala planetaria sono state la sindromedella follia che ha accompagnato i potenti del mondo. Seadesso non si fa niente contro le disuguaglianze e control’ingiustizia, se si continua ad assistere all’espansionedella miseria e della carestia, né l’Europa né l’Americapotranno vivere in pace. Avranno un bell’erigere murilungo le loro frontiere, ma ci saranno sempre uomini edonne che tenteranno il tutto per tutto per non vivere piùnell’umiliazione della fame. A costo di morire.

Traduzione di Elda Volterrani

Ma anche l’Europa della crisi resteràil paradiso sognato da chi non ha nulla

TAHAR BEN JELLOUN

sulla riva libica.C’è una bella ragazza somala viva per

un miracolo e alle onde del Mediterra-neo è sopravvissuto anche il suo diario.È riuscita ad afferrarlo proprio quandola barca si stava rovesciando, mancava-no tante miglia e l’isola ancora non si ve-deva. Quei fogli Elham li tiene in unaborsetta lucida con borchie cromate,grandi bottoni, una lunga cinghia. Il dia-rio comincia dal maggio 2004, il meseche ha preso marito. Ma lui, Abdul, nonè ancora sbarcato. «Proverà domani oforse proverà dopodomani a imbarcar-si in Libia, io sono qui ad aspettarlo», di-ce Elham quando un autobus — lei an-cora non lo sa — sta partendo e fra un at-timo la caricheranno per portarla a Cro-

tone o a Caltanissetta, a Bari o a Roma.Anche lei ha due foto nella sua borsa.Una è di Abdul, che è a Tripoli, l’altra delloro bambino che hanno lasciato a Mo-gadiscio. In un sacco ha piegato fra i suoivestiti un velo bianco, lo stende, lo piegae lo ripiega e se lo avvolge intorno al ca-po prima di scomparire dentro il pull-man che la trasporterà in un’altra Italia.

La chiglia del “Saber” è puntata versoil cielo, come un aeroplano al decollo.Nessuno si ricorda più quando né doveè affondato. Giace nella piatta e seccacampagna lampedusana con il suo cari-co di mistero. Sotto lo scafo più nuovo esventrato è schiacciata una barca con la

scritta in arabo, fasce di legno azzurre erosse e gialle, un numero e una sigla —2140 MA — è tutto ciò che raccontanodella sua prima o della sua ultima pro-venienza. Il porto di Sfax? La marina di AlZuwara? La capitaneria delle Kerkenna,quelle isole che sono sulla rotta dei traf-ficanti di uomini? Sul ponte dove l’albe-ro maestro è stato sradicato da una tem-pesta c’è un cartone di Marlboro, c’è unpettine, ci sono reti di pescatori e coper-te di lana grezza. Un secchio è pieno difelpe sudicie, una cerata è impigliata inquello che era il motore della barca, pez-zi ossidati, sporchi di fango, rosicchiatidal tempo.

Fra chiodi e ferri e assi, il vento agita al-tri fogli sopra la carcassa di un battello, il

più grande di tutti. Sono frammenti diun altro diario. Una data: 12 gennaio2001. Undici righe scritte probabilmen-te da un marocchino o da un tunisino.Un’altra data: 13 gennaio 2001. Sette ri-ghe, una parola dopo l’altra e tre nomi.Una terza data: 14 gennaio 2001: due ri-ghe e un solo nome. Poi solo fogli ba-gnati, tutti bianchi. Non si legge più nul-la. Come non si legge più nulla sulle altrechiglie nel cimitero dei barconi di Lam-pedusa. Qualche sigla — 6027-SF, 30-AC, 42-SA — che si confonde sulle fian-cate raschiate dai passeur. Qualche nu-mero ridipinto su altri numeri prima diprendere il mare.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

LA FOTOGRAFA

Mashid Mohadjerin (a sinistra)

è una fotografa di origine

iraniana cresciuta in Belgio

e residente a New York

Da bambina ha vissuto

insieme alla sua famiglia

l’esperienza della fuga

e dell’esilio. Ha esposto

i suoi lavori in Belgio, Stati Uniti,

Italia e in una mostra itinerante

in Asia. Ha ricevuto numerosi

riconoscimenti internazionali

Scritte in araboe sigle semicancellatesono quello che restadei vascelli affondati

Il diario di Elham,ragazza somala,salvato dal naufragioinsieme alla vita

Repubblica Nazionale

Page 4: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

Saluti e baci non consegnati, letterescritte e censurate, mai spedite, sepol-te, rimaste a ingiallire nell’archivio delSan Girolamo, tra le vecchie cartelle cli-

niche dei pazienti dell’ospedale psichiatrico di Vol-terra, in provincia di Pisa, negli anni in cui bisogna-va far dimenticare al mondo che c’erano i matti.Calligrafie antiche: «Carissimo padre, io di salutesto bene e spero voi pure facciate lo stesso. Nellamia assenza da voi vi ho scritto tre volte e mai ebbirisposta… Com’è che mi tenete questo silenzio? Vimandai a chiedere la stoffa per farmi un abito, nel-la eventuale mia uscita da qui». Struggenti: «Carafamiglia, vi giuro di non disobbedirvi mai più, vi fac-cio sapere che in tutto questo tempo non ho rice-vuto nulla, vi prego di venirmi a trovare». Di prigio-nie e solitudini senza tempo: «Carissima sorella,non vedendo né vostre lettere né la vostra presen-za qua, non so più cosa pensare».

Affetti consegnati alla deriva di un italiano incer-to e messi per la prima volta venticinque anni fa inun libro ormai introvabile e adesso ripubblicato

dalla Asl di Pisa con un contributo della Cassa di Ri-sparmio di Volterra e con un nuovo editore, Del Cer-ro: Corrispondenza negata-Epistolario della navedei folli 1889-1974 (400 pagine, 38 euro). Il volumecurato dall’ex direttore del San Girolamo CarmeloPellicanò (scomparso l’anno scorso) e da quattrocollaboratori — Remigio Raimondi, Giuseppe Agri-mi, Volfango Lusetti, Mauro Gallevi — dà voce a chiper quasi un secolo ne è stato privato, è un risarci-mento postumo, le nostre scuse per aver lasciatoanche dopo il 1948 zone franche, terre in cui l’arti-colo 15 della Costituzione italiana sulla segretezzadella corrispondenza non veniva applicato.

«Il malato in manicomio era tenuto in una con-dizione sub-umana, isolato, nascosto al resto dellasocietà — spiega Remigio Raimondi, oggi direttoredel dipartimento di salute mentale di Massa Carra-ra —. Le lettere erano un contatto con l’esterno,qualcosa che poteva alimentare nel paziente dellesperanze o ingenerare illusioni, delusioni, comun-que turbamenti. Per questo, per anni e in tanti ma-nicomi, non soltanto a Volterra, la corrispondenzaper le famiglie o dalle famiglie agli internati non ve-niva recapitata. Al San Girolamo abbiamo trovatolettere allegate alle storie cliniche, usate come pro-va della malattia».

Qualche anno fa era stato Simone Cristicchi adandarle a cercare e a trarne una canzone che vinse

Un libro raccogliele lettere 1889-1974trovate nell’archiviodell’ospedalepsichiatrico di Volterra:la corrispondenzacensurata tra i pazientie le loro famiglie,il ricordo struggentedi tante vite spezzate

a Sanremo; adesso ritorna il libro, una raccolta dicentocinquanta missive mai consegnate, unacampionatura di quello che è rimasto negli archividel manicomio toscano. Il San Girolamo era quasiuna città, ha avuto fino a quattromilaottocento pa-zienti divisi in padiglioni, batteva una sua moneta,aveva laboratori di sartoria, orti, un’officina, un pa-nificio, allevamenti di galline e di maiali. Una co-munità autosufficiente, con intorno muri difficilida scavalcare.

Per capire cos’erano quelle solitudini, il ritrovar-si legato a un letto, non prendere aria per settima-ne, non avere più niente che ti appartiene, nem-meno un abito, una fotografia, un orologio, biso-gna sfogliare certe pagine dalle calligrafie faticose,aprire porte private in cui si entra con disagio. Per-ché sono nostalgie di casa: «Il bimbo poche volte èvenuto a trovarmi, un po’ il freddo intenso o la ne-ve, un po’ la mancanza di quattrini»; sono paure,punizioni: «Se qualcuno si azzarda a pronunciaremezza parola, detta con tutta la ragione, guai a queldisgraziato, ci sono subito le fasce, e se continuas-se a parlare c’è pure altri rimedi più feroci»; grida diaiuto: «Sono peggio che in una galera, ti prego di ve-nire presto a prendermi»; improvvise fragilità: «Mipare mille anni che non vedo qualcuno di casa»;

amori di clausura: «All’ospedale ho avuto relazioniintime con una signorina che adesso mi chiede in-dennità di un milione di lire egiziane e un pacco didolciumi».

C’è il cantante lirico che vorrebbe ancora un pal-coscenico, il ferroviere pentito di aver denunciatouna truffa, l’anarchico che racconta il suo arresto,l’alcolista che scrive alla moglie. C’è quello che si ri-volge allo zar di tutte le Russie o al re: «Maestà, l’es-sere mio tutto è gracile, indebolito, causa il vivereda bestie. Un po’ d’aria l’ho avuta dopo ben venti-sei mesi passati fra ogni sorta di puzze e infezioni!Sono evaso due volte per sottrarmi a questi inuma-ni abusi, a queste occulte ingiustizie; ma tutti i mieisforzi furono inutili. Dicono che io sono pericolosoe posso attestarlo poiché così mi trattano. Forse mitengono qui perché sono orfano di padre e madre?O perché quei pochi parenti che ho non se ne oc-cupano?... In sessanta mesi non ho avuto una solariga di scritto, nessuno si è degnato confortarmi,consolare il mio tanto dolore…».

Il volume sarà presentato a Volterra al Festivaldei coralmente abili, il 7 e 8 novembre e sarà dedi-cato al diritto all’inclusione e alla pari dignità, testi-monial Roberto Vecchioni. La corrispondenza ne-gata verrà «consegnata» sabato 8 novembre, atrent’anni dalla legge 180, nel ridotto del teatro Per-sio Flacco.

Manicomila memoria28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

LAURA MONTANARI

LE IMMAGINILe foto e le lettere

pubblicate in queste

pagine sono tratte

dal libro Corrispondenzanegata-Epistolariodella nave dei folli

I sani, i mattie le parole negate

VOLTERRA (Pisa)

Repubblica Nazionale

Page 5: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

«Cari genitori, io sto bene…», «vi ringraziotutti…», «…parti subito, vienimi a tro-vare», «cara famiglia, giuro di non di-

subbidirvi più…». Leggo qualche frase dalle lette-re ritrovate a Volterra, e la cosa più commovente èla fiducia: quella dei pazienti che scrivono ai lorocari e quella dei parenti che scrivono ai pazienti.Gabbati tutti e due, con quelle lettere mai conse-gnate. Io sono stata una paziente e ricordo le volteche vedevo passare un uomo vicino all’inferriata egli affidavo un biglietto. Figuriamoci se lo conse-gnava, ma non importa. Contava di più la speran-za che un giorno potesse venire lì un amico. Eranoballe, ma importanti. Per questo è una sconcezzache le lettere siano finite in un cassetto, e questo èun libro che è giusto pubblicare.

