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Eurostudium3w aprile-giugno 2012
Direttore: Francesco Gui (dir. resp.).
Comitato scientifico: Antonello Biagini, Luigi Cajani, Francesco Dante, Anna Maria Giraldi,
Francesco Gui, Giovanna Motta, Pèter Sarkozy.
Comitato di redazione: Andrea Carteny, Stefano Lariccia, Chiara Lizzi, Enrico Mariutti, Daniel
Pommier Vincelli, Vittoria Saulle, Luca Topi, Giulia Vassallo.
Proprietà: “Sapienza” ‐ Università di Roma.
Sede e luogo di trasmissione: Dipartimento di Storia, Culture, Religioni (già Dipartimento di Storia
Moderna e Contemporanea), p. le Aldo Moro, 5 ‐ 00185 Roma
tel. 0649913407 – e ‐ mail: [email protected]
Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006 del 17 ottobre 2006
Codice rivista: E195977
Codice ISSN 1973‐9443
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Indice della rivista
aprile ‐ giugno 2012, n. 23
MONOGRAFIE E DOCUMENTI
Investimento fondiario e sustanze di famiglia nella carriera di Bongianni Gianfigliazzi. Evoluzione del patrimonio agrario di un gonfaloniere di giustizia tra Cosimo e Lorenzo de' Medici
di Luciano Piffanelli p. 4
Un processo "politico" nello Stato pontificio della prima restaurazione. Frosinone maggio-giugno 1801 di Luca Topi. p. 39
Il costo della Repubblica “sorella” per gli ebrei di Roma (febbraio 1798-settembre 1799) di Manuela Militi p. 69
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3 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
Investimento fondiario e sustanze di famiglia nella carriera di
Bongianni Gianfigliazzi Evoluzione del patrimonio agrario di un gonfaloniere di giustizia
tra Cosimo e Lorenzo de’ Medici*
di Luciano Piffanelli
Abstract
Attraverso l’esame puntuale e l’incrocio di fonti inedite (le denunce catastali
quattrocentesche ed un manoscritto autografo) lo studio ricostruisce la crescita
patrimoniale di Bongianni Gianfigliazzi, fiorentino fortemente legato ai Medici ‐ e in
particolar modo a Lorenzo di Piero ‐ delineando unʹevoluzione in cui la ricchezza
terriera risulta accrescersi progressivamente grazie ad un felice concorso fra le
potenzialità di ascesa politica consentite al Gianfigliazzi dalla potente famiglia
fiorentina e le brillanti capacità personali del capitano delle galee fiorentine divenuto
gonfaloniere. L’analisi fornisce in questo modo un contributo nell’ambito delle ricerche
sulla Firenze rinascimentale e sull’orientamento georgofilo da parte delle élite urbane
fiorentine.
Keywords: Firenze, Rinascimento, Medici, Bongianni Gianfigliazzi, proprietà
fondiaria, contado.
L’interesse per la società rurale e per l’agricoltura in età medievale vive ormai,
dagli anni Sessanta del secolo scorso, una lunga stagione di successi. Dai lavori di
Jacques Le Goff, di Emilio Sereni e soprattutto di George Duby1 fino a culminare
* Il lavoro che segue è principalmente frutto dell’analisi contenutistico‐paleografica da me
eseguita sul manoscritto di ricordanze di Bongianni Gianfigliazzi (nel testo sempre Richordanze),
conservato presso l’archivio della Congregazione dei Buonuomini di San Martino, in Firenze,
nel fondo Gianfigliazzi con segnatura 2.2.0.1. Il codice, completamente autografo e contenente
anche una ridotta sezione finale compilata dal figlio Gherardo, è trascritto integralmente nel
mio volume Questo libro rosso. I ricordi segreti di un amico di Lorenzo il Magnifico, in fase di
edizione con copyright dell’autore.
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4 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
nella fondamentale opera della Cambridge Economic History of Europe 2, le indagini
sulla realtà agricola e contadina hanno ampliato le conoscenze della società in
toto, grazie anche al proficuo intreccio scaturito dall’incontro con gli studi di
storia economica. Una notevole mole di lavori, quindi, si è prodotta nel tentativo
di disegnare le linee guida dei diversi profili agrarî degli spazi europei,
soffermandosi più distesamente sulle regioni d’Oltralpe in virtù principalmente
dell’influenza della scuola delle Annales sugli orientamenti scientifici degli
studiosi coinvolti3, arricchendo tuttavia il campo d’indagine con contributi
prevalentemente dedicati all’Alto Medio Evo, visto come snodo tra metodologie
colturali di età romana e tardo antica e nuove possibilità di sfruttamento non solo
del terreno ma anche dell’ingegno dell’uomo4. Dagli anni Ottanta si è invece
distaccato da questo filone di studi5 un ramo collaterale che si è rivolto sempre
1 Rispettivamente: La civiltà dell’Occidente medievale, Firenze, 1969, in cui la realtà rurale è
presentata ancora come arretrata e sofferente sul piano alimentare; Storia del paesaggio agrario
italiano, Bari, 1961; L’economia rurale nell’Europa medievale, Bari, 1966. 2 The Agrarian Life of the Middle Ages, Vol. 1, M.M. Postan ed., Cambridge (MA), Cambridge
University Press, 19662. 3 La penisola italiana vive, al contrario, una sorta di torpore in merito a questo argomento,
molto probabilmente per la sua composizione estremamente diversificata anche sotto l’aspetto
agricolo, una caratteristica che rende arduo un lavoro di sintesi compiuto e approfondito. Ad
ogni modo, oltre ad una parte curata da Philip J. Jones all’interno del citato The Agrarian Life of
the Middle Ages, lo stesso Jones ha evidenziato nei suoi articoli Per la storia agraria italiana:
lineamenti e problemi, in «Rivista Storica Italiana», LXXVI (1964), pp. 287‐348 e “The Agrarian
Development of Medieval Italy”, in Deuxième Conférence Internationale d’Histoire Économique
(Aix‐en‐Provence, 1962), Paris‐La Haye, 1965, pp. 69‐86, come la struttura e l’utilizzo dello spazio
agrario italiano siano legati alle dinamiche locali e, pertanto, non siano assoggettabili ad un
unico modello descrittivo. Altri lavori generali sono in G. Luzzatto, “L’Antichità e il Medioevo”,
in Storia economica d’Italia, Firenze, 1963, attento più che altro alle dinamiche urbane; A. Doren,
Storia economica dellʹItalia nel Medioevo, Bologna, 1965, ancora importante soprattutto per la
situazione delle campagne nel basso Medioevo. 4 Per citarne solo alcuni, “Agricoltura e mondo rurale in Occidente nellʹalto Medioevo”, in Atti
del Convegno della XIII Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sullʹalto Medioevo (22‐28 aprile
1965), Spoleto, 1966, pp. 57‐92; G. Tabacco, Problemi di insediamento e di popolamento nellʹalto
Medioevo, in «Rivista Storica Italiana», LXXIX (1967), pp. 67‐110; V. Fumagalli, Note per una storia
agraria altomedievale, in «Studi Medievali», IX (1968), 1, pp. 359‐378; L. White Jr., Tecnica e società
nel medioevo, Milano, 1976 (in cui vengono analizzate innovazioni in campo agrario ormai ben
note quali l’aratro versoio, la rotazione dei campi, l’uso del cavallo come animale da lavoro). 5 Fu questo un settore che comunque aveva continuato e continuerà a produrre importanti
risultati nei lavori, ad esempio, di V. D’Alessandro, Il mondo agrario nel medioevo, Messina, 1973;
P. Cammarosano, Le campagne nellʹetà comunale (metà sec. XI‐metà sec. XIV), Torino, 1974; G.
Cherubini, Agricoltura e società rurale nel Medioevo, Firenze, 1974; Id., L’Italia rurale del Basso
Medioevo, Bari, 1996; A. Cortonesi, Economia e paesaggi del Medioevo italiano, Roma, 1995; G. Sergi,
“Storia agraria e storia delle istituzioni”, in Medievistica italiana e storia agraria. Risultati e
prospettive di una stagione storiografica, in Atti del Convegno di Montalcino (12‐14 dicembre 1997),
a cura di A. Cortonesi e M. Montanari, Bologna, 2001, pp. 155‐164.
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5 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
più ad un orizzonte regionale6 e ha fatto della minuziosa analisi colturale un suo
punto distintivo, conducendo indagini sempre più approfondite e rigorose a
seguito anche di nuove tecniche geo‐archeologiche di sondaggio dei territori7. Per
mezzo anche dello studio dei contratti di mezzadria e delle altre possibilità
pattizie tra dominus e agricola8, quindi, proficui risultati si sono avuti
relativamente soprattutto ai principali frutti del suolo, quali cereali, vino e olio9.
6 Una marcata predilezione si ha per il territorio toscano, motivata certamente dall’abbondante
numero di fonti disponibili. Dopo gli antesignani lavori di Elio Conti, numerosi studi sono stati
compiuti sempre più di recente sul contado e sulle campagne toscani. Tra questi, G. Pinto, La
Toscana nel tardo Medioevo, Firenze, 1982; Id., Campagne e paesaggi toscani del Medioevo, Firenze,
2002; G. Cherubini, Le campagne toscane alla fine del Medioevo, Pistoia, 1982; M. Chiellini, La
campagna toscana nel Medioevo, Pisa, 1992. Per le analisi condotte dal Conti, I catasti agrari della
Repubblica fiorentina e il catasto particellare toscano (secoli XI‐XIX), Roma, 1966. 7 Ultimamente si fa largo uso di tecniche di prospezioni geofisiche quali la magnetometria, la
gravimetria, i sondaggi elettrici e il telerilevamento aereo. Il progetto ARCHEO, finanziato dal
M.I.U.R., utilizza un sistema di telerilevamento aereo consistente in un radar ad apertura
sintetica (SAR) a bassa frequenza, il quale permette di penetrare la vegetazione e i primi strati
del sottosuolo, traendo vantaggio dalle caratteristiche a lungo raggio dei segnali radar e dalla
capacità di elaborazione della moderna elettronica per produrre immagini ad alta risoluzione.
Al risultato di queste indagini di monitoraggio si aggiungono i dettagli forniti da sistemi non
invasivi di telerilevamento da terra. È stato inoltre realizzato un prototipo di georadar a bassa
frequenza in grado di fornire immagini ad alta risoluzione dei segnali rimandati dai reperti
sepolti. Queste nuove tecnologie, sebbene spendibili per lo più in un àmbito strettamente
archeologico, forniscono importanti dati anche sulle tipologie alimentari coltivabili e coltivate
nelle zone soggette ad analisi. Per i risultati raggiunti e le prospettive ancora aperte si veda G.
Alberti, L. Cioffanelli, G. Galiero, M. Sacchettino, R. Persico, “An Italian Experience on Stepped
Frequency GPR”, in Progress in Electromagnetics Research Symposium, Pisa, 2004. 8 Cfr. G. Pinto – P. Pirillo – O. Muzzi – D. Nenci – G. Piccinni (a cura di), Il contratto di mezzadria
nella Toscana medievale, 3 voll., Firenze, Olschki, 1987‐1992; B. Andreolli, Contadini su terre di
signori. Studi sulla contrattualistica agraria dell’Italia medievale, Bologna, 1999. Un recente
contributo di Pinto (I mezzadri toscani tra autoconsumo e mercato – secoli XIII‐XV, tra gli atti non
ancora pubblicati del convegno Pautas de Consumo y niveles de vida en el mundo rural medieval, 18‐
20 settembre 2008, Università di Valencia, contributo reperibile all’indirizzo
http://www.uv.es/consum/participantes.htm) ha inoltre evidenziato le linee evolutive della
condizione mezzadrile, che sembrano avere un andamento sinusoidale attraverso i secoli che
precedono e seguono gli eventi della metà del Trecento. 9 Uno sguardo alternativo offriva un ventennio fa Giuliano Pinto parlando del gelso nel suo
contributo “L’economia del gelso”, in Territorio, società, cultura nell’età dellʹumanesimo, Milano,
1987, pp. 104‐115, in cui lo studioso rilevava come l’intensificazione di questa coltura fosse
legata alle sopraggiunte esigenze del mercato serico. Per i cereali: M. Montanari, “Tecniche e
rapporti di produzione: le rese cerealicole dal IX al XV secolo”, in Le campagne italiane prima e
dopo il Mille. Una società in trasformazione, a cura di B. Andreolli, V. Fumagalli, M. Montanari,
Bologna, 1985, pp. 43‐68; un lavoro cronologicamente molto esteso ma sicuramente affascinante
è quello di Antonio Saltini, I semi della civiltà. Frumento, riso e mais nella storia delle società umane,
Bologna, 20092; Per il vino: Il vino nellʹeconomia e nella società medievale e moderna, Atti del
Convegno di studi (Greve in Chianti, 21‐24 maggio 1987), Firenze, 1988; Dalla vite al vino. Fonti e
problemi della vitivinicoltura italiana medievale, a cura di J. L. Gaulin e A. J. Grieco, Bologna, 1994;
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6 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
A mio avviso, gli elementi principali rilevabili all’interno degli orientamenti
storiografici fin qui esposti sono sostanzialmente due: da un lato, la
settorializzazione (nel senso di una riduzione) geografica e cronologica degli
studi; dall’altro, lo spostamento degli interessi da un campo prevalentemente
tecnico/tecnologico (ricerche su aratro versoio, collare per buoi, mulini) ad un
ambito colturale, in cui i frutti della terra sono inquadrati nella loro duplice
funzione, ad intra (sussistenza) e ad extra (commercio), non solo in quanto
prodotto agricolo, ma anche nella loro prerogativa di veicolo culturale10.
Pur tenendo conto di questo filone di studi, la presente ricerca si muove
all’interno di un campo affine ma uno tempore separato, nel quale l’attenzione è
stata posta su quella porzione di territorio circostante la realtà prettamente
urbana e definita dalle fonti comitatus, ossia il contado, le cui capacità contrattuali
e la cui rilevanza politica e sociale nei confronti della città sono state negli ultimi
tempi conquistate ad una storiografia sostanzialmente urbanocentrica11.
Gli studi condotti su tale versante hanno subito, dalla metà del secolo
scorso, un forte incremento, portando all’analisi della giurisdizione territoriale
non solo di spazi “regionali” ma anche di situazioni geograficamente più
circoscritte12, all’interno delle quali il particolarismo rurale emerge con estremo
A.I. Pini, Tempus vindemie. Per la storia delle vigne e del vino nell’Europa medievale, Brescia, 1998; La
vite e il vino. Storia e diritto (secoli XI‐XIX), 2 voll., a cura di M. Da Passano, A. Mattone, F. Mele,
P.F. Simbula, Roma, 2000. Per l’olio: G. Pinto, Campagne e paesaggi toscane, cit., pp. 118‐123; il
recente ed esaustivo lavoro di A. Brugnoli e G.M. Varanini, Olivi e olio nel Medioevo italiano,
Bologna, 2005. Vorrei poi segnalare due lavori interessanti: il primo a cura di Pietro Dalena,
Mezzogiorno rurale. Olio, vino e cereali nel Medioevo, Bari, 2010 in cui la terna ulivo‐vite‐grano è
vista non solo come carattere eminente dell’economia dell’Italia meridionale ma è anche posta
al centro della successiva economia del Regnum; l’altro di M.W. Adamson, Regional Cuisines of
Medieval Europe: A Book of Essays, London, 2002, le cui pp. 85‐124 sono dedicate all’Italia, dove la
studiosa imposta una trama di relazioni e confronti alimentari tra le diverse regioni italiane,
sottolineando di queste, per il periodo in analisi, le specificità sotto il profilo gastronomico,
parlando però di un “obiquitous olive oil”. 10 Non serve sottolineare in questa sede come il cibo fosse viatico quasi di una koinè oppure
quanto gli scambi commerciali significassero anche in termini di scambi ideologici. Vorrei solo
qui far notare come una minoritaria se non anomala coltura, quella del guado, avesse ricevuto
un incremento “ufficiale” a seguito delle accresciute necessità tessili dell’area toscana, venendo
prescritta al mezzadro una data porzione di terreno da coltivare a guado. Cfr. G. Pinto, I
mezzadri toscani, cit., p. 5. 11 Solitamente ricondotta alla linea di pensiero portata avanti tra XIX e primo quarantennio del
XX secolo dalla scuola economico‐giuridica ed espressa, tra gli altri, nei lavori di Gioacchino
Volpe e Gaetano Salvemini. La centralità attribuita al fenomeno comunale (visto come
peculiarità italiana) portò ad una visione della realtà urbana quale assoggettante il territorio
limitrofo senza possibilità di reazione o addirittura ferma opposizione da parte del contado. Per
un discorso complessivo cfr. La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, a cura di R. De Rosa,
Roma‐Bari, 1989. 12 Penso ai contributi di Giorgio Chittolini, “Legislazione statutaria e autonomie nella pianura
bergamasca” e “Principe e comunità alpine”, contenuti nel suo volume Città, comunità e feudi
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7 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
vigore. Le interazioni tra cosmo civico e territorio comitatino (le distrettuazioni
del quale, tanto ecclesiastiche come le diocesi quanto civili, come le signorie
territoriali rurali, non potevano non essere prese in considerazione da parte degli
organismi urbani) percorrono una linea di sviluppo che ormai13 si è soliti far
partire dall’età pre e proto‐comunale (all’incirca tra X ed XI secolo) e che in piena
età cittadina vede una sostanziale triangolazione – politica ed economica, nonché
sociale – tra comunità urbane, signorie locali e agglomerati demici rurali;
un’interazione che, sebbene promossa in prima istanza dalla città14, non esclude,
negli stati dell’Italia centro‐settentrionale (secoli XIV‐XVI), Milano, 1996, pp. 105‐126, 127‐144, dove
l’autore prende in considerazione anche l’informale statuto di “quasi città” ascrivibile ad alcuni
borghi i quali, pur non essendo sedi vescovili, hanno una struttura socio‐territoriale affine a
quella urbana; agli studi condotti su zone e famiglie di Parma, della Lomellina, di alcune zone
alpine, lombarde, venete e tosco‐emiliane e raccolti nel volume Poteri signorili e feudali nelle
campagne dell’Italia settentrionale fra Tre e Quattrocento: fondamenti di legittimità e forme di esercizio,
a cura di F. Cengarle, G. Chittolini, G.M. Varanini, Firenze, 2005, disponibile on‐line
all’indirizzo http://www.rm.unina.it/rmebook/dwnld/Poteri_signorili.pdf; ancora, infine, ai
lavori di Mirella Montanari, “Dagli statuti di San Colombano al Lambro. Fisionomia di una
comunità signorile”, in Contado e città in dialogo, cit., pp. 373‐410, di Roberta Nuti, Un comune
rurale del contado fiorentino: Calenzano, Calenzano, 2000 e di Lucia Cristi e Sergio Raveggi,
“Contadini e cittadini. Due zone del contado fiorentino all’inizio del Quattrocento”, in La
costruzione, cit., pp. 421‐478. 13 Si veda in merito il recente e poderoso lavoro, summa di un convegno tenutosi a Pontignano
(SI) a metà del 2004, La costruzione del dominio cittadino sulle campagne. Italia centro‐settentrionale,
secoli XII‐XIV, a cura di R. Mucciarelli, G. Piccinni, G. Pinto, Siena, 2009. Ritengo utile riportare
anche il titolo originale del convegno poiché esprime ancora meglio la visione della nuova
medievistica in questo settore: Le campagne dell’Italia centro‐settentrionale, secoli XII‐XIV: la
costruzione del dominio cittadino tra resistenze e integrazione. I due ultimi sostantivi, infatti,
esprimono la riconosciuta vitalità del contado e della campagna, un fervore autonomistico che
permette di guardare al loro territorio non più come a qualcosa di amorfo e passivamente
soggetto alla “Dominante”, ma capace di reagire fino all’imposizione di un suo riconoscimento.
Bisogna ammettere l’ingente debito che questo campo di indagine ha nei confronti del
pioneristico lavoro di Giorgio Chittolini, nel quale quest’animo effervescente dello spazio
contadino e le concessioni nei cui riguardi è costretta la città sono ben messe in luce. 14 Un dato, questo, chiaramente contenuto all’interno della scelta del termine “dominio” operata
dai curatori del predetto volume. Tuttavia il progresso cittadino, matrice del quale fu
principalmente una reductio ad unum della fiscalità, accompagnò (in quanto lo incentivò) quello
contadino allorché alle già nominate produzioni ad intra se ne affiancarono di più corpose ad
extra. Questo arricchimento dei ceti rurali porterà le élite di campagna a trasferirsi in città,
inconsce di creare così un rapporto di dipendenza dalle aristocrazie urbane, le quali, sempre più
ghiotte di possedimenti fondiari, sentivano come giuridicamente legittimo (“teoria della
comitatinanza”) una preminenza sui filii comitatini. Il ruolo della città, nei fatti, si manterrà di
prim’ordine anche nell’assetto statale successivo a quello comunale, tanto da far dire ad
Antonio Anzillotti che “solo con le riforme di fine Settecento si potrà considerare pienamente
conclusa la lunga parabola dello «Stato cittadino»”. Cfr. A. Anzillotti, Movimenti e contrasti per
l’unità italiana, Milano, 1964, pp. 17‐18. Anche Chittolini ha notato il perdurare incessante di
alcune strutture cittadine ed ha rilevato come le tendenze oligarchiche e conservatrici, ben
attestate nel momento comunale, lungi dal permettere un vero “governo largo”, abbiano
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8 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
anzi prevede ampiamente un dialogo tra le parti, quando non un progetto
comune15, dato intuibile senza difficoltà se si pensa alle necessità annonarie della
città e al gettito fiscale che, come linfa vitale, vi giungeva dal territorio ad essa
soggetto. Interazione politica, perché il possesso fondiario cittadino era
intrecciato al prestigio delle élite urbane e all’esercizio del potere, che dal XIII
secolo va facendosi sempre più ampio e sempre più serrato da parte delle città16;
economica, perché la terra era una rendita patrimoniale (se non la rendita per
eccellenza) che permetteva la sussistenza del proprietario e del suo “fuoco” sul
piano monetario ed alimentare; sociale, infine, perché l’aristocrazia rurale
inurbatasi mostrerà di sapersi ben integrare con gli strati cittadini, spendendosi
con abilità all’interno delle possibilità offerte dai ceti urbani medio‐alti.
Il sistema bifase città‐contado inizialmente instauratosi tra questi due
soggetti territoriali interdipendenti, quindi, andò gradualmente dissolvendosi a
favore di una interazione/integrazione che porterà alla creazione di élite17 meticce,
le quali aggiungeranno ai poteri che già detenevano quando erano in campagna
le nuove conquiste possibili tra i ranghi del governo cittadino.
La cosa per noi più interessante all’interno di questa articolata trama
relazionale tra polo urbano e polo extra‐urbano è notare come il possesso
fondiario costituisca il punto di convergenza di capitale economico e potere
politico18: nella terra, pertanto, si coniugavano o, meglio, si realizzavano le due
portato la società italiana rinascimentale ad una chiusura ancora maggiore, con corti
principesche o castelli feudali in cui si è cristallizzata la presenza di precisi gruppi di famiglie.
Cfr. G. Chittolini, La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado, Torino, 1979, passim.
Si veda anche il contributo di E. Fasano Guarini, “Lo Stato regionale”, in Storia della Toscana, I, a
cura di E. Fasano Guarini ‐ G. Petralia ‐ P. Pezzino, Roma‐Bari, 2001, pp. 167‐182. 15 Cfr. Contado e città in dialogo: comunità urbane e comunità rurali nella Lombardia medievale, a cura
di Luisa Chiappa Mauri, Milano, 2003, pp. 7‐11, 227‐268. 16 E si riscontra nel fenomeno delle villenove e dei borghi franchi voluti espressamente dalle
forze operanti all’interno della civitas – dove l’istituto comunale si era ormai consolidato – che
nelle nuove strutturazioni del territorio convogliavano gli uomini delle campagne e del
contado. Cfr. Borghi nuovi e borghi franchi nel processo di costruzione dei distretti comunali nell’Italia
centro‐settentrionale (secoli XII‐XIV), a cura di R. Comba e F. Panero e G. Pinto, Cuneo, 2002, ma
anche il lavoro della Chiappa Mauri citato alla nota precedente e infra, n. 21. 17 In tal senso, ovvero come la risultante di più sistemi di forze, Giovanni Cherubini interpreta il
significato di élite, che di per sé non si ancora solamente a distinzioni di classe politica
(oligarchia) od economica (borghesia, aristocrazia) e in cui anche l’aspetto ideologico‐culturale
ha la sua incidenza. Cfr. G. Cherubini, “Le élites economiche e politiche tra campagna e città”,
in La costruzione del dominio cittadino, cit., pp. 589‐601, in cui l’autore si chiede se e in che modo
queste élite economiche e politiche abbiano favorito o meno l’integrazione tra comitatini e
cittadini, finendo col disegnare una visione sostanzialmente positiva dell’assorbimento di quelli
a questi, soprattutto quando ad integrarsi furono i ceti signorili (ossia l’élite presente nelle
campagne); maggiore riluttanza ad un imbrigliamento dimostrarono, invece, gli uomini che a
quei signori rurali erano sottoposti. 18 Gli studi condotti sul Catasto del 1427 da David Herlihy e Christiane Klapish‐Zuber avevano
messo in evidenza queste ricadute del possesso terriero sugli aspetti patrimoniali e sociali,
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9 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
principali ambizioni dei ceti urbani (o fortemente urbanizzati) più elevati, che
esprimevano la propria condizione patrimoniale ed istituzionale nel controllo
della proprietà agraria. La predisposizione dei ceti fiorentini medio‐alti per
l’investimento nel settore agrario – presente tra l’altro fin dall’età comunale – era
quindi dettata da una serie di fattori che implicavano sia il prestigio sociale (su
imitazione delle aristocrazie, che avevano fatto del possesso terriero un tratto
distintivo della loro superiorità sociale19), sia la possibilità di sviluppare un
sistema autarchico, ma anche l’eventualità di commercializzare le eccedenze
della produzione agricola. Tutti elementi questi, la cui convergenza aveva
determinato una nuova gestione della campagna, sulla quale si operava con
interventi tanto di incentivazione dal punto di vista produttivo e qualitativo20
quanto di natura giuridica, con l’introduzione di opzioni pattizie, quali i
contratti di mezzadria21. Il podere che venne così configurandosi vide sul suo
suolo un nuovo popolamento che comportò il pullulare di chase da lavoratore e,
in numero minore, ma con altrettanta costanza, chase da signiore, le prime
utilizzate come residenza per i mezzadri e le seconde come ville di campagna.
In questo fervido connubio di georgofilia ed interesse materiale, le grandi
famiglie magnatizie toscane22 che si erano arricchite in città mediante la
dimostrando anche come il rapporto ricchezza/popolazione fosse ampiamente sbilanciato in
città, visto che nel contado risiedeva la maggior parte degli abitanti. Cfr. D. Herlihy – Ch.
Klapisch‐Zuber, I Toscani e le loro famiglie. Uno studio sul catasto fiorentino del 1427, Bologna, 1988. 19 Questo impulso emulativo causò, unitamente alla prospettiva di guadagni, l’aumento della
presenza della proprietà cittadina nel contado tra metà XIII e XV secolo, una tendenza che
sembra diffusa a tutta l’Italia comunale. Cfr. G. Pinto, La Toscana nel tardo Medioevo, Firenze,
1982, p. 157; G. Cherubini, La proprietà fondiaria nei secoli XV‐XVI nella storiografia italiana, in
«Società e Storia», I (1978), pp. 9‐33. 20 Cfr. G. Piccinni, “La politica agraria delle città”, in La costruzione del dominio cittadino, cit., pp.
601‐625 e l’ingente bibliografia annessa; A. Cortonesi – G. Pasquali – G. Piccinni, Uomini e
campagne nell’Italia medievale, Roma‐Bari, 2002; L. De Angelis Cappabianca, “Da un estimo di
Voghera di fine Trecento. Tecniche di valutazione fiscale dei beni immobiliari” e T. Mangione,
“Insediamenti, topografia e presenze patrimoniali nel sud‐ovest”, entrambi in Contado e città in
dialogo, cit., pp. 269‐332 e 333‐372. Gli stessi Gianfigliazzi non esiteranno, come vedremo, a
potenziare alcuni dei loro possedimenti terrieri, dislocati sostanzialmente nella zona di San
Casciano in Val di Pesa, tanto che sostituirono alle loro case padronali (le chase da signiore)
comode ville poste al centro delle loro tenute, come il Palagio a S. Pancrazio o la Palagina a
Montefiridolfi. Cfr. Richordanze, cc. 17v‐24v; G. Carocci, Il comune di San Casciano in Val di Pesa,
Roma, 19962. 21 Cfr. G. Pinto – P. Pirillo – O. Muzzi – D. Nenci – G. Piccinni (a cura di), Il contratto di mezzadria
nella Toscana medievale, 3 voll., Firenze, Olschki, 1987‐1992. 22 È il caso, ad esempio, dei senesi Salimbeni, Tolomei, Piccolomini (per i quali rimando,
rispettivamente, agli studi di A. Carniani, I Salimbeni quasi una signoria. Tentativi di affermazione
politica nella Siena del ‘300, Siena, 1995; R. Mucciarelli, I Tolomei banchieri di Siena. La parabola di un
casato nel XIII e nel XIV secolo, Siena, 1995; Ead. Piccolomini a Siena. XIII‐XIV secolo, Pisa, 2005), ma
anche dei fiorentini Spinelli o dei Gianfigliazzi (Ph.J. Jacks – W. Caferro, The Spinelli of Florence:
Fortunes of a Renaissance Merchant Family, University Park, 2001; A. Sapori, I libri della ragione
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10 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
mercatura e la banca (senza in alcuni casi disdegnare l’usura, come vedremo)
investirono i proventi delle loro attività nei territori contadini, acquistando beni
fondiari da utilizzare non a mo’ di latifondo ma come “industria” in scala ridotta,
ponendo anche attenzione alla distanza logistica tra patrimonio agrario e propria
ubicazione urbana23. L’inclinazione verso la proprietà terriera, così, divenne un
tratto distintivo della borghesia urbana24, che da essa traeva honore et utile25: al
canale dell’approvvigionamento alimentare, infatti, si affiancava quello del
prestigio individuale, i cui riflessi sulla scena pubblica non erano né pochi né per
noi poco comprensibili; non stupirà, dunque, riscontrare una forte presenza
cittadina all’interno del cosmo rurale, una presenza che va interpretata alla luce
degli interessi qui descritti e dei dati appena forniti.
In siffatto schema sociopolitico erano pienamente inseriti i Gianfigliazzi,
fiorentini ab ovo26, le cui fortune economiche avevano preso le mosse con la
bancaria dei Gianfigliazzi, Milano, 1946; Id., Le compagnie bancarie dei Gianfigliazzi, in Id., Studi di
storia economica, II, Firenze, 1955, pp. 927‐973). 23 Ossia non alla distanza fisica tra i due punti ma alla possibilità di collegare in termini di
tempo e di costo due luoghi, in una concezione per la quale il maggior prestigio cittadino era
espresso anche dalla qualità della localizzazione dei poderi. Cfr. G. Cherubini, “Le campagne
italiane dall’XI al XV secolo” in Id., L’Italia rurale del basso Medioevo, Roma‐Bari, 19952, pp. 51‐69;
A. Cortonesi – G. Piccinni, Medioevo delle campagne. Rapporti di lavoro, politica agraria, protesta
contadina, Roma, 2006; G. Cherubini, “Le élites”, in La costruzione del dominio cittadino, cit, p. 598. 24 Parlare di “borghesia” urbana nel Medioevo è possibile allorquando ci si discosti
dall’accezione marxiana di classe sociale che ha il controllo dei mezzi di produzione e di
distribuzione e si intenda, invece, quella porzione della società che aveva beneficiato della
crescita economica seguita al fiorire della civiltà comunale e di cui facevano parte uomini di
provenienza diversa (notai, scabini, giudici, esattori delle imposte) che si erano inurbati e
avevano raggiunto proprio in città prestigio sociale e possibilità economiche acquistando beni
fondiari nella campagna circostante l’agglomerato urbano, commerciando, frequentando porti,
fiere o luoghi di pellegrinaggio. Tenendo dunque presente una differenziazione tra i termini
“ceto” e “classe” in cui il primo si rivolge maggiormente agli aspetti del prestigio sociale e il
secondo inerisce più a criterî di tipo economico, la borghesia urbana cui nel testo ci si riferisce è
contemporaneamente classe e ceto. Parimenti esistette nel Medioevo una borghesia rurale, priva
però delle prerogative giuridiche di quella urbana a causa della sua residenzialità extra‐
cittadina. Cfr. A.M.N. Patrone, Lʹascesa della borghesia nellʹItalia comunale, Torino, 1974, reperibile
nella sezione “Fonti” di Reti Medievali all’indirizzo
http://fermi.univr.it/rm/didattica/fonti/patrone/nota.htm; le voci Borghesia e Classe sociale in
E. Morselli, Dizionario di filosofia e scienze umane, Milano, 1997, pp. 35, 45. 25 Mutuo l’espressione dal lavoro di M.M. Bullard, In Pursuit of “Honore et Utile”. Lorenzo de’
Medici and Rome, in Lorenzo il Magnifico e il suo mondo, Convegno Internazionale di Studi,
Firenze, 9‐13 giugno 1992, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze, 1994, pp. 123‐142. 26 Dal XII secolo almeno, i Gianfigliazzi si erano spostati in Firenze dalla zona dell’attuale
Chiesanuova, frazione di San Casciano in Val di Pesa, terra alla quale restarono comunque
ampiamente legati. Cfr. supra, n. 19 e ASFi, Manoscritti, 252, Priorista Mariani, tomo 5, cc. 1075v‐
1076r; ASFi, Archivio Ceramelli Papiani, fasc. 2341; ASFi, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza,
X, 6‐27; ASFi, Raccolta Sebregondi, 2573. Per notizie su alcuni dei molti membri del lignaggio dei
Gianfigliazzi si vedano: R. Davidsohn, Storia di Firenze, VI, Firenze, 1965, pp. 582, 656, 737; le
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11 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
pratica dell’usura su vasta scala piuttosto che con il commercio27: tra gli altri,
infatti, debitori prestigiosi nei loro riguardi erano Carlo II d’Angiò, Giovanni II
d’Aragona e Ildebrando da Lucca, vescovo di Fiesole. Dalla fine del XIII e fino
alla metà inoltrata del XIV secolo, questa corposa famiglia si affiancò alle altre
dichiarate magnatizie dagli Ordinamenti di Giano della Bella28, salvo poi sfruttare
prontamente l’occasione offerta da una revisione di queste riforme29 di passare
tra i popolani, aprendo così ai propri membri le più alte gerarchie governative.
Dal 1369 (anno in cui vennero “fatti di popolo” grazie ad una provvisione di
pochi anni prima30), quindi, il potere privato – sociale e territoriale – acquisito dai
Gianfigliazzi fu travasato in quello pubblico, ampiamente gestito dalla figura di
Rinaldo Gianfigliazzi, fiancheggiatore del potente Rinaldo degli Albizzi31.
Le note vicende fiorentine della metà degli anni ’30 del Quattrocento
portarono con sé un rovesciamento degli equilibrî cittadini e l’avvento del
reggimento mediceo significò possibilità di ascesa politica per personaggi fino ad
allora tenuti in disparte rispetto alla scena pubblica. È il caso di Bongianni di
Bongianni di Giovanni Gianfigliazzi, appartenente ad un ramo meno fortunato di
voci relative ai Gianfigliazzi di Vanna Arrighi nel Dizionario Biografico degli Italiani e reperibili
on‐line all’indirizzo http://www.treccani.it/biografie/; A. Sapori, I libri, cit; Id., Le compagnie, cit.;
E. Faini, Uomini e famiglie nella Firenze consolare, Firenze, 2009, pp. 24‐25. 27 Questo fu uno degli elementi che distinsero la compagnia dei Gianfigliazzi rispetto alle molte
altre fiorentine, ad esempio Bardi e Peruzzi (dei quali sono invece ben note le imprese
commerciali e i fallimenti), in aggiunta alla tendenza a creare società numericamente molto
esigue (un paio di membri). La concentrazione verso la pratica creditizia ad usura permise loro
l’acquisizione di una consistente ricchezza mobile a partire da un investimento ridotto,
ricchezza che venne convertita in possedimenti fondiari pressoché addensati nella zona
immediatamente a sud di Firenze. 28 Dal 1293, quindi, i Gianfigliazzi erano esclusi dalle cariche politiche più importanti e
prestigiose. Tuttavia non per questo i magnati rimanevano esclusi dalla vita pubblica, potendo
infatti essere inseriti in altre magistrature (quali i Consigli del podestà e la Parte guelfa) o uffici
esterni (come le ambascerie e gli incarichi podestarili in altri comuni guelfi). 29 Già in precedenza tentata proprio da un Gianfigliazzi, Giovanni, in collaborazione con altri
sei magnati nominati nel 1343, unitamente a sei popolani, per gestire la situazione di emergenza
causata dalla presa di potere di Gualtieri di Brienne. Cfr. C. Paoli, Della signoria di Gualtieri duca
dʹAtene, in «Giornale Storico degli Archivi Toscani», VI (1862), pp. 171, 254. 30 La provvisione è del 1361. Cfr. ASFi, Consigli Maggiori, Provvisioni, Registri, 49, c. 1r. 31 Rinaldo Gianfigliazzi discendeva da uno dei tre rami derivati da Giovanni Gianfigliazzi e,
pertanto, era cugino del nonno del Bongianni qui studiato. Cfr. infra, p. 37. Per una biografia di
Rinaldo Gianfigliazzi si veda V. Arrighi, “Rinaldo di Giannozzo di Giovanni Gianfigliazzi”, in
Dizionario Biografico degli Italiani, LIV (2000), pp. 367‐371. In maniera decisamente marcata,
questo Gianfigliazzi si era legato alla fazione albizzesca non solo mediante la sua adesione
politica ma anche per mezzo di un matrimonio tra uno dei suoi figli e una figlia di Rinaldo degli
Albizzi, figlio di quel Maso che era stato avversario politico proprio di Rinaldo Gianfigliazzi
dopo la caduta delle Arti Minori e l’avvento del regime oligarchico. Cfr. A. Rado, Maso degli
Albizzi e il partito oligarchico in Firenze dal 1382 al 1393, Firenze, 1926, pp. 58, 77‐79, 111.
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12 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
quello del Rinaldo poc’anzi ricordato, che poté avviare una brillante carriera tra
le gerarchie governative della sua città32 a dispetto del tradizionale orientamento
che aveva fino ad allora contraddistinto gli esponenti più in vista della sua
consorteria, come abbiamo visto tradizionalmente legati alle schiere albizzesche.
Il cursus honorum di cui il nostro fiorentino fu protagonista ebbe lunga
durata33 e costituì per lui non solo un motivo di lustro sociale e soddisfazione
personale ma contribuì anche in maniera significativa a rinvigorire le sue
sostanze, che erano rimaste piuttosto ridotte prima della sua avventura nel
governo del Comune di Firenze34. Sicuramente il passaggio di status attuato da
Bongianni non era una sua personale esclusiva, avendo interessato la vita anche
di altri fiorentini35 i quali, partiti dal mondo mercantile similmente a lui, giunsero
alla copertura di incarichi pubblici, passaggio obbligato per i quali fu sempre
l’adeguamento alla linea politica vigente. Costituisce però una sua forte
prerogativa l’essersi addentrato fino ai gangli vitali del regime mediceo (e, ancor
più, laurenziano), una penetrazione che rese possibile i fortunati sviluppi della
sua esistenza e che rende estremamente corpose le sue Richordanze da un certo
punto in poi. I riflessi di questa forte presenza all’interno dell’establishment
32 Per la quale rimando al mio saggio, Possibilità di ascesa politica nella Firenze del XV secolo: il caso
Gianfigliazzi, di prossima pubblicazione su «Dimensioni e problemi della ricerca storica», Roma,
2012. 33 Bongianni visse infatti fino a 67 anni, dimostrando non solo una condizione fisica eccellente e
non erosa dai 15 anni trascorsi in mare ma anche capacità intellettive ed operative altamente
efficienti. Cfr. infra, p. 25 e n. 93. 34 A tal proposito, non sono pienamente d’accordo con Vanna Arrighi quando propone di
leggere nei viaggi mercantili di Bongianni una attività economicamente molto fruttuosa per il
nostro fiorentino. È vero che egli era partito con le sole “lire tre di picioli” dategli da sua madre,
ma va tenuta considerazione di ciò che ci dice con la sua scrittura. Così si esprime egli stesso,
infatti, parlando del suo ultimo anno all’estero: “1445 […] Nella sopradetta ragione di Maiolicha
si ghuadagniò molto pocho in modo che, quando tornai a Firenze nel 1446, chome apare di
rinpetto, mi trovai fiorini 700 di sugiello perché, dal 1440 al 1446, ebbi assaj perdite e anche
spexi assaj danari per chontentare le mie voglie […]”, Richordanze, cdgiv. Concordo invece con le
considerazioni fornite dalla Arrighi in merito alle premesse “politiche” fornitegli
dall’esperienza nel commercio. Cfr. V. Arrighi – F. Klein, Da mercante avventuriero a confidente
dello Stato. Profilo di Bongianni Gianfigliazzi attraverso le sue ricordanze, in «Archivio Storico
Italiano», CLXI (2003), pp. 53‐79, con particolare riferimento alle pp. 61 e ss. 35 Come ad esempio alcuni membri delle famiglie Capponi e Spinelli. Cfr. Ph.J. Jacks – W.
Caferro, cit.; R. Goldthwaite, Private wealth in Renaissance Florence: a Study of Four Families,
Princeton (NJ), 1968; Ph.J. Jones, Florentine Families and Florentine Diaries in «Papers of the British
School at Rome», XXIV (1956), pp. 183‐205 (quest’ultimo, tuttavia, inerisce ad un arco
cronologico precedente, tra XIII e fino alla fine del XIV secolo). Va in ogni caso sempre tenuto
conto dell’importanza anche politica che il ceto mercantile aveva in Firenze dove, ricordiamolo,
le Arti maggiori e minori erano ampiamente presente sulla scena pubblica.
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13 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
fiorentino e la sua confidenzialità con gli interlocutori cittadini principali36 non
solo sono ravvisabili nei successi politici ma costituirono anche la base per un
aspetto più materiale, quello delle sue proprietà terriere, certificate sempre in
crescita dalle registrazioni catastali e dalle dettagliate descrizioni forniteci dal
libro di ricordi37 del Gianfigliazzi, una tipologia di documento che, come i libri di
famiglia e come tutte le fonti dal carattere spiccatamente privato, offre la preziosa
possibilità di osservare gli eventi da una prospettiva privilegiata in quanto
personale. Gli studi e le riflessioni attorno al tema dei libri di famiglia e di
ricordanze sono decisamente numerosi38 e non è scopo di questo lavoro discutere
le diverse definizioni e caratteristiche che sono state date a fonti come quella qui
in analisi o ad essa similari; è però mia volontà sottolineare come le due tipologie
“libro di famiglia” e “libro di ricordanze” non godano a mio avviso della
proprietà invariantiva. Se, infatti, Angelo Cicchetti e Raul Modenti hanno
proposto una definizione del libro di famiglia (basandosi sulla teoria del
cronotopo di Bachtin) quale “lo spazio della famiglia nel tempo della
quotidianità”39, per i libri di ricordanze suggerirei una lieve modifica in ʺspazio
dello scrivente nel tempo della contemporaneitàʺ, intesa questa come la durata
della sua esistenza, laddove lo scrivente non necessariamente si identifica con la
famiglia né va obbligatoriamente alle sue origini, come è nel caso di Bongianni
Gianfigliazzi. Documenti come il manoscritto di Bongianni sono attestati in
Firenze con una frequenza disarmante: i Fiorentini, infatti, erano notevoli
conservatori delle loro memorie40 e soprattutto i mercanti costituirono l’autentico
acceleratore della memorialistica41, un impulso che permette spesso di
36 È esempio di questa confidenzialità una lettera del 1482 in cui Bongianni si rivolge a Lorenzo
de’ Medici chiamandolo “frater”. Il documento è in ASFi, Mediceo avanti il Principato, filza 38,
doc. 423. 37 L’intero codice, infatti, è punteggiato di informazioni sul patrimonio immobiliare e fondiario,
con continui rimandi ad altri libri di casa Gianfigliazzi dal carattere eminentemente contabile. 38 Solo per citarne alcuni, A. Petrucci (a cura di), Il Libro di Ricordanze dei Corsini (1362‐1457), in
«Fonti per la storia d’Italia», C (1965), pp. 4, 25 e ss.; G.M. Anselmi – F. Pezzarossa – L. Avella,
La memoria dei Mercatores. Tendenze ideologiche, ricordanze artigianato in versi nella Firenze del
Quattrocento, Bologna, 1980; A. Cicchetti ‐ R. Mordenti, I libri di famiglia in Italia, 2 voll., Firenze,
1985; U. Di Niccoló Martelli, Ricordanze dal 1433 al 1483, a cura di F. Pezzarossa, Firenze, 1989; F.
Pezzarossa La memoria e la città: scritture storiche tra Medioevo ed età moderna, Bologna, 1995; G.
Ciappelli, Ricordanze: Quaternuccio e giornale B, 1459‐1485, Firenze, 1995; L. Pandimiglio, Famiglia
e memoria a Firenze, I, Secoli XIII‐XVI, Firenze, 2010. 39 Cfr. A. Cicchetti ‐ R. Mordenti, “La scrittura dei libri di famiglia”, in Letteratura italiana, a cura
di A. Asor Rosa, III. Le forme del testo, II. La prosa, Torino, Einaudi, 1984, pp. 1117‐59. Per il
cronotopo bachtiniano, M. Bachtin, “Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo. Saggi di
poetica storica”, in Id., Estetica e romanzo, a c. di C. Strada Janovič, Torino, 1979, pp. 231‐405. 40 “Florentines were remarkable record‐keepers”. R. Goldthwaite, Private Wealth in Renaissance
Florence. A Study of Four Families, Princeton (NJ), 1968, p. 3. 41 Si vedano, tra i molti, i lavori di C. Bec, op. cit.; M. Guglielminetti, Memoria e scrittura, Torino,
1977; la curatela di V. Branca in Mercanti scrittori. Ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento,
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14 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
implementare il parterre di fonti disponibili mediante il canale della
documentazione privata, utili quando si è in presenza di dati patrimoniali.
Pertanto, che si tratti di annotazioni evenemenziali oppure economiche, non
possiamo che constatare come Bongianni di Bongianni di Giovanni Gianfigliazzi
non sfugga alla grafomania che informava il suo status. Pur essendo stato
inglobato all’interno delle maglie del governo della sua città, infatti, non va
dimenticato l’ambiente che gli era naturale, quello dei mercatores, tenuto tuttavia
fuori dalle Richordanze con un fare decisamente tranchant42.
Utilizzando dunque il libro di richordanze di Bongianni43 e limitando qui lo
studio al settore fondiario, l’analisi che segue si propone di interpretare
storicamente i dati economico‐patrimoniali ricavabili dai catasti fiorentini del XV
secolo, le cui informazioni saranno ove confermate ove integrate da quelle
provenienti proprio dal libro di Bongianni. Il carattere personale della nostra
fonte, infatti, permetterà di ampliare lo spettro delle considerazioni derivabili
dallo studio delle sole registrazioni pubbliche, supportando così la lettura di una
diretta proporzionalità tra fortuna medicea e beni del Gianfigliazzi e
confermando una volta di più anche la consolidata tendenza delle élite cittadine
ad insediarsi oppure ad intensificare la propria ricchezza immobile preesistente
in porzioni del contado vicine al suolo urbano ed altamente produttive.
