numero di pagine

57
Capitolo Numero di pagine ipotizzato Indice 20 Presentazione di Roberta Frison 10 Introduzione di Jaqueline Monica Magi 10 Prima Parte: Criminologia -- Introduzione 2 Capitolo 1 - Criminologia: dalle origini al post-moderno 20 + 1 (bibl.) Capitolo 2 - Fenomenologia dei comportamenti criminosi 20 + 1 (bibl.) Capitolo 3 - I fenomeni criminali nelle dimensioni psicologiche, sociali, antropologiche e giuridiche 30 + 2 (bibl.) Capitolo 4 - Sociologia della devianza e del mutamento sociale 20 + 1 (bibl.) Capitolo 5 - La criminalità femminile e maschile 30 + 2 (bibl.) Capitolo 6 - Criminalità ed immigrazione 30 + 2 (bibl.) Capitolo 7 - Criminalità e malattia mentale 50 + 3 (bibl.) Capitolo 8 - Criminalità e tossicodipendenza 30 + 2 (bibl.) Capitolo 9 - Crimine e comunicazione di massa 30 + 2 (bibl.) Capitolo 10 - La sicurezza urbana 30 + 2 (bibl.) Capitolo 11 - Mediazione e Counselling 30 + 2 (bibl.) Capitolo 12 - I profili criminali 30 + 2 (bibl.) Capitolo 13 - I serial killer 30 + 2 (bibl.) Capitolo 14 - Sette e Satanismo 30 + 2 (bibl.)

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Capitolo Numero di pagine ipotizzato

Indice 20

Presentazione di Roberta Frison 10

Introduzione di Jaqueline Monica Magi 10

Prima Parte: Criminologia --

Introduzione 2

Capitolo 1 - Criminologia: dalle origini al post-moderno

20 + 1 (bibl.)

Capitolo 2 - Fenomenologia dei comportamenti criminosi

20 + 1 (bibl.)

Capitolo 3 - I fenomeni criminali nelle dimensioni psicologiche, sociali, antropologiche e giuridiche

30 + 2 (bibl.)

Capitolo 4 - Sociologia della devianza e del mutamento sociale

20 + 1 (bibl.)

Capitolo 5 - La criminalità femminile e maschile

30 + 2 (bibl.)

Capitolo 6 - Criminalità ed immigrazione 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 7 - Criminalità e malattia mentale 50 + 3 (bibl.)

Capitolo 8 - Criminalità e tossicodipendenza 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 9 - Crimine e comunicazione di massa

30 + 2 (bibl.)

Capitolo 10 - La sicurezza urbana 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 11 - Mediazione e Counselling 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 12 - I profili criminali 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 13 - I serial killer 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 14 - Sette e Satanismo 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 15 - La violenza in famiglia 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 16 - L’indagine grafologica nella perizia

30 + 2 (bibl.)

Capitolo 17 - Imputabilità e Responsabilità 30 + 2 (bibl.)

Seconda Parte: Criminalistica --

Introduzione 2

Capitolo 18 - Balistica forense 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 19 - Bloodstain Pattern Alalysis (BPA)

30 + 2 (bibl.)

Capitolo 20 - Medicina legale 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 21 - Tanatologia 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 22 - Tossicologia forense 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 23 - Botanica forense 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 24 - Entomologia forense 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 25 - Archeologia forense 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 26 - La dattiloscopia 30 + 2 (bibl.)

Terza Parte: Tecniche Investigative --

Introduzione 2

Capitolo 27 - Le investigazioni di polizia, tradizionali e scientifiche

30 + 2 (bibl.)

Capitolo 28 - La tecnologia per l’investigazione e l’intelligence

30 + 2 (bibl.)

Capitolo 29 - Investigazioni e psicologia: la testimonianza

30 + 2 (bibl.)

Capitolo 30 - Il suicidio 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 31 - L’omicidio 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 32 - I reati sessuali 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 33 - Il minore autore e vittima di reato

30 + 2 (bibl.)

Capitolo 34 - Vittimologia 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 35 - Dalla trasgressione al reato: Mobbing, Stalking e Bullismo

40 + 2 (bibl.)

Capitolo 36 - Criminalità del lavoro 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 37 - La criminalità organizzata 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 38 - La criminalità economica 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 39 - La criminalità informatica 30 + 2 (bibl.)

Capitolo 40 - Le forme del terrorismo 30 + 2 (bibl.)

Appendice --

Appendice 1 - Etica e codice deontologico del criminologo

30 + 2 (bibl.)

Appendice 2 - Le statistiche 20

Appendice 3 - La modulistica 20

Totale: 1396

Capitolo 7 - Criminalità e malattia mentale (Alessandra Chiarini, Maria Paola Rapagnani e Sara Rubini) 7.5 Aggressività ed impulsività 7.5.1 Definizione e strumenti di valutazione dell’aggressività 7.5.2 I fattori di rischio dell’aggressività 7.5.3 Relazione fra devianza criminale e devianza psicopatologica 7.5.4 Disturbi connessi all’aggressività 7.5.5 Definizione e modelli dell’impulsività 7.5.6 Correlazione tra impulsività ed aggressività 7.5.7 La violenza nello sport1 7.5.7.1 Le tipologie di violenza nei differenti sport 7.5.7.2 Violenza tra tifoserie e scontri con le forze dell’ordine 7.5.7.3 La legislazione per i tifosi violenti

1 Questo paragrafo sarà trattato anche da Sonia Sabbatini.

Bibliografia ragionata Dimensione pagina: 15x21 Carattere: GARAMOND 12 Interlinea: minima Colore: nero Citazioni di altri autori: inserite tra virgolette rispettando l’eventuale corsivo dell’autore. In caso di aggiunte di corsivo, specificarlo tra parentesi al termine della citazione; esempio: (corsivo aggiunto) Note a piè di pagina: utilizzare i numeri ed iniziare le citazioni di ogni capitolo dal n°1. Le note servono: Per l’indicazione di un libro nelle note, usare la seguente composizione: Cognome, Nome, titolo in corsivo, casa editrice, anno di pubblicazione, pagine alle quali si fa riferimento. Per l’indicazione di un libro già citato nella nota precedente, usare la seguente composizione: Cognome, Nome, op. cit., pagine alle quali si fa riferimento. Salvataggio: Word 2003 Allineamento testo: Giustificato Testi in bibliografia: Cognome, Nome, titolo in corsivo, casa editrice, anno di pubblicazione. Film in filmografia: titolo in corsivo, Regista, anno di uscita. Siti internet in sitografia: sito, data di accesso.

7.5 Aggressività ed impulsività 7.5.1 Definizione e strumenti di valutazione dell’aggressività L’aggressività è un costrutto bio-psico-sociale ampio. E’ la tendenza a manifestare un comportamento finalizzato a combattere un fenomeno che minacci l’integrità psico-organica propria o altrui.In termini etologici è l’elemento primario della sopravvivenza. In termini sociologici è una spinta all’autoaffermazione e alla competizione. Non ha dunque un significato intrinseco di patologico , ma lo diventa quando si perde il controllo, non la si modula e non la si adegua alle situazioni e non la si sublima in attività creative. In tal caso assume aspetti di stereotipia, impulsività ed è agita in modo finalistico e potenzialmente criminale. La valutazione dell’aggressività è complessa, perché raramente può esser osservata avendo manifestazione episodica, ma può essere indagata e valutata con risultati soddisfacenti, non soltanto mediante i classici questionari di personalità, ma anche attraverso questionari specifici e tecniche proiettive. Distinguiamo test che valutano:

- l’aggressività in generale come tratto comportamentale e temperamentale più stabile e strutturato tra cui Buss Durkee Hostility Inventory - BDHI (Buss e Durkee, 1957), tradotto in italiano come Questionario per la Tipizzazione del comportamento Aggressivo - QTA (Castrogiovanni et al., 1982), Hostility and Direction of Hostility Questionnaire - HDHQ (Caine et al., 1967), Novaco Anger Arousal Scale - NAAS (Novaco, 1975), Scala di Lagos (Lagos et al., 1977), Brown-Goodwin Questionnaire - BGQ (Brown et al., 1979, 1992), Questionario Irritabilità-Ruminazione/Dissipazione - QI-R (Caprara et al., 1991), Scala di Irritabilità (Caprara, 1983), Scala di Ruminazione/Dissipazione (Caprara et al., 1985a), Multidimensional Anger Inventory - MAI (Siegel, 1986), State-Trait Anger Expression Inventory - STAXI (Spielberger, 1988), Global Aggression Scale - GAS (Wistedt et al., 1990), Life

History of Aggression - LHA (Coccaro et al., 1997), Barratt Impulsiveness Scale, Version 11 - BIS-11 (Barratt e Stanford, 1995);

- l’aggressività in acuto (agita, comportamentale-episodica) tra cui la Nursing Rating Scale – NRS (Hargreaves -1968), che osserva dimensioni affettive, disturbi del pensiero, comportamenti interpersonali, livello di attività ed il funzionamento globale isolando fattori specifici quali rabbia, disturbi del pensiero, ansia e depressione, la IBRS, l’Acute Psychiatric Rating Scale - APRS (Squier, 1995), isolando le dimensioni di neuroticismo, aggressività, deterioramento cognitivo, schizofrenia, ipomania, autolesionismo e ritiro emotivo.