* * *Amavamo talmente i nostri cari che non diceva-

mo mai niente del dolore, degli elettro-shock. Inventavamo la vita dentro ilmanicomio e a loro dicevamo che la vi-ta è bella, come nel film di Benigni. Pernon scandalizzare i figli, e neppure gliadulti. Per risparmiargli le preoccupa-zioni e i dolori: può sembrare strano masei tu, rinchiuso, che hai pietà per loro.Lo stesso con le visite: aspettavo miomarito per giorni e quando lo vedevodimenticavo tutto quello che avevo pa-tito nella giornata, e allora qual era laverità, la mia gioia di vederlo o il mio ter-rore dell’attimo prima? C’è un aspettotrionfale, in quell’amore che ci tenevain vita, la speranza che «prima o poi luimi risponderà, prima o poi mi verrà aprendere».

* * *Mio marito è l’uomo che mi ha fatto

rinchiudere, per gelosia. Ma credo chenon sapesse di mandarmi alla tortura,aveva creduto ai medici. Quando annidopo è morto di cancro, non avevamo i soldi percurarlo e allora ho messo mano al mio libro TerraSanta. Lui, poveretto, mi correggeva le bozze eogni tanto alzava gli occhi dai fogli per dire: «Dav-vero ti ho fatto passare tutto questo?». Del restol’autore del nostro disastro è sempre il padre, il ma-rito, il fratello. Subirlo è la forma più grande di amo-re, perciò si perdona. Non voglio descriverlo comeun essere abietto, era anche una persona positiva,con una materialità che mi ha aiutato, perché ilpoeta, se non lo tiri giù, vola via. Gli do una colpa,grande: mandarmi in manicomio è stato un tenta-to omicidio, però colposo.

* * *Ai medici è più difficile perdonare. Uno non di-

venta matto di colpo, posto che il poeta è natural-mente un malinconico, ma è anche un meditativo

e uno scrupoloso osservatore delle cose, un croni-sta come Dante, o come gli apostoli, che eranopoeti di strada e raccoglievano storie. L’ho fatto an-ch’io. In quei momenti non puoi scrivere poesia,non hai niente da dire. Ma ho imparato a guardarenella mia anima e in quella degli altri. Il manicomioè un posto pieno di attori mancati, che recitanocon grande naturalezza. Il malato sa sempre di chiè la colpa, ma non lo dice perché al colpevole vuo-le bene. Allora si crea una favola e va ad abitarci persalvarsi la vita. E ci resta finché non lo tiri fuori conuna sberla.

* * *Sberla metaforica, dico, non elettroshock. Quel-

le sono cento sberle insieme, ti si spaccano i denti,ti svegli coi capelli ricci e non ricordi nulla. Sicco-me il manicomio è un’Hilarotragoedia, avrebbedetto Manganelli, e i matti sono anche divertenti,

a volte dicevamo ai dottori: «Perché ilnumero sette non ha fatto la terapia?». Ilnumero sette non ricordava niente, gliinfermieri non ci facevano tanto caso ecosì ne faceva due. Guarire è un’altra co-sa, come ho scritto del mestiere di poe-ta, «è un improbo recupero di forze peravvertire un po’ di eternità». Certo, dacerte esperienze puoi anche tirare fuoriuna grande forza. Però sconsiglio di pas-sare di lì.

* * *Più avanti ho conosciuto un altro

aspetto del manicomio, quando un dot-tore, il mio Dottor G. a cui ho scritto tan-te lettere che ho poi pubblicato in un li-bro, mi difendeva dalle torture e mi met-teva davanti una macchina da scrivereperché mettessi sulla carta i miei pen-sieri. Regolarmente succedeva un mira-colo, quando tornavo in manicomiosparivano tutti i sintomi. Ritrovavo tuttie quando si spalancavano le porte erano

le porte dell’Eden. Mi accoglievano a braccia aper-te, in un certo senso era già cominciato il mio suc-cesso.

* * *Ci sono molti equivoci su poesia e follia, e sul

poeta e il dolore. C’è gente fuori di testa che pensache la poesia sia una terapia, invece è una vocazio-ne. Il poeta nasce felice. Sono gli altri che gli pro-curano il dolore. Non parlo solo del manicomio,ma di dolori come la passione quando diventa unabisso. Come per Teresa Raquin, come per Mada-me Bovary, una schiera di donne di cui credo di farparte, che vogliono essere amate senza essere stru-mentalizzate. Io sono stata strumentalizzata tan-to. Ma tutto alla fine diventa ricordo. E noi sullabeatitudine dei nostri ricordi ci addormentiamo.

Testo raccolto da Maurizio Bono

Il poeta sulla nave dei folliALDA MERINI

IL LIBROCorrispondenza

negata-Epistolariodella nave dei folli

(400 pagine,

38 euro, Del Cerro

editore) è stampato

a cura

della Asl di Pisa

Repubblica Nazionale

Page 6: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

i luoghiBaedeker letterari

I quartieri vecchi, le spiagge da bambino,la facoltà di giurisprudenza, la chiesaortodossa. Gianrico Carofiglio raccontala sua città. Quando i cinema non eranobingo, nasceva la vita notturnae si sognava, come oggi, di fuggire lontano

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

La Facoltà di giurisprudenzasi trova in Piazza Cesare Bat-tisti, alle spalle dell’Ateneo adue passi da tutto nel cuoredella città: il cosiddetto Bor-go murattiano. Il centro ot-

tocentesco di Bari ha la conformazionedel castrum, romano, come Torino. Ècomposto di isolati regolari a forma direttangolo; le vie sono diritte ed è impos-sibile perdersi, sia a piedi, sia in auto.

Sulla conformazione della città murat-tiana una volta ho letto una cosa che mi èpiaciuta molto. L’ha scritta un francese— Paul Bourget — nel 1891, e rende l’i-dea. «La trovo attraente questa città nuo-va, con le sue vie larghe ad angoli retti, checonsentono di vedere sempre in fondoad esse il mare, come a Torino si vedonole Alpi». È nel libro Sensations d’Italie, cheperaltro è anche un bel titolo.

Oggi in fondo alle vie non si vede più ilmare, perché dal 1891 nuovi quartieri so-no nati e cresciuti attorno al quadrilaterooriginario e perché le auto soffocano lavista oltre che il respiro. Però di notte, ilpomeriggio della domenica o in certigiorni di festa, quando non c’è traffico ele strade sono sgombre, si può ancoraprovare quella sensazione rettilinea diitinerari prevedibili e di svolte rassicu-ranti cui alludeva lo scrittore francese. Eparadossalmente è proprio in quei mo-menti che balena l’intuizione, ambigua evertiginosa, di essere su instabili punti difuga, diretti verso posti lontani.

***

La notte a Bari alla fine degli anni Set-tanta era un luogo buio, silenzioso e po-co cordiale. Non c’era luce, non c’eranorumori né musica, non c’erano posti do-ve andare la sera a parte i cinema. Quellierano tanti, anche più di adesso. Tanti, ealcuni, per le ragioni più varie, bellissimi.C’era il Gran Cinema Oriente, il primo incui sia mai andato nella mia vita, bambi-no di quattro o cinque anni; quello in cuiogni anno arrivava il nuovo film della Di-sney, il primo in cui sia andato da solo, aundici anni. Oggi al suo posto c’è una sa-la Bingo. Evito i commenti. C’era il GranCinema Margherita, magnifico edificioliberty, costruito e affrescato proprio nel1900 sullo sfondo del cielo e del mare.Chiuso da trent’anni, praticamente inrovina. Ogni amministrazione giura chelo metterà a posto e, come si dice, lo resti-tuirà alla città.

C’era il Cinema Orfeo. Oggi sala Bingo.C’era la misteriosa Arena Giardino, con isuoi sedili di legno tinteggiati di verde e isuoi film di Totò in certe notti di settem-bre, immobili e incantate. Rasa al suolo.C’era l’ABC-Cinema d’Essai (questo ilnome completo ma per tutti era l’ABC).Una sala minuscola a due passi dal faro,dove oggi, più o meno, sono arrivate lacittà, i negozi e le banche, ma dove — fra

ma-na, all’ultimo spet-

tacolo. E spesso, dopo il film, resta-vamo a chiacchierare lì davanti, sottovo-ce, fino a tardissimo. Ha chiuso alla finedegli anni Ottanta e passarci davanti mifa sempre pensare alla casa degli Usher.

* * *

Ho divagato.A parte i cinema, dicevo, non c’erano

posti dove andare la sera. Non posti pernoi, almeno. Esistevano circoli privati —la Vela, l’Unione, il Barion — per soci an-ziani che essenzialmente giocavano acarte. Quei circoli privati esistono anco-ra. I soci sono anziani (molti sono gli stes-si di trent’anni fa) ed essenzialmente gio-cano a carte.

Esistevano alcuni locali notturni di re-putazione assai dubbia, dove si pratica-vano varie attività, tutte pericolosamen-te sul confine (e spesso oltre il confine)del codice penale e dove non ci avrebbe-ro mai fatti entrare, ammesso che la cosaci interessasse.

Esistevano le discoteche, naturalmen-te. Erano aperte solo nel fine settimana,avevano nomi vagamente pacchiani —Rainbow, Snoopy, Cellar, Merendero,Privé — e a me non piacevano; un po’ perconfuse ragioni ideologiche, un po’ per-ché il mio stile di ballo ricordava quello diuna foca monaca e certamente non in-crementava il mio successo sociale.

Erano posti densi di fumo, musica as-sordante, profumo Patchouli dei ragazzi,profumo Charlie delle ragazze e, comun-que la si pensasse, non erano posti dovebere una birra, chiacchierare, cazzeggia-re, tirare tardi fino all’alba. Fino a tutto il1979 posti del genere a Bari non ne esi-stevano. Era questa una delle ragioni percui sognavo di andarmene via, verso unavita e dei posti più liberi, adatti a me, neiquali potessi essere me stesso e vivere se-condo la mia natura. Cioè un estrosotemperamento artistico, un po’ cialtronema capace di folgoranti slanci creativi,pronto all’ubriacatura, alla rissa e soprat-tutto all’avventura con le donne (a lorovolta, s’intende, molto ben disposte al-l’avventura con me).

Giuro che pensavo veramente certestronzate quando rientravo a casa, ra-gazzino di diciassette, diciotto anni, nelbuio delle notti degli ultimi anni Settan-

GIANRICO CAROFIGLIOgli anni Settanta e Ottanta — c’era una se-quenza irreale di edifici diroccati e sini-stri, di casette a un solo piano abitate daanziane prostitute. Passando davanti aqueste casette davo sempre una sbircia-ta, sperando di intercettare qualcheframmento di torbido erotismo merce-nario. Ma lo spettacolo era sempre lostesso: signore infagottate e sovrappesoche guardavano la televisione e, se si ac-corgevano di te, ti lanciavano uno sguar-do invitante e sensuale come un’auto-psia. Il cinema era un’isola in questo ter-ritorio di allucinato, affascinante squal-lore. Pare che sia in ristrutturazione. Al-meno, considerate le dimensioni micro-scopiche della sala, non potranno maifarci una sala Bingo.

