nel mondo degli affetti. della creatività. del benessere. · ... ho imparato che niente ti può...

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Nel mondo degli affetti. Della creatività. Del benessere. Anno XXXIII - n° 2 - dicembre 2016

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Nel mondo degli affetti. Della creatività. Del benessere.

Anno XXXIII - n° 2 - dicembre 2016

Fondatrice:

Ada Burrone.

Consiglio Direttivo:

Alberto Ricciuti, Arianna Leccese, Caterina Ammassari, Maria Lisa Di Latte, Claudio Fochi, Giovannacarla Rolando, Bernardina Stefanon.

Collegio dei Sindaci:

Flavio Brenna, Mauro Bracco, Luciana Dolci, Giusi Lamicela, Carlo Vitali.

Comitato Scientifico:

Stefano Gastaldi, Manuela Provantini, Serena Ali, Bettina Ballardini, Fabio Baticci, Franco Berrino, Nicoletta Buchal, Chiara Caldi, Massimo Callegari, Salvo Catania, Francesco Della Beffa, Roberto Labianca, Marina Negri, Willy Pasini, Alberto Ricciuti, Giorgio Secreto, Sandro Spinsanti, Paolo Veronesi, Claudio Verusio, Livia Visai.

Per tradizione, Attivecomeprima Onlus offre la Presidenza Onoraria al Sindaco di Milano.

EditorialeCarissimi Amici,

anche quest’anno, così velocemente passato, Attivecomeprima ha potuto dare risposta ai bisogni di chi ha bussato alla sua porta grazie alla generosità di chi crede nel valore del suo lavoro. Non è per ragioni di circostanza, ma è con la mano sul cuore che vogliamo esprimere gratitudine e riconoscenza a tutti coloro che ci hanno aiutato a poter offrire gratuitamente i nostri servizi a chi deve affrontare un momento così difficile della vita. E un grazie particolare va anche alle Aziende che hanno sostenuto il nostro lavoro e i nostri progetti. Ed è bello riconoscere che, anche in questo caso, ciò è potuto avvenire grazie all’incontro con persone di particolare qualità umana e sensibilità per temi così delicati e importanti per la vita delle persone e dei loro cari.

Il cancro manda la vita in pezzi, ma aiutare a ricostruirla è possibile; anzi, è per noi un dovere etico, perché la salute di ogni singola persona non è solo il bene dell’individuo, ma è anche un bene comune che merita attenzione ed esige responsabilità. Per questo sosteniamo da sempre che il supporto alla persona e ai suoi cari dev’essere considerato parte integrante della cura.

Grazie quindi a tutti voi che ci leggete, con l’augurio che le ormai prossime festività possano comunque essere, pur nelle diverse sensibilità, un’occasione per alzare lo sguardo insieme verso un orizzonte di speranza e serenità.

Arrivederci al Nuovo Anno e buona lettura!

ATTIVEcomeprima Onlus

Via Livigno 3,

20158 Milano

Tel +39 02 6889647

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Periodico trimestrale

Anno XXXIII - N° 2 Dicembre 2016

La rivista è posta sotto la tutela delle leggi della stampa. Gli articoli pubblicati impegnano esclusivamente la responsabilità degli autori. La riproduzione scritta dei lavori pubblicati è permessa solo dietro autorizzazione scritta della Direzione

Direttore responsabile: Alberto Ricciuti

Vice Direttore: Serena Ali

Redattore: Caterina Ammassari

Hanno collaborato: Serena Ali, Angela Angarano, Nicoletta Buchal, Daniela Condorelli, Stefano Gastaldi, Manuela Provantini, Alberto Ricciuti, Sandro Spinsanti, Anna Villarini.

Proprietà della testata: © Ass. Attivecomeprima Onlus

Direzione, Redazione, Amministrazione: Attivecomeprima Onlus 20158 Milano Via Livigno, 3 Tel. 026889647 Fax 026887898 Email: [email protected] www.attive.org

Progetto grafico e impaginazione: Alessandro Petrini

Attivecomeprima Onlus

Autorizzazione del Tribunale di Milano n° 39 del 28/1/1984

L’Associazione è iscritta:

- All’Albo delle Associazioni, Movimenti e Organizzazioni delle donne della Regione Lombardia

- Al Registro dell’Associazionismo della Provincia di Milano

- Al Registro Anagrafico delle Associazioni del Comune di Milano

- All’Albo delle Associazioni della Zona 9 del Comune di Milano

- Alla Società Italiana di Psiconcologia (S.I.P.O.)