7.5.2 I fattori di rischio dell’aggressività

Il comportamento violento può essere concettualizzato come la risultante vettoriale di fattori che la condizionano e che possiam riassumer per linee guida in :

PREDISPONENTI: vulnerabilità genetica, anomalie neurofisioliogiche e del S.N., abuso , abbandono in prima infanzia, permissivismo educativo/culturale, DISINIBITORI : assenza di identificazioni in norme, pensiero concreto, intelligenza limitata, assenza di paura per la punizione, DI RISCHIO: patologia psichiatrica, disturbi di personalità, intossicazione da sostanze e alcol, anamnesi con precedenti atti auto ed etero-lesivi AMBIENTALI: povertà, instabilità occupazionale, assenza di rapporti familiari, amicizie, figure di riferimento. E’ fondamentale poter conoscere questo profilo fattoriale, per prevedere il possibile manifestarsi di comportamenti aggressivi, e mettere in atto interventi preventivi a breve e/o a lungo termine. Strumenti predittivi, con un certo margine di attendibilità, di comportamenti aggressivi e violenti sono:

Nursing Rating Scale - NRS (Hargreaves, 1968), Inpatient Behavioral Rating Scale - IBRS (Green et al.,1977), Overt Aggression Scale - OAS (Yudofsky et al., 1986), Acute Psychiatric Rating Scale - APRS (Squier, 1995), Aggression Risk Profile Scale - ARP (Kay et al., 1988), Scale of Profile of Feelings and Acts of Violence — PFAV (Plutchik e van Praag, 1990), Suicide and Aggression Survey - SAS (Korn et al., 1992), Aggressive Scale of the Child Behavior Checklist - CBCL (Achenbach, 1978), Revised Teacher Rating Scale - rTRS (Goyette et al., 1978), Self-Report Delinquency scale - SRD (Elliot et al., 1983) Pfeffer’s Spectrum of Assaultive Behavior Scale (Pfeffer et al., 1983), Lewi’s Scale - LS (Inamdar et al., 1986), Revised Behavior Problem Checklist - RBPC (Quay e Peterson, 1987, Missouri Peer Relation Inventory - MPRI (Borduin et al., 1989), Cohen-Mansfield Agiation Inventory - CMAI (Cohen- Mansfield e Billing, 1986), Rating Scale for Aggressive Behavior in the Elderly - RAGE (Patel e Hope,1992)

7.5.3 Relazione fra devianza criminale e devianza psicopatologica La devianza consiste in un comportamento in conflitto con le regole sociali; essa assume rilevanza criminale quando la trasgressione riguarda una norma giuridica. La devianza psicopatologica implica invece uno scostamento dalla normalità (sanità psichica). Un abuso delle teorie psicologiche sulla ‘malattia mentale’ può condurre ad evitare o distorcere l’attribuzione di responsabilità, e questo determina controversia da un punto di vista giuridico. Il codice penale italiano (art. 133) stabilisce che va valutata la "intensità del dolo o grado della colpa", e la "capacità a delinquere del colpevole" in maniera oggettiva e tenendo in considerazione la multifattorialità che porta all’agito criminoso in una prospettiva idiografica. Sarà necessario dunque soppesare la capacità e la responsabilità in relazione al tipo di comportamento illegale, alla particolare condizione del soggetto e al suo contesto relazionale (Ponti e Merzagora, 1993; De Leo, 1996).

7-5-3-1 Metodi e strumenti dell’assessment psicologico. Oggetto della valutazione psicologica sono sia i ‘tratti’ di personalità, ovvero le tendenze stabili e strutturate che caratterizzano l’individuo, sia le modificazioni di questi tratti derivanti dalle interazioni con le situazioni e il contesto, in una prospettiva ‘idiografica’. A livello metodologico si esaminano sia la prospettiva ‘strutturale’ che quella‘dinamica’. La prima presenta un approccio di tipo psicometrico che si avvale di test strutturati, sia di intelligenza che di personalità. La prospettiva dinamico-funzionale invece si avvale prevalentemente di metodologie non psicometriche: griglie, schemi desumibili da colloqui o interviste, ‘storie di vita’. L’analisi attenta di strategie personali, storie e‘copioni’(scripts) di vita, di modalità di problem solving, è finalizzato a rintracciare sia segni di ‘coerenza’ che consentono di collocare i soggetti in categorie generali (tratti), sia indicatori delle interazioni e dei cambiamenti che mutano nel tempo questa collocazione. I test standardizzati inoltre sono utilinella pratica diagnostico-forense anche se non rappresentano l’unico strumento valutativo in virtù della loro obiettività. I test più usati risultano attualmente negli Stati Uniti l’ M.M.P.I., il Rorschach, la scala WAIS e il test di Bender (Lees-Haley, 1992), mentre in Italia sono diffusi anche i questionari Big Five Factors e Cognitive Behavioral Assessment. 7-5-3-2 Variabili psicologiche da valutare in una prospettiva criminogenetica e criminodinamica

Ecco di seguito un elenco relativo ad alcuni fattori che possono concorrere e interagire per sfociare in un comportamento criminale:

- eccessiva ansietà indotta da sentimenti di sfiducia circa le possibilità di fronteggiare situazioni potenzialmente pericolose e minacciose (scarsa autostima)

- l’inefficacia nel controllare i pensieri che inducono paura. - dubbi circa la propria capacità di realizzare obiettivi essenziali

(carenza di ‘auto-efficacia’, Bandura, 1997) - l’ ‘impotenza appresa’ (learned helplessness, Seligman, 1992)

determina stati depressivi che posson portar a comportamenti anche disadattivi.

- le identificazioni con modelli devianti e/o l’individuazione basata su atteggiamenti oppositivi possono determinare identità negativa con contrapposizione alle regole sociali.

- il narcisismo patologico - il pensiero concreto prevalente su quello astratto-simbolico - la percezione sociale delle leggi e delle regole, i principi etici,

le pressioni della subcultura di appartenenza con la sopravvalutazione dei benefici dei crimini.

- l’inadeguata capacità di programmazione e di decisione con conseguente discontrollo degli impulsi.

7.5.4 Disturbi connessi all’aggressività Di seguito sono riportate le possibili espressioni dell’aggressività nelle diverse sintomatologie, anche se l’incapacità di intendere e volere è conclamata nella sfera della psicosi e della personalità paranoide, mentre in tutti gli altri casi è necessaria una valutazione molto più complessa.

1- malattie organiche : ritardo, epilessia, demenza 2- schizofrenia in seguito ad allucinazioni visive o uditive,

deliri persecutori a volte con partecipazione affettiva 3- disturbi affettivi soprattutto in fase maniacale (onnipotenza,

mancanza di accettazione dei limiti, impulsività, rabbia,

frequentemente deliri) o in fase depressiva ( omicidio missionario per salvare i cari dalla rovina)

4- abuso di sostanze: cocaina, cannabis, oppiacei, LSD , amfetamine e alcol (con deliri di gelosia e persecuzione) 5- disturbi d’ansia : raro sia in DAP sia in DOC, mentre nel

fobico l’aggressività si manifesta se la via di fuga davanti all’oggetto temuto venga ostacolata. 6- disturbi del controllo degli impulsi : danneggiano interessi personali e altrui con modalità impulsive e impossibilità di autocontrollo, con successivo senso di colpa, incapacità nel respingere gli impulsi, fissazione alla fase orale, difficoltà a mantenere attenzione distribuita, senza riflesioni sulla possibile punizione. 7- disturbi della condotta: condotta antisociale, aggressiva, provocatoria con condizioni ambientali sfavorevoli. E’ diverso da un disturbo emozionale e associato spesso a iperattività spacconeria, violenza, danni alla proprietà, incendi, furti, comportamento .menzoniero, assenze a scuola, fughe da casa, accessi d’ira. 8- disturbi di personalità: modi di pensare , percepirsi, rapportarsi verso l’ambiente e se stessi all’interno di un ampio spettro di contesti sociali e personali importanti troppo rigidi e non adattivi con sofferenza soggettiva. Esistono tre clusters: A – Disturbi di personalità BIZZARRI: paranoide, schizoide, schizotipico C- disturbi di personalità centrati su ANSIA e INSICUREZZA: evitante, dipendente, ossessivo-compulsivo B-disturbi di personalità connessi all’ IMPULSIVITA’ E all’ IMPREVEDIBILITA’: istrionico, narcisistico, antisociale e borderline. Quest’ultimo è caratterizzato dalle dimensioni di: a-ansia/timore (irrequiet,tension motoria,nervosis,no ansia

b-tristez/demoraliz (depres reattiv,stati misti di rabbia e tristez,intoller a frustraz,insofferenz,impulsiv.,apati) c- distors realtà (pensiero ancora organiz, no allucin d- abuso di sostanze (automedicaz, o annul angoscia, o ricerca sensaz in reaz ad apatia o noia, insoffer,ribel,farsi m e-rabbia/aggres e impulsività (mancanza di tolleranza alla frustrazione, fluttuazione dell’umore, Gli schemi mentali nel DBP si possono così sintetizzare : - il mondo è pericoloso e cattivo (discontrollo biologico degli impulsi) - il soggetto si sente impotente e vulnerabile (magari in relazione a un trauma infantile) - il soggetto si ritiene inaccettabile e presenta un attaccamento disorganizzato e insicuro 7.5.5 Definizione e modelli dell’impulsività La definizione stessa dell’impulsività è controversa e non univoca, in ambito psichiatrico. Da alcuni Autori, l'impulsività è considerata una predisposizione, ossia un comportamento biologicamente determinato, caratterizzato dalla tendenza ad agire rapidamente, senza pianificare la propria azione, in assenza di una valutazione razionale e/o consapevole, di tutte le conseguenze dell’atto. Il comportamento è precipitoso e violento, con risposte rapide senza adeguata riflessione, come reazione immediata a uno stimolo. I modelli interpretativi principali dell’impulsività sono: 1- Modello cognitivo (rapida e incompleta valutazione del contesto con deficit dell’ attenzione, senza un’ analisi complessa della reazione, della programmazione, dell’ elaborazione di ipotesi alternative)-comportamentale (incapacità a ritardare la gratificazione e a inibire il comportamento) tra cui nello specifico troviamo dei sottomodelli o schemi mentali:

- schema dell’estinzione/punizione, centrato sulla perseveranza a riproporre una risposta che viene punita o non gratificata;

- schema della schema della scelta/ricompensa, con la preferenza per una gratificazione immediata e inferiore rispetto a una ricompensa maggiore ma più tardiva; - schema di disinibizione/attenzione, orientato a risposte fornite in modo prematuro o come la incapacità a trattenere la risposta; - schema della limitazione della sensibilità rispetto alla percezione delle conseguenze negative del comportamento; - schema delle reazioni rapide e non pianificate verso stimoli ancor prima che il processo di informazione sia completato.