C’era il Jolly, antico dopolavoro dell’E-nel, che era il nostro preferito. Aveva se-dili di legno scuro — i più scomodi che ab-bia mai provato — era il più economico eci andavamo un paio di volte alla setti-

Storie dell’altra Bariporto senza più mare

1

2

3

45

7

8

9

10

11

6

1213

14

15

16

LA MAPPA1. Città vecchia 2. Porto nuovo

3. Porto vecchio 4. Madonnella

5. Murat 6. Libertà 7. Japigia

8. Picone 9. Carrassi

10. San Pasquale

11. Mungivacca 12. Fiera

13. San Girolamo

14. San Paolo 15. Poggiofranco

16. Carbonara.

La cartina, contenuta nel libro

Né qui né altrove, è di Luca De Luise

LE FOTODa sinistra in senso

orario, una stradina

del quartiere Carbonara;

il lungomare; il Porto vecchio;

il quartiere San Paolo;

la chiesa ortodossa

del rione Carrassi

Repubblica Nazionale

Page 7: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

Sbirciando speravodi intercettarequalche frammentodi torbido erotismo

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

ta. Fu qualche giorno prima del capo-danno 1980, che in via Netti, nel cuoreprofondo, maleodorante e minacciosodel quartiere Libertà, si inaugurò la Ta-verna del Maltese. Dopo, cambiaronomolte cose.

***

La Taverna del Maltese, e tutto quel-lo che in breve avrebbe cominciato a gi-rarci attorno, fece irruzione nelle nottisilenziose e vuote di Bari, evocandoun’umanità imprevista, notturna, sot-terranea, allegra, cialtrona, tragica, ri-dicola, a volte anche geniale. Erano ar-tisti, picchiatori, musicisti, aspiranticuochi, aspiranti magistrati, romantici,scansafatiche, cantautori, scrittori,ubriachi, pazzi, drogati, belle ragazze,anoressiche, puttane, poeti, ricchioni,lesbiche, indecisi, politici, punk, tradi-tori della causa, spacciatori, ninfomani,liceali e professori.

La nostalgia è un’emozione che nonfrequento molto: ma, devo dirlo, mi faun certo effetto ripensare a certe notti alMaltese (per tutti, in breve, quel postodiventò semplicemente il Maltese), e aquell’insieme scomposto di vecchigiubbotti di pelle, sciarpe, tette, scarpeda ginnastica, odori, barbe, culi, spe-ranze pronte a venire deluse, cuoripronti a essere infranti, segreti, amori,destini a scomparsa. Facce e illusioni ri-succhiate nel tempo.

***

Fu insieme a Randy che, a poco a poco,cominciai a esplorare la città. Uscivo ilpomeriggio, subito dopo pranzo. Anda-vo ai giardini — di Piazza Garibaldi, o diPiazza Umberto o di Piazza Isabella d’A-ragona — e lasciavo che il cane, ormai di-ventato adulto e piuttosto grosso, tentas-se di uccidere altri cani più piccoli di lui o,in alternativa, tentasse di farsi uccidereda altri cani più grossi di lui. Poi, siccomenon avevo voglia di tornare a casa a stu-diare, rimettevo Randy al guinzaglio e mene andavo in giro.

A volte, quando l’aria era bella e fre-sca, e la voglia di studiare ai minimi sto-rici, facevo delle passeggiate lunghe,che duravano ore. Arrivavo fino alla Fie-ra del Levante o addirittura fino alla pi-neta di San Francesco, o, se mi andavauna direzione diversa, fino ai giardinidella Chiesa Russa di rito ortodosso, che

si trova nel rione Carrassi, non lontanodal carcere, ed è un edificio bello e inte-ressante. È una delle chiese russe piùgrandi del mondo al di fuori della Russiae, calata com’è nel pieno di un quartieremolto popolare e popolato (in qualchezona anche piuttosto pericoloso) comeCarrassi, produce nel visitatore un effet-to di straniamento. Come un enormemeteorite che, precipitato nel mezzodella città, abbia creato una dimensione

spazio-temporale del tutto autonomarispetto a quello che c’è attorno.

***

San Francesco e il Trampolino sonogli stabilimenti balneari storici di Baricittà. Dal centro ci si arriva in un quartod’ora, se non c’è traffico, e poche cose,da adulto, mi hanno dato l’idea di averavuto un’infanzia privilegiata quanto

l’opportunità di andare al mare e fare ilbagno senza dover uscire dalla città.

Sin da piccolo io andavo perlopiù alTrampolino, che, fra le varie maggiori at-trattive rispetto alla concorrenza, avevafantastici arancini di riso e una piscinabellissima, dal cui trampolino deriva ilnome dello stabilimento. Era su un pia-no rialzato, quella piscina, era profondapiù di tre metri e su una delle pareti ave-va un oblò dal quale si poteva assistere al-le evoluzioni subacquee dei bagnanti.Ignoro per quale motivo fossi così irresi-stibilmente attratto da quell’oblò: macerto è che passavo ore a guardarci den-tro, affascinato dall’opportunità di guar-dare, da vicino ma in sicurezza (all’epocanon sapevo nuotare ed ero terrorizzatoall’idea di potermi trovare nell’acqua do-ve non si appiedava), l’acqua profonda, icorpi silenziosi in movimento avvolti danuvole di bollicine, tutte le sfumature diceleste che facevano da sfondo e da cor-nice allo spettacolo.

Quello dell’oblò della piscina delTrampolino è uno dei ricordi più inten-si della mia infanzia. Ci rimasi malequando, tanti anni dopo, la piscina fu ri-strutturata, ne fu ridotta di molto laprofondità per ovvie ragioni di econo-mia idrica, e l’oblò, scomparsa la sua ra-gione di esistere, fu tristemente murato.

A fianco del Trampolino c’era — e c’èancora — la spiaggia libera chiamata IlCanalone. Il nome deriva dal fatto chel’accesso al mare è collocato alla fine diuno dei grandi canaloni di scolo delleacque piovane — larghi come fiumi —che circondano la città e che furono co-struiti per scongiurare i danni catastro-fici delle alluvioni. Il confine fra il Tram-polino e il Canalone era attentamentesorvegliato dai bagnini più nerboruti ecattivi della spiaggia privata, per evitaresconfinamenti da parte dei proletari fre-quentatori della spiaggia pubblica.

Osservando da bambino quel serviziodi sorveglianza in azione, ho fatto le pri-me riflessioni politiche della mia vita, an-che se allora non lo sapevo. I bagnini era-no chiaramente della stessa provenienzasociale di coloro le cui eventuali intrusio-ni dovevano respingere. E dunque lavo-ravano per i ricchi, contro i loro fratelli diclasse (preciso che a otto anni non ado-peravo l’espressione fratelli di classe).Era una cosa che non riuscivo a capire enell’insieme la situazione mi creava unasorta di disagio intellettuale.

© 2008 Gius. Laterza & Figli

IL LIBRO

Rivedersi dopo oltre vent’anni con amici

che non hai più cercato. Di notte, a Bari. E ripercorrere

i luoghi della giovinezza con gli occhi di oggi

È la trama o il pretesto che Gianrico Carofiglio immagina

per scrivere Né qui né altrove. Una notte a BariScritto in forma di romanzo, il libro è in realtà soprattutto

una guida storico-turistica della città natale

dell’autore di Ragionevoli dubbi. La pubblica Laterza

nella collana Contromano (176 pagine, 10 euro)

Sarà in libreria il 6 novembre. In queste pagine

ne anticipiamo alcuni brani

Repubblica Nazionale

Page 8: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

Che un feroce profanatore di luoghi comuni —ebreo, poi ateo, infine credente ma in una ma-niera affatto speciale, visto che aveva fede nelkarma della reincarnazione — potesse lunga-mente conversare sulla natura di Dio e gli effet-ti che una tale sostanza avrebbe sui destini

umani, ha qualcosa che ci sorprende. Norman Mailer, scom-parso nel 2007 a ottantaquattro anni, è stato — forse insiemeal solo Henry Miller — lo scrittore più controcorrente che l’A-merica abbia conosciuto. Perfino più trasgressivo — certa-mente più macho — della celebrata ditta Beat Generation,che a un certo punto con i suoi santoni diventò una fabbricadi idee fumose condite di Oriente e di pace.

Mailer, invece, alla fine sembrava somigliare più a JohnWayne che ad Allen Ginsberg. Era tutto patria (almeno in ap-parenza), whisky e donne. Dava l’impressione di girare per-manentemente armato. Si mostrava temibile, provocatorio,intollerabilmente convinto che se colpisci per primo, l’av-versario non ha scampo (regalò una testata in un camerinotelevisivo a Gore Vidal, e un pugno a un critico che gli avevasorriso in modo strano). Per Norman — sei mogli, la secon-da aveva anche tentato di accoltellarla, nove figli, trentacin-que tra saggi e romanzi, (tra cui il notevole esordio con Il nu-do e il morto), una dozzina di sceneggiature e qualche filmcome regista e interprete — la vita era un ring sul quale com-battere ogni giorno. E allora che cosa c’entra Dio? Sarebbecome — per fare un esempio a noi vicino — immaginare diveder spuntare da sotto lo statua di una Madonna in pelle-grinaggio, il fisico tozzo da ex pugile di Giancarlo Fusco. Hoil sospetto — al di là delle indiscutibili differenze di qualitàletteraria — che i due si sarebbero riconosciuti quanto me-

no per la stessa vitalità parolaia e per quella dirompente ca-pacità di menare colpi con determinazione guascona.

Dopotutto, Mailer era un appassionato di boxe. Ce l’ave-va nel sangue. La boxe era l’America, anche nel senso di po-terla prendere a pugni. La boxe era il suo amico Alì che in unanotte di caldo e stupore demolì Foreman (il libro che ne rac-conta la storia, Il combattimento, non è niente male). Ama-va le grandi star, come Madonna, che lo ringraziò di nonaverla presa a pesci in faccia. Aveva inseguito per anni il mi-to di Marilyn Monroe e poi alla fine, stanco di tanta ossessio-ne, la stracciò, in un libro, come una bambolina di pezza.

Un provocatore? Certo. Ma la verità è che Norman amavasfidare le vette. E per questo alla fine incontrò Dio. Il risulta-to fu un lungo dialogo con il suo biografo e amico MichaelLennon, da cui è scaturito un libro (ben tradotto da Masoli-no D’Amico) che è un piacere leggere per arguzia terrestre, einsolenza celeste che contiene. Niente in queste conversa-zioni è scontato. Dio vi appare come un essere con il qualemisurarsi alla pari. Mailer lo fa sembrare un peso massimo(per restare nella boxe) che saltella, picchia e schiva i colpi.Punge ma non fa male. Perché in fondo non è quel tipo irosoe onnipotente che le religioni ci hanno fatto credere: un Dio,svelto ed efficiente, che fa tutto in pochi giorni. Mailer haun’idea molto diversa di Dio. Lo colloca tra gli artisti. E seb-bene lo reputi il migliore tra loro, è pur sempre uno che aspet-ta l’ispirazione, uno che crea, sbaglia, si corregge, che nonsempre ha le idee chiare su cosa sta facendo. Prendete la sto-ria dei dinosauri. Dio si convinse di aver dato vita a delle crea-ture strepitose, roba da Guinness dei primati, dei giocattolo-ni che avrebbero dominato la terra, i cieli e i mari. Si era di-vertito un mondo a costruirli. Ma si accorse di averli proget-tati male e l’immenso entusiasmo di avere realizzato qual-

cosa di grosso e formidabile presto scemò. Erano animali pe-santi, goffi, inutili alle altre specie. Erano superflui. E rime-diò all’errore. Dopotutto un grande artista non fa lo stessonumero per tutta la vita.