Dati ufficiali e dati ufficiosi: la crescita del capitale agrario di Bongianni Gianfigliazzi
attraverso i catasti quattrocenteschi e le sue Richordanze
Così come Pietro Nanni ha notato per il ramo Medici di Cafaggiolo44, neppure il
ramo dei Gianfigliazzi cui apparteneva Bongianni si sottrasse a tale
orientamento georgofilo assunto dal “patriziato urbano”45, tanto che egli
chiuderà le denunce ufficiali del 1480 relative alle sue “sustanze e beni” con un
numero di poderi estremamente elevato rispetto alle dichiarazioni catastali fino
Milano, Rusconi, 1986; G.M. Anselmi, F. Pezzarossa, L. Avellini, op. cit.; L. Pandimiglio, Famiglia
e memoria a Firenze, cit. 42 Per spiegare le ipotesi di questa esclusione, mi permetto di rimandare al mio volume, in fase
di edizione, Questo libro rosso. I ricordi segreti di un amico di Lorenzo il Magnifico, pp. 8‐10. 43 Una sommaria analisi del contenuto del manoscritto si trova in V. Arrighi – F. Klein, cit. Una
più dettagliata indagine, che comunque dal lavoro delle due studiose prende le mosse, è
presente in L. Piffanelli, Possibilità di ascesa politica, cit., in cui viene data maggiore
considerazione al periodo mercantile di Bongianni e vengono esposte alcune caratteristiche
legate al contenuto e alla tipologia del testo. 44 P. Nanni, Lorenzo agricoltore. Sulla proprietà fondiaria dei Medici nella seconda metà del
Quattrocento, in «Quaderni della Rivista storia dell’agricoltura», II (1992), pp. 1‐148. 45 Per un discorso sul significato del termine in Italia si veda A. Sapori, “Classi sociali fra il
secolo XI e il XV (si può parlare di un patriziato?)”, in Studi di storia economica, III, Firenze 1967,
pp. 307‐311.
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15 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
al 145746. Il patrimonio fondiario del Gianfigliazzi subí un incremento che non
solo aveva avuto la stessa matrice della sua evoluzione politica ma ne era stato,
per di più, diretta conseguenza: è difatti agevolmente comprensibile come la
granitica posizione politica di Bongianni avesse immediati riflessi in campo
sociale ed economico, portandolo a possedere un abbondante numero di terreni
lavorati, case nel contado, locali in Firenze e, fatto rilevante, “el palagio detto
«el palagio de’ Gianfigliazzi»”47, l’acquisto del quale costituisce una sorta di
punto di non ritorno che sancì il positivo divario tra i suoi averi e quelli degli
altri rami del suo casato, primo fra tutti quello di Rinaldo. Dai dati riportati
nella sua denuncia catastale del 1469, che precedette solo di pochi mesi
l’acquisto del “palagio” dagli Ufficiali della Torre, la situazione economica di
Bongianni risulta in effetti sicuramente più felice di quella di altri esponenti
della sua consorteria48 e ciò fu essenzialmente dovuto alle oculate manovre
portate a termine negli anni precedenti. Quali furono queste manovre e in che
modo vennero abilmente messe in atto è possibile tentare di analizzare
immergendoci con maggiore meticolosità all’interno del suo libro di ricordi,
grazie al quale siamo in grado di studiare quale sia stato l’andamento delle
proprietà di Bongianni e verificare se esso abbia o meno seguíto in maniera
46 Sono ben 22, infatti, i poderi registrati in ASFi, Catasto 1009, cc. 160r‐162v rispetto ai soli 7
della registrazione del 1457 in ASFi, Catasto 813, cc. 268r‐269r. Cfr. anche infra, Tabella B.
Evoluzione delle proprietà fondiarie nelle denunce catastali quattrocentesche, p. 33 (da ora
sempre “Tabella B”). Va inoltre segnalato un elemento critico nella lettura complessiva dei dati
catastali: l’aspetto quantitativo delle terre denunciate, infatti, è un dato sicuramente più
affidabile (ma non per questo assolutamente certo) rispetto alle cifre relative alle produzioni di
quei terreni. Al di là del catasto del 1427, infatti, animato da una generalizzata fiducia e
positività nella redistribuzione fiscale, le successive dichiarazioni risentono di una probabile
parziale inattendibilità dei dati, motivata dalla volontà di evitare una eccessiva pressione
tributaria e resa possibile anche dall’assenza, dalla prima metà del XV secolo, della controprova
fornita dai Campioni degli Ufficiali. Paragonate tra loro, infatti, le sole portate dei cittadini
mostrano una estrema similarità nei dati di produzione (stessi quantitativi di legna, vino, biada,
olio si ripetono immutati in catasti progressivi), segno quindi di una pedissequa copia che, a
dispetto dei possibili incrementi di rendita, illustrava una situazione cristallizzata e creava, di
conseguenza, una tassazione parziale. Per Bongianni quest’espediente è altrettanto evidente
confrontando gli elementi contenuti nei diversi catasti; di qui la grande importanza di fonti
private come la nostra, che aprono una corsia parallela alle registrazioni pubbliche e
permettono raffronti e un perfezionamento dei dati ufficiali. 47 Richordanze, c. 12v. 48 Ad esempio Maddalena di Francesco di Rinaldo, vedova di Domenico Davizzi, dichiarava
quell’anno solo il possesso di un podere con una casa da lavoratore usata anche come
abitazione e dotata di forno e stalla; la donna, insieme con i tre nipoti Andrea, Francesco e
Baldassarre, viveva in affitto nel palazzo Gianfigliazzi per 4 fiorini d’oro l’anno. La situazione
di Bongianni era migliore anche di quella di un’altra famiglia del suo stesso ramo, quella di
Agnolo d’Antonio Gianfigliazzi (nipote quest’ultimo di Jacopo, ovvero il fratello di Giovanni,
nonno di Bongianni), che pure possedeva una casa a Firenze, sempre nel popolo di Santa
Trinita, e diversi poderi. ASFi, Catasto 917, cc. 79, 134r.
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16 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
organica il consolidamento della posizione medicea all’interno della repubblica
fiorentina.
Bongianni arriva a Firenze dodici anni dopo il rientro di Cosimo49, nel
momento in cui questi era riuscito a mettere in atto i suoi primi decisivi
tentativi di governo50 e, se non per indicare l’ascendenza di Piero e Lorenzo,
mai si legge nella nostra fonte il suo nome o qualche riferimento che ci permetta
di parlare di una già avviata fede medicea: dovremmo dunque supporre che
non vi fosse in questo periodo trattamento di favore alcuno per il nostro
mercante (e forse questo non era neppure da lui ricercato) che infatti, pur
beneficiando del passaggio da patrono a Capitano delle galee della Repubblica
fiorentina51, conserva ancora la sua posizione socioeconomica e non è ancora tra
i protagonisti della scena pubblica. L’incrocio tra le denunce catastali e le
informazioni forniteci dalle sue Richordanze chiarisce bene questa situazione:
fino al 1457, infatti, le denunce agli Ufficiali del Catasto indicano che i beni
fondiarî non subiscono se non lievissimi ampliamenti rispetto a quanto
ereditato da Bongianni dopo il 146352, evidenziando una situazione di stallo
patrimoniale che inizia a smuoversi solo col 1460, quando cioè si compiva il
passaggio da patrono a Capitano delle galee fiorentine53 e stava per terminare
gli incarichi in mare per conto di privati. In precedenza l’unico intervento sul
patrimonio che sia stato registrato si riferisce al 1456, quando acquistò un
podere in un “luogho detto «el chorno»”54. La situazione di questo terreno è
49 Richordanze, c. 1r. La decisione presa dalla Repubblica fiorentina proprio nel 1446 di aprirsi ad
una meglio definita politica marittima (per la quale cfr. anche M. Mallett, The Sea Consuls of
Florence in the Fifteenth Century, in «Papers of the British School at Rome», XXVII (1959), pp. 156‐
169) mi induce a sospettare un rapporto di causa/effetto tra il ritorno in città del Gianfigliazzi e
questa provvisione: se, a causa della mancanza attuale di documentazione a riguardo, non
possiamo ipotizzare un rientro interessato, è lecito perlomeno supporre che la Repubblica si sia
voluta giovare delle competenze marinaresche di Bongianni in quel momento. 50 Per Rubinstein, infatti, dall’esilio di Rinaldo di Maso degli Albizzi nel 1434 e fino alle
disposizioni della Balia del ’44 il regime vivrà ancora una fase sperimentale, durante la quale
Cosimo si adoperò nel gettare le basi “costituzionali” che porteranno sempre più i Medici a
costituire la fazione egemone. Cfr. N. Rubinstein, The Government of Florence under the Medici,
Oxford, 1966, p. 91. 51 Un passaggio realizzatosi comunque ben quindici anni dopo il rientro a Firenze di Bongianni.
Cfr. Richordanze, c.4v. 52 Cioè dopo la morte di suo fratello Gherardo, la cui eredità andava a sommarsi a quella
paterna, già in suo possesso a seguito della divisione operata tra i due il 30 maggio 1456.
Richordanze, cc. 2v, 5r. Per i dati patrimoniali fino al 1457 cfr. ASFi, Catasto 40, cc. 928r‐929v;
ASFi, Catasto 362, cc. 714r‐716r; ASFi, Catasto 458, cc. 517r‐518r; ASFi, Catasto 619, cc. 580r‐580v;
ASFi, Catasto 669, cc. 976r‐977r; ASFi, Catasto 705, cc. 80r‐80v; ASFi, Catasto 813, cc. 268r‐269r. 53 Si realizzava quindi l’accesso del Gianfigliazzi ad una carica politica del Chomune di Firenze. 54 Acquistato nell’ottobre del 1456 e cosí chiamato forse per il disegno creato dai suoi confini o
per qualche protuberanza rocciosa lí presente: “[...] la quale achozai chol podere dal chorno
[...]”, Richordanze, c. 2v. Il podere è menzionato nella nostra fonte anche in occasione del primo
bilancio levato da Bongianni nel dicembre 1463 e motivato forse dalla volontà di fare il punto
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17 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
interessante perché pur appartenendogli, come detto, fin dal 1456, esso viene
denunciato agli Ufficiali del catasto solo nel 146955. L’eventualità che il
Gianfigliazzi abbia voluto dar seguito ad una piccola evasione fiscale potrebbe
balenare alla mente di chiunque; eppure, sulla base anche di un altro dato sopra
menzionato, dovremmo forse muoverci con maggiore accortezza: il podere,
infatti, compare per la prima volta nel catasto del 1469. Si potrebbe allora dire
che la vigorosa condizione economica raggiunta abbia spinto Bongianni ad una
maggiore lealtà nei confronti dello stato e abbia indotto alla registrazione fiscale
del terreno, sebbene sia un altro l’elemento che, a mio avviso, è maggiormente
in grado di argomentare l’ipotesi di un volontario “occultamento fiscale”. In
posizione molto precoce all’interno del suo libro troviamo un richordo, relativo
al 1467, in cui Bongianni annota di aver barattato la taverna che aveva presso
“la Chollina” con un pezzo di terra che sarebbe andato ad ampliare l’estensione
proprio del podere “dal chorno”56. Con la dovuta cautela impostaci dall’alta
rarefazione dei dati, possiamo allora provare ad immaginare quale fosse la
nuova situazione: l’appezzamento comprato nel 1456 era forse scarsamente
produttivo e tanto Gherardo quanto Bongianni (giacché le denunce catastali
risultano congiunte fino al 1469) non credevano di riceverne utili a sufficienza
per una tassazione57. Con l’ampliamento dei confini nel 1467, la produttività di
quel terreno viene incentivata e il podere inizia con molta probabilità a rendere
di più (merito forse anche di maggiori attenzioni date allo sfruttamento del
terreno, cosa di cui Bongianni si interessò più volte e in diverse occasioni58) per
cui è ora necessario inserirlo all’interno dei beni tassabili.
La situazione del podere “il Corno” è, tuttavia, un caso isolato all’interno
di questa fase iniziale della costruzione patrimoniale del Gianfigliazzi, i cui
incarichi in mare lo tenevano ancora lontano da Firenze59. Queste trasferte, se
da un lato furono per lui una chiave d’accesso ai successivi impegni pubblici,
della situazione patrimoniale dopo la morte di Gherardo e l’assunzione della relativa eredità.
Cfr. Richordanze, c.6r. 55 La prima denuncia è in ASFi, Catasto 917, c. 161r. 56 Richordanze, c. 2v. 57 A tal riguardo va notato che, nella dichiarazione catastale del 1480, a proposito di due poderi
detti “la Nocie” presso il popolo di S. Martino a Lucardo, Bongianni chiede espressamente che
questi non subiscano tassazioni perché hanno una produttività ridotta: “Chome vedete rendono
meno che quello sono obrighato a paghare e per[ci]ò non mi debbono essere stimati nulla [...]”.
Parte della produzione di questi due poderi era inoltre devoluta al convento di Santa Trinita
(“[...] sono di luoghi pii”). Cfr. ASFi, Catasto 1009, c. 161v e Richordanze, cc. 22v‐23r. 58 Nel terreno situato in luogo detto “Marignollina”, oltre ad operare dei rifacimenti strutturali,
fa costruire una casa da lavoratore in aggiunta a quella già presente. Richordanze, c. 20v. Lavori
di ristrutturazione e migliorie furono condotti anche al Paternuzzo e alla Palaia (c. 19v). 59 Pur essendo rientrato a Firenze nel 1446, dopo tredici anni passati tra Barcelona, Valencia,
Mallorca, Almeria, Malaga e Sicilia, Bongianni fu impiegato sulle galee della Repubblica
fiorentina fino al 1462. Cfr. Richordanze, cc. 1r‐4v.
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18 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
sotto il profilo economico non crearono forti introiti. I successi politici
trascinarono solo in un secondo momento la situazione economica nel vortice
delle loro fortune, ma gli accenni ad un miglioramento patrimoniale li
ravvisiamo con quasi tre anni di anticipo rispetto all’ingresso nella politica60,
segno che l’esistenza di Bongianni era mantenuta ancora svincolata dalle
vicende medicee, le quali hanno ora superato l’esperienza iniziale e si avviano a
rinforzare i cardini del reggimento. Quasi contemporaneamente, così, anche
Bongianni si avvia al corroboramento delle sue sostanze e i dati in nostro
possesso mostrano un programma di consolidamento economico più definito
rispetto al passato.
La Tabella A61 ripercorre analiticamente l’intera biografia di Bongianni
Gianfigliazzi: gli uffici politici sono presentati parallelamente con gli
investimenti patrimoniali. Vengono qui proposte alcune riflessioni a partire dai
dati in essa esposti. Siamo prossimi al 1464, anno in cui Cosimo sarà costretto a
lasciare il passo a suo figlio Piero, e troviamo Bongianni che arriva tra gli Otto
di Guardia già con una discreta ricchezza mobile e qualche possedimento in più
rispetto a quelli ereditati. Saranno due decessi a fornirgli i migliori strumenti di
cui potesse disporre in quel momento per lui ancora nuovo: quello di suo
fratello Gherardo nel 1463 e quello di Cosimo de’ Medici nel 1464. Il primo lo
dotò di numerosi possedimenti e, un anno dopo, gli permise di disporre di un
cospicuo retroterra fondiario che gli facesse da rendita62; l’altro, portando sulla
scena pubblica fiorentina Piero de’ Medici, gli aprí la strada per la successiva
affermazione politica. Se infatti abbiamo rilevato come non vi fossero legami
intenzionali tra interessi di Bongianni e potere cosimiano, lo stesso non può
dirsi in questo momento: fin dalla semplice lettura del suo libro di ricordi
percepiamo che le circostanze sono mutate e il nome di Piero ricorre
occasionalmente nelle memorie del nostro fiorentino63, intervenendo soprattutto
in due eventi capitali della sua esistenza: il matrimonio nel 1463 con Costanza
di Alessandro del Vigna64, che gli fu possibile grazie all’intercessione di Piero di
Cosimo, e la coalizione stretta nel 1464 con altri filomedicei “a dimensione e
mantenimento prima de’ nostri magnifici ed ecielsi Signori e, apresso, delle
nostre persone e beni”65. Pur essendo solo due menzioni, attraverso esse
traspaiono alcuni dettagli interessanti. Innanzitutto quelle nozze, con la cui
registrazione si apre nel manoscritto la strada al nome dei Medici, finora
taciuto, diventano spia di un rapporto personale con Piero de’ Medici (a
60 Che avvenne nel 1463. Cfr. Richordanze, c. 3v. 61 Infra, Tabella A. Carriera politica e acquisizioni fondiarie, pp. 26‐32 (da ora sempre “Tabella
A”). 62 L’eredità di Gherardo è nelle mani di Bongianni dal 19 marzo 1464. Richordanze, c. 5r. 63 Richordanze, cc. 5v, 9r, 9v. 64 Ivi, c. 5v. 65 Ivi, c. 9r.
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19 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
differenza di quanto rilevato con Cosimo suo padre) e, quindi, col potere
principale in città. Cosimo aveva ormai consolidato la sua posizione in Firenze
(non solo a seguito degli eventi del ’58 ma spalleggiato anche dall’intesa
instaurata con Francesco Sforza) ma era vecchio e malato e il passaggio di
consegne a suo figlio non avrebbe incontrato particolari difficoltà66: il fatto che
Bongianni fosse ora inserito in una trama di relazioni che gravitava attorno a
Piero ci indica che la sua vicinanza alla fazione medicea aveva vissuto un
crescendo da quando era rientrato a Firenze la prima volta fino a quando vi
risiedette stabilmente67. Se, quindi, a causa della sua assenza dalle dinamiche
politiche fiorentine, non aveva avuto modo di collaborare con Cosimo,
l’occasione offertagli dall’entrata in gioco di Piero era da cogliere con prontezza.
Probabilmente iniziava a capire le dinamiche della nuova politica fiorentina, di
impronta medicea che, per quanto ancora animata da conservatorismo sulla
scia del governo oligarchico precedente, dimostra di saper premiare personaggi
appartenenti a famiglie sconosciute al grande sistema68.
La prima permanenza tra gli Otto di Guardia sarà decisiva per la
formazione della sua coscienza politica e quell’esperienza permette a noi di
passare al secondo punto, quello relativo alla “inteligenzia” del 1464, nella
quale egli dimostra ormai di essere pienamente e in maniera consapevole
filomediceo69: la volontà di stringere un’alleanza privata (se non segreta) con
personaggi cui si sentiva ideologicamente vicino è per noi l’esempio lampante
di un avvenuto cambiamento. Certamente questa scelta non gli derivava solo
da motivi di affinità politica e Bongianni capiva bene che la decisione operata
era, in quel momento, in primo luogo una garanzia per la tutela dei suoi averi e
per la sua persona, nonostante la gerarchia delle priorità da lui esposte in quel
richordo; possiamo quindi attestare al 1464 l’inizio delle sue fortune economico‐
fondiarie, in concomitanza con la salita al potere di Piero de’ Medici.
Fino a questo punto, quindi, il parallelismo che abbiamo proposto tra
crescita patrimoniale di Bongianni Gianfigliazzi e fortuna medicea sembra
66 Cfr. N. Rubinstein, op.cit., pp. 165‐167. 67 Ossia tra il 1446 e la fine del 1462, quando si concluse il suo ultimo viaggio sulle galee del
Comune. Richordanze, cc. 2r, 4v. 68 Come sarà, ad esempio, per Bernando Buongirolami in età laurenziana. L’accusa di aver
elevato individui di bassa estrazione sociale agli alti ranghi di governo sarà spesso rivolta ai
Medici (si vedano gli eventi degli scrutini dal ’40 al ‘53) i quali, in realtà, mantennero anch’essi
lo spirito elitario che era stato proprio del regime oligarchico. Tuttavia tanto Cosimo quanto
Piero e poi Lorenzo sapevano bene che l’instaurazione di rapporti di fiducia era alla base della
sana sopravvivenza del reggimento; e nulla legava di più della riconoscenza. Cfr. ad es. N.
Rubinstein, op.cit., p. 75 e ss., con particolare riferimento alle pp. 80‐81. Sul senso dell’oligarchia
nel governo fiorentino e su come invece questo avesse in realtà proceduto ad un ampliamento
delle dimensioni della classe politica cittadina, si veda J.M. Najemy, Corporatism and Consensus
in Florentine Electoral Politics (1200‐1400), Chapel Hill (NC), 1982, p. 46. 69 Tanto da farlo appunto parlare di “nostri” signori.
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20 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
dimostrarsi ipotesi valida e convalidata dalle testimonianze documentarie in
nostro possesso. Piero ristabilisce la sua posizione in Firenze nel 1466 dopo un
biennio di attriti con i “principali del reggimento”70 e le sostanze del nostro
fiorentino continuano a crescere, stabilendo proprio in quell’intorno di anni il
nuovo e più cospicuo nucleo di acquisizioni poderali71. La sua devozione verso
la causa medicea era ormai solida, avendone anche sperimentati i benefici che
se ne potevano trarre72. Di questi benefici sono ottimo esempio le registrazioni
patrimoniali del 146973, le quali mostrano come Bongianni, a differenza di suo
fratello Gherardo, non si sia limitato alla semplice conservazione delle sostanze
ricevute in eredità ma, con una certa progettualità, abbia proceduto sia ad un
ampliamento nel numero dei terreni (aumentando cosí anche il gettito fiscale
dell’erario fiorentino74), sia ad un maggiore sfruttamento di essi, con la
conseguente crescita degli introiti personali. Non siamo ancora nella fase
apicale del suo possesso agricolo, ma la Tabella B mette chiaramente in
evidenza che si è già verificato un incremento di almeno otto poderi rispetto
agli anni in cui era in vita ancora suo fratello Gherardo. Una prima analisi della
sua geografia patrimoniale, inoltre, ci permette di dire che, ad eccezione delle
poche strutture esplicitamente adibite a residenza75, la sua proprietà fondiaria si
estendeva nel comune di San Casciano in Val di Pesa e segnatamente nel
70 Dal 1464 al 1466 la gestione del potere da parte di Piero si scoprí fallimentare e accentuò
quelle fratture che non si erano sopite neppure sotto Cosimo suo padre. L’elezione a mano della
Signoria fu interrotta con la speranza di un rinnovamento politico, ma la Signoria del settembre‐
ottobre 1466 si rivelò essere filomedicea e ciò permise a Piero di ristabilire la propria autorità,
avviando misure che avrebbero garantito una più sicura conservazione del regime (la pratica di
tenere le borse a mano, ad esempio, fu prorogata per venti anni, restando poi di fatto in vigore
fino al 1494). Cfr. N. Rubinstein, op. cit., pp. 165‐204. 71 Cfr. Tabella A relativamente agli anni dal 1465 al 1469. 72 In soli tre anni, dal 1465 al 1468, acquista una casa in Firenze (cc. 6v, 18r), quattro poderi nel
contado (cc. 20v, 21, 41r) e amplia, a mezzo baratto, il podere “dal chorno”. 73 I dati raccolti sono presenti, insieme a quelli provenienti dagli altri catasti quattrocenteschi del
Comune di Firenze, nella Tabella B. 74 L’incrocio dei dati tra denunce catastali del 1469 e del 1480 e le Richordanze mostra da parte di
Bongianni una sostanziale trasparenza fiscale. Notiamo, infatti, una quasi piena corrispondenza
tra beni terrieri posseduti e dichiarati: nel catasto del 1480, quello più ampio, solo tre terreni non
sono riportati nelle registrazioni ufficiali e, se teniamo conto che è ipotizzabile una sorta di
buona fede per le omissioni del podere detto “la Palaia” – che non appare in nessun catasto
riferito ai beni di Bongianni ma è registrato Richordanze, cc. 2v, 4r, 6r, 19v – e del podere “alla
Collina” – che appartiene alla sua famiglia da almeno due generazioni ed è sempre ricordato –,
il numero scende ad uno solo, il “Vetriciaio”. Cfr. ASFi, Catasto 917, cc. 160r‐163v; ASFi, Catasto
1009, cc. 160r‐162v. 75 Mi riferisco a: la casa sulla “choscia del ponte a Santa Trinita” comprata nel 1460 (cc. 4v, 18v);
l’abitazione, sita nello stesso popolo, giuntagli dall’eredità di Gherardo (c. 17v); la casa sul
Lungarno comprata da Carlo de’ Medici e rivenduta a Lorenzo nel marzo del 1475 (cc. 6v, 18r).
La residenza di Bongianni è quindi strettamente cittadina, una situazione facilmente
comprensibile, visti i continui e importanti incarichi politici che occupava.
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21 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
“popolo e piviere di San Branchazio”76, ossia a San Pancrazio, una frazione di
San Casciano che è anche diocesi di Firenze77.
La zona, seppure non costituisse un caso isolato78, era particolarmente
fruttifera dal punto di vista agricolo, collocandosi in una sezione della regione
del Chianti altamente produttiva non solo nel più noto campo enologico ma
anche a livello oleario e cerealicolo; non stupisce, quindi, la scelta di Bongianni
di voler creare qui un esteso territorio che gli fornisse materie prime alimentari
nonché guadagni. Così procedette, mediante compera o baratto, alla definizione
di un vasto perimetro fondiario che aveva come punto di riferimento il piviere
in Val di Pesa. La pieve di San Pancrazio, di cui erano patroni i Buondelmonti,
comprendeva numerose chiese (più spesso semplici cappelle) e quindi
altrettanti “popoli”, in alcuni dei quali si dislocavano possedimenti terrieri di
Bongianni quali le due acquisizioni de “la Nocie” in San Martino a Lucardo; il
podere “Spicchio” a Sant’Andrea a Cellole e l’adiacente “Bignolle” a Santa
Maria a Bignola; i due terreni, “Vetriciaio” e “Polvereto”, acquistati da Cione di
Giovannozzo Pitti a San Michele a Polvereto, dove era situato anche il terreno
detto “le Quercie”; la spesso menzionata “Valle magiore” cioè la terza parte di
un bosco sito nel popolo di Santa Cristina, nella stessa zona del già citato “il
Corno”, della “Fontanella”, di “Sorbiglianello”, del “Gibione” e del pezzo di
bosco “Gonfienti”79. Dunque, tenendo presenti i risultati della Tabella B ed
espandendo il significato del dato strettamente fiscale delle registrazioni
ufficiali, riusciamo a dedurre che buona parte dei possedimenti agrari era ormai
stabilizzata tanto qualitativamente quanto geograficamente e costituiva un
76 Nella campagna toscana il “popolo” è l’unità ecclesiastica più piccola e senza funzione
battesimale e, per estensione, la massa dei fedeli di un limitato territorio che sono soggetti
all’autorità di un parroco; il “piviere” è, invece, la più ampia suddivisione territoriale del
contado su cui si estende l’autorità della pieve, ossia della chiesa di campagna dotata
dell’insieme delle funzioni religiose e che raccoglie sotto di sé una vasta zona rurale. Cfr. D.
Herlihy – C. Klapisch‐Zuber, op. cit., pp. 165‐186. Per una lettura più approfondita sulla
situazione fiscale del contado si veda E. Conti, I catasti agrari della repubblica fiorentina e il catasto
particellare Toscano (secoli XIV‐XIX), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 1966. Sulla
campagna fiorentina nel primo Quattrocento si veda P. Pirillo, Forme e strutture del popolamento
nel contado fiorentino, I, Gli insediamenti nell’organizzazione dei populi (prima metà del XIV secolo),
Firenze, 2005. 77 Numerose informazioni sul comune di San Casciano in Val di Pesa e sulla pieve di San
Pancrazio sono rinvenibili in R. Cacciatori – M. Bartoli, San Casciano in Val di Pesa. Guida storico
artistica, Siena, 2006; M. Frati, Chiesa romaniche della campagna fiorentina. Pievi, abbazie e chiese
rurali tra l’Arno e il Chianti, Empoli, 1997. 78 Frazioni affatto sterili erano Montefiridolfi, Bargino o anche Sant’Andrea in Percussina. Cfr.
R. Cacciatori – M. Bartoli, op. cit., p. 23 e ss. 79 Escluso il podere “Spicchio”, che ritroviamo solo nelle denunce catastali (ASFi, Catasto 619, c.
580r e ASFi, Catasto 705, c. 80r), gli altri poderi sono menzionati nelle Richordanze
rispettivamente alle cc. 22‐23r, 24r, 21v, 21, 20v, 19v, 20r, 21r, 21v, 20v, 22r.
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22 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
nucleo patrimoniale territorialmente definito80; su questi criteri saranno dunque
impiantate le successive acquisizioni81, alle quali si riferiranno le nostre ultime
considerazioni.
L’apice del successo: ascesa politica e consolidamento economico
Abbiamo visto come l’incremento progressivo delle sustanze fondiarie di
Bongianni abbia essenzialmente seguìto le linee di sviluppo del regime mediceo
da Cosimo a Piero. Resta ora da verificare se la dinamica evolutiva proposta sia
confermata anche nel momento di massima potenza del regime, quello in cui
giocò un ruolo importante Lorenzo de’ Medici. Già attraverso una prima
disamina del materiale di cui disponiamo siamo in grado di rilevare un
rallentamento della crescita patrimoniale del Gianfigliazzi: la Tabella A, infatti,
ci mostra ampi riquadri vuoti laddove per la carriera politica illustra una vivace
situazione; siamo dunque in presenza di un potenziamento economico che,
sebbene non spentosi completamente, si è avviato alla sua fase di assestamento.
Nonostante i consistenti dati fondiari del catasto del 148082, infatti, gli eventi
politici di quel momento ebbero i loro risvolti per Bongianni soprattutto nel
campo delle funzioni di governo, dove si registrano ancora evoluzioni
sensibilmente importanti, legate proprio all’ascesa di Lorenzo. Piero il Gottoso
muore nel 1469, l’anno del catasto in cui abbiamo rinvenuto un forte aumento
patrimoniale per Bongianni, per cui possiamo constatare una coincidenza tra gli
inizi del potere laurenziano e gli inizi dei nuovi – ultimi – ingressi terrieri nel
patrimonio di Bongianni, il cui ulteriore ampliamento si colloca definitivamente
in una manciata di anni, dal 1470 al 1475, con un lieve accrescimento nel 1478.
Per quegli anni, la Tabella A ci mostra quanto fosse ormai progredita la sua
carriera politica e quanto questa fosse cresciuta in termini di honore, avendo egli
ricoperto incarichi cardinali nelle funzioni di governo83, senza considerare
l’investitura a Cavaliere dello spron d’oro84. Questa eccellente affermazione nel
settore pubblico trova una risposta anche nell’ambito personale, incarnandosi
però non più nell’ampliamento delle proprietà terriere ma nell’acquisto del
80 La sola nota che si discosta dalle comuni prerogative logistiche e qualitative dei terreni
acquisiti si registra relativamente ad un podere presso Poggibonsi, dotato di un mulino (donde
il nome “Mulino nuovo”) e attrezzato anche per attività di tessitura. Si trattava di “Uno mulino
chon 4 palmenti e 4 pile da gualchiere e una stele d’arotare, e chon tiratoi e stalle e sale e
chamere [...]”, Richordanze, cc. 23v, 40r. La pila è una sorta di mortaio, una conca in pietra; la
gualchiera era un macchinario usato nel medioevo per lo più nella manifattura laniera. 81 Le caratteristiche di questi poderi, unitamente a quelle degli altri terreni, le ritroviamo nella
Tabella C. Localizzazione e caratteristiche dei poderi di Bongianni Gianfigliazzi, pp. 34‐36. 82 Riportati nella Tabella B. 83 Otto di Balia a fine 1469 (c. 11r), Ufficiale del Monte nel 1470 (ibidem) e, nello stesso anno,
Gonfaloniere di Giustizia (c. 12r). 84 Ricevuta nel 1470. Cfr. Richordanze, c. 12.
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23 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
palazzo di famiglia, accanto alla chiesa di Santa Trinita, che era finito tra i beni
dei ribelli essendo in precedenza appartenuto a Rinaldo Gianfigliazzi85. Pur
trattandosi di una acquisizione immobiliare e non entrando, quindi, tra gli
interessi di questo lavoro, è interessante notare come il passaggio di proprietà
del “palagio detto «el palagio de’ Gianfigliazzi» sulla piazza di Santa Trinita /
che ffu di messer Rinaldo Gianfigliazzi, per fiorini 1476”86 simboleggi non tanto
e non solo l’acquisto di una prestigiosa dimora ubicata sull’attuale lungarno
Corsini87 ma soprattutto la consacrazione del suo ruolo sia privato sia pubblico.
L’essere rientrato in possesso della residenza di famiglia fu, infatti, una
manovra non priva di significati politici: innanzitutto, in questo modo
Bongianni affermava implicitamente di esser divenuto l’esponente di primo
piano tra i Gianfigliazzi; in secondo luogo, collocava il suo ramo tra le gerarchie
cittadine conferendogli una autorità che prima non possedeva; in ultimo, sul
piano della visibilità sociale rileviamo che la posizione politica di Bongianni88
richiedeva di dare dei segnali per mostrare anche pubblicamente lo status
sociale raggiunto.
Occorre allora segnalare come l’accrescimento dei beni fondiari di
Bongianni Gianfigliazzi, che tra Cosimo e Piero era esploso segnando un grande
passo avanti rispetto alla situazione denunciata dal fratello, in epoca
laurenziana non riesca a tenere testa alla parallela avanzata politica. Tuttavia il
percorso di Bongianni Gianfigliazzi è pienamente valutabile solo se evitiamo di
scorporarlo nei suoi singoli elementi (come ad esempio la biforcazione
evidenziata tra destini economico e politico) e lo esaminiamo nell’insieme,
scandendo alcune fasi che possono essere le seguenti:
1446‐1456: forte dell’esperienza professionale maturata all’estero, torna a
Firenze e inizia ad essere impiegato sulle ghalee del Comune. In questo
85 Richordanze, cc. 12v, 17v. 86 Richordanze, c. 11v. 87 A tal proposito si veda il lavoro estremamente interessante (anche perché unico su questo
argomento) di B. Preyer, Around and in the Gianfigliazzi Palace in Florence: Developments of the
Lungarno Corsini in the 15th and 16th Centuries, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes
in Florenz», XLVIII (2004), pp. 55‐104. 88 E, ovviamente, non esclusivamente la sua. Cfr. B. Preyer, The “chasa overo palagio” of Alberto di
Zanobi: a Florentine Palace of about 1400 and its Later Remodeling, in «The Art Bullettin», LXV
(1983), 3, pp. 387‐401; L. Castellucci – C. Bargellini, I palazzi del potere. Storia delle strutture
pubbliche delle province di Firenze, Lucca, Pistoia e Pisa, Milano, 1991. Si tenga inoltre presente il
fatto, facilmente riscontrabile, che molti dei palazzi gentilizi fiorentini di metà Quattrocento
imitano, nelle forme e nella disposizione dei materiali, il palazzo sulla Via Larga commissionato
da Cosimo de’ Medici a Michelozzo, segno di un desiderio di emulazione per una struttura la
cui considerazione era legata anche agli inquilini che lo abitavano. Cfr. H. Saalman – Ph.
Mattox, The first Medici Palace, in «Journal of the Society of Architectural Historians», XLIV
(1985), 4, pp. 329‐345.
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24 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
momento il suo patrimonio risponde alla sua ridotta condizione
socioeconomica la quale inevitabilmente risentiva dell’assenza di una
cooperazione diretta con Cosimo de’ Medici.
1456‐1469: il passaggio alla sfera politica è indicato al 1463, con la nomina
tra gli Otto di Guardia. D’ora in avanti, solidamente sorretto dalla vicinanza a
Piero de’ Medici, è costantemente presente sulla scena pubblica e dà un
vigoroso impulso alla crescita dei propri averi grazie alle numerose alleanze
matrimoniali, intese collaborative e fedeltà al reggimento.
1469‐1484: l’ingresso di Lorenzo quale capo del regime sancisce per
Bongianni il definitivo successo in campo politico e il consolidamento della
situazione patrimoniale, portando le sue sustanze alla situazione più florida
finora registrata per il suo ramo.
In secondo luogo, anche volendo indagare separatamente i progressi
politici e quelli fondiari, una stima complessiva dei possedimenti terrieri di
Bongianni condotta attraverso le testimonianze catastali e corposamente
integrata dalle molte informazioni presenti all’interno del suo libro di ricordi, ci
permette di delineare una evoluzione del Bongianni “uomo di stato” e una del
Bongianni “agricoltore”89 le quali, pur viaggiando con due marce differenti,
corrono parallelamente agli eventi del reggimento e si nutrono della forte
considerazione che questo aveva nei confronti del nostro fiorentino.
Pertanto, seppure quantitativamente ridotte e con caratteristiche
tipologiche e geografiche generalmente uniformi alle precedenti, le ultime
acquisizioni fondiarie segnano anch’esse, come fu per la politica laurenziana
negli anni intorno al 148090, l’apice cui il patrimonio agrario di Bongianni poté
giungere: se sul versante politico, il 1478 fu un anno grondante di incarichi
istituzionali per Bongianni91, sul piano patrimoniale l’ingresso del podere “il
Fico”92 tra i beni immobili segnò la conclusione delle vicende delle terre nel
contado fiorentino, terre fino ad allora continuativamente inglobate all’interno
delle sue sustanze, sancendo la definitiva riuscita del Gianfigliazzi.
Al termine di questo studio, che ha previsto l’analisi congiunta di fonti
ufficiali, di dati territoriali, di documentazione privata e di indagini agrarie e ha
consentito la ricostruzione degli alberi genealogici proposti in allegato,
89 Mutuo l’espressione da P. Nanni, Lorenzo agricoltore, cit. 90 La creazione del Consiglio dei Settanta è ritenibile il canto del cigno degli sviluppi politici di
Lorenzo de’ Medici, il punto sicuramente più alto per la stabilità del regime ma vertice di una
parabola ora in discesa. Cfr. anche I. Cloulas, Lorenzo il Magnifico, Roma, 1989, pp. 271‐272; N.
Rubinstein, op. cit., p. 245. 91 Cfr. Tabella A. 92 Richordanze, c. 23v. Si vedano anche le Tabelle A, B, C.
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25 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
possiamo dunque dare una positiva valutazione dell’operato in campo
fondiario di Bongianni Gianfigliazzi. Gli investimenti del suo capitale mobile
nel settore agrario – una pratica abbiamo visto comune all’interno
dell’aristocrazia cittadina – corroborarono, per il prestigio che dal possesso di
quei beni derivava, la sua posizione sulla scena pubblica rendendo così sempre
più solida la considerazione che si aveva della sua persona93. Calato nel clima
politico che animava la sua città, Bongianni di Bongianni di Giovanni
Gianfigliazzi aveva dato al suo capitale economico e sociale il giusto impulso
per una felice evoluzione, arrivando sul versante politico ad essere impiegato
come officiale ancora a sessantasei anni e in una missione di elevata importanza
per Firenze94, su quello patrimoniale a possedere beni per un totale di oltre 6180
fiorini95 e sovrastare in questo modo ogni altro ramo della sua consorteria,
conseguendo una autonomia che proprio dalla terra derivava la sua origine.
93 Giorgio Vasari, ad esempio, definisce Bongianni e suo fratello Gherardo “onoratissimi e ricchi
gentiluomini”. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Roma, 20014, p. 402. 94 Il Comune di Firenze, infatti, era in quel momento coinvolto in una aspra lotta contro Genova
per il controllo di Sarzana e Pietrasanta (località contesa anche dai lucchesi, che
precedentemente l’avevano governata) e, per conto dei Dieci di Balia, Bongianni era a
Pietrasanta in qualità di commissario. La contesa sembra aver avuto l’esito sperato visto che “la
quale [Pietrasanta] per virtù s’ebbe” (Richordanze, c. 53r). La località toscana capitolò infatti il 5
novembre, cioè pochi giorni prima della sua morte. Cfr. I. Cloulas, op. cit., pp. 243‐245. 95 L’imponibile quell’anno era di 5871 fiorini 5 soldi e 7 denari, superiore di oltre mille fiorini
rispetto all’imponibile del catasto precedente. Cfr. ASFi, Catasto 917, c. 163v; ASFi, Catasto 1009,
c. 162v.
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26 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
Tabella A. Carriera politica e acquisizioni fondiarie
ANNO POLITICA PATRIMONIO IMMOBILIARE
1446
Padrone di una galea del Comune di
Firenze diretta in Catalogna e Tunisia, dal
5/11/1446 al 2/4/1447. C.2r
1447
Padrone di una galea del Comune di
Firenze diretta ad Alessandria d’Egitto,
dal 9/6/1447 al 18/10/1447. C.2r
1448
1449
1450
1451
Fa “chompagnia” con suo fratello
Gherardo e va a stare a Valencia; da qui,
per motivi bellici, si sposta in Sicilia fino
al 1455. C.2r
1452 (in Sicilia)
1453 (in Sicilia)
1454 (in Sicilia)
Gherardo acquista il podere detto “la
Palaia”, che giunge a Bongianni nel 1456
a seguito della divisione di sostanze
avvenuta tra i due fratelli. Nelle
Richordanze il podere sembra
appartenere, nel catasto del 1427, a
Giovanni di Rinaldo Gianfigliazzi. C.19v
1455 (in Sicilia)
Gherardo compra da Daniele Canigiani
un podere in zona detta “Marignolla” e
lo amplierà nel 1457 con un altro pezzo
di terra. Il terreno sarà parte dell’eredità
di Gherardo lasciata a Bongianni. C.20r
1456
Il 30/5 Bongianni e Gherardo operano
una divisione patrimoniale, in
conseguenza della quale Bongianni
riceve: Paternuzzo, Palaia (cui aggiunge
un “chanpo di staiora 2 incircha” e lo dà
in affitto), una taverna a “la Collina”
(che baratterà per un pezzo di terra da
aggiungere al podere detto “il Corno”),
1/3 di bosco situato presso la zona detta
“Valle Maggiore”. Cc. 2v, 4r, 19v
Compra in San Casciano, da Rinaldo di
Ghino Rondinelli un podere detto “il
Corno” per 150 fiorini. C.20r
1457
1458
Patrono di una galea del Comune di
Firenze diretta in Tunisia e Spagna, dal
20/11/1458 al 4/7/1459. C.4r.
1459 Patrono di una galea del Comune di Prende in affitto un podere a
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27 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
Firenze diretta in Sicilia e a Tunisi, dal
24/7/1459 al 13/9/1459. C.4r
Marignolla. C.4r
1460
Patrono di una galea del Comune di
Firenze diretta in Tunisia e Spagna, dal
1/5/1460 al 16/10/1460. C.4r
Compra in dicembre da due lontane
parenti, mona Maria e mona Oretta, una
casa sulla “choscia del ponte a Santa
Trinita”, confinante col palazzo di
famiglia, per 800 fiorini, dotata anche di
una bottega da legnaiolo condivisa con
Papino di Cerbino, che ha in affitto la
metà di Bongianni per 7 fiorini l’anno,
fino al 1480, quando Bongiani rilevò
l’intero locale disponendone metà in
affitto a Piero di Domenico di Leonardo
e lasciando per uso personale l’altra
metà. Nel catasto del 1469 la casa risulta
tuttavia sfitta. Cc.4r, 18v; ASFi, Catasto
917, c.160r; ASFi, Catasto 1009, c.160r
1461
Capitano delle galee di ponente (20/4);
Capitano delle 3 galee del Comune di
Firenze (20/8) dirette in Fiandra, dal
6/10/1461 al 13/10/1462. Sulla terza galea
viaggiava “sanza altro padrone”: poteva
forse essere questa una galea che
conduceva esclusivamente gli interessi del
Comune, di cui Bongianni era portavoce.
C.4v
Baratta il 9/3 con Bartolomeo di
Daddo di Jacopo Gianfigliazzi una sua
vigna per avere il campo detto “la
Palaia”. C.4r
Nel settembre compra dagli
Ufficiali delle Vendite il podere detto
“Marignollina”, che “fu d’Antonio di
Giovanni Barbadoro”, per 1200 fiorini.
La casa padronale che era lì presente era
“molto trista” e Bongianni la rifece
quasi tutta di nuovo; in più vi costruì
una nuova casa da lavoratore,
spendendo in totale per questi lavori di
restauro 1300 fiorini
1462 (in viaggio fino al 13 ottobre)
Un dato patrimoniale non immobiliare
ma rilevante: il 27/10 dà in sposa la sua
prima figlia legittima, Costanza, con
una dote nettamente superiore a quella
di Caterina, illegittima, sposatasi nel
1447. Questa differenza, viste anche le
costanti attenzioni che Bongianni ebbe
verso il benessere di Caterina, è
probabile fosse causata da un
miglioramento della situazione
economica successivo al matrimonio di
Caterina e dovuto ai viaggi sulle galee
del Comune (dai quali era rientrato da
due settimane), che gli avevano messo a
disposizione un maggior quantitativo
monetario. La dote di Costanza, poi,
sarà aumentata dai 500 fiorini che lo zio
Gherardo le donerà. Cc. 2v,4v
1463 Otto di Balia per 6 mesi, iniziando il 1/3. È Muore Gherardo il 6/9
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28 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
il primo incarico di governo:
probabilmente la spedizione in mare era
stata molto ben condotta e nel Comune
cresceva la fiducia nei suoi confronti. C.4v
lasciandogli la sua eredità. C.5r
Compra in ottobre il podere detto
“Gibione”, in San Casciano in Val di
Pesa.
Stila un bilancio della sua
situazione patrimoniale il 1/12,
un’esigenza forse dettata dalla necessità
di fare ordine a seguito dell’ingresso
delle nuove sostanze. C.6r
1464
Si immatricola all’Arte dei Mercanti il
27/4. C.6v
Partecipa ad una coalizione politica
(“inteligenzia”) atta a difendere il
reggimento mediceo e i beni degli aderenti;
non avrà successo per la morte di molti di
questi ultimi. C.9.
Riscuote l’eredità di Gherardo il 19/3.
C.5r.
Da questa eredità gli venne, tra le altre
cose, una casa in Santa Trinita, il cui sito
Gherardo comprò nel 1460 dai parenti
della moglie Lena e sulla quale
Bongianni operò numerosi rifacimenti
(una nuova entrata, collegato al palazzo
Gianfigliazzi, finestre, e murature).
C.17v; La struttura è denunciata in ASFi,
Catasto 917, c.160r
1465
Ufficiale dell’Abbondanza per un
anno. C.8v
Riceve una polizza da Niccolò
Cambi per lo squittino che si sarebbe
tenuto nel ’65. C.9r
Decide formalmente che il
podere di Bignola, ricevuto dopo la
morte di Gherardo e che Bongianni
teneva in affitto per 102 lire a beneficio
della cappella di Santa Trinita, fosse
svincolato non appena avesse fornito a
quella chiesa beni per 400 fiorini. Cc. 8r,
24v
Sempre in aprile compra “le
Quercie”, podere situato in Val di Pesa,
per 300 fiorini; nel 1475 fu ampliato
grazie ad una donazione. Cc.20v, 41r
Compra, l’11/1, nel popolo di San
Michele a Polvereto in Val di Pesa, da
Cione di Giovannozzo Pitti due poderi
detti rispettivamente “Polvereto” e
“Vetriciaio” (altrove nominato
“Giunchaio”) per un totale di 1100
fiorini. I due poderi, insieme con quello
detto “Sorbiglianello” saranno per
qualche mese vincolati all’Arte dei
mercanti e poi, nel 1474, saranno
ampliati con altri due pezzi di terra.