2- Modello psico-biologico presentato da due ricercatori: A – Eysenck => - sottodimensione dello Psicoticismo - bassi livelli di arousal B- Zuckerman => - ricerca impulsiva di sensazioni A e B sono correlati alla devianza sociale: - recidiva alla punizione - bisogno di eccitamento - impulsiva reattività davanti a prospettive di ricompensa - insensibilità manifesta a stimoli associati alla punizione - aumento dei potenziali evocati connessi all’ attività elettrica cerebrale prodotta da stimoli esterni

test sull’impulsività : 3 componenti controllo motorio, capac.attentiva,pianificaz e organiz mentale) Sono emerse correlazioni statisticamente e clinicamente significative tra questi tre aspetti già esaminati : 1- azioni aggressive 2- condotte compulsive (tra cui abuso di alcool , droghe,bing eating disorder…)3- acting out 7.5.6 Correlazione tra impulsività ed aggressività

(in particolare nel disturbo borderline di personalità)

I disturbi di personalità nel DSM-IV-TR sono raggruppati in tre clusters (A-odd, B-dramatic, C-anxious), sulla base d’alcune affinità

sindromiche e d’espressione clinica dei disturbi. Il disturbo borderline di personalità, insieme al disturbo istrionico ed al disturbo narcisistico, è inserito nel dramatic cluster, caratterizzato da un’esasperata espressione dell'emotività. L' impulsività è la dimensione comune sottesa a tutti i disturbi di questo cluster. Le differenze sindromiche, presenti tra i disturbi di personalità di questo cluster, potrebbero essere correlate sia alla diversa gravità dei tratti impulsivi sia all’interazione dell’impulsività con altre variabili psicopatologiche ed ambientali. I sintomi caratteristici del disturbo borderline di personalità, secondo alcuni ricercatori, sono riconducibili a tre fattori fondamentali: · disturbo interpersonale-relazionale di grave intensità e compromissione; · disregolazione comportamentale impulsivo-aggressiva; · disregolazione affettiva con instabilità emotiva. In quest’ottica, il disturbo relazionale includerebbe instabilità nelle relazioni interpersonali, disturbo d'identità, sentimento cronico di vuoto. La disregolazione comportamentale comprenderebbe l'impulsività e il comportamento auto ed etero aggressivo a vari livell. La disregolazione affettiva esprimerebbe l'incapacità di affrontare condizioni di stress ed includerebbe l'instabilità dell'umore, la reazione di rabbia improvvisa, eccessiva e ingiustificata, nonché l'evitamento di un abbandono immaginario o reale. Aspetti psicopatologici correlati all’impulsività sono presenti in tutti i fattori fondamentali . Tali aspetti comportamentali impulsivi si possono evidenziare nella tendenza ad interrompere bruscamente le relazioni interpersonali, passando ingiustificatamente dall'idealizzazione alla svalutazione dell'altro, nell’incapacità a controllare l'intensità e l’appropriatezza delle reazioni aggressive, così come nella rabbia o nelle reazioni eccessive al timore, di un abbandono. In questa prospettiva, l'impulsività può essere considerata una

dimensione psicopatologica, che interessa tutti i tratti personologici e gli aspetti comportamentali e sindromici della patologia borderline. I soggetti borderline presentano delle brusche oscillazioni dell'affettività, con un'intensa e disadattiva reattività all'ambiente, soprattutto nelle relazioni interpersonali. E’ stato ipotizzato che la stessa instabilità affettiva possa essere interpretata come un fenomeno impulsivo. I rapidi cambiamenti relazionali, in risposta a stimoli ambientali spesso modesti, sembrano essere affini al comportamento impulsivo, definito come la tendenza a reagire immediatamente senza controllare a sufficienza l'intensità della risposta. Linehan ha sostenuto che i comportamenti impulsivi e quelli autolesivi potrebbero essere utilizzati come meccanismi disadattivi di difesa e sollievo, da stati affettivi intollerabili. Altri Autori hanno evidenziato, inoltre, che tali comportamenti disadattivi, impulsivi ed autolesivi, si esprimono durante crisi di disforia. Stone ha evidenziato, in pazienti borderline ed antisociali, una prognosi sfavorevole ed ha interpretato questo dato come l’effetto indotto, a livello clinico, da alti livelli d’impulsività. In un’ottica nosografica non categoriale, è stato proposto di includere il disturbo borderline di personalità tra gli altri disturbi del controllo degli impulsi, caratterizzati dall'aspetto comportamentale essenziale, della tendenza al passaggio all'atto. Osservazioni cliniche e di storia familiare sembrano sostenere, infatti, una stretta correlazione tra DBP ed altri disturbi dell'impulsività, come abuso di sostanze, disturbo antisociale di personalità e disturbi del comportamento alimentare. E’ stato ipotizzato che anomalie del sistema serotoninergico siano responsabili dell'impulsività, nel DBP, e contraddistinguano le forme persistenti del disturbo. L'impulsività condiziona sensibilmente il decorso del DBP e tende a decrescere con l'età.

7.5.7 la violenza nello sport Dal punto di vista della definizione la violenza è quel comportamento ostile che si esprime a livello fisico, verbale o gestuale, con l’intenzione di recare un danno agli altri. La violenza si identifica con l’aggressione fisica e nello sport si manifesta nella mancanza di rispetto del regolamento. In molti sport è ammessa la violenza, ma bisogna distinguere il comportamento aggressivo dal comportamento assertivo: il primo è appunto quello messo in atto con la volontaria intenzione di recare un’offesa; il secondo è quel comportamento implicito nel gioco, compiuto nel pieno rispetto delle regole. Si veda ad esempio il placcaggio nel rugby o il più esemplificativo pugilato, entrambi sport che per essere praticati prevedono l’uso della forza fisica. L’aggressione e la violenza in sé sono comportamenti appresi dall’interazione dell’individuo con il suo ambiente sociale: nello sport agonistico si manifestano quando le aspettative di riuscita e le probabilità di rinforzo sono assai elevate da parte dei compagni di squadra, dell’allenatore e anche dai genitori o amici; mentre le probabilità di essere puniti per un comportamento scorretto sono estremamente ridotte o comunque gli effetti di un’eventuale sanzione non superano i rischi derivanti dall’infrangere il regolamento. Molto spesso gli atleti agiscono per simulazione, ovvero hanno memoria di atti simili non puniti o poco sanzionati in precedenza e preferiscono rischiare piuttosto che perdere una partita; nella loro mente la vittoria va conquistata con ogni mezzo, anche con l’inganno e con comportamenti che deviano dal regolamento sportivo. Questo avviene quando ci si concentra maggiormente sulla sconfitta dell’avversario piuttosto che tendere ad un miglioramento personale o ad un miglior gioco di squadra: in queste circostanze le prestazioni di ogni atleta decadono e si comincia a pensare che “il fine giustifichi i mezzi”. La violenza però non è solo in campo, anzi, gli scontri peggiori e le principali manifestazioni di violenza avvengono proprio al di fuori

del campo da gioco, in modo particolare per quanto riguarda lo sport nazionale: il calcio, che negli ultimi decenni è stato caratterizzato da violenti scontri tra tifoserie differenti e tra tifosi facinorosi (o ultras) e forze dell’ordine. Le cause di tali comportamenti devianti, spesso accompagnati da atti di vandalismo e gratuita violenza contro chiunque venga identificato come il “nemico” sono le seguenti:

Condizionamenti: coloro che assistono ad una manifestazione sportiva in cui si usa l’aggressività, tendono ad interiorizzarla e a diventare aggressivi a loro volta; “la sequenza di eventi tende a perpetuarsi per forza propria”2

La spiegazione di tale agiti deriva dalla “psicologia della folla”, secondo la quale chi si trova a far parte di un determinato gruppo, ne subisce l’influenza e tende a far propri dei comportamenti del quale non sarebbe pienamente convinto, adottando la stessa condotta e gli stessi atteggiamenti degli altri membri del gruppo. Il gruppo diviene così forte nel condizionare il singolo tanto da fargli perdere la propria identità.

Ricerca di identità: quello del tifoso è un personaggio mitizzato, a cui viene attribuito un linguaggio proprio, fatto di slogan, un proprio stile di abbigliamento e caratteristiche dimostrazioni di coraggio e virilità, ruolo spesso ambito da molti ragazzi che non sono riusciti ad esprimere un’identità propria e tantomeno a farla valere nel gruppo dei pari. Chi entra a far parte del mondo degli ultras ha poco da metterci del suo: trova già un’identità pre-confezionata, fatta di norme, valori e ragioni in cui credere e in nome delle quali agire. Chi abbraccia la filosofia del tifoso preferisce essere un ultra piuttosto che nessuno.

Effetto protagonistico: l’idea che affascina i giovani tifosi è quella di diventare qualcuno, di avere la fama del duro,

2 Goldstein, Jeffrey H., psicologo, La Repubblica, 16/12/1994

forte, temuto e questo processo di etichettamento derivato dai mass-media produce una sorta di auto-pubblicità ai clubs delle tifoserie che fanno a gara per darsi nomi sempre più bizzarri e “cattivi”.

Ricerca di eccitazione: molti di coloro che si dichiarano ultras sono alla ricerca di tensione emotiva e la trovano nelle situazioni antagonistiche, di scontro, di agitazione sottintese alla partita. In questo modo le aggressioni, le liti, gli atti di vandalismo costituiscono quella componente emotiva così forte da non poterne fare a meno: è un bisogno psicologico di cimentarsi con sensazioni forti.

Bisogno di sfogo: questa viene definita come la teoria “catartica” e consta nell’attribuire al tifoso un bisogno di sfogare le emozioni, le frustrazioni accumulate durante la settimana al lavoro e in famiglia; la “catarsi” sarebbe possibile per mezzo di un’identificazione del tifoso stesso con gli atleti che giocano la partita, mettendo in atto una sorta di conflitto simbolico che viene ritualizzato ed esorcizzato nei confronti dei tifosi avversari (attraverso slogan e striscioni). Quando però questa identificazione non avviene con successo e il tifoso non riesce a “liberarsi” delle frustrazioni represse accumulate, allora si ha il passaggio all’azione, all’atto vandalico e agli scontri violenti.

In senso ancora più ampio si potrebbe affermare che gli stadi siano i luoghi di raccolta e di sfogo di tutte quelle frustrazioni ed insofferenze di tipo economico, sociale e politico; la manifestazione sportiva sarebbe quindi il sostituto su cui spostare l’aggressività interiorizzata del cittadino insoddisfatto.

Condizionamenti sociali: il tifoso è il prodotto di una società che premia e manda avanti soltanto i migliori, coloro che vincono sempre e comunque, senza badare agli strumenti impiegati; è appunto la filosofia del “fine che giustifica i mezzi”.

