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I NUMERO XII- MARZO/APRILE 2013 Nel 1088, a Bologna (data fissata da Giosué Carducci), nacque la prima università dell’Occidente. Per alcuni è Pavia, ma importa poco. Importa che l’Italia, quasi mille anni dopo, ha ucciso la sua creatura. L’arma: il decreto 509 del 3 novembre 1999. Il Berlinguer sbagliato, un Tullio De Mauro preso a calci in culo (si legga il suo “La cultura degli italiani”), et voilà. L’Italia si “adeguava agli standard europei”. Già all’epoca, insomma, ce lo chie- deva l’Europa: più laureati, e meno disoccupati. E allora venne l’idea geniale: parcheggiare per anni man- drie di disoccupati presenti e future in qualche aula accademica: stipan- do nuovi servi della gleba a Scienze di Questo e di Quello; istituendo il cerone di un finto organismo di fin- to controllo tra mondo del Lavoro e Università, che magari inserisse fra i laureandi/laureati occupati studen- ti lavoratori da un’ora a settimana senza contratto; restringendo e rad- doppiando gli esami; allargando il bacino d’utenza: via il pensiero, sì a memoria e nozioni, ché non s’intasi il tritacarne. E subito Dottori, così: come andare al cesso. L’Università italiana è l’unica in- dustria fondata sull’allungamento della catena di montaggio e l’assen- za di produttività. Rimane intatta la lobotomizzazione degli operai ammantata da un Merito che non esiste, e, quindi, non sarà premiato. Mai. Hanno fatto male i conti: fuoricorso a pioggia, studenti e professori ina- deguati e demotivati; disoccupazio- ne giovanile al 35%; 58.000 univer- sitari in meno dal 2002. Frattanto è divenuto impossibile imparare un mestiere: scompaiono gli agricoltori (il 3%), i pasticceri, i falegnami. Scompare l’Italia. In molti hanno intuito la truffa. Altri se sono accorti troppo tardi per uscirne indenni. I più brucano a ore pressappoco regolari. Insegnando non a criticare, ma ad accontentarsi (o umiliarsi al Concorsone di Profumo), l’Università italiana ha definitivamente abdicato a se stessa. L’Umanesimo è un lontano ricordo, e il terrore lo si bagna in qualche spritz. “In principio erat Verbum”. Crederci o meno è questione che riguarda la fede di ognuno. Ad ogni modo chi fosse particolar- mente malizioso potrebbe ribal- tare la frase nel seguente modo: in principio l’uomo proferì il verbo e lo elevò al soprasensi- bile; gli dette statuto di Verità e al tempo stesso lo accettò come venuto dall’alto, senza accor- gersi che era stato lui stesso, “in principio”, ad elevarlo. Allo stesso modo l’economica di mercato (non a caso nuova religione – per gli Stati, se non ancora per tutti gli individui che ne fanno parte), oggi, pre- tende d’avere valore in sé, e non in rapporto all’uomo che l’ha concepita: altrimenti non se ne spiegherebbe la pervasività, il suo essere diventata ogni cosa, l’aver imposto – arbitrariamen- te – dei principî ritenuti ora universali ed inviolabili, pena il crollo, la condanna da parte della comunità internazionale, la morte (perché no? L’inferno). Già il considerarla un sogget- to, esattamente come ho fatto anch’io nelle frasi precedenti, contribuisce ad ingigantirne il potere, ad attribuirle volon- tà ed interessi proprî: men- tre è sempre l’uomo ad aver- la posta al centro (o meglio: sopra) il mondo, ad averle assegnato, nei discorsi su di lei costruiti, valore di Verità. Pil, deficit, credit crunch , l’in- flazionatissimo spread ... Meri indici numerici attraverso cui imporre una modalità di pen- siero (quantitativa) in qualsi- asi aspetto della nostra vita; persino nelle Università, dove la durata dei corsi (a prescin- dere dalla loro complessità e dagli argomenti trattati) e i testi d’esame devono essere Non avrai altra Economia al di fuori di me di Stefano Tieri soppesati in proporzione ai crediti “formativi” (l’unica cosa che “formano” è que- sto tipo di pensiero); dove l’allineato – anche se me- diocre – è assunto a model- lo, ed il “perditempo” (come se il tempo fosse qualcosa che si potesse perdere) ul- teriormente tassato e ad- ditato quale nullafacente. Amico mio, fuggi nella tua so- litudine! Io ti vedo assordato dal fracasso dei grandi uo- mini e punzecchiato dai pun- giglioni degli uomini piccoli. La foresta e il macigno san- no tacere dignitosamente con te. Sii di nuovo simile all’albero che tu ami, dalle ampie fronde: tacito e at- tento si leva sopra il mare. Là dove la solitudine finisce, comincia il mercato; e dove il mercato comincia, là co- mincia anche il fracasso dei grandi commedianti e il ron- zio di mosche velenose. (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra )

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Charta Sporca, marzo/aprile 2013

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Page 1: Numero 12

I

NUMERO XII- MARZO/APRILE 2013

Nel 1088, a Bologna (data fissata da Giosué Carducci), nacque la prima università dell’Occidente. Per alcuni è Pavia, ma importa poco. Importa che l’Italia, quasi mille anni dopo, ha ucciso la sua creatura. L’arma: il decreto 509 del 3 novembre 1999. Il Berlinguer sbagliato, un Tullio De Mauro preso a calci in culo (si legga il suo “La cultura degli italiani”), et voilà. L’Italia si “adeguava agli standard europei”.

Già all’epoca, insomma, ce lo chie-deva l’Europa: più laureati, e meno disoccupati. E allora venne l’idea geniale: parcheggiare per anni man-drie di disoccupati presenti e future in qualche aula accademica: stipan-do nuovi servi della gleba a Scienze di Questo e di Quello; istituendo il cerone di un finto organismo di fin-to controllo tra mondo del Lavoro e Università, che magari inserisse fra i laureandi/laureati occupati studen-ti lavoratori da un’ora a settimana senza contratto; restringendo e rad-doppiando gli esami; allargando il bacino d’utenza: via il pensiero, sì a memoria e nozioni, ché non s’intasi il tritacarne. E subito Dottori, così: come andare al cesso.L’Università italiana è l’unica in-dustria fondata sull’allungamento della catena di montaggio e l’assen-za di produttività. Rimane intatta la lobotomizzazione degli operai ammantata da un Merito che non esiste, e, quindi, non sarà premiato. Mai.Hanno fatto male i conti: fuoricorso a pioggia, studenti e professori ina-deguati e demotivati; disoccupazio-ne giovanile al 35%; 58.000 univer-sitari in meno dal 2002. Frattanto è divenuto impossibile imparare un mestiere: scompaiono gli agricoltori (il 3%), i pasticceri, i falegnami. Scompare l’Italia.In molti hanno intuito la truffa. Altri se sono accorti troppo tardi per uscirne indenni. I più brucano a ore pressappoco regolari. Insegnando non a criticare, ma ad accontentarsi (o umiliarsi al Concorsone di Profumo), l’Università italiana ha definitivamente abdicato a se stessa. L’Umanesimo è un lontano ricordo, e il terrore lo si bagna in qualche spritz.

“In principio erat Verbum”. Crederci o meno è questione che riguarda la fede di ognuno. Ad ogni modo chi fosse particolar-mente malizioso potrebbe ribal-tare la frase nel seguente modo: in principio l’uomo proferì il verbo e lo elevò al soprasensi-bile; gli dette statuto di Verità e al tempo stesso lo accettò come venuto dall’alto, senza accor-gersi che era stato lui stesso, “in principio”, ad elevarlo. Allo stesso modo l’economica di mercato (non a caso nuova religione – per gli Stati, se non ancora per tutti gli individui che ne fanno parte), oggi, pre-tende d’avere valore in sé, e non in rapporto all’uomo che l’ha concepita: altrimenti non se ne spiegherebbe la pervasività, il suo essere diventata ogni cosa, l’aver imposto – arbitrariamen-te – dei principî ritenuti ora universali ed inviolabili, pena il crollo, la condanna da parte della comunità internazionale, la morte (perché no? L’inferno). Già il considerarla un sogget-to, esattamente come ho fatto anch’io nelle frasi precedenti, contribuisce ad ingigantirne il potere, ad attribuirle volon-tà ed interessi proprî: men-tre è sempre l’uomo ad aver-la posta al centro (o meglio: sopra) il mondo, ad averle assegnato, nei discorsi su di lei costruiti, valore di Verità. Pil, deficit, credit crunch, l’in-flazionatissimo spread... Meri indici numerici attraverso cui imporre una modalità di pen-siero (quantitativa) in qualsi-asi aspetto della nostra vita; persino nelle Università, dove la durata dei corsi (a prescin-dere dalla loro complessità e dagli argomenti trattati) e i testi d’esame devono essere

Non avrai altra Economia al di fuori di me

di Stefano Tieri

soppesati in proporzione ai crediti “formativi” (l’unica cosa che “formano” è que-sto tipo di pensiero); dove l’allineato – anche se me-diocre – è assunto a model-lo, ed il “perditempo” (come se il tempo fosse qualcosa che si potesse perdere) ul-teriormente tassato e ad-ditato quale nullafacente.

Amico mio, fuggi nella tua so-litudine! Io ti vedo assordato dal fracasso dei grandi uo-mini e punzecchiato dai pun-

giglioni degli uomini piccoli. La foresta e il macigno san-no tacere dignitosamente con te. Sii di nuovo simile all’albero che tu ami, dalle ampie fronde: tacito e at-tento si leva sopra il mare. Là dove la solitudine finisce, comincia il mercato; e dove il mercato comincia, là co-mincia anche il fracasso dei grandi commedianti e il ron-zio di mosche velenose.

(Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra)

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II

Documento sul diritto allo studio dei rappresentanti studenti degli Erdisu di Trieste e di Udine

In queste ultime settimane il Ministro all’Istruzione, Uni-versità e Ricerca ha portato in discussione un nuovo de-creto ministeriale riguardante il diritto allo studio universi-tario e la determinazione del Lep (livelli essenziali delle prestazioni) ad esso relativi. Durante la conferenza Stato Regioni del 7 febbraio scor-so la bozza è stata bocciata e la discussione rimandata al 28 febbraio, cioè pochi gior-ni dopo le elezioni politiche. Considerando la vicinanza del-la discussione alla fine delle elezioni, ci auguriamo che il Decreto verrà preso in esame dal nuovo Ministro dell’istru-zione e non da quello uscente. Come rappresentanti degli studenti nel CdA degli ER-DiSU, abbiamo preso in ana-lisi questa ultima bozza e ri-scontrato molti punti critici. In particolare riguardo: · Il limite di età inserito nel decreto (25 anni per corsi di laurea triennale, 32 per i cor-si di laurea magistrale, dotto-rato e specializzazioni) esso, a nostro avviso, risulta non praticabile in quanto secondo la nostra carta costituzionale il diritto allo studio deve essere garantito ai capaci e meritevo-li ma privi di mezzi e non in base all’età anagrafica. Questo limite colpisce in particolar modo chiunque non voglia o non possa iscriversi all’uni-versità immediatamente dopo il conseguimento della maturi-tà, oppure chi, lavoratore già da anni, decide di continuare il proprio percorso formativo.