C.21
Compra, lo stesso 11/1 e nello
stesso luogo, il podere detto
“Sorbiglianello” da Scarlatto e
Tommaso d’Antonio Scarlatto, per 300
fiorini. Il podere è “obrighato” con i due
precedenti all’Arte di Calimala. C.21v.
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29 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
Compra, il 2/4, una casa sul
Lungarno da Carlo de’ Medici (il quale
a sua volta l’aveva comprata da Andrea
della Pergola) per 210 fiorini; affitta
questa abitazione a Emiliano di
Domenico di Deo e la rivende a Lorenzo
de’ Medici il 1/3/1475. Cc. 6v, 18r
Compra una bottega del valore di 1400
fiorini, svincolando così i tre poderi
“Polvereto”, “Vetriciaio” e
“Sorbiglianello”. Cc. 8r, 21v
1466
Riconfermato tra gli Ufficiali
dell’Abbondanza per un altro anno nel
settembre ’66, mese in cui venne eletta la
Signoria che ristabilì l’autorità di Piero de’
Medici. C.8v
1467
Membro degli Otto di Balia per 6
mesi dal 1/3. C.9r
Membro dei Dieci di Balia il 5/5;
uno dei due arroti è Piero de’ Medici. C.9v
Gonfaloniere di Giustizia per il
bimestre luglio‐agosto. C.9v
Aggiunge in dicembre, al podere detto
“il Corno”, ancora un pezzo di terra
dopo aver barattato una taverna di sua
proprietà col piovano di San Pancrazio,
Alessandro Cavalcanti. Nel catasto del
1480 (ASFi, Catasto 1009, c.160r) questo
podere è tra i più fruttiferi. Cc. 2v, 20r
1468
Sindaco procuratore e commissario
in Lunigiana per trattare l’acquisto di
Sarzana per conto del Comune. L’invio
ebbe il successo sperato. C.10r
Ufficiale del Canale il 10/9. C.10v
Tra i Sei di Mercanzia come
membro dell’Arte di Porta Santa Maria
(seta) nel dicembre. C.10v
Gli abitanti di ʺSerezanelloʺ (Sarzanello)
gli fanno dono di un orto che Bongianni
darà dapprima a Piero di Orlando de’
Medici a titolo gratuito e poi devolverà
al Comune di Firenze. C.10r
1469
Sei di Mercanzia per gennaio,
febbraio e marzo con 10 fiorini al mese di
salario. C.10v
Rinnovato per un altro anno tra gli
Ufficiali del Canale. C.10v
Otto di Balia da giugno a
settembre. C.11r
Le denunce catastali (ASFi,
Catasto 917, cc. 160r‐163v) mostrano la
sua preminenza economica sugli altri
rami del casato.
Compra in gennaio un bosco da
Simone di Lionardo, prete di Santa
Cristina, nel popolo omonimo, in luogo
detto “Gonfienti” I 100 fiorini del
pagamento sono corrisposti barattando
un altro terreno. C.10v
Compra i 6/7 del podere detto “la
fontanella”; il restante 1/7 sarà
acquistato nel 1472 e l’intero podere fu
barattato un anno dopo con “Poggio
secco”. Cc.11r, 21r
1470
Ufficiale del Monte per un anno a
partire da marzo. C.11r
Gonfaloniere di Giustizia per il
Compra palazzo Gianfigliazzi dagli
Ufficiali della Torre per 1476 fiorini, ma
ne abita solo una parte; il resto è abitato
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30 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
bimestre novembre‐dicembre. C.12r
Cavaliere dello spron d’oro il 30/12.
C.12v.
da Tommasa di Baldassarre
Gianfigliazzi, pronipote di Rinaldo, e da
Bertoldo di Bertoldo Gianfigliazzi, da
Bongianni nominati “nella chompera”.
Cc.12v, 17v
1471
Console dell’Arte della seta. C13r
Capitano di Parte Guelfa per aprile
e maggio. C.13r
Tra i dieci ufficiali nominati per 9
mesi a partire da luglio, con autorità sui
ribelli e sulle entrate del Comune. C.13v
Compra in febbraio una casa in San
Casciano, con un orto, per 150 fiorini,
che poi rivende nel 1476 per 300 fiorini.
A questa casa unì un’altra mezza casa
nel 1473. Cc.15r, 18v
1472
Cassiere di Camera per 4 mesi,
iniziando il 1/4, con salario di 100 fiorini al
mese, ufficio per il quale delegò Nofri
Parente. C.14v
Dei Venti di Balia “circha le chose
di Volterra”. In quell’occasione fu
commissario in campo con Jacopo
Guicciardini e, per conto dei Venti, andò
con successo a chiedere aiuto bellico a
Federico da Montefeltro. C.14v
1473
Ufficiale delle fortezze di Romagna,
per un anno e senza salario a partire da
luglio. C.15v
Otto di Balia per 4 mesi, a partire
da settembre. C.15v
Ufficiale dell’Abbondanza, sempre
a partire da settembre, per 10 mesi. C.16r
Dei Sei di Mercanzia per 3 mesi,
con salario complessivo di 20 fiorini, C.16r
Compra in gennaio un podere in
un luogo detto “Poggio secco”, in Val di
Pesa, barattandolo con “la Fontanella”.
C.22r
Compra in San Casciano una
mezza casa, “a muro chomune” con
quella comprata nel 1471, per 54 fiorini.
La casa è condivisa “chon mona
Chaterina” e con essa Bongianni restò
“d’achordo a parole, sanz’altra
schrittura” su come suddividersi gli
spazi abitativi. Cc. 15r, 19r
Compra in dicembre due poderi
con casa da lavoratore in Val di Pesa, in
luogo detto “la Noce”, che erano stati di
sua cognata Lena prima che il fisco glieli
sottraesse.
1474
Confermato per un altro anno tra
gli Ufficiali dell’Abbondanza. C.16r
Camerlengo alla gabella del sale,
per 6 mesi con salario di 40 lire al mese,
ufficio per il quale delegò suo Nofri
Parente C.17r
1475
Ufficiale dello Studio in
compagnia, tra gli altri, di Lorenzo de’
Medici. C.40r
Ufficiale della Grascia, incarico
affidato a tutti gli Ufficiali dello Studio di
Compra il 23/3 un mulino “chon
4 palmenti e 4 pile da gualchiere [...] e
stalle e sale e chamere” in Poggibonsi,
un luogo detto “Mulino nuovo”, per
1400 fiorini. Cc. 23v, 40r
Eurostudium3w aprile-giugno 2012
31 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
quell’anno. C.40v
Nel novembre era stato eletto tra
gli ambasciatori nominati per andare
all’imminente funerale di re Ferdinando
di Napoli; ma il re non morì della malattia
che lo affliggeva e quindi la legazione non
si mosse da Firenze. C.41v
Dei Dodici Procuratori per 3 mesi, a
partire dal 15/12. C.41v
Grazie ad una donazione da
parte del piovano di San Pancrazio, si
estende il podere “le Quercie”. C.41r
1476
Eletto in gennaio tra gli “Uficiali
sopra al navichare”, nominati al posto dei
Consoli del Mare. C.41v
In febbraio è eletto tra gli Ufficiali
di Notte, cominciando da aprile e per un
anno. C.42r
Ufficiale di notte per un anno, fino
al 23/4/1477. C.43r
1477
Gonfaloniere di compagnia per 5
mesi, iniziando da gennaio. C.43r
Ufficiale dell’Arno in aprile. C.43r
Con gli stessi colleghi dell’Arno, in
giugno fu nominato Ufficiale delle
fortezze e ufficiale del canale. C.43r
Ufficiale della condotta in agosto.
C.43v
Ambasciatore a Napoli, col
consuocero Pierfilippo Pandolfini, per
presenziare alle nozze di Ferdinando I di
Napoli con sua cugina Giovanna
d’Aragona. C.43v
1478
Console dell’Arte di Porta Santa
Maria per 4 mesi, partendo dal 1/1. C.43v
Ufficiale del Monte per un anno,
dal 1/3. C.43v
Conservatore dell’Arte della seta,
con altri 5 membri, in seguito alla
congiura dei Pazzi. C.44r
Commissario in campo per conto
dei Dieci di Balia, da settembre a
novembre. C.44v
In dicembre, sempre per conto dei
Dieci, fu commissario generale a Pisa, in
Lunigiana e a Poggio Imperiale,
rientrando a Firenze nel novembre 1479.
C.44v
Compra il 22/1 un podere chiamato “il
Fico”, in Val di Pesa, per 300 fiorini.
C.23v
1479 (commissario in campo a Pisa, Lunigiana
e Poggio Imperiale)
Per via dell’assedio di Colle Val d’Elsa,
perde i possedimenti del “Mulino
nuovo”.
1480 Priore per il bimestre gennaio‐
Eurostudium3w aprile-giugno 2012
32 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
febbraio. C.44v
Il 20/ entra a far parte di “uno
Uficio che si creò di 30 huomini che
ebbono balia [...] di fare una Balia di 210
huomini per fare lo squittino a novenbre
prossimo”. Era, cioè, nel gruppo cardine
che avrebbe formato il Consiglio dei
Settanta. C.45r. Vedi anche ASFi, Balie 31,
cc.
Nella stessa occasione fu eletto
anche tra gli Otto di Pratica per 6 mesi, tra
i cui colleghi aveva nuovamente Jacopo
Guicciardini. C.45r
In agosto fu tra i Sei di Mercanzia
in sostituzione di un officiale morto, fino a
fine ottobre. C.48v
Il 3/11 è tra i 12 ambasciatori
incaricati di andare a Roma e chiedere a
papa Sisto IV di togliere l’interdetto sulla
città di Firenze, emesso a causa della
guerra seguìta alla congiura dei Pazzi.
C.48v
1481
Otto di Pratica per 6 mesi. C.49r
Tra i Diciassette Riformatori, per
un anno a partire da settembre. C.50v
Il 10/12 parte come ambasciatore
diretto a Ferrara e Venezia, e stette a
Ferrara fino al febbraio del 1483. In totale
stette fuori di Firenze per 444 giorni. C.51v
1482 (ambasciatore a Ferrara) 25/7: fa testamento mentre è a Ferrara
1483
Dodici Procuratori, per sei mesi
iniziando il 1/3. C.51v
Da settembre a dicembre fu tra i
Dodici Procuratori. C.52r
Sostituisce Piero di Lutozzo Nasi
tra i Dieci di Balia. C.52v
1484 Commissario a Pietrasanta per conto dei
Dieci di Balia. C.53v
Eurostudium3w aprile-giugno 2012
33 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
Tabella B. Evoluzione delle proprietà fondiarie nelle denunce catastali
quattrocentesche
CATASTO
PODERE 1427 1430 1433 1442 1446 1451 1457 1469 1480
alla Collina X X X X X ? X
Paternuzzo X X X X X X X X X
Spicchio X X X X X X
Bignola X X X X X X X
Olmo X X X ? X X X
Valle Maggiore X X X X X X X X X
Marignolla X X X
Marignollina X X
il Corno X X
Gibione X X
Polvereto X X
Sorbiglianello X X
la Fontanella X Venduto
le Querce X X
Vetricciaio X
Vergigno X
Gonfienti X
Mulino nuovo X
Poggio secco X
la Nocie X
il Fico X
la Palaia ?
Il segno “?” indica che il podere nella denuncia catastale non è riportato con quel nome ma può
esservi ricondotto con larga probabilità (nel caso del podere “alla Collina”, ad esempio, la
denuncia del 1457 non ne riporta il nome, ma la localizzazione e le produzioni del terreno
registratovi sono ben conciliabili con quel podere); le caselle verdi riferiscono di poderi che non
compaiono nei catasti ma che, in mancanza di ulteriori dati, sappiamo appartenere in quegli
anni a Bongianni attraverso le sue Richordanze.
Eurostudium3w aprile-giugno 2012
34 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
Tabella C. Localizzazioni e caratteristiche dei poderi
PODERE LOCALIZZAZIONI e CARATTERISTICHE
alla Collina
Nel comune di San Casciano, popolo e piviere di San Pancrazio. Aveva una
taverna e una casa da lavoratore e confinava con un palazzo dei Borromei, i
quali sono attestati in San Casciano da più di un secolo. Bongianni dichiara di
non sapere come la sua famiglia fosse venuta in possesso di questo
appezzamento (ìndice, quindi, di una consolidata esistenza del podere
all’interno del patrimonio Gianfigliazzi) e suppone che sia di loro
appartenenza dopo una divisione patrimoniale tra suo padre Bongianni e suo
zio Jacopo. Cc. 6r, 19v
Paternuzzo
Posto in san Casciano di Val di Pesa, popolo e piviere di San Pancrazio, era
detto anche Castelletto dopo i rifacimenti operati da Bongianni sulla struttura
che, in origine, “era una trista chasa e pichola”. Il podere era dotato di una casa
padronale, di una da lavoratore e di una vigna (in luogo detto “Mantachone”),
ed era parte dell’eredità paterna ma toccò a Bongianni nella divisione
patrimoniale che nel 1456 si ebbe tra lui e suo fratello Gherardo. La loro madre,
Simona, lo dotò di un prato. Cc. 2v, 6r, 19v
Spicchio
(Spigha)
Podere situato in San Casciano, popolo di Sant’Andrea a Cellole, piviere di San
Pancrazio. Aveva solo una casa da lavoratore e nel 1442 era in affitto a Cante
d’Antonio Cavalcanti per 8 fiorini l’anno (ASFi, Catasto 619, c.580r). Dalle
denunce catastali, il podere risulta di proprietà della famiglia di Bongianni fino
al 1451 (ASFi, Catasto 705, c.80r); successivamente non se ne hanno più tracce
(perlomeno con questo nome) e non è menzionato neppure nell’elenco stilato a
c.17v e sgg. delle Richordanze, in cui Bongianni fa ricordo del suo patrimonio al
primo agosto 1474. Il podere potrebbe essere stato ceduto in uno dei tanti
baratti che Bongianni operava.
Bignola
Il podere, vincolato per testamento di Gherardo Gianfigliazzi alla chiesa di
S.Trinita, era nel popolo di S. Maria a Bignola, in San Casciano ed era toccato a
Gherardo nella divisione di beni che si era avuta tra i due fratelli. Nominatone
procuratore alla morte di Gherardo, Bongianni riscattò il podere (che valeva
400 fiorini) e ne prese pieno possesso. Compare tuttavia nella dichiarazione del
1469 (ASFi, Catasto 917, c.163v) tra i beni alienati. Cc. 8r‐24r
Olmo
In San Casciano, popolo e piviere di San Pancrazio, è presente nelle denunce
catastali fin dal 1427 (ASFi, Catasto 40, c.929r) ed era dotato anche di un orto.
Prima del 1442 era in affitto a Pagno di Stefano del Frugia cui subentrò quale
locatario un suo parente, Checchino (ASFi, Catasto 458, c.518r; Catasto 619,
c.580v; ASFi, Catasto 669, c.976v); è interessante notare che l’affitto si era quasi
triplicato nel tempo, passando da 7 fiorini e 3/4 nel 1433 a 22 fiorini e 10 soldi
nel 1446. Tuttavia non è annoverato né negli ultimi due catasti del
Quattrocento né all’interno dell’elenco riportato in Ricohordanze, c.17v e ss.;
potrebbe aver seguito le sorti del podere detto “Spicchio” ed essere proprio il
podere oggetto di un baratto che appare in ASFi, Catasto 917, c.163v
Valle Maggiore
(1/3 di boscho)
È una zona boscosa a San Casciano, nel popolo di Santa Cristina, presente fin
dal catasto del 1427 tra i beni della famiglia di Bongianni ASFi, Catasto 40,
c.929r) essendogli pervenuta, tramite la “divisa” tra lui e Gherardo, dal padre
Bongianni. I restanti 2/3 appartenevano per una metà agli eredi di Jacopo
Gianfigliazzi e per l’altra metà a Domenico d’Antonio di Cherozo Calvalcanti.
Eurostudium3w aprile-giugno 2012
35 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
La resa di legna cresce da una catasta ad una casta e mezza (ASFi, Catasto 1009,
c.160r). Nel 1469 Bongianni compra, nello stesso popolo, un bosco per 100
fiorini da ser Simone di Lionardo, prete della chiesa di Santa Cristina, ma tale
proprietà non compare nei catasti del 1469 e del 1480. Cc. 6r, 10v, 19v
Marignolla
Situato nel popolo di Santa Maria a Marignolle (a sud‐ovest di Firenze), era
“chon chasa da signiore e da lavoratore” e produceva una vasta gamma di
alimenti. Fu venduto nel 1455 da Daniele Canigiani a Gherardo Gianfigliazzi e
giunse a Bongianni come eredità di quest’ultimo. Secondo una stima di
Bongianni fatta nel dicembre del 1463, il podere valeva 2500 fiorini. Cc. 3v, 4r,
6r, 20r
Marignollina
(il Vivaio)
Nel popolo di San Donato a Scopeto, era precedentemente noto come “el
bagnaccio”. La terra era di Antonio Barbadoro e di suo figlio Giandonato e fu
comprata per 1200 fiorini. Quando ebbe ottenuto la superficie, vi fece
ricostruire la casa padronale e si adoperò per la costruzione di una casa da
lavoratore in aggiunta a quella già presente. L’acquisto venne ufficializzato
dagli Ufficiali delle Vendite nel 1461. Nella stessa stima di cui alla sezione
precedente, il Vivaio è valutato 2000 fiorini. Cc. 3r, 3v, 6r, 20v
il Corno
Podere con casa da lavoratore posto in San Casciano di Val di Pesa, popolo di
Santa Cristina, piviere di San Pancrazio. Fu acquistato nel 1456 da Rinaldo di
Ghino Rondinelli e nel 1467 fu ampliato con un pezzo di terra barattato con il
piovano di San Pancrazio per una taverna nella zona detta “la Collina”. Cc. 2v,
6r, 20r
Gibione In San Casciano, popolo e piviere di San Pancrazio, è un poderuzzo acquistato
per 290 fiorini e dotato di una casa da lavoratore. Cc. 6r, 20v
Polvereto
Posto nel popolo di San Michele a Polvereto, in Val di Pesa, fu uno dei due
poderi acquistati nel 1465 da Cione di Giovannozzo Pitti (l’altro era il
“Vetriciaio”) ed entrambi erano obbligati, insieme con quello detto
“Sorbiglianello”, all’Arte di Calimala per volere testamentario di Gherardo suo
fratello: le rendite di tali poderi, infatti, dovevano servire per maritare sei
fanciulle. Il 6/11/1465, tuttavia, Bongianni riscattò i tre appezzamenti
comprando, per un totale di 1400 fiorini, una bottega a favore dell’Arte di
Porta Santa Maria. Successivamente ampliò Polvereto e Vetricciaio con altri
piccoli terreni. Cc. 6r, 7v, 8v, 21
Sorbiglianello
Nel popolo di Santa Cristina in Val di Pesa, seguì le stesse sorti di Polvereto e
Vetricciaio. Bongianni lo acquistò da Scarlatto e Tommaso d’Antonio di
Scarlatto. Cc. 6r, 7v, 8v, 21v
la Fontanella
Posto nel popolo e piviere di San Pancrazio, ne furono acquistati i 6/7 da
Filippo di Domenico degli Agli (1469) e il restante 1/7 da Giovanni di Filippo
de’ Ricci (1472). Fu poi barattato con “Poggio secco” nel 1473, d’accordo con
Alessandro di Donato Cavalcanti, piovano della pieve di San Pancrazio. Cc.
11r, 21r, 22r
le Querce
In Val di pesa, popolo di San Michele a Polvereto, piviere di San Pancrazio, fu
comprato nel 1465 da Bernardo d’Antonio di Riccardo degli Alberti, aveva una
casa da lavoratore e valeva 300 fiorini. Nell’ottobre del 1475, il piovano di San
Pancrazio, Alessandro di Donato Cavalcanti, fece dono a Bongianni di un
piccolo terreno che confinava per tre lati con “le Quercie”. Cc. 6r, 8v, 20v, 41r
Vetricciaio
(Giuncaio)
A San Casciano, popolo di San Michele a Polvereto (in realtà, a carta 7v delle
sue Richordanze Bongianni dice che il podere si trovava nel popolo di Santa
Maria Novella. È allora possibile che dieci anni dopo, all’atto della sua
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36 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
elencazione di beni immobili, i confini geografici si fossero modificati
seguendo una nuova distribuzione circoscrizionale). Era un terreno dotato di
mulino e fornace. Fu comprato nel 1465 da Cione di Giovannozzo Pitti e,
insieme con Sorbiglianello e Polvereto era parte di un trittico territoriale
inizialmente vincolato all’Arte dei Mercanti per volere di Gherardo
Gianfigliazzi. I tre poderi furono riscattati nel novembre 1465 da Bongianni.
CC. 6r, 7v, 8v, 21v
Vergigno
A San Casciano in Val di Pesa, popolo di Santa Maria Novella, piviere di San
Pancrazio e trae quasi certamente nome dall’omonimo fiume che in quella
zona scorre. Se ne ha una sola menzione nel catasto del 1480 (ASFi,Catasto
1009, c.160v) da cui si ricava che era un terreno molto ben lavorato.
Gonfienti
Si tratta di un pezzo di bosco nel popolo di Santa Cristina in Val di Pesa,
comprato nel 1469 dal rettore della chiesa di S. Cristina, Simone, per 100 fiorini
poi pagati con un appezzamento di terra. Dal catasto del 1480 (ASFi, Catasto
1009, c.161v) pare rendere più legna di “Valle maggiore”. C.22r
Mulino nuovo
Situato presso Poggibonsi, fu acquistato in maniera composita nel 1475. Il
7/9/1479, però, durante l’assedio di Colle Val d’Elsa, Poggibonsi fu conquistata
e Bongianni perdette il podere; al 12 agosto 1480 ancora era “ne le mani del
ducha” di Calabria, Alfonso II. A carta 23v è data specifica delle varie parti che
intervennero per l’acquisto definitivo. Cc. 23v, 40r
Poggio secco
Podere di San Casciano, nel popolo e piviere di San Pancrazio, fu ottenuto nel
1473 per mezzo di un baratto tra Bongianni e Alessandro di Donato Cavalcanti,
piovano di San Pancrazio in Val di Pesa, cui viene dato il podere noto come “la
Fontanella”. Cc. 6r, 22r
la Nocie
Si tratta di due poderi in Val di Pesa, piviere di San Pancrazio e popolo di S.
Martino a Lucardo, acquistati per 1000 fiorini il 10/12/1473 dagli Ufficiali del
Monte, in precedenza appartenuti a mona Lena (vedova di Gherardo) e poi
sottrattile per debiti contratti col fisco. Nel marzo del 1474 Bongianni disobrigha
entrambi i poderi dal vincolo posto loro da sua cognata e da Bongianni
mantenuto intatto per rispetto nei di lei confronti. Per svincolarli, fa donazione
di “3 mogia di ghrano” ogni anno al convento vallombrosano di Santa Trinita;
l’ultimo anno registrato in cui la donazione è avvenuta è il 1508. Cc. 17r, 22v‐
23r, 48, 51r
il Fico
In San Casciano, popolo e piviere di San Pancrazio, fu acquistato nel 1478 da
Piero de’ Rossi. Era sicuramente lavorato, visto l’elenco di prodotti che sono
registrati nel catasto del 1480. C.23v
la Palaia
Questo podere della Val di Pesa, nel popolo e piviere di San Pancrazio, confina
con il Parentuzzo ma è ricordato come “Palaia” solamente nel manoscritto di
Bongianni e mai nei catasti successivi al 1454, anno in cui Gherardo suo fratello
lo comprò. Nel catasto del 1427 è denunciato da Giovanni di Rinaldo
Gianfigliazzi all’interno del suo patrimonio. Seguendo un criterio di esclusione
ed incrociando i dati cronologici e topografici in nostro possesso, riesco forse a
collegarlo ad un podere in San Casciano denunciato nel catasto del 1457 (ASFi,
Catasto 813, c.268r). Il terreno in questione fu ampliato da Bongianni con “uno
chanpo di staiora 2 incircha” e poi dato in affitto. Il campo era forse condiviso
visto che Bongianni ne barattò l’intero utilizzo con una vigna, che venne data a
Bartolomeo d’Averardo Gianfigliazzi. Cc. 2v, 4r, 6r, 19v
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37 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
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38 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
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39 L. Piffanelli, Investimento fondiario e sustanze di famiglia
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40 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
Un processo ʺpoliticoʺ nello Stato pontificio della prima restaurazione.
Frosinone maggio‐giugno 1801
di Luca Topi
L’11 e il 12 maggio 1801 il Tribunale del Governo di Frosinone fece arrestare un
gruppo di abitanti di Frosinone, Ferentino, Torrice, Alatri e Veroli con la
gravissima accusa di ʺTentata sedizioneʺ; altri, ugualmente coinvolti nel
tentativo di sommossa, riuscirono a sfuggire alla cattura. Vennero arrestate in
tutto ventidue persone a cui va aggiunto un non meglio precisato numero di
ʺaltri contumaciʺ, secondo la formula riportata sul frontespizio del Ristretto.
La gravità delle accuse, la notorietà dei personaggi, il grado di
elaborazione del piano, le sue modalità operative, l’alto numero di partecipanti
e la vastità dell’area interessata lasciano intravvedere uno dei maggiori tentativi
di sommossa che il restaurato governo pontificio si trovò a dover fronteggiare.
1 ‐ Le Fonti
Le fonti che sono servite per la stesura di questo articolo sono fonti criminali: si
tratta del processo istruito dal Tribunale di Frosinone e successivamente inviato
a Roma alla Sacra Consulta, oggi conservato nella Biblioteca Apostolica
Vaticana composto da 365 carte, al cui interno sono trascritti gli interrogatori
dei testimoni, le relazioni dei bargelli e altre carte inerenti alla causa1, nonché
del Ristretto del processo, istruito questo dalla Sacra Consulta, conservato
invece nell’Archivio di Stato di Roma2.
Prima di passare all’esame degli accadimenti e dei personaggi, è
necessaria una precisazione. Il Tribunale di Frosinone non interrogò gli
imputati ma si limitò ad ordinarne l’arresto e l’immediato trasferimento a
Roma, motivando tale scelta con la pericolosità dei soggetti, che dovevano
1 Biblioteca Apostolica Vaticana (d’ora in poi BAV), Vaticano Latino 14081, cc. 1r‐365r. 2 Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR), Miscellanea di carte politiche e riservate (d’ora in
poi Misc. pol. ris.), b. 29, f. 1005.
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41 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
essere al più presto allontanati dalla città. In un secondo momento istruì la vera
e propria causa e procedette agli interrogatori dei testimoni, che, come
vedremo, saranno quasi tutti di Frosinone. Del processo della Sacra Consulta si
è, come scritto, conservato il ristretto fiscale, nel quale si fa riferimento solo alle
testimonianze riportate nell’incartamento di Frosinone, senza nominare
interrogatori di imputati. Quindi a noi non sono giunte le ʺvociʺ degli arrestati,
ma solo quelle dei testimoni ed è l’unica versione di cui disponiamo.
2 ‐ ʺNuovoʺ Pontefice … ʺvecchiʺ insorgenti
Il 29 settembre 1799 si era chiusa la breve esperienza della Repubblica romana
(1798‐1799)3 con la firma della Capitolazione tra il generale francese Garnier e il
capitano inglese Troubridge, successivamente sottoscritta anche dal maresciallo
napoletano Emanuele De Bourcard4. La città era stata occupata dalle truppe
napoletane e il maresciallo De Bourcard ne aveva assunto il comando
provvisorio5. Il 10 ottobre 1799 giunse a Roma, da Napoli, il generale Diego
Naselli, che immediatamente nominò una Suprema Giunta di Governo, con
compiti direttivi e di coordinamento soprattutto in materia economica e
3 Non è questa la sede per ripercorre gli eventi, l’esperienza e il significato della Repubblica
romana sulla quale esiste una bibliografia molto ampia a cui si rimanda; qui si citano degli studi
diventati dei ʺclassiciʺ; A. Dufourcq, Le Régime jacobin en Italie. Etude sur la République romaine
(1798‐1799), Paris, 1900; V.E. Giuntella, La giacobina Repubblica romana (1798‐1799). Aspetti e
momenti, in «Archivio della Società romana di storia patria», LXXIII, 1950, ff. I‐IV, pp. 1‐213; R.
De Felice, Note e ricerche sugli “Illuminati” e sul misticismo rivoluzionario (1789‐1800), Roma, 1960;
Id., Italia giacobina, Napoli, 1965; Id., Il triennio giacobino in Italia (1796‐1799). Note e ricerche,
Roma, 1990; A. Cretoni, Roma giacobina. Storia della Repubblica Romana del 1798‐99, Roma, 1971; a
questi testi vanno aggiunti dei recenti lavori a cui si rimanda per un completo quadro
bibliografico di riferimento: M. Formica, La città e la rivoluzione. Roma 1798‐1799, Roma, 1999; D.
Armando, M. Cattaneo, M. P. Donato, Una rivoluzione difficile. La Repubblica romana del 1798‐
1799, Pisa‐Roma, 2000; M. Caffiero, La repubblica nella città del papa. Roma 1798, Roma, 2005. Si
segnalano infine alcuni numeri monografici di riviste che si sono occupate degli anni della
Repubblica: La Repubblica romana tra giacobinismo e insorgenza 1798‐1799, «Archivi e Cultura»,
XXIII‐XXIV, 1990‐1991; «Deboli progressi della filosofia». Rivoluzione e religione a Roma, 1798‐1799, a
cura di L. Fiorani, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 9, 1992; Roma tra fine Settecento e
inizi Ottocento, «Roma moderna e contemporanea», II (1994), 1; Roma repubblicana. 1798‐99, 1849,
a cura di M. Caffiero, «Roma moderna e contemporanea», IX (2001), 1‐3; infine si veda la
bibliografia generale sul periodo, A.M. Rao, M. Cattaneo, ʺL’Italia e la rivoluzione francese
1789‐1799ʺ, in Bibliografia dell’età del risorgimento 1970‐2001, Firenze, 2003, vol. I, pp. 136‐262. 4 Il testo della Capitolazione in ASR, Misc. pol. ris., b. 27, f. 921. 5 Sull’occupazione napoletana cfr. A. Lodolini, I Napoletani a Roma nel 1799‐1800 (Saggio di fonti
storiche), in «Roma», III (1925), 6, pp. 278‐279 e M. Rossi, Lʹoccupazione napoletana di Roma 1799‐
1801, «Rassegna storica del Risorgimento», XIX, 1932, pp. 693‐732.
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42 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
finanziaria,6 e una Giunta di Stato, con il preciso incarico di ricercare e arrestare
gli ex repubblicani e tutti coloro che potessero turbare l’ordine pubblico7.
Il 3 luglio 1800, il nuovo pontefice Pio VII8, preceduto dall’invio di una
delegazione di tre Legati a latere9 con l’incarico di assumere il controllo della
parte dello Stato pontificio occupata dalle truppe del re di Napoli, entrava a
Roma e prendeva possesso della città e dello Stato10. In precedenza, il 25 giugno
6 La Giunta di Governo era composta dai principi Aldobrandini e Gabrielli, dal marchese
Massimo e da Giovanni Ricci; sull’azione della Giunta e sul suo rapporto con il generale
napoletano Naselli, cfr. D. Cecchi, Lʹamministrazione pontificia nella I Restaurazione (1800‐1809),
Macerata, 1975, pp. 1‐12. 7 La Giunta di Stato era formata da monsignor Giovanni Barberi con funzione di avvocato
fiscale, dagli avvocati Alessandro Tassoni, Giovanni Battista Paradisi e Francesco Maria Rufini
in qualità di giudici; presidente del Tribunale era il cavalier Giacomo Giustiniani mentre come
avvocato dei rei fu nominato Agostino Valle. Sull’operato della Giunta, sulle sue linee di
indirizzo cfr. M. C. Buzzelli Serafini, La reazione del 1799 a Roma. I processi della Giunta di Stato,
«Archivio della Società Romana di Storia Patria», XCII, 1969, pp. 137‐211 e M. Cattaneo, M.P.
Donato, F.R. Leprotti, L. Topi, ʺEra feroce giacobino, uomo ateo e irreligiosoʺ. Giacobini a Roma e nei
dipartimenti nei documenti della Giunta di Stato (1799‐1800), «Ricerche per la storia religiosa di
Roma», 9, 1992, pp. 307‐382 con schede prosopografiche sugli imputati. Il nuovo inventario del
fondo archivistico nel quale sono conservate le carte del tribunale è stato redatto da L. Topi,
Inventario del fondo Giunta di Stato 1799‐1800, «Archivi e Cultura», XXIII‐XXIV, 1990‐1991, pp.
165‐260; altri fascicoli della Giunta di Stato sono stati ritrovati da chi scrive nel fondo Tribunale
Criminale del Governatore conservato presso l’Archivio di Stato di Roma, cfr. L. Topi, I rei del
Papa nei processi della Giunta di Stato (1799‐1800). Un recente ritrovamento nel fondo Tribunale
Criminale del Governatore, «Rassegna degli Archivi di Stato», 2007, III, 2, pp. 331‐350. 8 Pio VII nasce a Cesena il 4 agosto 1742, con il nome di Barnaba Nicola Maria Luigi
Chiaramonti, monaco cassinese. Nel dicembre del 1782 viene nominato abate da Pio VI.
Divenuto vescovo di Tivoli e poi di Imola, il 14 febbraio 1785 è eletto cardinale e il 14 marzo
1800 papa nel conclave di Venezia. Morirà il 20 agosto 1823, cfr. G. Moroni, Dizionario di
erudizione storico ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, Venezia, 1840‐1879, vol. LIII, pp. 115‐
172. 9 I tre legati erano i cardinali Giovanni Francesco Albani, Decano del Sacro Collegio, Aurelio
Roverella pro‐Datario e Giulio Mario Della Somaglia Vicario di Roma, cfr. D. Cecchi,
L’amministrazione pontificia, cit., p. 36. 10 Il corteo del pontefice si snodò per le vie della città tra le grida del popolo, il suono delle
orchestre e gli spari dell’artiglieria. Pio VII entrò per la porta del Popolo, passò sotto un Arco di
Trionfo innalzato a Piazza del Popolo, attraversò via del Corso e San Pietro per poi recarsi al
palazzo del Quirinale sede papale. Sul solenne ingresso del nuovo Pontefice a Roma cfr. M.
Caffiero, La nuova era. Miti e profezie dell’Italia in rivoluzione, Genova, 1991; A. Galimberti,
Memorie dell’avvocato Antonio Galimberti dell’occupazione francese in Roma dal 1798 alla fine del 1802,
2 voll. a cura di L. Topi, Roma, 2004, vol. II, pp. 492‐494. Una descrizione della processione in F.
Cancellieri, Storia de’ solenni possessi deʹ sommi pontefici detti anticamente processi o processioni dopo
la loro coronazione dalla Basilica Vaticana alla Lateranense dedicata alla Santita di N.S. Pio 7. P.O.M,
Presso Luigi Lazzarini Stampatore della R.C.A., Roma, 1802, pp. 469‐478.
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43 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
1800, l’Imperatore Ferdinando I aveva consegnato al neo eletto papa le province
di Ancona e Perugia che erano sotto il controllo dei suoi commissari.
Il restaurato governo pontificio si trovò a dover affrontare fin dai primi
giorni una situazione estremamente complessa. Il periodo repubblicano, seppur
breve, aveva lasciato profonde ferite nel corpo dello stato. I francesi avevano
operato con sistematicità nella distruzione delle strutture politiche,
amministrative e anche sociali dello Stato pontificio: il Sacro Collegio era stato
sciolto, tutte le strutture statali dichiarate decadute, molti conventi chiusi e
alcune chiese erano servite come ricovero per i soldati; le confraternite
soppresse e i beni incamerati; modificata la divisione rionale e questo solo per
fare alcuni esempi. L’unica forma organizzata del vecchio regime rimasta in
vigore nella città di Roma durante il periodo della Repubblica fu la divisione
parrocchiale11.
Il lavoro che si presentava davanti agli uomini del restaurato governo era
quindi molto complesso e uno degli aspetti più preoccupanti era quello legato
all’ordine pubblico. La maggior parte dello stato si trovava sotto il controllo di
eserciti stranieri, con una quantità di uomini in armi altissima, che dovevano
essere alloggiati, riforniti e rifocillati. Ad aggravare la situazione vi erano poi
intere colonne di insorgenti che, entrate nei territori dello Stato pontificio al
seguito o spesso precedendo le truppe regolari, vi si trovavano ancora
accampati. Tale presenza poneva con forza il problema della loro gestione, non
solo logistica ma anche e soprattutto politica.
Ben prima del ritorno del pontefice il cardinal Ruffo affrontò con decisione
tale situazione e, in accordo con le autorità napoletane, impedì alle truppe degli
insorgenti, specialmente agli uomini di Fra Diavolo di entrare in città arrivando
anche a far arrestare lo stesso Fra Diavolo12. Sul fronte della lotta agli ex‐
repubblicani, lo strumento posto in essere fu, come detto, la Giunta di Stato, che
finì poi per estendere le sue competenze anche a reati diversi13.
11 Su questi temi oltre alla bibliografia generale citata alla nota numero 3 si veda anche L.
Fiorani, Città religiosa e città rivoluzionaria (1789‐1798), pp. 65‐154, «Ricerche per la storia
religiosa di Roma», 9, 1992 e D. Rocciolo, Documenti sulla vita religiosa prima e durante la
Repubblica romana, ibid, pp. 383‐448. 12 Cfr. L. Topi, «C’est absolumment la Vandée». L’insorgenza del Dipartimento del Circeo (1798‐1799),
Milano, 2003, pp, 171‐172; su Fra Diavolo esiste una bibliografia gigantesca, spesso di scarso o
nullo valore storico qui si cita solo il volume di Pasquale Barra a cui si rimanda per le
indicazioni bibliografiche, P. Barra, Michele Pezza detto Fra’ Diavolo. Vita avventure e morte di un
guerrigliero dell’800 e sue memorie inedite, Cava de’ Tirreni, 1999; su questa questione si veda
anche G. Cingari, Brigantaggio, proprietari e contadini nel sud (1799‐1900), Reggio Calabria, 1976,
p. 54. 13 Cfr. L. Topi, I rei del Papa nei processi della Giunta di Stato, cit., pp. 332‐333.
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44 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
La strategia pontificia fu quella di far rientrare nelle proprie fila tutti gli
esponenti più moderati del giacobinismo romano senza lasciarsi andare a
vendette o a condanne eccessive e anzi molti di costoro furono immediatamente
reintegrati nei ricostituiti uffici o vennero assegnati loro incarichi rilevanti14. Si
intendeva invece colpire con lo strumento dell’esilio quella parte del
giacobinismo che aveva mostrato caratteri troppo radicali15 e nel contempo
reprimere tutti i fenomeni di ripresa dell’insorgenza che potessero in qualche
modo minare sia l’autorità centrale che le ricostituite autorità locali16. È
necessario infine tenere presente il mutato quadro politico, con una Francia in
ripresa dal punto di vista militare, ma che non aveva più interesse ad occupare
nuovamente Roma e lo Stato pontificio, con il quale aveva iniziato anzi le
trattative per giungere ad un concordato17.
Il ʺnuovoʺ pontefice intendeva quindi restituire tranquillità e ordine al suo
stato e non era disposto a tollerare atti violenti ad opera di ʺvecchiʺ insorgenti,
che però da parte loro non si rassegnavano a tornare alla vita di prima. Ad
aggravare una situazione già tesa contribuiva la presenza sul confine sud dello
stato di alcuni capi massa, come Mammone che, fuggito dalle carceri
napoletane, si era insediato nell’area fra i due stati18.
14 Nella stessa Giunta di Stato erano presenti, in qualità di giudici, due ex‐repubblicani gli
avvocati Alessandro Tassoni e Francesco Maria Rufini: nel luglio del 1800 vennero graziati il
principe Francesco Santacroce e il fabbricante di carrozze Saverio Pediconi, due importanti
figure della Repubblica, sotto questo particolare aspetto le Memorie di Galimberti sono molto
preziose. L’avvocato Galimberti riporta, sempre molto scandalizzato, molti di questi perdoni e
reintegri; qui se ne citano solo alcuni come spia di un fenomeno molto più vasto: si tratta
dell’inserimento di molti repubblicani fra gli ufficiali dell’esercito (6 febbraio 1801); del ritorno
degli ex‐consoli Calisti e Panazzi (13 aprile 1801); della reintegrazione dell’ex‐console Riganti
nella sua carica di avvocato concistoriale al posto dell’avvocato Valle (23 aprile 1801) e
dell’impiego dato all’ex‐console Aleandri (18 ottobre 1801), A. Galimberti, Memorie dell’avvocato
Antonio Galimberti, cit., vol. II, rispettivamente pp. 570; 598; 602; 676. L’avversione verso un tale
atteggiamento porta Galimberti a dichiarare che il cardinale Consalvi e il Tesoriere Alessandro
Lante ritenessero che ʺl’esser stato giacobbino, ed impiegato nel governo repubblicano non
facevano più ostacolo al conseguimento delli impieghi, e cariche perché i giacobbini meritavano
la stessa considerazione, che i realisti. Così tutto concorreva al malcontento del popoloʺ, Ivi, pp.
676‐677. 15 Sul numero di condanne, sulla loro tipologia si veda Cfr. L. Topi, I rei del Papa nei processi della
Giunta di Stato, cit., pp. 333‐337. 16 Su questi aspetti e questa strategia si veda il saggio e la relativa bibliografia di M. Caffiero,
ʺPerdono per i giacobini, severità per gli insorgenti: la prima Restaurazione pontificiaʺ, in Folle
controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, a cura di A.M. Rao,
Roma, 1999, pp. 291‐324. 17 Ivi, pp. 293‐297. 18 Su Gaetano Mammone cfr. L. Alonzi, Il vescovo‐prefetto. La diocesi di Sora nel periodo napoleonico
1796‐1818, Sora, 1998, pp. 50‐58 e 70‐77. Vincenzo Cuoco ci ha lasciato questa descrizione del
Eurostudium3w aprile-giugno 2012
45 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
All’interno di questo complesso quadro di riferimento si inserisce il
processo del 1801 che qui si analizza tenendo presente però che esso, rivolto
contro gli autori delle insorgenze non è spiegabile senza tenere conto dei fatti
del 1798‐1799. Il riferimento al biennio repubblicano sarà infatti una costante di
tutto il processo: le violenze fisiche, il saccheggio dei beni e il comportamento
tenuto dagli uomini in quei due anni costituiranno il termine di paragone che
verrà adottato, sia dai testimoni ma soprattutto dalle autorità, per spiegare gli
eventi e accusare gli inquisiti19.
Il passato è il Leit‐motiv di tutte queste carte. È nella passata insorgenza
che si trovano le radici di questo nuovo tentativo, in essa si sono cementati
rapporti, amicizie e sodalizi ma sono maturate anche inimicizie, rancori e
finanche odi profondi. Le violenze commesse o subite tornano in maniera quasi
ossessiva nelle carte processuali, tanto da sembrare esse le accuse e non il
semplice supporto alle nuove imputazioni.
In questo atteggiamento si può ritrovare un indirizzo politico del governo
pontificio che intende veicolare l’immagine degli insorgenti non come quella di
liberatori dello stato ma come quella, opposta, di pericolosi sovversivi che
minano l’ordine costituito volendo impossessarsi dei beni dei ʺbenestantiʺ. Tale
atteggiamento delle autorità pontificie è, come abbiamo visto, già presente nello
stesso cardinal Ruffo, uno degli ideatori delle masse e che una volta arrivato a
Roma intima a questi uomini, che hanno combattuto per lui, di ritornare a casa.
Molto probabilmente il livello di organizzazione, autonomia e violenza
popolare aveva spaventato lo stesso cardinale, e aveva messo in agitazione le
élite cittadine. Questo popolo in armi, autore del suo destino, aveva finito per
far rimpiangere anche i repubblicani20.
bandito: ʺMammone Gaetano, prima molinaro, indi generale in capo dell’insorgenza di Sora, è
un mostro orribile di cui difficilmente si ritrova l’eguale. In due mesi di comando, in poca
estensione di paese, ha fatto fucilare trecentocinquanta infelici […] non si parla dei saccheggi,
delle violenze, degli incendi; non si parla delle carceri orribili nelle quali gittava gl’infelici che
cadevano nelle sue mani, non de’ nuovi generi di morte dalla sua crudeltà inventati […] il suo
desiderio di sangue umano era tale, che si beveva tutto quello che usciva dagl’infelici che faceva
scannareʺ V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Milano, 1999, p. 265. 19 Solo come esempio, di Barolomeo Franconetti detto ʺCeciʺ il ristretto fiscale dice che la sua
ʺcausa impulsiva a delinquere […] hà la sua origine nel sommo profitto, che ha risentito
l’inquisito nella parte, che ha preso nella scorsa insurrezioneʺ e tali affermazioni si ritrovano più
o meno simili per tutti gli inquisiti, ASR, Misc. pol. ris., b. 29, f. 1005. 20 Sul problema della violenza popolare durante il triennio rivoluzionario si veda A.M. Rao, ʺIl
problema della violenza popolare in Italia nell’età rivoluzionariaʺ, in Rivoluzione francese. La
forza delle idee e la forza delle cose, a cura di H. Burstin, Milano, 1990, pp. 247‐266 e Ead., ʺFolle
controrivoluzionarie. La questione delle insorgenze italianeʺ, in Folle controrivoluzionarie. Le
insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, cit., pp. 9‐36.
Eurostudium3w aprile-giugno 2012
46 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
Nell’analisi è necessario quindi avere lo sguardo rivolto al recente passato,
rifarsi costantemente all’esperienza dell’insorgenza del 1798‐1799 dal momento
che in quegli anni si trovano le radici di quanto accade nel 1801.
3 ‐ Anatomia di una sommossa
Il centro della sommossa è il paese di Frosinone, dove risiedono i capi più
importanti, dove si tengono le riunioni decisive e si elabora il piano. Da
Frosinone la sommossa si sarebbe poi dovuta estendere a Ferentino, Alatri,
Veroli e Torrice, arrivando quindi a coinvolgere una vasta area della provincia
di Campagna.
È interessante notare come il tentativo di sommossa coincida
perfettamente con il cuore dell’insorgenza del 1798 come risulta dalla cartina:
Nel cerchio rosso (interno) sono racchiusi i paesi coinvolti nel moto del
1801 mentre il cerchio nero (esterno) rappresenta i paesi dai quali ebbe inizio
l’insorgenza del 179821. Anche dal punto di vista della partecipazione
quantitativa al moto, il confronto con il 1798‐99 si mostra interessante. Il 42 per
cento dei partecipanti a quella insorgenza proveniva dalle città Alatri,
21 Rielaborazione della cartina pubblicata in L. Topi, «C’est absolumment la vandée», cit., p. 181.
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47 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
Ferentino, Frosinone e Veroli e queste sono le città nuovamente coinvolte nei
fatti del 180122.
Accertare il numero reale dei partecipanti al tentativo di sommossa è
questione però non semplice. Alcuni testimoni parlano di sessanta persone, altri
raccontano di intere contrade cittadine o frazioni pronte a sollevarsi e il ristretto
fiscale non aiuta, in quanto, oltre all’elenco degli arrestati, riporta la dizione
generica ʺaltri contumaciʺ senza specificare nomi o indicarne il numero23. Il
notaio Giuseppe Comercioli nella sua testimonianza parla di circa settantatre
abitanti di Frosinone pronti a partecipare al moto e aggiunge che tale numero
gli era stato fornito da Silverio Bomattei, detto ʺmagliettaʺ, uno dei congiurati,
aggiungendo che quasi tutti provenivano dalla contrada di San Martino,
controllata da Michelangelo Cerroni24. Dalle carte si evince comunque che
ognuno dei personaggi chiave della rivolta aveva sotto di sé un numero di
uomini pronti ad eseguire i suoi ordini; si tratta di circa tredici ‐ quindici
persone per capo come riportato dalla testimonianza di Giuseppe Antonio
Narducci, che era stato nel passato un insorgente e che quindi ben conosceva
quegli uomini25.