Nello sport l’agonismo e la competizione sono previsti, anzi, fanno parte del gioco, e il desiderio di superare l’avversario è la giusta spinta che deve motivare gli atleti; attraverso lo sport l’atleta si scarica dell’energia aggressiva che accumula con lo stress e che, al contrario, provocherebbe maggiori danni se rimanesse latente. Ciò che differenzia l’atleta dal tifoso violento è la modalità con cui questa aggressività viene scaricata. Ecco di seguito alcuni fattori che contribuiscono a creare violenza nei tifosi:

Mass-media

Mancanza di punti di riferimento

Ambiente esterno vissuto in modo “pressante”, come una costante richiesta di essere altezza senza però proporre modelli imitativi adeguati

Divismo: fenomeno per cui non basta più essere i protagonisti del proprio gruppo, ma si deve diventare per forza dei “divi” temuti e rispettati da tutti.

Si potrebbe riassumere cosi la “psicologia del tifoso” : nell’ottica del tifoso accanito certi comportamenti devianti avvengono perché necessari a ristabilire un ordine, un senso di giustizia proprio; servono a proteggere l’orgoglio da insulti e provocazioni, a salvaguardare l’autostima e il potere minacciato da agenti esterni, che il più delle volte sono gli arbitri: tutto ciò ovviamente agli occhi del tifoso che decide poi di farsi giustizia da sé, andando contro la tifoseria avversaria in primis e contro le forze dell’ordine che cercano poi di ristabilire la calma. Per far parte del gruppo degli ultras ci sono delle regole ben precise, che vanno accettate a priori e alle quali l’aspirante tifoso non può sottrarsi:

Essere sempre pronti ad aggredire

L’arbitro favorisce l’altra squadra

Se gli avversari non sono stati puniti dall’arbitro, saranno puniti dai tifosi dopo la partita

Usare slogan, striscioni e insulti di ogni genere contro gli avversari

Chi non è con noi è contro di noi

Lo stadio è come un campo di battaglia

Rendere la manifestazione sportiva una causa politica

7.5.8 Le correlazioni con Mobbing, Stalking e Bullismo L’elemento che intercorrela l’aggressività e l’impulsività con mobbing, stalking e bullismo è la persecuzione in particolare psicologica, mediante comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, operata da soggetti che detengono un potere di ruolo, o economico o di dipendenza affettiva o di gerarchia e controllo in ambito familiare/lavorativo/scolastico. L’aggressività è ripetuta e intenzionale, diviene uno stile relazionale patologico, ma meno impulsivo, dato che si tengono in considerazione i vantaggi delle vessazioni e i rischi. Dunque c’è una programmazione e una pianificazione non prettamente impulsivi, anche se talvolta il rituale denigratorio, di violenza verbale, psicologica si evolve nella direzione della violenza fisica, sessuale sino ad apici in cui il reato può diventare l’ omicidio.

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Capitolo 35 - Dalla trasgressione al reato: Mobbing, Stalking e Bullismo

35.1 Il Mobbing 35.1.1 La definizione Il termine “mobbing” trae le sue origini dalla lingua inglese ed in particolare dal verbo “to mob” che significa:“affollarsi intorno a qualcuno con atteggiamento minaccioso”. Fu Leymann, all’inizio degli anni ’80, a descrivere nel mondo del lavoro l’insieme di quei comportamenti che, per le loro caratteristiche di intrinseca violenza e squilibrio di forza, possono essere assimilabili a quanto precedentemente studiato da altri autori nel mondo animale e in alcuni tipi di interazioni infantili. Il mobbing, così come definito da Leymann e Gustafsson nel 1984, viene descritto come “Una forma di terrorismo psicologico che

implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica - e non occasionale ed episodica - da una o più persone, nei confronti di un solo individuo il quale viene a trovarsi in una condizioneindifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie. Queste iniziative debbono ricorrere con una determinata frequenza (statisticamente almeno una volta alla settimana) e nell’arco di un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi di durata). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata del comportamento ostile, questa forma di maltrattamento determina considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali”. In Italia nel 2002 il fenomeno della violenza morale o psichica in occasione di lavoro viene descritto dalla Commissione Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento della Funzione Pubblica nella maniera seguente: “Atti, atteggiamenti o comportamenti di violenza morale o psichica, in occasione di lavoro, ripetuti nel tempo in modo sistematico o abituale, che portano a un degrado delle condizioni di lavoro, idoneo a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore”. Il mobbing dunque è una situazione in cui uno o pochi lavoratori all’interno di un gruppo sono fatti oggetto di “una serie di iniziative vessatorie e persecutorie” che Leymannha indicato nel suo questionario, il LIPT (cft. Leymann, 1996). Esprimono una violenza di tipo psicologico e fisico, che determinano considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali eche comprendono anche comportamenti che appartengono alla violazione della sensibilità personale nella sfera della sessualità, che avvengono in forma sistematica, almeno una volta alla settimana, per almeno sei mesi. Si fa riferimento ad una situazione che non può essere occasionale ma deve reiterarsi per un certo periodo di tempo. S deve tenere conto di due concetti fondamentali che sono la durata e la ripetitività. Nel modello di Leymann (1993) inoltre, il mobbing viene definito come una forma di molestia con i caratteri dell’intenzionalità: le azioni sono mirate a manipolare la persona in

senso non amichevole, al fine di determinarne l’isolamento nel proprio ambiente lavorativo 35.1.2 Il mobbing sul luogo di lavoro Il fenomeno della violenza fisica e morale o psichica nel mondo del lavoro, variamente indicato come“mobbing” “workplace bullying” o “workplace harassment”, è oggetto i studio epidemiologico. Le donne sono maggiormente oggetto di mobbing rispetto agli uomini (9 %contro 7 %), e i precari lo sono in misura maggiore rispetto a chi ha un impiego fisso. La percentuale più elevata di persone che subiscono il mobbing ha un impiego nell’amministrazione pubblica (13 %), ma la percentuale è alta anche fra i dipendenti del settore terziario e commerciale (11 %) e bancario (10 %). La mancanza di sicurezza nelle condizioni di lavoro è una delle cause principali del proliferare di diverse forme di violenza sul posto di lavoro. 35-1-2-1 Strumenti di valutazione Il metodo più diffusamente utilizzato per misurare il mobbing negli studi campionari è costituito da questionari di autovalutazione, autosomministrati o somministrati da un operatore nel corso di una intervista. I questionari più frequentemente utilizzati sono: – LIPT, Leymann Inventory of Psychological Terrorism (16,17): 7.9% degli studi primari, – NAQ, Negative Acts Questionnaire (4,5): 20.6% degli studi primari, – GWHQ, Generalized Workplace Harassment Questionnaire (29): 12.7% degli studi primari. 35-1-2-2 Fattori di rischio per il mobbing sul lavoro

Il medico del lavoro, nell’ambito del suo contributo alla valutazione dei rischi lavorativi, dovrebbe considerare anche il “rischio mobbing”, tenendo conto di quelle variabili di tipo organizzativo che possono contribuire all’instaurarsi di tali situazioni, e partecipare attivamente agli interventi volti a ridurre questo tipo di rischio. I fattori di tipo organizzativo che dovrebbero essere considerati all’interno di tale valutazione dei rischi sono i seguenti: - caratteristiche della leadership, in particolare presenza di un’organizzazione basata sull’eccessivo autoritarismo nell’ambito di una struttura di tipo “verticale” - organizzazione e programmazione dei tempi di lavoro (orari, previsione di pause, organizzazione dei turni lavorativi) - gestione delle informazioni, (Impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie) - grado di autonomia nella gestione del lavoro - controlli sui tempi di lavoro, sulle assenze per malattie e per ferie (Esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo) - distribuzione dei compiti che tenga conto della posizione, delle capacità e delle attitudini personali dei lavoratori (Prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale) - presenza di una equilibrata distribuzione dei compiti tra lavoratori di pari-livello - distribuzione equilibrata delle risorse quali strumenti o attrezzature necessarie per il lavoro tra i colleghi - marginalizzazione dalla attività lavorativa e svuotamento delle mansioni - ripetuti trasferimenti ingiustificati - prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi - esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale.

35.1.3 Il mobbing familiare Si definisce come l’insieme degli atti e delle omissioni, di un coniuge verso l’altro, caratterizzati da intento denigratorio o persecutorio, e finalizzati alla sistematica distruzione della personalità altrui. Comprende tutti quegli atti di violenza psicologia ed emotiva, che nelle forme più manifeste creano ansia e angoscia, e nelle forme più subdole (e dunque più pericolose perché non facilmente riconoscibili e dimostrabili all’esterno) creano una sorta di impotenza e oppressione. Purtroppo questi comportamenti fonte di un danno esistenziale, non trovano facilmente una corretta sanzione poiché a volte non sono nemmeno qualificabili come atti illeciti, altre volte invece è difficile dimostrare l’intenzionalità (il dolo) del comportamento di chi li compie. Il mobbing familiare può manifestarsi in diverse forme: dalla violenza psicologica (minacce, insulti, continue mortificazioni e svalutazioni del valore dell’altro), alla violenza economica che consiste nel privare l’altro coniuge della libertà di disporre di una indipendenza economica al punto da far dipendere la propria esistenza dall’altro partner; questi atti, come è facile intuire, sono perpetrati spesso dal marito nei confronti della moglie. Un altro modo in cui il mobbing si manifesta è lo stalking, cioè una serie di atteggiamenti tenuti dal marito che perseguita la moglie attraverso un ossessivo controllo a distanza, con continue telefonate, lettere, SMS, e-mail, pedinamenti che provocano stati di ansia e paura fino a comprometterne il normale svolgimento della vita quotidiana. Comportamenti mobbizzanti nell’ambito del conflitto coniugale possono essere rivolti anche a danno dei figli. Il mobbing genitoriale è l’insieme dei comportamenti, anche omissivi, che violano gli obblighi sanciti dagli articoli 147 e 155 Cod. Civ. Questi comportamenti emergono soprattutto quando la coppia è in crisi e si separa. Non a caso, molti autori parlano di