Ciò violerebbe, di fatto, l’ar-ticolo 34 della Costituzione. · Molte regioni da diversi anni, in cambio di servizi resi (ser-vizio ristorazione), riducono l’importo della borsa di studio stessa. Ciò fa risparmiare in termini di denaro ma non sem-pre gli studenti possono usu-fruire di tali servizi che di fat-to sono obbligati a pagare. Con questo decreto si vuole, oltre che favorire questa pratica, au-mentare gli importi detraibili dalle borse di studio. Si passa dai 600 euro attuali per un pa-sto giornaliero per gli studenti fuori sede ad un massimo 700 di euro presso i servizi di risto-razione garantiti dalle Regioni. · I criteri di merito per l’acces-so ai servizi la quantità di cre-diti (C.F.U.) richiesti per poter accedere o per mantenere la borsa di studio si inasprisco-no sensibilmente rischiando di ridurre il numero delle borse di studio erogate agli studenti In aggiunta a ciò, nel decreto, viene eliminato il “bonus sui crediti” (fin’ora utilizzabile una sola volta), che in mol-ti casi ha consentito agli stu-denti che non sono riusciti a raggiungere i crediti indispen-sabili, spesso per motivi non legati alla propria volontà, di mantenere la borsa di studio. É prevista anche la possibili-tà per le Regioni stesse di in-nalzare i criteri di merito per accedere alla borsa, senza però dover incrementare il valore delle borse di studio questo risulta in contrasto con il prin-cipio di uniformità di tratta-mento sancito da varie senten-ze della Corte Costituzionale. Infatti la decisione su questi criteri sarebbe delegata alle

Regioni minando quindi l’uni-formità degli stessi nel Paese. · I servizi abitativi si passa da un massimale di 145 euro mensili circa ad un massima-le di 240 euro sempre su base mensile. Tale misura rende di fatto nullo l’aumento degli importi delle borse di studio per gli studenti fuori sede in quanto ad un aumento di cir-ca 600 euro rispetto all’attuale valore previsto nel decreto si potrebbe manifestare un au-mento dei costi per i posti al-loggio di quasi 1000 euro ero-dendo, di fatto, l’importo della borsa fruibile dallo studente. · Le variazioni degli importi delle borse vi è una diminuzio-ne degli stessi per gli studenti pendolari ed in sede ed oltre a ciò vi è la sopracitata que-stione dell’aumento “fittizio” per gli studenti fuori sede. · I criteri di reddito vi è una sensibile diminuzione dell’im-porto massimo di soglia il quale ridurrebbe, di fatto, il numero di studenti che posso-no avere accesso al beneficio. · Il fondo integrativo statale viene ripartito fra le regio-ni, ancora, appena nel mese di giugno. Questo obbliga gli studenti che hanno diritto alla borsa di studio ad anticipa-re migliaia di Euro che ver-ranno restituiti solo alla fine dell’anno accademico. Ag-giungendo a ciò l’erogazione del 50% della borsa di studio appena nel mese di settem-bre dell’anno successivo, la borsa rischia di venir trasfor-mata in un rimborso spese. · La copertura finanziaria delle borse di studio essa è affidata in primis alla tassa per il di-ritto allo studio universitario (TRDSU), successivamente alle regioni e solo per ultimo allo Stato, che integra con il suo fondo, a seconda di quanto annualmente stanziato. In que-sto modo si deresponsabilizza lo Stato che non è vincolato a coprire quanto sbandierato nel decreto. Non possiamo infatti accettare che in prima istanza vengano usati i fondi della tas-sa regionale per il diritto allo studio per coprire le borse. Tale tassa viene pagata da ogni

iscritto all’università, quindi di fatto sono gli studenti e le loro famiglie, diversamente da quanto è stato fino ad oggi, a diventare i primi finanziatori del DSU. Lo stato e le regioni difatti intervengono solo nel caso in cui le risorse prove-nienti da tale tassa siano insuf-ficienti a coprire il fabbisogno. Inoltre adesso, visto l’aumento dei massimali e minimali per la TRDSU, si tenta pure di diminuire l’importo rimanen-te a carico delle istituzioni. Di fatto, lo Stato fa un passo indietro per quanto riguarda il finanziamento al diritto allo studio, oltre che dell’intero sistema universitario, settore fondamentale per il futuro del-la società. Troppo spesso negli anni abbiamo visto, da parte di tutti i governi passati, tagli a questo settore, come purtroppo anche quest’ultimo così detto tecnico, non valorizzando e non investendo in quei settori della società che da sempre devono affrontare maggiori difficoltà per poter migliorare la pro-pria condizione sociale, eco-nomica e soprattutto culturale. Riteniamo che il settore dell’istruzione, in una società moderna ed in un paese che fa parte delle principali potenze industrializzate del mondo, debba ricevere gli investi-menti e le risorse necessarie al suo mantenimento (l’Italia investe nell’educazione sola-mente il 4,9% del PIL, contro il 6,2% della media dei paesi OCSE), senza risparmi che andrebbero a danneggiare l’in-tera nazione. Danni, che non vedremo nell’immediato, ma tra diversi anni, quando sarà troppo tardi per intervenire ed in ogni caso più difficoltoso e pesante a livello economico. Per i motivi sopra espres-si, chiediamo al Ministro dell’istruzione che porterà avanti il Decreto di modificar-lo con le richieste degli stu-denti ed al Presidente Tondo e all’assessore Molinaro di boc-ciarlo il 28 febbraio, a meno che non venga integrato delle richieste fatte dagli studenti per poter avere un sistema di diritto allo studio universitario che di fatto lo garantisca.

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III

A nni fa, mi capitò per caso di vedere alla tv le riprese di

uno spettacolo teatrale. Un solo attore, vestito di nero, seduto su una sedia, senza altri oggetti di scena, che raccontava una storia di cavalieri, principi e imperatori. Non seppi mai quale opera fos-se – avevo iniziato a vederla che era già cominciata – e anche della storia ci capii poco, ma mi rima-se fortemente impressa la scena finale: il protagonista che, prima di essere messo a morte, ingoia un pezzo di carta (immaginario) che pure gli avrebbe dato la salvezza.Giorni fa, mi capita per caso fra le mani un libro di racconti di Heinrich von Kleist, scrittore del romanticismo tedesco (lo so, stu-denti di lingue, è in un programma di letteratura tedesca, ma non fate quella faccia schifata). In partico-lare c’è un lungo racconto che mi prende parecchio, Michele Kohla-as. Lo divoro, e in breve arrivo al finale. Che è identico a quello dell’opera teatrale vista tanti anni fa. Bum. Epifania. Faccio qual-che rapida ricerca, e scopro che sì, si trattava di un adattamento a monologo del racconto di Kleist, ad opera dell’attore e regista pie-montese Marco Baliani.

La storia (mi soffermo qui sul racconto) è quella di Michele Kohlaas, mercante di cavalli nella Germania feudale del 1500. Nel tragitto verso Dresda, dove porta a vendere i suoi cavalli migliori, viene fermato presso il castello del barone von Tronka con il pre-testo di un lasciapassare. Kohlha-as non ha alcun documento di questo tipo, e decide di lasciare

in pegno al barone due morelli – cavalli pregiati, da parata – che recupererà al suo ritorno. Ma a Dresda gli dicono che non esiste alcun lasciapassare; e tornando al castello, scopre che i cavalli sono ridotti in fin di vita (sono stati usati per il lavoro nei campi) e il servo Ersiano, che aveva lasciato a custodire le bestie, è stato mal-menato, derubato e scacciato.Kohlhaas si rivolge dunque alle autorità, per riavere i cavalli in salute, come li aveva lasciati, e un indennizzo per i danni subiti dal servo, che egli quantifica di-ligentemente, da buon mercante. Nulla di più e nulla di meno. Ma il destino vuole che von Tronka sia parente di nobili molto vicini al principe Elettore di Sassonia, e nonostante i solleciti e le ripe-tute richieste, il caso di Kohlha-as viene puntualmente rigettato come «bega oziosa». Col passare del tempo la fiducia del mercante nella giustizia vacilla sempre più. Kohlhaas vede il perfetto ordine del suo mondo (e del cuo cuore, aggiunge Kleist) violato e distrut-to, e quando perde la moglie per un incidente legato alla vicenda, allora decide di farsi giustizia da solo: raduna alcuni servi fidati e comincia a dare la caccia al baro-ne, mettendo a ferro e fuoco una città dopo l’altra, con un seguito sempre maggiore. Finché il suo caso non diventa una questione che coinvolge prìncipi, l’impera-tore, e persino Martin Lutero.

Quello della vittima di soprusi che esce dalla legalità per far-si giustizia è quasi un archetipo dell’immaginazione, che passa per Robin Hood e il conte di Mon-tecristo fino ad arrivare a innume-revoli film (basti come esempio il monolitico Charles Bronson ne Il giustiziere della notte). Ci sen-tiamo sempre coinvolti da queste reazioni. Comprendiamo, parteci-piamo della frustrazione e condi-vidiamo la rabbia. Ci indignamo per la vile trappola tesa all’inno-cente Edmond Dantés, tifiamo per William Wallace che scatena la rivolta contro l’oppressore in-glese. Ma Kohlhaas? L’ossessiva insistenza del mercante tedesco ha sfumature del tutto particolari. Non è solo il gusto della vendetta che lo spinge alla reazione violen-ta, ma in primis un sentimento più sottile. Kleist ci dice che «il suo senso di giustizia […] era come la bilancia dell’orafo». Kohlhaas crede fermamente nella legge, e

interpreta la prevaricazione come una sua “espulsione” dal consesso sociale, sentendosi quindi autoriz-zato ad agire come meglio crede: «Ripudiato chiamo colui al quale si nega la protezione delle leggi! Poiché di questa protezione, per la prosperità del mio pacifico com-mercio, io ho bisogno; ed è, anzi, proprio per questo che io, con tutto ciò che mi sono guadagnato, cerco rifugio nella comunità; e chi me la nega mi ricaccia fra i selvaggi del deserto, e mi mette in mano, pote-te forse negarlo?, la clava che mi protegge». Quello che conta non è la misura del torto subito – quan-ti gli dicono di lasciar perdere, di accontentarsi di un risarcimento in denaro – ma il principio. Tanto che la morte della moglie è soltan-to la classica goccia, e nella sua disumana onestà, di questa morte non reclamerà mai vendetta. Tutto ciò che egli pretende dalla legge è «La punizione del barone, con-forme alla legge […] il ristabili-mento dei cavalli nello stato in cui erano; e il risarcimento del danno che tanto io quanto il mio servo Ersiano […] abbiamo subìto, a causa della violenza commessa contro di noi». Nulla di più, nulla di meno.

Kleist racconta l’assurdità della burocrazia e delle leggi umane dipingendola attraverso l’efficace corrispettivo del caotico mondo feudale. La “questione Kohlhaas” coinvolge baroni, ciambellani, gran cancellieri, prìncipi; ognuno con un’idea diversa, a seconda del coinvolgimento, dell’onestà, della convenienza politica o personale. Il caso passa di mano in mano, viene approvato, viene rigettato, si inventano sotterfugi, si con-cedono amnistie, in un labirinto schizofrenico, arbitrario e impre-vedibile. Le pagine in cui le varie “autorità” discutono sulle misure da prendere nei confronti del mer-cante rappresentano perfettamen-te – complice la prosa tortuosa di Kleist, che abbonda di incisi e subordinate – l’involuzione di un sistema che si pretende perfetto e universale. Non stupisce che Kafka adorasse questo racconto, prendendone ispirazione per il suo Processo, e non si può non notarne la sconcertante attualità celata dietro i modi del racconto storico.

Kohlhaas accetterà un’amnistia, con la promessa di una risoluzione del suo caso, mentre i suoi nemi-

ci – in testa il principe Elettore di Sassonia – porteranno la questio-ne davanti all’imperatore, che non essendo vincolato all’amnistia po-trà giudicare (e punire) il mercan-te per i crimini commessi durante la sua ribellione. Kohlhaas viene quindi condannato a morte, e nel giorno stesso della sua esecuzione, sulla piazza dove è già montato il patibolo, gli vengono portati i due cavalli, curati e ingrassati a spese del barone, e il risarcimento per il servo. Il torto subìto è stato ripa-rato, e il mercante può accettare la condanna della legge nel cui am-bito è ritornato. Ognuno ha quindi la sua soddisfazione, i piatti della bilancia della giustizia tornano a equilibrarsi, l’ordine della ragione e dei sentimenti di Kohlhaas tor-na a quella forma perfetta in cui aveva sempre creduto. Una forma di cerchio, come dice Baliani nel monologo teatrale, identificando-la con il cappio che si staglia con-tro il cielo (nel racconto gli viene invece tagliata la testa).

La ribellione di Kohlhaas non è ideologica, ma è spinta dal fatto privato, dalla pretesa di «protezio-ne» per il suo «pacifico commer-cio». Non vuole ribaltare lo stato, per lui resta sempre una questione di cavalli e di servi malmenati; eppure la sua rivolta nasce dalla contradditorietà del mondo stes-so, e quelle parole le rivolge a Lutero in persona (che poi si ri-volgerà al principe, e il principe all’imperatore), non rendendosi conto che nessuna azione come la sua può dirsi scevra dall’avere un effetto anche politico. Nemmeno quella rivincita finale che riesce a prendersi nei confronti dell’odiato principe di Sassonia, che tanto si era accanito contro di lui: il nobile è disposto a salvargli la vita pur di avere un piccolo foglio (una lunga digressione ci racconta come que-sto sia giunto a Kohlhaas), ma il mercante di cavalli, con un gesto altamente simbolico, ingoia il fo-glietto poco prima dell’esecuzio-ne. Salvando così il suo onore e la sua memoria da un lato, e dall’al-tro compromettendo il futuro del-la casata del nobile.(Il monologo di Baliani ispirato a questo racconto è giunto nel 2012 alla millesima replica, una delle quali è visibile su youtube. L’at-tore continua a portarlo in scena, se mai dovesse capitare da queste parti consiglio vivamente di anda-re a vederlo, merita davvero)

La rivolta di un uomo onestodi Giuseppe Nava

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IV

Una delle prassi più conso-lidate, in Italia, è quella

dell’interpolazione. Fra i concetti più deliberatamente fraintesi c’è quello di “satira”. Antico vanto dei romani, che a partire da Quintilia-no (I secolo d.C.) ne rivendicaro-no l’assoluta e originale paternità all’interno di una produzione let-teraria di pressoché totale deriva-zione greca, “satura”, nel suo uso forse più significativo, rimanda alla gastronomia: precisamente, a un ripieno. Ma la sua definizione, così come la traduzione, è quanto-mai eterogenea. Di per sé, quindi, il fraintendimento potrebbe starci e non è neppure detto che sia sempre voluto o in malafede. Il condizio-nale, tuttavia, è d’obbligo.La satira, infatti, porta, connatu-rata a sé, l’utopia di smuovere le coscienze. L’esigenza di cammina-re, per dirla con Galeano. Volando ancora più bassi, in un’epoca di totalitarismo da Pensiero Unico, il semplice anelito alla sussisten-za cerebrale. Per fare ciò, l’autore satirico non deve consolare, né accarezzare le pance. Deve, ben-sì, urticare, se possibile insufflare letale fastidio, provocare al punto da fare semplicemente incazzare qualcuno, V.I.P. o potentato di tur-no che sia.

