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Storie italiane Periodico dell’associazione Il Gioco degli Specchi - ANNO I NUMERO I - gennaio - marzo 2010

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Esce il secondo numero del nostro periodico

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Storie italiane

Periodico dell’associazione Il Gioco degli Specchi - ANNO I NUMERO I - gennaio - marzo 2010

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2 - Il Gioco degli Specchi

IL GIOCO DEGLI SPECCHIPeriodico dell’Associazione “Il Gioco degli Specchi”

In attesa di registrazione presso il tribunale di Trentodirettore responsabile: Fulvio Gardumi

direttore editoriale: Mirza Latiful Haque

redazione: via San Pio X, 48 - 38122 Trentoinfo: tel 0461-916251, fax 0461-397472

[email protected]

stampa: Effe e Erre litografia snc, via Brennero 169/17 - 38121 Trentologo: Sonia Lunardelli per Mugrafik

progetto grafico e realizzazione:

Perché Il Gioco degli Specchi diventa giornale di Fulvio Gardumi

Un giornale che parla di immigrati, fatto soprattutto da immigrati e che si propone come punto di incontro e di confronto tra chi ha le proprie radici in Italia e chi ha le radici altrove ma ora si trova qui e sta costruendo qui il suo futuro e quello dei suoi figli. Questa era l’idea – anzi il sogno - di Mirza Latiful Haque, un giovane proveniente dal Bangladesh e residente a Bolzano, che nove anni fa aveva provato a lanciare il “Corriere degli immigrati”.Ne aveva stampato due numeri ma poi si era scontrato con difficoltà burocratiche. Per questo aveva raccon-tato il suo sogno ad alcuni amici trentini e insieme hanno cercato il modo per realizzarlo. Ce n’è voluto del tempo, perché l’impresa è tutt’altro che facile, ma quello che vedete qui oggi è il primo tentativo. Lungo la strada si è cercato di mettere meglio a fuoco gli obiettivi: quello che si vorrebbe realizzare è un periodi-co che diventi la voce della ricchezza multiculturale del Trentino Alto Adige. Per fare questo c’è bisogno delle idee e della collabora-zione di tutte le persone che credono in un’informazio-ne diversa, non basata sulle paure e sui pregiudizi, ma aperta ai tempi nuovi e in sintonia con una società dai molti colori, arricchita dagli apporti più diversi.Questo primo numero è monografico ed è dedicato alla letteratura cosiddetta migrante (anche se la defini-zione non piace a molti, e la usiamo solo per farci capi-re): in queste pagine parliamo degli scrittori che nella settimana 2-8 novembre scorso hanno partecipato a Trento alla settima edizione de Il Gioco degli Specchi, intitolata “Riempire il mondo di storie”.Ma per il prossimo numero stiamo organizzando un gruppo di giornalisti e di collaboratori con l’intento di creare un qualcosa di nuovo, che faccia circolare storie e problemi, punti di vista ed esempi di integrazione, iniziative riuscite e speranze deluse, idee e notizie.La periodicità inizialmente sarà trimestrale. L’ “edito-re” è l’Associazione Il Gioco degli Specchi di Trento, che da anni opera per valorizzare le potenzialità posi-tive dei fenomeni migratori. Il giornale sarà inviato ai soci e a tutte le persone sensibili a questi temi interes-sate a riceverlo. E vorremmo che i lettori fossero i primi collaboratori, con suggerimenti, proposte e idee.

[email protected]

Riflettiamocidi Mirza Latiful Haque

C’è la necessità da parte delle varie associazioni d’immigrati e degli immigrati stessi di riuscire ad avere un loro spazio tramite un proprio giornale, che permetta ai molti stranieri residenti in regione di par-tecipare attivamente alla vita sociale e di integrarsi pienamente nel tessuto della comunità locale.La realizzazione di un giornale è un passo impor-tante attraverso il quale noi immigrati vogliamo fare sentire la nostra voce all’interno di una società che va evolvendosi in una direzione multiculturale.

Vogliamo cosi dimostrare la nostra volontà di co-struire “un futuro migliore” insieme alla popolazione locale.

Assessorato alla Cultura e Turismo

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Il Gioco degli Specchi - 3

primo piano

Nel 2010 Il Gioco degli Specchi continua il suo lavoro con molti e molti progetti

culturali. Nonostante l’impegno in tante inizia-tive, da tempo vivo come inadeguata ai bisogni la nostra attività. Vedo infatti dilagare una sempre peggiore atmosfera razzista, dal parlamento ai di-scorsi sugli autobus, dalle parole ai fatti.

Sono cresciuta e mi sono formata nel secondo dopoguerra, si parlava molto del razzismo di cui

erano state vittime gli ebrei. Mi chiedevo sempre come aveva potuto la civile e colta società tedesca accettare la disumanità di quella poltica. C’erano certamente i ‘volontari carnefici’, gli indifferenti ed anche le persone compassionevoli. Sono stati troppo pochi quelli che hanno reagito. Dominava l’indif-ferenza per la sorte degli altri? Il senso di inutilità di una azione individuale?

A me pare che ci troviamo da anni ormai di fronte allo stesso bivio, noi civili e colti italiani. Molte persone

vengono private dei diritti fondamentali sul territorio del nostro paese nella nostra sostanziale indifferenza di nazio-ne, nonostante si levino le voci di denuncia di molte e rile-vanti associazioni e di autorevoli testimoni. Spesso, tragica ironia, le vittime sono le stesse persone che sono fuggite fino in Italia, fino in Europa, nella speranza di trovare qui il riconoscimento di diritti che il paese in cui erano nati non garantiva loro. Se non vogliamo che la nostra nazione scivo-li definitivamente nella barbarie di cui già siamo testimoni, dobbiamo far sentire la nostra voce. Se a parlare saremo in tanti forse riusciremo a rendere concrete le garanzie che la nostra Costituzione concede e che la Dichiarazione dei di-ritti umani pretende per ogni essere umano.

Per il 1 marzo è stato indetto uno scioperodegli immi-grati. Nel momento in cui scrivo non ne prevedo l’esito.

La proposta di uno sciopero vero e proprio presenta dif-ficoltà rilevanti, dato che parliamo anche di lavoro nero, del rischio di perdere il lavoro e insieme la possibilità di restare in Italia. Gli immigrati sono i primi interessati a far sentire quanto è importante anche economicamente la loro presenza, sappiamo però quanto sia ricattabile chi non ha documenti o lavora in ambienti familiari o addirittura malavitosi.

È in ogni caso una proposta di grande significato, perchè pone una domanda netta: cosa sono 24 ore in questo

paese senza il lavoro degli immigrati? È una domanda che impone di uscire dall’ipocrisia di chi ne usa le braccia, ma non li vuole.

Sono gli italiani più fortunati e protetti che devono di-chiarare continuamente quale importanza abbia per

loro il lavoro degli immigrati, devono evidenziare la ric-chezza culturale ed economica che la loro presenza produ-ce. Italiani che ritengono un vantaggio vivere in una socie-tà pluralista e collegata con tutto il mondo, che rifiutano e temono una nazione che colpisce i più deboli, li emargina e non li tratta secondo principi minimi di umanità, che rifiu-tano l’equazione clandestino=criminale perchè falsa, che hanno memoria storica dell’emigrazione italiana.