Nonostante le difficoltà che le fonti presentano, il numero dei partecipanti
serve a stabilire l’ampiezza e la pericolosità del moto, ma soprattutto mostra le
reti di relazione interne ed esterne ai paesi. Analizzando con attenzione le
testimonianze e sfrondandole dagli eccessi che vi sono riportati, si sono
individuati novantasei possibili partecipanti alla sommossa. È necessaria una
precisazione: in questo numero non sono compresi abitanti di Alatri se non il
solo Angelo Maria Cataldi; tale mancanza di informazioni è dovuta al fatto che
il tribunale di Frosinone non interrogò abitanti di Alatri e quindi tutte le
testimonianze riferiscono del solo Cataldi a cui viene attribuito il comando di
diversi uomini. I motivi che portarono il Tribunale a prendere questa decisione
non sono noti: possiamo solo ipotizzare che il Fiscale avesse preferito
22 Ivi, p. 180. 23 Benedetta Zangrilli nella sua testimonianza riferisce di aver sentito dire da Michelangelo
Cerroni che aveva allertato oltre duemila persone; Luigi Spaziani parla dell’intera contrada di
San Martino agli ordini di Cerroni mentre Andrea Quattrociocchi di Veroli riferisce che un ex
sanfedista Francesco Occhiodoro per invogliarlo ad aderire al moto gli aveva detto che erano in
oltre quaranta, infine Giovan Battista Palmesi riferisce di settantadue abitanti di Frosinone
pronti a partecipare alla rivolta, rispettivamente, BAV, Vaticano Latino 14081, cc. 243r; 182r; 114v;
149r. 24 Ivi, c. 6v. Possiamo ipotizzare che Bomattei aumenti il numero dei partecipanti per
ʺinvogliareʺ il notaio ad unirsi al moto oppure sia solo una vanteria. 25 Secondo il Narducci, Luigi Spaziani aveva sotto di se quindici persone, Francesco Antonio
Terracciani e Michelangelo Cerroni circa tredici; la stessa capacità di reclutare e controllare
uomini è attribuita ai capi delle altre città, Ivi, cc. 10v‐11r.
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48 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
concentrarsi maggiormente sulla città di Frosinone, da cui proviene infatti la
maggior parte delle testimonianze, dal momento che in quella città risiedeva il
Preside della Provincia oggetto principale delle ʺattenzioniʺ dei congiurati e che
necessitava di essere protetto: inoltre la testa pensante della rivolta era proprio
a Frosinone dove si tenevano riunioni che vedevano la partecipazione dei capi
congiurati degli altri paesi. Sembrerebbe quindi plausibile ritenere che la prima
preoccupazione del governo fosse quella di normalizzare Frosinone per poi
passare alle altre città.
Fatte queste necessarie precisazioni la presenza di congiurati nei paesi è
riportata nel grafico I.
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49 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
Grafico I ‐ Congiurati divisi per paesi
Frosinone, con 41 inquisiti, risulta essere quello maggiormente coinvolto,
seguito da Veroli e Ferentino con numeri simili (24 e 18) e infine Torrice (12). Se
accanto a Veroli mettiamo Alatri, che possiamo ipotizzare abbia visto un
numero simile di congiurati, abbiamo riprodotta la geografia dell’insorgenza
del 1798 che vedeva il nucleo centrale degli insorti (42%) provenire dalle città di
Alatri, Ferentino, Frosinone e Veroli26.
La geografia delle presenze ci mostra molto chiaramente come il retaggio
della grande insorgenza del luglio 1798 sia molto forte. L’area, il numero, i
partecipanti ma soprattutto gli ideatori vengono tutti da quell’esperienza che li
ha plasmati e trasformati.
Alcuni dei ʺvecchiʺ insorgenti, e nel nostro caso tutti coloro che sono
coinvolti nell’affaire, sono uomini che nel fuoco degli eventi di quegli anni
hanno visto mutare radicalmente la loro posizione sociale ed economica. Hanno
comandato intere colonne di individui, retto le città, deciso il destino della vita
e della morte di altri uomini e soprattutto hanno avuto e gestito il potere.
Alcuni hanno varcato i confini dello stato e si sono rifugiati nel regno di Napoli,
venendo in contatto con realtà altre, spesso ignote o conosciute solo
superficialmente. Si sono affrancati da una condizione di subordinazione con
metodi e mezzi violenti, quali intimidazioni, incarcerazioni, violenze e anche
uccisioni e sono arrivati addirittura a contestare l’autorità della chiesa nella
persona dei loro vescovi; hanno saccheggiato i beni dei repubblicani, con i quali
sono diventati uomini ricchi, ma soprattutto la loro continua e incessante azione
ha contribuito in maniera decisiva alla sconfitta dei francesi e degli odiati
26 Cfr. L. Topi, «C’est absolumment la Vandée», cit., p. 180.
Ferentino; 19%
Frosinone; 43%
Torrice; 13%
Veroli; 25%
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50 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
ʺgiacobiniʺ. Certamente non tutti gli insorgenti si possono identificare nello
schema appena descritto; l’insorgenza è fenomeno complesso che taglia la scala
sociale in verticale e il marchese Tanni di Ferentino e il conte Tommaso Paolini
di Veroli, che hanno svolto un ruolo decisivo nel moto delle loro città, non
hanno partecipato al saccheggio delle case dei repubblicani27; il benestante
Nicola Pellegrini, uno dei comandanti di Veroli, si occupò solo di fornire pane e
munizioni ai ribelli senza commettere violenze e l’elenco potrebbe proseguire28.
Di contro però non bisogna cadere nello schema opposto, che vede il ʺpopolinoʺ
assetato di sangue compiere atti violenti ed esecrandi e una élite che partecipa
alla rivolta ma limita o respinge forme violente di lotta. Valga un caso per tutti,
quello del notaio possidente Giuseppe Antonio Narducci di Frosinone, che
viene accusato, con Michelangelo Cerroni, di aver ucciso il figlio del console de
Mattheis durante la sommossa del luglio 179829.
3.1 ‐ Il piano
Il cuore dell’azione sarebbe stata la città di Frosinone. Da qui la sommossa si
sarebbe poi estesa a Ferentino, Alatri, Veroli e Torrice.
La scelta del momento e dell’ora sono, come in tutte le rivolte,
significativi. Nel nostro caso lo sono per due motivi. Il moto avrebbe dovuto
avere inizio a Frosinone la sera del 30 aprile 1801; proprio il giorno in cui le
squadre dei birri del Tribunale della città si sarebbero dovuto recare a Velletri
per condurre un’operazione contro un nutrito gruppo di briganti che si erano
dati appuntamento nei pressi di quella cittadina. Frosinone sarebbe rimasta
quindi sguarnita30. Il secondo motivo risiede nel fatto che nello stesso giorno a
Ferentino sarebbe iniziata la festa per il santo patrono della città
(Sant’Ambrogio) con la processione delle reliquie in giro per le strade del paese
e che, visto il grande concorso di popolo, questa sarebbe stata l’occasione buona
27 Il marchese Tanni è considerato da Girardon il capo degli insorgenti di Alatri e in una lettera
al Ministro Martelli si sostiene che la famiglia Tanni dia aiuto agli insorgenti di Ferentino
rifornendoli di cibo, ASR, Repubblica Romana 1798‐1799, b. 4, f. 26. Il conte Tommaso Paolini
viene arrestato verso la fine di settembre 1798 con l’accusa di aver costruito le batterie e fornito
piombo agli insorgenti di Veroli, G. Segarini, M.P. Critelli, Une source inédite de lʹhistoire de la
République Romaine. Les registres du Commandant Girardon. Lʹ«insorgenza» du Latium méridional et
la campagne du Circeo, «Mélanges de lʹÉcole française de Rome. Italie et Méditerranée», 1990, 1,
p. 313 e p. 392. 28 Per questo suo agire Nicola Pellegrini verrà condannato a morte dalla commissione militare il
24 termidoro anno VI (11 agosto 1798), Collezione di Carte pubbliche, proclami, editti, ragionamenti
ed altre produzioni tendenti a consolidare la rigenerata Repubblica Romana, Roma, per il cittadino
Luigi Perego Salvioni (d’ora in poi CCP), cinque tomi 1798‐1799, II, pp. 378‐380. 29 G. Segarini, M.P. Critelli, Une source inédite de lʹhistoire de la République Romaine, cit., p. 359. 30 ASR, Misc. pol. ris., b. 29, f. 1005.
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51 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
per animare una rivolta. Sempre nello stesso giorno gli uomini presenti nelle
città di Veroli, Alatri e Torrice si sarebbero mossi a loro volta per far sollevare i
rispettivi paesi.
Le testimonianze concordano sulle spinte da utilizzare per far sollevare il
popolo: si sarebbe fatto leva sulla paura di un imminente ritorno delle truppe
francesi intente a vendicarsi di quanto era successo solo pochi anni prima
saccheggiando e mettendo a ferro e fuoco tutti i paesi. Era quindi necessario
premunirsi armandosi e cacciando dalle città tutti gli ex‐repubblicani che vi
erano tornati e che erano pronti ad allearsi nuovamente con i francesi per
vendicarsi dei torti subiti: ʺOra ritornano li Caldarari [francesi] conviene in stare
all’erta in prender subito le armiʺ queste sono le parole che Giuseppe Zaccaria
dice di aver sentito pronunciare da Angelo Maria Cataldi31.
I francesi stavano realmente per tornare in quelle terre, ma solo per
transitarvi diretti verso il regno di Napoli e con l’accordo del pontefice. I capi
dei congiurati quindi utilizzano un fatto reale, anche se non imminente, per
rinfocolare una paura che non era ingiustificata. Solo pochi anni prima (1798) il
territorio della Provincia di Marittima e Campagna era stato teatro di una feroce
insorgenza, a cui aveva fatto seguito l’altrettanto dura repressione militare
franco‐polacca, con l’incendio e il saccheggio di Ferentino e Frosinone32. Infine il
periodo giugno‐settembre 1799 era stato costellato di scontri, cambi di fronte
repentini, saccheggi e morti, che avevano lasciato un ricordo vivido nelle
popolazioni dell’area.
Torniamo ora a Frosinone e seguiamo il piano così come descritto da vari
testimoni. Il segnale della sommossa era stato diviso in tre parti; alle tre della
notte del 30 aprile 1801, un primo colpo di archibugio sarebbe stato sparato in
contrada S. Elisabetta, a cui avrebbe fatto seguito un altro colpo esploso dalle
parti del macello; infine un terzo colpo di pistola sparato dalla casa di
Michelangelo Cerroni avrebbe dato il via al moto.
Il Preside della città però era stato informato sia del tentativo di
sommossa, sia dei dettagli e, lungi dall’aver inviato le squadre di birri a Velletri,
ne aveva invece fatte venire altre dalle città vicine. Al primo sparo alcuni birri si
recarono nella contrada di S. Elisabetta senza trovare nessuno, come nessuno
31 BAV, Vaticano Latino 14081, c. 32v; solo come esempio si riporta la testimonianza di
Giambattista Grande che riferisce di una conversazione con Silverio Bomattei detto ʺMagliettaʺ
che gli avrebbe detto ʺche lui sapeva di certo che dovevano ritornare li francesi, che perciò
conveniva ad armarsi per reprimerli, fare una nuova ribellione ed un buon bottinoʺ, Ivi, c. 62v e
quella di Luigi Sodani che testimonia che ʺcol pretesto del passaggio de Francesi si tentava da
mal intenzionati di fare una insurrezioneʺ, Ivi, cc. 2v‐3r. 32 Sulle vicende di Ferentino e Frosinone cfr. L. Topi, «C’est absolumment la Vandée», cit., pp. 88‐
93.
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52 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
trovarono vicino al macello; nel contempo un altro gruppo numeroso di birri
aveva circondato la casa di Michelangelo Cerroni. Questi, vistosi scoperto non
sparò, il colpo e l’insurrezione non iniziò. Per tutta la notte poi squadre di birri
pattugliarono la città con l’intento di prevenire eventuali altri tentativi di
rivolta.
Anche a Ferentino il tentativo di sollevare la popolazione fallì; qui
l’agitatore principale era stato individuato in Giuseppe Tangredi detto
ʺPepparelloʺ, che avrebbe dovuto far avviare il moto: possediamo la descrizione
di questo tentativo riportata da un testimone oculare, Giuseppe Gorirossi di
Frosinone, che così racconta:
Stassimo dunque a godere della festa, nella quale ci erano concorsi molti di questi miei
concittadini, fra li quali il nominato Giuseppe Tangredi alias Pepparello. Verso le ore venti, il
medesimo Tangredi si pose come un fanatico per detta città, incutendo timore e suscitando
quella popolazione, e concorso ripeto di gente che vi era, dicendo ciò, in via allarmante
facendosi vedere timoroso, dicendo ancora che voleva subito far ritorno in questa città, ed
armarsi di archibugio e padroncina per poi buttarsi per le montagne e siccome si voleva uno
scompiglio nel popolo, che si era incominciato a mettere sossopra, credette bene il signor
Narducci di portarlo via da detta città, anche colle minacce di volerlo bastonare, conforme gli
riuscì. 33
Rincontreremo più avanti Narducci, che sarà uno dei testi chiave del
processo e, per il momento basti ricordare che proprio Narducci, nella sua
testimonianza rilasciata il 6 maggio 1801, riferisce che anche nel paesino di Ripi
circolavano strane voci34.
Si tratta quindi di un piano complesso e articolato, che prevede un’azione
coordinata e simultanea in più paesi, segno della presenza di più gruppi e che,
per quel concerne Frosinone, epicentro del moto, presuppone una manovra a
tenaglia verso il centro del paese ad opera di gruppi che muovono da diverse
posizioni. Il livello di progettazione è raffinato, mentre la sua organizzazione
lascia molto a desiderare, tanto che le autorità, avvisate da diversi cittadini,
riescono a conoscerne con un sufficiente anticipo tutti i dettagli e a sventarlo.
Il fallimento dell’azione scoraggia i congiurati ma non li fa desistere dai
loro piani35, tanto che l’11 maggio 1801 il Fiscale della Provincia, Giovan Battista
Sterbini, chiede al Preside di far arrestare tutti i sediziosi, dal momento che
aveva avuto sentore che stavano preparando un’altra insurrezione.
Questa sarebbe dovuta scoppiare a Veroli e anche qui l’occasione sarebbe
stata un giorno di festa, la domenica di Pentecoste (24 maggio 1801). Il piano era
simile nello svolgimento a quello ideato per Ferentino: far sollevare la
33 BAV, Vaticano Latino 14081, c. 38v. 34 Ivi, c. 12v. 35 Ibidem.
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53 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
popolazione riunita per la festa, spargendo ad arte la voce di un imminente
ritorno dei francesi per poi indirizzarne la violenza contro il Governatore
pontificio e i repubblicani ritornati in città36.
Il Preside della Provincia, intuendo la gravità della situazione, ordinò
l’arresto dei principali sospetti. Il giorno dopo (12 maggio 1801) il bargello
Agostino Monacelli ne arrestò un buon numero, a cui si unirono quelli che già
si trovavano in carcere per altri motivi, e il Preside li fece immediatamente
trasferire tutti a Roma37. Alcuni però riuscirono a sfuggire alla cattura, come
Michelangelo Cerroni, che, grazie ad un informatore che lo avvertì degli
imminenti arresti, si rifugiò nel vicino regno di Napoli38; il suo tentativo di fuga
non andò a buon fine e pochi giorni dopo anche Cerroni venne arrestato nel
paese del Regno nel quale aveva trovato rifugio e consegnato a birri di
Frosinone, che subito lo trasferirono a Roma39.
Alla fine di maggio il Preside di Frosinone decise di stroncare
definitivamente qualsiasi velleità di sommossa e ordinò l’arresto dei restanti
partecipanti al complotto40. Anche questa volta non tutti vennero trovati e anzi
una parte numerosa, tra cui alcuni dei capi, riuscì a darsi alla macchia: tra
questi Angelo Maria Cataldi e Francesco Antonio Terracciani figure chiave del
36 Ambrogio Marrocco, benestante di Veroli, ci ha lasciato questa descrizione delle voci che
circolavano per le vie della cittadina: ʺper le imminenti Feste di Pasqua Rosa si voleva fare una
tagliata di teste, anziché si doveva camminare nelle feste medesime sopra le teste e
nell’incontrarle si sarebbe detto questa è la testa del Governatore quest’altra di quel
Galantuomo, e l’altra del Repubblicanoʺ: Marrocco è un teste, come altri che incontreremo più
avanti molto di parte; è un benestante e quindi preoccupato di poter essere oggetto della
violenza popolare ma è necessario tenere presente che le vie di Veroli hanno conosciuto
violenze terribili e il ricordo del rogo sul quale vennero bruciati i corpi della famiglia Franchi e
quelli di altri cinque cittadini era sicuramente vivido nella memoria dei verolani; su queste
violenze cfr. V. Caperna, Storia di Veroli, Veroli, 1907, p. 465; L. Topi, «C’est absolumment la
Vandée», cit., pp. 56‐61. 37 Gli arrestati sono Don Antonio Cerroni, Luigi Spaziani, Giuseppe Franconetti detto ʺCeciʺ,
Carlo Giuliani, Silverio Bomattei detto ʺMagliettaʺ, Giuseppe Butti, Bartolomeo Franconetti,
Nicola Giansanti Colucci e Giuseppe Tangredi detto ʺPepparelloʺ, BAV, Vaticano Latino 14081,
cc. 68rv. 38 Arcangela Spaziani moglie di Luigi Spaziani uno degli imputati testimonia che una sera
Cerroni si presentò a casa sua per avvertire il marito Luigi e il fratello Vincenzo che stavano per
essere arrestati e di fuggire; i due uomini non ritennero di dover fuggire e Cerroni lasciò
rapidamente la casa, Ibid., cc. 230v‐231r. 39 ASR, Misc. pol. ris., b. 29, f. 1005. 40 Vennero arrestati: Magno Spaziani il giovine, Sebastiano Bracaglia il giovine, Pasquale
Minolti detto ʺCavalloʺ e Bernardino Mancini di Frosinone; Geremia de Castris, e Paolo
Pettorini di Ferentino; Giuseppe Sebastiani Trabocchetti, Giuseppe Andrigli e Filippo Passi di
Veroli; Cesare Macci, Sisto Arduini e Francesco Quattrocchi di Torrice; e infine Nicola Tagliente
nato nel regno di Napoli e residente a Veroli, Ibidem.
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54 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
tentativo di rivolta. Questi due uomini erano ex‐birri e si può ipotizzare che
avessero mantenuto dei contatti fra i birri, da cui avranno avuto sentore di un
loro arresto: il loro antico «mestiere» li mise probabilmente al riparo
dall’arresto.
3.2 ‐ Capi e gregari
Un piano così vasto e complesso come quello appena descritto necessitava di
una preparazione adeguata. Era fondamentale avere in ogni paese uomini sicuri
e fidati che a loro volta ne reclutassero altri; stabilire una rete di collegamento
tra i diversi gruppi; trovare luoghi di riunione e infine rifornirsi di armi e
munizioni.
Secondo tutte le testimonianze a capo del tentativo di sommossa vi era il
canonico di Frosinone don Antonio Cerroni, ʺuomo tutto mistero e tutta
politicaʺ41. Il suo ruolo di dominus gli è unanimemente riconosciuto e soprattutto
gli è riconosciuta la paternità dell’ideazione e dell’organizzazione del
complotto: è la mente raffinata, mentre il braccio operativo è il fratello
Michelangelo42. Cerroni ha contatti con Roma e sembra avere una buona
disponibilità economica, che promette di mettere a servizio degli arrestati per
farli liberare43. Infine ha una forte relazione con l’altro personaggio chiave della
rivolta Angelo Maria Cataldi di Alatri, ʺaraldo della rivoluzioneʺ; relazione che
risale al sodalizio creatosi durante l’insorgenza del 1798 e poi rafforzatosi nei
fatti dell’estate 179944.
41 Ibidem. 42 Giuseppe Donati nella sua testimonianza parlando della sommossa e del ruolo dei fratelli
Cerroni dichiara che ʺuno [Antonio Cerroni] a fissarla, premeditarla ad organizzarla e l’altro
[Michelangelo] ad eseguirla grossolanamenteʺ, BAV, Vaticano Latino 14081, c. 28v. 43 Cerroni, come abbiamo detto, verrà arrestato a Frosinone e trasferito a Roma, con altri sette
imputati; durante il tragitto riesce a comunicare con gli altri imputati e li esorta a non parlare,
anche se sottoposti alla tortura della corda dicendo che era pronto a spendere oltre diecimila
scudi per il loro silenzio e che a Roma avrebbe attivato la sua rete per far scarcerare tutti e che
questo era solo possibile se fossero restati in silenzio, Ivi, cc. 87rv.Le affermazioni di Cerroni
sono probabilmente dettate dalla volontà di rassicurare i suoi complici per non farli parlare,
conscio del fatto che il peso maggiore delle accuse sarebbe ricaduto sulle sue spalle e quindi
sono da considerare con cautela anche se le preoccupazioni del canonico si rivelano giuste in
quanto Luigi Spaziani, uno degli arrestati, subito chiede l’immunità in cambio della sua
completa testimonianza. 44 I fratelli Ceroni, Terracciani, Cataldi e anche altri sono tutti inseriti nell’elenco degli emigrati
del Dipartimento del Circeo redatto dalla autorità repubblicane nella primavera del 1799 a
riprova del fatto che fossero tutti fuggiti nel vicino regno di Napoli da cui poi sarebbero tornati
al comando delle masse, CCP, tomo IV, pp. 87‐90.
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55 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
Cataldi, che risulta avere sotto di sé ʺun grande ammasso di personeʺ, è
uno dei maggiori esponenti dell’insorgenza del 1798. È il capo, l’ideatore e la
guida del moto di Alatri; indirizza la folla contro la casa dei Vinciguerra che
verranno massacrati, fugge nel regno di Napoli, per poi tornare nel 1799 alla
guida di una grossa banda di insorgenti; molti sono gli omicidi che gli vengono
imputati sino a farlo diventare una sorta di ʺuomo neroʺ della zona, in unione
con Mammone e con altri feroci capi massa. La rappresentazione di Cataldi è
sicuramente esagerata, anche se la sua direzione del moto del 1798 è accertata
da diverse fonti, come è accertata la sua azione nel periodo dell’estate 1799.
Nonostante ciò, Cataldi non si può considerare come il ʺCapoʺ dell’insorgenza
del Circeo del 1798, come invece Tommaso il ʺBroncoloʺ è il capo del moto del
Trasimeno45.
Ciò che emerge dalle carte è la forte rete di relazioni di quest’uomo,
relazioni dovute anche al suo precedente lavoro di bargello del Tribunale di
Frosinone, che lo ha portato in contatto con diverse persone residenti in molte
città dell’area. Cataldi è costantemente in giro per i paesi per tenere le fila, per
reclutare uomini, per reperire informazioni. Nel suo girovagare non è mai solo,
infatti i testimoni raccontano di averlo visto sempre in compagnia di qualcuno,
alcune volte a loro noto ma più spesso ignoto. La presenza di Cataldi, seppure
in maniera labile, è attestata anche nel piccolo paese di Fumone nel quale è in
contatto con Epifanio Longhi, anch’egli uno dei promotori dell’insorgenza del
179846. Infine il genero di Cataldi, Geremia de Castris, controlla come nel 1798 il
paese di Ferentino.
Insieme a Cataldi sono importanti per il moto Francesco Antonio
Terracciani e Michelangelo Cerroni, entrambi di Frosinone ed entrambi figure
tra loro speculari. Terracciani è un ex‐birro che nell’insorgenza del 1798 si era
molto arricchito, tanto che al momento del tentativo di sommossa risulta
ʺvivente delle sue entrateʺ47; è il nipote del bargello e questa parentela gli fa
assumere atteggiamenti di sfrontatezza come quello ʺconcedereʺ il permesso di
girare armati ai suoi accoliti che, sono circa tredici48.
45 Su Cataldi e la sua azione cfr. L. Topi, «C’est absolumment la Vandée», cit., pp. 205‐207 e 212‐
214; su Tommaso il ʺBroncoloʺ, C. Minciotti Tsoukas, I torbidi del Trasimeno. Analisi di una rivolta,
Milano, 1988. 46 Su Fumone e Longhi cfr. L. Topi, Fumone: un paese nell’insorgenza del Dipartimento del Circeo
(1798‐1806), «Dimensioni e problemi della ricerca storica», I, Roma, 2003, pp. 197‐222. 47 Secondo il notaio Giuseppe Antonio Narducci, Terracciani ʺcolli passati saccheggi [insorgenza
del 1798‐1799] e rapine ad un mio credere si sarà formato un capitale di circa ventimila scudiʺ,
BAV, Vaticano Latino 14081, c. 16r. 48 ASR, Misc. pol. ris., b. 29, f. 1005. Angelo Barletta racconta dell’arresto di Nicola Giansanti
detto ʺColucciʺ per porto illegale di una baionetta e secondo Barletta sarebbe bastato a
Giansanti, per essere scarcerato, dire che il permesso di portare una tale arma gli era stato dato
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56 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
Anche Michelangelo Cerroni si è arricchito durante l’insorgenza del
1798/1799 quando era arrivato, nell’estate del 1799, a comandare sull’intero
paese. È uno dei più attivi reclutatori di persone e assiduo partecipante alle
riunioni in casa Spaziani o nel forno del paese. Da lui sarebbe dovuto arrivare il
colpo di pistola decisivo per dare avvio al moto; come Terracciani è molto
amico di Cataldi e controlla un buon numero di persone.
Cataldi, Cerroni e Terracciani sono uomini dalla forte personalità, sotto di
loro si muovono i gregari, dotati di un carattere deciso, spesso molto violenti,
che hanno il compito di girare per i paesi e le contrade per portare le notizie,
reclutare altri uomini alla causa, trasmettere gli ordini, cercare armi e munizioni
e così via: si tratta, solo per fare qualche nome, di Bartolomeo Franconetti, detto
ʺCeciʺ, di Frosinone, di Geremia di Castris di Ferentino, di Giuseppe Sebastiani,
detto ʺTrabbocchettiʺ, di Veroli, di Cesare Macci e Francesco Quattrocchi di
Torrice.
Purtroppo le carte a nostra disposizione non ci consentono di presentare
un’analisi quantitativa relativa alle professioni di questi uomini dal momento
che troppo poche sono le indicazioni in tal senso (solo di una ventina
conosciamo qualche vaga informazione). Nonostante questo possiamo tentare,
dai dati in nostro possesso, un profilo sociale degli imputati.
Alcuni di questi sono definiti dai testimoni come persone arricchitesi
durante l’insorgenza del 1798‐99 e che ora vivono con quei beni. Angelo Maria
Cataldi da birro è diventato mercante di carne, Giuseppe Tangredi detto
ʺPepparelloʺ ha abbandonato il mestiere di calzolaio e ora vive dei suoi beni49:
per tutti valga la descrizione fornita da Giuseppe Antonio Narducci:
Li soggetti tutti complottati sono persone veramente sediziose e sebbene in passato ognuna
avesse il suo particolare impiego onde vivere, dalla passata sommossa impinguatisi coll’altrui
sostanze vivono di presente senza alcun impiego … li riferiti capi poi non sono di disegual nota,
oltre di che intraprendenti, briganti, e più impinguati dall’altrui ruine. Il solo Terracciani colli
passati saccheggi e rapine ad un mio credere si sarà formato un capitale di circa ventimila scudi,
così il Cerroni … anche il Cataldi che sebbene abbia il domicilio in Alatri, dove prima viveva
miserabilmente, ora poi è pieno di danaro, e sostanze e la fa da mercante di macelli. 50
da Terracciani che era stato uno dei capi della passata insorgenza ed era amico dei fratelli
Cerroni come se questo fosse bastevole per non rispettare la legge o meglio come se questi
uomini fossero loro la legge, BAV, Vaticano Latino 14081, c. 55r. 49 Felice Martini dichiara che Giuseppe Tangredi ʺprima della spiegata eseguita rivoluzione
lavorava nella sua arte di calzolaio, ma dal detto tempo in poi ha abbandonata la di lui arte, ed
è vissuto conforme seguita a vivere col prodotto de li ladronecci come sopra commessiʺ, Ivi, c.
20r. 50 Ivi, cc. 15v‐16r.
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57 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
Non tutti gli insorgenti si sono arricchiti durante quei tragici anni. Molti,
tornati a casa, hanno ripreso la loro vita e tra questi troviamo muratori, garzoni,
fornai, osti, calessieri, birri e alcuni contadini non meglio indicati, che sembrano
essere pronti a riprendere le armi.
Si tratta solo di pochi casi, come detto, ma che, se confrontati con quelli,
ben più corposi dell’insorgenza del 1798‐1799 compongono un quadro chiaro51.
È confermata la presenza in massa del basso popolo, segno questo di una
continuità chiara, continuità di intenti, di affiliazioni personali e di strategie,
mentre in questo caso manca del tutto o è irrilevante la presenza dei
ʺbenestantiʺ, dei ʺviventi delle proprie entrateʺ, dei nobili e dei sacerdoti (è
presente un solo nobile, il marchese Agostino Campanari di Veroli, e un solo
sacerdote Angelo Scaccia sempre di Veroli), che al contrario parteciparono in
numero rilevante e con ruoli di prima e seconda fila ai moti del 1798‐1799 e che
ora, con il restaurato governo pontificio sono radicalmente contrari a qualsiasi
azione che possa mettere in discussione il governo del papa.
Questo è il caso di Luigi Spaziani, benestante che dichiara di vivere con
proventi delle entrate dei suoi beni ed è stato, con il fratello Vincenzo, uno dei
più importanti personaggi dell’insorgenza di Frosinone52. La pericolosità dei
due è confermata dal fatto che vennero processati dalla Giunta di Stato e da
questa condannati all’esilio da Roma e Frosinone53.
Nel corso del suo esilio forzoso a Marino, Spaziani ha occasione di
incontrare spesso Michelangelo Cerroni, che conosce bene e che gli parla del
piano di insurrezione, proponendogli di parteciparvi. In febbraio 1801 Spaziani
ottiene dalla Sacra Consulta la grazia e quindi fa ritorno a Frosinone, dove
viene continuamente cercato da Cerroni. Spaziani palesa a Cerroni tutta la sua
contrarietà ad un nuovo moto, che si sarebbe indirizzato contro il pontefice,
legittimo sovrano. Verrà arrestato con l’accusa di aver partecipato alle riunioni,
parlerà e otterrà l’impunità. Spaziani, che aveva combattuto, ed anche molto
contro i giacobini in favore del papa, resta fedele al suo sovrano e avverserà il
tentativo di sollevazione contro il governo.
51 Sulla composizione sociale degli insorgenti del biennio rivoluzionario cfr. L. Topi, «C’est
absolumment la Vandée», cit., pp. 183‐194. 52 Girardon il 5 fruttidoro anno 6 (22 agosto 1798), ordina l’arresto dei due fratelli Spaziani con
l’accusa di aver ucciso il figlio del console de Mattheis: G. Segarini, M.P. Critelli, Une source
inédite de lʹhistoire de la République Romaine, cit., p. 359. 53 ASR, Giunta di Stato (1799‐1800), b. 17, f. 235. La Giunta di Stato si mosse a seguito di una
lettera inviatele dal «Popolo di Frosinone» dove i due fratelli vengono così descritti: ʺLa causa
dei continui sconcerti, e disordini che nascono in questa città ne derivi da pochi individui e
specialmente dalli tumultuosi Luigi e Vincenzo Spaziani che vedendosi per anche impuniti
delle continue scelleratezze, e delitti, che d’assiduo commettono si rendono vieppiù
baldansosiʺ, ASR, Trib. Crim. Gov, Processi 1800, vol. 6 quater.
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58 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
Siamo quindi di fronte ad un fenomeno abbastanza definito socialmente, i
cui contorni sono più netti rispetto a quelli all’insorgenza: segno che non si
tratta di una semplice ʺripresaʺ, o di un secondo tempo dell’insorgenza, ma di
un processo di altra natura che da un’attenta lettura delle carte mostra una
situazione più complessa di quella presentata dai testimoni.
3.3 ‐ I testimoni
Nel corso del procedimento istruito a Frosinone vengono sentiti quarantadue
testimoni, di diversi paesi. Si tratta di un numero abbastanza importante di
testimonianze, che vede anche la presenza di diverse donne. A differenza degli
imputati, per i testimoni disponiamo di un identificativo sociale quasi completo
(41 su 42). L’appartenenza sociale risulta essere così ripartita:
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59 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
Grafico II ‐ Professioni testimoni
Spicca in questo grafico la forte presenza di benestanti o ʺviventi delle
proprie entrateʺ che sono un terzo dei testimoni. A costoro devono essere anche
aggiunti i notai, ovvero coloro che nel caso specifico dichiarano di esercitare
l’arte di notaio e di provvedere nel contempo alla gestione del loro patrimonio
attraverso agenti, servitori, guardiani etc. e che sono stati divisi solo a causa
della specificità del loro lavoro e del loro status.
Quindi circa il 40 per cento dei testimoni appartengono all’élite dei paesi;
costoro sono anche i più preoccupati da una eventuale rivolta, in quanto sanno
di essere l’oggetto principale dell’odio dei congiurati. I salariati e i contadini
risulteranno essere testimoni strettamente collegati con i benestanti, spesso sono
alle loro dipendenze come servitori, facchini, oppure coltivano le loro terre.
I negozianti e gli artigiani sono all’interno della vicenda processuale le
categorie che forniscono le maggiori informazioni al fisco, in quanto nelle loro
botteghe (artebianca, barbiere, osteria, forno e altro) si tenevano le riunioni dei
cospiratori: sono coloro che vedono quasi quotidianamente i congiurati,
ascoltano i loro discorsi e poi li riferiscono al tribunale.
Una serie di testimonianze importanti risultano essere quelle fornite dalle
donne che quando non hanno altra specifica, sono state indicate nella voce
ʺlavori di casaʺ, ma almeno di una sappiamo che gestisce la bottega di
caffettiere di Frosinone; queste riferiscono con precisione i discorsi sentiti,
raccontano dello stato d’animo dei loro mariti e dimostrano di essere molto
attente a quello che succede nella loro città.
Passando ora ad analizzare le testimonianze, queste si possono dividere in
due categorie con una sola importante eccezione. Da un lato abbiamo una serie
Notai; 7%
Artigiani; 12%
Benestanti; 29%
Contadini; 12%
Negozianti; 15%
Salariati; 15%
Lavori di casa; 10%
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60 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
di testi che hanno avuto delle questioni personali con gli imputati: si tratta di
vicende legate al periodo della passata insorgenza e quasi tutte estremamente
violente. Dall’altro vi è una serie di testimonianze di persone che non hanno
questioni personali con gli imputati ma sono a loro contrari perché li conoscono
di fama e li ritengono pericolosi per il paese; unica eccezione in questa divisione
è la testimonianza del notaio Giuseppe Antonio Narducci, dal momento che
Narducci è un ex insorgente che conosce quindi da dentro gli imputati e il loro
mondo.
Vediamo ora i testimoni che hanno avuto delle questioni con gli imputati;
in questo caso i contrasti di cui si parlerà riguardano tutti il periodo del 1798‐
1799, ritorna anche qui il fantasma della Repubblica.
Si tratterà solo di tre testimonianze, che per descrivere le ʺqualitàʺ degli
imputati fanno riferimento ai fatti del biennio. Il negoziante Giuseppe Antonio
Mignastri racconta che Giuseppe Tancredi detto ʺPepparelloʺ gli uccise il
fratello Filippo senza un motivo apparente e tanta era la paura che l’uomo
incuteva che il cadavere non venne rimosso e gli animali ne fecero scempio;
inoltre quello stesso giorno Tancredi ferì altre due persone e due mesi dopo fece
lo stesso con Bruno Merolli, a cui si dovette amputare un braccio54. Ugualmente
violenta è la storia di Zaccaria Fabi narrata dalla madre Petronilla. Costui era un
ragazzo di circa 18 anni che si era arruolato come fuciliere di Montagna nelle
truppe napoletane e poi era tornato a casa. Venne, per ordine di Michelangelo
Cerroni, prelevato dagli insorgenti, portato in giro per le strade del paese e
percosso violentemente: poi gettato in carcere dove veniva regolarmente
picchiato da Cerroni e infine, dopo otto mesi scarcerato; morì poco dopo per le
percosse ricevute. La madre sostenne che tutto ciò accadde perché
Michelangelo Cerroni aveva preso il cavallo e la bardatura del ragazzo e non
intendeva restituirli, accusandolo addirittura di essere un ʺgiacobinoʺ55.
Altrettanto violenta ma senza un esito così tragico è la vicenda che vede
coinvolto l’imbastatore di Frosinone Andrea Ranelli: costui dichiara di essere
stato accusato da Michelangelo Cerroni di aver scritto un attestato contro
Raffaele Bassetti, uno dei capi dell’insorgenza di Frosinone, e di essersi quindi
dovuto rifugiare a Ceccano56. Qui venne arrestato e riportato in paese dove fu
54 BAV, Vaticano Latino 14081, cc. 61rv. Anche un altro teste Anselmi sempre di Frosinone è
coinvolto in questa vicenda; Anselmi è uno di quelli contro cui Tancredi spara dopo aver ucciso
Migliastri e anch’egli riferisce della pessime qualità degli imputati e della loro volontà di
uccidere tutti gli ex‐repubblicani, Ivi, cc. 76v‐77r. 55 Ivi, cc. 159r‐161v. 56 Il generale Girardon, in una lettera del 25 vendemmiaio anno VII (17 ottobre 1798) chiede al
Ministro di Giustizia e Polizia di far arrestare Bassetti, che si trova a Roma, dal momento che si
è macchiato di gravi crimini durante l’insorgenza del Circeo; due giorni dopo Girardon informa
il Comandante della Piazza di Frosinone che Bassetti sta per essere tradotto nella sua città, G.
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61 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
derubato, gettato in prigione e picchiato molto violentemente: non contento,
Michelangelo Cerroni lo fece incatenare mani e piedi e tenere a pane e acqua
per circa otto mesi; in questo lasso di tempo veniva giornalmente picchiato dai
due fratelli Cerroni. Inoltre sua moglie, incinta, per sfuggire al tentativo di
violenza, sempre di Michelangelo Cerroni, cadde, ebbe un aborto e morì. Il teste
dichiara di essersi salvato solo grazie al carceriere che gli passava,
probabilmente dietro compenso, i viveri e i medicinali che i suoi domestici gli
portavano57.
Come detto, queste sono solo tre storie, prese come esempio degli odi
creatisi nel periodo repubblicano che portano i testimoni a descrivere i fratelli
Cerroni e più in generale tutti i partecipanti al moto come elementi violenti e
molto pericolosi.
Veniamo ad analizzare la testimonianze di coloro che non hanno avuto
motivi di attrito personale con gli imputati: questo gruppo è formato da un lato
dai benestanti del paese, preoccupati dei convivi, dei crocicchi degli ex
insorgenti, e dall’altro, come già detto, da artigiani, bottegai, osti, tavernieri,
garzoni, che sentono, osservano i congiurati e poi riferiscono.
La bottega di barbiere di Anselmi sulla piazza della SS. Annunziata di
Frosinone è uno dei luoghi fondamentali per la circolazione delle idee del
moto58. Nella bottega si incontrano tutti i congiurati che la usano per scambiarsi
informazioni sull’andamento del piano, ma soprattutto, racconta il barbiere
molto preoccupato, per fare proseliti tra i contadini che andavano a farsi fare la
barba, sostenendo che era venuto il momento di punire con la morte tutti i
repubblicani che erano tornati in paese a seguito dell’indulto di Consalvi59.
Altro luogo importante, questa volta più ristretto, quindi non usato per fare
propaganda ma solo per riunirsi, era il caffè (e spaccio di acquavite) di
Benedetta Zangrilli, sempre a Frosinone. La testimonianza della donna è
esemplare e merita di essere riporta per intero:
Fra le persone, che hanno frequentata suddetta mia bottega è stato uno il nominato Cerroni
tanto di giorno che di notte in comitiva mai di galantuomini, e di persone di garbo, ma di
persone di malavita. Da circa li tre mesi a questa parte, che egli fissamente soleva pratticare
nella espressata mia bottega sempre colle stesse persone, che sono li fratelli Bartolomeo,
Giuseppe e Francesco Franconetti denominati Cece, Silverio Bomattei alias Maglietta, Magno il
Giovane, Sebastiano Bracaglia alias il Giovane, Francesco Mastrangeli alias Scarabuscia, Paolo
Segarini, M.P. Critelli, Une source inédite de lʹhistoire de la République Romaine, cit., pp. 412‐413;
purtroppo non disponiamo di altre informazioni su Bassetti. 57 BAV, Vaticano Latino 14081, cc. 139v‐142r. 58 Sull’importanza delle botteghe, caffè, spacci e altro si veda il classico saggio di M. Agulhon, Il
salotto, il circolo e il caffè. I luoghi della sociabilità nella Francia borghese (1810‐1848), a cura di M.
Malatesta, Roma, 1993. 59 BAV, Vaticano Latino 14081, cc. 71rv.
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62 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
nominato lo Scardalano e Biagio figlio di Zinforiano Forte, e siccome da circa li tre mesi a questa
parte vedevo una insolita operazione, che colla scusa di giocare si chiudevano dentro la seconda
stanza ed allorché io, o qualunque altro, che voleva venire, allora appunto riprendevano le
carte, e si ponevano a giocare, ma subito che restavano soli, lasciavano tosto il gioco, e si
ponevano a discorrere fra di loro in segreto. Veduta tal cosa più volte mi posi in curiosità di
sentire cosa dicevano, ed essendo, come gli ho detto, gente tutta di cattivo affare, mi posi in
sospetto, che non trattassero di qualche cosa di cattivo, motivo per cui usai l’industria di pormi
a sentire alla porta a parte di fuori subito che rimaneva chiusa, e li medesimi, conforme ho detto
di sopra, rimanevano fra di loro in libertà. 60
L’intuizione della donna si dimostra corretta, anche avvalorata dalla
personale conoscenza della cattiva fama dei suoi avventori. Con attenzione e
furbizia riesce ad ascoltare molti dei discorsi pronunciati, soprattutto da Cataldi
e Cerroni, che minacciavano gli ex repubblicani, il Governatore, si dicevano
pronti ad uccidere chiunque si fosse posto sulla loro strada e discutevano anche
dei dettagli operativi dell’azione da condursi sia a Frosinone che a Veroli. Altri
luoghi importanti di riunione erano i forni di Alatri, Torrice e Frosinone dove ci
si incontrava, si parlava, si beveva sino a notte fonda e proprio ai forni
guardavano con preoccupazione i benestanti del paese che riferiscono al Fiscale
degli strani movimenti di persone che conoscono per essere molto pericolose61.
Il vetturale di Veroli, Giuseppe Manchi, riferisce di aver sentito fare
discorsi pericolosi da alcuni ex insorgenti di Veroli di cui conosce bene la fama
e dichiara che volevano fare una ʺnuova rivoluzione di Zampitti, ossia
insorgenti di Regno, li quali uniti a quei di questa città volevano far fare una
strage generaleʺ62 e che il motivo di questo nuovo tentativo era la volontà di
costoro di riprendere le ruberie e i saccheggi.
Tra le testimonianze spicca come detto quella del notaio Giovan Antonio
Narducci, che viene sentito ben tre volte, in quanto conosceva bene tutti gli
imputati. Narducci era stato uno dei maggiori partecipanti all’insorgenza del
1798, tanto da essere indicato dal generale Girardon come uno di coloro che
avevano ucciso il figlio del console De Mattheis insieme ai fratelli Spaziani e ad
altri63. Lo ritroviamo, durante la Repubblica, arrestato a Roma dove viene
aiutato da un suo compatriota Giacinto Tesori; costui è uno speziale di
Frosinone arrestato dalla Giunta di Stato, che erroneamente lo ritiene un
fervente repubblicano. Nel corso del suo interrogatorio dichiara di essersi
trasferito a Roma da oltre un anno proprio per aiutare Narducci ʺil quale come
60 Ivi, cc. 241rv. 61 Solo come esempio si cita la testimonianza di Vincenzo Spaziani di Frosinone che dichiara di
vivere amministrando i propri beni e riferisce di aver visto nel forno molte volte Cerroni
intrattenersi con gli altri congiurati, Ivi, c. 236v. 62 Ivi, c. 210v. 63 G. Segarini, M.P. Critelli, Une source inédite de lʹhistoire de la République Romaine, cit., p. 359.
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63 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
capo rivoluzionario era stato arrestato dai francesi, ed era prossimo al pericolo
di essere fucilatoʺ. Tesori dice che, grazie alle sue conoscenze all’interno della
Repubblica, riesce a far trasferire il processo di Narducci nella centrale di
Anagni, da dove poi sarà scarcerato. Inoltre Tesori dichiara di conoscere
Michelangelo Cerroni ʺanch’egli perseguito dai francesi come capo
rivoluzionarioʺ e riferisce che Cerroni e Narducci si conoscevano bene, in
quanto avevano partecipato insieme all’insorgenza64.
Narducci quindi è intimo con i capi del tentativo di sommossa e infatti
racconta di essere stato avvicinato a Guarcino proprio da Angelo Maria Cataldi,
che ʺmolto riprometteva in mia personaʺ. Cataldi, forte delle esperienze passate,
ritiene di avere nel notaio un alleato sicuro e gli racconta nel dettaglio il piano
proponendogli di parteciparvi; Narducci finge di accettare la proposta solo per
poter meglio indagare. Il notaio quindi indica con molta precisione i capi e i
rispettivi uomini che ciascun di essi controllava65 e nonostante Cerroni non si
fidasse più di lui riesce a carpire informazioni molto precise sul piano, sui
tempi e modi di realizzarlo: inoltre dichiara di aver più volte osservato i
congiurati riunirsi sulla piazza del macello, in casa di Pietro Spaziani e nel
forno del paese. Narducci è un personaggio molto esemplificativo delle
differenze presenti tra il 1798‐1799 e il 1801, per meglio dire tra l’insorgenza e il
nuovo tentativo.
Nel biennio repubblicano un uomo come Narducci, che appartiene per
censo e per professione all’élite del paese, prende le armi in difesa della
religione e del Pontefice e del mondo che questo rappresenta: in tale occasione
si unisce con altri uomini, molto distanti da lui, per censo, posizione sociale,
cultura con i quali percorre un tratto di strada. Questa strada può essere anche
lunga e può prevedere la fuga nel regno di Napoli e il carcere ed è segnata da
violenze di vario genere e natura. Una volta vinta la battaglia, ripristinato il
governo pontificio, Narducci e tutti quelli come lui riprendono la loro vita e la
loro posizione all’interno del paese. L’insorgenza ha rappresentato una
parentesi nella loro esistenza, sicuramente importante ma non ha apportato
modifiche radicali nel modo di vita. Narducci era un notaio, un possidente e un
uomo ricco prima del 1798 e lo resta anche successivamente: inoltre, in un clima
di pacificazione, voluto da Consalvi e avallato da Pio VII, il rientro nel paese
degli ex repubblicani che appartenevano alla stessa élite sociale del paese (l’ex
console Giacomo de Mattheis era un ricco possidente) non comporta ai suoi
occhi scandalo e non produce volontà di rivalsa.