- Alla F.A.V.O. (Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia)

Attivecomeprima aderisce al movimento di opinione “Europa Donna Italia”

Editoriale 1

AVVENTURA Passioni estreme / Daniela Condorelli 4

IL LINGUAGGIO DEGLI AFFETTI Fragilità / Stefano Gastaldi 6

TRA MEDICO E PAZIENTE L’intelligenza delle nanosfere / Alberto Ricciuti 8

VIVERE IL CAMBIAMENTO Tra cinema e cura: la Cinematerapia / Serena Ali 11

CAREGIVER Sguardo allargato / Daniela Condorelli 13

PARLAMI DI TE Che giornata! / Nicoletta Buchal 16

LA MEDICINA CHE CI ASPETTIAMO L’infermiere immaginato / Sandro Spinsanti 19

NUTRIRE IL BENESSERE Chi mangia sano a capodanno... / Anna Villarini 21 Le ricette di Angela / Angela Angarano 23

PROFILI Un premio al coraggio / Caterina Ammassari 25

Letti e piaciuti / a cura di Serena Ali 27

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Sommario

Avventura

“È più una battaglia della mente che del fisico: una sfida. Il test più puro per corpo e spirito”. Giuliano Pugolotti, cinquantaseienne pubblicitario di Parma, un paio di volte l’anno lascia tutto “sul gradino di casa” e si cimenta con traversate di deserti, maratone ai confini della civiltà o sui sentieri lenti del tetto del mondo. Tornato da poco dal deserto del Kizilkum tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, si racconta ad Attive.“Quello che ho affrontato è un deserto che non ti immagini, quasi africano, fatto di dune, caldo e vento. E poi la steppa, dove non ero mai stato. Lì nascono venti cattivi e il nulla sembra ucciderti la mente”. Giuliano corre nei posti più estremi del pianeta. Ma corre soprattutto dentro se stesso, in profondità, dove scopre la sua verità. “Sono caduto sette, otto volte, sbattuto dal vento: il paesaggio era incredibile, lunare. Lì, nel cuore dell’Asia, non c’è nulla, non c’è alcuna traccia di storia o di civiltà. Sei da solo e sopravvi-vi solo se diventi parte di quel luogo. Dopo anni di

allenamento, ho imparato che niente ti può sorpren-dere perché dentro di te c’è la risorsa per affrontare qualsiasi cosa”. Prima del deserto rosso del Kizilkum, Giuliano era stato sul tetto del mondo. “Ho impiegato sei mesi per allenarmi: non avevo mai corso in montagna. Ma ce l’ho fatta. Con le mani viola, stremato dalla fatica, ho avuto la conferma ancora una volta che il nostro fisico è una macchina meravigliosa, che si adatta a tutto. Un po’ come accade ai pastori di Yak, con la loro lentezza estrema provocata dalla scarsità di ossigeno, temprati da un clima che scende a meno cinquanta gradi in inverno e supera i quaranta gradi in estate”. E aggiunge: “Le persone non sanno di avere queste risorse, di essere all’altezza di ciò che si prefiggono. Fondamentalmente penso che non credano in sé stesse”.Prima ancora Giuliano si era cimentato con una tra-versata di 250 chilometri in Islanda, tra ghiacci, venti