Il primo marzo è la data in cui in Romania si festeggia il ritorno della primavera con un piccolo antico simbolo,

il Martisor, due fili intrecciati, uno bianco e l’altro rosso, a volte con un piccolo portafortuna. A partire da questa data, proiettiamoci anche noi verso la primavera. Italiani o immigrati non abbiamo magari smesso di lavorare, ma continuiamo a dichiarare pubblicamente che vogliamo la-sciarci alle spalle questo inverno di paure, reali o indotte, di muri e di gabbie, di isolamento e freddo, di disumanità.Continuiamo ad aspirare ad una primavera in cui si guarda la realtà senza ipocrisie, i problemi si riconoscono, si ana-lizzano, si affrontano e si risolvono nel rispetto delle perso-ne e della dignità di tutti.

Un día sin mexicanosCome accade nel provocatorio film di Sergio Arau, il 1 marzo in Italia una giornata senza il lavoro degli immigrati?di M.Rosa Mura

#pacom

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INCONTRARE L’“ALTRO” A SCUOLA, PER IMPARARE A SCEGLIERE

Nata da madre egizia-na e padre congolese,

Ingy Mubiayi Kakese vive a Roma da quando aveva quat-tro anni. Studiosa di civiltà arabo-islamica, insegnante e traduttrice, molto interessata alla cultura della migrazione, ha scritto diversi racconti sul tema. E ci spiega come le sto-rie aiutano a costruirsi una visione del mondo, soprattut-to a scuola.

“Ho conosciuto l’associazione Il Gioco degli Spec-chi perché si interessava di letteratura della mi-

grazione; ho trovato geniale il nome perché è davvero esplicativo di ciò che significa incontrarsi: cercare cioè di dare un’immagine di sé all’altro in modo che non sia più al-tro, ma l’incontro diventi un rispecchiarsi, un trovare delle similitudini. Come in uno specchio.

Trovo davvero molto interessante il fatto di andare nel-le scuole, perché credo che sia il lavoro fondamentale

da fare ora per avvicinare le civiltà. Partendo dai giovani e togliendo quella sovrastruttura di (pre)concetti che viene dall’esterno e li condiziona. Gli adulti hanno la possibili-tà di difendersi, invece i ragazzi sono spesso in balìa delle informazioni che gli arrivano. E’ importante che a scuola invece le esperienze arrivino non mediate, in modo che i ragazzi si formino delle strutture e da grandi siano in grado di scegliere liberamente.

Quando incontro i ragazzi di una scuola, non voglio arrivare con una risposta ma in qualche modo por-

re altre domande con la mia storia. Io mi presento come persona, non mi porto una civiltà dietro, l’incontro è tra me e loro. Ho sempre avuto l’idea che la cosa migliore sia parlare di storie. Soprattutto spingere loro a raccontare le proprie. Perché attraverso la creatività escono fuori le con-traddizioni che si vivono.

Nella vita di tutti i giorni i ragazzi si pongono delle domande, e gli arrivano tante risposte tra le quali ri-

schiano di scegliere la più facile, la più immediata. Invece attraverso la creazione di storie, di un immaginario, proba-bilmente riescono a trovare risposte diverse a queste do-mande, risposte personali e libere „

4 - Il Gioco degli Specchi

cultura in gioco

ELVIRA MUJCIĆElvira Mujcić è nata nel 1980 in Serbia, da piccolissima

si è trasferita a Srebrenica (Bosnia) da dove è fuggita a dodici anni a causa della guerra. Ora vive a Roma e ha già scritto due romanzi sulla sua esperienza. Che, ci racconta, è un vissuto che ha bisogno di continue interpretazioni e di un tocco di ironia.

“Quando sono andata ad in-contrare i ragazzi delle scuole

mi ha sorpreso che tutti avessero letto il mio libro, proprio tutti. For-se anche perché si trattava del mio primo libro, un romanzo autobio-grafico sulle mie memorie adole-scenziali durante la guerra, che ho scritto riprendendo i toni che po-tevo aver usato allora nei miei pen-sieri. Penso che l’abbiano trovato vicino a loro, che li abbia coinvolti per questo.

Come si parla a dei ragazzi? Io di solito con i ragazzi – come

anche di fronte a cose più serie – ho un atteggiamento informale, e uso delle parole semplici, perché penso che in fondo sia la spontaneità quella che fa passare molto di più i messaggi.

E anche l’ironia. Dovendo affrontare un argomento pe-sante come la strage di Srebrenica e la guerra in Bo-

snia, ne voglio parlare senza retorica, perché la retorica è

INGY MUBIAYI KAKESE

MONOLOGHI MIGRANTI

Mariangela Sedda, sarda, vive a Cagliari dove ha in-segnato nelle scuole medie superiori. Ha scritto molti

racconti e vari testi teatrali. Nel nostro incontro ci raccon-ta come le storie di emigrazione, piuttosto che di immigra-zione, permeano l’intera sua opera.

“La migrazione nella mia letteratura salta fuori un po’ dappertutto. A partire dai romanzi, poi nei testi teatrali

e per la radio. Nel 1987 scrissi per la radio Fantacronaca del regno Sardo, un testo che parlava di quan-do i Savoia nel 1799 sono stati costretti ad emigrare in Sardegna, cacciati da Na-poleone e dalla rivoluzione francese. Il racconto narra questa emigra-zione in una terra che i Savoia possedevano già da parecchio tem-po, ma non avevano mai vissuto.

MARIANGELA SEDDA

Pagine a cura di Erika Gardumi

Images of History

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I ROM E I PRECONCETTI DELLA NOSTRA CULTURA

Luca Bravi è un giovane storico dell’università

di Firenze che indaga sulla storia degli zingari nel XX secolo. Invitato da AIZO (Associazione Italiana Zin-gari Oggi) a partecipare a Il Gioco degli Specchi 2009, Luca ci spiega alcuni degli stereotipi sui Rom, di origine fascista.

“Il mio campo di ricer-ca riguarda soprattutto

Rom e Sinti, quelli che co-munemente vengono chia-

mati “gli zingari”. In particolare mi occupo della ricostru-zione storica del periodo dell’internamento nei campi di concentramento nazi-fascisti, in Germania e in Italia. Il punto di vista storico spiega l’origine degli stereotipi che sono applicati a questa minoranza, direttamente prove-nienti dalle persecuzioni razziali.

Nonostante siano la minoranza più diffusa in Europa (in Italia sono meno, circa 150.000, lo 0,2% della

popolazione) la loro storia non è conosciuta quasi da nes-suno. Invece alla luce degli eventi tutti gli stereotipi po-trebbero essere riconsiderati. Il motivo principale per cui i Rom e i Sinti sono stati internati in passato è un motivo di razza. Gli scienziati nazi-fascisti pretesero di dimostrare con metodi loro che queste persone sono diverse costitu-tivamente, hanno cioè nel sangue – e quindi acquisiscono per eredità – il nomadismo e l’essere asociali.

In Italia sono state internate molte altre etnie e gruppi sociali sotto il fascismo, ma a Rom e Sinti le etichette

sono rimaste addosso anche successivamente, tanto che negli anni ’80 vennero creati per legge i campi nomadi per accoglierli. Tuttora i Rom vengono considerati dei noma-di, anche se la metà di loro sono nati e vissuti in Italia. Questo isolamento imposto nei campi nomadi rafforza lo stereotipo che li vede persone asociali e li ghettizza due volte.