64 ASR, Giunta di Stato (1799‐1800), b. 11, f. 156. 65 BAV, Vaticano Latino 14081, cc. 10v‐11v.
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64 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
Al contrario l’atteggiamento di quella parte degli insorgenti lo preoccupa
molto, dal momento che ne conosce bene le capacità, la pericolosità e anche la
violenza. Costoro sono ora ritornati ad essere uomini molto lontani da lui, che,
tornato il legittimo governo, ripristinate le antiche istituzioni, non hanno
accettato di ritornare al posto che gli compete ma che invece vogliono restare i
padroni del destino del paese. Questo Narducci e tutti quelli come lui non
possono tollerarlo.
Infatti con parole aspre descrive i suoi ex compagni di insorgenza:
Li soggetti tutti complottati sono persone veramente sediziose e sebbene in passato ognuna
avesse il suo particolare impiego onde vivere, dalla passata sommossa impinguatisi coll’altrui
sostanze vivono di presente senza alcun impiego, e se qualcuno ha già dilapidati gli acquisti, va
tirando innanzi con dei raggiri e trappole, persone dedite alla deboscia, ubriachezza, gioco,
facile a prender risse, insomma soggetti tutti, che danno da temere a chi procura di vivere sotto
i dettami delle leggi divine ed umane. Li riferiti capi poi non sono di disegual nota, oltre di che
intraprendenti, briganti, e più impinguati dall’altrui ruine. Il solo Terracciani colli passati
saccheggi e rapine ad un mio credere si sarà formato un capitale di circa ventimila scudi, così il
Cerroni, nontanto lo Spaziani, e anche il Cataldi che sebbene abbia il domicilio in Alatri, dove
prima viveva miserabilmente, ora poi è pieno di danaro, e sostanze e la fa da mercante di
macelli. 66
Questa descrizione a tinte forti è confermata da tutti i testimoni che
descrivono gli imputati come uomini ʺtruciʺ, ʺviolentiʺ, ʺprepotentiʺ, ʺavidiʺ,
ʺoziosiʺ, ʺvagabondiʺ, dediti al saccheggio, alle nefandezze peggiori, al bere, alla
vita dissoluta, interessati solo al denaro e con una sfrenata volontà di
saccheggio e animati da una sete di arricchimento personale.
4. ‐ ʺPoi semo tutti noiʺ
L’immagine che esce dalle testimonianze e che anche il potere pontificio è
intenzionato a veicolare è quella riportata nelle parole di Narducci; gli ex
insorgenti sono uomini violenti che vogliono uccidere e saccheggiare i
benestanti per una volontà di arricchimento personale, ma da una lettura
attenta delle carte questa immagine esce un poco sbiadita. Le motivazioni e le
descrizioni addotte dai testimoni non collimano o quantomeno non collimano
perfettamente con le ʺparoleʺ degli imputati; parole che, come abbiamo detto,
sono riportate dagli stessi testimoni nei loro interrogatori. La ʺvoceʺ degli
inquisiti, seppure riportata da terzi, ci mostra squarci di una realtà più
complessa e più mossa di quanto gli stessi testimoni vogliono far apparire e
modifica l’immagine volutamente statica che si voleva far passare.
66 Ivi, cc. 15v‐16r.
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65 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
Andrea Gorirossi racconta nella sua testimonianza di un dialogo a cui ha
assistito tra Bartolomeo Franconetti, ex insorgente, e Angelo Antonucci, ex
repubblicano ,che vale la pena di riportare:
«Bartolomeo mio ma che ti ho fatto?», ed egli [Franconetti] rispose «se non hai fatto niente ne
hai fatto ad altri» e minacciando colla testa proseguì «basta non è venuto il freno ancora?». 67
L’importanza del dialogo è tutta nella risposta di Franconetti che dice non
esservi un problema fra i due come invece crede Antonucci (ʺcosa ti ho fattoʺ)
ma è una questione generale, diremo quindi ʺpoliticaʺ in quanto il fatto di
essere stato un repubblicano comporta aver compiuto delle azioni contrarie a
qualcuno (ʺne hai fatto ad altriʺ). In questo caso l’accusa mossa dall’insorgente
al repubblicano è quella di essere appartenuto ad uno schieramento politico
avverso e quindi per questo colpevole e meritevole di essere ucciso come
minacciava Giuseppe Giansanti Colucci (ʺe pure quando mai se l’aspettavano,
moriranno tuttiʺ).
Certamente la volontà di arricchirsi, saccheggiando le case e i beni degli ex
repubblicani o dei maggiorenti dei paesi è presente in maniera importante nelle
motivazioni che spingono questi uomini a tentare una nuova sommossa e non
deve essere abbandonata o relegata sullo sfondo; Giuseppe Donati dice che lo
scopo principale dei congiurati ʺè quello di profittare dell’altrui sostanze con
delle rubberie, rapine e saccheggiʺ68 ed è anche quello che dice Giuseppe
Tangredi quando, nel corso di una discussione in una bottega di Frosinone, dice
ʺmi voglio prima mangiare il sangue delle persone, e mi voglio impadronire
della loro robbaʺ69.
In Silverio Bomattei le due motivazioni convivono, il teste Andrea Ranalli
riferisce che Bomattei diceva che aveva finito i denari e ʺche era venuto il tempo
di rifarliʺ e che per far ciò si sarebbero dovute tagliare le teste del Preside, dei
membri del Tribunale, dei ʺGiacobini e persone Benestantiʺ70.
Riecheggia qui il tema di uno scontro tra repubblicani ricchi e benestanti e
il resto della popolazione; sappiamo che una parte importante dei repubblicani,
specialmente nei paesi, apparteneva all’élite economica e sociale che aveva
governato e continuava a governare le città71. La visione del ʺgiacobinoʺ
67 Ivi, c. 42v. 68 BAV, Vaticano Latino 14081, c. 29r. 69 Ivi, c. 239v. 70 Ivi, c. 133v. 71 Da una mia ricerca in corso sulla città di Alatri risulta che il 42 per cento dei repubblicani
erano benestanti e un dato così alto sembra essere presente anche in altre realtà anche se manca
uno studio specifico e approfondito di tipo quantitativo sui paesi dello stato pontificio; su questi
temi si veda M.P. Donato, ʺI repubblicani. Per un profilo sociale e politicoʺ, in D. Armando, M.
Cattaneo, M.P. Donato, Una rivoluzione difficile, cit., pp. 111‐177; M. Formica, Sudditi ribelli.
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66 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
affamatore della popolazione si ripresenta nelle parole di Giuseppe Noce ex
insorgente di Veroli, che accusa i ʺGalantuomini, Benestanti, Giacobiniʺ di
trattenere le loro grasce per venderle fuori città e quindi affamare il popolo e
che unico mezzo per far cessare le ʺmiserieʺ era necessario fare ʺuna tagliata di
testeʺ72. Bisogna ricordare che Veroli, Alatri e in altri paesi teste erano rotolate
per le strade e il ricordo dei roghi sui quali si erano bruciati i repubblicani era
ancora vivo.
Tutto ciò ci porta verso l’ultima parte delle considerazioni dei congiurati
quelle che riguardano la volontà di ʺfinireʺ il lavoro iniziato qualche anno
prima e di riprendersi i paesi che aveva conquistato e che ora vedono tornati
nelle mani degli odiati repubblicani con il sostegno del governo pontificio.
È Michelangelo Cerroni a dare voce a questi risentimenti quando sostiene
che questa volta non commetterà gli errori precedenti, cioè aver ceduto il potere
conquistato al legittimo governo, che si è mostrato inetto e colluso e soprattutto
non ha valorizzato proprio coloro che avevano consentito il suo ritorno73; ed è
proprio contro il governatore, rappresentante del governo pontificio nelle città
di competenza della Camera apostolica, che si coagula tutto l’odio dei
congiurati: è lui che deve subire la pena peggiore, pubblica e violenta come
pubblica e violenta era stata la fine dei repubblicani nel biennio 1798‐1799.
Fedeltà e infedeltà politiche nella Roma di fine Settecento, Roma, 2004. Vi sono diversi studi sulla
composizione sociale dei repubblicani e anche degli insorgenti, qui se ne citano alcuni senza
pretesa di esaustività, E. Pagano, Pro e contro la Repubblica. cittadini schedati dal governo cisalpino
in un’inchiesta politica del 1798, Milano, 2000; G. Vaccarino, ʺL’inchiesta del 1799 sui giacobini in
Piemonteʺ, in Id., I Giacobini Piemontesi (1796‐1814), Roma, 1989, 2 voll., II, pp. 749‐797; A.M.
Rao, Esuli. Lʹemigrazione politica italiana in Francia, 1792‐1802, Napoli, 1992, Ead., Sociologia e
politica del giacobinismo: il caso napoletano, «Prospettive Settanta», 2, 1979; L. Antonielli, La guardia
nazionale di Pavia: i primi anni (1796‐1799), «Annali di storia pavese», 21, 1992, pp. 21‐52; R.
Colapietra, Per una rilettura socio‐antropologica dell’Abruzzo giacobino e sanfedista, Napoli, 1995; A.
Spagnoletti, Uomini e luoghi del 1799 in terra di Bari, Bari, 2000; F.F. Gallo, Dai gigli alle coccarde. Il
conflitto politico in Abruzzo (1770‐1815), Roma, 2002; N. Antonacci, ʺPer una prosopografia di
gruppo dei repubblicani di Terra di bari: caratteri e destini del ceto politico “giacobino” prima e
dopo il 1799ʺ, in Patrioti e insorgenti in provincia: il 1799 in terra di Bari e Basilicata, a cura di A.
Massafra, Bari, 2002 e più in generale l’intero volume; L. Addante, Repubblica e controrivoluzione.
Il 1799 nella Calabria Cosentina, Napoli, 2005; M. Formica, Sudditi ribelli. Fedeltà e infedeltà politiche
nella Roma di fine Settecento, Roma, 2004. 72 BAV, Vaticano Latino 14081, cc. 169v‐170r. La stessa volontà di riempiere le strade di Veroli
con le teste dei possidenti/giacobini è espressa da Giuseppe Sebastiani detto Trabocchetti che
dice si ʺdoveva camminare nelle feste medesime [Pasqua Rosa] sopra le teste e nell’incontrarle
si sarebbe detto questa è la testa del Governatore quest’altra di quel Galantuomo, e l’altra del
Repubblicanoʺ, Ivi, c. 95v. 73 ʺO guarda un poco questo Monsignore, che è piuttosto un burattino ha egli da commandare
questo popolo, quando che noi abbiamo ripreso la città, e l’avremo guadagnata per noiʺ, Ivi, c.
243.
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67 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
La sorte prevista per il governatore sarebbe dovuta essere la seguente:
Bisognava prendersi Monsignor Governatore e ciò doveva essere in breve e metterlo dentro un
cacatojo e poi mantenerlo a pane e acqua, con dargli una pagnotta il giorno e poi portarlo in
mezzo alla piazza e farlo morire stentatamente a forza di puncicature di coltello, acciò avesse di
più penato. 74
Queste intenzioni ricordano molto i tormenti che furono riservati sulla
piazza di Veroli alla famiglia Franchi e ad altri cinque repubblicani nell’estate
del 179875 o l’uccisione dei Vinciguerra a Alatri, o quella dell’Edile di Bauco e
l’elenco potrebbe continuare76.
La migliore descrizione dello stato d’animo e della volontà di una parte
importante dei congiurati è quella che ci fornisce Raffaella Baldassare che, da
dietro la porta, li sente parlare. Siamo in presenza di un dialogo da romanzo
nero forse unico nel suo genere:
Michelangelo Cerroni diceva “Come noi siamo stati quelli, che avevano riscattato Frosinone e
poi non lo avemo da Governatore? ci avemo da vedere un burattino, ma che è Monsignore
questo?”, “Basta” rispose Bartolomeo Franconetti, “Quando avemo ammazzato lui ci mettemo
poi subito a mano a mano fino, che finimo”, soggiunse Sebastiano il Giovane ʺQuando avemo
ammazzato tutti facemo Governatore il canonico”. Aggiungeva detto Giuseppe Franconetti
“Così va bene, poi semo tutti noi”. 77
In questo dialogo a tre voci sono condensate tutte le motivazioni che
hanno spinto quegli uomini a progettare una nuova insorgenza: la volontà di
74 Ivi, c. 44v. 75 I due Franchi, padre e figlio verranno uccisi in maniera terribile ʺdando a uno molti colpi di
coltello, e tagliandogli le orecchie, e all’altro le parti genitali; e di averli gettati di poi l’uni
sull’altro in fuoco ardentissimo, quantunque fossero ancora semiviviʺ, CCP, cit., V, pp. 204‐205,
sentenza del 4° giorno complimentario (20 settembre 1799) emessa contro Giuseppe Colasanti,
Mario Coretti e Fortunato De Santis. Precedentemente un’altra sentenza aveva condannato a
morte altre tre persone, Demetrio Coco, Giovanni Panicia e Domenico Jacorici, CCP, cit., II, pp.
426‐429, sentenza del 4 fruttidoro anno 6 (21 agosto 1798). Gli altri cinque repubblicani
subiscono la stessa sorte e vengono uccisi ʺdando tre colpi di coltello al collo del primo, e
strappandogli a forza tutti i capelli: dando al secondo dei colpi d’ascia, e tagliandogli una mano,
e poi il collo; scannando il terzo nella maniera più barbara, e la più terribile; fracassando la
mascella del quarto a forza di colpi facendolo perire di una morte spaventosa e facendo morire
il quinto come il primo; e di avere poi tagliate le teste a questi cinque patrioti e averle mostrata
al pubblico sulla piazza di S. Andrea di Veroli, gettandole in aria, e per colmo di orrore di
avervi ballato sopraʺ, G. Segarini, M.P. Critelli, Une source inédite de lʹhistoire de la République
Romaine, cit., p. 361, anche in questo caso, come per le condanne a morte per l’uccisione dei
Franchi, disponiamo di due sentenze; una contro Demetrio Coco, Giovanni Panicia e Domenico
Jacorici e l’altra contro Giuseppe Colasanti, Mario Coretti e Fortunato de Santis CCP, V, pp. 204‐
205. 76 L. Topi, «C’est absolumment la Vandée», cit., pp. 50‐56 e 77‐78. 77 BAV, Vaticano Latino 14081, cc. 252rv.
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68 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
punire il governatore ritenuto incapace di gestire la città; il progetto di non
lasciarsi sfuggire nessuno questa volta, al contrario di quanto accaduto pochi
anni prima, e infine la creazione di un nuovo ordine nel quale resteranno solo
tutti coloro che hanno condiviso queste azioni.
In conclusione questo processo mostra tutta la complessità e i problemi
che il seppur breve periodo repubblicano hanno lasciato sul campo. Lo scontro
tra visioni del mondo che in quei brevi anni era venuto a crearsi aveva
modificato profondamente gli uomini e i loro atteggiamenti: lo stesso schierarsi
pro o contro la Repubblica aveva scompaginato i giochi, creando aggregazioni
verticali, composte da uomini di ceti differenti, che poi, almeno così sembra nel
caso analizzato, con il ritorno del pontefice si erano di nuovo divisi; ben
difficilmente un notaio possidente si sarebbe trovato a combattere e forse anche
a prendere ordini da un semplice guardiano e meno che mai un birro avrebbe
tenuto fra le mani i destini di un intero paese.
Finita l’insorgenza, il ritorno a casa non fu quindi indolore; non era
possibile, come volevano le autorità pontificie, un semplice ripristino del
passato come se la Repubblica fosse stata solo una breve parentesi; l’orizzonte si
era aperto e concretamente quegli uomini avevano visto la possibilità di una
vita diversa da quella che avevano sempre condotto. Il tentativo di sommossa,
subito stroncato anche se non produsse effetti concreti, dal momento che alla
fine tutti gli imputati furono scarcerati78, si configura con tutte le cautele
possibili come un caso di lotta politica.
Negli ultimi anni si è assistito negli studi sulla Rivoluzione francese ad
una ripresa prima e ad un consolidamento poi della ʺrivincita della politicaʺ79.
Questa ʺrivincitaʺ risulta molto differenziata e mossa al suo interno (François
Furet, Mona Ozouf, Lynn Hunt) ma è Michel Vovelle che tenta di cogliere la
politica in tutte ʺle interconnessioni possibili, dalla geografia alla cultura,
dall’economia alla societàʺ80 e lascia intravedere come la Rivoluzione sia un
momento di rottura, di creazione a caldo di consensi e di dissensi, di
innovazioni e di resistenze, tutte da considerare e da analizzare con attenzione.
La politica di cui parla Vovelle non è una una politica intesa come una serie di
idee prodotte dalle elité che calano poi nel corpo della società ma al contrario è
78 L’informazione sulla scarcerazione degli imputati del processo in M. Caffiero, Perdono per i
giacobini, cit., p. 313, nota 55. 79 Si vedano H. Burstin, La politica alla prova. Appunti sulla rivoluzione francese, Milano, 1989, Id.,
Francia 1798: la politica e il quotidiano, Torino, 1994; L. Hunt, La Rivoluzione Francese. Politica,
cultura, classi sociali, Bologna, 1989; M. Vovelle, La scoperta della politica. Geopolitica della
Rivoluzione francese, Bari, 1995; A.M. Rao, La rivoluzione francese e la scoperta della politica, «Studi
Storici», XXXVI, 1, 1995, pp. 163‐213. 80 A.M. Rao, La rivoluzione francese e la scoperta, cit., p. 177.
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69 L. Topi, Un processo "politico" nello Stato pontificio
ʺstrumento di coesione o anche di conflittualità sociale non puro appannaggio
di minoranze intellettuali e di ristretti gruppi di potereʺ81.
Vi è però una difficoltà di comprensione della lotta politica in questa
determinata fase storica, nella quale le logiche fazionarie si sono allentate e gli
attori come gli schieramenti non hanno comportamenti lineari e netti; i
protagonisti hanno sia una volontà di arricchirsi personalmente, come gli viene
imputato da tutti, compreso il potere politico ma sono portatori anche di
motivazioni che trascendono la dimensione personale (ʺse non hai fatto niente
né hai fatto ad altriʺ) e tendono ad affermare la volontà di scalzare un gruppo di
potere ritenuto inadeguato e che ha ceduto al ritorno degli odiati ʺgiacobiniʺ
che ora sono di nuovo al comando dopo essere stati combattuti e cacciati. E
tutto questo per istituire un nuovo regime politico nel quale loro sarebbero stati
i capi.
Infine gli ʺstrumentiʺ, i ʺgestiʺ e finanche ʺla logicaʺ attraverso i quali la
lotta politica si esprime risentono anch’essi dell’incoerenza e
dell’imprevedibilità del momento. Vi è una forte mescolanza di temi vecchi e
nuovi, di interessi personali e questioni più generali, di odi sociali e politici e
tutto questo si deve all’apparato ʺideologicoʺ portato, in maniera anch’essa
complicata e non lineare, in Italia dalle armate francesi.
La rivoluzione e la contro‐rivoluzione diventano quindi luogo
dell’apprendistato della politica, momento nel quale si creano nel fuoco degli
eventi ʺalcuni degli strumenti della lotta politica del mondo contemporaneoʺ82,
e come tutti i momenti in cui si assiste alla nascita di un fenomeno la
complessità e anche la contradditorietà la fanno da padroni e diventa quindi
necessario studiarle, assumendole come elementi fondativi del fenomeno
stesso.
81 Ivi, p. 191. 82 F.F. Gallo, Dai gigli alle coccarde, cit., p. 15.
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70 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
Il costo della Repubblica “sorella” per gli ebrei di Roma
(febbraio 1798‐settembre 1799)
di Manuela Militi
Il 10 febbraio 1798 le truppe francesi comandate dal generale Alexandre
Berthier cominciarono ad entrare in Roma1; in poche ore vennero occupate le
principali piazze cittadine e Castel S. Angelo, sopra il quale i romani videro
sventolare la bandiera tricolore francese2.
1. Roma repubblicana: fuori dal ghetto!
L’occupazione della città non fu un fulmine a ciel sereno, il Trattato di
Tolentino del 19 febbraio 1797, con le sue pesanti clausole, aveva già mostrato
un mutato clima diplomatico tra il governo pontificio e la Francia
rivoluzionaria3. Il pretesto per procedere contro papa arrivò poco tempo dopo,
1 Sull’ingresso in Roma delle truppe francesi abbiamo un manoscritto anonimo conservato
presso la, Biblioteca Vallicelliana di Roma, Descrizione dell’esercito francese a Roma il 10 febbraio
1798, Fondo Falzacappa, Z 75, c.133. 2 Il particolare della bandiera è riportato in Diario dell’anni funesti di Roma dall’anno MDCCXCIII
al MDCCCXIV, a cura di M.T. Bonadonna Russo, Tipografia del Senato, Roma, 1995, p. 52: con
queste parole l’abate Sala descrive gli eventi di quella giornata: ʺLa mattina de 10, primo giorno
di Carnevale, nel termine di 4 ore bisognò evacuare la Fortezza di Castel S. Angelo. Li
Commissari francesi con un tamburo ne presero possesso, e dopo il mezzo giorno entrovvi la
loro guarnigioneʺ, G.A. Sala, ʺDiario romano degli anni 1798‐99ʺ, 3 voll., in Scritti di Giuseppe
Antonio Sala pubblicati sugli autografi da Giuseppe Cugnoni a cura di V.E. Giuntella, Società romana
di storia patria, Roma, 1980 vol. I, p. 12; si veda anche A. Galimberti, Memorie dell’occupazione
francese in Roma dal 1798 alla fine del 1802, 2 voll., a cura di L. Topi, Istituto Nazionale di Studi
Romani, Roma, 2004, vol. I, pp. 4‐5. 3 Per un panorama generale sulla situazione dell’Italia nel triennio 1796‐1799, cfr. V.E. Giuntella,
L’Italia dalle Repubbliche giacobine alla crisi del dispotismo napoleonico, in «Storia d’Italia», vol. III, a
cura di N. Valeri, Utet, Torino, 1965, pp. 241‐377; G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, I, Le
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71 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
quando, nel dicembre del 1797, il generale Mathieu‐Léonard Duphot venne
ucciso in uno scontro a fuoco con dei soldati pontifici a Porta Settimiana, nel
rione Trastevere4. A seguito di tale atto il Direttorio inviò delle precise
disposizioni al generale Berthier, comandante in capo dell’armata francese in
Italia, affinché muovesse rapidamente su Roma, la occupasse e vi instaurasse la
Repubblica5.
Occupato Castel Sant’Angelo, il generale Berthier rese note, con un
proclama, le condizioni della capitolazione del governo pontificio
particolarmente dure6. Il giorno successivo, il grosso della fanteria francese
prese possesso della città7.
Il 15 febbraio, con una solenne cerimonia, sul Campidoglio, venne
ufficialmente proclamata la Repubblica romana8. La scenografia e l’apparato
origini del Risorgimento, Feltrinelli, Milano, 1966, pp. 197‐288; C. Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla
Cisalpina al Regno, in «Storia d’Italia», vol. XVIII/1, diretta da G. Galasso, Utet, Torino, 1986. Sui
rapporti fra Francia e Santa Sede cfr. G. Filippone, Le Relazioni tra Lo Stato Pontificio e la Francia
Rivoluzionaria, Giuffrè, Milano, 1961‐1967; sul trattato di Tolentino cfr. Ideologie e patrimonio
storico‐culturale nellʹetà rivoluzionaria e napoleonica: a proposito del trattato di Tolentino, Ministero
per i beni e le attività culturali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma, 2000. 4 Sulla morte del generale francese F. Gerra, La morte del generale Duphot e la Repubblica romana del
1798‐1799, «Quaderni del Palatino», IV, 1967, I, pp. 153‐163, II, pp. 21‐29. Durante la Repubblica
venne stampata una versione ʺufficialeʺ dell’accaduto, Raccolta di documenti autentici riguardanti
l’orribile attentato commesso in Roma il di 28 dicembre 1797, in Roma, Presso il cittadino Tommaso
Pagliarini, 1798 anno I della Repubblica. 5 Tali ordini sono parzialmente riportati da A. Dufourcq, Le Régime jacobin en Italie. Etude sur la
République romaine (1798‐1799), Perrin, Paris, 1900, pp. 86‐88. 6 Esse prevedevano tra l’altro la consegna di alcuni cardinali in qualità di ostaggi, l’arresto di
una serie di persone ritenute nemiche della Francia e il pagamento della somma di 4 milioni di
piastre. La Capitolazione si componeva di 21 articoli; per un’analisi cfr. A. Cretoni, Roma
giacobina. Storia della Repubblica Romana del 1798‐99, Istituto di Studi Romani ‐ Edizioni
Scientifiche Italiane, Roma, 1971, pp. 34‐35. Il testo in F. Valentinelli, Memorie storiche sulle
principali cagioni e circostanze della rivoluzione di Roma e Napoli, s.n.t. 1800, pp. 192‐193 e in P.
Baldassarri, Relazione delle avversità e patimenti del glorioso Papa Pio VI negli ultimi tre anni del suo
pontificato, 4 voll., Reale Tipografia degli eredi Soliani, Modena, 1840‐1843, vol. II, pp. 251‐252. 7 ʺLa truppa francese occupò il Campidoglio, Monte Cavallo, la Trinità dei Monti e S. Pietro
Montorio. La Piazza di S. Maria Maggiore … le porte furono guarnite dalle guardie francesiʺ, A.
Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., vol. I, p. 5. 8 Negli ultimi anni numerosi sono stati i saggi sulla Repubblica romana; accanto a studi ormai
diventati dei ʺclassiciʺ; A. Dufourcq, Le Régime jacobin en Italie. Etude sur la République romaine
(1798‐1799), Perrin, Paris, 1900; V.E. Giuntella, La giacobina Repubblica romana (1798‐1799). Aspetti
e momenti, in «Archivio della Società romana di storia patria», LXXIII, 1950, ff. I‐IV, pp. 1‐213;
Id., Bibliografia della Repubblica Romana del 1798‐1799, Istituto di Studi Romani, Roma, 1957; R. De
Felice, Italia giacobina, ESI, Napoli 1965, Id, Il triennio giacobino in Italia (1796‐1799) Note e ricerche,
Bonacci Editore, Roma 1990, Id, Note e ricerche sugli “Illuminati” e sul misticismo rivoluzionario
(1789‐1800), Roma 1960; A. Cretoni, Roma giacobina, cit.; M. Battaglini, Le istituzioni di Roma
Giacobina, (1798‐1799). Studi e appunti, Giuffrè, Milano, 1971; si citano qui solo alcuni recenti
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72 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
festivo furono molto complessi e l’azione si svolse in vari luoghi della città9. Il
nuovo potere intendeva ammantare la città di una sacralità repubblicana; per
lavori a cui si rimanda per un completo quadro bibliografico di riferimento: M. Formica, La città
e la rivoluzione. Roma 1798‐1799, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma, 1999; D.
Armando, M. Cattaneo, M.P. Donato, Una rivoluzione difficile. La Repubblica romana del 1798‐1799,
Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa‐Roma, 2000; L. Fiorani, D. Rocciolo, Chiesa
romana e Rivoluzione francese, 1789‐1799, École Française de Rome, Roma, 2004; M. Caffiero, La
repubblica nella città del papa. Roma 1798, Donzelli, Roma, 2005; si segnalano anche alcuni numeri
monografici di riviste che si sono occupate degli anni della Repubblica; «Deboli progressi della
filosofia». Rivoluzione e religione a Roma, 1798‐1799, a cura di L. Fiorani, «Ricerche per la storia
religiosa di Roma», 9, 1992; La Repubblica romana tra giacobinismo e insorgenza 1798‐1799, «Archivi
e Cultura», XXIII‐XXIV, 1990‐1991; Roma tra fine Settecento e inizi Ottocento, «Roma moderna e
contemporanea», II (1994), 1; Roma repubblicana. 1798‐99, 1849, cit.; e gli atti di due convegni,
Roma negli anni di influenza e dominio francese 1798‐1814. Rotture continuità, innovazioni tra fine
Settecento e inizi Ottocento, a cura di Ph. Boutry, F. Pitocco, C.M. Travaglini, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli, 2000 e La Rivoluzione nello Stato della Chiesa 1789‐1799, a cura di L. Fiorani,
Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa‐Roma, 1997. 9 La festa ebbe inizio a Campo Vaccino, l’antico Foro romano, dove il medico Nicola Corona
pronunciò un discorso alla presenza delle truppe francesi e del popolo romano che era accorso
per assistere alla festa. Dopo il discorso venne portato in processione e piantato sul
Campidoglio un grande albero della libertà; immediatamente dopo venne rogato l’ ʺAtto del
popolo sovranoʺ che certificò la nascita della Repubblica, a seguire venne portata in giro per la
città, tra grida di giubilo, la bandiera rossa bianca e nera della Repubblica; per una descrizione
completa della festa cfr. A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., vol. I, pp. 7‐
8; il testo dell’ ʺAtto del popolo sovranoʺ si può leggere in Collezione di Carte pubbliche, proclami,
editti, ragionamenti ed altre produzioni tendenti a consolidare la rigenerata Repubblica Romana, Roma,
per il cittadino Luigi Perego Salvioni, 1798‐1799, Anno I e II della Repubblica romana, 5 tomi
(d’ora il poi CCP), I, pp. 11‐14 e nel Monitore di Roma, I, 21 febbraio 1798. Per una disamina
dell’Atto cfr. M. Battaglini, Le istituzioni di Roma Giacobina, cit., pp. 2‐17. Il ruolo della festa
rivoluzionaria e dei suoi significati sia antropologici che politici è stato molto studiato; luogo di
sociabilità per eccellenza, scuola e mezzo per raggiungere i sentimenti e l’immaginario della
popolazione adulta, essa divenne mezzo per creare consenso nelle masse popolari. Su questi
temi cfr. F. Pitocco, La costruzione del consenso rivoluzionario: la festa, in A. Groppi, W. Markov, F.
Pitocco, A. Soboul, V. Vidotto, La rivoluzione francese. Problemi storici e metodologici, Franco
Angeli, Milano, 1979, pp. 157‐210 e Id., Festa rivoluzionaria e comunità riformata. Due saggi di storia
delle mentalità, Bulzoni, Roma, 1986 va anche ricordata la posizione di Mona Ozouf che vede
nella festa rivoluzionaria un transfert di sacralità con quella cattolica di cui recupera,
riaggiornandoli temi e liturgia, M. Ozouf, La fête révolutionnaire: 1789‐1799, Gallimard, Paris,
1976, su posizioni diverse invece Vovelle che valuta il grado della festa dal livello di
imposizione da parte del potere o di auto organizzazione popolare e ne coglie le differenze e i
mutamenti in un arco temporale più lungo di quello coperto dalla rivoluzione, M. Vovelle, La
metamorfosi della festa. Provenza 1750‐1820, Il Mulino, Bologna, 1986; sulla festa e la Rivoluzione
si veda anche Les Fêtes de la Révolution. Colloque de Clermont ‐ Ferrand (juin 1974), Actes
recueillis ed présentés par J. Ehrard et P. Vialleneix, Sociétés des Études Robespierristes, Paris,
1977; sulla festa della Roma barocca è ancora fondamentale il lavoro di M. Fagiolo dell’Arco, S.
Carandini, L’effimero barocco. Strutture della festa nella Roma del 600, Bulzoni, Roma, 1977‐1978,
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73 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
far questo era necessario che nei maggiori luoghi della città fossero visibili i
segni e i simboli della stagione rivoluzionaria10.
Uno dei principali simboli del potere repubblicano fu l’albero della libertà,
esso rappresentava plasticamente il nuovo potere, punto di riunione per il
popolo e oggetto sacralizzante di un’area o di una intera città: le autorità
provvidero infatti a farne piantare uno in ogni piazza principale11, ma numerosi
alberi ʺspuntaronoʺ anche in altre aree, talvolta piantati da singoli repubblicani
in occasione di banchetti e di feste ʺimprovvisateʺ12. Ad ogni innalzamento, che
fosse ʺufficialeʺ o meno, corrispondeva un cerimoniale comune: la prolusione di
un discorso, una danza e a conclusione un banchetto. In questo rito vi era una
chiara ripresa della simbologia dell’albero della cuccagna13.
L’albero assumeva una valenza ancora maggiore quando veniva piantato
nei luoghi‐simbolo del vecchio potere, come per quello eretto a Campo de’
Fiori, dove era posta la ʺtrave della cordaʺ per le torture.
Un significato profondo dovette assumere l’albero che, il 17 febbraio,
venne eretto nella piazza delle Scuole in ghetto e sotto al quale Antonio Pacifici
pronunciò un discorso inneggiante alla libertà14.
Il denaro per il suo innalzamento fu anticipato da Pellegrino Ascarelli, che
fornì anche la seta, i festoni e il rame necessario al suo addobbo15; la scelta del
molto interessante e ricco di spunti è il volume di M.A. Visceglia, La città rituale. Roma e le sue
cerimonia in età moderna, Viella, Roma, 2002. 10 Su questi temi si rimanda ai saggi di M. Caffiero, ʺLa risacralizzazione della città profanata:
immagini e cerimoniali a Roma tra Rivoluzione e Restaurazioneʺ, in, La nuova era. Miti e profezie
dellʹItalia in Rivoluzione, Marietti, Genova, 1991, pp. 133‐158; Ead., ʺL’uso politico della storia
anticaʺ e ʺDistruggere e ricostruire: la battaglia dei simboliʺ, entrambi i saggi in La Repubblica
nella città del papa, cit., pp. 19‐98; L. Guerci, Libertà degli antichi e libertà dei moderni. Sparta, Atene e
i «philosophes» nella Francia del ’700, Guida, Napoli, 1979. 11 L’elenco degli alberi della libertà di Roma in M. Formica, La città, cit., pp. 408‐410. 12 Lorenzo Montenovi fu accusato di aver partecipato all’innalzamento dell’albero della libertà a
Piazza di Ponte S. Angelo, ASR, Giunta di Stato (d’ora in poi GdS) b. 8, f. 131. 13 Cfr. P. Alatri, ʺDall’Albero di Cuccagna all’Albero della Libertàʺ, in Le radici dellʹalbero della
Libertà, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1990 pp. 11‐19. Sugli alberi della libertà in
Francia, M. Vovelle, La scoperta della politica. Geopolitica della Rivoluzione francese, Edipuglia, Bari,
1995, pp. 43‐55. 14 Discorso III recitato dal cittadino Antonio Pacifici sotto l’Albero della libertà nella piazza delle
scuole del Ghetto in Quattro discorsi recitati sotto l’Albero della libertà: Anno primo 15 febraro 1798,
Per Luigi Perego Salvioni, s.l. [Roma]; i discorsi sono anche riportati in CCP, I, pp. 26‐30; a
questa edizione si farà riferimento; il discorso di Antonio Pacifici a pp. 28‐29; una copia anche in
Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma (d’ora in poi ASCER), Archivio Medievale e
Moderno, Università degli ebrei di Roma, Amministrazione Contabilità e Fisco della Repubblica Romana
(d’ora in poi AMM Uni. EdR, Amm. Cont, RR), 1 Th (parte II). 15 Ascarelli chiese ed ottenne il rimborso per tali spese che gli fu dato da Tranquillo del Monte
per conto del fattorato, Ibidem.
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74 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
luogo fu estremamente simbolica: la piazza delle Scuole era il centro della vita
religiosa di tutto il ghetto e l’albero posto innanzi l’edificio che ospitava le
cinque sinagoghe finì per diventare la plastica rappresentazione della libertà.
Nel suo breve discorso Antonio Pacifici lodò il generale Berthier, divenuto
mano e strumento del Dio di Israel che restituiva la libertà al suo popolo;
chiamò gli ebrei ʺnostri Fratelli, nostri egualiʺ e inoltre sentenziò che ʺuna stessa
Legge giudicherà noi, e voiʺ aggiungendo significativamente che, nel nuovo
mondo che si apriva, la vera distinzione non era data dalle credenze religiose,
ma dalla ʺvirtùʺ16; dopo queste parole vi fu una illuminazione straordinaria e un
concerto tenuto da una banda musicale.
Il seppur breve discorso merita qualche riflessione: Berthier, liberatore
degli ebrei dal giogo del papa per conto di Dio, fu paragonato a Mosè, che
aveva liberato il suo popolo dalla schiavitù egiziana; non a caso un appellativo
del governo pontificio era quello di ʺFaraone tirannoʺ; vi era dunque un
costante riferimento alla narrazione biblica, a cui veniva frammischiata la nuova
situazione creatasi con l’arrivo dei francesi. Il rifarsi alla Bibbia era sicuramente
un’operazione pensata con attenzione per rendere la sua prolusione
immediatamente comprensibile a tutti coloro che la ascoltavano. Interessante è
anche il richiamo all’uguaglianza, benché subordinata all’essere ʺbuoni
cittadiniʺ, che avrebbe reso tutti uguali di fronte alla legge; in ultimo, veniva
lanciato un appello a non lasciarsi prendere da vendette contro i cristiani e
quindi a restare calmi accontentandosi di ʺvederli (gli oppressori) avviliti; e ciò
basti in compenso delle passate vostre disgrazieʺ17.
Nelle vie del ghetto, quindi, si sentirono risuonare parole come libertà,
uguaglianza, e a questo si aggiunse una prova tangibile del cambio, non solo di
governo, ma di condizione: l’abbattimento, nello stesso giorno, dei portoni18.
Si può solo immaginare l’impatto che quella giornata ebbe sugli abitanti
del ghetto. Al calar della sera erano abituati a veder chiudere dietro di loro i
portoni, ora quei portoni erano stati abbattuti: lo spazio, fisico e mentale, si era
trasformato e la Repubblica aveva portato quella libertà i cui echi erano giunti
negli anni precedenti sino a Roma.
Da quel momento in poi gli ebrei avrebbero goduto degli stessi diritti
degli altri cittadini romani così come sancito nell’articolo III della
16 Discorso III recitato dal cittadino Antonio Pacifici, cit., p. 28. Sulle virtù repubblicane resta
ancora oggi fondamentale il testo di L. Guerci, Istruire nelle virtù repubblicane. La letteratura
politica per il popolo nell’Italia in Rivoluzione (1796‐1799), Il Mulino, Bologna, 1999. 17 Discorso III recitato dal cittadino Antonio Pacifici, cit., p. 29. 18 ʺFurono tolte le porte e ferri di riparo che chiudevano e separavano il ghetto dal resto della
cittàʺ, A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., vol. I, p. 9.
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75 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
Costituzione19; estremamente importante fu poi l’abolizione del segno giallo,
dal momento che tutti i cittadini, senza eccezione alcuna, dovevano portare la
coccarda tricolore. Vale qui la pena di riportare le parole che il generale
Masséna scrisse ai consoli il 6 ventoso anno V (24 febbraio 1798) proprio sulla
libertà e l’uguaglianza degli ebrei.
Cette nation est libre comme tous les autres, la République française en donnant la liberté aux
Romains n’a fait exception … les juifs doivent donc jouir de tous les avantages dont jouissent les
autres citoyens sans discrimination. 20
Bisogna aggiungere, a conclusione di queste osservazioni, che
l’affermazione concreta di questo principio di uguaglianza dovette trovare
difficile applicazione nella realtà quotidiana se il generale francese Santi‐Cyr si
vide costretto, il 9 luglio 1798, ad emanare una legge appositamente volta al
riconoscimento civile degli ebrei:
In virtù dell’articolo 369 della Costituzione della Repubblica Romana il Generale di Divisione
Comandante delle Truppe Francesi stazionate sul Territorio Italiano.
Considerando, che secondo i principi resi sacri dall’atto Costituzionale della Repubblica
Romana le Leggi devono essere generali, ed eguali per tutti i Cittadini Romani decreta la
presente Legge.
Gli Ebrei, ne’ quali si riuniscono tutte le condizioni prescritte per essere cittadini Romani, non
saranno soggetti, che alle sole leggi comuni a tutti i cittadini della Repubblica Romana. In
conseguenza tutte le Leggi, e consuetudini particolari relative agli ebrei suddetti sono d’ora in
poi abolite. 21
Ma la libertà concessa agli ebrei, la fine del segno giallo, la possibilità di
poter girare liberamente per la città non piacquero a molti, soprattutto agli
abitanti del vicino rione Trastevere.
2. L’insorgenza di Trastevere: 25 febbraio 1798
Il 25 febbraio 1798 fu una ʺgiornataʺ controrivoluzionaria22. Fin dai primi giorni
della Repubblica le autorità repubblicane avevano chiara la percezione che la
19 L’articolo III (diritti) della Costituzione della Repubblica romana decretava l’uguaglianza di
tutti i cittadini di fronte alla legge ʺsenza alcuna distinzione di nascitaʺ. Costituzione della
Repubblica romana in CCP, I, pp. 102‐142, la citazione a p. 103. Un’analisi della Costituzione della
Repubblica romana si trova in V.E. Giuntella, La giacobina Repubblica Romana, cit., pp. 96‐126. 20 Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR), Repubblica Romana 1798‐1799 (d’ora in poi Rep.
Rom), b. 1, fasc. 2, sottofasc. Masséna. 21 Legge del generale Gouvion Saint‐Cyr del 21 messifero anno 7 (9 luglio 1798), CCP, II, p. 286. 22 Numerose sono le notizie sull’insorgenza di Trastevere, cfr. A. Dufourcq, Le Régime jacobin en
Italie, cit., 131‐135; C. Trasselli, Il vespro romano del 1798, «LʹUrbe. Rivista Romana», XII,
dicembre 1938, pp. 40‐48; V.E. Giuntella, La giacobina Repubblica Romana, cit., pp. 30‐32; A.
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76 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
popolazione del rione Trastevere fosse molto turbolenta e pericolosa per il
nuovo governo23.
Lo stato di tensione crebbe sempre più e venne ad acuirsi a seguito della
disposizione della Repubblica di imporre a tutti l’uso della coccarda,
eliminando così le distinzioni tra ebrei e cristiani. I trasteverini furono molto
contrariati da tale decisione e per differenziarsi decisero di apporre una crocetta
sulla loro coccarda24.
Il particolare della crocetta non fu l’unica “voce” di protesta che si levò dal
rione Trastevere contro gli ebrei; l’autore di un anonimo Memoriale delli
trasteverini contro li giudei, in forma di sonetto violento e intollerante, scrisse che
si sarebbe dato fuoco al ghetto se gli ebrei non avessero rimesso il segno giallo
sui loro vestiti25.
Fu un pretesto che diede l’avvio all’insorgenza di Trastevere26. Ben presto,
l’azione dei trasteverini si saldò con quella degli abitanti di Regola, Borgo e
Cretoni, Roma giacobina, cit., pp. 86‐92. Per una ricostruzione critica dei fatti cfr. M. Cattaneo,
ʺControrivoluzione e insorgenzeʺ, in D. Armando, M. Cattaneo, M.P. Donato, Una rivoluzione
difficile, cit., pp. 184‐193; Id., L’opposizione popolare al «giacobinismo», cit., e Id., La sponda sbagliata
del Tevere, cit., pp. 261‐282. 23 Di questo stato di cose venivano apertamente accusati i parroci del quartiere che sobillavano il
popolo dai pulpiti delle loro chiese. Sala nel suo diario sembra avvalorare questa ipotesi, scrive
infatti in data 17 febbraio di un proclama di Berthier nel quale si legge che ʺalcuni Preti in
Trastevere ingannano il Popolo e che quindi tutti gli ecclesiastici di quel Rione saranno
responsabili di qualunque commozione popolare possa accadervi. Veramente è noto che li
Trasteverini per la massima parte tacciono e soffrono di mal animo le presenti novità, e si pure
che li preti anco altrove sono soggetti a simil incolpazioni, senza meritarleʺ. G.A. Sala, Diario
romano, cit., vol I, p. 36. 24 ʺLi trasteverini e singolarmente, li Monticiani e li Regolanti soffrivano di malanimo che gli
ebrei, deposto lo sciamanno dovessero portare la coccarda nazionale, e quindi per distinguersi
avevano messo sulle loro coccarde una piccola croceʺ, ivi, p. 58. 25 Il Memoriale in BAV, Ferrajoli 719, f. 168. Il testo è stato pubblicato prima da L. Fiorani, Città
religiosa e città rivoluzionaria (1789‐1798), «Ricerche per la storia religiosa di Roma, 9, 1992, pp.
65‐154, p. 105, successivamente da M. Cattaneo, La sponda sbagliata del Tevere, cit., p. 266. 26 Tra i cronisti coevi Francesco Fortunati è quello che maggiormente fornisce informazioni
sull’accaduto: ʺSiccome il Commando della Repubblica Romana ordinò, che tutti si mettessero
la coccarda tricolore nazionale, che perciò mediante l’uguaglianza, che volevano i nostri
Republicani, ancora li Ebrei vollero metterla nella medesima maniera; la qual cosa non piacque
alli Trasteverini; e risolverono di mettere sopra la loro coccarda una crocetta di oro per
distinguersi dalli Giudej. Veduto questo dalli Francesi, vollero forzatamente, che si levassero
quel segno distinto dagl’altri, e vi corse qualche scappellotto, oltre altre impertinenze fatte a
diverse donne dai dragoni francesi. Veduto questo da Trasteverini si unirono moltissimi,
portando un Crocifisso avanti, gridavano viva Gesù, viva Maria, e così processionalmente si
portarono dove erano piantati l’Albori della Libertà, e con l’accette, ed altri istromenti li
distrussero tutti immediatamente; a questo strepito accorsero allora delle pattuglie nazionali per
sedare simili sconcerti, arrischiandosi oltre le minaccie di menare le mani. Maggiormente allora
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77 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
Monti27. Conquistato il rione, gli insorti decisero di passare il fiume per
impossessarsi delle armi conservate nel quartiere militare di Ponte Sisto per poi
irrompere nei quartieri Regola e S. Angelo, saccheggiare il ghetto, unirsi agli
altri insorti e dirigersi verso il cuore della Repubblica: Castel S. Angelo e il
Quirinale.
La volontà di saccheggiare il ghetto trova conferma nel proclama del
generale Vial pubblicato sulla «Gazzetta di Roma» dal quale si apprende che
nell’intenzione degli insorgenti ʺil saccheggio doveva cominciare dal Quartiere
degli Ebrei, e poi continuare in tutta la Cittàʺ28 in continuità con i precedenti
atteggiamenti di ostilità dei trasteverini.
Tornando al moto questo sembrò all’inizio avere qualche speranza di
successo; i trasteverini riuscirono a occupare ponte Sisto, ponte Quattro Capi e
Porta Settimiana, ma furono fermati dall’intervento della Guardia nazionale,
comandata dai colonnelli Santacroce, Borghese e Marescotti, che fece fallire
l’insorgenza29. Invece, le truppe francesi si mossero con estremo ritardo30. Solo
verso l’una di notte (circa le odierne ore 19.00) dopo aver passato il fiume
riuscirono a conquistare il rione Trastevere, agli ordini del generale Vial.
Il numero dei caduti negli scontri è ancora oggi incerto; le fonti francesi
parlano di circa 200 morti31 e Galimberti riferisce che ʺmolti francesi e molti
ebrei furono gettati vivi nel Tevereʺ32 e i loro corpi riemersero nei giorni
successivi.
quella turba di gente s’infierì contro le dette pattuglie, le disarmarono e le batterno fortemente;
più che mai allora crebbe l’unione di quella gente, scorrendo per tutte le strade con armata
mano, e tutti li Francesi che trovarono li uccisero immediatamente, e quelli che rinvenirono su li
Ponti, li prendevano in collo, e così vivi li gettavano nel Tevereʺ, F. Fortunati, Avvenimenti sotto
il pontificato di Pio VI dall’anno 1775 al 1800, in Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat.