L’autore satirico, storicamente, è un essere detestato dall’establi-shment nella sua interezza, poiché non fa sconti a nessuno e perché, per naturale inclinazione intellet-tuale a remare ostinatamente con-tro, offende la pubblica morale e i costumi tradizionali, praticando non di rado idiosincrasie ritenute inaccettabili dalla società civile.Giovenale, per esempio, era ed è tuttora considerato misogino (per aver sempre biasimato i cattivi costumi delle matrone romane) e omofobo (perché, pur tollerando e capendo le naturali inclinazioni sessuali, osava scagliarsi contro gli ipocriti che, accusatori diurni di tali “devianze”, le assecondavano una volta nascosti dal buio della notte). Oggi si direbbe “violento”. Tale mistificazione investe, oggi e per sempre, chiunque osi infrangere la Barriera dell’Ovvio per andare oltre: Daniele Luttazzi e Corrado Guzzanti in primis.Specie nell’era della comunica-zione massificante della tivù, dei talk-show ammorbanti costellati di carrellate di tette e culi, la satira già scarseggiante è stata rimossa con l’accusa di essere “volgare”. Vuoi per il livellamento verso il basso

della cultura degli uditori, vuoi per l’emarginazione di figure davvero scomode al di là di ogni palinsesto, fare satira autentica si è fatta im-presa titanica: ed è così che dalla superficie sporadicamente incre-spata del mare magnum dell’enter-tainment filo-berlusconiano sono emersi solo piccoli comprimari, o attori comici tanto dotati quanto sopravvalutati.

Rimangono leggenda le parole di Luca Barbareschi (?): il Sommo riteneva che quella di Daniele Lut-tazzi non fosse satira, ma volgarità fine a se stessa. Per antitesi, si è scelto di elevare a satirici bande-ruole dall’invettiva paracula, nani dopati a giganti per innalzarne il volume dell’inevitabile disfatta: vignettisti che non ne imbrocca-no una da anni, come Forattini, o in lampante declino, come Vauro; ex-iconoclasti come Roberto Beni-gni (si auspica ormai rassegnatosi a fare dell’ottima opera divulgati-va, dopo l’imbarazzante sequela di freddure su Berlusconi degli ulti-mi dieci anni); e, soprattutto, una comica-a-stento come Luciana Lit-tizzetto. Che, non fosse una donna (va be’), la crema di Repubblica la bastonerebbe alla stregua di Bom-bolo.

Caso clinico, la Madamin Littiz-zetto. Quella che ha elevato l’ine-leganza a cifra stilistica. Quella che fare satira è: “oggi dico 32 volte CULO” e “Berlusconi hai rotto il cazzo”. In un impeto di sommovimento ilare, la si è fatta passare addirittura per pasionaria trotzkista capace di mutare le ma-gnifiche sorti politiche del Paese, qualora avesse dovuto lanciare a Sanremo le sue rinomate molotov sinaptiche. Benvenuti in Italia.Tutti i suddetti (mettiamoci anche Neri Marcoré) fanno comicità, non satira. Sono due sport diversi.La satira, come la letteratura, ten-ta di elevare; la comicità, come la fiction letteraria, prova a divertire: due intenti egualmente nobili di cui, egualmente, c’è un gran biso-gno. Ma, per fortuna, diversi.I comici possono apparire satirici solo a coloro che Edmondo Bersel-li chiamava le Professoresse De-mocratiche: gli/le amanti di quella comicità radical-chiccosamente anti-sistema, che accarezza le Anime Salve: quelle degli Augias, delle Dandini, degli Scalfari, dei Fabio Fazio.I chierichetti della nomenklatura;

gli americani di Gaber e Luporini che, per esperienza, distinguono il mondo in Bene e Male, poiché il Bene sono loro.A fare della presunta satira a Sanremo ci ha pensato Maurizio Crozza. (Si apra una parentesi: è intellettualmente stimolante anno-tare come ogni anno il Festival si riveli sempre più abile a riscrivere il post-modernismo: stavolta c’era Toto Cutugno con l’Armata Rossa – sì, o voi snob che “la tivù non la guardo”: è successo)Dicevamo: Maurizio Crozza. Ecco un caso paradigmatico: un bravo comico che viene fatto passare, anche dagli osservatori più attenti della cosiddetta “contro-informa-zione”, per guastatore critico. Non lo è. L’élite culturale, ritenendo inappuntabile il criterio gerarchico che pone la satira sopra la comicità, si sforza di elevare la seconda alla prima. Con risultati devastanti.Crozza, è vero, ha fatto tanta gavet-ta; è una brava persona; ha un bel talento; è bravo ed è spesso diver-tente: ma, laddove la satira dovreb-be debilitare le sue “vittime”, quel-le di Crozza vengono, al contrario, puntualmente riabilitate dalle sue imitazioni, a suon di leit-motiv che poi diventano tormentoni, e in seguito vere e proprie indulgenze gratuite.

Pensiamo a Luca Cordero di Mon-tezemolo, riccastro senza qualità né meriti; a Briatore, pregiudicato propalatore di ignoranza e impren-ditore di disvalori tra i Malindi; ad Antonio Conte, rientrato come un martire da una squalifica pat-teggiata a tre mesi per omertà su partite combinate: diventano tutti simpatici. “Il volano dell’econo-mia/Ci vuole spi-ri-too”, “Gesù/Che Guevara/Beethoven sei fuo-ri!”, “Un ricatto bello e buono/Io ho ppauraaa/È ag-ggghiacc-cian-deee”. E s’incappa in un sorriso inevitabile. Consolatorio: sia per il pubblico, sia per l’oggetto della “satira”, che infatti puntualmente rievoca l’imitazione del comico, quasi fosse un vanto. Notate il cor-tocircuito semantico?Berlusconi non si vantò di Daniele Luttazzi, non ne riprese le battute, non gli strinse la mano: lo cacciò dalla Rai. L’unico modo che il Po-tere ha di chiudere una partita che non può vincere, è quello di pren-dere il pallone e portarselo via.Si prenda invece il leader del Parti-to Democratico, Pierluigi Bersani, giunto a imitare l’imitatore che lo imita, a casa dell’imitatore, sul pal-

co dell’imitatore, con l’imitatore, presunto eversivo. Certificando, lui rappresentante del Potere, la totale innocuità insita nella pur apprezza-bile verve del suo presunto carnefi-ce. Il cui prodotto, stretto in cotan-to abbraccio mortale, non può dirsi Satira, mancando il presupposto basilare della stessa: l’incomunica-bilità, refrattaria al compromesso, fra satirico e istituzioni.

Al netto del talento, Crozza non fa un’operazione dissimile dai Mar-tufello (potesse leggerci, Scalfari replicherebbe con un editoriale di 23.000 battute; spazi esclusi).“Biberon”, 1988. Giulio Andre-otti, condannato per associazione mafiosa accertata fino al 1980 – al-meno –, presenzia al Bagaglino di fianco al suo imitatore Oreste Lio-nello (nel frattempo, lui sì, defun-to). E se la ride, assieme al giullare di corte. La notate, la somiglianza? O Bersani è troppo una brava per-sona mentre Andreotti non è una brava persona quindi Lionello è mero cortigiano e Crozza no?Prendiamo Corrado Guzzanti. Ri-spetto all’epurato per eccellenza, ha il pregio di non aver mai rubato battute, e di saper vivisezionare il reale col grissino; diversamente da Crozza, poi, non imita, bensì rein-venta i personaggi, come Fausto Bertinotti.

L’errore che in molti fanno è con-siderare la satira di Guzzanti “più alta” di quella di Crozza. Il Berti-notti dell’uno assimilabile al Ber-sani dell’altro. No.

Essi praticano i due sport diversi di cui sopra, tutto qui. Prendendo per assodato l’assioma “Forma è contenuto”, beh, tra i due non c’è assolutamente storia.Crozza prende gli slogan di Bersa-ni, ci mette un po’ di assurdo e li ri-propone in veste comica, ma sem-pre in forma di slogan, di leit-mo-tiv, di frase da robottini: tra un “non siam mica qui…” e l’altro non c’è neanche lo spazio per riflettere. Il monologo di Guzzanti – Bertinotti (come peraltro i primi 40 minuti di Fascisti su Marte) è puro genio, ma anche cultura, cesello, perfezione artigiana: è un grande cerchio che si chiude: nel mezzo ci sono una marea di riflessioni possibili, che Guzzanti concede: è nel cervello, e solo lì, che il misunderstanding diabolicamente architettato dal Po-tere potrà trovare una morte salvifi-ca per tutti. Occorre capirlo, o non si esce vivi dal berlusconismo.

Non è la satiradi Giorgio Vitellorini

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V

Storia di profili e forme di un'identità abitata dal tempo, raccontata dalla luce, animata dal silenzio.

Pradaval di Alberto Zanardo

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VI

Un libro molto forte, o un film incredibilmente vicino?di Elisa Kiraz

“C’è stato un bip. Poi la voce di papà. Ci sei? Ci sei? Ci sei?Lui aveva bisogno di me e io non riuscivo ad alzare la cor-netta. Non ci riuscivo. Non ce la facevo. Lo ha domandato undici volte. Lo so, perché le ho contate. Perché continuava a chiederlo? Aspettava che qual-cuno tornasse a casa? E perché non chiedeva ‘C’è qualcuno?’. ‘Ci sei?’ vuol dire una persona sola. A volte penso che sapeva che ero lì. In sottofondo si sen-te la gente che urla e piange. E poi rumore di vetri che si rom-pono, ed è anche per questo che mi chiedo se stavano saltando giù.Ho calcolato il tempo del mes-saggio, ed è un minuto e venti-sette secondi. Questo significa che è finito alle 10.28. Che è l’ora in cui la torre è caduta. Forse è così che è morto, allo-ra.”

Oskar Schell, poco più che un bambino, amante delle inven-zioni racconta in prima perso-na quel periodo buio della sua vita, cambiata radicalmente dal “giorno più brutto”, ovvero la morte di suo padre. Con l’in-nocenza dei suoi nove anni e un’incredibile forza d’animo intraprende un viaggio alla ri-cerca di un qualcosa da aprire con la chiave che ha trovato nell’armadio del padre dopo la sua scomparsa. In questo viaggio scoprirà che qualcu-

no gli era sempre stato vicino senza che lui lo sapesse, aiuterà sua madre ad affrontare il dolore, e troverà qualcosa che non sapeva di cercare, solamente creden-doci fino alla fine. I n f r a m m e z z a t a dalle lettere dei nonni che ricor-dano l’infanzia a Dresda, la guerra e la loro vita, la nar-razione non smette mai di intrattenere il lettore, facen-dolo naufragare in situazioni inaspet-tate, e lasciandolo talvolta alla deriva negli spazi bian-chi della propria i m m a g i n a z i o n e .

Il racconto è arricchito da de-scrizioni e aneddoti che scivo-lano via velocemente durante la lettura, permeata da un sottile filo d’ironia. Sebbene la storia ripresenti nel contesto l’attacco terroristico, il lettore non vie-ne ripetutamente travolto dalla vicenda, ma è portato piuttosto a considerare il tutto come una presa di coscienza, un non vo-ler ricordare ma un non poter dimenticare. Chi legge impara inoltre a vedere le cose attra-verso gli occhi del bambino e si ritrova a pensare come lui, stu-pendosi di tutto e chiedendosi il perché di ogni cosa, con sem-plice puerile ingenuità. Foto, parole scarabocchiate, numeri, disegni, pagine totalmente in-tonse, non sono altro che pic-coli particolari che si possono cogliere anche solo sfogliando

il libro, nella semplice attesa di un’emozionante lettura.