C’è qualcosa di dissacrante in questa narrazione? Non piùdi tanto. Mailer si prende sul serio quando parla dell’EssereSupremo. Egli è convinto che stia da qualche parte. Ma noi,ci ammonisce, non dovremmo contare troppo su di lui, néinvocarlo ogni due per tre. Del resto, commenta con oltrag-giosa efficacia, Dio è ben lontano dal realizzare la sua stessavisione: «È impantanato nelle nostre promozioni aziendaliin tutto il globo, nelle nostre autostrade, nella nostra plasti-ca, nelle nostre minacce di guerra nucleare, nelle nostrespietate, arroganti guerre etniche, nel nostro terrorismo,nella nostra diffusione dell’inquinamento su tutto il Suo am-biente». Il Dio delle religioni, ci suggerisce Mailer, ha fallito.Proviamo a stare in piedi da soli. Non siamo più dei bambi-ni. E poi, quel Signore lì, ha già troppi problemi per contoproprio, da dover pensare anche ai nostri.

Lo scrittore, nato nel New Jersey, avverte un’enorme sfi-ducia in ciò che la gente pensa sia il bene: le democraziaesportata con le armi, il fondamentalismo, i telepredicatori,il paradiso, la tecnologia. Guarda con sospetto alle grandirealizzazioni, al progresso che sa dove andare, ai rituali cheaccompagnano le nostre vite. Si mostra imprevedibile, èconvinto che la ripetitività sia la tomba dell’anima, si defini-sce esistenzialista, ossia uno che non sa quale sia l’obiettivodell’esistenza. Scopo della vita al più è quello di trovare do-mande sempre più alte e migliori. Ecco perché Dio fa la suaparte in questo teatro della provocazione. «Quello che io cre-do — ed è una congettura ma per me importante — è che noisiamo qui come opera di Dio, siamo qui per influenzare il suofuturo non meno che il nostro. Noi siamo l’espressione di

Dio, e non tutte le opere d’arte riescono».Non è un discorso propriamente religioso, ma sembrano

parole intinte in un’etica molto particolare. Perché l’etica,agli occhi di Mailer, non è un sistema di regole ma qualcosache si appoggia sull’autorità dei sensi. Ci invita a fidarci deinostri sensi, perché alla fine questo è il contatto più ravvici-nato che abbiamo con il Creatore.

Lo so, i pensieri di Mailer sembrano espressi con eccessi-va libertà. C’è una felice irresponsabilità teologica che li av-volge. Egli vede con gli occhi dello scrittore. E sono grandi oc-chi. A volte buoni, a volte cattivi. A volte ironici. Raccontò cheuna volta Dio gli aveva parlato. Era notte e lo scrittore si tro-vava in un bar, solo, davanti a un caffè. Pensieri cupi lo tor-mentavano, dopo che la terza moglie lo aveva abbandona-to. E quella voce gli disse: «Norman, esci senza pagare. Hosempre pensato — commenta Mailer — che Dio si sia diver-tito a dire: Piccolo perbenista. Esci di lì e basta. Non pagare ilcaffè. Loro sopravviveranno e a te farà bene».

Amava la provocazione e lo scandalo. Era diventato il be-niamino dei rotocalchi. Talvolta il successo può uccidere,più che l’insuccesso. Mailer aveva bisogno dei riflettori (i di-vorzi tra l’altro costano), ma sapeva difendersi se non daipropri eccessi almeno da quelli altrui. Era consapevole che«scrivere best-seller con l’intenzione di farlo è, in fin dei con-ti, non molto diverso dallo sposarsi per denaro». Non era l’ul-timo atto di un cinico, ma la confessione di un egocentricopiuttosto realista. Gli si attaglia, come il vestito di un buonsarto, una battuta che Woody Allen gli riservò: «L’ego di Mai-ler era talmente ingombrante che ne aveva donato una par-te ad Harvard per la ricerca scientifica». Lì, da giovane, Nor-man aveva provato a diventare ingegnere, ma la scrittura e lavita presero il sopravvento, regalandoci un altro uomo.

Ebreo, ateo, infine credentesui generis, il grande scrittoremorto lo scorso anno

raccontò al biografo Michael Lennonil suo rapporto con la religione. Il risultatoè un libro in forma di dialogo che adesso escein Italia: una brillante conversazione privata in cui il provocatore della letteratura americanarivela la sua idea personalissima dell’EnteSupremo, ma anche la fede nella reincarnazione

CULTURA*

“Io e Lui ad armi pari”

MailerDioparla

con

IL LIBRO

A proposito di Dio(Baldini Castoldi

Dalai Editore,

248 pagine,

17 euro, in uscita

il 4 novembre),

di cui qui pubblichiamo

un’anticipazione, è l’originale

conversazione tra Norman

Mailer e Michael Lennon

su Dio, preghiera e religione

ANTONIO GNOLI

Repubblica Nazionale

Page 9: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

ILL

US

TR

AZ

ION

E W

ILL

IAM

BL

AK

E “

LA

TE

RZ

A T

EN

TA

ZIO

NE

” S

TA

PL

ET

ON

CO

LL

EC

TIO

N/C

OR

BIS

“Amici miei, evitatedi pregare per me”

NORMAN MAILER

L’altra faccia della preghiera è che di rado riceve risposta; co-sì di rado che agli incontri religiosi la gente cita tali eventicome formidabili. Di solito le preghiere non sono esaudite

e quelle che lo sono sono spesso considerate una specie di mira-colo. Immagino il Signore che sguazza in una palude di preghie-re: «Oh, Dio, fai vincere la mia squadra!». «Oh, Dio, fammi ven-dere questa carcassa di moto che nessuno vuole per potermenecomprare una nuova con le ruote a raggio».

Non credo che Dio ascolti la preghiera. I Sumeri erano un po-polo relativamente evoluto che ammetteva le preghiere, ma an-che che le risposte non arrivavano spesso.

***Se dobbiamo avvicinarci a Dio, trovare un senso a Dio dietro

le parole, trovo perfettamente concepibile che la divinità di cuiparlo presti attenzione alla sincerità trascendentale. Ogni tan-to, dopo aver lavorato a un romanzo, ti capita una recensionescritta in un modo così intelligente e che si avvicina talmente aquello che avevi tentato di fare, o, meglio ancora, offre delle taliintuizioni alle quali tu stesso non eri arrivato, da illuminare latua opera per te. Un critico così mi fa piacere più che l’atto stes-so di scrivere. È per questo che penso che ci sono persone checontemplano l’esistenza, pregano Dio in profondità e sono qua-lificate per farlo. Non sono meschine. Quello che detesto dellapreghiera è che spesso è così avida e superficiale. La maggiorparte delle volte è per ottenere un vantaggio immeritato: io so-no un po’ cretino, Dio, ma forse Tu mi aiuterai perché io Ti pre-go. Lo fanno come se l’umiltà fosse il solo passaporto di cui c’èbisogno.

***L’impressione che mi ha sempre dato il nirvana è quella di un

luogo che non mi interessa raggiungere. Che esista o no — nonne ho idea — non mi attira. Ricordo che parlavo con un mio ami-co, un buon buddista, e nel giro di poco mi sono lasciato andarea un educato furore. E dopo solo pochi bicchieri! «Voialtri bud-disti parlate sempre del nulla, di come arrivare al nulla», gli hodetto, e ho aggiunto: «Come scrittore, posso dirti che io vivo colnulla ogni minuto in cui lavoro. Sto seduto allascrivania e per la prima mezz’ora non c’è nulla.È un nulla che devo attraversare per raggiunge-re qualche idea. Tu non stai veramente parlan-do del nulla. Il nulla è uno stato tremendo! È unostato così vuoto. Perché non parli di quello cheveramente stai cercando, che è l’ineffabile?».

Spero che il pensiero lo abbia colpito, almenoun poco. Ma da buon buddista si limitò a sorri-dere…

***Immagino che Dio riesca a ricevere i messag-

gi degli uomini senza bisogno della preghiera.Posso ammettere che una preghiera possa ave-re, di tanto in tanto, un’esuberanza tale che Dione è rallegrato, ma credo anche che la maggior parte delle pre-ghiere è uno spreco, che sono autoindulgenti, un esercizio dinarcisismo. Negli anni ho sentito tante persone dire: «Sto pre-gando per te». La mia reazione è: «Non ne ho bisogno. Non ser-ve a niente. Stai solo invadendo la mia individualità». Spesso,non è niente di più di un’altra piccola arma in mano all’uomo.Può avere buone intenzioni. Si preoccupano per te, vogliono fa-re il meglio che possono. Ma c’è veramente bisogno che preghi-no per legittimare i loro sentimenti? Se ti vogliono bene ne trar-rai beneficio comunque, che tentino o meno di parlare con Dio.

***Quello che non mi piace della preghiera è l’enorme bagaglio

che si porta dietro, il rimbambimento della società che è pun-tellata dalla preghiera, il numero dei mediocri che pregano perqualcosa di cui non sanno niente. Ne vedi degli esempi colossa-li in televisione tutte le sere, arruffapopolo che invocano la san-ta efficacia della preghiera mentre arraffano ogni finto vantag-gio che possono trovare — comprese, perché no? — facili ri-chieste di denaro.

***Proprio adesso si sta combattendo una guerra tra noi e l’Islam.

Se c’è un particolare fenomeno che caratterizza l’Islam è pro-prio quello della preghiera collettiva cinque volte al giorno. Met-tono la fronte sulla terra, alzano le natiche verso il Cielo, e pre-gano. E noi occidentali li guardiamo con sufficienza. Tendiamoa considerare questi gesti un po’ esagerati. Inoltre, non credia-mo che Allah abbia necessariamente buone intenzioni. Per noi,è un Dio alieno. Per cui tutte queste persone che si riuniscono apregare e hanno una comunanza di opinione non ci appaionocome dei virtuosi. A questo proposito — cambiando scenario —quando il pubblico di un teatro ride di qualcuno, la cosa ha qual-che rapporto con la preghiera? Sentirsi parte di un grande grup-po di persone è rassicurante, quali che siano le circostanze. Mache la preghiera giovi a qualcosa è tutto un altro discorso.