10730, c. 194v. 27 ʺL’insurrezione più che negli altri luoghi si palesò nel rione Trastevereʺ, A. Galimberti,
Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., vol. I, p. 15 e Sala ʺIl forte del tumulto fu sempre in
Trastevereʺ G.A. Sala, Diario romano, cit., vol. I, p. 58. 28 «Gazzetta di Roma», n. 5, sabato 3 marzo 1798. 29 Il generale Vial elogiò pubblicamente l’azione della Guardia Nazionale e i suoi comandanti
che l’avevano guidata negli scontri, CCP, I, pp. 357‐358 e 365. 30 La lentezza nella risposta delle truppe francesi è in parte spiegabile con una forte tensione
interna all’ufficialità. Questa non voleva il generale Masséna, accusato di arricchirsi alle spalle
delle popolazione e dei soldati stessi tenuti senza paga, e i sottoufficiali erano arrivati a riunirsi
in assemblea all’interno del Pantheon; nel frattempo Masséna si era allontanato da Roma e gli
ufficiali chiedevano a Berthier di prendere il comando dell’Armata di Roma, cfr. M. Cattaneo,
La sponda sbagliata del Tevere, cit., p. 263. 31 Il dato è riportato dal generale Berthier, cfr. A. Dufourcq, Le Régime jacobin en Italie, cit. 32 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., vol. I, p. 15.
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78 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
La successiva repressione fu molta dura, venne istituita una Commissione
militare con il compito di cercare e processare i rei; essa agì con decisione e
fermezza condannando a morte molti degli arrestati33.
3. La vita della Comunità durante la Repubblica Romana
La fine della segregazione nel ghetto, l’abolizione del segno giallo,
l’equiparazione agli altri romani furono atti estremamente importanti, ma la
vita quotidiana degli ebrei non subì stravolgimenti radicali; non bastarono delle
leggi, seppur così importanti, per mutare una condizione che si era venuta
strutturando nel corso di più secoli.
Nonostante ciò, per gli ex abitanti del ghetto l’instaurazione della
Repubblica ebbe un immediato riscontro economico: alcune attività in cui essi
erano stati sempre presenti, come il cambio e lo smercio delle cedole, conobbero
una notevole espansione; inoltre, la nuova realtà politica gli consentì di
immettersi in un commercio proprio della Rivoluzione, quello della compra‐
vendita dei beni nazionali.
Per quel che riguarda i rapporti con i cristiani, apparentemente, non vi
furono significativi mutamenti.
Tuttavia, un’attenta lettura di una serie di episodi di violenza permette di
riscontrare un peggioramento nei rapporti tra ebrei e cristiani, come se le novità
introdotte dalla Repubblica avessero finito per creare ulteriori problemi
piuttosto che procurare vantaggi agli ebrei, dal momento che una parte
importante della popolazione non accettò di buon grado lo status di
equiparazione giuridica che la Costituzione concedeva loro.
Nel contesto repubblicano, un insulto, un tentativo di violenza o un
piccolo ferimento divennero la spia di quel mondo ostile agli ebrei, che, non
avendo più il supporto legale, ma nemmeno il freno dell’autorità statale,
riemerse.
Una piccola vicenda fu quella che vide coinvolti Giovanni Agostini e
Sabato Gonzali e consente di osservare la manifestazione più classica di
pregiudizio antiebraico. Il barrocciaio Giuliano Corsi, recatosi nel ghetto con un
certo Agostini per scaricare del carbone, procurò un danno allo stipite della
bottega di Sabato Gonzali. Il danno venne stimato in 9 paoli, ma l’ebreo
dichiarò di accontentarsi di soli 6. Agostini, dopo aver udito tali parole, incitò il
barrocciaio a ribellarsi per l’esosità della richiesta. Tale fu la veemenza della sua
reazione che dovettero intervenire le guardie, che lo arrestarono con l’accusa,
esagerata, di essere un ʺsussurratoreʺ34.
33 Cfr. M. Cattaneo, La sponda sbagliata del Tevere, cit., pp. 273‐280. 34 ASR, Tribunale Criminale del Governatore (d’ora in poi TCdG. Processi 1798‐1799, b. 2061.
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79 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
L’episodio in sé ha aspetti quasi insignificanti, se nell’atteggiamento di
Agostini non si fossero rese manifeste quelle forme di pregiudizio verso gli
ebrei comuni a molta popolazione cristiana.
In altri casi, alle offese verbali seguirono quelle fisiche. Così la passeggiata
di Isach Astrologo, con alcuni correligionari, si trasformò in una fuga per
salvarsi la vita. Astrologo venne apostrofato come ʺcittadino somaroʺ da alcuni
lavoranti del calzolaio di piazza Santa Maria in Monterone. Egli rispose
sottolineando che ʺpresentemente eravamo tutti egualiʺ, questa affermazione
trasformò lo scherno dei giovani in rabbia, che presero a lanciargli contro sassi e
cocci. Non contenti, come riferisce Astrologo, chiamarono un vetturino e
ʺdissero al medesimo detto Giovannino che mi avesse dato addosso e di fatti
egli estrattosi da saccoccia un coltellaccio col medesimo venendomi addosso mi
vibrò un colpoʺ35.
Due sono gli elementi che colpiscono in questo breve racconto:
rispettivamente l’insulto dei cristiani e la risposta dell’ebreo. Apostrofare un
ebreo con l’epiteto di ʺsomaroʺ era prassi comune, ma l’aggiunta del termine
ʺcittadinoʺ gli conferì una valenza di disprezzo maggiore; troviamo riunito in
un insulto il binomio giacobino/ebreo che tanto aveva animato la propaganda
controrivoluzionaria; l’episodio mette bene in luce sia quanto tale propaganda,
contaminatasi con una preesistente cultura popolare antigiudaica, fosse
penetrata in profondità fino ad arrivare a dei giovani di bottega, sia come il
sentimento antiebraico, animatore di quella cultura ʺbassaʺ, fosse presente negli
strati popolari romani. Altrettanto importante fu la risposta che sta tutta nel
valore dell’avverbio ʺpresentementeʺ. Il termine si presta a diverse chiavi di
lettura. La prima è che con quell’affermazione Isach Astrologo palesò ed ʺosòʺ
appellarsi, davanti ad un sopruso, alla legalità sancita dalla nuova Costituzione;
ma se ne può rintracciare anche una seconda, nascosta nella mente dell’ebreo:
l’antica abitudine alla precarietà della realtà contingente, alla consapevolezza
che le condizioni di vita potevano mutare anche con una certa rapidità.
Gli ebrei non furono però solo vittime ma in più occasioni non permisero a
quanti li insultavano o li minacciavano di ʺcavarsela a buon mercatoʺ, arrivando
anche a difendersi fisicamente. È quanto accadde a Sabato Spizzichino che, a
piazza Navona, dopo essere stato insultato senza motivo e in maniera molto
35 ASR, TCdG. Processi 1798‐1799, b. 2060. Analoga è la storia che ha come protagonista
Beniamino Spizzichino, insultato ed aggredito a strada Quattro Fontane. Spizzichino venne
avvicinato da tre persone, ed una di queste tentò di ferirlo provocandogli però solo una
lacerazione nella camicia, ASR, TCdG. Processi 1798‐1799, b. 2058.
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80 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
grave, reagì picchiando Francesco Misarotti, detto il ʺGobboʺ e per questo venne
arrestato36.
Una spia della difficoltà di adattamento al nuovo governo ci proviene
anche dall’interno del mondo ebraico nella causa che vede come imputato
Salomon Spagnoletto denunciato da Salomon Vito Di Benedetto, ebreo cieco,
per percosse37. Interessante è una supplica inviata da Di Benedetto, che chiese al
Tribunale di prestare attenzione ai testimoni, dal momento che avrebbero
potuto non confermare quanto da lui esposto perché ʺtemono che possa andare
in galera [Spagnoletto], e siccome si ritrova cinque figli perciò hanno l’antica
massima, sia pregiudizio possa farsi cristianoʺ. La possibilità per un ebreo
incarcerato di farsi cristiano, e quindi di uscire dal carcere per recarsi ai
catecumeni era prassi usuale nella Roma dei papi e quindi i rabbini spesso
invitavano i querelanti a ritirare le proprie denunce per non incorrere in un tale
rischio, nel caso del presente processo siamo nell’aprile 1798, in piena
Repubblica. Tale atteggiamento era spia di un’antica paura che aveva permeato
di sé gli uomini del ghetto e che, dura a morire, continuò a persistere a dispetto
di una mutata situazione politica, che non presentava più la possibilità di
garantirsi la libertà per mezzo di una conversione. La permanenza della paura
della conversione conteneva in sé un altro timore, che ugualmente si intravede
nelle testimonianze del processo, quello della perdita di uno o più membri della
Comunità in favore della religione cristiana.
4. Incettazione e aggiotaggio: due ottime fonti di guadagno
A seguito del trattato di Tolentino, il governo pontificio, attraversando una
grave crisi finanziaria, fu costretto ad una nuova massiccia emissione sia di
cedole che di ʺluoghi di monteʺ38 in sostituzione della moneta. Attorno alle
cedole si sviluppò quindi un vero e proprio commercio ai margini della legalità;
si trattava di commutare la carta nel suo valore effettivo, dal momento che la
moneta reale era quasi del tutto scomparsa e il valore delle cedole scendeva
rapidamente. Tale pratica diede vita al fenomeno dell’aggiotaggio. In questa
36 Dalle carte risulta che Misarotti aveva dato del ʺsomaroʺ e del ʺporcoʺ a Spizzichino perché
provava del risentimento verso altri ebrei a causa di dissidi non meglio specificati, ASR, TCdG.
Processi 1798‐1799, vol. 2061. 37 ASR, TCdG. Processi 1798‐1799, vol. 2059. 38 I ʺluoghi di monteʺ erano un’emissione di obbligazioni governative, in taglie da 100 o 50 scudi
che avevano come pegno una precisa fonte d’entrata annua e che fruttavano un interesse annuo.
L’emissione veniva venduta in blocco dalla Camera Apostolica ad una banca o ad un consorzio
di banchieri che poi rivendevano i singoli ʺpezziʺ con un utile dell’1 per cento. L’acquirente
finale poteva infine rivendere tali obbligazioni dando vita ad un mercato molto redditizio, cfr.
H. Gross, Roma nel Settecento, Laterza, Roma‐Bari, 1990, pp. 150‐151.
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81 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
attività gli ebrei trovarono un terreno fertile, nel quale mettere a frutto la loro
antica capacità di trattare il denaro.
La situazione economica che si presentò davanti agli occhi del generale
Berthier quando entrò in Roma si può senza ombra di dubbio definire
disastrosa. Lo stato era inondato da carta moneta (cedole) il cui valore reale era
molto inferiore a quello nominale. La politica delle opere pubbliche, inaugurata
da Pio VI, incentrata sulla bonifica delle paludi pontine aveva creato una
situazione finanziaria pericolosa, inoltre, il ricordato Trattato di Tolentino aveva
inferto un colpo mortale alle finanze pontificie. Per soddisfare il pagamento di
oltre trentadue milioni di franchi, il pontefice si vide costretto a prelevare ciò
che restava del tesoro sacro ed a imporre al Monte di Pietà un prestito di circa
tre milioni di scudi senza interessi39. Nonostante tali provvedimenti la
situazione finanziaria restò drammatica; nell’ottobre 1798 il debito pubblico
totale dell’intero stato ammontava a 80.050.459 scudi di cui non meno di
54.171,942 (pari al 64,4%) in ʺluoghi di monteʺ, 1.982,400 (il 2,36%), in ʺuffici
venali vacabiliʺ e circa 14 milioni (il 16,6%) in cedole di cui 11 milioni erano
state emesse dal Monte di Pietà e tre dal Banco di Santo Spirito40.
A fronte di questa gigantesca espansione delle cedole, il loro valore reale
crollò. Se nel 1794 venivano scambiate con uno sconto del 3‐4% contro monete
di rame e del 5‐6% contro monete d’oro e d’argento, nel 1798 lo sconto si
collocava tra un minimo del 50 e un massimo dell’80%. Vista la terribile
situazione Pio VI ricorse ad una misura disperata, il 28 novembre 1797 emanò
un editto che decretava l’utilizzo di un quinto dei fondi rurali del clero regolare
e secolare, e degli altri istituti ecclesiastici, al fine di rimborsare la montagna di
cedole; grazie al ricavato di questa vendita le cedole di valore superiore ai 99
scudi sarebbero state ritirate dalla circolazione, mentre i tagli più piccoli
sarebbero rimasti in circolazione, ma ormai gli eventi politici incalzavano41.
Il generale Berthier, dopo aver instaurato la Repubblica, per tentare di far
fronte alla crisi crescente decise di riprendere l’editto di Pio VI del 28 novembre
1797 e vendere beni camerali per un valore di circa quattro milioni e beni
ecclesiastici per sei milioni. Le cedole ritirate sarebbero state distrutte e si dava
ordine di rompere e gettare nel Tevere gli strumenti che servivano per la loro
realizzazione42. Questa legge non diede i frutti sperati, dal momento che la
vendita dei beni non fu immediata e per far fronte alle necessità contingenti si
39 M. Caravale, A. Caracciolo, Lo stato Pontificio da Martino V a Pio IX, cit., pp. 558‐559. Sul tesoro
sacro cfr. H. Gross, Roma nel Settecento, cit., pp. 169‐170. 40 Ivi, p. 172. 41 Ivi, p. 169. 42 CCP, I, pp. 31‐32.
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82 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
continuò a stampare cedole per un valore di diversi milioni43, portando così la
situazione ad un punto di rottura, tanto che un editto del 15 marzo del 1798,
firmato dai Consoli, riduceva di tre quarti del valore nominale le cedole. Tale
disposizione provocò un malcontento così grave che venne immediatamente
revocata44.
Per tentare di riparare all’editto del 15 marzo, il 25 dello stesso mese, il
generale Dallemagne dispose la cessazione del corso delle cedole il cui valore
superava i 35 scudi che sarebbero state accettate solo come pagamento di una
parte degli acquisti dei beni nazionali e i coni, matrici e torchi sarebbero stati
bruciati45. Il 30 marzo vennero bruciate a Campo de Fiori le cedole esistenti nel
Monte di Pietà superiori ai 35 scudi con gli strumenti che le fabbricavano;
attorno a quel rogo si fece una grande festa con balli e canti patriottici46. Il vero
risultato dell’editto del 25 marzo fu però la quasi totale scomparsa dalla
circolazione della monta metallica. Da allora la situazione delle cedole peggiorò
di giorno in giorno; per tentare di riportarla sotto controllo si susseguirono
diversi provvedimenti che, però, si rivelarono tutti di scarso effetto reale47.
Non è questo il luogo per ripercorrere la storia delle continue
demonetizzazioni e leggi sulle cedole, ma è utile ricordare che da marzo in poi
il fenomeno dell’aggiotaggio e dell’incettazione prese piede in forma massiccia
e, nonostante qualche sporadico tentativo di arrestarlo, divenne pratica
comune, pratica che vide numerosi ebrei protagonisti.
Nella mattina la Borsa di Monte Citorio (dove si teneva l’aggiotaggio) fu assediata dalla truppa
legionaria furono arrestati tutti i venditori di moneta; fu tolto loro il denaro … Lo stesso anche
accadde ai venditori di moneta ebrei nel ghetto, ma non fu tolta loro, che tenue somma,
avendone avuto un avviso preventivo. Nel dopo pranzo emanò la legge proibitiva del
commercio della moneta con la data del giorno in dietro per paliare l’avvenuto. 48
Aggiotaggio e incettazione non nacquero con la Repubblica e non furono
appannaggio dei soli ebrei; numerosi sono i processi che ebbero come oggetto
proprio le cedole e il cambio del denaro.
Uno di questi permette di penetrare meglio sia il meccanismo
dell’incettazione sia il sistema di relazioni che vi ruotava attorno. L’azione si
43 Sala e Valentinelli parlano di circa di otto milioni, G.A. Sala, Diario romano, cit., vol. I, p. 34; [F.
Valentinelli], Memorie storiche, cit., p. 273. 44 CCP, I, pp. 79‐81. 45 Ivi, pp. 245‐248. 46 G.A. Sala, Diario romano, cit., vol. I, p. 131. 47 Per un’analisi dei provvedimenti presi dalle autorità repubblicane cfr. V.E. Giuntella, La
giacobina Repubblica Romana, cit., pp. 37‐51 e per una disamina del corso delle cedole cfr. A,
Cretoni, Roma giacobina, cit., pp. 215‐216. 48 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., vol. I, p. 139.
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83 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
svolse nel gennaio 1798, a pochi giorni quindi dall’arrivo dei francesi e tre mesi
dopo la promulgazione dell’editto sulle cedole del 27 novembre 1798. Tutto
ebbe origine da un’indagine del bargello del Tribunale del Senatore, che per
ʺinvigilare al di scoprimento degl’incettatori di monetaʺ si imbatté in un traffico
tra ebrei e cristiani49. Domenico Andreotti aveva cambiato delle monete da sei
del valore di 56 baiocchi con quelle del valore di 62 baiocchi da Sabato e
Giacobbe di Tivoli, padre e figlio che erano stati per questo motivo arrestati50.
Questo vicenda processuale svela una pratica comune nella quale dovevano
essere coinvolti diversi ebrei51, infatti Giacobbe non aveva la disponibilità delle
cedole con sé ma doveva ogni volta andare a procurarsele da altri suoi
correligionari, lasciando così intravvedere un commercio di cedole e denari più
ampio di quanto la singola vicenda possa far supporre. Ma è la stessa vicenda a
rivelare come tra i cristiani vigesse la convinzione che con gli ebrei si potessero
realizzare buoni affari, in quanto gli era riconosciuta la capacità di saper trattare
il denaro; non a caso Andreotti si recò dai due parenti seguendo l’indicazione di
un altro cristiano. Naturalmente, con il passare del tempo e l’aggravarsi della
crisi finanziaria, il fenomeno tese ad assumere proporzioni sempre maggiori
coinvolgendo sempre più persone52.
Di ben altro spessore, invece, è la vicenda che vide coinvolti il caffettiere
Michele Goggilla e Lazzaro Samuele Veneziani.
La bottega di caffè di Goggilla, a piazza Trinità dei Pellegrini, è il
palcoscenico dove si svolse l’azione. Luogo di incontro di ebrei, cristiani,
religiosi e soldati francesi. Vi si parlava, vi si trattavano affari, si facevano
49 ASR. Tribunale Criminale del Senatore, b. 609. 50 Il vantaggio dei due incettatori è descritto dallo stesso Andreotti: ʺio non so precisamente a
qual oggetto il nominato Sabbato di Tivoli incettasse con il pagamento dell’agio le indicate
monete, ma suppongo per quanto sento dire, che ciò facesse per ritirare con tre di dette monete
dagli stati esteri un pezzo duro, che ha un’intrinseca valuta molto maggiore di quella che hanno
tre pezze da 60 o da 56, ancorché si paghino baiocchi 65 l’unaʺ, ivi, cc. 9v‐10r; Giacobbe di Tivoli
inoltre fu accusato non solo di essere un incettatore, ma anche di aggiotaggio in quanto da una
nota trovatagli indosso risultava che avesse avuto un guadagno di 8 scudi su di una somma di
circa 200. 51 Francesco Nucci disse di aver spesso visto degli ebrei intenti nell’attività di cambiare monete
e cedole, ʺStando io continuamente per detta Piazza, ho avuto occasione di vedere, e di sentire i
traffici, che fanno i giudii specialmente in genere di monetaʺ, ivi, c.46v. 52 Un caso per tutti è quello che vide coinvolti Giovan Battista Belli contro Graziadio Cameo.
Quest’ultimo, per estinguere un debito contratto dal padre con il cristiano, pagò con una cedola
da 10 scudi. Belli, secondo la testimonianza di Pietro Paolo Ricci, fu restio ad accettare tale
forma di pagamento, in seguito al proclama del 7 messifero anno VI (25 giugno 1798).
Rassicurato, come affermò Federico Tomassi, un altro testimone, accettò la cedola dando in
resto all’ebreo un assegnato da 10 paoli, ASR, Pretura atti civili, bb. 1‐3, f. 2.
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84 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
conoscenze, si stringevano legami53. I testimoni di questa vicenda furono infatti
un soldato francese, due romani, un sacerdote corso, due ebrei. Ciascuno
raccontò questa piccola storia con il proprio sguardo, condizionato dai rapporti
interpersonali che lo legavano all’uno, o all’altro dei contendenti, se non ad
entrambi.
Goggilla e Veneziani erano in affari. Il caffettiere forniva “pezzi duri”
all’ebreo ricevendone in cambio il corrispettivo in cedole. Da uno di questi
affari originò la controversia. Veneziani voleva dare una cedola superiore ai 35
scudi a Goggila in cambio di 7 pezzi duri. Il romano Paolo Consani, il soldato
francese Giovanni Dufur e il sacerdote Carlo Giuseppe Guerini sostennero che
il caffettiere non accettò in pagamento la cedola perché da poco era stato
emanato l’editto sulla svalutazione delle cedole da 35 scudi. La questione non
trovò una soluzione, tanto che lo stesso Veneziani intentò una causa contro il
caffettiere. Stando alle testimonianze dei suoi ʺamiciʺ, il romano Giuseppe Sozzi
e l’ebreo Sabato di Segni, Goggilla accettò la cedola, anzi, come sottolineò
Sabato di Segni, mediatore dell’affare, fu egli a richiedere il pagamento in
cedole da 35 scudi per l’acquisto di beni nazionali54. L’affare è controverso, ma il
numero e la qualità degli attori in gioco mostra chiaramente la rete di relazioni
e di affari che si snodava lungo il percorso delle cedole55.
Queste vicende sono di estremo interesse perché permettono di cogliere
gli elementi di una pratica comune tanto agli ebrei quanto ai cristiani; quella del
guadagno illecito. Le differenze religiose non furono un ostacolo alla
costituzione di piccoli o grandi gruppi d’affari. Gli uomini che entrarono in
questo giro erano scaltri, convinti che la loro scaltrezza fosse superiore anche a
quella dei loro soci; per questo, tutte le volte che se ne presentava la possibilità,
agivano anche contro il loro compare; tutti cercavano, attraverso queste
pratiche, di migliore le condizioni della loro vita materiale. Poco importa se si
era ebrei o cristiani, erano tutti un po’ Shylock56.
53 Sui luoghi di sociabilità come i caffè, cfr. M. Formica, La città e la rivoluzione, cit., pp. 329‐344;
M. Agulhon, Il salotto, il circolo e il caffè, cit. 54 ASR, Pretura atti civili, bb. 1‐3, f. 2; la causa si svolge tra il brumale ed il nevoso dell’anno VII
(novembre‐dicembre 1798), il processo subirà un’interruzione nel mese di frimaio, a causa della
prima occupazione napoletana. 55 Altre botteghe furono teatro di scambi di cedole come quella di Abramo Citone al quale un
fruttivendolo chiese 100 pezzi duri per il valore di 4,73 scudi da pagarsi in cedole, ASR, TCdG.
Processi 1798‐1799, b. 2058 o come quella del sellaro Giovanni Circi dove avvenne uno scambio
di cedole tra Ludovico Pizzi e l’ebreo Moisè Esdra: in questo caso è Pizzi che presta soldi a
Esdra e dalla testimonianza di Circi sembra che Pizzi avesse una grande disponibilità di denaro,
ASR, Pretura atti civili, bb. 1‐3, f. 2. 56 W. Shakespeare, Il mercante di Venezia, Feltrinelli, Milano, 2006.
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85 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
5. «Pecunia non olet». Ebrei, cristiani e Beni nazionali
La decisione da parte del governo repubblicano di mettere in vendita i beni
nazionali rispose alla triplice necessità di onorare il debito contratto con i
francesi al momento della resa di Roma, di porre un freno all’inflazione e di
procurarsi denaro. La decisone di alienare i beni ecclesiastici era stata già stata
presa in esame da Pio VI con il decreto del 28 novembre 1797 che per ragioni di
tempo non entrò mai in vigore.
Come già ricordato, il 5 germile anno VI (23 marzo 1798) il generale
Dallemagne promulgò una legge sulle cedole nella quale si stabiliva che quelle
superiori ai 35 scudi sarebbero state ʺdemonetateʺ e utilizzabili solo per
l’acquisto dei beni nazionali57; pochi giorni dopo il grossista e banchiere, Nicola
Castelli venne nominato amministratore generale. Il quadro normativo sui beni
nazionali si concluse con la legge del 14 messifero anno VI (2 giugno 1798), che
ne prevedeva la vendita solo dietro il pagamento di moneta reale e con le
disposizioni relative alle modalità per il loro l’affitto58.
Se le procedure di organizzazione furono abbastanza rapide molto più
complesso e complicato fu individuare quali fossero i beni nazionali e con quale
modalità si sarebbe dovuto procedere alla loro vendita. Ci volle circa un anno
per arrivare ad una definizione di quali beni ricadessero sotto la dicitura di
ʺnazionaliʺ59.
La situazione della vendita dei beni nazionali migliorò con la nomina ad
amministratore generale di Philippe Quenard, avvenuta il 3 Complimentario
anno VI (19 settembre 1798). Si dovettero a lui due importanti innovazioni per
la stima e la vendita dei beni nazionali.60.
Volendo analizzare quali furono i compratori dei beni nazionali, troviamo
diverse categorie. Il valore totale delle vendite, effettuate ad ogni titolo sia dai
francesi che dalla Repubblica romana, ammontò attorno ai sei milioni e mezzo
57 CCP, I, pp. 245‐249. 58 Su questi aspetti e più in generale sui beni nazionali è ancora oggi valido il lontano studio di
R. De Felice, La vendita dei beni nazionali nella Repubblica romana del 1798‐99, Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma, 1960 pp. 13‐15. 59 Si tratta di beni camerali e camerali enfiteutici, comunitativi e comunitativi enfiteutici, di
quelli dei conventi e chiese soppressi, quelle vescovili eccedenti la rendita annua di 2.500 scudi,
quelli delle confraternite, arciconfraterite, università, corporazioni, degli ospedali e arciospedali,
quelli degli ex gesuiti e degli emigrati, ivi, pp. 15‐16. 60 La prima riguardò la nuova stima dei beni nazionali che prima fu basata sull’elevazione di
dodici volte del fitto del 1793 e poi con la successiva legge del 29 fiorile anno VII (18 maggio
1799) con la quale si nominavano dei periti affinché procedessero alla nomina dei singoli beni:
la seconda novità riguardò il pagamento che si sarebbe dovuto effettuare metà in moneta
effettiva e metà in assegnati: Legge del 29 messifero anno VII (17 luglio 1799), CCP, V, pp. 78‐
105.
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86 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
di scudi. Di questa somma circa 1.670 mila finì nelle mani di tre grandi
compagnie di forniture militari, e circa 920 mila scudi andarono alle compagnie
minori, agli speculatori e ai fornitori arrivati al seguito dell’esercito francese. Si
può quindi dire che i cittadini della Repubblica acquistarono beni nazionali per
un valore di circa quattro milioni e mezzo di scudi61. Tra questi vi erano circa
una settantina di funzionari repubblicani, alcuni dei quali appartenenti alla
piccola nobiltà locale, che acquistavano i fondi rustici della Chiesa per
espandere le proprie proprietà agricole, pochissimi furono gli ecclesiastici,
mentre tra il maggior numero di acquirenti vi furono avvocati, banchieri, ma
soprattutto commercianti, mercanti, mercanti di campagna e proprietari terrieri,
questi ultimi concentrati nei dipartimenti del Cimino, Tevere e Circeo; gli ebrei
rientravano nella categoria dei commercianti62.
Cosa acquistarono gli ebrei, verso quali tipologie di beni nazionali
indirizzarono le loro attenzioni? Secondo i diaristi romani gli ebrei comprarono
beni mobili che provenivano da chiese e conventi, ma la documentazione
relativa alla vendita di questi beni nazionali, quali paramenti, suppellettili sacre
oppure mobilia di conventi e monasteri non si è conservata nelle serie
archivistiche dell’Archivio di Stato di Roma o nei documenti conservati presso
l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma se non in maniera
estremamente frammentaria e lacunosa, tale da non poter essere utilizzata per
uno studio quantitativo. A questo bisogna aggiungere una prassi che rende
l’identificazione dei compratori di tali beni ancora più problematica: spesso, per
dar corso agli acquisti, si costituivano società miste tra ebrei e cristiani che
facevano risultare un solo compratore, quasi sempre un cristiano.
Ben diversa è la situazione documentaria che riguarda gli acquirenti dei
beni nazionali immobili, ma scorrendo gli elenchi forniti da De Felice nel citato
studio, risulta una sola società di ebrei romani che acquistò vari terreni nei
comuni di Vicovaro e Anguillara63.
Questa scarsissima presenza documentaria confligge con quanto scrivono
i diaristi romani, le cui opere sono una fonte importante. Secondo Sala, gli ebrei
avevano ʺfatto man bassa sopra quasi tutti i Beni mobili dichiarati Nazionali,
che comprarono a vilissimo prezzoʺ64 e l’anonimo estensore delle Memorie così
scrive: ʺgiacché affisse le notificazioni della vendita all’incanto si vedevano
61 R. De Felice, La vendita dei beni nazionali, cit., p. 85. 62 Ivi, p. 91. 63 La società era composta da Salomom Ambron, Tranquillo Ascarelli e i fratelli Giacobbe e
Samuele Corcos e gli acquisti avvennero tra il 13 fruttifero e il 3 complimentario anno VII (30
agosto – 19 settembre 1799), per un valore di 3.723 scudi e 14 baiocchi, ivi, pp. 146‐147;
numerosi furono, invece, gli acquisti fatti da ebrei anconetani. 64 G.A. Sala, Diario romano, cit., t. III, p. 129.
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87 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
queste Chiese ripiene di Ebrei che col massimo disprezzo maneggiavano e
contrattavano que’ Santi Arredi di cui si vide poi pieno il Ghettoʺ65. Anche
Galimberti, seppur con meno acredine, dovuta però allo stile delle sue Memorie,
parla degli acquisti di arredi sacri compiuti dagli ebrei66.
I diaristi romani erano molto scandalizzati dalla vendita dei beni
nazionali, ma pur accogliendo le loro parole con prudenza si può affermare che
gli ebrei parteciparono attivamente all’acquisto dei beni nazionali mobili. A
fornirne una testimonianza è il processo per la spoliazione della Chiesa e del
convento dei minori osservanti dell’Aracoeli, che riguarda sia la vendita
dell’organo che dei paramenti di damasco avvenute durante la Repubblica67.
Per l’acquisto dell’organo si costituì una società composta da dieci cristiani
ed un ebreo, Pellegrino de Rossi, che lo comprò per ottanta piastre. Questa
società presentava un interessante meccanismo interno:
Allorquando si effettuavano in detta Chiesa tali vendite era una Società di Ebrei e Cristiani,
quali solidalmente uniti offrivano un solo di essi a quel genere che usciva in vendita, indi fra
loro dopo fattone l’acquisto, tornavano ad incartarsi tali robbe restando a quelli di loro che
aveva più degli altri offerto, tenendo il di più nelli componenti della società suddetta. 68
L’organo venne smontato e lo stagno venduto ad un certo Pietro Albani
che faceva il “pizzicarolo” a Punta di Diamante: dalle carte si evince che questa
società acquistò anche altre suppellettili sacre e leghe provenienti dal medesimo
luogo. Interessante è notare come uno dei clienti fosse un pizzicarolo di Punta
di Diamante, zona nei pressi del ghetto dove con ogni probabilità si
conducevano abitualmente vari affari.
Gli arredi damascati sia della chiesa che del convento furono acquistati e
rivenduti da una società composta di soli ebrei69. L’omogenea composizione di
questa seconda società non sorprende, del resto nella compravendita di stoffe
gli ebrei primeggiavano da sempre, quindi avevano già dei canali privilegiati
per lo smercio della mercanzia. Una situazione analoga si verificò per la ditta
65 BAV, Memorie da servire per il diario di Roma in tempo della rivoluzione e di sede vacante. Altre del
Conclave tenute in Venezia per l’elezione di Pio VII e del principio del pontificato e permanenza del papa
in Venezia, Cod. Vat. Lat., 10629, c.272r. 66 Il 29 gennaio 1800 scrive ʺLa Giunta di revisione non avendo ricevuto dai singoli ebrei alcun
discarico delle robbe sacre da essi quasi intieramente comprate prese il partito di chiamarne a
rendere conto l’Universitàʺ, A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., vol. II,
p. 433. 67 Il processo è istruito dal Tribunale del Vicario ma si trova nel fondo ASR, GdS, b. 15, f. 217, e
si è conservato il solo ristretto fiscale. 68 Ibidem. 69 Si tratta di Angiolo della Torre, Aron di Castro, Laudadio Ragnetto, Moisé David Spizzichino,
Graziano Scazzocchia e Abram Terracina, Ibidem.
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88 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
nata dall’accordo di quattro ebrei per realizzare l’acquisto e lo smercio delle
carrozze del duca di York nel palazzo dell’ex governatore. Isach Levi si incaricò
di trattare quest’affare e, data l’ottima riuscita, si decise di continuare a
mantenere in piedi l’impresa per nuovi commerci70. Del resto, quella dello
sfasciacarrozze era una delle poche attività artigianali presenti nel ghetto, e
come per il precedente caso, la presenza già attestata su un mercato rendeva più
facile piazzare i materiali.
Di quanto gli ebrei fossero addentro al commercio dei beni nazionali ne
abbiamo una riprova dal processo intentato dalla Giunta di Stato al libraio
Giuseppe Nave. Vi leggiamo, infatti, ʺle robbe e generi ritrovati nei suddetti
locali [Accademia ecclesiastica, Palazzo Portogallo, Collegio Inglese e Chiesa
annessa, Palazzo Braschi, Sant’Uffizio, Palazzo del Vaticano] si vendevano per
lo più agli ebreiʺ71. Nave in alcune delle sue spoliazioni ebbe come compagno
Giacobbe Ascarelli ed Emanuel Di Veroli detto Scarpone che, dato questo molto
interessante, era presente anche nella società per l’acquisto dei damaschi
dell’Aracoeli.
Alla luce di quanto esposto, si può sostenere che gli ebrei si indirizzarono
maggiormente verso l’acquisto di beni mobili (soprattutto di stoffe, suppellettili
e mobilia), tutte mercanzie che, rientrando nell’ambito del loro abituale
commercio, gli garantivano un sicuro guadagno; anche gli oggetti in metallo
prezioso presentavano, una volta fusi, un ottimo mercato. La loro quasi totale
assenza nell’acquisto di immobili e terreni può essere attribuita, da una parte, al
divieto imposto agli ebrei romani di essere attivi in questo mercato, dall’altra
all’intrinseca consapevolezza che, in caso di un ritorno al passato, ogni bene di
tal sorta gli sarebbe stato espropriato senza indennizzo alcuno.
Più in generale, la presenza degli ebrei nel commercio dei beni nazionali
rimase profondamente impressa negli animi di molti cristiani se Galimberti, il 1
febbraio del 1801, ancora scriveva:
In tempo della Repubblica la chiesa e convento dei frati Trinitini su la piazza del Popolo,
essendo divenuto quartiere dei soldati francesi, erano stati intieramente saccheggiati, e le
suppellettili della chiesa vendute agli ebrei. 72
6. La Guardia Nazionale
La Repubblica chiese a tutti i cittadini di partecipare alla sua difesa e anche gli
ebrei furono investiti in pieno da questa responsabilità. L’articolo 270 della
70 ASR, Pretura atti civili, b. 2. 71 ASR, GdS, b. 2, f. 31, c. 37v. 72 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., vol. II, p. 568.
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89 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
Costituzione della Repubblica romana sancì la nascita della guardia civica;
distinta in guardia nazionale sedentaria e guardia nazionale in attività,
quest’ultima a sua volta distinta in armata di terra e di mare, incaricate di
difendere lo stato dai suoi nemici interni ed esterni. L’arruolamento avrebbe
dovuto essere su base volontaria, ma le circostanze imposero di istituire la leva
obbligatoria per tutti i cittadini tra i 18 e i 25 anni73.
La guardia nazionale sedentaria ebbe invece il compito di mantenere la
pubblica tranquillità, reprimendo qualsiasi situazione che potesse creare
turbativa alla popolazione, o che minacciasse le proprietà personali; per poter
adempiere a questi doveri fu dotata del potere di arrestare tutti coloro che, a
vario titolo e con varie modalità, avrebbero potuto turbare l’ordine cittadino e
finì quindi per diventare il principale strumento di controllo e di vigilanza
urbana74. Anche la guardia nazionale sedentaria, come quella attiva, si basò sul
servizio obbligatorio dei cittadini compresi tra i 18 e i 25 anni75.
La formazione della guardia nazionale e la nomina dei suoi ufficiali fu
regolamentata dalla stessa legge che istituì le nuove sezioni di Roma alle quali
qui brevemente si accennerà.
La prima operazione fu quella di abolire la divisione rionale introdotta nel
1744 da Benedetto XIV, che aveva provveduto a revisionare la toponomastica e
a delimitare le zone della città76, e a sostituirla con una sezionale: alcuni rioni
vennero accorpati in un’unica sezione e nessuno conservò la vecchia
denominazione. Furono create dodici sezioni e, per quel che riguarda il rione S.
Angelo, nel quale insisteva il ghetto, fu unito con quello di Pigna a formare la
Sezione Pantheon77.
Anche le modalità di reclutamento della guardia nazionale furono
rigidamente regolamentate e collegate proprio alla nuova divisione sezionale.
73 Erano esclusi dal servizio: mariti o vedovi, i figli unici di genitori anziani oppure inabili e
malati; legge del generale Saint‐Cyr del 10 pratile anno VI (29 maggio 1798), CCP, II, pp. 116‐
117. 74 Su questi aspetti, cfr. M. Formica, La città e la rivoluzione, cit., pp. 220‐222; L. Londei, Apparati di
polizia e ordine pubblico a Roma nella seconda metà del Settecento: una crisi una svolta, «Archivi e
Cultura», XXX, 1997, pp. 7‐65. Sui poteri e l’organizzazione della guardia nazionale sedentaria
vi sono diversi proclami e leggi cfr. CCP, I, pp. 274, 370‐372; III, pp. 331‐332; IV, p. 442. 75 Gli esentati dal servizio, che era gratuito, erano i religiosi e tutti coloro che vivevano alla
giornata ʺe col travaglio delle loro maniʺ, CCP, I, pp. 64‐66. 76 B. Bernardini, Descrizione del nuovo dipartimento de’ Rioni di Roma, cit. 77 Sulla nuova divisione sezionale, sul suo significato e sulla nuova cartografia della Repubblica
cfr. M. Formica, La città e la Rivoluzione, cit., pp. 86‐93; la legge istitutiva delle sezioni in CCP. I,
pp. 64‐66. L’elenco delle nuove sezioni è il seguente, tra parentesi i nomi dei rioni pontifici:
Gianicolo (Trastevere), Vaticano (Borgo), Pompeo (Pariore ‐ Regola), Pantheon (S. Angelo ‐
Pigna), Bruto (Ponte), Flaminio (S. Eustachio), Marte (Campo Marzio), Pincio (Colonna),
Quirinale (Trevi), Campidoglio (Campitelli), Terme (Ripa), Suburra (Monti).
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90 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
Ogni ʺsezioneʺ doveva fornire almeno un battaglione composto da 10
compagnie di 100 uomini ciascuna per un totale di 1000 soldati; per le sezioni
più popolose erano previsti due battaglioni, e la Repubblica nominò dei
commissari con il compito di formare gli elenchi di tutti coloro che vi si
sarebbero dovuti iscrivere. Successivamente, le singole compagnie si sarebbero
dovute riunire in un apposito luogo e, in forma assembleare, eleggere per voto
gli ufficiali e i sottoufficiali78. I restanti ufficiali superiori, maggiori, capi
battaglioni e generali sarebbero stati nominati direttamente dal consolato.
Purtroppo la documentazione relativa alla guardia nazionale è andata
perduta, distrutta forse dagli stessi uomini che ne avevano fatto parte per
evitare problemi una volta ripristinato l’antico governo, ma tra le carte
dell’Archivio della Comunità Ebraica di Roma sono stati rinvenuti due
documenti di estremo interesse. Il primo è un elenco di ʺCittadini per la
Guardia Nazionaleʺ redatto dai commissari incaricati della sua formazione e fu
prodotto dalla Repubblica, purtroppo risulta essere mutilo, ma contiene
ugualmente importanti notizie. Il secondo è una nota, redatta dall’Università
dove si elencavano tutti coloro che presentavano i requisiti necessari per entrare
a far parte della guardia79.
Prima di analizzarne il contenuto è necessario operare una premessa sulla
maniera in cui vennero redatti. Quello del governo è un elenco, in cui si
annotarono i nominativi di tutti coloro che si sarebbero potuti arruolare nella
guardia nazionale, con l’indicazione della professione e del luogo di lavoro.
Quello della comunità è un elenco dei capifamiglia, con accanto il numero degli
individui che la componevano atti al servizio, seguita dalla professione e dal
sito lavorativo.
Da queste carte risulta che gli uomini rispondenti ai requisiti necessari per
entrare a far parte della guardia fossero all’incirca 95080. Il dato non deve
sorprenderci e può essere considerato sufficientemente attendibile dal momento
che, secondo il censimento del 1796, la Comunità era formata all’incirca da
tremila persone81: escludendo le donne, i minori di diciotto anni, i maggiori di
cinquanta e le altre categorie menzionate dalla legge, il numero, pari a circa un
terzo della popolazione, è credibile.
Il 14 marzo 1798, molti ebrei si presentarono al Collegio romano dove era
stata convocata la riunione della sezione Pantheon, a seguito della quale si
78 Gli ufficiali erano: un capitano, un tenente e un sottotenente; i sottoufficiali un sergente
maggiore, quattro sergenti e otto caporali; si eleggevano anche due tamburini, Ibidem. 79 ASCER, AMM Uni. EdR, Amm. Cont, RR, 1Th (parte II). 80 Il numero è ricavato dal documento della Comunità che, come ricordato, mette anche il
numero dei componenti del nucleo familiare, Ibidem. 81 ASR, Camerale II Ebrei, b. 1.
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91 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
sarebbero dovuti formare i battaglioni. La massiccia presenza degli israeliti
provocò forti reazioni contrarie dei cristiani che non volevano arruolarsi con
loro, tanto da costringerli ad abbandonare la seduta82. Il giorno successivo il
consolato inviò un distaccamento di dragoni al Collegio Romano per evitare
disordini.
Non si può sapere con certezza quanti ebrei furono arruolati nella guardia,
ma il 18 marzo 1798, quattro giorni dopo i fatti del Collegio Romano, Isach
Baraffael, uno degli ebrei più ricchi del ghetto, venne nominato maggiore della
guardia nazionale tra ʺle acclamazioni di molti della sua settaʺ e lo sconcerto
degli ʺaltriʺ83.
L’incarico di Baraffael come maggiore della guardia non durò a lungo ed
ebbe una conclusione molto significativa; alla fine del settembre del 1798, circa
sei mesi dopo la sua elezione, venne destituito dall’incarico con la motivazione
di essersi rifiutato ʺdi servire il dì primo dell’anno 7 la solenne funzione
celebrata sulla piazza del Vaticano, per essere giorno di Sabatoʺ84, aggiungendo
che i cittadini dovevano la loro prima e assoluta fedeltà alla patria e non ad una
religione. Da parte dei repubblicani, soprattutto di quelli più democratici,
risultava poco comprensibile l’attaccamento degli ebrei alla loro religione e che
questo potesse finire per avere una maggiore preminenza sui diritti e i doveri di
cittadino85. Ma, se ci si pone dalla parte di Baraffael, la tempistica pone delle
questioni; è possibile che nei mesi precedenti non si fosse presentata una simile
incompatibilità? Che prima di allora non vi fossero mai state situazioni in cui il
riposo del sabato aveva urtato contro i doveri legati al ruolo che ricopriva?
Forse, ed è un’ipotesi interessante, tra marzo e settembre 1798, le vicende della
Repubblica contribuirono ad indebolire la fiducia e l’entusiasmo ʺche avevano
consentito ad un ebreo di rinunciare al senso di sicurezza che un’osservanza
82 ʺVi era stata quest’oggi adunanza al Collegio Romano per formare la Guardia Nazionale della
Sezione del Pantheon. Essendovi comparsi molti Ebrei, li congregati hanno cominciato ad alzare
le grida, a minacciarli e a protestare, che non li volevano fra loro. Gli Ebrei, vedendosi a mal
partito, si sono allontanati, e l’Adunanza ha scelto subito una deputazione per portare ai
Consoli li suoi reclamiʺ, G.A. Sala, Diario romano, cit., t. I, p. 103; anche Galimberti riporta
l’episodio: ʺNel dopo pranzo si formarono diverse sessioni per formare le compagnie di truppa
nazionale sedentaria nella sezzione del Pantheon concorsero anche gli ebrei. Grande fu il
sussurro contro di essiʺ, A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, p. 27. 83 G.A. Sala, Diario romano, cit., t. I, p. 110; A. Milano, Il Ghetto di Roma. Illustrazioni storiche,
Carucci, Roma, 1988, p. 402. 84 «Monitore di Roma», IV, 1798. 85 Su questi aspetti dell’affaire Baraffael cfr. R. De Felice, Gli ebrei nella Repubblica romana, cit., pp.
205‐248, la notizia alle pp. 241‐242.
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92 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
rigida delle regole induceʺ86, portandolo a cercare nuovamente “riparo” nel
millenario rifugio della sua religione.
La questione della partecipazione degli ebrei alla guardia nazionale non si
risolse nel solo affaire Baraffael. Il 22 marzo 1798 un ufficiale della guardia, tal
Giardini, presentò una richiesta di esclusione degli ebrei dalla guardia
direttamente al console Angelucci, adducendo due questioni di ordine religioso;
la prima era legata all’uso comune di recitare la sera il rosario nei diversi rioni.
Qualora gli ebrei si fossero trovati presenti a una simile pratica, secondo
l’opinione dell’ufficiale, avrebbero deriso i cristiani; la seconda ineriva al
passaggio del viatico per le strade della città, incontrando il quale gli stessi non
si sarebbero mai prestati all’omaggio87. Alle preoccupazioni di Giardini,
Angelucci rispose in maniera molto decisa e respinse tale richiesta con la
motivazione che tra ebrei e cristiani l’unica differenza era ʺquella di un pezzo di
carne in menoʺ, quindi non vedeva motivi per escluderli88. Stando a queste carte
sembra, dunque, che gli ebrei potessero partecipare alla guardia nazionale, ma i
due più importanti diaristi, Sala e Galimberti, ci informano che ad essi venne
applicata la stessa normativa degli ecclesiastici, che prevedeva una esenzione
dal servizio in cambio del pagamento di un obolo in denaro89. Pur non
conoscendo i motivi che avrebbero portato il consolato a prendere tale
decisione, è legittimo ritenere che una simile scelta ebbe come intento quello di
evitare l’accrescersi di ulteriori tensioni che avrebbero potuto comportare, da
una parte, un calo di consensi nei sostenitori della Repubblica, dall’altro, un
aumento delle violenze verso gli ebrei, con la conseguente instabilità del già
precario equilibrio cittadino. Le rinvenute tracce delle proteste e delle violenze
che si ebbero a seguito della possibilità data agli ebrei di partecipare alla
guardia nazionale favorirebbero questa ipotesi.