Dopo Ogni cosa è illumina-ta pubblicato nel 2002, Molto forte, incredibilmente vicino (2005) è il secondo romanzo di Jonathan Safran Foer, scrittore e saggista statunitense classe 1977. Egli arriva incredibil-mente vicino al cuore dei suoi lettori utilizzando uno scenario molto forte come quello della New York dopo l’11 settembre 2001.

Appena sei anni dopo questo romanzo, esce nelle sale cine-matografiche l’omonimo film diretto da Stephen Daldry e in-terpretato da due premi Oscar del calibro di Tom Hanks e Sandra Bullock nel ruolo dei genitori del bambino protago-nista, recitato magistralmen-te dall’allora quattordicenne Thomas Horn. Il cast se la cava alla perfezione e l’adolescente al centro della vicenda guida il film egregiamente, riuscendo ad emozionare anche il cinefilo più critico. Se proprio dovessi trovare qualche difetto, rileve-rei in primo luogo la lentezza di alcune scene che non rispec-chia il carattere incalzante del libro: lo spettatore, infatti, si trova davanti alla cruda rievo-cazione dell’attacco terroristi-co, al dramma del protagoni-sta e ai flashback prima della catastrofe in uno spazio forse anche troppo ridotto, che arri-va dritto al cuore e non lascia nemmeno il tempo per pensare. Tecnica senz’altro efficace, ma che esaurisce ben presto la sua carica emotiva e che si trova a dover fare i conti con un’atten-zione dello spettatore sempre

più rarefatta. In secondo luogo criticherei l’insistenza con cui il regista ripropone l’attentato alle Twin Towers, come se ci fosse il bisogno di ricordare costantemente qualcosa che il mondo difficilmente potrà di-menticare. A mio parere Foer nel suo libro vuole invece usare solo marginalmente l’evento, come per condire la narrazione e fare in modo che i suoi letto-ri si orientino con più facilità all’interno del racconto; al con-trario nel film sembra che l’11 settembre sia il perno attorno a cui gira la storia, facendo pas-sare leggermente in secondo piano Oskar e la sua avventura. Oltretutto le magnifiche descri-zioni del testo vanno purtrop-po perdute, una volta messe in scena, com’è inevitabile, e gran parte delle vicende non sono rappresentate, forse anche per questioni di tempo.La domanda a questo punto sorge spontanea: si può davve-ro costruire un film fedele in tutto e per tutto al libro? O è solo un’utopia gettata in pasto ai critici?

Personalmente credo sia un’im-presa difficile ma non impossi-bile e che la bravura di un gran-de regista stia proprio nell’ac-cettare la sfida e cavarsela al meglio laddove altri hanno fal-lito. Senza contare che anche e soprattutto l’interpretazione del testo determina la riuscita o meno dell’esperimento. Ma “tra il dire e il fare c’è di mez-zo il mare”, recita un vecchio detto popolare, e Stephen Dal-dry questa volta avrebbe potuto decisamente fare di più.

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VII

inserto letterario

Terza Pagina

Rinnego tutto

E non rimpiango niente.Subito mi sovviene alla mente ciò che è stato e

Ciò che non (lo è stato)

Sovente le cose mi appaiono grigie, prive di senso.Un colore amaro intenso.

Matteo Mascarin

Quel bagliore pavido di luce trasecolaal passante tradito dal passo:

sbuca. S’atterrì. Va arretrandoall’autobùs che marcia da tabella

ma un’ombra tralascia rifinita tutta;da cui non sfila l’evasione via

dal corso delle cosearchitettante.

Angelo da Baciocchi

Inverno di puzzola,alcuna farfalla;seduta a cavalcioni di un’orchidea giallaguardo il tramonto sorridente:sono ancora sola,ma per poco

L’ala del cignosi sgrana aprendosi:basta un battito d’ali e...il volo è in alto tra cime di nuvole grige

in tempesta

Fedra

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Sei rinchiuso nel bunker da circa sei ore: cibo in scatola, riviste. La lampadina penzola dal soffitto, oscilla, significa che ne è scoppiata un'altra. E se scoreggi ti beccano subito perché siete solo in due. Non pensavi di annoiarti, anche se sapevi ci sarebbe stato da aspettare. Scandisci le parole come i secondi. Ma contare i secondi allunga il tempo. Perciò, stai zitto.

Sei stato seduto per tre ore di fronte al tuo compagno, non ne puoi più di vedere la sua capigliatura. Pensa ad altro. Ti viene in mente che non hai ancora comprato il regalo di compleanno a tuo figlio. Ma tu non hai un figlio. Pensi che se ne avessi uno ti dimenticheresti del suo compleanno. Come padre sei un disastro, non fare figli. Hai fame, e nella fretta della fuga hai afferrato solo un pacco di cracker. Non li mangiare, ti potrebbero servire se le cose non si risolvessero in fretta là fuori.

Da quando siete entrati il tuo compagno è rimasto immobile. Probabilmente si è addormentato, ma non ti azzardi a scoreggiare perché hai paura di svegliarlo, e qualunque scusa non sarebbe convincente: non ti è caduto il cacciavite, non era il rumore del cuscino e non l’hai fatto con la bocca. Se scoreggi lo si capisce. E sai che scena poi, quando dovete starvene lì dentro per chissà quanto tempo, non lo puoi guardare negli occhi, non puoi parlare con nessun altro e, cosa ben peggiore, non puoi scaricare la colpa. D'altronde sarebbe difficile convincerlo che è stato proprio lui a scoreggiare nel sonno, che ad un certo punto l'hai visto dondolare sul fianco destro, e che ti è venuto da ridere ma in fondo capisci che è naturale, che fra uomini non ci sono problemi, anzi, già che ci sei, per toglierlo dall'imbarazzo, ne fai una anche tu. L'unica cosa che ti resta da fare è tentare di far coincidere la scoreggia con lo scoppio delle bombe, e fingere che nel buco in cui ti ritrovi si possano sentire i rumori esterni. Capisci che è difficile sia operare in maniera sincronica con i militari che sparano là fuori, sia convincere il tuo compagno che a due metri sotto terra, sepolti da pareti di cemento spesse cinquanta centimetri, possa filtrare anche il minimo suono. Guardi il tuo compagno per un po’, la testa gli ciondola in avanti, ti aspetteresti un movimento ma… niente, quello se ne sta fermo immobile, sembra quasi che non respiri. Il tuo primo pensiero è quello che adesso sei veramente solo, puoi scoreggiare se ti va, ma sarebbe bello anche non farlo per sfruttare una di quelle rare occasioni di tirare uno schiaffo alla fortuna. Tanto sei rinchiuso. Se accetti il rischio di essere scoperto puoi scoreggiare quando vuoi, tenerla per un po’ come trattenere il respiro. Chissà dov’è il mondo esterno. Fuori? Con tutto quello che sta succedendo lassù non ne sei poi così sicuro. Ti senti molto solo. Tenti di distrarti, chi se ne frega della fame, ti alzi dalla panca, apri e rovesci sul pavimento tutti i pacchetti di cracker che hai a disposizione; ci fai un castello di carte, cioè di cracker, fissi con precisione le travi biscottate. Le briciole alla base sembrano un’erbetta croccante, immagini di camminarci sopra e di sentire rumori di ossa rotte sotto le suole, con la stessa soddisfazione feticista di scoppiare le bolle della carta da imballaggio. Ma ti senti molto solo. Reagisci con rabbia, ti viene da bestemmiare e

urlare, la faccia ti diventa rossa e tesa, afferri il castello ai lati e premi, schiacciandolo finché i palmi delle mani non si toccano, e poi ti sfili una scarpa, la afferri per la punta e batti con il tacco a mitraglia sui residui, batti e bestemmi, lì nel bunker con un compagno il cui silenzio ti fa sentire veramente solo, e gli rivolgi occhiate furiose perché che diritto ha lui di starsene zitto a dormire mentre tu sei solo, e non puoi nemmeno scoreggiare perché sei educato e finché sei in presenza di altre persone non ti permetteresti mai, e pensi a tuo padre che ti tira uno schiaffo e ti dice che non si fa, e allora batti e bestemmi ancora più forte sperando che il tuo compagno si muova, ma quello non si muove, cazzo, forse è morto, il braccio gli è scivolato dalla pancia e si è messo a penzolare come un lampadario. Allora ti calmi.

Pensi che se lui fosse morto, e ammettiamolo, non te ne fregherebbe poi molto, saresti finalmente libero di esprimerti. Nel caso non lo fosse, dopo tutto ci ragioni e capisci che non è solo aria, è qualcosa di più, non è più questione di dolorini e crampi, non solo di dar sfogo a un’imbarazzante funzione fisiologica, ma di liberarsi il basso ventre, che notoriamente è il tuo centro di accumulazione dello stress, e sfogare un impulso più alto e profondo che viene dalla coscienza. Da dentro. Se lui non fosse morto, saresti ugualmente autorizzato a sparare. E allora si fotta l’educazione, non te ne frega niente di essere volgare, sii volgare! Te la mollo in faccia pensi, te la faccio pagare per tutto quanto, e ti prepari per quella che in linguaggio medico è detta una scoreggia esistenziale. Dopo aver ingoiato rospi per tutta la vita prova ad immaginare cosa può venirne fuori. Ti abbassi, contrai l’addome, ruoti le pupille verso l’alto e chiudi gli occhi in preda all’estasi, conti: tre! E sparisce la città che chiude tutte le sue luci contemporaneamente, e le bombe che ogni tanto le riaccendono, e la guerra. Due! Sparisce la lampadina, il bunker, tuo padre, severo come un cipresso, e con lui le regole si impastano ai vestiti e se ne vanno, e resti nudo delle tue convenzioni. Finalmente anche la solitudine ti ha lasciato solo. Uno...

Senti un fruscio provenire dalla parete di fronte. Ti irrigidisci. Nelle labbra ti si materializza un no, per dio, fa che non sia lui mentre tutto ciò che era scomparso torna prepotentemente ad incomberti addosso. Apri gli occhi, la testa del tuo compagno si è sollevata di pochissimo, quanto basta per farti sospettare che sia ancora vivo. No eh, adesso ti arrabbi sul serio, ti alzi e gli urli che è un falso, che non è giusto, che non si fa, e che poteva restarsene a fare il morto, un po’ di educazione. Poi nella foga della rabbia che ti sta facendo vorticare lo stomaco, vedi un bastone appoggiato nell’angolo. Ci pensi. Pochissimo. Sei tu la vittima di tutto questo, non è giusto che tu debba trattenere una così grossa e dolorosa incombenza solo per colpa di questo tizio che nemmeno conosci e che, trovato steso a terra, hai deciso di portare in salvo. Non può lamentarsi: senza di te sarebbe morto, se adesso gli aprissi la testa ristabiliresti l’ordine naturale delle cose; e lo farai, perché trattenere una scoreggia è fastidioso, più della solitudine.

La libertà

Piero Rosso

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XI

La rosa di SarajevoTorna oggi un cappello di paglia(forse son io che voglio farlo tornare)a sparpagliare il soleper dirmi semplicemente: fu.

… ma Sarajevo è lontana, mia rosa,talmente lontana,lontani i suoi crivellii suoi stracci di case, le sue vitespensierate e divertitefra scampoli notturnied io, poi, che ne so?

Qui dove il mare batte implacabile,scalfisce il molo e la città sprofondaio che ne sodi come filtra il sole oggifra le nubi di un’Inghilterrache un tempo fu terra promessa?

Oggi se mi sparpaglio anch’iofra innumerevoli vite, piazze, palazzi, viesento battere un rimorsoe un ronzìo affaticatoa elidere gli attimie caracollarmi in mezzo a stradee deserti della memoria.

Due occhi chiari, una parvenzadi danza,un ciuffo di grano

- ma che ne so, poi, per davvero? -

fu qualche cosa sì,un gioco innocente, un sussurro,un bicchiere di kruška

ed un altro

ed un altro ancora

ed acqua che scivola lentache scorre nella gola seccalimpida e frescae sudoree puzzo di giovinezza e mozziconidi tenerezza

Acqua che lavaed anche il ricordo lava

Sul terrazzo fiorisce una rosanel suo incomprensibile complesso.

Ettore Spada

Esco di notte

parlo col buio

Hello darkness my old friend

I’ve come to talk with you again

Le tenebre premono

le tenebre rivestono

ogni cosa è ammantata

di materia densa

E in questa nuova dimensione

dove il frastuono del giorno lascia spazio

alla vastità vellutata

Liberi i moti dell’animo escono,

turbinano e si fondono

con l’oscurità.