Andare nelle scuole ci permette di scalfire questi ste-reotipi, ed è un problema abbastanza pressante per

l’Italia. Forse in questi mesi si sta muovendo qualcosa a livello governativo ed è un bene perché abbiamo davvero bisogno di fare un passo culturale in avanti.„

Il Gioco degli Specchi - 5

cultura in gioco

ciò che allontana di più le persone giovani, e non solo loro. A volte mi capita di raccontare episodi di guerra con ironia e qualcuno si mette a ridere, poi si scusa. Ma io credo sia una cosa positiva perché chi ha vissuto la guerra ci ha an-che riso sopra, e quindi è giusto che trasmetta anche quel-

lo; la guerra è uno di quei punti in cui uno sente davvero la vita per-ché è l’unica cosa a cui ti viene da attaccarti.

Quando mi fanno notare che sono una giovane testimone

mi sento spiazzata. Puntualmente io mi sento molto vecchia; quan-do la vita cambia in modo così re-pentino e vivi tante cose ti ritrovi un giorno a pensare: Oddio, ma quanto ho vissuto!

Il mio ruolo di testimone è parti-colare non perché sono giovane,

ma perché sono dentro una Storia che sta ancora avvenendo. Risulta più difficile leggere quanto è suc-cesso. Al momento sto cercando di

farlo per me, prima con un libro autobiografico, poi con un romanzo che cerca di rispondere a dei punti di domanda miei (che forse farà porre delle domande anche agli altri). Tuttora si fanno molti revisionismi sulla Bosnia. Scrivere della mia esperienza è un’interpretazione continua: per me il mio ruolo di testimone è proprio questa ricerca„

ELVIRA MUJCIĆ

Poi ho scritto Sotto la Statua del re, una storia per l’in-fanzia dove alcuni personaggi sono emigrati. Infine

c’è il romanzo epistolare Oltremare, trasmesso da Rai International nel 1999, il quale racconta la storia di un’emigrazione dalla Sardegna all’Argentina attraverso la corrispondenza di due sorelle, una emigrante e una rimasta nella natìa Italia. Una scelta decisamente fuori moda, quella del romanzo epistolare, ma ne ero con-sapevole. Questa storia continua in Vincendo l’ombra, uscito nel 2009.

Ho poi scritto storie di emigrazione anche per il tea-tro: il monologo Scavi. Storia di miniere; successiva-

mente un adattamento per il palcoscenico di Fantacro-naca del regno Sardo, L’esilio del Re. E infine Dal Vapore

ti scrivo, storia di una donna emigrante che scrive alla sorella dalla nave che la porta verso l’Argen-tina, raccontando quello che succede dal ponte di terza classe. Oltre alla storia della migrazione

della protagonista non mancano personaggi me-ticci, degli emigranti, che

portano con sè tante altre sto-rie.„

LUCA BRAVI

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osim

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6 - Il Gioco degli Specchi

cultura in gioco

Il pianto di SumayaNata in Italia, “cittadina” 31 anni dopodi Giovanna Collauto

Sumaya Abdel Qader, autrice del libro “Porto il velo, adoro i Queen”, è venuta a Trento con le

sue due bambine, Dana e Lin. Per loro – dice sorriden-do – sarà diverso: saranno da subito cittadine italiane perché figlie di madre italiana. Sì, perché proprio alcuni giorni pri-ma di venire a Trento la loro mamma, Sumaya, aveva ricevu-to la notizia che aspettava da 31 anni, ovvero da quando era nata nel 1978 a Perugia: la no-tizia che finalmente sarebbe di-ventata “cittadina italiana”. “E quando l’ho ricevuta – confes-sa – ho pianto per mezz’ora”: di gioia e di sollievo, ovviamente, per sé e per le sue bambine, per non dover più continuare a mettersi in coda per rinnovare il permesso di soggiorno nel Paese dove è nata.

Nel suo libro Sumaya racconta quell’assurda trafila ed al-tre storie vissute da lei e da altre donne che, come lei,

sono nate e vivono in un Paese che continua a trattarle da straniere e a guardarle con sospetto. Tanto più se, come lei, portano il velo: perché “è difficile – spiega – far capire che quella del velo è una scelta di fede”. Forse perché di fede, in questo Pae-se, ne è rimasta poca… o magari per-ché a certe parti politiche fa comodo usarla per seminare paura, divisioni, pregiudizi?

Da parte sua Sumaya di paure e pregiudizi non sembra averne,

visto che manda le sue bambine a scuola dalle suore: una scelta condi-visa con suo marito, anche lui mu-sulmano ed anzi ideatore e primo presidente dell’associazione GMI-Giovani musulmani d’Italia, perché “le suore – scrive Sumaya nel suo li-bro - ci danno sicurezza nell’educa-zione”. Ma anche questa scelta non è stata capita, da molti è stata criticata ed è stata anche difficile da realiz-zare. Forse perché una scelta come questa è considerata (nella migliore delle ipotesi) troppo “nuova”, prema-tura. Eppure proprio in apertura del libro di Sumaya si legge la frase del IV Califfo dell’Islam Alì Ben Abi Ta-lib: “Educate i vostri figli per un tem-po diverso dal vostro”.

Sia leggendo il libro di Sumaya che parlando poi con lei, si resta col-

piti dal suo carattere deciso, dal suo tono vivace, dal senso dell’umorismo che certamente la aiuta ad affrontare le incomprensioni, le critiche, le diffi-coltà che purtroppo continuerà ad in-

contrare anche da “cittadina italiana” finalmente riconosciu-ta, ma che da molti continuerà a non essere considerata tale. Sumaya sa che lei e tanti altri “nuovi italiani” continueranno ad essere “accettati solo in certi posti di lavoro e dovranno impegnarsi cinque volte di più”. Ma sa anche che “adesso sia-mo nella fase in cui molti figli di immigrati stanno uscendo dall’Università, ragazzi e ragazze spesso con master ad altis-

simo livello” e si chiede: “saprà la mia Italia usare queste teste, sarà capace di coglie-re in noi la crea-tività, la forza, il dinamismo che tanto servono a questo Paese me-raviglioso e che

noi vogliamo e possiamo dargli?”. Chissà che non venga il giorno in cui Sumaya potrà piangere di nuovo, di sollievo e di gioia, se non per sè almeno per le sue figlie e per il suo-nostro Paese.

“Educate i vostri figli per un tempo diverso dal vostro

”Alì Ben Abi Talib, IV Califfo dell’Islam

Moriza

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Nel mese di febbraio sugli autobus di Trento hanno dondola-to i cartelli di “Vite in viaggio”. Avevano la pretesa di far intu-ire un’esperienza, un’emozione in poche righe e di invitare a leggere e guardare più da vicino queste vite. Eccone un altro:“Silvia faceva quello che poteva, insegnava spagnolo e correg-geva traduzioni. Girava la città come una forsennata, saltando da un tram all’altro, agguerrita più che mai. Io mi occupavo della casa e cercavo di districarmi tra carte e certificati, cer-cando di ottenere quel benedetto permesso di soggiorno che mi avrebbe consentito di trovare un lavoro qualsiasi. Consu-mavo intere mattinate nell’Ufficio Stranieri della questura, masticando bile, anelando come niente al mondo a quel pez-zo di carta timbrato alla buona che si facevano ripagare col sangue.” Milton Fernandez, L’argonauta, Michele Di Salvo Editore, Napoli, 2007.Le sofferenze per ottenere il permesso di soggiorno sono de-stinate anche a chi è nato e cresciuto in Italia. Per questo la rete G2-Seconde generazioni, i figli degli immigrati, lancia per il 2010 la campagna “Accompagnami in questura” e invita gli amici a condividere le loro difficoltà quando si presentano negli uffici pubblici, la questura ed i commissariati, ma anche l’ufficio cittadinanza e le aziende sanitarie.Per saperne di più puoi vedere il sito, http://www.secondege-nerazioni.it/, cercare il gruppo su face book o scrivere a [email protected].