Si è a conoscenza, ad esempio, che alcuni ebrei, di cui non sono noti i
nomi, furono oggetto di offese rivolte loro dal sarto Vincenzo Guidotti e dal
86 A. Damascelli, Cimarra e gli ebrei, cit., p. 42. 87 Al passaggio del viatico la guardia avrebbe dovuto inginocchiarsi, come risulta da una
disposizione del 1793, dal titolo Regolamento del modo, che debbonsi prestare gli onori del Militare,
alle Persone di Distinzione da tutte le Guardie, ASR, Bandi, b. 132. 88 Sala così racconta l’episodio. ʺrispose Angelucci, che del rosario poteva farsene a meno, che si
sarebbero prese delle misure perché il Viatico uscisse più di rado, facendolo portare in privato,
e che non essendovi tra li Cristiani e gli Ebrei altra differenza, se non quella di un pezzo di carne
di meno, non appariva ragione per escluderliʺ, G.A. Sala, Diario romano, cit., t. I, pp. 120‐121. 89 Così Sala ʺNe [gli Ebrei] saranno perciò dispensari e pagaranno invece le guardie, come gli
Ecclesiasticiʺ, ivi, p. 103 e Galimberti, ʺDopo vari trattati si assicurò che gli ebrei sarebbero
annoverati nella classe dei cittadini, ma che sarebbero stati esentati dal servizio militare
pagando la loro fazzione di paoli quattro per voltaʺ, A. Galimberti, Memorie dell’occupazione
francese in Roma, cit., vol. I, p. 27.
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93 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
cioccolatiere Antonio Bertoldi mentre si recavano al Collegio Romano per
rispondere alla chiamata della guardia nazionale. Gli ebrei protestarono per tali
offese e i due cristiani furono prontamente arrestati su ordine del console
Angelucci, ma vennero rilasciati dall’aiutante generale della guardia, Giannelli
ʺsenza alcun ordine dei ministriʺ90. Costui è un personaggio la cui complessa
personalità lo rende interessante e che fu processato per violenze ad ebrei e a
cristiani91. Egli fu un uomo prepotente e violento, che non si fece scrupoli ad
abusare del potere della sua carica per il proprio tornaconto personale. Tra gli
soprusi compiuti vi furono quelli a danno di una decina di ebrei. Questi ultimi
vennero arrestati dalla guardia civica con l’accusa di aggiottggio, furono portati
al profosso e privati di tutti i loro valori. Dimostrata l’insussistenza dell’accusa,
chiesero la restituzione dei beni, ma per riaverli furono indirizzati direttamente
alla casa di Giannelli, a Strada della Croce. L’aiutante generale non solo rifiutò
di restituire il dovuto, ma li sbeffeggiò e minacciò, arrivando ad alzare le mani
su uno di loro92.
Per concludere, sulla reale partecipazione degli ebrei alla guardia civica
non si possono che fare delle ipotesi, mancando una documentazione certa.
Partendo dai dati che si possiedono si può sostenere che gli ebrei furono
chiamati a far parte della guardia, come attestano i documenti dell’Archivio
della Comunità. È noto che si recarono al Collegio Romano e che, sia nel tragitto
che durante la seduta, scoppiarono tumulti. Sembrerebbe dunque che, a
dispetto di queste resistenze, gli ebrei ebbero la possibilità di entrare nella
guardia, ma che alla fine le autorità, spinte da una crescente ostilità popolare,
furono costrette a cedere alla pressione dei cristiani; ma forse è più plausibile
l’ipotesi che vede la Repubblica preferire l’introito economico che gli sarebbe
derivato da questa vicenda (il pagamento per l’esenzione dal prestare servizio
nella guardia nazionale) piuttosto che fronteggiare rimostranze e violenze.
7. Il preludio all’invasione: Roma 12‐27 novembre 1798
La proclamazione della Repubblica romana creò nuovi timori alla corte dei
Borboni, che temeva una possibile invasione da parte delle truppe francesi,
ormai ai suoi confini, ma contemporaneamente prospettava una concreta
possibilità di realizzare quelle mire espansionistiche che da sempre il Regno di
Napoli nutriva verso lo stato della Chiesa.
90 ASR, TCdG. Processi 1798‐1799, b. 2058. Testimonianza del birro Luigi Martorelli del 28 marzo
1798. 91 Ibidem, il processo è del marzo‐aprile 1798. 92 Ibidem, testimonianza di Angelo Panzieri del 28 marzo 1798.
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94 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
Sulla possibilità di una guerra, Ferdinando IV e Maria Carolina, animati
da forti sentimenti antifrancesi, preferirono non ascoltare i consigli di prudenza
del ministro degli Esteri, il marchese di Gallo, e assecondare, invece, la fazione
belligerante. Il 19 maggio 1798 fu concluso un trattato di alleanza con l’Austria;
in seguito, nel giugno dello stesso anno, l’invasione di Malta da parte dei
francesi rafforzò le posizioni di quanti erano favorevoli alla guerra. Ma, fu
l’arrivo di Nelson, vincitore della battaglia di Abukir, a Napoli il 22 settembre
1798, che fece rompere ogni indugio sulla decisione di dichiarare guerra alla
Repubblica romana93.
L’esercito del Regno di Napoli era formato da truppe raccogliticce, male
addestrate, male armate e con servizi di sussistenza quasi inesistenti. Dei 64
mila uomini che lo componevano, solo 22 mila vi erano già stati arruolati prima
delle ostilità con la Francia; gli altri furono reclutati con la pratica delle leve
obbligatorie che, iniziate il 5 agosto del 1794, culminarono con quella del 2
settembre 1798, che prevedeva il reclutamento di 40 mila uomini94.
In previsione dell’apertura delle ostilità, l’esercito, il cui comando fu
affidato al generale austriaco Carlo de Mack von Leibarich, si raggruppò a S.
Germano, al confine con la Repubblica romana. Il 14 novembre 1798 da S.
Germano, Ferdinando IV emanò un proclama nel quale affermava la necessità
di muovere guerra alla Repubblica romana per riconsegnare al papa i propri
domini e per ʺravvivarvi la Cattolica Religione, farvi cessare l’anarchia, le
93 Sui rapporti tra il Regno di Napoli, l’Austria, l’Inghilterra e la Francia, cfr. A. Cortese, La
politica estera napoletana e la guerra del 1798, Albrighi Segati & C., Napoli, 1924; G. Castellano,
Napoli e Francia alla vigilia della guerra del 1798 in una relazione del Marchese di Gallo a Ferdinando
IV, «Archivi», XX, 1953, f. 4, pp. 237‐256 e A.M. Rao, La Repubblica Napoletana del 1799, in «Storia
del Mezzogiorno», vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Editalia, Roma, 1986, pp. 470‐
539. 94 Queste leve incontrarono sempre fortissime resistenze nella popolazione, andando a colpire
soprattutto gli strati più poveri della società, come contadini e artigiani, che non potevano
sottrarvisi pagando una somma di denaro. Pur di sfuggire alla leva obbligatoria si arrivava a
provocarsi menomazioni fisiche, come si può leggere in un manoscritto dell’epoca: ʺQuesto
giovane si strappa senza bisogno dalla bocca i denti; quello s’apre in un braccio un misterioso
cauterio… chi sordo, chi mentecatto, chi podagroso si finge; né mancano di quelli, che si
lacerarono talmente le gambe, che a gran stento se ne potettero dopo due mesi guarire; e con
questi e altri simili stratagemmi ebbero il piacere di essere dalla leva scartatiʺ; pagine riportate
in A. Lucarelli, La Puglia nel Risorgimento, vol. II, La rivoluzione del 1799, ed. Vecchi & C., Trani,
1934, p. 14. Le dure condizioni di vita nell’esercito e le misere paghe portarono ad un alto
numero di diserzioni; molti di questi uomini andarono ad ingrossare le fila del brigantaggio, su
questi temi cfr. A. Simioni, L’esercito napoletano dalla minorità di Ferdinando alla Repubblica del
1799, «Archivio Storico per le Province Napoletane», vol. VI, 1920, pp. 88‐109 e 295–324; vol.
VII, 1921, pp. 171‐205; A.M. Rao, La Repubblica Napoletana, cit., pp. 471‐472; L. Alonzi, Il Vescovo‐
Prefetto. La diocesi di Sora nel periodo napoleonico, 1796‐1818, Centro di Studi Sorani «Vincenzo
Patriarca», Sora, 1998, pp. 43‐47.
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95 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
straggi, e le depredazioni, ricondurvi la paceʺ95. Dopo nove giorni, il 23
novembre, con estrema lentezza, il centro dell’esercito napoletano oltrepassò il
confine96.
Sul fronte francese, il comandante in capo generale Macdonald attuò un
piano di guerra che prevedeva di effettuare una ritirata tattica, senza lasciare
nessuna arma o munizione al nemico; scelta motivata dalla consapevolezza di
non poter affrontare in campo aperto un esercito numeroso come quello
napoletano. Quando Macdonald fu sostituito nella sua carica dal generale
Championnet, quest’ultimo non modificò la strategia difensiva impostata dal
suo predecessore.
Cominciate le ostilità, immediatamente i soldati francesi, guidati dal
generale Girardon, si ritirarono dal Dipartimento del Circeo, dirigendosi verso
la capitale, dove si unirono alle truppe del comandante in capo Championnet,
che ʺalle 22 partì … con tutto lo stato maggiore facendo la strada del Corso
piena di popoloʺ97. Così, i francesi evacuarono Roma, lasciando un solo presidio
a controllare la fortezza di Castel S. Angelo98.
Un corriere proveniente da Napoli e diretto a Firenze si fermò a Roma; a
seguito di ciò, il consolato, svegliato nel cuore della notte, si riunì
immediatamente. Cominciò a circolare la voce che le truppe del dipartimento
del Circeo erano state assediate a Velletri. In molti forni mancò il pane, ed in
altri fu distribuito sotto la sorveglianza della guardia civica. Infine si impose
l’eliminazione o la copertura di tutte le immagini sacre, pubblicamente visibili
95 Il proclama è pubblicato in CCP, III, pp. 271‐272. 96 A destra era appoggiato da un corpo distaccato guidato dal maresciallo Micheroux e, a
sinistra, da uno guidato dal principe Giuseppe di Sassonia. Nel frattempo, il maresciallo Damas
muoveva dalla piana di Sessa, mentre il tenente generale Diego Naselli avanzava sulla linea
costiera Gaeta ‐ Terracina. Infine, altri due distaccamenti muovevano da LʹAquila e da
Tagliacozzo, comandati rispettivamente dai colonnelli Camillo Giustini e Baldassarre
Sanfilippo, cfr. A.M. Rao, La Repubblica Napoletana, cit., p. 471; P. Colletta, Storia del Reame di
Napoli, Edizioni Sara, Trezzano, 1992, pp. 179‐181. 97 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., vol. I, p. 151. 98 Il piano di ripiegamento prevedeva che le guarnigioni di Ceprano, Veroli ed Alatri,
raggruppatesi a Ferentino, si trasferissero prima a Frascati, quindi a Roma.
Contemporaneamente, i soldati di stanza a Terracina, Sonnino, Piperno e Sezze, dopo aver
tagliato i ponti e inchiodati i cannoni, si sarebbero diretti a Velletri, per poi portarsi a Roma. Lo
stato maggiore si sarebbe dovuto insediare ad Albano, pronto a ripiegare verso la capitale. In
soli tre giorni, dal 23 al 26 novembre 1798, queste disposizioni furono attuate ed i francesi si
ritirarono senza problemi. Tutte le informazioni sono tratte dagli ordini inviati dal generale
Girardon ai suoi comandanti, il 16 brumaio anno VI (6 novembre 1798) ed il 25 brumaio anno VI
(15 novembre 1798), G. Segarini, M.P. Critelli, Une source inédite de lʹhistoire de la Republique
Romaine. Les registres du Commandant Girardon, lʹinsorgenza du Latium méridional et la campagne
du Circeo, «Mélanges de lʹÉcole française de Rome. Italie et Méditerranée», 1990, 1, pp. 245‐453,
rispettivamente pp. 424‐425 e 433‐434; L. Topi, “C’est absolumment la Vendéè”, cit., pp. 122‐126.
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96 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
nelle vie della città. Questo è quanto si legge nelle memorie dell’avvocato
Galimberti il 12 novembre 179899. A questa data si possono far risalire le prime
notizie di cui si dispone, che cominciano a fornire un’idea di quello che fu il
clima che caratterizzò Roma nei giorni che precedettero l’invasione dei
napoletani.
Da quel momento continui furono gli arrivi di truppe provenienti dal
dipartimento del Circeo. La loro presenza in città diede agio alla diffusione, tra
gli abitanti di Roma, di voci che, nonostante la scarsa veridicità, suscitarono
sentimenti contrastanti di ansia o di attesa, contribuendo a creare ulteriore
tensione tra la popolazione, oltre a quella già provocata dagli oggettivi disagi
che una massiccia presenza di soldati implicava.
In una situazione di incertezza come quella di una città minacciata, antiche
paure riaffioravano e portavano con sé la necessità di trovare un capro
espiatorio che servisse ad esorcizzarle. Da secoli gli ebrei erano deputati a
questo ruolo e anche in questo caso non fecero eccezione, fornendo così un
bersaglio tangibile alle tensioni, spesso violente, dei loro concittadini.
Uno dei maggiori motivi di agitazione per i romani in quei giorni fu la
paura della fame, che li spinse ad assediare i forni tanto da arrivare alla
necessità di farli presidiare. Così scrisse Francesco Fortunati nelle sue memorie,
il 17 novembre 1798:
«Non puole immaggiare veruno qual fosse l’affollamento in tutti li forni per prendere il pane,
che non erano bastanti li soldati a tenere a dovere il popolo, che concorreva»100. Era opinione
comune che la penuria di pane fosse causata dagli incettatori che, comprandone grandi
quantità, lo rivendevano nel ghetto al prezzo maggiorato di un baiocco la pagnotta. Gli ebrei
poi lo trasformavano in biscotto, per non correre il rischio di restarne senza «e così quella
perfida gente aveva fatto suscitare una non indifferente carestia». 101
Nel mese di novembre l’assalto ai forni fu uno dei problemi più pressanti
per le autorità repubblicane. Anche sul «Monitore», del 19 novembre 1798, si
riportò la notizia che la scarsità del pane poteva essere attribuibile ad una
speculazione degli ebrei. Per avallare questa congettura, si riportò un fatto
accaduto il giorno precedente: un grasciere, volendo verificare la fondatezza di
queste voci, seguì fino a casa un ebreo che aveva acquistato un grande
quantitativo di pane e lo arrestò. Si scoprì che quell’eccezionale compera era
destinata ad un pranzo di nozze. Il giornale aggiunse, però, che dopo quanto
99 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., vol. I, p. 142. 100 F. Fortunati, Avvenimenti sotto il pontificato di Pio VI, cit., giornata del 17 novembre 1798, c.
245r. 101 Ibidem.
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97 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
accaduto in quella giornata molti correligionari del mal capitato si affrettarono a
gettare le loro scorte di pane nel Tevere102.
È interessante notare che a dispetto della differenza delle fonti, la memoria
di un privato da una parte ed un giornale dall’altra, entrambe veicolarono
l’immagine stereotipata degli ebrei che, avidi di guadagni, non esitavano a
operare speculazioni su un bene primario come il pane. Del resto, non
potendosi associare la difficoltà di approvvigionamento e di reperimento del
grano al periodo congiunturale di maggio ‐ giugno103, gli stessi redattori del
«Monitore» ritennero plausibile una possibile responsabilità del ghetto.
Il personaggio dell’ebreo proprio dell’immaginario collettivo prendeva il
sopravvento sull’ebreo reale, come in un gioco di specchi, tanto da attribuirgli
azioni, gesti e parole che mai avrebbero potuto appartenergli, nemmeno nel
nuovo contesto repubblicano. Così, per i romani, gli abitanti del ghetto
divenivano gli autori di traffici e commerci, come quello del grano, che mai
praticarono a Roma. I loro magazzini, colorati da tante stoffe diverse, si
riempirono di ʺgrasceʺ con le quali, in combutta con francesi e giacobini,
avrebbero affamato il popolo.
Si trattò di notizie palesemente false, ma ʺfalsi racconti hanno sollevato le
folle. Le notizie false, in tutta la molteplicità delle loro forme ‐ semplici dicerie,
imposture, leggende ‐ hanno riempito la vita dell’umanitàʺ104. Tanto era radicata
la convinzione dell’ebreo incettatore di grano che, non appena le truppe
napoletane entrarono nella città, queste presero d’assalto i magazzini degli
ebrei, convinti che nascondessero grano e generi alimentari105.
In realtà, la penuria di pane a Roma non fu causata dagli abitanti del
ghetto, ma dal numero sempre crescente di soldati che giungevano
quotidianamente in città, i quali dovevano essere rifocillati106. Inoltre, i
comandanti cominciarono a predisporre le scorte in previsione della guerra, per
102 «Monitore di Roma», n. 18, 29 brumale anno VII (19 novembre 1798), p. 170. 103 In agricoltura, ancora oggi, il periodo tra maggio e giugno corrisponde al momento di minor
disponibilità di grano a causa dell’esaurimento delle vecchie scorte, accumulate nell’anno
precedente, e alla necessità di ripristinare le nuove. 104 M. Bloch, ʺRiflessioni di uno storico sulle false notizie della guerraʺ, in Id., Storici e storia, cit.,
pp. 163‐184, la citazione a p. 165. 105 ASR, TCdG, Processi 1798, b. 2061, processo al sergente di stanza al ghetto, Francesco Gai. 106 Grazie alle Memorie di Galimberti si è a conoscenza del movimento giornaliero delle truppe
a Roma. Solo come esempio si riportano alcune informazioni: il 14 novembre arrivarono un
reggimento di dragoni ed una brigata di fanteria, per un numero complessivo di circa 1000
soldati; il 17 novembre, alcuni dragoni francesi lasciarono la città; il 21 novembre entrò nella
capitale una truppa francese molto numerosa, A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in
Roma, cit., vol. I, pp. 143‐147.
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98 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
cui, anche l’aumento della panificazione non bastò a soddisfare il fabbisogno
quotidiano di pane in una città alla vigilia di un’invasione.
La possibilità, sempre più frequente, di trovare un forno vuoto non fu
l’unico problema che la popolazione si vide costretta ad affrontare e che
contribuì ad aggravare condizioni di vita già precarie. Un’imminente guerra
implicava la soddisfazione di bisogni fondamentali per le truppe, come
l’equipaggiamento, l’alloggio e l’armamento. Naturalmente l’onere di queste
necessità ricadde sulle spalle dei romani che furono costretti a sobbarcarsi la
spesa dei soldati. Più si avvicinava il pericolo dell’invasione più le richieste dei
generali francesi si facevano pressanti e gravose.
Il 22 novembre il consolato emanò un decreto che, tra le altre disposizioni,
obbligava tutte le municipalità di Roma a consegnare, nel termine di 24 ore, gli
abiti ed i panni neri presso un magazzino generale allestito nell’ex convento
delle Convertite. Tutti i sarti vennero precettati per la realizzazione delle divise.
Inoltre, i grandi edili ebbero l’incarico di reperire due locali, poi utilizzati per la
preparazione di selle e di scarpe, motivo per cui anche i ʺsellariʺ e gli
ʺscarpinelliʺ furono precettati107.
Tutte queste contribuzioni costituirono un peso molto gravoso per la
popolazione, sia in termini di fornitura di materie prime che in giornate
lavorative, le quali, a dispetto di quanto pubblicato sul decreto, venivano
raramente rimborsate e retribuite. Del resto, era solo di qualche giorno prima
l’invito del consolato rivolto ai romani di mostrare il loro attaccamento alla
Repubblica offrendosi di alloggiare i sempre più numerosi soldati che
giungevano in città108. Era chiaro che non si trattò di un invito bensì di un
categorico ordine. Ospitare un milite significava dovergli fornire vitto e
alloggio. Le spese che ne derivavano sarebbero state, in seguito, rimborsate
dall’amministrazione; tuttavia, era prassi comune che questi rimborsi si
107 Nella seduta del 1° glaciale anno VII (21 novembre 1798), il Consolato decretò che:
ʺ … Art. I. Tutti gli Abiti di Lana, e panni neri esistenti in tutti i Dipartimenti della Repubblica
sono posti in requisizione.
Art. II … Le Municipalità di Roma verseranno nel Bottegone Generale stabilito alle Convertite…
Art. III. Tutti gli Ebrei, e Sarti sono posti in requisizione per lavorare al Bottegone Generale…
Art. IV. Gli Agenti Generali pagheranno gli Operaj, e somministreranno le fodere di panno
rosso necessario per i rovesci.
Art. V. I Grandi Edili metteranno immediatamente a disposizione del Ministro della Guerra due
altri locali, uno per far Selle, e l’altro Scarpe per la di cui fabricazione tutti gli Operaj… sono
posti in requisizione. Gli Agenti Generali, che somministreranno le materie prime, pagheranno
le loro giornate…
Art. VI. Questo lavoro di tutti tre i nominati effetti non sarà interrotto, se prima non siasi avuto
il compimento intanto per il Primo Reggimento d’Infanteria, che per il Reggimento di Dragoniʺ,
CCP, III, p. 257‐258. 108 Notificazione del 26 brumale anno VII (16 novembre 1798), CCP, III, pp. 234‐235.
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99 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
facessero attendere lungamente. Nessuno gradiva essere costretto a tenere un
soldato in casa, ma, vista l’impossibilità di un rifiuto, quantomeno si preferiva
un soldato semplice ad un ufficiale, il cui mantenimento implicava una spesa
quasi doppia.
Le contribuzioni straordinarie che furono richieste dalle autorità
repubblicane e dai generali francesi accentuarono nella popolazione il
malcontento, che andò ad unirsi alla tensione provocata dal clima di instabilità
che caratterizzò Roma in quei giorni. Questo connubio produsse una miscela
esplosiva che, di lì a poco, si sarebbe rivelata molto pericolosa per gli ebrei,
tanto più che il 28 brumale anno VII (18 novembre 1798)109 il generale
Championnet emanò una legge in cui, conseguentemente a quella del 21
messifero anno VI (9 luglio 1798), sottoponeva gli ebrei alla stessa imposizione
fiscale degli altri cittadini romani, sollevandoli dall’onere della tassa sulla Casa
dei Catecumeni e sugli altri luoghi pii. Questa legge fu emanata a seguito dei
molti reclami presentati dagli ebrei, ma ciò bastò a radicare sempre più tra i
cristiani la convinzione che i giudei traessero non pochi vantaggi dal governo
repubblicano e dalla presenza dei soldati francesi. La diversa tassazione a cui
erano sottoposti gli abitanti del ghetto era da sempre un simbolo dell’alterità
degli ebrei110. La Repubblica, dopo i portoni ed il segno giallo, cancellò anche
questo, garantendo l’uguaglianza del prelievo fiscale sia agli ebrei che ai
cristiani. Infatti, gli uni come gli altri erano schiacciati dalle continue richieste
degli ʺoccupantiʺ d’Oltralpe. Costretti a enormi esborsi di denaro, che
raramente veniva restituito per intero, e sottoposti alle stesse precettazioni per
soddisfare le necessità di guerra dei francesi, nel proclama consolare, al punto 3,
si legge: ʺTutti gli ebrei e sarti sono posti in requisizione per lavorare al
bottegone generale ove sarà posta una guardiaʺ111. A ben considerare, anche
durante la Repubblica e in un momento di crisi, si mantenne una distinzione tra
questi uomini: i cristiani erano sarti, gli ebrei erano … ebrei.
Ad un osservatore esterno la vita di Roma dovette apparire molto
frenetica nei giorni che precedettero l’invasione dei napoletani. Truppe che
109 ʺConsiderando i reclami ad esso fatti dagli Ebrei sopra la percezione delle imposte alle quali
l’Antico Governo li aveva sottoposti in favore dei Catecumeni ed altri Stabilimenti detti Pii…
considerando che tali imposizioni di cui si tratta, hanno avuto la loro origine dal Dispotismo
Religioso; decreta in virtù dell’articolo 369 della Costituzione Romana la seguente Legge… Gli
Ebrei non saranno né dovranno essere sottoposti ad altre imposizioni fuori di quelle levate
sopra gli altri Cittadiniʺ, CCP, t. III, p. 244; una copia della citata legge è conservata presso
l’ASCER, AMM Uni. EdR, Amm. Cont, RR, 1Th (parte II), f. 2. Sulla Casa dei Catecumeni, cfr. M.
Caffiero, Battesimi forzati, cit. 110 Sulla funzione del sistema fiscale come strumento di controllo sugli ebrei a Roma, cfr. A. Foa,
Ebrei in Europa, cit., p. 141. 111 Cfr. CCP, III, p. 257.
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100 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
entravano e uscivano dalle porte della città; controlli sempre più capillari per
quanti si fossero dovuti recare in altre zone dello stato della Chiesa o all’estero;
stretta vigilanza su quanti fossero originari del Regno di Napoli; requisizioni
sempre più frequenti di cibo, stoffe, armi, insomma, di tutto quello che serviva
ad una città che si apprestava alla guerra; notizie confuse e discordanti che
giungevano nella capitale su vittorie o sconfitte dei francesi; attese piene di
speranza per l’arrivo dei napoletani per alcuni, delusione per altri; ma per la
maggior parte della popolazione solo difficoltà sempre maggiori per tirare
avanti, tensioni crescenti e astio verso i repubblicani, i francesi e, di
conseguenza, gli ebrei.
8. Di nuovo in ghetto: l’intermezzo napoletano (27 novembre ‐ 14 dicembre 1798)
Il 26 novembre il generale Championnet uscì da Roma; il giorno seguente, da
Porta S. Giovanni, cominciarono ad entrare le truppe napoletane,
immediatamente si scatenò la violenza popolare: gli alberi della libertà furono
abbattuti e bruciati, le case dei giacobini vennero saccheggiate e distrutti i
simboli della Repubblica, come la colonna in memoria del generale Duphot. Ma
il disprezzo per la Repubblica fu tale che si arrivò alla profanazione dei
cadaveri di alcuni soldati polacchi112. Anche l’ostilità verso gli ebrei, già
manifestatasi nella rivolta di Trastevere del 25 febbraio 1798, tornò ad
esplodere. La stessa sera dell’arrivo dei napoletani:
Il Popolo chiede vendetta sugli Ebrei, e in folla si è portato al Ghetto, minacciando
d’incendiarlo. Accorsa la Truppa Nazionale, a grave stento ha potuto contenere la moltitudine,
e per placare in qualche maniera il di Lei furore, è stata costretta ad estrarre dal Ghetto l’Albero
della libertà, che poi è stato messo in pezzi e bruciato sulla vicina piazzetta della Pescaria. 113
Finalmente per i romani era giunto il momento di vendicarsi degli ebrei
affamatori. La violenza popolare costrinse gli abitanti del ghetto ad una nuova
clausura forzata sotto la protezione dei napoletani che avevano cacciato chi li
aveva liberati. Così, mentre il 29 novembre del 1798 si aprirono le porte della
città per far entrare Ferdinando IV, quelle del ghetto si richiudevano dietro gli
ebrei.
La vendetta di cui parla Sala nasce dalla convinzione di molti romani che,
data l’inscindibilità del binomio giacobini‐ebrei, questi ultimi si fossero
112 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, pp. 154‐157. 113 G.A. Sala, Diario romano, cit., t. II, p. 234; in maniera più scarna Galimberti così narra gli
eventi del 27 novembre: ʺil popolo era in tal furore contro gli ebrei, che fu necessario di far
guardare il Ghetto dalla truppa urbanaʺ, A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in
Roma, cit., t. I, p. 155.
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101 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
arricchiti enormemente durante i mesi della Repubblica con la vendita degli
arredi sacri, seguita alla spoliazione delle chiese, e con l’acquisto dei beni
nazionali, rimanendo immuni dalla crisi economico‐finanziaria che aveva
messo in ginocchio il resto della popolazione. Per questo, approfittando del
caos che si venne a creare in città ci si dette al saccheggio dei loro magazzini
situati a ridosso delle mura del ghetto. In queste ruberie il popolo trovò man
forte in parte della soldatesca che, anziché occuparsi della pubblica tranquillità,
non esitò a trarre personale vantaggio dalla situazione. È il caso del sergente
della guardia civica, Francesco Gai, di stanza al ghetto, accusato di essere uno
degli artefici dei furti compiuti ai magazzini degli ebrei, in special modo di
quelli che si trovavano a S. Tommaso a Cenci. Durante l’interrogatorio del
processo dichiarò:
essendo io sergente d’ispezione in Ghetto venerdì mattina passata, venne ivi un tal Cimarra
pescivendolo, e ci ordinò a nome del Generale, che avessi tenuti gli uomini impostati avanti li
magazzini degli ebrei posti a S. Tommaso a Cenci, giacché il popolo diceva, esser li medesimi
pieni di grasce, per evitare, che non fossero sfasciati. 114
Un ruolo di primo piano, in queste vicende, lo interpretò, il trasteverino
Gioacchino Savelli, detto Cimarra, uno dei principali animatori della rivolta di
Trastevere e nemico dichiarato degli ebrei115.
È interessante osservare come i napoletani, al di là della pessima fama che
li accompagnava, fossero accomunati ai romani dalla stessa acredine verso gli
ebrei116, tanto da assalirne i magazzini, convinti di trovarvi il grano che era stato
sottratto nei giorni precedenti la fine della Repubblica. In realtà vi troveranno
solo mercanzie necessarie al loro commercio, nella fattispecie tessuti e cappotti
e, come generi alimentari, troveranno solo dei ʺgallinacciʺ117.
I soldati napoletani non si limitarono a depredare gli ebrei dei loro beni
posti nei magazzini fuori dal ghetto, ma, a differenza dei romani, ebbero la
possibilità di agire anche tra le mura di questo. Un caso per tutti fu quello di
114 ASR, TCdG., Processi 1798‐1799, vol. 2060, interrogatorio del 5 dicembre 1798, Nello stesso
interrogatorio Gai informò anche delle ruberie che i napoletani e i romani compirono a danno
degli ebrei, portandosi via delle galline, delle tele e dei cappotti giustificando il furto con
l’affermazione ʺera robba d’ebreacciʺ. 115 Su Cimarra cfr. A. Damascelli, Cimarra e gli ebrei, cit. 116 Nel Regno di Napoli e in quello di Sicilia si assisté, ad opera di Carlo III di Borbone, al
tentativo di ricreare una comunità ebraica (editto del 3 febbraio 1740) dopo l’espulsione
avvenuta nel 1492. Per incentivare lo stanziamento dei giudei, per altro pensato all’interno di
una politica mercantilistica, il sovrano concesse maggiori privilegi, anche rispetto agli stati più
illuminati. Il progetto non andò a buon fine a causa delle pressioni di clero e popolo, che
imposero al re la ʺcacciataʺ degli ebrei, appena reinsediatisi, cfr. F. Venturi, Settecento
Riformatore, I da Muratori a Beccarla, Einaudi, Torino, 1998, pp. 86‐89. 117 ASR, TCdG. Processi 1798‐1799, b. 2060.
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102 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
Salvator Sermoneta, che si vide privato di due cavalli ed un carretto sottrattigli
da due soldati che sfregio, il giorno seguente, gli riportarono uno dei due
animali, ferito al petto mortalmente118.
Gli ebrei non erano più al sicuro dai soprusi nemmeno all’interno dello
spazio impostogli, ma neanche dalle violenze della popolazione. Infatti, l’11
dicembre, secondo quanto riportato in una relazione dei soldati di guardia al
“serraglio”, un gruppo di abitanti del rione Regola diede inizio ad una serie di
tumulti contro gli loro. Una sassaiola ruppe i vetri di alcune case del “claustro”
che si trovavano in prossimità del portone di Regola, alcuni sassi colpirono
delle persone, tra cui il tenente Adinolfi; solo con molta difficoltà si riuscì a
riportare l’ordine119.
La presenza dei napoletani a Roma fu per gli ebrei molto gravosa anche
per ciò che concerneva la loro economia: non ebbero la possibilità di praticare i
loro negozi con la stessa libertà di prima, inoltre, rinchiusi nuovamente nel
ghetto, dovettero sobbarcarsi l’onere delle spese di mantenimento della
soldatesca posta a loro guardia.
Su questo specifico punto si dispone di un’utile documentazione,
costituita da una serie di ricevute rilasciate per il pagamento giornaliero dei
soldati di stanza al ghetto120. Si tratta di documenti relativi a sedici giorni di
permanenza su diciotto, quindi un campione esaustivo per fornire un quadro
delle spese sostenute121.
Il seguente grafico evidenzia la spesa in scudi che giornalmente gli ebrei
dovettero sostenere per il solo mantenimento della guardia.
118 ASCER, AMM Uni. EdR, Amm. Cont, RR, 1Th (parte II), f. 2. 119 Ibidem. 120 Ibidem. 121 Entrambi i grafici sono frutto della rielaborazione dei dati forniti da questi documenti, Ibidem.
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103 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
Grafico n. 1: spese per i soldati del ghetto
Non appena le truppe napoletane entrarono in città, il ghetto fu posto sotto il
loro presidio e immediatamente fu richiesto il pagamento dei soldati. La spesa
totale fu di 243 scudi e 72 baiocchi con una media dei costi quotidiani di 16
scudi e 25 baiocchi, una cifra di non poco conto, tenendo presente le difficili
condizioni finanziarie in cui versava la comunità. Il picco maggiore della spesa
si registrò il 4 dicembre, con la presenza di 85 uomini.
Le carte ci forniscono informazioni anche sul numero e sulla qualità dei
soldati preposti a tal compito.
0,00
5,00
10,00
15,00
20,00
25,00
30,00
35,00
29 no
vembr
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Giorni
Scudi
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104 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
Grafico n. 2: numero dei soldati in rapporto ai giorni
Come si può rilevare dal grafico n. 2, l’impegno delle forze dispiegate fu
rilevante. Un solo giorno, il 9 dicembre 1798, risultò essere inferiore alle 50
unità, mentre, in ben quattro giorni si superarono le 60 unità, con una media
giornaliera di 56,9 uomini al giorno. Segno evidente del reale pericolo che
correvano gli ebrei.
I soldati furono posti di picchetto in quattro zone adiacenti le mura del
ghetto: alla Reginella; alla Regola; alla Pescheria e alla Casa Bruciata. Erano
sempre presenti ufficiali, sergenti, caporali e soldati della truppa. Tutti questi
uomini, oltre a ricevere una paga dagli ebrei, dovevano essere sfamati e spesati
delle torce che utilizzavano durante la guardia notturna122.
122 Purtroppo per queste spese non si sono conservate tutte le ricevute come per quelle della
guardia; sappiamo che la Comunità pagò 18 scudi per la fornitura di 45 torce ma non si conosce
la divisione temporale di tale dotazione; anche le spese del cibo non sono registrare
accuratamente, da una ricevuta veniamo a sapere che in data 28 novembre 1798 la comunità
pagò 7 scudi e 18 baiocchi per caffè, biscotti e cioccolata forniti agli ufficiali e ai soldati di
guardia al Ghetto, Ibidem.
0
10
20
30
40
50
60
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105 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
Grafico n. 3: comparazione tra scudi e soldati in rapporto ai giorni
Il grafico n. 3 è la risultanza della comparazione dei due istogrammi precedenti
e mostra il rapporto direttamente proporzionale tra il numero dei soldati e le
spese per il loro mantenimento. Si evince, in maniera piuttosto chiara, come
questo rapporto fu tendenzialmente costante, tranne per due anomalie nei
giorni del 4 e del 9 dicembre, la prima per eccesso (scudi 31,35/85 soldati) e la
seconda per difetto (scudi 12,40/44 soldati).
Queste non furono le sole contribuzioni che l’Università fu obbligata a
versare ai napoletani. Numerose furono le tassazioni straordinarie, per
ricordarne solo alcune: quella del 29 novembre 1798, che gravò su alcuni tra i
più ricchi esponenti della Comunità, che sborsarono 699 scudi e 50 baiocchi, a
cui si sommarono i 250 scudi che versò ognuna delle cinque scuole, per un
totale di 1949 scudi e 50 baiocchi; ancora, una contribuzione di diverse stoffe
richieste, per mezzo di un biglietto, ai maggiori mercanti del ghetto, pari ad un
controvalore di 995 scudi e 46 baiocchi. La lista potrebbe risultare molto più
lunga, ma queste cifre già consentono di comprendere quanto fu pesante
0,00
10,00
20,00
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40,00
50,00
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Giorni
Scudi
Soldati
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106 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
l’occupazione napoletana che complessivamente costò alla comunità 32.914
scudi e 22 baiocchi123.
Infine è necessario ricordare che se a Roma gli ebrei furono oggetto della
violenza popolare, nei paesi dello Stato pontificio dovettero subire quella degli
insorgenti.
Velletri fu il luogo dove tali atti assunsero le forme più gravi, anche perché
numerosa era la presenza ebraica nella cittadina a causa della fiera che in quei
giorni vi si teneva.
Dalla notte del 26 novembre e fino a tutta la giornata del 28, molti ebrei
furono assaliti e saccheggiati dagli insorgenti, e solo per ʺDivina Misericordiaʺ
riuscirono a salvare la vita fuggendo o nascondendosi124.
La notte del 26 novembre del 1798 gli insorgenti entrarono nel paese di
Velletri e scatenarono la caccia al giacobino e all’ebreo. Tra i primi a farne le
spese furono gli Ascarelli, che videro la loro bottega con l’annessa abitazione
predate e devastate dalla furia delle masse. Essi stessi riuscirono ad aver salva
la vita solo dopo aver implorato la pietà di questi125. Sorte analoga subirono
Prospero Pontecorvo, che alloggiava presso il velletrano Vincenzo Scarapecchi,
in una casa sulla piazza della città, e Tranquillo Volterra che in paese era solito
pernottare da tale Nina Senza Culo la quale, durante la sua assenza, ne
123 In quest’ultima cifra è ricompreso anche il corrispettivo in denaro delle mercanzie
saccheggiate dagli insorgenti e dai romani durante l’invasione napoletana, Ibidem, Tabella
contribuzioni 1798‐1800. 124 ʺElenco all’incirca di tutte le robbe che sono state levate agl’ebrei qui di seguito; da taluni
velletrani in quella città dalla notte del 26 novembre 1798 a tutto il di 28 dicembre e che per
Divina Misericordia potettero salvar la vita colla fuga e col nascondersi. L’attori di tal
insurrezione sono stati il pescivendolo Gioacchino Cimarra ritornato a Roma, colle truppe di
Napoli e il velletrano Antonio Caprara, detto Senza Culoʺ, ASCER, AMM Uni. EdR, Amm. Cont,
RR, 1Th (parte II). 125 Nell’Archivio della comunità ebraica di Roma è conservata una carta che descrive, con
dovizia di particolari, l’evento. In questa si legge: ʺLa mattina poi del 26 verso le ore 17
nuovamente furono assaltati gli Ascarelli da varie altre persone senza li suddetti e sfasciarono la
casa di loro abitazione e da colà calarono al negozio di loro mercatura; aprirono la bottega
guarnita bastante di sortir dentro di ogni articolo per quella incominciata Fiera, e dette persone
predarono tutto il negozio senza compassione né alcun rimorso. Ruppero tutte le scanzie di
bottega e banconi, vetri, e quanto esisteva, di poi tornarono in casa e fecero la medesima
tirannica operazione. Non sazi ancora di questo mal operare vollero li detti Ascarelli e suoi
addetti in proprie mani, che trovavansi rifugiati nel fienile, sopra la medesima abitazione; li
delinquenti predatori avuto in mano li suddetti furono presi a viva forza, e lanciatili li stilli alla
gola, cederanno li Ascarelli di darli tutto ciò avevano di contante in tasca, e ridottoli ignudi, con
replicate lacrime (e le loro supplicate lacrime), si mossero a compassione di lasciargli la vitaʺ,
Ibidem, f. 6.
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107 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
custodiva le mercanzie126. Contemporaneamente molti velletrani pensarono di
approfittare del disordine che si era creato per rubare e non pochi ebrei
dovettero far le spese di queste azioni127. Non tutti i paesani si comportarono
allo stesso modo, così Olimpia Costanza, che aveva come locatari della sua
bottega alcuni ebrei, ne difese le merci, inoltre si preoccupò di mettere in
guardia la vedova Brunetta Di Porto dalle ruberie di Cesare, un muratore
presso cui alloggiava128.
Gli avvenimenti di Velletri evidenziano due tipologie di violenza di cui gli
ebrei furono oggetto. Quella più locale e meno feroce, da parte degli abitanti del
paese, dettata dalla volontà di approfittare del momento favorevole creato dalla
momentanea assenza del potere e dall’ingresso degli insorgenti in loco. L’altra,
perpetrata dagli insorgenti, che si connota per un’intenzionalità di aggressione
verso l’ebreo, equiparato al giacobino. Non fu casuale tra i capi degli insorgenti
a Velletri, la presenza di quel Cimarra, già incontrato nel saccheggio di Roma.
9. Il ritorno della Repubblica: 15 dicembre 1798.
Nel frattempo, le operazioni militari volgevano a favore dei francesi. La
condotta militare del generale austriaco Mack fu disastrosa: l’ala destra del suo
esercito fu battuta a Fermo, il 4 dicembre 1798 a Civita Castellana e il 6 ad
Otricoli il comandante borbonico subì due sconfitte ad opera del generale
Macdonald. Il 9 dicembre 1798 si arrese la città di Calvi, dove si erano ritirate le
truppe del maresciallo generale Enrico Metsh e del generale Emanuele Carillo e,
quindi, lo stesso Mack fu costretto ad ordinare la ritirata generale, che ben
presto si trasformò in una vera e propria rotta per l’esercito napoletano129.
L’11 dicembre, su invito dell’Acton, Ferdinando IV si allontanò da Roma
poiché, come scrisse alla moglie, ʺnon c’è più speranza per l’offensiva, ma non
si deve pensare che alla difensivaʺ130. Il 12 partì da Albano per Belvedere dove
126 La famiglia Ascarelli dovette subire la ferocia degli insorgenti, anche a Civitavecchia, dove
furono saccheggiati i loro magazzini. Tutte le notizie sulle aggressioni subite dagli ebrei a
Velletri si ritrovano nei documenti conservati presso l’ASCER, AMM Ibidem. 127 Caterina moglie del chiavaro si accordò con alcuni compaesani per rubare le mercanzie di
Ambram Faldino e Simone Pace, che alloggiavano in casa sua, pensando di far ricadere la colpa
sugli insorgenti o sui soldati. Ugualmente Nicolino l’oste con la figlia Gertrude pensarono di
frodare Lazzaro Ascarelli, Isaia Di Castro e Isach Astrologo, che erano soliti risiedere presso di
loro quando si trovavano a Velletri, Ibidem. 128 Olimpia Costanza riuscì a mettere al sicuro le merci di Giuseppe di Cori, non ebbe felice esito
lo stesso tentativo con quelle di Angelo Sabbatelli, Sabbato Mieli e David Crescenzo Di Cori,
tuttavia il ladro fu tratto in carcere, Ibidem. 129 Cfr. L. Topi, “C’est absolumment la Vendéè”, cit., p. 126. 130 Ferdinando IV di Borbone, Diario (1796‐1799), U. Caldora (a cura di), Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli, 1965, p. 401, n. 4.
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108 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
giunse nella notte del 13, ʺdopo ventitré ore di viaggio per strade al principio
infami, cavalli pessimi, un tempo orribile e 32 ore senza nient’altro in corpo che
un poco di pane e ricotta… veramente sconquassatoʺ131.
Il 15 dicembre il generale Championnet, insieme ai membri del governo
Repubblicano che lo avevano seguito, rientrò a Roma e l’amaro commento
dell’abate Sala rende benissimo il clima: ʺL’esercito del Re delle Due Sicilie si è
coperto di una vergogna sempiternaʺ132.
Ripristinata la Repubblica, si provvide subito ad innalzare di nuovo, sulla
piazza del Campidoglio, sia l’albero della libertà che la colonna in memoria del
generale Duphot, entrambi abbattuti al momento dell’ingresso dei napoletani133.
Il generale Championnet, nei pochi giorni in cui rimase in città prima di
proseguire la campagna militare che lo avrebbe portato ad occupare il regno di
Napoli, emanò una serie di disposizioni, come la nomina di una Commissione
per l’amministrazione della polizia e di un Comitato militare con le funzioni del
ministero della Guerra, in attesa della ʺriorganizzazione delle Autorità
Costituiteʺ134. Accanto a queste disposizioni ve ne furono molte altre,
riguardanti sia la vita della città, sia le necessità dell’armata francese, come la
requisizione dei cavalli e delle vetture135. Tra questi atti spiccò quello del 26
glaciale anno 7 (16 dicembre 1798), emanato immediatamente dopo l’ingresso
del generale che riguardava gli ebrei; vi si leggeva:
Informato che gli ebrei esistenti in Roma e nel territorio della Repubblica sono stati gravemente
insultati; e che molti anche de’ medesimi sono stati audacemente minacciati; ordina oggi a tutte
le Autorità Civili, e Militari di processare severamente, e di punire… tutti quelli, che oseranno
d’insultare qualunque ebrei… o di commettere degli attentati contro le loro Proprietà. 136
Un tale proclama fu giustificato dal clima di violenza contro gli ebrei che
caratterizzò il breve periodo dell’occupazione napoletana, durante il quale
furono costretti a restare chiusi nel ghetto, sorvegliato dai soldati del re di
Napoli. Tuttavia, era l’intera città a non essere sicura e, per controllarla meglio e
consentire il ritorno dei consoli, il generale Macdonald, avuto il comando della
piazza di Roma, emanò il 28 glaciale anno 7 (18 dicembre 1798) un proclama in
cui si ordinava a tutti i cittadini di consegnare le armi da fuoco e da taglio in
131 Ivi, p. 403 n.2. 132 Cfr. G.A. Sala, Diario romano, cit., t. II, p. 237. 133 ʺFu immediatamente inalzato l’albero della libertà sulla piazza del Campidoglio e vi fu anche
di nuovo eretta la colonna già rovesciata di memoria per la morte del generale Duphotʺ, A.
Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, p. 169. 134 CCP, III, pp. 313 e 321. 135 Su questi aspetti cfr. A. Cretoni, Roma giacobina, cit., pp. 325‐328. 136 CCP, III, p. 308.
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109 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
loro possesso, nel termine di 24 ore137. Due giorni dopo, il 4 nevoso anno 7 (24
dicembre 1798), il consolato rientrò in città, attraversando al suono della banda
via del Corso sino a giungere al palazzo del Quirinale138.
Il ritorno del consolato completò il ripristino delle istituzioni repubblicane
dando l’avvio alla seconda fase della Repubblica romana, che però vide il
governo sempre più sottoposto al controllo della Francia. Infatti, il Direttorio
decise di sciogliere la Commissione Civile e di nominare un ambasciatore nella
persona di Bertolio a cui furono attribuiti tutti i poteri detenuti dai commissari;
di fatto nessuna decisione poté essere presa né dalle autorità repubblicane, né
dal comandante generale dell’armata francese senza l’avallo dell’ambasciatore
che arrivò persino a legiferare direttamente139.
Il controllo della Francia sulla Repubblica si rivelò in tutta la sua forza nel
luglio 1799 quando, al posto del senato, del tribunato e del consolato sospesi
dalle loro attività, fu nominato un comitato provvisorio di governo composto
da cinque membri: il governo repubblicano era finito140.