Maddalena Zupin

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X

Matteo Mascarin

Martedì

Una mattina come le altre, in ritardo come le altre. Il suono della sveglia invade fastidiosamente il sonno profondo e la posticipo fino all’impossibile. Caffè al volo e subito in macchina ad infilarmi nel traffico infernale. La vicina saluta con la mano non ho il tempo per rispondere, mai. Questa diamine di superstrada è sempre maledettamente intasata, di questo passo anche oggi arriverò tardi al lavoro. Il suono dei clacson è assordante, mi inserisco anche io in questa anomala orchestra, assolo da far paura. E spostati! E impara a guidare! Non è possibile andare avanti così, domani piazzo una bomba. Dopo la solita ora nel traffico riesco a raggiungere la fermata della metro che ogni giorno mi porta in città, una volta arrivato sarà il turno dell’autobus che è regolarmente in ritardo. Ho pensato centinaia di volte di andare ad abitare in centro ma preferisco vivere in periferia e fare ogni mattina la solita ora e mezza di strada per arrivare in ufficio. La stazione della metro è piena zeppa di gente, i soliti barboni abbandonati sul ciglio del sottopasso che ancora dormono, beati loro, altro che. Il mio treno arriva tra 2 minuti e se non mi sbrigo rischio di perderlo, sorpasso una mamma con passeggino e due ragaz-ze estremamente impedite col biglietto per l’ingresso ai binari Veloci! Veloci!. Qualcuno urla il mio nome, non mi giro, non ho intenzione di perdere il treno per nessun motivo al mondo, nemmeno fosse il Presidente degli Stati Uniti in persona. Arrivo sui binari e lo prendo per un soffio, mi sento a disagio in mezzo alla gente che si appoggia su di me per non perdere l’equilibrio. Il monitor passa le previsio-ni del tempo, anche oggi una giornata di sole. Sono più felice nelle giornate serene, odio solo l’idea di uscire di casa con l’ombrello, ingombra. Un uomo sulla quarantina, decisamente single, sta consuman-do in piedi una ciambella al cioccolato che imbratta indecentemente il suo volto. Sembra contento. Io non riuscirei mai e poi mai a consumare un pasto qualunque in piedi, in metro per lo più. Proprio accanto a me c’è un ragazzo con le cuffie più grandi delle sue orecchie e della testa messe insieme, vo-lume assordante e sguardo inebetito. Riesco perfettamente a sentire la musica che sta ascoltando e mi irrita molto. Smettila, smettila!. Le porte si aprono e la gente sguscia fuori come topi affamati, se non sto attento sono buoni di calpestarmi questi qua! Faccio lo slalom tra decine di individui tutti intenti a pensare ai fatti loro, migliaia di pensieri che viaggiano alla velocità della luce e si intrecciano tra loro, si scontrano e stridono e volteggiano incrociandosi. Un ragazzo con lo sguardo basso mi tira uno spin-tone degno di un giocatore di Football, se fossi un po’ più giovane gli mostrerei io come si placa a do-vere. Uscendo dalla metro vengo assalito dai profumi della Grande Mela, i chioschi ai lati delle strade, lo smog del traffico intenso, il caffè del bar all’angolo. Il semaforo pedonale si colora di giallo e poi di rosso e, come per magia, tutti quanti si bloccano all’istante. Nessuno ti guarda in faccia qui, sei un numero, uno dei tanti. La tua persona è vista in funzione alla tua capacità di produrre, smetti di essere funzionale, smetti di essere una persona. Tutto questo però è affascinante, scatta il verde e tutti di nuo-vo in marcia, come burattini guidati dall’alto degli immensi grattacieli, che si stagliano sopra di noi e ci proteggono. Una volta lessi in un libro che gli esseri umani non guardano mai in alto quando cam-minano. È divertente poter cambiare punto di vista, tutto si sdrammatizza, come guardare uno spetta-colo in galleria. Oggi l’autobus per fortuna è puntuale e dopo la solita sgomitata per salirci sopra, sono ormai quasi giunto in ufficio. Il sole inizia timidamente a fare capolino tra i giganti di cemento e l’aria è azzurra e grigia. Difficile incontrare una giornata completamente limpida qui, immersi nello smog. Scendo dall’autobus e mi tuffo nella miriade di persone che affollano il World Trade Center la mattina. Entro nel palazzo settentrionale delle Twin Towers in cui lavoro, i monitor all’ingresso confermano quello che già avevo letto su quelli nella metro, oggi, Martedì 11 Settembre, sole.

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XI

Più pirati! L’isola del tesoro di Robert Louis Stevensondi Omar Longo

“L’isola del tesoro: una lettura, aveva detto qualcuno, che era quanto di più si poteva assomigliare alla felicità.”

L. Sciascia, Il cavaliere e la morte.

Avviso ai naviganti: L’isola del tesoro viene scritta in pochi mesi alla fine del 1881 e pubblicata a puntate in un giornale per ragazzi nello stesso anno e nel corso dell’anno seguente. Ste-venson concepisce l’idea dell’opera durante uno dei consueti giochi col dodicenne Lloyd Osbourne, figlio della moglie. In una di queste occa-sioni aveva disegnato una mappa immaginaria di un’isola che nascon-deva un tesoro. Perdendo lo sguardo nel foglio, Stevenson aveva scorto bucanieri nascosti nella foresta, navi alla fonda in piccole baie cristalline e gentiluomini inglesi pronti a issare la Union Jack all’interno di un fortino. Aveva osservato con attenzione Jim Hawkins nelle sue peregrinazioni portarsi a spasso la curiosità di lettori più o meno giovani. Aveva gioito nel notare che il cattivo della storia, Long John Silver, fosse un antagonista ati-pico, capace nello stesso tempo di aiutare Jim e di volerlo vedere mar-cire sul bagnasciuga. L’occhio dello scrittore si era compiaciuto della sua creatura delineata a tuttotondo: il male e il bene non sono mai assoluti ma si accompagnano e si compene-

trano fino a confondersi.Emerge nel pirata il tema del doppio, che Stevenson approfondisce in altri racconti come in Markheim e ne Lo strano caso del dr. Jekyll e mr. Hyde o ne Il Master di Ballantrae, romanzo nel quale il doppio si scinde in una coppia di fratelli in lotta. Long John Silver è il vero protagonista dell’intreccio grazie alla sua complessità psicolo-gica. Il pirata si è ricavato un angolo nell’immaginazione di ogni lettore e in quell’angolo continua a bere rum. La luna disegna i profili delle nuvole basse sopra il buio di un oceano che osserva gli scafi arenati dei pescatori. Ondeggia come un mare nero la colli-na erbosa ancorata in prossimità delle dune. Attorno ai pontili deserti taccio-no nella foschia le bettole del porto.«Del rum, dell’altro ruuum». Una voce proveniente da abissi guttura-li risveglia il locandiere. Il lupo di mare osserva il liquore scivolare nel bicchiere. Era alto di corporatura e robusto, con una faccia larga come un prosciutto, scialba e volgare, ma rischiarata da un intelligente sorriso. «Lascia qui il rum». Le mani rugose del marinaio soffocano il collo della bottiglia mentre l’avvicina alle labbra riarse. Gocce di liquore si perdono tra i peli bisunti della barba. L’uomo pic-chia nervosamente la gruccia di legno sulle assi del pavimento. Il picchiet-tio si fa ritmato col calore dell’alcool

che scende nella gola. Da una panca vicina una voce bisbiglia: «Quindici uomini sulla cassa del morto, yo-ho-ho e una bottiglia di rum». Long John Silver arresta il picchiettio. La voce tace.

Navigano i pensieri nelle notti si-lenziose, come acciughe in fuga dall’alalunga. La mente del marina-io naufraga tra vecchi mondi ormai sommersi e nuovi atolli tanto incan-tevoli quanto inospitali. È l’anno di grazia 17... I navigatori europei hanno assaggiato l’orizzonte di tutti i paesi. La cartografia acquerella con entusiasmo le ultime distese bianche delle mappe. Il globo è diventato sempre più misurabile e stretto. La gioia delle scorribande pende dai pa-tiboli delle basi commerciali inglesi. Long John Silver carica la pipa con gesti automatici. Che ne sarà della pirateria – pensa – se anche un ra-gazzo come Jim è stato in grado di rovinarci? Un altro sorso di rum ba-gna le sue riflessioni. Jim, Jim, tanta fatica per toglierci la ricompensa di una vita dannata. E cosa ne hai fatto dei dobloni? Scommetto la gamba buona che ora vivi in una città lon-tana dal mare e dai tuoi sogni di ra-gazzo. Se almeno avessi aperto una locanda, toglieresti la sete a qualche spugna come me. Se ti è andata male sei diventato una canaglia d’avvocato

dall’animo nero come le toghe che portano. O magari hai aperto una ti-pografia, figlio d’un cane, così puoi insegnare ai quei mollaccioni dei tuoi amici inglesi a cercare le avventure una parola alla volta, senza mai spor-care i calzoni. Maledetti signorini! Ci avete tolto il gusto di fare i pirati. E che saranno mai due navi affondate e un equipaggio che balla sull’asse! I vapori del rum si diradano dalla men-te del marinaio. Long John Silver di-stoglie lo sguardo dalla crepa sul muro che assorto fissava. Lentamente fruga in una tasca estraendo una pergamena malconcia. Con la destra libera il ta-volo facendo rotolare a terra la botti-glia vuota in un gesto di ebbra teatrali-tà. Con l’acciarino ravviva i resti di un moccolo avvicinandolo al foglio. La mappa. Un’isola, una baia, una mon-tagna, un grande albero e una croce. Ecco tutto ciò che mi rimane del te-soro. Tutto il resto me lo sono bevuto. «Brindo alla tua, ragazzo». Si rischia-ra il volto del marinaio al pensiero del tesoro. Che cosa sarà mai un tesoro? Giusto qualche bevuta prima di ri-partire. La ricchezza che sta all’altro capo dell’avventura è il modo più veloce per convincere un pugno di ta-gliagole a salpare senza tante storie. Il viaggio si paga da sé. Beviamo e non pensiamoci più, domani si salpa.

L’ideologia secondo Žižekdi Stefano Tieri

La filosofia non è solo trattazione sistematica, dialettica, costruzione del tutto a partire dal nulla. È anche analisi critica di quel che ci circonda, e i suoi strumenti d’indagine possono estendersi a qualsiasi aspetto sia capace di rispecchiare la no-stra vita, con le sue problematiche più o meno la-tenti. Slavoj Žižek, filosofo ‘pop’ (la definizione la si deve proprio alla sua propensione ad affrontare la filosofia in modo tutt’altro che ‘tradizionale’) è autore di un film-documentario, presentato al To-rino Film Festival, dal titolo The Pervert’s Guide to Ideology. Non è la prima volta che il filosofo sloveno si avvale – per esprimere le sue idee – del grande schermo, strumento così inusuale per la filosofia: già nel 2006, per la regia di Sophie Fien-nes (il cui ruolo è rimasto il medesimo in questo nuovo lavoro), aveva scritto e ‘recitato’ The Per-vert’s Guide to Cinema.L’oggetto d’analisi è stato allora – come sugge-risce lo stesso titolo – il cinema. Questa volta la riflessione riguarda, più in esteso, l’ideologia che ci circonda e che permea le nostre vite senza che ce ne possiamo, il più delle volte, rendere conto; la componente del cinema però resta, e anzi costi-tuisce il mezzo principale attraverso cui il filosofo la ‘smaschera’.Che cos’è l’ideologia? Ha qualcosa a che fare con i sogni che plasmano le nostre credenze e prati-che collettive. Come scrive lo stesso Žižek in The sublime object of ideology, l’ideologia è qualcosa che deve essere ricercata nella pratica quotidiana,

piuttosto che nelle nostre opinioni o convinzio-ni, specie se consapevoli. Riguarda il desiderio e l’inconscio, non tanto le idee che riteniamo essere costitutive della nostra persona. Il cinema – nello specifico quello dei film cult, che con il loro glo-bale ed esteso successo hanno formato l’immagi-nario collettivo – si dimostra essere uno specchio quanto mai efficace per percepire e definire me-glio questo genere di desiderî inconsapevoli: se siamo, come ha affermato Debord, nella “società dello spettacolo”, è proprio nello spettacolo inteso come tale che possiamo trovare una valida chiave di lettura della nostra società – e, quindi, della sua ideologia.Žižek si immerge in questi film (lo fa letteralmen-te: mettendo in scena il suo discorso nelle ambien-tazioni stesse dove si svolgono le scene di volta in volta analizzate, travestendosi dal personaggio centrale della situazione) e, una volta collocatosi al loro interno, li decostruisce, facendone emerge-re aspetti ad un primo sguardo ‘invisibili’.L’effetto estraniante provocato dal vedere Žižek nei panni, di volta in volta, dei personaggi di Arancia Meccanica, di Full Metal Jacket, di Taxi Driver, de La Caduta di Berlino, di Essi Vivono,... è via via attenuato una volta entrati nel suo discor-so, di cui comincia ad emergere il filo unitario. Inizialmente il percorso tracciato dal fisolofo può essere difficile da seguire: numerosi sono i salti da un film all’altro, e gli accostamenti in un pri-mo momento possono apparire eccessivamente

arbitrarî. Niente di nuovo per chi abbia mai letto qualcosa di Žižek: nei suoi testi è spesso difficile individuare la tesi, dal momento che l’argomenta-zione è spesso portata avanti per balzi intuitivi e non secondo una rigorosa trattazione logica (non a caso qualcuno ha definito la sua scrittura “cine-matografica”).