“infantilizzazione" della coppia in via di separazione” proprio per indicare gli atteggiamenti irragionevoli di molti genitori per danneggiare l’altro coniuge, senza però rendersi conto di strumentalizzare i propri figli arrecando un trauma psicolgico . Il mobbing genitoriale comprende gli inadempimenti agli obblighi di cura, educazione, istruzione, la violazione sistematica degli obblighi di visita, il non contribuire al mantenimento dei figli, l’ ostacolare i rapporti del minore con l’altro coniuge. Attraverso questi atti i genitori violano il diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, sancito dalla L.54/2006. Anche l’assistere ai comportamenti illeciti di un genitore verso l’altro, (come essere presenti durante i litigi o assistere a violenze fisiche e morali), sopportare la costante denigrazione e delegittimazione di un genitore da parte dell’altro è un comportamento mobbizzante (mobbing genitoriale mediato). 35.1.4 Le conseguenze psico-fisiche del mobbing I risultati della metanalisi mostrano come nella categoria dei lavoratori mobbizzati i disturbi psicosomatici e da stress, e l’ansia siano maggiori rispetto al gruppo dei controlli e come la percezione dell’ambiente circostante sia più negativa nelle vittime di mobbing rispetto ai lavoratori non mobbizzati. Le conseguenze in termini di disturbi psicosomatici e stress correlati nelle vittime di mobbing, sono però associate ad una elevata eterogeneità nei metodi di valutazione utilizzati e da un indice di inconsistenza del 79% circa, che sta ad indicare come la significatività del risultato nel paragone tra i gruppi sia da attribuire in grossa parte all’eterogeneità stessa. Le vittime di mobbing sono più colpite dallo stress di quanto non lo siano i lavoratori in generale. Il 47 %delle persone oggetto di mobbing sostiene di avere un lavoro stressante, mentre fra la totalità di un campione di lavoratori non mobbizzati tale percentuale è del 28 %. Le assenze per malattia sono più frequenti

fra le persone vittime di mobbing (34 %) rispetto alla totalità degli intervistati (23 %).In un’analisi specifica dei dati nazionali riportati nello studio sull’ambiente di lavoro condotto nel 1999 in Svezia, viene stabilito un nesso fra stress e mobbing. 35.1.5 La legislazione in materia

Per quanto riguarda la giurisprudenza occorre distinguere due periodi: quello del c.d. pre-mobbing, in cui sostanzialmente l’influenza degli orientamenti europei è stata poco evidente in quanto il giurista non si preoccupava di verificare se il comportamento vessatorio messo in atto ai danni del lavoratore avesse o meno le connotazioni di una condotta di mobbing ma si limitava a stabilire se la condotta rivestisse i caratteri della fattispecie civilmente o penalmente sanzionata; ed il periodo più recente del mobbing per così dire ufficializzato, in cui il mobbing viene riconosciuto come fenomeno giuridico autonomo anche se ancora privo di una normativa specifica di tutela.

E’ evidente, nel nostro sistema nazionale, l’esistenza di carenze soprattutto sotto il profilo informativo e procedurale del fenomeno del mobbing. Manca cioè un’adeguata sensibilizzazione al problema, sia tra i lavoratori, sia tra il management aziendale, visto che ancora oggi, come emerso da studi psicologici e sociologici, spesso non si conosce nemmeno il significato del termine. Da questo punto di vista appaiono sicuramente utili tutti quei provvedimenti legislativi o contrattualistici che propongono interventi di prevenzione ed informazione sul fenomeno o mirano a creare procedure di accertamento dei fatti sotto il controllo dei rappresentanti sindacali, aziendali di esperti in materia anche esterni all’organizzazione aziendale.

Complessa invece è la codificazione giuridica del concetto di mobbing in quanto se da un lato contribuirebbe sicuramente a chiarire i contorni del fenomeno, dall’altra una definizione troppo

angusta o troppo specifica dello stesso rischierebbe di escludere le modalità più subdole ed indefinibili a priori con cui il fenomeno si realizza.

Un elemento da affrontare è quello probatorio, che costituisce il nodo problematico maggiore per la vittima di mobbing che spesso si trova di fronte alla impossibilità di dimostrare le vessazioni e persecuzioni subite perché chi dovrebbe fornire la fonte di prova, per lo più colleghi di lavoro, che si rifiutano di farlo per paura di reazioni da parte del mobber. In questo senso sarebbe forse utile che il legislatore si preoccupasse di alleggerire il carico probatorio del mobbizzato magari attraverso lo strumento dell’inversione dell’onere della prova una volta che la vittima abbia fornito un principio di prova (ad esempio l’esistenza di provvedimenti sanzionatori o determinanti mutamenti di mansioni o funzioni non giustificate o non sufficientemente motivate) o l’impiego di presunzioni di vessatorietà per alcune tipologie di comportamenti3. Tali agevolate modalità probatorie a favore del lavoratore dovrebbero comunque essere dosate in modo da evitare che le pratiche vessatorie invertano la rotta e diventino strumento di ricatto dei lavoratori nei confronti dei vertici aziendali.

Un ultimo rilievo riguarda la questione del risarcimento del danno che la maggior parte dei provvedimenti normativi prevede ma senza precisare quale tipo di danno sia risarcibile tra il danno patrimoniale, quello biologico, quello morale o quello esistenziale. Si è visto, infatti, come la questione sia quanto mai confusa e, il legislatore, nel caso decida di intervenire in materia, farebbe bene a chiarire il punto onde evitare il fiorire di orientamenti giurisprudenziali contrastanti.

35.2 Lo Stalking 35.2.1 La definizione 35.2.2 Le tipologie di stalker 35.2.3 La valutazione del rischio di recidiva attraverso il metodo SARA-S 35.2.4 Le conseguenze psico-fisiche per la vittima 35.2.5 Il rapporto tra stalking e malattia mentale 35.2.6 Il difficile connubio tra stalking e diritto 35.2.1 La definizione Il termine Stalking, tratto dal linguaggio tecnico della caccia, traducibile con “fare la posta”, non ha ancora oggi una esatta definizione. Molestie, minacce, pedinamenti, telefonate indesiderate, controllo, sorveglianza nei confronti della vittima designata, risultano

icomportamenti che più di frequente caratterizzano tale fenomeno, che all’inizio degli anni ottanta, per coinvolgimenti di personaggi dello spettacolo, iniziò ad attirare l’interesse dei mass-media. Risale al 1982 uno dei primi casi di aggressione di un personaggio dello spettacolo: l’attrice Theresa Saldana pugnalata dal suo stalker a Los Angeles. Al di là dei mass-media, il fenomeno stalking ha iniziato a suscitare l’interesse scientifico degli psichiatri e dei medici forensi intorno alla prima metà degli anni’90 (Zona e al., 1993, Harmon e al., 1995, Meloy e Gothard, 1995). Ma è solo negli ultimi 6-7 anni che è fiorita la letteratura scientifica in tema di stalking (Meloy, 1996, Mullen e al., 1999, Silva e al., 2000, Kienlen e al., 1997, Kienlen, 1998, Kamphuis e al., 2001, Sheridan e Davies, 2001, Del Ben e Fremouw, 2002). In Italia si segnalano soprattutto i contribuiti scientifici di Galeazzi e Curci (2002) ed Aramini (2002). Studi epidemiologici retrospettivi hanno consentito di individuare due possibili definizioni dello stalker: quella di “erotomania non delirante o borderline” e quella di “inseguitori ossessivi”.. Nel primo caso – erotomania borderline - le molestie persistenti nei confronti della vittima – con la quale normalmente lo stalker ha avuto una relazione sentimentale– configurerebbero un tentativo di difesa dalla ferita narcisistica suscitata dall’abbandono. Nel secondo caso – inseguitori ossessivi – le ossessioni rappresenterebbero l’elemento fondamentale che spinge lo stalker ad atti caratteristici come pedinare, spiare, seguire, aggirarsi attorno alla vittima. (Galeazzi, Curci, 2002) hanno proposto la definizione di “Sindrome del molestatore assillante”, ovvero di un quadro sindromico che rimanda ad una patologia della comunicazione e della relazione, quadro che, dunque, pone al centro dell’attenzione la relazione molestatore-vittima. Gli stalkers presentano alti tassi di disturbi di personalità.

Nei molestatori motivati da “vendetta” si presentano disturbi di personalità borderline, narcisistico e paranoide. Schizofrenia, disturbo delirante (tipo erotomanico e di persecuzione), disturbo bipolare – soprattutto nella fase maniacale – sono anch’ essi associati al comportamento dei molestatori assillanti, tra i quali, peraltro, sembra esistere un alto tasso di abuso e dipendenza da sostanze. Il mezzo più utilizzato nello stalking è, soprattutto nella fase iniziale, il contatto telefonico. Seguono il pedinamento, l’incontro “casuale” sul luogo di lavoro o, comunque, in ambienti frequentati dalla vittima, il cui spazio relazionale, professionale e personale viene controllato dallo stalker. Il progresso tecnologico ha creato anche spazio per lo stalking via Internet, un sistema di comunicazione che rende più difficile l’identificazione del molestatore, il quale, può esprimere direttamente alla vittima le emozioni ed i desideri tipici dello stalker (rabbia, gelosia, controllo), entrando, senza invito, nello spazio intimo del destinatario. Più si restringe lo spazio vitale della vittima più aumenta il rischio di condotte violente da parte del molestatore, anche se il ruolo della violenza nello stalking non è pacifico e sembra, comunque, un elemento correlato a ripetuti rifiuti da parte della vittima che possono indurre lo stalker a manifestazioni aggressive, a violenza sessuale e, in casi estremi, all’omicidio. Secondo Meloy, l’omicidio si verifica in meno del 2% dei casi e lo stalker assassino è generalmente un ex partner rifiutato; coltelli e armi da fuoco sono i mezzi lesivi più utilizzati. La violenza nello stalking è definita generalmente “affettiva”3, caratterizzata da paura e collera di fronte al timore di una minaccia immediata; raramente, la violenza nello stalking è premeditata e, in questi casi, sono alte le probabilità dell’esistenza di una sociopatia nel molestatore. Alcuni tratti ricorrenti e comuni alle persone coinvolte e al fenomeno in sè:

(A) l’autore primario di stalking è unn uomo adulto, anche se non mancano casi in cui il crimine è stato commesso da adolescenti. E’ stato visto, poi, come molti stalker siano disoccupati o sottoccupati al momento del fatto, in quanto la strategia di persecuzione richiede una grande quantità di tempo. In genere il persecutore è stato autore di stalking anche nei confronti di altra persone (in tempi diversi), ha un livello di istruzione medio, non ha precedenti penali o psichiatrici. Tuttavia, in molti casi, lo stalker ha alle spalle un background (personalogico, familiare, clinico) problematico, il più comune dei quali è stato individuato nel disturbo di personalità narcisistica o borderline (Aramini 2002, 510). Nell’interpretazione psicodinamica del fenomeno, si nota un’ escalation nel comportamento dell’autore, che passa da un legame narcisistico con la vittima, ma pur sempre sano (desiderio di essere amato, di amare, di condividere il destino con una particolare persona), ad una vera e propria patologia dell’attaccamento che porta lo stalker a vendicarsi per il rifiuto subito (Aramini 2002, 519-521). (B) Vittima predominante è sicuramente la donna, anche se non è escluso (i) che possa essere un uomo: in tali casi la vittima di sesso maschile raramente riferisce il fatto alle autorità. O perché l’uomo si vergogna o perché è poco propenso a considerare la donna stalker come una minaccia reale. Non è nemmeno escluso (ii) che possa trattarsi di più persone, per ipotesi appartenenti al medesimo nucleo familiare. E’ il caso delle persecuzioni e molestie telefoniche perpetrate contro i coniugi, e pesino contro i figli della coppia, da parte di un ex amico di famiglia, innamorato della donna (Quanto al profilo sociale, può trattarsi di un personaggio dello spettacolo, di un medico (tipico è il caso del paziente che perseguita il proprio terapeuta perché si sente non capito, maltrattato, offeso, rifiutato), un infermiere, un perito, un assistente sociale, un giudice, un avvocato, tanto per fare alcuni esempi, o semplicemente di un vicino di casa, un conoscente, un amico, ritenuti responsabili delle

“offese, rifiuti, insuccessi o torti” vissuti dall’autore oppure verso i quali lo stesso nutre un’infatuazione morbosa. 35.2.2 Le tipologie di stalker Mullen et Al propongono una classificazione dei molestatori assillanti che consente di distinguere: - i molestatori rifiutati, i quali si oppongono alla fine di una relazione intima con azioni finalizzate a ripristinarla. Si tratta per lo più di soggetti portatori di disturbi di personalità con risposte violente di fronte al rifiuto della vittima; - il molestatore “rancoroso”, ovvero colui che, generalmente affetto da disturbo di personalità paranoide, agisce le sue molestie per vendicarsi di un torto che ritiene aver subito da parte della vittima; - il molestatore “predatore”, vero e proprio inseguitore della vittima, nei cui confronti prepara l’attacco, attacco rappresentato spesso da una violenza sessuale. In questo gruppo il tasso di violenza è alto; - lo stalker “inadeguato”, rappresentato, invece, dal corteggiatore fallito in cerca di partner. Sono soggetti che desistono facilmente e cambiano continuamente bersaglio; - i molestatori “in cerca di intimità” sono coloro che, in preda ad una vera e propria erotomania, aggrediscono vittime sconosciute e personaggi celebri di cui si sono innamorati, al fine di instaurare una relazione. Le loro molestie tendono, ad essere più lunghe nel tempo e scarsamente scoraggiate da azioni legali. Nel molestatore “rifiutato” ed in quello “rancoroso”, gelosia e vendetta appaiono certamente i “sentimenti” – ovvero gli stati d’animo – prevalenti e determinanti. La gelosia, come è noto, non riveste necessariamente un carattere intrinsecamente patologico.

Essa rappresenta l’espressione di un conflitto tra la tendenza al possesso completo ed esclusivo del partner e la realtà vissuta. In un’ottica psicodinamica la gelosia esprime una disarmonia ed una immaturità della sfera affettivo-libidica. Si ritiene “normale” il sentimento di gelosia quando si caratterizza essenzialmente, in presenza di un sano ed equilibrato sentimento di amore per il proprio partner, per la presenza di vissuti di insicurezza e fantasie di perdita e di tradimento più o meno facilmente canalizzabili, mentre può essere definito “anormale” il sentimento di gelosia allorché l’individuo mostra una assoluta incapacità a controllare l’ansia e l’insicurezza scaturite dalla propria fantasia e dal contesto situazionale e tende ad esprimere nel rapporto oggettualizzato il proprio bisogno di possesso ricorrendo anche a comportamenti compulsivi. La tendenza che emerge dalla disamina della letteratura in tema di gelosia, consente, comunque di rilevare tre varianti qualitative della gelosia: la gelosia normale o psicologica, la gelosia passionale o morbosa e la gelosia psicotica. 35.2.3 La valutazione del rischio di recidiva attraverso il metodo SARA-S

Con il termine SARA si intende ‘Spousal Assault Risk Assessment’, cioè la valutazione del rischio di recidiva nei casi di violenza interpersonale fra partners. Si tratta di una metodica messa a punto in Canada da un gruppo di esperti per individuare se e quanto un uomo che ha agito violenza nei confronti della propria partner (moglie, fidanzata, convivente) o ex-partner è a rischio nel breve o nel lungo termine di usare nuovamente violenza. Varie figure professionali che hanno a che fare con questi casi (magistrati, Forze dell’Ordine, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, avvocati, ma anche studiosi nel settore della psichiatria forense, criminologi, psicologi) possono beneficiare di questa procedura.

Non si tratta di un test psicometrico, non bisogna cioè stabilire un punteggio della persona che si è resa responsabile della violenza, bensì valutare il caso e quindi la sua pericolosità in base a 10 fattori di rischio (LINK, vedi dopo) che il valutatore deve prendere in considerazione, nel loro insieme, per poi stabilire se esiste il rischio di recidiva, e in che misura (basso, medio o elevato). Si tratta di una valutazione soggettiva che però tiene conto di fattori oggettivi che numerose ricerche hanno visto essere correlati alla violenza domestica (intesa come violenza interpersonale fra due persone che hanno o avevano una relazione). SARA è un protocollo contenente delle linee guida, che fungono come bussola per orientare nella valutazione in maniera sistematizzata, sulla base di principi scientifici che permettono di valutare in proporzione migliore rispetto a una valutazione fatta casualmente senza criterio sistematico, se un caso è a rischio di recidiva. . Il SARA invece si pone come obiettivo quello di valutare il rischio in tutti i casi di violenze interpersonali. La valutazione del rischio attuata con il metodo SARA non vuole essere sostitutiva della normale prassi procedurale utilizzata nelle indagini; essa può invece costituire uno strumento utile ed efficace per aiutare nelle indagini e nelle decisioni in merito alle misure cautelari da adottare, dalla pena da infliggere.

35.2.4 Le conseguenze psico-fisiche per la vittima La letteratura sulle vittime ha finora affrontato quasi esclusivamente il tema dell'impatto psicologico delle molestie che, in parte, è implicito nella definizione stessa della sindrome. Per definizione, infatti, nei casi di molestie assillanti, le comunicazioni e la ricerca di contatto indiretto e/o diretto del molestatore risultano non solo sgradite alla la vittima, che si sente sotto assedio, ma anche fonte di preoccupazione e paura per la propria sicurezza personale e/o per quella di persone care e/o animali domestici, fino ad un vero e proprio senso di terrore, tanto da comportare anche l’incremento delle misure di protezione della proprietà, per esempio installando

nuovi e più sicuri serramenti o sistemi di allarme o imparando tecniche di difesa personale o acquistando ed esercitandosi nell'uso di un' arma . Alcune vittime hanno riferito di aver cambiato, addirittura, personalità: si sentono meno amichevoli, meno estroverse, più caute, aggressive e facili da spaventare rispetto a come erano prima dello stalking. “In tutto ciò entra probabilmente in gioco un fattore quantitativo, la frequenza dei comportamenti: essere spiati, pedinati, ricevere messaggi o telefonate tutti i giorni o addirittura più volte al giorno può creare nella vittima uno stato di continuo stress o disagio”. (Aramini 2002) 35.2.5 Il rapporto tra stalking e malattia mentale Sotto il profilo psichiatrico-forense, la gelosia vissuta ed agita in senso psicotico può determinare un serio sovvertimento dello psichismo tale da compromettere la capacità di intendere e di volere del soggetto, ma, i dati emersi dalla letteratura in tema di stalking ci informano che soltanto il 50% degli stalker mostra disturbi psicotici, disturbi che, peraltro, il più delle volte non mostrano alcuna correlazione significativa con gli episodi di violenza. Analoghe considerazioni possono essere espresse in ordine al sentimento di vendetta, sentimento che rimanda all’estrinsecazione di uno stato emotivo-passionale, ma che, tuttavia, può anche mostrare una chiara connotazione psicopatologica. Il comportamento vendicativo non raro negli epilettici, nei maniaci, negli stati di intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, trova, infatti, la sua massima espressività psicopatologica nel delirio di persecuzione, ovvero nei disturbi deliranti paranoidi e nella schizofrenia tipo paranoide5, ma ben pochi stalkers risultano affetti da tali disturbi, ciò che,

inevitabilmente consente di ritenere che la vendetta rappresenti più un fenomeno socio-culturale che psichiatrico. Lo stalking costituisce un fenomeno estremamente complesso che merita attenzione ed approfondimento al fine di individuare norme severe che abbiano, quanto meno, la possibilità di garantire la prevenzione del fenomeno. Qualunque individuo può essere uno stalker; non esistono tratti patognomonici e, soprattutto esclusivi dello stalker, non esistono disturbi psichiatrici caratteristici dello stalker. Lo stalker può essere un individuo sano di mente, al pari di tutti coloro che pongono in essere atti illeciti. Anche per lo stalker vige la presunzione di imputabilità. Dunque, anche di fronte allo stalking, non si può prescindere dal rigorismo obiettivo e la valutazione psichiatrico-forense dello stalker non può, nè deve avvalersi di etichette diagnostiche. La linea di confine tra insistenza innocua e molestie assillanti non è, peraltro, così netta, soprattutto quando entrano in gioco fattori di valutazione soggettivi, come ad esempio il vissuto della vittima. Determinare un limite temporale e/o di frequenze delle intrusioni appare, poi, impossibile. Forse dovremmo limitarci ad accettare l’esistenza di un comportamento di stalking che può rimanere nei limiti del “lecito” (basti pensare ai ripetuti tentativi di riconciliazione da parte del partner abbandonato), ma che può anche sconfinare in condotte antigiuridiche e presentare una valenza psicopatologica rilevante ex artt. 88 ed 89 c.p., ma che può anche rimandare ad una condotta illecita priva di valore di malattia, dal momento che stalker non è sinonimo di malato di mente e che, spesso, tale condotta, quando supera il confine del lecito, può concretizzare la fattispecie contemplata dall’ art. 90 c.p.. 35.2.6 Il difficile connubio tra stalking e diritto