Il Gioco degli Specchi - 7

immi emi

Quante storie in viaggio sui busSui mezzi pubblici di Trento cartelli colorati con brani che parlano di immi-emigrazionedi Paolo Piffer

Trento – Salire sull’autobus è come fare il giro del mondo, delle lingue. Arabo, russo, cinese, serbocroa-

to si mischiano col dialetto trentino e gli accenti meridionali, mai persi, questi ultimi, nonostante decenni di permanenza al nord. E “Il Gioco degli Specchi”, l’associazione culturale che da anni (in precedenza come Atas cultura) organizza festival di letteratura migrante, rassegne cinematografiche all’inse-gna del meticciato, corsi universitari, tavole gastronomiche dai tanti sapori, è salita sugli autobus cittadini, a Trento.

Per tutto il mese di febbraio un centinaio di cartelli appesi dentro una cinquantina di bus riportano brani presi da ro-

manzi, racconti, poesie che parlano di emigrazione, la nostra, quando noi eravamo gli “albanesi”, per citare un gran libro di Stella, o di immigrazione. “Vite in viaggio”, non poteva che chiamarsi così l’iniziativa. Maria Rosa Mura, l’infaticabi-le presidente del Gioco degli Specchi, commenta: “Certo è un’idea che abbiamo avuto per cercare di sensibilizzare tutti su questi temi. E per uscire maggiormente all’esterno, anco-ra di più rispetto a quanto fatto finora. L’autobus ci è proprio sembrato un buon veicolo di trasmissione di tante storie. Que-sti cartelli colorati vogliono invitare a una nuova primavera di convivenza”.

Autobus numero 3, direzione nord verso Gardolo: “Se af-fondiamo non se ne accorgerà nessuno, noi non esistiamo.

Ecco la realtà Feven”. Restai sconvolta e in preda al panico. Mansou aveva ragione, fino alla sera prima mi sentivo alla fine del mio lungo viaggio e ora la meta tornava a sembrarmi lon-tana, irraggiungibile. Eravamo un rottame in mezzo al mare, senza carburante, in balia di quell’immensa distesa d’acqua”. Brano tratto da “Libera” di Feven Abreha con Raffaele Masto (Sperling & Kupfer; 2005). Sul retro del testo, l’avviso del cor-so di letteratura della migrazione nell’Europa occidenta-le in programma dal 16 febbraio al 25 maggio alla Facoltà di Lettere in piazza Venezia, ogni martedì dalle 16 alle 18. Corso aperto al pubblico e tenutoda Stefano Zangrando, ricercatore in Letterature comparate e docente a contratto dell’Università di Trento.

Autobus numero 8,verso sud: “Fu duro il mio primo inver-no da emigrante. In compenso quell’inverno scoprii l’uti-

lità, il senso, la bellezza dei portici… Il confronto fra l’isola e la città, fra il nord e il sud, mi veniva spontaneo. D’accordo, la terrazza ti promette aria libera e vento. Ma il portico ti regala riparo, quando serve, e protezione. Vivevo in un mondo capo-volto, questo era il fatto e, tutto sommato, cos’erano i portici se non terrazze capovolte?”. A scrivere è Maria Rosa Cutrufel-li. Tratto da “Terrona”, pubblicato nel 2004 da Città Aperta.

“Vite in viaggio”, appunto, dal sud al nord Italia o dall’Africa all’Europa. Due esempi di scrittura itinerante. Dal quotidiano “Trentino” del 2 febbraio 2010. Per gentile concessione dell’editore.

Foto Dino Panato

un pezzo di carta azzurrognolo

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8 - Il Gioco degli Specchi

appuntamenticultura in gioco

Il bel faccione nero, bonario e sorridente, incorni-ciato da una barba quasi bianca e da capelli crespi

brizzolati, un fisico massiccio tipico di chi ama le lasagne e la ‘cassuèla’: il dottor Kossi Komla-Ebri, anzi “el sciùr dutùr” come lo chiamano a Erba, dove fa il chirurgo nell’ ospedale cittadino, ne ha di storie comiche da raccontare. Comiche perchè lui ha imparato a sorriderne, anche se di per sé sarebbero tristi. Come quella volta che il vecchio parroco ammalato aveva chiamato il me-dico e quando lui aveva suonato al portone della canonica, la perpetua si era affacciata alla finestra e vedendo un nero gli aveva detto: “la Caritas è 50 metri più avanti”. E al suo secondo scampanellio, la donna si era quasi arrabbiata a ri-petergli che per l’elemosina doveva rivolgersi alla Caritas. O come quella volta che in treno un signore distinto gli aveva chiesto “Tu venire da Africa?” e alla sua risposta che sì, era originario del Togo, quello gli aveva detto con fare compren-sivo: “Forse nel vostro dialetto lo chiamate Togo, ma noi in Italia lo chiamiamo Congo”.

“Quando indosso il camice bianco sono el sciùr dutùr, ma quando sono fuori dall’ospedale sono un negro,

un ‘négher’ come dicono in Brianza. Il mio dramma è vivere questa doppia identità e per farvi fronte ho cominciato a scri-vere”, ha spiegato Kossi Komla-Ebri nella serata organizzata dal Gioco degli Specchi il 6 novembre scorso al Teatro San Marco di Trento e condotta da Massimo Cirri di Caterpillar. Con lui altri nove scrittori, di diversa origine e provenienza, che hanno raccontato il loro rapporto con la lingua italiana e

con la menta-lità del paese che li ospita.

Kossi è a u t o r e

di numerosi libri, tra cui famosi quelli dedicati agli “ I mba r a z z i -smi”, neologi-smo coniato da lui stesso

e che sta a metà strada tra imbarazzo e razzismo. “L’ironia è l’arma più innocente che si possa usare per mettersi in rapporto con gli altri”, secondo Kossi, “e naturalmente bi-sogna usare anche l’autoironia, perché se prendi in giro solo gli altri si offendono”. E a proposito di autoironia, il medico afro-brianzolo ha ricordato che dopo la laurea in Medicina a Bologna, al momento di scegliere la specializzazione, il suo primario lo aveva sconsigliato di iscriversi a ginecolo-gia, perché “con quella brutta faccia nera spaventi le donne”. “Così ho scelto chirurgia - ha spiegato - perché i pazienti che opero sono addormentati e non mi vedono”.

Dalla sua storia emerge anche uno spaccato della storia recente dell’immigrazione in Italia. Quando è arrivato

in Italia 35 anni fa gli africani erano visti di buon occhio, al-meno a Bologna, dove lui ha frequentato l’Università grazie a una borsa di studio del cardinale Lercaro. Kossi ha ricordato che quando andava in giro in tram, con un amico si divertiva a imparare la lingua italiana indicando col dito e nominando quello che vedeva: “albero”, “macchina”, “casa”… E addirit-tura i passeggeri bolognesi prendevano parte al gioco. Ma al-lora gli africani erano pochi. Chi era mal visto a quell’epoca erano i greci, “perché venivano da un paese dominato da una dittatura, erano malvestiti e sporchi e parlavano una lingua incomprensibile”.