Tornando all’analisi di Žižek, qual è la nostra si-tuazione oggi? Non ci viene più richiesto di sacri-ficare le nostre vite all’altare di un’ideologia, ep-pure rimaniamo comunque vincolati (il più delle volte a nostra insaputa) all’interno di un’ideologia – quella consumista – che ci rende “soggetti di piacere”: ci chiedono di godere (basti pensare allo slogan pubblicitario della Coca Cola – “enjoy!”), e questo godimento è diventato il nostro nuovo dovere. Siamo obbligati a godere, di conseguenza se non consumiamo abbastanza cadiamo nella più cupa depressione, poiché siamo convinti di non averne approfittato – goduto – a sufficienza.

Come liberarci, allora, dalla schiavitù di quest’ide-ologia dominante? Dobbiamo diventare coscienti che i nostri desiderî non agiscono (proprio perché ‘nostri’) al di fuori di noi, bensì con la nostra ac-condiscendenza e collaborazione: “Noi non siamo semplicemente sottomessi ai nostri sogni […]. I sogni mettono in scena i nostri desiderî, i quali non sono fatti oggettivi: siamo stati noi a crearli, a so-stenerli, e di loro siamo responsabili”.

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XII

Narciso e Medusa: lo sguardo creatore e lo sguardo pietrificantedi Stefania Damiani

L’idea del Panopticon nasce, nel 1787, nella mente del padre dell’u-tilitarismo classico, Jeremy Ben-tham, come “una semplice idea architettonica” capace di attuare grandi progressi: “La morale rifor-mata, la salute preservata, l’indu-stria rinvigorita, l’istruzione diffu-sa, le cariche pubbliche alleggerite, l’economia stabile come su di una roccia, il nodo gordiano delle leggi d’assistenza pubblica non tagliato, ma sciolto – tutto questo con una semplice idea architettonica.”1

Già Bentham sembra intuire qual è la vera posta in gioco del Panopti-con, analizzata poi in tutta la sua portata da Foucault, quando af-ferma che esso può divenire “un nuovo modo di ottenere il dominio della mente sopra un’altra mente”.2 Lo sguardo del sorvegliante è pe-rennemente presente a controllare, giudicare e punire: questo sguardo che sorveglia (molto) e punisce (poco) crea nei carcerati una nuo-va “coscienza”, rendendoli uomi-ni che non solo non compiono il male, ma che non vogliono (o non possono) più compierlo.Bentham stesso aveva rilevato come lo sguardo del sorvegliante, nonostante dovesse essere effet-tivamente presente nella maggior parte del tempo, potesse essere tuttavia una semplice supposizione da parte dei carcerati. Non impor-ta che l’occhio del sorvegliante sia

sempre rivolto verso i detenuti, ciò che è importante è che i carcerati lo ritengano tale.Foucault attua il passo successi-vo: lo sguardo del sorvegliante non esiste. La terribile realtà del Panopticon consiste nel fatto che esso funziona anche quando nella torretta non c’è nessuno. Lo sguar-do diventa incorporeo ma ottiene concreti effetti di potere.Quello che Foucault ci dice è che questi effetti di potere sono nien-temeno che la creazione della soggettività, dell’interiorità degli individui: nella società discipli-nare la soggettività dell’uomo è creata a partire dalle discipline in cui è immerso: la sorveglianza, la confessione, la medicalizzazione, creano quel soggetto che è invece convinto di rivolgere loro la pro-prio interiorità pre-esistente. Ma lo sguardo del Panopticon è davvero uno sguardo che soggetti-vizza? E’ quindi uno sguardo cre-ativo, che crea l’interiorità degli individui allo stesso modo della confessione?Il Panopticon è indubitabilmente un dispositivo di individualizza-zione: “tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualiz-zabile e costantemente visibile”.3 Eppure in Sorvegliare e Punire Foucault parla di silhouettes4 che il sorvegliante vede dalla torre cen-

trale; questo più che a un soggetto la cui interiorità viene continua-mente creata, fa pensare ad un ma-nichino a cui si chiede solamente una conformità esteriore alle rego-le cui è sottoposto. Lo sguardo del Panopticon sarebbe in questo caso medusizzante, più che creativo, uno sguardo coerciti-vo, che controlla il comportamento senza poter entrare nell’ “anima”.Eppure, nel passaggio dalla sor-veglianza all’autosorveglianza è inevitabilmente in atto un forte processo di soggettivazione: viene creato un soggetto capace di au-tocoercizione, di autocontrollo, di autodisciplina. Lo sguardo del Panopticon è cre-ativo, in quanto crea una sogget-tività, ma pietrifica in quella crea-zione, i detenuti non potranno mai essere altro da quello.

I detenuti del Panopticon possono rendersi conto che nella torretta che li sovrasta non c’è nessuno? Se scoprissero l’inesistenza del sorvegliante, se si accorgessero che il posto di dio è vuoto, cosa ac-cadrebbe? Forse si accorgerebbero che in quel posto non ci sono che loro stessi: nessuno li sorveglia, semplicemente si auto-sorveglia-no.Possono allora liberarsi dallo sguardo medusizzante che, sorve-gliando ogni loro comportamento, li crea a suo piacere, pietrificandoli in determinate soggettività?Se il sorvegliante non esiste, l’oc-chio di Medusa perde ogni pote-re di pietrificazione, e il proprio sguardo su se stessi può davvero divenire creativo.Ma il detenuto può davvero oc-cupare il posto del sorvegliante e guardarsi continuamente, creando-si? Non diviene questo uno sguar-do puramente narcisistico, e quin-di in qualche modo nuovamente pietrificante, in quanto rinchiude il soggetto in un gioco solipsistico con la propria immagine? Lacan insegna che l’immagine unitaria che lo specchio ci riflette è un’immagine con un alto pote-re di fascinazione ma, per quanto necessaria, totalmente illusoria, catturante, e per questo pericolo-sa. Io-nello-specchio sono sempre fasullo, perché appaio come un’u-nità laddove invece non sono che scissione e mancanza. L’uomo che rimane catturato nella propria im-magine allo specchio è condannato alla stessa sorte di Narciso, condan-nato alla perdita di sé, alla follia.

Come ricorda Paolo Gambazzi,5 in Ovidio l’oracolo annuncia che l’unica possibilità di salvezza per Narciso è quella di non conoscersi. Ma in realtà, sottolinea Gambazzi, Narciso non si perde nel momen-to in cui vede la propria immagine riflessa; Narciso “si perde perché incontrandosi non si vede”6. Nello specchio ti crei, si, ma ti crei in un’unità che tu non sei.Il vero sguardo creativo deve quin-di passare attraverso lo sguardo dell’altro, che non può quindi essere lo sguardo pietrificante di Sartre, del passante che sorprende il voyeur abbassato verso il buco della serratura.

Sebbene l’idea benthamiana, che un solo sguardo possa rendere vir-tuosi, sia un’illusione tipica dell’il-luminismo, la funzione deterrente e di coercizione dello sguardo è evidenziata molto bene da Sartre quando spiega come lo sguardo altrui ci pietrifichi nella vergogna, perché ci rende oggetto per un soggetto che noi non siamo. Lo sguardo altrui non è però neces-sariamente legato ad un soggetto esistente, può rivelarsi da un fru-sciare di foglie, o da un rumore di passi, dalla scatoletta di sardine di Lacan o dalla montagna del pittore di Merleau-Ponty.Quello che Foucault sembra non tenere presente è questa “schisi tra occhio e sguardo”: non è necessa-rio che ci sia un occhio che guarda, perché vi sia uno sguardo.L’occhio del sorvegliante non ti guarda, perché nella torretta il sor-vegliante non c’è, ma questo non significa che tu non sia guardato: è la torretta stessa che ti guarda.In questo senso Merleau-Ponty parla di uno sguardo della “carne del mondo”, in cui l’uomo è im-merso, di uno sguardo che precede il nostro, di uno sguardo del mon-do che avvolge ogni cosa, e di cui l’uomo non è che una protuberan-za; lo sguardo dell’uomo emerge da questo sguardo onniavvolgente, non come uno sguardo soggettivo che si pone di fronte all’oggetto-mondo, ma come un oggetto tra gli oggetti, uno sguardo tra gli sguar-di, è uno “sguardo che non provie-ne da nessun luogo e che quindi mi avvolge da ogni parte”7, per cui il pittore può dire che mentre dipinge la montagna è la montagna che lo guarda. I due termini della coppia sogget-to-oggetto, alla base dell’analisi di Sartre, in Merleau-Ponty non solo

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XIII

Narciso e Medusa: lo sguardo creatore e lo sguardo pietrificantedi Stefania Damiani

sono presi in un continuo rovescia-mento l’uno nell’altro, ma cadono, vengono meno, seppur in una re-versibilità che è “sempre imminen-te ma mai realizzata di fatto”.8

Io non posso vedermi vedere come non posso toccarmi toccante. Se tocco con la mia mano sinistra la mia mano destra che sta toccando un oggetto, io non sono più toc-cante, ma toccato. Ma sono toccato dal toccante, che sono sempre io. Questa circolarità rappresenta il “narcisismo fondamentale di ogni visione” per cui “il vedente, es-sendo preso in ciò che vede, vede ancora se stesso”,9 e lo può fare perché appartiene egli stesso a quella “carne del mondo” che non può contemplare da una posizione distaccata, ma in cui è completa-mente immerso.La possibilità per il soggetto di ve-dere si fonda sulla visibilità che gli preesiste: posso vedere solo perché sono visibile. Lo sguardo dell’altro (lo sguardo, in generale) è quindi qualcosa di cui non ci si può libera-re, è anzi ciò che ci costituisce. Lo sguardo dell’altro è lo spazio che il soggetto dovrà sempre abitare in quanto lo costituisce in quello che esso è per l’altro. Davanti allo sguardo dell’altro, io non posso che assumere “il mio corpo e lo sguardo altrui posto su questa esteriorità che è me”.10 L’e-steriorità che l’altro guarda, questo è quello che sono.

Nello sguardo dell’altro sono rac-chiuse entrambe le dimensioni: una dimensione creatrice, in quan-to l’altro crea un’immagine di me (un’immagine di me per l’altro), e una funzione medusizzante, in quanto quest’immagine che l’altro ha di me, io la sono. Ne sono limi-tato, la devo abitare.Al di là dello sguardo, non c’è il noumeno, c’è di nuovo lo sguardo: lo sguardo dell’altro su di te e lo sguardo di te sull’altro. L’uomo “isola la funzione dello schermo e ci gioca. L’uomo, infatti, sa usare la maschera come ciò al di là del-la quale c’è lo sguardo.”11 L’uomo può quindi giocare con le proprie immagini, con le proprie masche-re, con i propri travestimenti, non è mai “interamente preso da questa cattura immaginaria”.12

È interessante qui notare la reversi-bilità dell’espressione “farsi vede-re”: io mi faccio vedere da qualcun altro; ma anche: io divento vedere, divento sguardo. La “pulsione sco-pica” di cui parla Lacan ha infatti due dimensioni: è la pulsione a ve-dere, ma anche la pulsione a farsi vedere, è il desiderio che là fuori ci sia qualcosa da guardare, ma è anche il desiderio che ci sia qual-

cosa da guardare, per l’altro, in me (o su di me).