Traduzione di Masolino D’Amico© The Estate of Norman Mailer 2007

© Baldini Castoldi Dalai Editore 2008

L’AUTORENorman Mailer

(1923 - 2007)

MicroMegaAlmanacco di filosofia

mons. RINO FISICHELLA

Etica trascendente e altri dieci saggi su

Dio, nichilismo, democrazia di

Paolo Flores d’Arcais, Roberto Esposito,

Roberta De Monticelli, Carlo Augusto Viano,

Vito Mancuso, Gustavo Zagrebelsky,

Telmo Pievani, Salvatore Veca,

Emanuele Severino, Gianni Vattimo

Repubblica Nazionale

Page 10: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

Un censimento mostra un’Italiache non vediamo più: quella dei piccoligioielli di provincia dove un tempo

la gente si affollava per vivere la magia del palcoscenicoUn patrimonio perduto per inagibilità, mancanze di fondi,vicende giudiziarie, incendi, terremoti. E, spesso, malapolitica

SPETTACOLI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

Storie italiane di ordinaria sciatteria. IlTeatro Petruzzelli di Bari va a fuoco perincendio doloso nel 1991, un protocollostabilisce che a ricostruirlo sia una fon-dazione nata solo nel 2003, lo Stato inter-viene con un esproprio e con lavori com-

missariati nel 2006, il 6 dicembre prossimo è fissatal’inaugurazione con un concerto diretto da ZubinMehta, ma ora, dopo diciassette anni, la riapertura èa rischio perché la Corte costituzionale ha dichiara-to illegittimo l’esproprio. E il costiero Teatro Mar-gherita, anch’esso di Bari, gioiello del 1910, non è piùaperto al pubblico dal 1984 per lavori eterni di resty-ling, e polemiche.

La casistica è varia. Uno dei più antichi teatri ita-liani, il Teatro dei Rinnovati di Siena, costruito nel1561, è chiuso dal 2003 per restauri, e non si sa seaprirà i battenti in primavera. Un’altra storica sala, ilTeatro Laluna nato nel 1600 nel territorio di Mineo,Catania, è chiuso dal 1983, anno di cessata attività co-me cineteatro. Il record spetta al Teatro civico De LaSena costruito in Veneto nel 1621, chiuso tuttora do-po essere stato dichiarato inagibile dal lontano 1921.Da far apparire trascurabili il blackout dei sette anniserviti per restaurare dal 1996 al 2003, dopo l’incen-dio, il Teatro La Fenice di Venezia, o i ventiquattro an-ni necessari dal 1973 al 1997 a rimettere a posto («peradeguamento alle norme di sicurezza») il TeatroMassimo di Palermo. E poi ci sarebbe il capitolo deicambiamenti della destinazione d’uso. Il Teatro Me-telliano di Cava de’ Tirreni, chiuso nel 1980 per cedi-mento sismico, ha un foyer che ospita un’edicola. IlTeatro Ex Soms in provincia di Pavia, chiuso nel 1972per cambio gestione e cessazione, viene utilizzatocome palestra. Il Teatro San Tarcisio di Carnate inLombardia, chiuso fin dall’inizio del Novecento, èoggi un magazzino.

Ammonta a 149.130 posti la perdita secca quoti-diana di spettatori che ai giorni nostri impoverisce lamappa potenziale dei teatri italiani, e la perdita è do-vuta a protrarsi di inagibilità, restauri, decadimenti einadempienze ai danni di 428 sale, un quarto dei cir-ca duemila teatri che costituiscono il patrimonio ar-tistico-architettonico nazionale. L’allarme è lancia-to da una capillare ricerca (aggiornata al marzo 2007)messa a punto dall’Associazione TeatriAperti dal ti-tolo Teatri negati, edita da Franco Angeli (128 pagi-ne, 16 euro). Mentre lo Stato rema già contro la cul-tura, e fa incombere sull’arte dal vivo la prospettiva,per il 2009, del taglio di un quarto del Fondo unico perlo spettacolo con conseguente freno o fallimento divarie attività teatrali, viene resa pubblica un’azionedi incuria, squallore e malgoverno (a livello naziona-le e più verosimilmente locale) cui da anni va adde-bitata una moria di spazi societari e un degrado distrutture che sarebbero preziose per la diffusione delsapere sotto forma di teatro, musica e danza.

Il censimento di TeatriAperti ha coinvolto 8.101comuni italiani e ha accumulato elementi, scheda-ture e fenomeni di un catasto sommerso che rap-presenta una «autentica barbarie», come dice Ric-cardo Muti nella sua introduzione al libro. I tanti tea-tri — per la maggior parte medio-piccoli — chiusi oinattivi danneggiano e dequalificano la nostra poli-tica culturale, le nostre tendenze all’aggregazione, ilpaesaggio dei luoghi simbolici e condivisi e neganola produzione e la sperimentazione di nuovi lin-guaggi. La ricerca dice che più della metà degli edifi-ci è di proprietà pubblica. Un terzo è di particolare in-teresse storico. Le regioni dove sono più concentra-ti i teatri inoperosi sono la Sicilia (59 sale) e la Lom-bardia (57), seguite da Veneto (41), Toscana (39), Pie-monte (32). Le 428 strutture chiuse sono per il 61 percento teatri, per il 35 cine-teatri, per il 2,8 auditorium,e per il resto sale polivalenti e teatrini. Si va da una sa-

la di tremila posti che è il cine-teatro Apollo di Firen-ze (chiuso nel 1984) ai cinquanta posti del Teatrinodi Villa Raggio a Pontenure, Piacenza (chiuso da ol-tre mezzo secolo per decadenza dei proprietari).Quanto all’anzianità della chiusura, dodici sale sonoinattive da prima del 1940, la metà dei teatri ha ces-sato l’attività a partire dal 1980, e c’è il dettaglio in-quietante che dal 2000 al 2007 sono venute menocinquantaquattro strutture (diciassette solo nel2006). E ci sono le chiusure lampo: un teatro nel co-mune di Bronte, Messina, è sorto nel 2001 e già cin-que anni dopo è stato chiuso per restauro; e l’audito-rium Sciarretta a Pescara è stato chiuso dopo solodue anni, nel 2002, per «mancanza di iniziative».

In definitiva a dichiarare guerra ai teatri italiani so-no stati l’inagibilità, i restauri, le mancanze di fondi,le vicende giudiziarie, l’assenza di pubblico, gli in-cendi, i terremoti, i bombardamenti ma anche, e nonpoco, le responsabilità politiche. Eppure molti no-stri valori sociali, storici e artistici possono sbocciareda lì, da mura sfrante, da legni stagionati.

RODOLFO DI GIAMMARCO

Teatri dimenticatiSe il sipario cala per sempre

Repubblica Nazionale

Page 11: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

Sto conducendo una ricerca sul degrado deiteatri in Italia. Leggendo il libro, di cui si parlain queste pagine, sullo stato di abbandono in

cui versano numerosi monumenti della rappresen-tazione scenica nel nostro Paese si evince che il de-grado degli immobili da spettacolo sta raggiungen-do livelli drammatici, e che la qualità delle rappre-sentazioni in quegli spazi è sempre più scarsa. Siachiaro che, come in tutte le situazioni di declino, esi-stono gruppi di giovani autori, nonché registi e or-ganizzatori teatrali, che si battono con slancio e pas-sione per restaurare e rinnovare questo ineguaglia-bile bene.

I giganti distruttori contro cui da anni questecompagnie di teatranti cariche di idee e di volontàcreativa debbono scontrarsi sono lo Stato e i gover-ni che si sono succeduti. A quei responsabili (o, sepreferite, irresponsabili) non interessa un’azioneculturale che non procuri loro un immediato e im-portante vantaggio. Si parte dall’intento di crearsiuna visibilità, passando per una vivace gratificazio-ne politica, per giungere a un congruo tornacontoeconomico. Così ecco che, giocoforza, si mette inazione una macchina culturale bolsa che si affida alsolito teatro di repertorio, sicuro e ben accetto dalpubblico, un pubblico che perde ogni giorno mi-gliaia di giovani che da sempre rappresentano laforza dominante per il rinnovamento di ogniespressione d’arte.

È proprio da un teatro di abbonati sicuri, checomprano in blocco un certo numero di rappre-sentazioni, che s’affacciano i primi segnali della fra-na. Essi acquistano il pacchetto senza sapere di co-sa si tratti, da chi siano scritte e messe in scena leopere, quali tematiche affrontino, e soprattuttoquale rapporto quei testi abbiano con la realtà delquotidiano. Oltretutto in questi teatri non c’è spa-zio per le compagnie di giovani. A questo punto re-sta un’unica soluzione, se si vuole evitare di trovar-si travolti da quel collasso: bisogna uscire da quellestrutture al più presto e inventarne altre, magarimeno imponenti e cariche di stucchi spesso stuc-chevoli, in uno spazio dove ci si possa sentire liberidalle infinite pastoie burocratiche che da sempre cisotterrano.

Dove li reperisci questi spazi nuovi? Basta guar-dasi intorno: Samuel Beckett e Julian Beck del Li-ving Theater dicevano che il teatro esiste in ogni luo-go dove ti sia concesso esibirti e, se non te lo conce-dono, prenditelo a costo di farti sbattere in galera,dove — stai tranquillo — troverai un ottimo palco-scenico e un pubblico pronto ad assistere alla tuaesibizione. E non è un consiglio tanto paradossale,tant’è vero che En attendant Godot e Fin de partie,due capolavori di Beckett, l’autore in persona li hamessi in scena più volte nella prigione di Alcatraz,avvalendosi di attori carcerati.

A nostra volta, Franca e io, uscendo trent’anni fadal teatro ufficiale, ci siamo trovati a recitare le no-stre commedie in carceri di tutta la penisola e anchein manicomi dove i “pazzi” stavano relegati perfino

in contenzione, cioè costretti da cinghie in letti o se-dili da museo degli orrori. Spesso succedeva che al-cuni di loro, sia donne che uomini, salissero sul pal-coscenico mentre si stava recitando e entrassero nelgioco scenico con una sorprendente agilità: frarealtà e immaginazione non esisteva per loro alcunimpaccio o diversità. Durante la rappresentazionedi Mistero buffo era previsto che nel ruolo di unubriaco mi rivolgessi a un angelo, anzi un arcange-lo, che si apprestava a introdurre una storia biblica:quell’angelo era seccato dalla mia invadente pre-senza. L’angelo naturalmente non c’era, erano i mieigesti e le mie parole che lo evocavano. A un certopunto, il pubblico dei degenti levò grida contro l’an-gelo immaginario e uno di loro iniziò un dialogo conl’arcangelo nel quale si indovinava chiaramentequali fossero le parole dell’alato messaggero di Dio.Alla fine l’angelo e il pazzo uscivano di scena tenen-dosi per mano. L’ultima battuta del matto era pro-prio da Mistero Buffo: costui con gesti appropriatimimava di accarezzare le ali del santo volatile e fer-mandosi all’istante gli proponeva: «Te le puoi stac-care un attimo ’ste ali? Mi piacerebbe farci un giro!».

Per undici anni, dal ’69 all’80, abbiamo avuto oc-casione di allestire spettacoli negli spazi più diversi:nelle case del popolo, nei palazzetti dello sport, inpiazze dove c’erano migliaia di persone. Durante legrandi lotte operaie del Nord, ci è capitato di recita-re in fabbriche occupate. Il luogo più singolare in cuici accadde di mettere in scena un’opera grottesca fuuna cava di pietra di enormi dimensioni e il giornodopo proseguimmo in una chiesa sconsacrata. Masenza l’apporto di un pubblico davvero appassio-nato sul quale potevamo contare ogni giorno, nonavremmo mai potuto realizzare quel folle progetto.