10. Tasse sul grano e approvvigionamenti militari: l’inizio della fine
I mesi di gennaio e febbraio del 1799 furono per la popolazione di Roma
estremamente duri; la città venne colpita da una fortissima carestia aggravata
dall’azione degli incettatori141. Numerosi furono i tumulti ai forni per il pane e,
leggendo le Memorie dell’avvocato Galimberti, non vi è giorno nel quale non
fosse riportata l’estrema penuria o mancanza del pane142. Questa situazione di
137 Ivi, pp. 315‐317. Nonostante tale ordine, la risposta dei romani non fu positiva se, il 2 nevoso
anno 7 (22 dicembre 1798), un altro proclama dovette ribadire le disposizioni del precedente,
aggiungendo che si sarebbero effettuate perquisizioni domiciliari alla ricerca delle armi, ivi, pp.
328‐329 138 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, p. 176 e «Il Monitore di
Roma», n. XXIX del 9 nevoso anno 7. 139 Il 21 ventoso anno 7 (11 marzo 1799), Bertolio emanava il seguente decreto: ʺLe Consulat
Romain ne prendra aucune délibération importante sans en prevenir l’ambassadeur de la
République Françaiseʺ, ASR, Rep. Rom, b. 17, f. 38. 140 Il comitato era composta da Breislak, Roize, Piamonti, De Romanis e presieduto da Perillier,
su tutti comandava l’ambasciatore Bertolio, CCP, V, p. 49 e pp. 73‐74 e A. Galimberti, Memorie
dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, pp. 288‐289. 141 Un articolo del «Monitore» in data 23 piovoso anno 7 (4 gennaio 1799) denuncia con dovizia
di particolari e con sdegno l’inusitato aumento dei prezzi e la pratica dell’incettazione dei
generi alimentari, «Il Monitore di Roma», n. XLIII, del 23 piovoso anno 7. 142 Solo come esempio in data 16 piovoso anno 7 (4 febbraio 1799) si legge ʺCrebbe
estremamente la carestia del pane. Infinite furono le famiglie che ne restarono priveʺ, il 25
piovoso anno 7 (13 febbraio 1799) ʺCrebbe la carestia del paneʺ e il 30 piovoso anno 7 (18
febbraio 1799) ʺProseguì estrema la carestia del paneʺ, A. Galimberti, Memorie dell’occupazione
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110 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
estrema indigenza fu aggravata dal pesantissimo prelievo fiscale che il governo
repubblicano impose per gli approvvigionamenti militari e per le altre necessità
di un esercito numeroso come quello francese143.
Le richieste per il fabbisogno delle truppe si intensificarono dopo la prima
invasione napoletana, quando il peso dei militari francesi si accrebbe
notevolmente. L’invasione del Regno di Napoli comportò, inoltre, la presenza
di numerosissimi soldati sul territorio della Repubblica romana, che
transitarono per la Dominante rifornendovisi del necessario. Da queste
tassazioni e imposizioni non fu aliena la comunità ebraica: il volume delle
contribuzioni richiestole fu molto alto e in questo la prassi dei francesi e dei
repubblicani non si discostò da quella del precedente governo: gli ebrei erano
stati e restarono un’ottima fonte da cui attingere denaro e beni.
Ciò che invece mutò in maniera radicale fu il sistema di riscossione delle
tasse e delle contribuzioni. Non più la richiesta di una somma di denaro alla
comunità, che poi avrebbe provveduto a ripartire le quote tra i suoi membri, ma
una tassazione personale e progressiva: ogni singolo cittadino dovette pagare la
tassa in ragione del suo capitale, precedentemente stimato dalla congrega. In
caso di inadempienza, la responsabilità sarebbe stata del singolo, quindi
personale e non più collettiva. Il nuovo metodo della tassazione risentì dell’idea
di cittadinanza: non più rapporti con gruppi, ma con singoli individui uguali
tra loro e con le stesse responsabilità di fronte alla legge.
Prima di analizzare nel dettaglio le spese sostenute dai singoli membri
della comunità, è necessario precisare che sugli ebrei romani gravarono due
tipologie di contribuzioni. La prima riguardò le forniture di letti, indumenti e
altri oggetti necessari all’esercito. L’università aveva una lunga tradizione in
questo tipo di commercio che, se poteva garantire una buona entrata in tempi di
pace, diveniva al contrario molto oneroso in tempo di guerra, dal momento che
vigeva l’obbligo di fornitura in tempi strettissimi144. I francesi e le autorità
repubblicane scaricarono il peso di queste forniture quasi interamente sugli
ebrei. L’altra tipologia di contribuzione fu costituita dalle tasse per
l’approvvigionamento di grano e le richieste di ʺprestiti forzosiʺ; in questo caso
francese in Roma, cit., t. I, pp. 200, 206 e 217. Sulla carestia e sulle politiche annonarie cfr. V.E.
Giuntella, La giacobina Repubblica Romana, cit., pp. 58‐68. 143 Gli eserciti di antico regime ʺvivevanoʺ sulle spalle delle popolazioni locali, che dovevano
provvedere al vestiario, al cibo, all’acquartieramento della truppa, fornendo letti, materassi,
coperte e anche ospitalità nelle proprie case agli ufficiali superiori; inoltre vennero requisiti i
cavalli da tiro, i calessi e i carri per il trasporto delle salmerie. La presenza di un esercito si
poteva paragonare ad un’invasione di locuste che, dopo il proprio passaggio, lasciava le
popolazioni stremate, cfr. A.M. Rao, Esercito e società nell’età rivoluzionaria e napoleonica, Marano
Editore, Napoli, 1990. 144 A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Einaudi, Torino, 1992, pp. 548‐551.
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111 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
la pressione fiscale ricadde su tutta la popolazione e gli ebrei dovettero pagare
solo la parte loro spettante; tuttavia, si trattò pur sempre di una cifra
considerevole, che, unita al dispendio economico delle forniture militari, non
migliorò la già precaria condizione economica della comunità.
Presso l’ASCER sono conservati numerosi documenti riguardanti la
tassazione e le contribuzioni richieste. Essi coprono l’intero arco temporale di
vita della Repubblica e unitamente forniscono un quadro sufficientemente
impressionante del prelievo fiscale operato dai francesi.
Le richieste per le forniture militari furono tante e molto impegnative per
la comunità. Subito dopo il rientro delle truppe francesi, il generale
Championet, in data 28 glaciale anno 7 (18 dicembre 1798), inviò dei biglietti di
tassazione ai singoli ebrei minacciandoli, in caso di mancato pagamento, di
essere arrestati e condotti a Castel S. Angelo145. La stessa procedura fu utilizzata
dalla municipalità del primo circondario che li costrinse, il 24 fiorile (13 maggio
1799) e l’8 pratile anno 7 (27 maggio 1799), a fornire vestiario e pagliericci per i
soldati francesi146; il 12 messifero anno 7 (30 giugno 1799) fu imposto un
prelievo per letti e lenzuola per un totale di 73 scudi e 35 baiocchi; il 7 termifero
anno 7 (25 luglio 1799) fu la volta di calzoni e camicie per un totale di 2000 paia
ciascuno, in questo caso ogni singolo ebreo incluso nell’elenco avrebbe dovuto
fornire un numero preciso di calzoni o camicie sino al raggiungimento della
quantità richiesta inizialmente.
In generale le forniture militari costituirono una parte rilevantissima delle
contribuzioni dovute dagli ebrei, come risulta dalle tabelle qui sotto riportate
che sono il frutto di un paziente lavoro di ricerca, di incrocio e di accorpamento
di dati rinvenuti in diversi documenti dell’ASCER147:
145 L’elenco è composto da cinquantuno nominativi e solo come esempio si riportano alcune di
queste richieste che sono espresse in scudi: Isaia Di Castro, 150, Abram Volterra 10; Angelo e
fratelli Alatri 50; Abram Astrologo 40; Giacobbe Di Cave 50; ASCER AMM Uni. EdR, Amm. Cont,
RR, 1Th (parte II). 146 Ibidem. 147 Si va da una ʺNota delle contribuzioni tanto in generi de letti, sacchi ed altro. Come in
contanti dati tanto nella prima che nella seconda venuta delle truppe napoletane in Roma
quanto nella dimora dei francesi dovuti dall’Università degli ebrei di Roma, e suoi individui
dalli suoi individui dalli 6 aprile 1798 a tutto il di 10 giugno 1800ʺ per poi passare a singole
tassazioni non ricomprese nella ʺNotaʺ come quella per la fornitura di camice e calzoni o quella
del I circondario per la fornitura di letti e pagliericci. Ibidem.
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112 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
A. Tabella dei generi e dei prezzi
Numero Tipologia Costo*
644 Materassi 3.864
268 Capezzali 321,60
1045 Coperte 4180
800 Lenzuoli 1600
140 Tavole da letto 70
200 Lenzuoli fini 130
20 Federe fini 48
20 Banchi di ferro 45
20 Banchi di legno 45
1076 Pagliericci 3226,50
1 Letto nobile completo 68
1 Tovaglia di damasco 150
102 Canapè 153
A corpo Biancheria per letti 120,10
3981 Camicie per soldati 3981
3615 Pantaloni per soldati 3615
Totale 21617,20
*In scudi
Le imposizioni non riguardarono solo i materiali delle forniture militari, ma si
estesero anche ad altre tipologie di beni, riportati nella tabella B.
B. Altri generi
Numero Tipologia Costo*
10 Tavoli di noce 35
4 Finimenti per carrozze 61
1 Sella 18
1924 Sacchi per il grano 1924
Totale 2038
*In scudi
Quando non fu possibile ottenere i beni richiesti, si procedette ordinando il
versamento in denaro del loro valore corrispettivo148. Alcune di queste richieste
148 Si riporta qui una: “Tassa fatta per una requisizione venuta per letti e lenzuola per uso delle
truppe francese, ed ordinata dalla Municipalità del primo Circondario di Roma, ed essa da
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113 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
non furono effettuate dall’amministrazione centrale, ma dalla municipalità del
primo circondario nei giorni 28 glaciale anno 7 (18 dicembre 1798), 2 fiorile
anno 7 (21 aprile 1799), 12 messifero anno 7 (30 giugno 1799); per questo motivo
sono state accorpate e inserite nella tabella C insieme alla voce primo
circondario.
C. Contribuzioni per i soldati
Tipologia Costo*
Per acquisto di scarpe 450
Per acquisto di letti 104,8
I Circondario 1148,35
Totale 1703,15
*In scudi
La somma di 1148,35 scudi fu versata al primo circondario, ma non ne vennero
specificate le singole voci di spesa, si ha solo notizia che il denaro fu impiegato
per i bisogni delle truppe.
Oltre a questi prelievi, gli ebrei non furono esentati nemmeno dai ʺprestiti
forzosiʺ e dalla tassazione per l’acquisto del grano. I primi, benché ripartiti
sull’intera popolazione romana, costarono agli ebrei 19.562 scudi e 31 baiocchi.
Altrettanto importante fu la tassa sul grano, imposta il 24 piovoso anno 7 (12
febbraio 1799), che gravò su 218 individui per un totale di 728 scudi e 87
baiocchi149.
La Repubblica ʺcostòʺ moltissimo alla comunità ebraica. Nei suoi riguardi
le autorità repubblicane e quelle francesi tennero un duplice atteggiamento; da
un lato garantirono ai suoi membri l’uguaglianza e la libertà, ma dall’altro, la
considerarono come un fiume dal quale drenare continuamente denaro non
discostandosi in questo da quanto era stato fatto dai governi pontifici. Gli ebrei
erano ritenuti capaci di “produrre” denaro, quindi dovevano contribuire in
maniera adeguata al sostentamento del governo qualunque fosse stata la sua
sorte. Quanto poi questa capacità fosse reale, oppure solo frutto di una
convinzione creatasi e radicatasi nel corso dei secoli fu un problema che non
toccò gli uomini della Roma di fine Settecento.
radunarsi in contanti per la total mancanza de medesimi generi 12 messifero anno 7: 30 giugno
1799ʺ, segue un elenco di 131 persone per un totale di 73 scudi e 35 baiocchi. Ibidem. 149 Nell’ASCER sono conservati, in doppia copia, gli elenchi nominativi di chi pagò e quanto.
Ibidem.
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114 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
12. Fine della Repubblica: la città ʺrestaurataʺ (3 ottobre 1799)
Alla fine di settembre, il generale Garnier, comandante in capo dell’armata
francese, vista l’insostenibilità di qualsiasi difesa, con il territorio della
Repubblica ormai ridotto alla sola città di Roma, si decise a firmare una
capitolazione che gli permettesse di ritirarsi con i suoi uomini.
Il 29 settembre 1799 con la firma della capitolazione tra il generale francese
e il capitano inglese Troubridge, successivamente sottoscritta dal maresciallo
napoletano Emanuale De Bourcard cessò quindi di esistere la Repubblica
romana150. Il 30 settembre, una colonna di francesi, con una di repubblicani,
lasciò Roma alla volta di Civitavecchia151, dove si sarebbero imbarcate per la
Francia e, nel frattempo, le truppe napoletane entrarono in città152.
Il 2 ottobre 1799 i napoletani restarono padroni assoluti del campo153.
Come nella precedente invasione, anche in questa occasione, il popolo, una
volta resosi conto che i francesi avevano lasciato Roma, si diede a violenze e
saccheggi solo in parte arginati dalle truppe del re di Napoli e anche in questa
occasione la violenza popolare si indirizzò contro i simboli del passato governo:
il busto di Bruto che si trovava sulla Piazza Vaticana fu preso, messo su di un
carretto, imbrattato con escrementi e fatto girare in processione per la città in
una sorta di contro ‐ festa rivoluzionaria154.
Dopo i simboli, oggetto della violenza popolare furono i luoghi della
Repubblica, poi le abitazioni e, quindi, le persone dei ʺgiacobiniʺ; i quartieri
150 Il testo della Capitolazione in ASR, Miscellanea di carte politiche e riservate, b. 27, f. 921. 151 La Capitolazione prevedeva, la possibilità per i repubblicani romani di seguire le truppe
francesi oppure la possibilità di rimanere in città e nel qual caso non si sarebbero potuti
incriminare per le loro passate opinioni o per le loro attività al servizio della Repubblica. Sulla
Capitolazione cfr. M.C. Buzzelli Serafini, La reazione del 1799 a Roma. I processi della Giunta di
Stato, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», XCII, 1969, pp. 137‐211. Sugli esuli
romani cfr. V.E. Giuntella, Gli esuli romani in Francia alla vigilia del 18 brumaio, in «Archivio della
Società di Storia patria», LXXVI, 1953, pp. 225‐239, mentre in generale sul fenomeno dell’esilio e
sull’attività degli esuli italiani in Francia cfr. A.M. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in
Francia (1792‐1802), Guida Editore, Napoli, 1992. 152 ʺAll’alba cominciò l’ingresso delle truppe napoletane in sommo silenzio, e senza battere la
cassa. Ad esse furono ceduti dai francesi detti ponti e postiʺ, G.A. Sala, Diario Romano, cit., t. III,
p. 113. 153 Così l’avvocato Galimberti: ʺNella mattina alle ore 11 e minuti 45 italiane i francesi alfine
consegnarono il forte S. Angiolo alla truppa napolitana, e partirono per Civitavecchia con i
patriotti scortati da 800 uomini del reggimento Real Carolinaʺ, A. Galimberti, Memorie
dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, p. 358. 154 Il busto venne portato a far visita ai luoghi simbolo dei repubblicani: il palazzo dell’ex
console Angelucci, l’Accademia di Francia, il caffè del Veneziano, luogo di ritrovo giacobino, il
palazzo Rondanini dimora dell’ambasciatore di Francia Bertolio e infine, giunto a piazza del
Popolo, luogo simbolo delle feste repubblicane, venne garrottato, Ivi, pp. 358‐359.
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115 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
della ex guardia nazionale furono saccheggiati di tutto, comprese le armi155;
diverse case di repubblicani furono depredate e si aprì una ʺcacciaʺ al
giacobino156.
Il clima di violenza e gli atti ostili coinvolsero anche gli ebrei che, memori
di quanto era accaduto durante il primo ingresso dei napoletani, si rinchiusero
prontamente nel ghetto. La loro paura trovava una giustificazione in un
ʺestratto di lettere del cardinal Ruffo a Rodio in data 10 agosto scaduto [1799]ʺ
pubblicato dal «Monitore» nel quale si legge ʺIl Ghetto sarà la prima parte della
Città, che esporrete al saccheggioʺ157. L’autenticità di tali lettere è ancora oggi
molto dubbia ma sicuramente la notizia inquietò gli ebrei romani; spesso una
falsa notizia poteva risultare molto più pericolosa di una reale minaccia.
In ogni modo, lo stesso De Bourcard si preoccupò degli abitanti del ghetto
inviando prontamente un distaccamento di soldati per impedire abusi da parte
del popolo158.
Le preoccupazioni, sia degli ebrei che dei napoletani, trovavano una
giustificazione anche nella forte presenza delle truppe a masse che si erano
accampate nelle immediate vicinanze di Roma e che aspettavano ansiosamente
di poter entrare in città159. Quelle accampate nella vicinanze di Roma erano agli
155 ʺIl popolo corse al quartiere dei patriotti e li cacciò via a schiaffi e pugni e saccheggiò il
quartiere. Lo stesso fece all’altro quartiere patriotto della già chiesa degli Orti. Si portò anche al
monistero di S. Adriano a Campo Vaccino, ch’era la caserma de legionaria e lo saccheggiò
recando non picciolo danno a que monaci. Si portò a tutti i quartieri civici giacchè l’offizialità
era composta di tutti patriotti, ne prese le armi e li saccheggiòʺ, Ivi, p. 355. 156 ʺFurono arrestati i due celebri giacobini sacerdoti Giulietti già esiliato dal governo
pontificio… e Gattinara da Frascati... essi passeggiavano placidamente per Roma ed il primo
beveva gustosamente il caffè in una pubblica bottega, allorchè furono dal popolo arrestatiʺ, Ivi,
p. 361. Francesco Buzi venne ʺsalvatoʺ dall’arrivo dei soldati napoletani mentre il popolo
assediava la sua casa e lo stesso accadde ad uno speziale che venne arrestato, picchiato e ferito,
Ivi, p. 362. 157 Il Monitore di Roma. Foglio nazionale, n. XXIII, 21 fruttifero anno VII repubblicano e II della
Rep. Romana, (7 settembre 1799). Su queste lettere cfr. R. De Felice, Gli ebrei nella Repubblica
romana, cit., p. 246. 158 ʺUn distaccamento di Cavalleria ha subito guarnito il Ghetto per metterlo al coperto del
furore del popolo grandemente irritato contro gli Ebreiʺ, G.A. Sala, Diario romano, cit., vol. III, p.
113. 159 Le truppe a massa avevano dato un contributo decisivo per la conquista del territorio della
Repubblica Romana ed erano la diretta propaggine delle masse sanfediste che, guidate dal
cardinal Ruffo, avevano preso Napoli e costretto alla fuga l’esercito francese, cfr. B. Croce (a
cura di), La riconquista del Regno di Napoli nel 1799. Lettere del Cardinal Ruffo, del Re, della Regina e
del Ministro Acton, Laterza, Bari, 1943. Per una discussione storiografica sulle insorgenze e sul
sanfedismo cfr. A.M. Rao, ʺFolle controrivoluzionarie. La questione delle insorgenze italianeʺ, in
Ead. (a cura di), Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica,
Carocci, Roma, 1999, pp. 9‐36 e nello stesso volume il saggio di J.A. Davis, ʺRivolte popolari e
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116 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
ordini di Michele Pezza detto «Frà Diavolo», di Pronio detto «l’Abbatone», di
Antonio Caprara detto «senza culo», che abbiano già incontrato nelle vicende
legate al saccheggio delle abitazioni e dei magazzini degli ebrei di Velletri, e di
Rodio.
Il maresciallo De Bourcard risolse il problema della gestione delle masse
vietando il loro ingresso in città adducendo motivi di ordine pubblico. Le sole
truppe a massa a cui fu consentito l’ingresso in città furono quelle agli ordini di
Rodio e di Pronio160. Più tardi, l’8 ottobre, fu permesso anche ad Antonio
Caprara di entrare a Roma seguito da non più di ottanta uomini161, mentre Fra’
Diavolo e i suoi furono tenuti sempre a distanza, dal momento che avevano
manifestato la volontà di saccheggiare il ghetto162.
I timori napoletani dovevano avere un loro fondamento, se i diaristi
furono concordi nel riportare la volontà delle masse di saccheggiare la città e in
special modo il ghetto; valgano per tutti le parole di Sala «Già molti [uomini
delle masse] si mostrano disgustati, sia perché dicono esser stato loro promesso
il saccheggio del Ghetto, senza che poi siasi tenuta parola»163. Ad ogni modo,
controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale, ivi, pp. 349‐368. Sul tema del mezzogiorno e
della rivoluzione esiste una bibliografia molto ampia, qui si rimanda, senza alcuna pretesa di
esaustività solo a G. Gingari, Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799, D’anna, Firenze, 1957; P.
Villani, Società rurale e ceti dirigenti (XVIII‐XX secolo). Pagine di storia e Storiografia, Morano,
Napoli, 1989; A.M. Rao, ʺTemi e tendenze della recente storiografia nell’età rivoluzionaria e
napoleonicaʺ, in A. Cestato, A. Lerra (a cura di), Il Mezzogiorno e la Basilicata fra lʹetà giacobina e il
decennio francese, Osanna, Venosa, 1992; Ead., Mezzogiorno e rivoluzione: trent’anni di storiorafia, «Studi Storici», 37, 1996, pp. 981‐1041; R. Colapietra, Per una rilettura socio‐antropologica
dell’Abbruzzo giacobino e sanfedista, La città del Sole, Napoli, 1995; D. Scafoglio, Lazzari e giacobini.
Cultura popolare e rivoluzione a Napoli nel 1799, L’Ancora, Napoli 1999; A. Spagnoletti, Uomini e
luoghi del 1799 in Terra di Bari, Edipuglia, Bari, 2000; A. Massafra (a cura di), Patrioti e insorgenti
in provincia: il 1799 in Terra di Bari e Basilicata: atti del Convegno di Altamura‐Matera, 14‐16 ottobre
1999, Edipuglia, Bari, 2002; L. Addante, Repubblica e controrivoluzione. Il 1799 nella Calabria
cosentina, Vivarium, Napoli, 2005. 160 Memorie da servire per il diario di Roma, cit., c. 387 e A. Galimberti, Memorie dell’occupazione
francese in Roma, cit., t. I, p. 366; le truppe di Pronio dettero molti problemi e cinque giorni dopo
il loro ingresso, il 15 ottobre 1799, vennero inviati a Marino con l’ordine di controllare la zona
dei Castelli romani. Nonostante questo incarico commisero saccheggi, violenze e molti di loro
disertarono. 161 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, p. 365. 162 ʺLa Divisione della truppa di massa comandata da Frà Diavolo, che si trovava accampata
fuori di Porta S. Giovanni, faceva dello strepito, che voleva entrare dentro Roma per
saccheggiare il Ghetto, e le case de’ Giacobini, come erano state le promesse fattegliʺ, F.
Fortunati, Avvenimenti sotto il pontificato di Pio VI, cit., c. 371v. 163 G.A. Sala, Diario romano, cit., vol. III, p. 122 e Fortunati scrive: ʺlagnandosi che le promesse
fattegli dal General Bourcard, erano di farli entrare in Roma, saccheggiare il ghetto, e le case
delli giacobbiniʺ, F. Fortunati, Avvenimenti sotto il pontificato di Pio VI, cit., c. 367r.
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117 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
molti insorgenti entrarono alla spicciolata in Roma e commisero diverse
violenze, spesso con la complicità di ufficiali del Regno.
L’utilità delle masse era cessata e i napoletani decisero di liberarsene; dopo
averne ordinato lo scioglimento, i capi furono messi in prigione, non volendosi
arrendere alla mutata situazione politica164.
Le paure degli ebrei furono più che giustificate. Anche se le truppe a
massa non entrarono in città, la violenza popolare contro di loro era pronta ad
esplodere in ogni momento; ne è prova un episodio accaduto il 3 ottobre 1799
quando alcuni ebrei provarono ad uscire dal ghetto, forse spinti da necessità, e
vi dovettero prontamente rientrare ʺper la furia del popoloʺ165. Inoltre, la
presenza di Caprara li dovette inquietare molto, non solo per la sua
partecipazione ai fatti del novembre 1798, ma anche perché tra i capi di
imputazione che gli venivano addebitati vi era quello di aver ucciso e derubato
Sabato Moisè Toscano, a Cisterna, mentre guidava i suoi uomini verso Roma166.
È ragionevole ipotizzare che la comunità fosse a conoscenza di un tale fatto e
vedere l’assassino di un ebreo girare per Roma con la scorta dei suoi uomini
doveva essere motivo di un giustificato timore.
Dal 30 settembre al 10 ottobre 1799, la città fu controllata dal maresciallo
De Bourcard, che venne sostituito dal generale Diego Naselli, giunto con
l’incarico di ʺComandante generale militare e politico dello Stato romanoʺ, che
impresse una decisiva svolta nell’azione di governo167. Uno dei suoi primi atti fu
164 Questa fu la sorte di Antonio Caprara e di Fra’ Diavolo arrestati rispettivamente il 17 e il 23
ottobre 1799 con quello che restava dei loro uomini. Caprara venne scarcerato il 14 gennaio 1800
mentre Fra’ Diavolo non aspettò in carcere l’esito del processo e fuggì da Castel S. Angelo nella
notte fra il 3 e il 4 dicembre 1799, cfr. M. Rossi, Lʹoccupazione napoletana di Roma 1799‐1801,
«Rassegna storica del Risorgimento», XIX, 1932, pp. 693‐732, specialmente pp. 701‐702. Su Fraʹ
Diavolo esiste una bibliografia sterminata, spesso di scarso o di nessun valore qui si ci limitiamo
a citare il volume di F. Barra, Michele Pezza detto Fra’ Diavolo. Vita, avventura e morte d’un
guerrigliero dell’800 e le sue memorie inedite, Avagliano Editore, Cava dei Tirreni, 1999, sulla
spedizione romana pp. 63‐79. 165 Così scriveva Galimberti. ʺQualche ebreo si azzardò ad uscire dal ghetto, fu preso però dal
popolo a urli e sassate, di maniera che dovette ritirarsi in qualche bottega, che fu chiusa e poscia
ritirarsene in fretta in ghettoʺ, A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, p.
360 e G.A. Sala, Diario romano, cit., vol. III, p. 120. 166 Le imputazioni si leggono in una lettera inviata da Giuseppe Cuti, Presidente della Giunta
Militare il 7 dicembre 1799 all’ammiraglio inglese Acton, pubblicata in M. Rossi, Lʹoccupazione
napoletana di Roma, cit., pp. 728‐729. 167 Sull’azione del generale Naselli e più in generale sulla situazione dell’amministrazione dello
Stato pontificio cfr. D. Cecchi, L’amministrazione pontificia nella I restaurazione (1800‐1809),
Deputazione di Storia patria per le Marche, Macerata, 1976.
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118 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
lo scioglimento della Giunta provvisoria di governo e l’istituzione di una
Suprema Giunta di governo a cui affidò il compito di controllare la città168.
Proseguendo nell’opera di controllo dell’Urbe, il generale Naselli si rese
conto della necessità di riorganizzare anche i tribunali e soprattutto di elaborare
un sistema che consentisse di smascherare, processare e condannare tutti gli ex
repubblicani che ancora si trovavano in città. Con un editto del 10 novembre
1799, rimpiazzò la giunta criminale, istituita il 4 novembre 1799, con una
ʺSuprema Giunta di Statoʺ incaricata di ʺvegliare sopra quelli che, nemici
essendo dello stato ne turbavano la tranquillità ed il buon ordine e per punirli
con quella giusta severità che loro corrispondevaʺ169.
Nella sua azione, che fu decisa e tutto sommato rapida, il generale Naselli
non poté non preoccuparsi della sorte degli ebrei; il 16 ottobre 1799, il ghetto
risultava essere ancora chiuso e due ebrei, avendo deciso di tentare la sorte per
recarsi al mercato a vendere le loro stoffe, vennero malmenati e derubati della
168 La Giunta era formata dai principi Aldobrandini e Gabrielli, dal marchese Massimo e da
Giovanni Ricci, cfr. D. Cecchi, L’amministrazione pontificia nella I Restaurazione, cit., p. 3.
Seguirono poi provvedimenti riguardanti l’ordine pubblico: furono espulsi tutti i forestieri che
non risiedessero in città da almeno due anni; stessa sorte toccò a tutti i cittadini pontifici che si
erano rifugiati a Roma e che vennero obbligati a tornare nelle proprie città e paesi di
appartenenza; anche coloro che avevano esercitato una carica qualsiasi sotto il passato governo
e che non erano romani dovettero lasciare la città; sui provvedimenti presi dal generale Naselli,
cfr. M. C. Buzzelli Serafini, La reazione del 1799 a Roma, cit., pp. 147‐152 169 Sulla Giunta di stato cfr. M.C. Buzzelli Serafini, La reazione del 1799 a Roma, cit. pp. 151‐152,
l’editto in ASR, GdS, b. 16, f. 233, c. 6rv, ʺEditto della Suprema Giunta di Governoʺ 10 novembre
1799. Un inventario del fondo in L. Topi (a cura di), Giunta di Stato (1799‐1800). Inventario,
«Archivi e Cultura», XXIII‐XXIV, (1990‐1991), Roma, 1992, pp. 165‐260. La Giunta era formata
dal cavalier Giacomo Giustiniani in qualità di Presidente, giudici gli avvocati Alessandro
Tassoni, Giovanni Battista Paradisi e Francesco Maria Rufini, avvocato del Fisco Monsignor
Giovanni Barberi, avvocato dei Rei di Stato fu designato monsignor Agostino Valle. È
interessante qui notare come nella Giunta convivessero elementi vicini alla Repubblica come
Tassoni e Rufini che avevano ricoperto cariche nel governo repubblicano accanto ad acerrimi
antigiacobini come monsignor Barberi ex fiscale generale del governo pontificio, espulso da
Roma, processato e condannato in contumacia durante la Repubblica; Tassoni e Rufini sono
citati in una ʺNota di taluni Giacobini ed Impiegati anche Forastieri in tempo della Repubblica,
che dimorano in Roma e sino anche in caricaʺ, si tratta di una lettera memoriale con allegata una
lista di circa quaranta persone redatta da Bonifacio Cataldi, nominato ispettore di polizia dal
governo napoletano, ASR, Misc. Pol. Ris, b. 28, f. 982; su monsignor Barberi cfr. L. Londei,
Giovanni Barberi fiscale generale, cit. Questo strano connubio era figlio della politica del generale
Naselli che, in accordo con il cardinale Consalvi, tendeva ad una riconciliazione verso gli ex
repubblicani, soprattutto se moderati e altolocati, che si fossero mostrati pronti ad abbandonare
le idee della rivoluzione e a riconvertirsi al governo, mentre intese reprimere con durezza l’ala
più radicale del giacobinismo romano: per un’analisi di tale politica e degli effetti che essa sortì
cfr. M. Caffiero, Perdono per i giacobini, severità per gli insorgenti: la prima Restaurazione pontificia,
A.M. Rao (a cura di), Folle controrivoluzionarie, cit., pp. 291‐324.
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119 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
loro mercanzia dai soldati napoletani170. Tale situazione non poteva perdurare,
sia per il continuo pericolo di disordini, sia per l’impossibilità per gli ebrei di
trovare il sostentamento necessario a vivere, ma forse ciò che spinse il generale
ad occuparsi della questione fu la necessità di imporre alla comunità nuove
tasse in denaro e in beni mobili da destinare alla truppa e alle esigenze della
città.
L’università degli ebrei aveva già dovuto provvedere alle necessità di
Palazzo Farnese, dove il generale Naselli si sarebbe insediato una volta giunto
in città. L’elenco conservatosi è molto interessante: agli ebrei venne ordinato di
arredare completamente le stanze che sarebbero servite ad uso del generale e
del suo seguito, infatti accanto alla fornitura di letti e pagliericci completi di
tutti gli accessori (materassi, paglioni, lenzuoli, coperte, trapunte, cuscini,
federe) si trovano sessantacinque sedie damascate e ventiquattro di paglia, nove
comodini, sette comò, una scrivania, due tavolini grandi e 3 piccoli e altri
oggetti di uso quotidiano171. Benché si trattasse di oggetti che gli ebrei erano
soliti trattare, la richiesta fu avanzata con un preavviso brevissimo172.
Ma, la più grande contribuzione che fu imposta all’università riguardò la
fornitura militare per il bisogno dell’armata napoletana; le vennero infatti
comandati letti e vestiario per i soldati. Sin dal 3 ottobre 1799 il maresciallo De
Bourcard ordinò alla comunità di fornire una serie di letti per gli ufficiali e da
quel momento tali richieste non fecero che aumentare173. L’8 ottobre 1799
vennero ordinati mille paglioni da due posti e cento letti ʺnobili finiti da
uffizialiʺ; successivamente venne creata una Deputazione per gli Alloggi con il
compito di gestire il problema di come alloggiare e far mangiare un esercito
numeroso come quello napoletano.
La gravosità delle richieste era tale che il 10 ottobre la comunità dichiarò
di non essere in grado di provvedere ai letti commissionati. Infatti, il costo di un
letto nuovo era di circa 23 scudi e 25 baiocchi, mentre quello di un letto
composto di materiali usati si aggirava sui 16 scudi174. Ad una tale rimostranza,
la risposta del governo fu l’imposizione di una contribuzione speciale di 10 mila
piastre in conto della fornitura175. Da quel momento ogni richiesta fu
accompagnata dalla minaccia dell’imposizione di una tassa in denaro
170 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, p. 373. 171 ASCER, AMM Uni. EdR, Amm. Cont, RR, 1Th (parte II). 172 ʺLa suddetta robba [la mobilia] si deve consegnare per oggi alle ore 20 e li paglioni per
domaniʺ, Ibidem. 173 ʺSi ordina di tener pronti per domani cento letti per l’ufficiali consistenti in pagliacci,
materazzi, banchi e tavole con suoi lenzuoliʺ, e il giorno successivo vennero aggiunti altri cento
letti, sempre per il bisogno dell’armata, Ibidem. 174 Queste cifre sono prese da un foglio di conti conservato in Ibidem. 175 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, p. 367.
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120 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
corrispondente al doppio del valore della richiesta stessa se non si fosse
adempiuto all’ordine176.
Il 22 ottobre 1799 si assisté ad un cambiamento del sistema impositivo.
Infatti, le richieste non vennero indirizzate alla comunità in quanto tale, ma ai
singoli ebrei, in base ad un riparto di cui purtroppo non si è conservata traccia. I
napoletani ʺrecuperaronoʺ un sistema di tassazione di tipo personale, introdotto
con la Repubblica, ritenendo forse che si adattasse meglio al conseguimento del
risultato. Fu ordinato un quantitativo di paccotte di borgonzone da cui
ricavarne delle coperte, che si sarebbero infine dovute consegnare in varie
caserme e i singoli che ricevettero un tale ordine vennero ritenuti
personalmente responsabili della sua esecuzione. L’imposizione consente anche
di individuare furono gli uomini, all’interno della Comunità, in grado di
soddisfare una tale richiesta177:
Cognome e Nome Numero di
Paccotte
Baraffael 60
Tedesco Sabato 20
Fiano Salomon 20
Vito Isacco 40
Trionfo 40
Rosselli 40
Modigliano 40
Ascarelli 40
Di Tivoli Vitale 40
Di Porto Samuel 40
Della Rocca 40
Totale Paccotte 420
Da un «Foglio informativo» inviato dalla Comunità al Re di Napoli,
apprendiamo che il numero di coperte confezionate fu di 19.299; si trattò,
quindi, di uno sforzo molto gravoso178. L’onerosità della richiesta trovò una sua
176 Numerosi sono gli esempi in tal senso che si potrebbero fare. Nelle carte dell’ASCER si sono
trovate molte di queste richieste accompagnate da una tale minaccia; qui riportiamo come
esempio quella contenuta in una lettera inviata dal Presidente della Giunta di governo il 17
ottobre 1799 alla comunità nella cui parte finale si legge: ʺEd in caso di contravvenzione sarà
subito ed irremisibilmente sottoposta l’Università ad una contribuzione in piastre per il doppio
di ciò che si è richiestoʺ, ASCER, AMM Uni. EdR, Amm. Cont, RR, 1Th (parte II). 177 Tutte le richieste sono conservate in Ibidem. 178 Ibidem.
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121 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
ragione in quanto accadde pochi giorni dopo. Il 27 o 28 ottobre 1799, il generale
Naselli, in previsione dell’arrivo di truppe napoletane e russe, chiese alla
Giunta di governo di fornire un numero molto alto di letti, necessari per alcune
migliaia di uomini. La Giunta rispose che ʺconveniva gravarne il ghetto, giacché
gli ebrei erano quelli, che avean fatto monopolio di lettiʺ, ma la risposta del
generale, stavolta, fu di un tenore molto diverso, ʺnon conveniva in ogni
occasione… gli aggravi su i soli ebrei; che Roma ancora dovea offrire qualche
cosa per la sua liberazione, che perciò si distribuisse la contribuzione fra tutti i
rioni della cittàʺ179.
Nel periodo tra il 2 ottobre e il 3 novembre 1799, la comunità consegnò
beni per un valore complessivo di 5865 scudi e 22 baiocchi. Tra questi spiccano
516 arazzi di cui 198 di broccatello, 796 paglioni a due posti, 769 tavole da letto,
122 materassi, 116 capezzali, 447 coperte, 248 lenzuola oltre a cuscini e federe; a
questi vanno aggiunte 66 sedie di damasco e 80 di paglia più comodini,
scrivanie e tavoli vari e 100 sacchi di iuta. In tutto gli ebrei procurarono da
dormire ad oltre millecinquecento uomini, senza contare gli ufficiali che non
vennero compresi in questo calcolo180.
Anche le richieste di vestiario furono molto gravose: purtroppo non si
dispone della stessa messe di documenti che si ha per la fornitura dei letti, ma
in una ʺNota delle contribuzioniʺ si legge che, tra il 12 novembre 1799 e il 15
maggio 1800, vennero confezionate per la truppa napoletana 3826 cappotti, 3182
pantaloni, 3066 mutandoni e 1471 coperte per i cavalli, per una spesa
complessiva di scudi 809 e 5 baiocchi181. In questo caso, come nel precedente,
risalta fortemente il peso che gli ebrei dovettero sopportare.
La comunità dovette versare anche la tassa per la sussistenza dei grani in
ragione di 2600 scudi e quella per i bisogni della Giunta di governo di 1400
scudi182. Il dazio sulla provvista dei grani provocò tensioni fra gli ebrei e il
governo; al loro rifiuto per il pagamento, il ghetto venne circondato dalla
cavalleria che ne impedì l’uscita, e si impose una penale di 1000 piastre per ogni
giorno di ritardato pagamento: la gomunità, spaventata da tale minaccia, versò
179 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, pp. 381‐382. Nonostante tale
ordine la quota spettante al ghetto fu sicuramente cospicua; dalle carte della comunità abbiamo
potuto riscontrare il numero di circa quattrocento letti doppi ordinati nei giorni che vanno dal
27 ottobre al 21 novembre 1799, ASCER, AMM Uni. EdR, Amm. Cont, RR, 1Th (parte II). 180 Si tratta di un ʺElenco delle robbe date dall’Università degli ebrei per ordine del Supremo
Tribunale della Giunta e della Deputazione degli Alloggi per servizio della truppa di S. M. Re
delle due Sicilieʺ, Ibidem. 181 ʺNota delle contribuzioniʺ cit., Ibidem. 182 Ibidem.
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122 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
un acconto della tassa e dal governo fu tolta la guardia; gli ebrei poterono uscire
dal ghetto, ma ʺtutto il popolo si rallegrò con essi per beffaʺ183.
Accanto alla documentazione relativa alla tassazione, si trovano nelle carte
dell’ASCER una miriade di ricevute per spese, anche piccole, ma che dovettero
risultare molto odiose e che testimoniano dell’acredine verso una comunità
accusata di aver parteggiato per la Repubblica e quindi vessata anche con
intenti vendicativi184.
Nel rapporto tra il generale napoletano, la città di Roma e gli ebrei non vi
furono, però, solo motivazioni di carattere economico, ma anche di tipo
simbolico. Nel processo di risacralizzazione dell’Urbe diveniva impellente la
necessità di trovare un’adeguata ʺsistemazioneʺ agli ebrei.
Ripresa Roma ai repubblicani questa dovette essere risacralizzata per
poterle far assumere il ruolo di guida propulsiva della nuova chiesa che si
opponeva ai principi rivoluzionari; le sue piazze, le sue strade, le targhe,
insomma, tutto ciò che ricordava i francesi doveva essere abbattuto e sostituito
affinché la Roma repubblicana fosse cancellata e si potesse far rivivere la Roma
papale185.
Sotto questo aspetto molto importante fu la cerimonia di innalzamento
della croce sulla piazza del Campidoglio, il 17 novembre 1799. Il luogo prima di
tutto: qui era stata proclamata la Repubblica, rogato l’ ʺAtto del popolo
183 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. II, p. 454. 184 Si va dalla mancia ad un ufficiale, all’acquisto di olio e aglio per i soldati, al noleggio di una
vettura, al pagamento di facchini per il trasporto di arazzi e altri oggetti, etc. Le cifre non sono
mai alte, uno scudo, uno scudo e mezzo, pochi baiocchi ma proprio questa esiguità fa risaltare
l’odiosità di tali prestazioni; citiamo qui per tutte solo una ʺNota di spese minute dalli 4 ottobre
a tutto il 4 novembre 1799ʺ, ASCER, AMM Uni. EdR, Amm. Cont, RR, 1Th (parte II). 185 Uno dei primi atti fu quello di far scoprire le immagini sacre poste agli angoli delle strade,
quelle immagini che, piangendo nel 1796, avevano dato vita ad un grande moto di religiosità
popolare e che la Repubblica aveva coperto per impedire il ripetersi dei ʺmiracoliʺ, ma anche
per preservarle da possibili oltraggi: ʺSi viddero di nuovo riposte ai loro luoghi per le strade
l’immagini della beatissima Vergine, che nel governo repubblicano erano state levateʺ, A.
Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, p. 361; gli alberi della libertà
vennero immediatamente abbattuti e al loro posto, dove già in precedenza sorgevano, vennero
innalzate le croci, come accadde il 10 ottobre 1799 ʺall’obelisco del monte Quirinale fu tolto
l’albero con la berretta postavi dalla Repubblica e vi fu ripristinata la croceʺ. Id., Memorie
dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, p. 367; il doppio gesto di svellere l’albero e di
ripristinare la croce fu il segno visibile della fine della Repubblica. La croce, simbolo del ʺcentro
del mondoʺ, segno e strumento della rigenerazione religiosa e quindi elemento portante su cui
far ruotare tutta la città, doveva essere prontamente ripiantata; sul valore della croce cfr. M.
Eliade, Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico‐religioso, Jaca Book, Milano, 1980, pp. 144‐
146. Si veda anche M. Ozouf, La fête révolutionnaire, cit., p. 315; più in generale sulla
risacralizzazione di Roma, cfr. M. Caffiero, La risacralizzazione della città profanata, cit., pp. 149–
158.
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123 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
sovranoʺ e innalzata la colonna in memoria del generale Duphot; era questa la
piazza della Repubblica, da sempre simbolo del potere comunale, schiacciato
dal governo del papa e qui, dunque, doveva ʺrisorgereʺ la croce, simbolo del
potere della Chiesa. Il Campidoglio fu occupato dalla truppa schierata in alta
uniforme e dal popolo; il governo, il generale Naselli e la nobiltà romana
presero posto sulle balaustre e monsignor Vicegerente, vestito dei paramenti
sacri, benedisse la croce, tra le grida di giubilo dei romani, suggellando, in
questa maniera, il restaurato potere186.
La grande cerimonia di riconquista finale della città fu l’ingresso del
nuovo pontefice Pio VII, che avvenne il 3 luglio 1800. La solenne processione si
snodò tra le grida del popolo, i suoni delle orchestre e gli spari dell’artiglieria,
passando sotto un Arco di Trionfo innalzato a Piazza del Popolo attraverso via
del Corso e San Pietro per concludersi, infine, al Quirinale187.
All’interno di questi riti di purificazione e di riparazione rientrarono a
pieno titolo gli ebrei. Il loro essere ricondotti nell’alveo della tradizione fu
necessario, non solo per calmare gli animi della popolazione, ma anche per
completare il processo di risacralizzazione della città. Quindi per mostrare
plasticamente il ristabilimento di un antico ordine venne imposto agli ebrei di
rimettere il segno giallo. Due sono le disposizioni che il generale Naselli emanò
su tale questione, il primo fu un proclama del 23 ottobre 1799 con il quale si
autorizzano gli ebrei ad uscire dal ghetto, per ʺprovedersi da loro medesimi
delle vettovaglie, e tutt’altro, che poteva occorrergliʺ purché portino il
ʺconsueto sciamannoʺ188, mentre il secondo fu un editto, quindi una
disposizione dal valore di legge molto più forte di un proclama, emanato il
giorno successivo (24 ottobre 1799) e di tutt’altro tenore nel quale si leggeva:
Non può riguardarsi, che come un intollerabile abuso il contegno, che finora si è tenuto dagli
ebrei, di continuare a godere del permesso loro accordato in tempo del passato sedicente
Governo Repubblicano, di non portare più il segno, che li distingue dalli cristiani. Ordiniamo
dunque a tutti gli Ebrei dell’uno e l’altro sesso, che dopo le 24 ore dalla pubblicazione del
presente editto, non possano più uscire dalle porte del Ghetto senza il segno visibile che per
186 La descrizione della festa in A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I,
pp. 392‐393. 187 Ivi, pp. 492‐494. Una descrizione della processione in F. Cancellieri, Storia de’ solenni possessi
deʹ sommi pontefici detti anticamente processi o processioni dopo la loro coronazione dalla Basilica
Vaticana alla Lateranense dedicata alla Santita di N.S. Pio 7. P.O.M, Presso Luigi Lazzarini
Stampatore della R.C.A., Roma, 1802, pp. 469‐478. 188 F. Fortunati, Avvenimenti sotto il pontificato di Pio VI, cit., c. 375v.
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124 M. Militi, Il costo della Repubblica "sorella"
l’avanti hanno sempre portato, sotto pena ai contravventori di essere immediatamente arrestati,
e puniti colle pene stabilite, e con altre a nostro arbitrio»189.
Sia il proclama che l’editto terminavano con la proibizione da parte dei
cristiani di molestare oppure insultare gli ebrei, sotto pena di essere arrestati
come perturbatori, ma, tra le due disposizioni vi è una notevole differenza.
Nell’editto erano scomparse le motivazioni dettate dalla necessità di procurarsi
il cibo, presenti nel proclama, e si reclamava per gli ebrei il ritorno ad un
ʺcontegnoʺ consono con il restaurato governo ed il 30 ottobre 1799 si videro
nuovamente gli ebrei circolare per la città con indosso lo sciamanno190.
Il ripristino del segno giallo fu un ulteriore segnale della cancellazione
della Repubblica. Fu necessario, affinché tale operazione si concludesse,
ʺseparareʺ di nuovo gli ebrei dai cristiani, non solamente in modo fisico
ripristinando i portoni del ghetto, ma soprattutto mostrando a tutta la città il
loro essere diversi e solo rimettendogli indosso quel ʺsegnoʺ si sarebbe potuta
rendere nuovamente visibile l’alterità che li separava dai cristiani.
189 ASCER, AMM Uni. EdR, Amm. Cont, RR, 1Th (parte II). Notizia di questo editto in A.
Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, p. 378 e Memorie da servire per il
diario di Roma, cit., c. 408. 190 A. Galimberti, Memorie dell’occupazione francese in Roma, cit., t. I, p. 381.