Ritornando quindi al Panopticon, ha forse poco senso per i detenuti cercare di raggiungere la torretta, perché se è vero che tutti vorreb-bero ottenere il posto di dio, che tutti vorrebbero farsi puro sguardo, è vero anche che tutti desiderano essere guardati, pena la cancella-zione di sé. Da questo punto di vista forse il Panopticon non è in grado di rap-presentare appieno la dimensione della visibilità così come è trattata da Merleau-Ponty e da Lacan: noi non siamo mai sempre sorveglianti e non siamo mai sempre detenuti, ma siamo da entrambe le parti; bi-sognerebbe abbattere le pareti che impediscono ai detenuti di vedere il sorvegliante, e immaginare una

situazione in cui un singolo indi-viduo non solo può vedere da tutte le parti, ma è anche visto da tutte le parti.La dissociazione della coppia ve-dere/essere visto, che è alla base della struttura del Panopticon, deve forse essere superata perché si pos-sa comprendere il tema della visi-bilità in tutta la sua portata, che va ben oltre la dimensione del Panop-ticon stesso. Lo sguardo non può essere purificato dalla pulsione che gli attribuisce Lacan, uno sguardo puro e assoluto non è possibile. Zizek in L’universo di Hitchcock afferma che “il vero desiderio di godimento è in funzione già nell’apparato burocratico di Stato che si occupa del soggetto”,13 ri-cordando come non sia possibile pensare un Panopticon svuotato della pulsione e del desiderio. Lo sguardo puro non è possibile per-ché, come ricorda sempre Zizek, noi noi siamo mai assolti o dere-

sponsabilizzati di fronte a quello che vediamo: tutto quello che si svolge davanti ai nostri occhi è messo in scena solo per soddisfare il nostro desiderio.Cos’è allora questa società della visibilità, questa società dello spet-tacolo in cui viviamo? Qual è la vi-sibilità che permea questa società?Se in un primo momento potrebbe sembrare che teorie come quelle di Merleau-Ponty o di Lacan in qual-che modo giustifichino e fondino una dimensione come quella attua-le, in cui se non appari non sei, è d’altro canto vero che oggi sembra essersi avviato uno strano proces-so, per cui la visibilità che costitu-tivamente avvolge l’uomo sembra non essere più sufficiente. Sembra che si cerchi parossisticamente una nuova e superiore visibilità, una visibilità ossessiva, che non lascia

alcuno spazio all’invisibile, alcuno spazio al gioco.Se è indubitabile che le attuali pra-tiche di creazione di sé davanti agli specchi e ai palcoscenici che la società offre sono profondamente criticabili, è anche vero che non ci si può sbarazzare facilmente del problema della visibilità che ne sta alla base, che ci costituisce come uomini vedenti e uomini visibi-li. E’ facile la critica alla società in cui viviamo, è facile l’elogio dell’ombra e dell’invisibilità, ma nel far questo si dimentica troppo facilmente una cosa, che è invece sottolineata da Zizek: la vera an-goscia non è data dallo sguardo del Grande Altro, la vera angoscia non è quella di un mondo panottico che ci guarda in ogni momento, ma na-sce dalla sensazione che non ci sia nessuno che ci sta guardando. Lo spettacolo che noi siamo e che mettiamo in piedi di fronte al mon-do perde ogni valore se nessuno lo

guarda. Saremmo solo dei “buffoni senza pubblico”.In fondo, come ricorda Lacan, il “lato onnivoyeur si segnala nella soddisfazione di una donna che si sa guardata, a condizione che non glielo si mostri”. 14

Abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi, meglio ancora se ci guar-da senza mostrarcelo; meglio anco-ra se percepiamo uno sguardo sen-za vedere l’occhio da cui proviene.E se l’ossessiva ricerca di visibili-tà attuale dipendesse dal fatto che l’uomo si è reso conto, infine, che nella torretta non esiste alcun sor-vegliante?

“D’altronde, l’isteria è possibile solo con un pubblico. Sai cosa ti occorre fare per mantenerla viva. La gente ti incasina con le sue rea-zioni su come è tanto orribile quel-lo che è accaduto. […]Vai a come era la vita quando eri una bambina e potevi mangiare solo omogeneizzati. Cammini va-cillando fino al tavolino del caffè. Sei sui tuoi piedi e devi barcollare su quelle gambe a salsicciotto, op-pure cadere giù. Poi arrivi al tavo-lo da caffè e sbatti la tua testolina soffice contro lo spigolo. Sei per terra e cavolo, o cavolo, fa male. Però non è niente di tragico fino a che non accorrono mamma e papà. Oh, povera, coraggiosa piccolina. È solo allora che piangi”.15

NOTE1 J. Bentham, Panopticon, ovvero la casa d’ispezione, Marsilio, Venezia 1982, p.1032 Ivi, p. 333 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, p. 2184 Ibidem.5 P. Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio, Raffaello Cortina, Milano 19996 Ivi, p. 537 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1969, p. 858 Ivi, p. 1639 Ivi, p. 15510 Ivi, p. 9412 J. Lacan, Il seminario, libro XI. I quattro concetti fondamentali della psi-canalisi, Einaudi, Torino 1979, p. 10613 Ibidem.14 S. Zizek, L’universo di Hitchcock, a cura di D. Cantone, Mimesis, Milano 2008, p. 3115 J. Lacan, Il seminario, libro XI, cit. pag. 7516 C. Palahniuk, Invisible Monster, Mondadori, Milano 2003

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XIV

Omaggio all’uomodi Manuel Geniola

CONFUSO, STORDITO, DISIN-FORMATO, CHI? L’uomo. Cosa siamo? Conosciamo meglio noi stessi, il meteo di domani o il tg dell’ultima ora?Penso con tutta la mia onestà in-tellettuale e la mia coscienza che Noi, esseri umani, siamo tutti potenzialmente degli artisti (Ar-tista è colui che crea). TUTTI possiamo creare, creare quotidia-namente, creare arte. TUTTI, se solo ci dedicassimo di più a fare, ad approfondire e ad imparare ciò che veramente ci appassiona. Di-ceva Van Gogh: “Faccio sempre ciò che non so fare, per imparare come va fatto”… ma più di tutti siamo AMIMALI, VANDALI e SOPRATTUTTO TOSSICI.Animali in quanto creature. Pur-troppo (a differenza dei grilli, delle formiche e degli scimpanzé) Noi siamo Animali Diabolici. “L’uomo è un animale addomesti-cato che per secoli ha comandato sugli altri animali con la frode, la violenza e la crudeltà” - Charlie Chaplin. Spesso, Noi tutti sbaglia-mo. Gli animali, quelli con quat-tro zampe o due ali e due zampe o addirittura senza zampe, non sbagliano o perlomeno non perse-verano nello sbaglio. “Sbagliare è UMANO, perseverare è DIABO-LICO”.Vandali? Io lavoro, pago le tas-se, sono un Bravo Italiano Medio (omaggio agli ormai defunti Ar-ticolo 31). Vandalo, io? Perché? Perché veri vandali non sono i giovani o meno giovani incap-pucciati che manifestano con-tro il Tav, i cosiddetti black bloc (semplici cittadini un pochino più sul lastrico o più indignati di altri), gli ultra o gli artisti che

“imbrattano” i muri (es. Bansky o semplicemente Lucas Nadel). I veri vandali siamo Noi che spre-chiamo beni che realmente hanno un valore, l’acqua e l’energia (che dovrebbe essere libera), non il de-naro; il denaro lo sprecano gli sta-ti per salvare le banche. Il denaro non ha valore (vedi dott. Giacinto Airuti, caro compaesano defunto di Guardiagrele). I veri vandali siamo Noi che DISTRUGGIA-MO l’AMBIENTE inquinando in tutti modi, ma soprattutto siamo dei Vandali perché NON SIAMO CAPACI DI PRODURRE con AMORE, con MODERAZIONE, con COSCIENZA. Noi produ-ciamo INCESSANTEMENTE e COSTANTNTEMENTE IM-MONDIZIA, SPAZZATURA, GARBAGE A QUINTALI. Però amiamo SEGUIRE LE REGOLE DEL FINTO CIVISMO, “faccia-mo la DIFFERENZIATA”. E poi tutto viene riunificato in una gros-sa, puzzolente e di nuovo inqui-nante discarica e quando ti chiedi come sia possibile, la risposta è che l’obiettivo è sensibilizzare, EDUCARE. Quindi chi si impe-gna a differenziare, ciascuno nella propria casa, lo fa non per un fine concreto, ma perché sta al sistema che vuole sensibilizzarlo, educar-lo. E poi più avanti, con molta calma, si assisterà alla trasforma-zione di questa forma educativa, al vantaggio di questa bizzarra IMPOSIZIONE.Siamo anche Tossici, perché i veri tossici non sono quei ragaz-zi emarginati, trattati con sdegno, giudicati perché si fanno. Il vero tossico non è l’alcolizzato bivac-cato su un panchina del parco. I veri tossici non sono i perbenisti, i

dottori, gli avvocati e i politici che sniffano coca ogni volta che devo-no affrontare le loro dure giornate di lavoro. I TOSSICI siamo Io e Te, le nostre madri e i nostri padri, i nostri nonni, etc – dipendenti, assuefatti dallo sviluppo tecnolo-gico senza tregua e di ogni stru-mento (cellulare, internet, etc) sempre così troppo indispensabile per poter vivere e sopravvivere nella nostra Beata società. E come disse Goja: “il sonno della ragione genera mostri”.E sfatiamo anche questo mito: NOI ESSERI UMANI siamo de-gli esseri intelligenti. Il frastuono, il rumore e tutto ciò che minaccia la nostra “spiritualità” e il nostro ecosistema è OGGIGIORNO qualcosa di cui vantarsi; diceva San Francesco: “l’uomo troppo spesso si vanta di cose di cui do-vrebbe vergognarsi”. “Povera Ita-lia”, direbbe mio nonno. “Povero Mondo, Fortunato Io, troppo”, dico io. Diceva Francesco Gucci-ni: “Un MITO di progresso lancia-to sopra i continenti…”; oppure il nostro amico Charles (Baudlaire): “Il progresso è la più ingegnosa e più crudele tortura dell’umanità”. Latouche approfondisce adegua-tamente il concetto di sviluppo e il PIANETA VERDE (Coline Serreau, 1996) è l’esempio più eclatante del reale concetto di una civiltà sviluppata.Dalla musica asfissiante agli ali-menti firmati, dalle auto ai ve-stiti, dalle bottiglie di profumo a quelle d’acqua, dai libri ai farma-ci, siamo distratti, INTONTITI e sempre più lontani dalle antiche lezioni profuse dai nostri antena-ti intellettuali, scienziati e vecchi pensatori. I libri sono un bene, io

amo i libri come i miei nonni, Do-menico il bersagliere e Filomena la golosona. Ma oggi si pubblica troppo e si legge sempre meno. I libri di oggi non sono fatti per riflettere o per insegnare, ma per consolidare i valori ereditati dalla storia dei vincitori. Vi lascio alle riflessioni e vi in-vito a leggere la Fattoria Degli Animali. Disse Stephen Spender: “Orwell fu veramente ciò che centinaia di altri fingevano soltan-to di essere. Fu veramente senza pregiudizi di classe, veramente un uomo…, veramente sincero”.note interessanti:LA FATTORIA DEGLI ANIMA-LI di Orwell George:“Ora compagni di qual nature è la nostra vita? Guardiamola: la nostra vita è misera, faticosa e breve”.“L’uomo è la sola CREATURA che consuma senza produrre…E tuttavia il signore di tutti gli ani-mali è l’uomo”.“Anche quando l’avrete distrutto, non adottate i suoi vizi. Nessun animale vada mai a vivere in una casa, o dorma in un letto, o vesta panni, o beva alcoolici, o fumi tabacco, o maneggi denaro, o fac-cia commercio. Tutte le abitudini dell’uomo sono malvagie…MAI un animale UCCIDA UN AL-TRO ANIMALE. Tutti gli animali sono…”PALLA DI NEVE“Una opinione che vada vera-mente controcorrente non ottiene, quasi mai, la giusta considerazio-ne, né sulla stampa popolare né su quella intellettuale”.“La BBC ha celebrato il venticin-quesimo anniversario dell’Armata Rossa senza parlare di Trotzkij”.“Tutte le grandi organizzazioni badano ai loro interessi come me-glio possono e una propaganda chiara non è un fatto cui si possa obbietare”. Chiudo dedicando questo pezzo a tutti cloro che credono e confi-dano nella rivolta violenta, nella politica e in qualsiasi altro prdot-to della nostra società e mi preme sottolineare che la democrazia (la Nostra democrazia rappresenta-tiva-capitalista), il comunismo e il fascismo non sono altro che grandi organizzazioni. Per fortu-na non sono un intellettuale, ho solo vent’anni. Per fortuna non ho nessuna laurea e sono ancora piut-tosto ignorante… Ho ancora tanto da imparare ed incamerare.

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XV

ScontrPennetra

Lorenzo Natural: In dieci anni gli immatricolati alle università italiane sono scesi da 338.482 (2003-2004) a 280.144 (2011-2012), con un calo di 58.000 studenti (-17%): questo il dato emerso da una ricerca del mese di gennaio del Cun (Consiglio universitario nazionale). Alla luce di ciò credo sia ovvio chiedersi il perché e le conseguenze di questo dato, che – poco, ma sicuro – non può essere colto come inaspettato. Negli ultimissimi anni stiamo as-sistendo a un lento, ma inesorabile declino del sistema universitario pubblico a trecentosessanta gradi: è in calo la qualità dell’insegnamento, è in calo il numero di iscritti che por-tano a termine il proprio percorso, si stanno tagliando (o accorpando) enti e strutture dedite all’assegnazione di borse di studio e sussidi, l’edilizia stessa – infine – rispecchia il degrado che attanaglia l’università pubblica. A questo, aggiungerei, si accompagna un notevole appiattimento verso il basso delle conoscenze degli studen-ti: si predilige una formazione sempre meno specifica e scientifica (intesa come apprendimento e applicazione di metodologie e teorie, e non come campo culturale d’interesse) e mag-giormente generalista. Insomma, c’è la sensazione che l’Università stia diventando una sorta di “post-liceo” dove poter conseguire un ulteriore pezzo di carta, ma senza la convinzio-ne di far parte di un sistema che possa effettivamente indirizzare verso un obiettivo. Ecco perché, molto cinica-mente, non vedo come estremamente negativo il fatto che ci sia una ridu-zione del numero di ragazzi/e che, evidentemente stufi dell’andazzo, de-cidono di non iscriversi all’università con questi presupposti: può, dal suo punto più basso, il sistema universi-tario cogliere la spinta per diventare un’istituzione veramente nuova dove combinare un certo élitarismo (ovvia-mente non più economico, né sociale) con l’innovazione dei nuovi metodi d’insegnamento? O la situazione è molto più complessa?