Il nostro gruppo era composto da tre diversecompagnie; la paga era uguale per tutti, tecnici e at-tori; ognuno doveva impegnarsi a montare il palco-scenico e quindi smontarlo alla fine delle rappre-sentazioni, ma ogni sera ad aiutarci prima e dopol’esibizione c’erano sempre almeno dieci-ventipersone del luogo. Succedeva spesso però che la po-lizia, sollecitata dal governo, ci bloccasse gli spetta-coli; in quegli undici anni abbiamo collezionato labellezza di oltre quaranta denunce con relativi pro-cessi; il questore di Sassari ordinò che mi arrestas-sero e fui ospitato per un giorno e una notte nelle an-tiche carceri della città. Poi si arrivò a ottenere la Pa-lazzina Liberty a Milano: uno spazio straordinarionel bel mezzo di un grande parco, ma ahimè ridot-to a un rudere. Dopo avercene concesso l’uso, ilconsiglio comunale alla quasi unanimità decise disequestrarcelo. Spalleggiati dalla gente di quasi tut-to il rione occupammo quello stabile nato comemercato di fiori e verdure.

Insomma, per chiudere il discorso, personal-mente mi sono convinto che il teatro non cesseràmai di vivere a causa della carenza di spazi adatti edignitosi. Cesserà solo quando nei teatranti comin-ceranno a mancare le idee nuove e un pubblico chele apprezzi e non ne sappia fare a meno.

Eppure la voce dell’attorevive anche in una cava di pietre

DARIO FO

IL LIBRO

Si intitola Teatri negati. Censimento dei teatri chiusiin Italia (Franco Angeli, 128 pagine, 16 euro)

Curata da Carmelo Guarino e Francesco Giambrone

(prefazione di Riccardo Muti), l’indagine

è realizzata dall’Associazione TeatriAperti

ed elenca, scheda e fotografa provincia

per provincia lo stato di tutti i 428 teatri d’Italia

chiusi che si potrebbero riaprire

Info: www.teatriaperti.it

LE FOTOGRAFIENella foto grande, il Teatro

Civico di Schio (Vi); da sinistra,

in senso orario, il Teatro

Margherita di Bari; il Civico

di Schio visto dall’alto; il Teatro

Eleonora Duse di Cortemaggiore

(Pc); ancora il Margherita di Bari;

l’Amintore Galli di Rimini;

il Petruzzelli di Bari; il Camillo

Sivori di Finale Ligure (Sv);

il Teatro Aycardi di Finale

Ligure; ancora il Petruzzelli

di Bari; un altro particolare

del Sivori di Finale Ligure;

due particolari del Civico

di Schio; il Teatrino di Villa

Raggio, a Pontenure (Pc)

e ancora un particolare del Sivori

di Finale Ligure. Le foto sono

di Ugo Carlvero - TeatriAperti

La tua risorsadi benessere

Repubblica Nazionale

Page 12: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

«L’evoluzione da città-mucca a sofisticata capitale della cucina merita il riconosci-mento da tutti quelli che vengono a conoscerla». Concetto tagliato con un coltel-lo affilato, quello che Barbara Glunz, presidente de “Le Dame d’Escoffier Chica-go” usa per raccontare la città più golosa d’America. A poche ore dalle elezioni,nella capitale dell’Illinois — qui vive Barak Obama — l’attesa non sottrae appeti-to ai sei milioni dichicagoans, che ogni giorno affollano le migliaia di “eateries”, i

luoghi del cibo sparsi ovunque. Un destino, quello di città-dispensa, segnato all’origine: i primi abitanti, gli indiani Potawatomi, l’a-

vevano battezzata “Checaugou”, cipolla selvatica, per l’abbondanza di ortaggi. Dalle verdure alle bi-stecche, il passo fu rapido: la posizione geografica — nel cuore della nazione — la grande quantità diimmigrati neri sfruttati come manodopera a bassissimo costo, l’invenzione del refrigeratore e quelladel treno, il trasporto via acqua sul Chicago River, trasformarono la città di Abramo Lincoln nel più gran-de magazzino di carne d’America. A cambiarne irrimediabilmente il volto, un’epidemia di colera e unospaventoso incendio che nel 1871 bruciò quasi ventimila case. Sopravvissuta al Proibizionismo, alle ri-volte razziali e al dominio di Al Capone, in riva al lago Michigan l’industria della carne ha comunque

prosperato fino a metà Novecento, realtà sublimata dalla McDonald’s, che qui ha la sua sede mondia-le. Ondate di immigrazione successive hanno fatto di Chicago una città-laboratorio del cibo del mon-do. Un melting pot gastronomico dove ogni etnia ha trovato spazio. A coordinare ed esaltare tanta ric-chezza alimentare, trent’anni fa sono nate le “Dames”, un gruppo di cuoche, giornaliste, sommelier,ispirato all’esperienza delle storiche chef francesi associate nel nome di Auguste Escoffier, il gastrono-mo che codificò la cucina francese del Novecento. Grazie al loro lavoro e all’attività dell’American In-stitute of Wine and Food, la “cow-town” del secolo scorso è diventata la capitale gastronomica d’Ame-rica. Il tutto — dalla rivendita di hot dog (rigorosamente senza ketchup) al ristorante a lume di cande-la in riva al lago — praticato con i comandamenti dell’ecosostenibilità. Concetti che in Italia ancoravengono considerati poco meno che rivoluzionari — cucina chilometro zero, mercati contadini, bio-logico — qui sono pratica quotidiana. Da marzo a ottobre — in inverno la windy town non permettelunghe soste all’aperto — prosperano i farmers bio market, prezzi accessibili e qualità specchiata perla spesa quotidiana. In inverno i chicagoans affollano i supermercati, dove vengono offerti mini-corsidi cucina, preparazioni di piatti dal vivo attingendo a tutti gli ingredienti in arrivo dal pianeta. Nel pot-pourri di ortaggi e salse, tagli di carne e biscotteria, la gastronomia italianaha un posto di assoluto rilievo, tanto che nei ricettari di cucina locale spic-cano piatti come il Chicken Vesuvio (in forno, con tutti gli odori medi-terranei) e il Chicago-style italian beef sandwich (con hard italian rol-ls, fette di pane rustico cotto a legna). Nelle prossime settimane, La-vazza aprirà due suoi Espression Cafèagli ultimi piani — i contesissimisky-bar — del Drake Hotel e dell’Hancock Observatory. Se poi voleteregalarvi il once-in-a-lifetime meal, la cena della vita secondo i critici ga-stronomici americani, andate da “Alinea” e lasciate che chef e somme-lier scelgano per voi. I venticinque assaggi del menu degustazione sa-ranno accompagnati per almeno la metà da vini italiani, gli stessi por-tati in passerella a inizio settimana dal Vinitaly Usa Tour. Se sietedi simpatie democratiche, d’obbligo un brindisi a Barak Obama.

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

i saporiMade in Usa

La capitale americana della carne è stata trasformatada molte ondate migratorie che ne hanno esaltatola vocazione fusion e ne hanno fatto un laboratoriodel cibo del mondo.Un meticciato che oggi la corsaalla Casa Bianca del suo senatore porta alla ribalta

LICIA GRANELLO

Chicago, la città-bistecca

Grant Achatz è il giovane, genialechef di “Alinea”, il migliorristorante tecno-emozionaled’America. Per i clienti percorsigustativi personalizzati, con piatti

leggiadri, poggiati su cusciniche sprigionano odori di spezie e fiori

DOVE DORMIRE

WILLOWS HOTEL555 West Surf Street

Tel. (+1) 773-4042643

Camera doppia da 120 dollari

SUTTON PLACE HOTEL21 East Bellevue Place

Tel. (+1) 312-2662100

Camera doppia da 170 dollari

WYNDHAM CHICAGO (con cucina)633 North St. Clair Street

Tel. (+1) 312-5730300

Camera doppia da 130 dollari

W CHICAGO LAKESHORE644 North Lake Shore Drive

Tel. (+1) 312-9468357

Camera doppia da 240 dollari

HOUSE 56835683 Glenwood Avenue

Tel. (+1) 773-9945555

Camera doppia da 100 euro

DOVE MANGIARE

AVENUES AT PENINSULA (con camere)108 East Superior Street

Tel. (+1) 312-3372888

Sempre aperto, menù da 75 dollari

GREEN ZEBRA1460 West Chicago Avenue

Tel. (+1) 312-2407100

Chiuso lunedì e a pranzo, menù da 50 dollari

TOPOLOBAMPO445 North Clark Street

Tel. (+1) 312-6611434

Chiuso domenica e lunedì, menù da 40 dollari

BILLY GOAT TAVERN430 North Michigan Avenue

Tel. (+1) 312-2221525

Sempre aperto, “cheezborgers” da 10 dollari

TRU676 North St. Clair Street

Tel. (+1) 312-2020001

Chiuso dom. e a pranzo, menù da 70 dollari

DOVE COMPRARE

FOX & OBEL’S401 East Illinois Street

Tel. (+1) 312-3790112

BON BON5110 North Clark Street

Tel. (+1) 773-7849882

BLEEDING HEART BAKERY2018 West Chicago

Tel. (+1) 773-2783638

BARI FOODS1120 West Gran Avenue

Tel. (+1) 312-6660730

VOSGES HAUT-CHOCOLAT951 West Armitage Avenue

Tel. (+1) 773-2969866

itinerari

Il “great fire”

distrugge oltre

18mila edifici

1871

San Valentino:

la strage voluta

da Al Capone

1929

La Sears Tower,

è il grattacielo

più alto al mondo

1974

Brian De Palma

gira il film

Gli intoccabili

1987‘‘

Al Capone

ProibizionismoQuando vendo alcol,

lo chiamano commercioillegale. Quando i miei gestorilo servono su vassoi d’argento

sulla Lake Shore Drive,la chiamano ospitalità

Obamala

cucinadi

Repubblica Nazionale

Page 13: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

Cinnamon BunsI panini alla cannella – con latte, burro

e uvetta – sono una ricetta storica

dell’Associazione Bar di Chicago

Durante la Grande Depressione, il pranzo

dei lavoratori era costituito da due buns

e una tazza di caffè da cinque centesimi

Salsa BarbecueNella città-madre della carne americana,

la carne grigliata – bistecca, spiedini

o hamburger – viene rigorosamente

servita con uno scodellino: dentro,

col fondo di cottura, peperoncino, aglio,

zucchero, limone, ketchup e senape

Beef SandwichCosì amato che il quotidiano locale,

il Chicago Tribune, ne ha codificato

la ricetta virata all’Italian Style. La carne,

cotta nel forno con pepe rosso e nero,

aglio, basilico, origano, si serve in fettine

dentro un pane morbido, con peperoni

Onion Flan & PotatoesLo sformato di cipolle celebra

i due ortaggi-base della cucina Usa:

cipolla dolce (Vidalia) spadellata nel burro,

assemblaggio con uova e panna,

cottura in forno. Nel piatto, guarnizione

con patate al vapore con olio e aceto

Shrimp De JongheFa parte della storia della città, la ricetta

di Henri De Jonghe, gestore dell’omonimo

hotel di Monroe Street, chiuso

durante il Proibizionismo

I gamberi bolliti sono rifiniti in forno

con burro, sherry, paprika e crostini

Mashed PotatoesPatate farinose e bianche, latte, crema,

sale e pepe, cottura fino a sfaldamento,

assemblaggio con la sola forchetta,

per preservarne la consistenza. Questo

puré, con le french fries, è il contorno

più popolare nei ristoranti chicagoans

Meat LoafIl re del comfort-food è un arrosto

di manzo cotto al forno, che ogni famiglia

declina secondo una propria ricetta

Ammesse spezie, salse, farciture

e contorni vari: broccoli spadellati,

funghi saltati col pepe, spinaci all’aglio

Chocolate pecan caramel torteÈ un trionfo di calorie, la torta

di cioccolato ideata da Elaine Sherman,

fondatrice de “Les Dames Chicago”

A strati: wafer sbriciolati, chips

di cioccolato, mousse al caffè,

noci pecan e salsa al caramello

CHICAGO

Salmone bollito, rucola o come lachiamano gli americani “arugula”,broccoli e spinaci. La dieta salutare diBarack Obama è quanto di più lonta-no ci possa essere da quella dei suoiconcittadini di Chicago ma soprattut-to è antitetica a ciò che si mangia inuna nazione in cui un terzo degli elet-tori è obeso.