Quando el sciùr dutùr l’è un négherIronia e leggerezza negli scrittori che vivono sospesi tra diverse identitàdi Fulvio Gardumi

Elvira Mujcic e Kossi Komla-Ebri

Mariangela Sedda e Adrian Bravi

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Il Gioco degli Specchi - 9

appuntamenticultura in gioco

Secondo Kossi, però, chi è nero resterà sempre “diversa-mente visibile”, mentre pian piano gli immigrati dell’est

come gli albanesi, i romeni, gli ucraini eccetera si mimetiz-zeranno con la popolazione italiana. Chi è di colore diverso sarà sempre chiamato “extracomunitario” anche se è “da 35 anni in Italia, ha la cittadinanza italiana, moglie e figli ita-liani, lavora e paga le tasse in Italia, ha mangiato quintali di spaghetti e pizza, si è sorbito 35 Festival di Sanremo e altret-tante se non più numerose crisi di governo e ha tifato per gli azzurri…”.

L’arma dell’ironia e dell’autoironia è anche alla base della filosofia di vita e della scrittura di Elvira Mu-

jcic’, bosniaca di Srebrenica, arrivata in Italia come pro-fuga durante la guerra nei Balcani, quindi per caso, e poi rimasta “per scelta”. “La vita nei campi profughi della ex Jugoslavia era terribile e per sopravvivere bisognava pren-derla con una certa ironia, addirittura con una qualche dose di cinismo, elementi tipici della cultura balcanica. Ho cominciato a scrivere per me e a raccontare queste cose. Il mio editore vorrebbe cose patetiche e strappala-crime, ma io preferisco sorridere”. “Ho scoperto di esse-re musulmana a 12 anni, quando è scoppiata la guerra e hanno cominciato a insultarmi, offendendo Maometto ed Allah. Io non sapevo chi fossero e ho chiesto a mia nonna se fossero nostri parenti…”

Anche Sumaya Abdel Qader, nata a Perugia da madre kuwaitiana e padre palestinese, ha il suo bel daffare

a dimostrare che è una persona come tutti noi anche se porta il velo e c’è chi continua a farle le domande più stra-ne, tipo se sotto il velo ha i capelli o perché tutti quelli che hanno il velo sono terroristi. Nel suo perfetto italiano ha raccontato che quando frequentava le elementari era scoppiata la guerra del Golfo e la maestra le aveva chiesto di spiegare ai suoi compagni perché Saddam aveva invaso il Kuwait. “Io non sapevo neppure chi fosse Saddam e del Kuwait avevo solo sentito parlare da mia madre. Figurarsi se sapevo perché era stato invaso…”. Sumaya si dice “con-fusa” perché i suoi zii la accusano di essere diventata come noi, mentre noi la accusiamo di essere “come loro”.

Chi invece ha fatto il percorso inverso, cioè è tornato in Italia dalla terra di immigrazione dei nonni, l’Argen-

tina, è Adrian Bravi. Dopo aver combattuto nella guerra delle Falkland-Malvinas, di cui dà una descrizione nel suo più recente libro “Sud 1982”, ha deciso di lasciare Buenos Aires e di visitare il paese dei suoi padri, Recanati, patria di Giacomo Leopardi. E qui si è fermato. Di madrelingua spagnola, ha raccontato la difficoltà di scrivere corretta-mente in una lingua per molti aspetti molto simile, ma pie-na di “falsi amici”, cioè di parole uguali ma con significati diversi. Ha ricordato che Trotzky in esilio soleva dire che la lingua è una spada quando sei in patria e diventa uno scudo quando sei in un paese straniero (diversa l’imma-gine sulla lingua proposta da Kossi: quando uno emigra lascia la sua lingua madre come un uccello che lascia le sue piume e quando impara un’altra lingua nella nuova terra è come se gli ricrescessero le piume per re-imparare a volare).

Sulle difficoltà di esprimersi in un’altra lingua ha por-tato qualche gustoso aneddoto anche Bozidar Stani-

sic, poeta bosniaco che dal 1992 vive in Friuli. Un giorno alla presentazione di un suo libro in una città del Veneto è intervenuto l’assessore alla cultura e lui lo ha salutato chiamandolo “assassino” anziché “assessore”. Oppure a chi gli diceva di sentirsi “onorato” della sua presenza, ri-spondeva che anche lui si sentiva un “onorevole”. Stanisic ha lasciato Sarajevo “per non prender parte a una guerra fratricida” e per fortuna ha “conosciuto il volto solidale dell’ Italia”.

La serata che ha riunito dieci scrittori sul palco del San Marco è stata ricchissima di spunti, di cui è impossi-

bile riferire qui anche solo di passaggio. Alcuni di loro ci hanno rilasciato interviste che pubblichiamo in altre pa-gine di questo giornale.

Nel complesso però il messaggio che è emerso è che la migrazione è un fenomeno esistito da sempre: “l’uma-

nità è nata in Africa secondo gli studi più accreditati – ha detto Massimo Cirri in apertura – ma da lì si è mossa ed ha raggiunto tutti gli angoli del mondo. Altrimenti vi immagi-nate quanto saremmo stati stretti tutti in uno stesso punto, Obama accanto a Borghezio?”.

Mia Lecomte e Ingy Mubiay Kakese Marisa Fenoglio e Božidar Stanišić

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Austinevan

10 - Il Gioco degli Specchi

Marisa FenoglioNasce ad Alba dove trascorre l’infanzia e la giovinezza. Si trasferisce, nel 1957, appena sposata, in Germania, dove vive tuttora. Sorella dello scrittore Beppe Fenoglio, ha scoperto tardi la passione e il talento per la scrittura. Da sempre legata ai temi dell’emi-grazione, dello straniamento, della differenza linguistica: elementi che caratterizzano la sua vita e la sua produzione narrativa. Il suo primo romanzo “Casa Fenoglio” (Sellerio) è del 1995. Autri-ce ache di un dramma radiofonico. Suoi anche “Vivere altrove” (1997), “Mai senza una donna” (2002). “Viag-gio privato” (2004) e “L’alfabeto della luna che sorride. Racconti del vecchio Piemonte” (Araba Fenice, 2004 e 2005).

la scrittrice

A tu per tu con Marisa FenoglioLa scrittrice racconta la sua migrazione: le impressioni di un gruppo di studenti

“Anche il suo tedesco è...notevole. [...] Lei, che parla così bene il tedesco, ce la farà. Una lin-

gua può diventare patria” da Vivere Altrove

“Ragazze, venerdì prossimo vi porterò al liceo Rosmini dove potrete incontrare Marisa Fe-

noglio: si ferma in città in occasione del Gioco de-gli Specchi e sarà disposta a rispondere a qualsiasi domanda voi vorrete porle”.

Ammetto che quando la nostra professoressa ci ha fatto questo annuncio non ero troppo entusiasta dell’idea;

l’ultima volta in cui avevo partecipato ad un incontro del genere io frequentavo le scuole medie e l’unico ricordo che ho sempre avuto di quell’evento è solo quello di una terri-bile noia: mi aspettavo che la cosa si ripetesse. Invece sono rimasta piacevolmente sorpresa.