In Italia, la norma che si avvicinava di più alla legislazione americana era quella prevista dall’art. 660 c.p.: “…Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico,ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, recaa taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a 516 Euro…”. Nello stalking esistono alcuni elementi costanti rappresentati dall’intrusione non desiderata nella vita della “vittima”, dalla presenza di una minaccia esplicita od implicita nei confronti della persona minacciata, la quale, a fronte di tale condotta, esperisce una “ragionevole” paura. In realtà, l’eterogeneità dei comportamenti che lo stalker può, in concreto, porre in essere, rende decisamente arduo definire, sotto il profilo giuridico, i confini esatti della fattispecie “delittuosa” anche, e non solo, in considerazione del fatto che spesso le attività del “molestatore” risultano innocue (fare regali, spedire lettere con dichiarazioni d’amore ecc.). A tutt’oggi, dunque, non appare nemmeno ipotizzabile un concreto e valido profilo psicopatologico dello stalker. Occorre, comunque, dimostrare che l’imputato sapeva o avrebbe dovuto sapere che la sua condotta avrebbe causato timore di violenza nella vittima. Il 29 gennaio 2009 la Camera ha approvato il Ddl anti-stalking che istituisce il reato di atti persecutori, reato che prevede il carcere da 6 mesi a 4 anni e aggravanti di pena nel caso in cui il reato sia commesso ai danni di minori, disabili, o donne incinte. Il provvedimento passa ora all’esame del Senato. Questa legge ha una portata innovativa straordinaria: non è una legge contro il corteggiamento insistente, ma contro i persecutori insistenti. La donna molestata può, con questa legge, rivolgersi al questore e ricevere aiuto immediato.

35.3 Il Bullismo 35.3.1 La definizione 35.3.2 Le forme di bullismo : diretto e indiretto 35.3.3 Gli aspetti psicologici e le caratteristiche del fenomeno 35.3.4 Le dinamiche e i protagonisti: bulli, vittime e spettatori 35.3.5 Le conseguenze psico-fisiche 35.3.6 La legislazione in materia

35.3.1 La definizione Il fenomeno del bullismo è articolato e complesso, con caratteristiche e manifestazioni ben precise. Nella nostra società si ricerca non solo di definire il fenomeno, ma anche di mettere a punto strategie di intervento per prevenirlo e contrastarlo. Il termine bullismo deriva dalla parola inglese “bullying”, mentre nelle lingue scandinave il termine utilizzato è “mobbing”, per definire le prevaricazioni tra adulti in ambito lavorativo.

Il bullismo viene definito come un’oppressione, psicologica o fisica, ripetuta e continuata nel tempo, perpetuata da una persona - o da un gruppo di persone - più potente nei confronti di un’altra persona percepita come più debole. Secondo Olweus “uno studente è oggetto di bullismo, ovvero è prevaricato e vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni”. Più specificamente “un comportamento ‘bullo’ è un tipo di azione che mira deliberatamente a far del male o a danneggiare; spesso è persistente, talvolta dura per settimane, mesi, persino anni ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittime. 35.3.2 Le forme di bullismo : diretto e indirettto Il bullismo diretto è costituito dai comportamenti aggressivi e prepotenti più visibili e con forme sia fisiche sia verbali. Il bullismo diretto fisico consiste nel picchiare, prendere a calci e a pugni, spingere, dare pizzicotti, graffiare, mordere, tirare i capelli, appropriarsi degli oggetti degli altri o rovinarli. Il bullismo diretto verbale implica il minacciare, insultare, offendere, prendere in giro, esprimere pensieri razzisti, estorcere denaro o beni materiali. Il bullismo di tipo indiretto, invece, si gioca più sul piano psicologico, è meno evidente e più difficile da individuare, ma non per questo meno dannoso per la vittima, come l’esclusione dal gruppo dei coetanei, l’isolamento, l’uso ripetuto di smorfie e e gesti volgari, la diffusione di pettegolezzi e calunnie sul conto della vittima, il danneggiamento dei rapporti di amicizia e relazioni affettive in genere. 35.3.3 Gli aspetti psicologici e le caratteristiche del fenomeno Le caratteristiche distintive del bullismo sono:

L’intenzionalità di dominare sull’altra persona, di offenderla e di causarle danni o disagi.

La persistenza nel tempo di episodi sono ripetuti con una frequenza piuttosto elevata.

L’asimmetria della relazione tra bullo e vittima, una disuguaglianza di forza e di potere, per cui uno dei due sempre prevarica e l’altro sempre subisce, senza riuscire a difendersi. La differenza di potere tra il bullo e la vittima deriva principalmente dalla forza fisica in quanto il bullo è più forte della media dei coetanei e della vittima in particolare. il genere sessuale : il ruolo di bullo è solitamente maschile mentre il ruolo delle vittime può essere indifferente.

Variabile del genere maschile e femminile: il bullismo è un fenomeno che riguarda sia i maschi che le femmine con modi di esprimersi diversi. I maschi mettono in atto prevalentemente prepotenze di tipo diretto, con aggressioni per lo più fisiche ma anche verbali. Tali comportamenti sono agiti nei confronti sia dei maschi che delle femmine. Le femmine, invece, utilizzano in genere modalità indirette di prevaricazione e le rivolgono prevalentemente verso altre femmine. Il bullismo indiretto forme più sottili e più difficili da riconoscere per cui il bullismo “al femminile” è stato individuato più tardi rispetto a quello maschile ed è più difficile da cogliere anche per gli insegnanti. Oltre ad agire maggiormente in modo diretto, i maschi subiscono soprattutto azioni di tipo diretto; le femmine invece subiscono in genere azioni di tipo indiretto. Anche la percezione e il vissuto del bullismo è differente tra maschi e femmine. Le femmine manifestano, in generale, una maggiore capacità di empatia, cioè una capacità di mettersi nei panni degli altri e in particolare della vittima, comprendendo il suo stato d’animo e cogliendo la sua tristezza e il suo disagio. I maschi, al contrario, hanno più difficoltà ad immedesimarsi nella vittima e raramente si

dimostrano dispiaciuti o in colpa dopo aver compiuto atti di prepotenza.

La variabile età I soggetti implicati nel fenomeno del bullismo sono bambini e adolescenti in una fascia di età compresa tra i 7-8 e i 14-16 anni. Gli individui maggiormente coinvolti sono comunque i bambini delle scuole elementari e dei primi anni delle scuole medie, dove il fenomeno sembra essere diffuso e pervasivo. Il bullismo tenderebbe a seguire un particolare decorso: il numero e la frequenza degli episodi di bullismo sembrano diminuire con la crescita del bambino. In modo particolare gli episodi diminuiscono nel passaggio tra le scuole primarie e le scuole secondarie di primo grado e, ancor più significativamente, con il passaggio dal primo al secondo grado di scuola secondaria. L’aspetto che muta maggiormente è relativo al bullismo diretto fisico diminuendo soprattutto le manifestazioni di bullismo che fanno ricorso alla forza fisica. Se da una parte un minor numero di ragazzi è coinvolto nel fenomeno, dall’altra, però, i ruoli di bullo e di vittima tendono a radicalizzarsi e a diventare più rigidi. Il fenomeno si cristallizza in uno schema reiterato e insano di soprusi senza possibilità di scambio. Le prevaricazioni vengono indirizzate a un numero più ristretto di ragazzi, sempre gli stessi, che si identificano sempre più nel ruolo di ‘vittima’. Sebbene si assista, con il trascorrere del tempo, ad una diminuzione della frequenza degli atti bullistici, spesso la gravità degli stessi aumenta: nel corso dell’adolescenza, infatti, cresce il livello di pericolosità e di intensità delle azioni messe in atto contro l’altro, fino a sfociare, nei casi più estremi, in comportamenti devianti che non sono più ascrivibili alla categoria “bullismo”, ma rientrano nella gamma dei comportamenti antisociali e illegali. 35.3.4. Le dinamiche e i protagonisti: bulli, vittime e spettatori

La vittima passiva/sottomessa • è un soggetto più debole della media dei coetanei e del bullo in particolare; • è ansioso e insicuro; • è sensibile, prudente, tranquillo, fragile, timoroso; • è incapace di comportamenti assertivi e decisionali • ha una bassa autostima, un’opinione negativa di se stesso e delle proprie competenze, che viene ulteriormente svalutata dalle continue prevaricazioni subite; • a scuola spesso è solo, escluso dal gruppo dei coetanei e difficilmente riesce a crearsi delle amicizie; • ha bisogno di protezione: a scuola cerca la vicinanza degli adulti; • se attaccato, è incapace di difendersi: spesso reagisce alle prepotenze piangendo e chiudendosi in se stesso; • è contrario ad ogni tipo di violenza; • il suo rendimento scolastico, vario nella scuola elementare, tende a peggiorare nel corso della scuola media; • ha una scarsa coordinazione corporea ed è poco abile nelle attività sportive e di gioco avendo a volte paure relative al proprio corpo • nega l’esistenza del problema e la propria sofferenza e finisce per accettare passivamente quanto accade; spesso si autocolpevolizza; • non parla con nessuno delle prepotenze subite perché si vergogna, per timore di “fare la spia” e per paura che le prepotenze diventino ancora più gravi. Sembra che le vittime “segnalino” agli altri la propria vulnerabilità: ciò le renderebbe bersagli ancora più facili da individuare per i bulli. Le categorie più a rischio son quelle dei bambini appartenenti ad una diversa cultura, e dei disabili.