Per questo pranzi e cene del candi-dato democratico sono materia coper-ta dal segreto: i suoi strateghi elettoralie gli esperti di immagine, fin dall’iniziodella campagna, hanno convinto Oba-ma che era troppo rischioso enfatizza-re l’aspetto “sano” della sua alimenta-zione, si rischiava di irritare gli elettorie di farlo passare come un personaggioelitario e lontano dal sentire popolare.

Già Obama è visto con sospetto per lasua magrezza e per il fatto che va in pa-lestra ogni mattina, tanto che gli uomi-ni di McCain non hanno perso occasio-ne per sottolinearlo, ironizzando sulfatto che ha una cura del corpo più os-sessiva di una star di Hollywood.

Per correre ai ripari, da mesi Obamaracconta che il suo cibo preferito è ilpollo fritto, che riempie il cheesebur-ger di mostarda ed è apparso in televi-sione per pubblicizzare la sua ricetta difamiglia: un piatto di chili con carne, fa-gioli e un sacco di cipolla, aglio e pepe-roncino.

Ma la verità è che Obama è il primocandidato della storia che non si vedemai con il cibo in mano, non ci sono lerituali foto con l’hot dog, la gigantescafetta di torta alle ciliegie o le costolettedi maiale che grondano salsa. È l’unicocandidato a non aver preso peso men-tre cerca di prendere voti. Sta attentis-simo a non trovarsi in una situazione incui sia obbligato a ingurgitare cibo perla gioia dei negozianti e dei fotografi inagguato.

Ma non sempre ci riesce. A Lititz,paesino della Pennsylvania, lo hannotrascinato in un negozio di cioccolata

dove non ha potuto non assaggiare uncioccolatino, ma appena gliene hannoofferto un secondo si è tirato indietro,tanto che il proprietario, quasi offeso,gli ha detto: «Se si entra in una fabbricadi cioccolato, poi non ci si dovrebbepreoccupare delle calorie». Tre quartid’ora dopo, in un ristorante, gli hannoofferto una fetta di torta glassata con ilcioccolato bianco e Obama si è imme-diatamente rifiutato: «È troppo ricca epesante per me». Si è girato per uscirema la cameriera era in agguato sullaporta e gli ha allungato un vassoio conun gigantesco hamburger, patatine eanelli di cipolla fritti. Barack allora si èarreso, ha alzato le spalle, ha afferratoun anello di cipolla e poi è scappatofuori.

Per capire qualcosa di più bisognaandare nel suo quartiere. Allora si sco-pre che quando è a casa ama ordinareda un ristorante cinese ravioli al vapo-re, gamberetti e verdure, e che la suatrattoria preferita si chiama “Spiaggia”.Il cuoco è italo-americano e Obama ciporta sempre Michelle per festeggiarel’anniversario di matrimonio: amano ilpesce crudo e il risotto.

I due il primo bacio se lo sono dato sulmarciapiede di una gelateria nell’esta-te del 1989, dopo che Barack era riusci-to a convincere la restia Michelle a fareuna passeggiata e a prendere un cono.La verità però è che a Obama non piaceneppure il gelato, lo ha rivelato la figliapiù piccola biasimando il padre. Lui siè difeso raccontando di aver lavoratocome commesso in una gelateriaquando era ragazzino a Honolulu e diaver fatto indigestione.

A Berlino, dopo il comizio trionfale diquest’estate, il senatore di Chicago si èconcesso una serata in un ristorante fa-moso per le sue cotolette viennesi e lostinco di maiale. Si è seduto e ha ordi-nato: un martini e un’insalata di rucolae grana. Il cuoco della Casa Bianca è av-visato: se martedì vincerà Obama, do-vrà dimenticarsi le grigliate tanto ama-te da George W. Bush.

Barack, candidato lighttutto rucola e parmigiano

MARIO CALABRESI

FO

TO

GE

TT

Y IM

AG

ES

Repubblica Nazionale

Page 14: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

le tendenzeTinte di moda

EFFETTO SIRENAÈ per una serata

importante

l’abito di Versace

dal bustino

lavorato con preziosi

incroci di sete

e paillettes

e la lunga gonna

effetto-sirena

TEMPO INCERTOIl piumino

senza maniche

di Fred Perry

è adatto a stagioni

indecise

Nelle giornate

più rigide si può

indossare

abbinato

a un pesante

pullover in tinta

SCOLLATURA ABISSALEÈ sexy e delicato

l’abito di Iceberg

La scollatura

abissale evidenzia

il contrasto con la pelle

chiara. Prezioso il gioco

di plissé sul bustino

richiamato nel lungo velo

ORIGAMI SHOCKCentrotavola dalla tonalità

shock per Alessi. La lavorazione

origami illumina qualsiasi servizio

di piatti e bicchieri. Si può usare

anche come portafrutta

A PROVA DI PIOGGIADestinate al tempo libero, le scarpe

di Cult uniscono comodità e colori

all’ultima moda. Trattate in vernice

lucida, non temono i giorni piovosi

CLASSICO RIVISITATOIl colore dell’inverno permette di rivisitare

in modo trasgressivo la borsa dal taglio

classico. Manici ampi e tasche interne

per la pregiata lavorazione

tipica della maison Ferragamo

AVVOLGENTESembra progettata

guardando al futuro

la poltroncina

Miss Petra di Myyour

In polietilene

colorato dalle forme

avvolgenti, è adatta

per interni e giardini

TEXANO STRAVAGANTECappello di coccodrillo

in stile Texas, a falde larghe

Piacerà alle più stravaganti

per sdrammatizzare

un abito elegante

o ingentilire un paio di jeans

ISPIRAZIONE VINTAGESarebbero piaciuti a Jackie O

gli occhiali ornati dal dettaglio

del fiocco di Gucci sulle aste

Grazie alle lenti sfumate

sono comodi anche in inverno

PASSI FELPATIVia di mezzo tra la scarpa invernale

e il sandalo questo modello

classico di Kallistè. Le più audaci

la indosseranno senza calze

altrimenti si può abbinare

a un collant fluo

La prima a rompere la tradizione è stata Carlà Bruni Sarkozy. Con allegra noncu-ranza della scaramanzia, la prèmiere damesi è presentata in occasioni più o me-no ufficiali sfoggiando mise e cappotti di quel colore che, sino a qualche anno fa,era considerato un affronto alle superstizioni ma anche al comune senso esteti-co: il viola. La causa di tanta ostilità dipendeva da due fattori. La nota leggendache il viola porti sfortuna, soprattutto nel mondo del teatro (essendo il colore dei

paramenti sacri usati in quaresima, periodo che nel medioevo coincideva con la sospensio-ne di tutti gli spettacoli, per i teatranti era sinonimo di disoccupazione e quindi decisamentemenagramo). Il secondo fattore era legato a motivi squisitamente estetici: specie se della to-nalità più cupa, concordavano gli esperti, il viola non ravviva l’incarnato. E dunque si potevadire che, se l’effetto-sciagura rientrava nel campo delle ipotesi, l’effetto-livido era una certez-za. La somma dei due fattori valeva più di qualsiasi censura, così che il tabù sconfinava anchenell’arredamento: considerato decisamente impegnativo, il viola è stato scartato per anni dal-la tavolozza degli architetti e rifiutato dalle aziende di design.

Oggi Il colore viola(impossibile non ricordare il libro della scrittrice Alice Walzer) si prendela rivincita. Scompagina le tradizioni, rompe gli schemi e appare ovunque. Cappotti, abiti edelementi di arredo lo riscoprono donandogli una nuova e luminosa identità. Nella versione2008 è decisamente glamour e, con un’iperbole, potrebbe anche essere considerato beneau-gurante. Tanta ribalta non arriva per caso. L’eleganza indiscussa della Bruni ha aperto un var-co nei censori più severi. Anche se, volendo essere pignoli, il suo colore prediletto è un violaabbastanza lontano da quello tradizionale: il “color Carlà” è infatti una tinta che oscilla tra ilfiordaliso e il lilla. Ma tant’è, l’effetto-domino è stato irrefrenabile e le donne di tutte le età han-

no scoperto la piacevolezza di un look che,nei casi più fortunati, può portare a un ma-trimonio presidenziale.

Tra gli stilisti dell’haute couture è subitopartita la corsa alla nuova tonalità amicadelle donne. Ed ecco i sinuosi abiti effetto-sirena di Pucci, Iceberg e Versace. Gli acces-sori divertenti di Gucci, Christian Dior eFred Perry, le borse di Ferragamo e Vicktor& Rolf. Insomma, una vita violetta è entrataprepotentemente negli armadi sconvol-gendo le combinazioni tradizionali e met-tendo in crisi gli stylist. Perché il colore del-l’anno, va detto, non è facile agli abbina-menti. Anzi. Se è ravvivato dal verde, è mor-

talmente incupito dal nero. Abbinato al grigio può essere una certezza ma, per chi vuole l’o-riginalità a ogni costo, vale la pena di sposarlo con il rosso.

La second life del viola comincia con l’abbigliamento ma finisce dentro le case. Leaziende di design, influenzate dal boom delle sfilate, lo hanno sdoganato e hanno

inserito nei loro cataloghi tavoli squillanti come fiordalisi. Per i più audaci ci so-no divani che ricordano enormi melanzane. Per chi non ha tanto coraggio

ma ambisce lo stesso a una casa all’ultima moda, il compromesso ar-riva da una singola poltrona chic & shock come quella di Myyour.

L’audacia di Carlàbatte la superstizioneIRENE MARIA SCALISE

Dal mondo del teatro e da quello del potere è stato sempreconsiderato un colore quaresimale, calamita di sfortunee sciagure. Eppure è bastato che la “première dame”si fasciasse di cappotti e abiti in bilico tra il fiordaliso e il lillaper far passare la paura a stilisti e designer

Repubblica Nazionale

Page 15: Oggetti - la Repubblicadownload.repubblica.it › pdf › domenica › 2008 › 02112008.pdf · 2008-11-02 · Oggetti spettacoli Il Paese dei teatri dimenticati RODOLFO DI GIAMMARCO

l’incontro

Amélie Nothomb è unascrittrice raffinata conuna biografia golosa. Fi-glia di un diplomaticobelga, nata a Kobe, inGiappone, ha vissuto fino

all’adolescenza spostandosi con la fa-miglia da una parte all’altra dell’Asia.Cambiando case, amici, scuole, doven-dosi ogni volta riadattare ad abitudini,cibi dai gusti diversi.