L’impressione che mi ha fatto all’inizio dell’incontro non è stata delle migliori: a prima vista l’ho subito as-

sociata ad una di quelle nonne o vecchie zie che raccontano la loro storia al giovane nipote per far sì che si renda conto che un tempo non c’erano tutte le comodità di adesso, che dovrebbe apprezzare ciò che ha e via dicendo.

Quella mattina all’incontro si presentò un’elegante si-gnora dall’aria seria ed altezzosa, che quando iniziò

a parlare mi diede l’ennesima prova che tanto l’aspetto quanto i pregiudizi e gli stereotipi ingannano: una donna arguta, ironica e disponibile al confronto con noi ragazzi. Chiara, ironica, sincera e spontanea al 100%, Mari-sa Fenoglio ha reso entusiasmante la mia mattinata. Tanto è vero che la stessa sera ho deciso di andare all’in-contro conclusivo, organizzato dal Gioco degli Specchi, che vedeva come protagonisti una decina di scrittori.

È stata proprio l’ironia che ha caratterizzato questi due incontri e che li ha resi particolarmente interessanti e

piacevoli. Con un modo di fare molto gentile e sempre con il sorriso sulle labbra ci ha raccontato la sua vita , le sue paure e le sue emozioni. Ha cominciato a parlare della sua esperienza di migrazione contenuta nel libro e le sue paro-le si sono fuse, in armonia, con la nostra personale lettura, evocando immediate immagini, ricordi ed impressioni.

Col volto e coi gesti trasmetteva, a noi ragazzi, le sensa-zioni provate sulla sua pelle e faceva sì che noi potessi-

mo rivivere la sua vita immaginandocela: nuovi posti, nuo-ve abitudini, nuova lingua e la difficoltà nell’abituarsi alla nuova gente. L’autrice ha risposto a tutte le nostre domande con molta semplicità, utilizzando un linguaggio alla porta-ta degli studenti, attirando la loro attenzione.

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Il Gioco degli Specchi - 11

Heliøs

Il discorso della Fenoglio mi ha colpito molto emotiva-mente, perché l’ho ricollegato a delle esperienze avute

con alcuni compagni di classe stranieri. Uscita dalla scuola, percorrendo la strada verso casa, ho cercato lo sguardo degli extracomunitari per leggere nei loro occhi e sul loro volto la solitudine e il sentimento di estraneità di chi deve affronta-re una nuova realtà per vivere in mezzo a chi ti esclude.

Il problema principale è quello della lingua: non cono-scendola è impossibile crearsi una vita sociale in un nuo-

vo ambiente e ciò ostacola l’integrazione. Collegato alla lingua è il rischio della ghettizzazione, aggravato anche dal fatto di non avere punti di riferimento. Sono d’accordo con l’affermazione che, anche se privilegiata, nessuna immigra-zione può essere facile. L’ autrice di “Vivere altrove” è stata molto chiara nello spiegare la sua emigrazione “privilegia-ta”, ma non meno sofferta.

Secondo Marisa il contatto con un’ altra cultura può rap-presentare all’inizio un vero e proprio shock. Le attività

di routine della vita quotidiana vengono tutto d’un tratto sconvolte. Niente è più come prima, e anche una silenziosa boscaglia di pini che si scorge dalla finestra può diventa-re un vero e proprio tormento. Io mi aspettavo una donna molto diversa da come è in realtà. Leggendo il suo libro mi aspettavo una donna innanzitutto più anziana, che aves-se voluto incontrare gli studenti per raccontare loro le sue sofferenze, le sue difficoltà, la mancanza dell’ Italia. E inve-ce no. Davanti a me c’era una signora di piacevole aspetto che parlava con disinvoltura e con un linguaggio limpido e chiaro e senza fronzoli. Questo è ciò che ho apprezzato di più: il suo modo di esprimersi e di arrivare dritta al punto.

ILARIA VACCARI MICHELA CRISTOFARO ROBER-TA FELICETTI MARCELLA ZANDONAI ARIANNA ISEPPI SERENA BERTOLDO CHIARA MAZZOLA LARA PETRALIA CHIARA DANDREA CHIARA MAZ-ZURANA ELENA LORENZINI ELISA PASQUALINI della IVB Liceo Linguistico Da Vinci - Trento

Toledo, la chiave nella mano-Toledo, ključ na dlanu è la poesia che dà il nome alla raccolta, in una preziosa edi-zione bilingue, di quelle che Božidar Stanišić chiama le sue “ne pjesme-non poesie”.Come in Marocco le ‘chiavi del ritorno’ avrebbero po-tuto aprire le case abbandonate dagli arabi in Andalusia, qui la chiave è quanto resta, tramandata di padre in figlio per secoli, dell’antica casa di Toledo da cui sono stati cacciati quegli ebrei che navigano verso oriente e si fer-mano nei Balcani, gli ebrei sefarditi di Sarajevo. Siamo immersi nella Bosnia dalle molte anime, in quella che era la terra della convivenza, la Bosnia ricca dell’incrocio tra tante culture in cui l’autore è felice e orgoglioso di essere nato, nonostante la sofferenza che gliene è venuta.Questi versi discutono dentro di lui i motivi del suo paci-fismo e dell’ordine o disordine del mondo, ma la chiave degli esuli resta il tema dominante. Il dolore del viaggio senza fine e senza possibilità di ritorno, o peggio anco-ra l’esser costretti a desiderare di andare lontano, il lutto della lontananza che si affaccia nei gesti e nel paesaggio quotidiano, nella primavera e nello scricchiolio della neve, nel volo libero degli uccelli. Dopo il suo rifiuto di imbracciare il fucile, l’autore è ar-rivato in Italia nel 1992 ed è merito della Associazione culturale -Centro di accoglienza “Ernesto Balducci” di Zugliano (Ud), creata da Pierluigi Di Piazza l’aver visto e segnalato la presenza di un poeta in mezzo a quell’uma-nità che altri considerano massa informe di immigrati-extracomunitari-clandestini-criminali.

Božidar Stanišić: la chiave del ritorno

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12 - Il Gioco degli Specchi

in giococultura

E’ sabato 7 novembre, ultimo giorno de “Il Gio-co degli Specchi”. Al Liceo Rosmini di Rovereto

il suono della campanella segna la fine dell’”incontro con l’autore”, il medico-scrittore Kossi Komla-Ebri, ma nell’Aula magna affollata di studenti nessuno si alza; anzi, gli chiedo-no di continuare; Kossi continua per un po’, poi conclude e i ragazzi si alzano, ma molti di loro per andare a stringergli calorosamente la mano. “Per loro - spiega un insegnante - è come incontrare un vecchio amico, l’hanno già conosciuto in classe attraverso i suoi libri, ad iniziare dagli ‘Imbarazzi-smi’”.

L’incontro è dunque andato così bene anche grazie ai bra-vi insegnanti che lo hanno preparato. E il resto lo ha fatto

e lo fa Kossi Komla-Ebri: con quello che ha scritto e dice, con il dialogo che sa aprire con i ragazzi; e con la sua sincerità, innanzitutto.