La vittima provocatrice spesso la vittima provocatrice contrattacca le azioni aggressive dell’altro, ricorrendo talvolta alla forza (anche se in modo poco

efficace). Proprio perché sia agisce, sia subisce le prepotenze, questo soggetto viene definito anche “bullo-vittima”. Il bambino/ragazzo vittima provocatrice: • è generalmente un maschio; • è irrequieto, iperattivo, impulsivo; • talvolta è goffo e immaturo; • ha problemi di concentrazione; • assume comportamenti e abitudini che causano tensione e irritazione nei compagni (non solo nei bulli, ma nell’intera classe) e perfino negli adulti, provocando reazioni negative a proprio danno; • è ansioso e insicuro; • ha una bassa autostima;

Il bullo dominante o classico • è un soggetto più forte della media dei coetanei e della vittima in particolare; • ha un forte bisogno di potere, di dominio e di autoaffermazione: prova soddisfazione nel sottomettere, nel controllare e nell’umiliare gli altri; • è impulsivo e irascibile: ha difficoltà nel controllo delle pulsioni e una bassa tolleranza alle frustrazioni; • ha difficoltà nel rispettare le regole; • assume comportamenti aggressivi non solo verso i coetanei, ma anche verso gli adulti (genitori e insegnanti), nei confronti dei quali si mostra oppositivo e insolente; • approva la violenza come mezzo per ottenere vantaggi e prestigio; • mostra scarsa empatia (cioè capacità di mettersi nei panni dell’altro) e quindi non riesce a comprendere gli stati d’animo della vittima e la sua sofferenza; • manca di comportamenti pro sociali (altruistici); • ha scarsa consapevolezza delle conseguenze delle prepotenze commesse, non mostra sensi di colpa ed è sempre pronto a

giustificare i propri comportamenti, rifiutando di assumersene le responsabilità (pensa che la vittima “si merita di essere trattata così”); • ha un’autostima elevata (nella media o al di sopra) e un’immagine positiva di sé, che ostacola la motivazione al cambiamento; • non soffre di ansia o insicurezza; • il suo rendimento scolastico, variabile durante la scuola elementare, tende a peggiorare progressivamente, fino a portare talvolta all’abbandono scolastico; • è spesso abile nello sport e nelle attività di gioco; • la sua popolarità presso i coetanei è nella media, o addirittura al di sopra di essa soprattutto tra i più piccoli, che subiscono il fascino della sua maggiore forza fisica.

Il bullo gregario passivo E’ il “sobillatore” e “seguace” del bullo dominante. • aiuta e sostiene il bullo dominante rinforzandolo; • spesso agisce in piccolo gruppo; • non prende l’iniziativa di dare il via alle prepotenze Ha un ruolo esecutivo, materiale • spesso è un soggetto ansioso e insicuro; • ha un rendimento scolastico basso; • gode di scarsa popolarità all’interno del gruppo dei coetanei; • crede che la partecipazione alle azioni bullistiche gli dia la possibilità di affermarsi e di accedere al gruppo dei “forti”; • è possibile che provi senso di colpa per le prepotenze commesse e una certa empatia nei confronti della vittima.

Gli “spettatori”

La maggioranza di bambini e ragazzi che assiste alle prevaricazioni o ne è a conoscenza: circa l’85% degli episodi di bullismo avviene infatti in presenza del gruppo dei pari. Questi soggetti possono con il loro comportamento favorire o frenare il dilagare del fenomeno. Poiché nella maggior parte dei casi le prepotenze non vengono denunciate e il gruppo non interviene per fermarle, viene utilizzato il termine “maggioranza silenziosa”. Il bullismo è quindi un fenomeno di gruppo che coinvolge la totalità dei soggetti, i quali possono assumere diversi ruoli sostenendo il bullo, difendendo la vittima o mantenendosi neutrali. 1- Sostenitore del bullo che agisce in modo da rinforzare il comportamento del bullo (per es. incitandolo, ridendo o anche solo rimanendo a guardare) 2- Difensore della vittima (soprattutto femmine) che prende le parti della vittima difendendola, consolandola o cercando di interrompere le prepotenze 3- Maggioranza silenziosa: che include gli esterni, indifferenti, outsiders che davanti alle prepotenze non fanno nulla e cercano di rimanere al di fuori della situazione. 35.3.5 Le conseguenze psico-fisiche 1- conseguenze per i bulli: • scarso rendimento scolastico con bocciature e abbandono • Disturbi della condotta per incapacità di rispettare le regole • Difficoltà relazionali • Comportamenti devianti e antisociali: crimini, furti, atti di vandalismo, abuso di sostanze • Violenza in famiglia e aggressività sul lavoro 2- conseguenze per le vittime:

• Sintomi fisici: disturbi allo stomaco, alla testa (soprattutto alla mattina prima di andare a scuola) • Sintomi psicologici: disturbi del sonno, incubi, attacchi d’ansia • Problemi di concentrazione e di apprendimento, calo del rendimento scolastico • Riluttanza nell’andare a scuola e disinvestimento in essa • Svalutazione della propria identità, scarsa autostima • Psicopatologie: - Depressione - Comportamenti autodistruttivi/autolesivi • Abbandono scolastico • insicurezza, ansia, bassa autostima, problemi nell’adattamento socioaffettivo • ritiro, solitudine, relazioni povere Ciò che accomuna il bullo e la vittima è la difficoltà sul piano relazionale. I ruoli di bullo e di vittima tenderebbero a persistere nel tempo anche se ciò non significa che sia impossibile per i bulli e le vittime uscire da questi ruoli. Il cambiamento è possibile, anche se è difficile che avvenga spontaneamente. In molti casi, infatti, è necessario non solo un intervento da parte dei genitori, degli insegnanti e di altre figure significative per il bambino/ragazzo,nonché degli altri ragazzi, gli spettatori, ma anche di professionisti della salute mentale che lo aiutino a recuperare un positivo adattamento. Il lavoro di rete multi e interdisciplinare è lo strumento migliore per spezzare il fenomeno del bullismo e per ricercare efficaci interventi di prevenzione. 35.3.6 La legislazione in materia L’art. 2046 c.c. pone una regola fondamentale del nostro ordinamento – e di eccezionale rilevanza per i casi di bullismo – per la quale chiunque è autore di un fatto lesivo risponde esclusivamente nei limiti in cui è in grado di comprendere la portata ed il del significato della propria condotta, purché lo stato di

incapacità non derivi da sua colpa. Ne deriva che anche il minore, se capace di intendere di volere, può essere chiamato a rispondere degli atti compiuti in danno a terzi. Il quadro che può delinearsi nel caso di danni commessi da minori nei confronti di propri compagni e nell’ambito di condotte vessatorie o prevaricatrici è davvero variegato: A) se il minore ha compiuto il fatto in uno stato di incapacità di intendere o di volere non risponde dei danni arrecati a terzi ai sensi dell’art. 2046 c.c.; in mancanza di imputabilità, tuttavia,il soggetto risarcisce la vittima in quanto “patrimonialmente responsabile”. B) nel caso in cui, invece, il minore autore del danno debba considerarsi capace di intendere e di volere, esso risponde dei danni arrecati ai terzi; il legislatore ha stabilito una fondamentale distinzione, non tanto relativamente alla capacità naturale, quanto piuttosto alla capacità d’agire: la norma di cui all’art. 2048 c.c., individua, in capo ai genitori e al tutore, un titolo di responsabilità civile per i danni cagionati dai figli minori non emancipati . C) nel caso di illeciti civili compiuti da minori o interdetti, capaci di intendere e di volere, questi rispondono del fatto in concorso (ex art. 2055 c.c.) con i genitori o il tutore D) nel caso l’autore del fatto illecito e lesivo sia capace di intendere e di volere e capace d’agire – si fa riferimento, dunque, all’ipotesi del minore emancipato che ha contratto matrimonio o direttamente del maggiore di età – questi sarà l’unico responsabile per gli illeciti commessi. Le norme di riferimento sono quelle contenute agli artt. 2047, 2048 e 2049 c.c.. Si tratterà di verificare se, allo stato, attraverso l’applicazione di tali norme, sia possibile rispondere efficacemente, alle richieste di tutela dei minori lesi da coetanei nell’ambito di condotte prevaricatrici e vessatorie. Il fenomeno del bullismo

richiede, per sua natura, che intervengano a supporto forme di responsabilità per fatto altrui. Nonostante ciò, i soggetti che rispondono per una imputazione per fatto altrui, non sono chiamati unicamente in ragione del ruolo organizzativo svolto, come è unicamente nel caso di cui all’art. 2049 c.c., ma più frequentemente per omessa sorveglianza discendente dalla legge o da altro titolo, quale ad esempio una educazione non confacente o del tutto carente. Sarà, dunque, necessario applicare forme di responsabilità che si possono definire complesse, sia per la necessaria sussistenza di una pluralità di circostanze per la loro operatività, sia la peculiarità della prova liberatoria loro sottesa e, non da ultimo, per il fatto che generalmente individuano soggetti totalmente estranei alle dinamiche causative del danno e che di regola non sarebbero chiamati a rispondere. Scopo principale della responsabilità per fatto altrui, quindi, è offrire la possibilità di garantire al soggetto leso di conseguire con maggior probabilità il ristoro del danno patito, potendosi esso rivolgere nei confronti di più soggetti. Sotto il profilo penale, invece, va rilevato che il bullismo materializza una devianza deliberatamente prevaricatrice dell’altrui personalità, in virtù dell’affermazione di una prepotenza eccentrica. Il bullismo geneticamente possiede tutti i tipici germi della devianza violenta, minatoria, in totale controtendenza con l’esigenza di sempre maggiore maturazione del senso civico. Ciò premesso, va chiarito che non tutti i reati commessi da minori denotano un comportamento connotato da atteggiamenti di bullismo. Pertanto in primo luogo è necessario circoscrivere gli elementi caratterizzanti della condotta per identificare tra tutti i reati astrattamente commettibili da minori quali possono ascriversi al fenomeno del bullismo e quali, invece, pur presentando caratteristiche esecutive simili non si ritiene debbano essere catalogati come espressione di bullismo. Solo successivamente a tali valutazioni ci si scontrerà con la particolare disciplina del processo minorile e le specifiche caratteristiche di questo, ancor più orientato rispetto al procedimento ordinario al reinserimento del

minore reo e, quindi, fortemente condizionato nell’applicazione di severe misure interdittive e cautelari. In Italia è stata istituita presso il Ministero della Pubblica Istruzione una Commissione che analizzerà i profili giuridici ed operativi di tale importante fenomeno e, con buona probabilità, a breve potremmo finalmente assistere ad una normativa che si ponga quantomeno al passo con quella dei vicini paesi europei. BIBLIOGRAFIA MOBBING

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