Davide Pittioni: Personalmente, leg-go invece il dato con maggiore pre-occupazione. Come efficacemente hai descritto, l’Università va incontro ad un lento e, apparentemente, ineso-rabile declino. Si intrecciano qui due questioni che hanno certamente un le-game molto stretto: la questione dei, e sui, saperi e le opportunità di accesso agli stessi. È vero che le ultime rifor-me si proponevano di aumentare in numero dei laureati e per farlo hanno

sacrificato la qualità degli insegna-menti, ma, di pari passo, c’è stata una progressiva limitazione dell’accesso ai saperi (riduzione dei fondi dedicate alle borse di studio, dei finanziamenti alle università, l’introduzione di un numero sempre maggiore di corsi a numero chiuso). Non è necessario trovare una coerenza interna a questa tendenza contraddittoria (probabil-mente nemmeno c’è). Si tratta invece di collocarla all’interno dei rapporti reali in cui è immersa l’università: un luogo di sapere che non è indifferen-te né alla pervasività della razionalità economica come criterio di giudizio universale né alla società nel suo complesso. Vedere in questo trend l’opportunità di un rinnovamento in senso élitaristico delle università, non tiene conto proprio del problema del-la definizione di chi dovrebbe potervi accedere e chi no. Non è un caso che l’ideologia del merito sia portata alle sue estreme conseguenze. Cosa acca-de a un sapere gettato nel ring della concorrenza, della competizione, del-la corsa ai risultati? Che ne è della sua dimensione di condivisione, libertà, collaborazione? E ancora, che tipo di sapere è quello che viene circoscritto alle élite (di censo o merito o posi-zione sociale)? Un sapere di qualità, solo perché ristretto? Se c’è un merito dell’Università è stato quello di aver giocato anche un ruolo nell’emanci-pazione, nel riscatto sociale degli ul-timi. Vedo quindi in questo discorso una primaria questione di posiziona-mento: da che parte vogliamo stare?

Lorenzo: Sono conscio del pericolo che la “logica del merito” possa non essere perfetta, addirittura pernicio-sa, a volte. Tuttavia, una soluzione dev’essere cercata. Il numero chiu-so, di per sé, non lo vedo come un grande male: certo, è un criterio che se messo in pratica in modo super-ficiale potrebbe tagliare fuori dalla condivisione del sapere universitario anche chi, seppur meritevole, per una serie di sfortunate contingenze in un determinato momento (come potreb-be essere l’esame di sbarramento) non riuscisse a esprimersi al meglio. Tuttavia ritengo che il nostro sguar-do vada rivolto a una prospettiva più larga: con il precedente boom di iscrizioni universitarie, con la conce-zione che senza laurea non si vada da nessuna parte, è stato drasticamente penalizzato tutto il settore della for-mazione del lavoro tecnico-manuale, della formazione specializzata e si è insita nella nostra generazione una nuova percezione classista del lavo-

ro, relegando a un ruolo di secondo piano ciò che non è “universitario”. Non dobbiamo dimenticare che il sapere, oggi, è fruibile veramente a tutti a basso prezzo: biblioteche, asso-ciazioni, internet, ecc hanno dato una grande spinta all’ecumenicità della condivisione del sapere. L’università, invece, deve – a mio modo di vedere – non solo essere luogo di condivisio-ne, collaborazione e libertà, ma so-prattutto un’istituzione di formazione dalla quale possano nascere delle per-sone che possano essere da esempio, in qualsiasi ambito esse agiscano: università deve tornare a significare eccellenza, garanzia di qualità, di for-mazione e di recezione e di impegno costante e completo. Ovviamente ciò non può essere fatto con gli strumenti che utilizziamo oggi (corsi di tren-ta ore, dieci esami annuali, formule 3+2), ma bisognerebbe ripensare a una riorganizzazione completa del sistema d’istruzione, scavalcando le vecchie barriere baronali, ma mante-nendo rigore e serietà per ridare credi-bilità all’intero sistema universitario.

Davide: Sono assolutamente d’ac-cordo sulla necessità di ripensare ra-dicalmente il sistema universitario e di conseguenza l’intero percorso for-mativo della persona. Perché quando parliamo di merito non si tratta solo di affinare gli strumenti di valutazio-ne per renderli meno arbitrari, ma più in generale di garantire una parità, un’eguaglianza, almeno nelle oppor-tunità. Detto questo, io prenderei con molto cautela le vulgate che circolano sul mondo dell’istruzione. Sono state penalizzate le scuole professionali? Le scuole alberghiere sembrano dire piuttosto il contrario. Per non parlare della progressiva automatizzazione della produzione... Il sapere oggi è fruibile agevolmente? Certo, ma non si tratta di un’acquisizione definitiva, data una volta per tutte. Ma venia-mo all’Università. Quando parlo di condivisione o collaborazione, non intendo dei bei valori che dovrebbe-ro in qualche modo agganciarsi a un sistema formativo già dato. Cambia la qualità stessa di un sapere, la attra-versa fin dai primi passi che muove, la trasforma, la problematizza, rompe un cerchio chiuso di nozioni autore-ferenziali. In fin dei conti, condivido con te che la quantità condiziona la qualità. Ma rovescio la tua prospetti-va. Comprendo di trovarmi in un cri-nale scivolosissimo. Basta un attimo e siamo nella più completa banaliz-zazione. Però, quando nel mio primo intervento, mi chiedevo cosa ne era di

una formazione competitiva, cercavo proprio di capire la trasformazione so-stanziale di un sapere messo in gara. Tu dici, semplificando, che dobbiamo concentrarci sull’aspetto formativo, e mi trovi d’accordo. Ma una formazio-ne che ha come fine un test a crocet-te, o una verifica secondo dei criteri sempre più riduttivi e impoveriti, può essere sinonimo di eccellenza? Allora non credo che si debba allargare bru-talmente, senza un ripensamento ge-nerale della formazione individuale, il numero degli studenti, perché è bello o perché “ce lo chiede l’Europa”, ma nemmeno pensare i sistemi formativi come delle macchine di darwinismo sociale, dove dietro lo sbandierato merito, o l’eccellenza, si cela l’adat-tamento, la concorrenza e l’appiatti-mento sulle posizioni precostitutite. Ecco, il mercato dei saperi è il rischio concreto di ogni regime meritocratico.

Lorenzo: Certo, il mercato dei saperi è uno dei rischi. Allo stesso modo lo è, a mio avviso, il suo appiattimento. Non voglio rivendicare antichi privi-legi, rimembrare i bei tempi andati o insinuare che i test a crocette siano la soluzione, né tanto meno far sì che siano i più forti – in senso darwinista – a emergere. È giusto individuare i veri responsabili al di fuori del mon-do universitario, ma sono convinto che solo attraverso una rivisitazione, a partire degli studenti stessi, di che cosa significhi studiare all’universi-tà e solo attraverso una vera nuova presa di coscienza di individuazione del percorso di studi come esperienza forte, pregnante e quasi totalizzante e non come mero palliativo il nostro mondo accademico possa tornare (o diventare...) eccellenza. Al di là dei – giustificabili – se e ma.

Davide: Direi, per arrivare alle con-clusioni, che la questione della qua-lità della formazione è inscindibile da quella degli strumenti con cui viene trasmessa. E qui arriviamo alla condizione in cui versa l’Università che entrambi, in maniera differente, cogliamo e cerchiamo di spiegare. Un’Università costruita attorno a contraddizioni laceranti, schiacciata tra la squalificazione della conoscen-za e una retorica (ipocrita) del merito, tra interventi di carattere meramente economico e standard di produttività. Un’Università sempre più trasformata in una fabbrica di laureati. Si tratterà forse di rimettere al centro la forma-zione e abbandonare così la macchina bulimica di produzione di studenti, laureati, citazioni?

Quale futuro per l’Università italiana?

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Avrete tutti/e sentito del nuovo film di Dave Grohl, Sound City, uscito un mese fa nei migliori cinema USA e scaricabile per pochi dollari dal sito web (con sottotitoli in ita-liano). Ebbene il film, un documentario sulla storia dei Sound City Studios di Van Nuys (presso Los Angeles, California), è uno di quei film in cui la musica “spadroneggia”, sia come teoria che come pratica, e le comparse presenti nel documentario valgono da sole il film. Ciò che più emerge è il fare musica e come ottimizzarla per l’ascolto finale, la passione di rockstar in pensione o all’apice della loro carriera va oltre le noiose coperti-ne delle riviste di settore, spesso incentrate sul gossip più che sulla musica in sé.Il film non poteva che essere accompagnato da una colonna sonora, interamente regi-strata in analogico (il dualismo analogico/digitale è anche uno degli argomenti centrali del film), con la console che ha fatto la storia degli studios (la “Neve 8028”). Notevole è che gruppi come Fleetwood Mac, Nirvana, Rage Against The Machine, Queens Of The Stone Age, Slipknot, e molti altri ancora di ogni sfaccettatura del rock, hanno tutti raggiunto il successo commerciale dopo aver registrato ai Sound City Studios.La colonna sonora presenta tutte le traccie presenti nel film, più altre rimaste fuori dalla pellicola (tra queste ultime “Centipede” è goduria pura). Ufficialmente sono usciti già tre singoli, senza video per ignoranti su MTV, né pubblicità connessa, ma solo radio e live nei tv-show americani di qualità, come si faceva un tempo.La spazialità sonora del disco è enorme, d’altronde la lista di compositori e collabo-ratori inevitabilmente ha determinato diverse impronte stilistiche. Certamente i Foo Fighters sono centrali nell’intera realizzazione, ma c’è anche il gran ritorno dei Nirva-na, con Paul McCartney al posto di Cobain (“Cut Me Some Slack”), per non parlare della ballad con Stevie Nicks dei Fleetwood Mac, che ti apre lo stomaco in due (“You Can’t Fix This”), o “Mantra”, frutto della collaborazione tra Dave Grohl alle pelli, Josh Homme al basso e Trent Reznor (a tutto il resto), che si dimostra sempre di più uno dei più grandi innovatori degli utlimi vent’anni nell’utilizzo del digitale. Quest’ultima è un crescendo costante di energia, diversamente, invece, il singolo di lancio “From Can To Can’t” vede l’insolita collaborazione tra il solito Grohl, Rick Nielsen (Cheap Trick), Scott Reeder (Kyuss) e Corey Taylor (Slipknot). Questa è la classica canzone con strut-tura pop, ma con sonorità più metal, e melodicamente imponente.Insomma è il discone del 2013, quello che bisogna ascoltare non tanto per non rimane-re indietro, ma forse per capire perché oggi la musica rock si trovi in un abisso: vedere nascere musica di qualità da musicisti che hanno un loro proprio concetto di qualità che prima di tutto è etico, dal folk/blues alla musica classica, fino ad ovviamente il punk-rock (inteso come filosofia). Ovviamente è facile capire che le band pop-punk californiane ne siano del tutto prive (la tristezza della storia dei Green Day, che si sono letteralmente svenduti al Capitale ne è la prova), il nuovo pop contaminato dal peggior hip-hop (quello successivo al gangsta-rap), e la maggior parte della roba che si sente in giro normalmente, dove la “bellina o il fighetto di turno” sembrano avere grandi voci, quando sono completamente modificate con i vocoder e le apparecchiature digitali (poiché altrimenti farebbero ancora più “cagare” di quello che già fanno).Il discorso potrebbe essere infinito, ma viene ben centrato nel film di Grohl, ovvero ti fa capire la notevole differenza tra un prodotto puramente commerciale e un prodotto che nasce in quanto tale, in cui la commercializzazione è solo un fattore successivo a quello creativo e non obbligatorio, ma purtroppo spesso necessario (ognuno deve campare).Quindi ascoltatevi il disco “Sound City: Real To Reel” e guardatevi il film, che forse merita ancora di più e fa apprezzare il disco più che prima.

di Meex Iko

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