Ad una ragazza che gli chiede se gli “Imbarazzismi” non rivelino talvolta un’eccessiva suscettibilità dello “stra-

niero”, risponde che è vero: “perché quando si subisce in con-tinuazione si diventa ipersensibili e poi perché - ammette - i pregiudizi ci sono da tutte e due le parti”. Anzi, “più andremo avanti e più ci saranno imbarazzi da gestire”, aggiunge Kos-si sottolineando come la situazione in Italia sia oggi molto peggiore di quella del 1974, quando era arrivato lui, venten-ne, dal Togo all’Università di Bologna: “perché oggi c’è la sindrome da invasione” che moltiplica le paure e le difficoltà dell’incontro.

Le difficoltà, appunto, che Kossi non nasconde né minimiz-za. Cita invece Schopenauer per la sua metafora dei due

porcospini che d’inverno condividono la stessa tana: “fa fred-do, si avvicinano, nel farlo si pungono, ma contemporanea-mente provano calore e allora cercano di trovare una posizione in cui lo scambio sia piu forte del danno”. E “così è – commenta Kossi – per l’incontro fra civiltà: trovare il punto di contatto, la posizione che consente di scambiarsi valori, di costruire insie-me senza pungersi e danneggiarsi vicendevolmente”.

Ma come trovarla questa posizione? Non certo con mi-sure come “il pacchetto sicurezza e i respingimenti in

quel ‘mare nostrum’ che oggi è diventato un “mare-mostro”, sottolinea Kossi. Un mostro che inghiotte, insieme a tante vite umane, le stesse basi della nostra pretesa di civiltà.

D’altra parte gli stessi immigrati che vivono in Italia de-vono “imparare a farsi accogliere, essere cittadini attivi:

nei consigli di quartiere, nelle consulte e riunioni di genitori, nelle associazioni di volontariato, perché è solo così, impe-gnandosi insieme nel quotidiano, che i pregiudizi cadono”.

La lezione dei porcospini insegna, infatti, che a cercare la posizione giusta bisogna essere in due. I ragazzi del Liceo

Rosmini di Rovereto sembrano averla apprezzata, forse perché con essa Kossi Komla-Ebri ha saputo comunicare loro una cosa di cui oggi c’è particolare bisogno: la spinta a cercare sempre e comunque l’incontro con l’”altro”, anche a costo di “pungersi”, per non rinunciare alla speranza di un futuro migliore.

A scuola con Kossi

di Giovanna Collauto

Oltre gli “imbarazzismi”, la lezione dei porcospini

Il medico scrittore Kossi Komla-Ebri con alcuni dei molti studenti incontrati a Rovereto

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Il Gioco degli Specchi - 13

fusioni

Raccontare la storia di una comunità multietnica attraverso le sue ricette. La cucina non è stato il punto di partenza per

Marinette Pendola, ma con l’avanzare delle sue ricerche sulla comunità italo-tunisina di appartenenza ha trovato nella cucina il filo che tesseva insieme la cultura (le culture) e il quotidiano.

“All’inizio è stata una scelta familiare: ho cominciato a rac-cogliere le ricette della tradizione della nostra comunità

per mia figlia, prima che andassero perse. Poi mi sono accor-ta che la cucina era un segno tangibile di una Mescolanza, era un nuovo mix tra le 3 tradizioni: siciliana, tunisina, francese.

Ne ho parlato con il mio gruppo, “Il Gruppo della Memo-ria”, un gruppo di recupero della memoria storica della

comunità italiana in Tunisia (tra le più numerose dell’Africa Settentrionale). Siamo insieme giunti alla conclusione che anche la cucina racconta la Storia. Di lì è cominciata la ri-cerca vera e propria. Ho intervistato altre donne e uomini della comunità, raccogliendone le memorie legate alla cuci-

na e alle ricette della tradizione. Ne sono venute fuori storie bellissime, indissolubilmente intrecciate con le espressioni dialettali che le esprimevano. Di qui la commistione forte tra cucina, lingua e memoria. E’ stato come scorgere l’im-patto tra due culture e il loro reciproco adattarsi attraverso i racconti delle occasioni nelle quali alcuni cibi venivano con-sumati. Un universo di racconti prevalentemente femminile, che riguarda però la donna come centro della vita familiare.

E infine ho raccolto tutte queste storie, coordinandole all’in-terno di un quadro più ampio di studi socio-linguistici che

nel frattempo avevo intrapreso: sono diventate una memoria narrata della mia comunità. Avevo cominciato il mio lavoro per me e la mia famiglia, mi sono ritrovata a scrivere per molti.

La stessa cosa è successa con il mio successivo roman-zo: ho cominciato a scriverlo di getto. Solo alla fine

mi sono resa conto che non era una cosa mia, molti ave-vano bisogno di sentire questa voce. E il romanzo ha par-lato a molti: a quelli che hanno sentito il bisogno di riper-correre la loro storia, ma anche a tutti quelli che si sono interrogati sull’emigrazione italiana dei secoli passati, di fronte ai temi quantomai attuali dell’immigrazione.

Il Gioco degli Specchi ha saputo raccogliere molto bene questo duplice aspetto: sentire delle storie che parlano di

altri, ma che inevitabilmente parlano di tutti noi in prima persona. Il Gioco degli Specchi affronta interessanti temi: razzismo, integrazione, contatto con le altre culture: cose che la gente della mia comunità ha affrontato 50 anni fa. Per me esisteva una sola scuola, ed era completamente multietnica.„intervista a cura di Erika Gardumi

MARINETTE PENDOLARicette di interazione culturale

A tavola tra Sicilia e Tunisia di Marinette Pendola

“Le costine, dette anche spuntature, sono ottenute dalla punta delle costole del maiale. Questa ricetta abbina modalità tunisine con una carne non consumata dai musulmani”

INGREDIENTI (4 PERSONE):½ kg di costine – 1 barattolo di ceci – 1 cipolla piccola – ½ kg di bietole – ½ cuc-chiaino di coriandolo e carvi – 2 cucchiai di passata di pomodoro – 1 peperoncino (facoltativo) – sale q.b. – poco olio d’oliva.

ESECUZIONE1. Insaporire la carne con le spezie e il sale e tenerla da parte.2. Pulire le verdure. Tagliare finemente la cipolla. Tagliare la bietola separando la parte bianca dalle foglie: la parte bian-ca va tagliata a strisce non troppo grosse, mentre le foglie possono essere tagliate grossolanamente3. In un tegame, far rosolare la carne, aggiungere la cipolla, la passata di pomodoro (eventualmente anche il peperon-cino) e la parte bianca delle bietole. Prima di aggiungere ognuno di questi ingredienti, lasciar rosolare qualche minuto e mescolare man mano che vengono aggiunti nuovi elementi. Unire un bicchiere d’acqua e far cuocere per una mezz’oretta a fuoco lento4. Trascorso questo tempo, mettere nel tegame le foglie di bietole e i ceci. Aggiustare di sale e far proseguire fino a quando la carne non risulti ben cotta.

N.B.:• A fine cottura, l’acqua deve essere del tutto evaporata. Se così non fosse, fare andare il fuoco allegramente a tegame sco-perto per qualche minuto. Il sugo finale deve risultare denso ma non troppo ristretto per permettere d’intingere il pane.• Questo piatto invernale va servito semplicemente accompagnato dal pane. Si tratta infatti di un piatto unico.

la ricetta

COSTINE DI MAIALE CON CECI

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14 - Il Gioco degli Specchi

associazioni

14 - Il Gioco degli Specchi

Iniziamo il viaggio nelle as-sociazioni con “Donne im-

migrate Agorà”, onlus nata nel 2004 e formata da donne, principalmente dell’est, che lavorano per lo più nei servizi alla famiglia. Ne parliamo con la fondatrice, Nadia Kouliatina, russa nata in Siberia.