Ogni tre anni, mi racconta, per me emia soriella Juliette il mondo finiva e ri-cominciava da un’altra parte. Cina,Bangladesh, Vietnam, Thailandia,Laos... Ho imparato da bambina a per-dere e ritrovare tutto. A non fare resi-stenza, a non cercare di trattenere le co-se o le persone. Sapevo che nell’altromodo, indulgendo nella nostalgia e nel-lo struggimento, mi sarei provocata so-lo sofferenza. Spesso penso a me come auna di quelle case giapponesi progetta-te per affrontare i terremoti, la cui forzaè costituita dalla fragilità. Dovevo la-sciarmi andare, assecondare tutte le tra-sformazioni e le scosse per non soccom-bere. Era bello, ma pericoloso. Che cosarestava di me, di noi, ogni volta che cispostavamo, dove ero io in quell’eternoterremoto? Sono diventata scrittricedando una risposta a questa domanda.La mia salvezza sarebbero state le paro-le. La mia identità sarebbe rimasta ag-grappata all’unica cosa che potessi tra-sportare con me, il linguaggio e la suaesattezza.

Amélie vive in Francia e ama indossa-re cappelli molto grandi. Si nutre di cioc-colata bianca e banane dalla polpa sfat-ta, ogni anno scrive quattro libri, rigoro-samente di notte. Ma ne pubblica solouno, il primo di settembre. Gli altri tre fi-

niscono nel purgatorio di cassetti inac-cessibili, attendendo il rogo al quale leistessa dice di averli condannati nel suotestamento. I suoi disturbi alimentari, lapassione per le ballerine magrissime, ilvolto aperto e le labbra rosse e un po’ im-bronciate, sono tasselli di un personag-gio del quale i francesi sono innamoratiormai dal 1992, quando giovanissimadebuttò con il sorprendente Igiene del-l’Assassino. Ad Amélie e alla sua fantasiaè ispirato il personaggio della ragazzacon la frangetta, trasognata ed eccentri-ca protagonista del film intitolato ap-punto Il Favoloso Mondo di Amélie.

Molti artisti sono in difficoltà a con-servare la verginità sorgiva del propriotalento sotto il peso delle chiacchiere,del folklore intorno alla propria perso-na. A mantenere concentrazione e rigo-re tali da poter produrre tanto e quasisempre ad altissimo livello. Non lei, cheha imparato a convivere con la sua fama,coltivandola senza finirne schiava. Sevendi molti libri — e Amélie Nothombne ha venduti milioni in tutto il mondo— è fatale che si crei una mitologia su dite, mi dice. Ed io ho questo strano donodi raccontare cose semplici che vengo-no interpretate come favolose eccentri-cità. A me non importa. Mi basta che nonsi dicano cose mostruose, come, non so,che sono una fascista.

Amélie difende la sua privacy, sono inpochi a sapere dove abita, ma è genero-sa coi suoi infiniti ammiratori. Firma co-pie e gira il mondo per presentare i suoilibri. Le sue uscite editoriali, puntuali fi-no al paradosso, sono accompagnate darituali appuntamenti con la stampa e letelevisioni. Ogni anno Amélie ha la sua“stagione”, come se la scrittura avessedavvero a che fare con la natura. Che ini-zia a settembre, con l’uscita del roman-zo presso Albin Michel, la casa editricecon la quale ha esordito e che non ha maiabbandonato. In Italia Amélie ha unpatto di fedeltà con le edizioni Voland,che la ricambiano con la cura e l’affettodi una famiglia. Da Voland, quindi, escein questi giorni l’ultimo libro di AmélieNothomb, L’entrata di Cristo a Bruxel-les. Riunisce due racconti, il primo chedà il titolo al libro e Senza Nome, en-trambi tradotti come sempre da Moni-ca Capuani. Sono due fiabe, mi raccon-ta Amélie, unite dal tema della reden-zione. Una redenzione che può esserericondotta a una colpa, ma anche sol-tanto alla necessità di affrancarsi dal ru-more bianco di una vita arida, senzapassione. Ogni essere umano, e questoè uno dei grandi temi della letteratura diAmélie, è artefice del proprio calvario equindi anche, di quello stesso calvario, ilpiù potente avversario.

La fiaba intitolata L’entrata di Cristo aBruxellescome il quadro di James Ensoral quale è ispirata, tratta di un uomo gio-vane «concentrato su di sé fino al paros-

È esclusa dalla partita doppia del da-re/avere, dalla ragioneria etica. È divinae incomprensibile. A Salvator quindi,nonostante il suo passato, non sarà se-questrato l’amore di Zoe.

Zoe, la donna amata da Salvator, so-miglia un po’ a me, racconta Amélie,nella sua furia catalogatoria e nella im-barazzante attitudine a circondarsi dioggetti inutili, dei quali non riesce a li-berarsi. «Dente di origine sconosciuta»,«Statuetta precolombiana in plasticacon una mou incorporata», porzioni ca-suali di mondo, ganci affettivi a prote-zione dell’insensatezza. Zoe, come me,progetta la sua vita come un’enormescatola di vecchie fotografie.

Quanto la scena di L’entrata di Cristoa Bruxelles, è stracolma di oggetti che lafanno somigliare a una Wunderkam-mer della nostalgia, tanto Senza Nome,il secondo racconto, mostra luccicantipaesaggi metafisici, lande innevate,spazi sconfinati di una Finlandia voluta-mente tutta letteraria. Nei quali un uo-mo vaga, alla ricerca dell’amore assolu-to, certo di poterlo incontrare soltantonella potenza di quella natura inconta-minata. E lo troverà, ma in una formastupefacente e attraverso modalità chenon avrebbe mai sospettato. La mia vo-lontà, mi spiega Amélie, era quella diprovare a immaginare una mitologia delNord da contrapporre alla potenza evo-cativa del sud nietzschiano. L’aria delGenio del Freddo nel King Arthurdi Pur-cell, Il cavaliere svedese di Leo Perutz, Ilviaggio di inverno di Schubert sono lefonti di ispirazione dichiarate. Ma la pa-rentela prima di questo Senza Nomesembra essere piuttosto la fiaba di Amo-re e Psiche, di Apuleio.

L’amore infatti, o in qualunque altromodo si voglia chiamare quella gioiadensa di piacere nella quale il protago-nista sprofonda ogni notte, è propostocome un luogo oscuro. Una mistero alquale si può avere accesso soltanto incambio della rinuncia a qualsiasi imma-gine di sé, compresa la propria identità.Un vuoto dalle dimensioni sensorialiimpressionanti, un sensualissimo Nir-vana. Da piccola, mi racconta Amélie,detestavo il vuoto perché non riuscivo asentirne la potenza. Il mondo mi sem-brava comprensibile soltanto attraver-so il conflitto. Anche nei miei libri, hosempre messo in campo uomini e don-ne che si contrapponevano l’uno all’al-tra, e tutti quanti alla ferocia del mondo.Le loro biografie, come la mia, eranopiene di ferite, di gesti dei quali doversipentire, errori e slanci pericolosi. L’eser-cizio del male mi sembrava inevitabile.Soltanto attraverso questa battaglia misembrava possibile raggiungere qual-cosa.

Questa volta, invece, ho provato a di-segnare un protagonista che riuscisse aottenere tutto quello che cerca sempli-

sismo», che, per gelosia, compie un ge-sto criminale. Scappa e inizia una nuo-va vita apparentemente senza che lasua colpa abbia prodotto conseguenze.Coglie il successo e riceve stima, ma lasua inquietudine non può saziarsi, lasua azione dissennata è un chiodo fis-so. Fin quando qualcosa non scombinala routine della penitenza. Salvator — inomi dei personaggi, nei libri diNothomb, non sfuggono alla ineccepi-bile precisione semantica che è trattodistintivo della sua scrittura — si liberadel suo destino. Ma non ottiene salvez-za, bensì, come scrive Amélie, la grazia.«Un singolare statuto metafisico. Il de-stino, nella sua incomprensibile man-suetudine, gli permetteva di amare».Che cos’è esattamente la grazia per te,le chiedo. Sospira Amélie. È difficile daspiegare. La immagino come un toccocieco, una miracolosa impunità con-cessa in sorte casualmente. La grazia ègratuita e non vuole niente in cambio.

cemente abbandonandosi alla seduzio-ne e alla vertigine del vuoto. Chiudendogli occhi, e basta. Credo che dipenda dalpunto in cui sono. La mia vita è ormai«completamente ammobiliata», pienadi avvenimenti, persone e cose. Sono unessere umano adulto, col suo inevitabi-le carico di masserizie. Da qui, sogno ilpiacere in forma di un vuoto totale, so-speso. Un luogo nel quale l’identità sipossa sciogliere, senza timore. Un per-fetto paradiso del corpo.

Contrapposto alla vacuità delle oreresidue, che il protagonista di Senza No-me spende di fronte a un televisore chetrasmette a ciclo continuo idioti telefilmamericani. La televisione è per me unaspecie di fonte della stupidità, dice Amé-lie. È l’opposto del vuoto gioioso di cuiparlo. È un baratro, che inghiotte la no-stra identità e non restituisce niente incambio. Un’avversione che Amélie ave-va già espresso in Acido Solforico, uscitonel 2006. Dove racconta di un realityshow televisivo dal titolo Concentra-mento, nel quale i concorrenti, traspor-tati in un campo attraverso vagonipiombati, sono costretti a recitare da vit-time o carnefici. In un crescendo di or-rore, fino al gioco finale dell’eliminazio-ne fisica dei concorrenti attraverso il te-levoto.

Le chiedo infine se Dino Buzzati, il cuiDeserto dei Tartari è citato in Senza No-me, sia un autore al quale guarda con at-tenzione. Si illumina, Amélie. È unoscrittore immenso, importantissimo espaventoso. In tutti i suoi libri, compre-so quel capolavoro di disperazione epassione che è il lungo racconto Unamore. E Giovanni Drogo, rinchiusonella Fortezza Bastiani ad aspettare pertutta la vita un nemico invisibile che nonarriverà mai, mi sembra la metafora per-fetta di questi nostri anni.

Se vendi molti libri,è fatale che si creiuna mitologia su di teIo ho lo strano donodi raccontarecose sempliciche vengonointerpretate comefavolose eccentricità

Figlia di un diplomatico belga,ha passato l’infanzia cambiandodi continuo paese, amici, abitudini“Ogni tre anni il mondo finivae ricominciava altrove

Ho imparato da bambinaa non fare resistenza,ad assecondaretutte le scosseper non soccombereMa cosa restava di mein quel terremoto?Sono diventata scrittrice

dando risposta a questa domanda:la mia identità si è aggrappata alla solacosa che potevo portare con me,il linguaggio e la sua esattezza”

‘‘

‘‘

FO

TO

A3

Amélie Nothomb

Best seller

ELENA STANCANELLI

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2NOVEMBRE 2008

Repubblica Nazionale