Tutto inizia con una scommes-sa...

Sì, di fare qualcosa per me e per il Trentino. Volevo unire le donne, parlare con loro di problemi e diritti, aiutarle

a vivere sul territorio. Pensavo sarebbe stato facile, invece molte vedevano l’associazione di volon-tariato quasi come una setta. Ma c’era un bisogno assoluto a cui potevo venire incontro, avendo la possibilità di fare tante cose e conoscendo cultura e mentalità italiana e trentina. Così, piano piano, i contatti si sono allargati.

Quali corsi avete proposto?

Di formazione professio-nale, per l’accesso ai

servizi, di cucina, per accudire gli anziani, per risolvere problemi di lavoro, per la conoscenza dei propri diritti... per dare l’opportunità di vivere in serenità in Trentino conoscendo la mentalità del posto. Ci sono poi attività per i figli, come lingua, danza, disegno, doposcuola, regia.

Cosa vorreste per loro?

Che se tornassero un giorno nel loro Paese avessero un ricordo positivo dell’Italia, il Paese in cui la loro

vita è cambiata. Dopo avere iniziato un po’ a intuito in base ai bisogni che vedevamo, abbiamo fatto passi avanti: abbia-mo capito l’importanza di portare la nostra cultura e di la-vorare sull’immaginario riguardante le donne dell’est, che è importante siano apprezzate e rispettate.

Qual è la particolarità della vostra associazione?

L’essere composta solo da donne immigrate e non italiane. In questo senso siamo la prima associazio-

ne a livello nazionale ed europeo. Non è una chiusura, ma una necessità: tra di noi c’è un orientamento, un aiuto, un sostegno, una ramanzina quando serve... Dopo un inizio dif-ficile, ora si vede un gruppo di persone che fa volontariato e tante altre con molta voglia di imparare. Così ci stiamo allar-gando sul territorio per sostenere le donne, ma a beneficio delle famiglie italiane.

Intervista a Nadia Kouliatina, fondatrice di “Donne immigrate Agorà”di Idil Boscia

Dalla Siberia al Trentino

Courtny

Desideriamo dar vita a una pubblicazione periodica che diventi la voce della ricchezza multiculturale del Trentino.

Se condividi le finalità dell’associazione, sei interessato alle sue attività e vuoi sostenere questa particolare iniziativa, ti proponiamo di diventare socio (la quota sociale è di 15 euro). Manda la tua richiesta di adesione ed il tuo indirizzo a: [email protected] oppure a:IL GIOCO DEGLI SPECCHI via S.Pio X 48, 38122 TRENTO, tel 0461-916251, fax 0461-39747

Associazione Il Gioco degli Specchi

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Il Gioco degli Specchi - 15

spunti

Il Gioco degli Specchi - 15

Luis Beltrán, Rio Negro, Patagonia Argentina: la cinepre-sa ruota lentamente lungo tutta la linea dell’orizzonte

nel tentativo di trasmettere il senso di quella immensità che si trova di fronte. La luce, il vento, la piccolezza dell’uomo, i campi di girasole e di mais a perdita d’occhio ben la trasmettono, poi, in questo ambiente austero, germinano le storie. “Ci penso sempre e non so cosa deve essere stato quello sradicamento per mio padre, arrivare da Bergamo fin qui, dove non c’era assolutamente niente. “

Il Circulo Italiano è il ritrovo, dove si ricorda l’origine della propria famiglia, scrivendo il nome proprio e quello del paese sulle pareti,

dove sono state dipinte gigantesche regioni italiane. Molti vengono dall’Italia, partiti dopo la guerra, quando non c’era lavoro e le aziende più importanti invece lavoravano qui, come la Saipen che vi ha co-struito importanti opere idrauliche.

Oppure erano i più grandi di molti figli ed a soli 17 anni avevano il dovere di andarsene e scaricare dalla famiglia l’obbligo del loro

mantenimento. Altri invece sono arrivati in Patagonia per migrazioni interne, da Buenos Aires, lasciando il lavoro edile per costruire invece con orgoglio un frutteto come non ce n’è altri, cercando un clima più salubre per il figlio malato, un posto tranquillo per non imbarbarirsi in una città divenuta pericolosa. Vivono in una pace inimmaginabile, con ritmi lenti accuratamente radiografati, si dedicano alla passione del teatro o alla raccolta di resti e ricordi per un piccolo museo, pe-

scano e si scambiano ricette. Si lamentano delle formiche e delle carpe, e peccato che ci siano le zanzare.

Non è un luogo fuori del mondo, ci si viene per-

chè la Patagonia è di moda, per fare grandi investimenti in terreni e colture intensive. Oppure per cercare un lugar en el mundo, il proprio luogo, la ‘casa’, quella sognata e che si può raccontare stanza per stanza anche se i disastri eco-nomici dell’Argentina ne han-no allontanato il sogno.

Era el azul (Era il blu) Regia: Alberto Valtellina e Sergio Visinoni Con: Hugo “Loco” Cognini, Walter Corona, Carlos “Conejo” Pedranti, Fabio “Tano” Ghilardi, Clara Corona, Moni Gundín, Eduardo Montangero Produzione esecutiva: Angelo Signorelli per Lab 80 film – TUC Produzione: Lab 80 film e Centro Studi Valle Imagna Durata: 74 minuti. Anno: 2008

Italiani dall’altra parte del mondoUn documentario racconta la loro vita in Patagonia

Andrea si abbuffò di patate, poi marciò deciso verso il magazzino degli attrezzi, sollevando il fiasco, in un

brindisi allegro al contadino.“Cin cin, patriota”, gli fece da lontano, “dove hai nascosto la marmellata di albicoc-che?”

Questa frase è in italiano? Certo ma anche in tante al-tre lingue:

Andrea LATINO-GRECO ANTICO - si abbuffò DIALETTI SUD - patate SPAGNOLO SUDAME-

RICANO - marciò FRANCESE/GERMANICO - ma-gazzino ARABO - attrezzi FRANCESE - fiasco GERMANICO - brindisi TEDESCO - contadino PROVENZALE - cin cin INGLESE dal CINESE - patriota FRANCESE, LATINO e GRECO - marmellata PORTOGHESE-LATINO-GRECO - albicocche SPAGNOLO-ARABO.

Parlare italiano?

Horia Varlan

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Tavola da Kurden People, M

arina Girardi, C

omm

a 22, Bologna, 2009Per gentile concessione dell’autrice

Una giovane e due ragazzini guardano l’affan-narsi dei giovani curdi che cercano di eludere la sorveglianza della polizia greca e di nascondersi sui camion che si stanno imbarcando per l’Italia. I ragazzini ridono delle ‘formiche’ agitate che ve-dono nel porto, la ragazza è più pensosa. Conosce la storia di questo popolo, sa qualcosa del luogo da cui vengono, dei motivi che li hanno spinti fino

a quel tragico gioco a guardie e ladri.

“Io vado madre,se non torno

sarò fiore di questa montagna,frammento di terra

per un mondo più grande di questo.”

Goran (1904-1962)

Il Gioco degli Specchi

INFO:tel 0461.916251

fax 0461.397472cell. 340.2412552

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