Passioni estreme

e terreni con il fondo di lava. E solo pochi mesi prima era tornato dal Marocco dove aveva percorso corren-do quasi duecento chilometri nel deserto, unico italia-no iscritto alla Extreme Desert Cup. Una sfida, la sua, cominciata per spirito di contraddizione, per tentare ciò che sembra impossibile. Ora è al suo ventesimo deserto. Ricorda così gli inizi: “La prima volta è stata in Tunisia, una cento chilometri in quattro giorni. Non ero mai stato in un deserto, non avevo mai dormito all’aperto. Ora dormo ovunque, per terra, nel nulla a perdita d’occhio. Ma quella volta, la prima reazione è stata scappare. Avevo paura, non ho chiu-so occhio, non ero preparato ad affrontare lo spazio vuoto. So che non c’è una logica in ciò che faccio, non c’è razionalità, ma l’istinto e la volontà di far parte di un luogo che non mi appartiene, il più ostile che si possa trovare, hanno la meglio”. Giuliano lo chiama con rispetto “monsieur le desert”, ma anche il mostro. “Perché è lui che decide se puoi passare, che ti smonta pezzo per pezzo, sradica le tue certezze, ti azzera, ti pone di fronte a debolezze e paure”. E continua: “Da noi tutto è mitigato dalle condizioni sociali. Nel deserto non conta più nulla, né i soldi, né la macchina, nemmeno le scarpe che hai scelto di indossare. Sei tu. Se non hai una personalità forte non sei nessuno. E quando sei lì non sei nean-che davvero in competizione con gli altri concorrenti della maratona, ma con te stesso. Sei lì per sfidare le leggi della natura, dominare il deserto, convivere con le tempeste, con il mostro di sabbia che, se ti fermi, ti annulla, ti ingloba. In Marocco la tempesta di sabbia era così forte che dietro di me la corsa è stata sospesa. È questa la parte difficile: non sentire il vento, la fatica, i piedi che urlano, ore e ore senza vedere nessuno. L’unico modo per sopravvive-re è diventare parte del luogo, come un Tuareg, trovare un equilibrio e, soprattutto, lasciare tutto alle spalle. Sul gradino di casa”. Continua così, questo saggio ultrarunner che ha trovato

se stesso nella sfida contro l’estremo: “Nel deserto non ti serve nulla, devi spogliarti di tutto. E impari a non aver paura della vita, a prendere decisioni da cui dipende la tua esistenza. Da solo, senza nessuno che ti dica cosa fare”. Ma Giuliano, maratoneta dei deser-ti, è soprattutto l’incarnazione delle potenzialità della natura umana: “È impressionante ciò che il nostro fisico riesce a fare. Oggi corro 250 km senza fermar-mi neanche a dormire e sono convinto che potrebbe farlo chiunque, a patto di essere sano. Bisogna innamorarsi del corpo, apprezzarne le poten-zialità e non insabbiarle”. Certo, attraversare deserti non è per tutti, ma lo è imparare ad ascoltare il corpo.“Il nostro fisico ci manda segnali in continuazione, ma la maggior parte di noi è sordo o non vuole ascoltare. Il segreto è conoscere se stessi: quasi tutti quelli che conosco vivono in un corpo di cui non si curano e non sanno quasi nulla. Sono utenti distratti. È un’arte che s’impara, stando soli, senza riferimenti se non se stessi. E poi tutto diventa semplice, essenziale. Nel nostro mondo la natura è stata annullata, quando sei laggiù, invece, ogni mattino ti ricordi che ti è stato dato un giorno. Sei tu che ti adegui alla natura e ai suoi ritmi, mentre da noi è stata asservita all’uomo. Dominiamo corsi d’acqua, uccidiamo il caldo con i condizionatori e il freddo con il riscaldamento. Non ascoltiamo più il nostro corpo”. Giuliano, che di mestiere genera aspettative, ogni volta che affronta un deserto si spoglia di ogni esigenza superflua: “Lì non c’è nulla da comprare, non serve nulla. È tutto vero, non c’è nulla di finto. Quando sei qui tutto è dovere o dover fare, lì non devi niente a nessuno. Non devi apparire, non conquisti niente, è il deserto che ti conquista e ti ingloba”. E riflette: “È un po’

come ammalarsi: devi affrontare un cammino senza certezze. Parti e non sai cosa troverai, affronti qualcosa che non conosci. Non hai nulla a cui appoggiarti. Parti nudo. Però lo devi affrontare. E dentro di te scopri come farlo”.

Daniela Condorelli.Giornalista.

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Quante volte capita di vedere bambini che urlano, si impuntano, fanno mille capricci, reagiscono rabbiosamente anche alla minima prescrizione dei loro genitori? Tante, troppe forse.La larga diffusione di questi comportamen-ti è un fenomeno relativamente recente nella nostra storia ed è collegato ai grandi cambiamenti nella sensibilità educativa, nel modo in cui i genitori entrano in relazione con i loro piccoli sin dalla più tenera età.Genitori affettuosi, attenti in mille modi a non frustrare i figli, ad accontentarli, ad accondiscendere a ogni richiesta. È senz’altro un modo di amare, ma ha alcuni inconvenienti.Il primo è quello che i bambini nascono piccoli (chiedo scusa per l’ovvietà) e si abituano molto presto, prima ancora di sa-per “pensare”, alle reazioni dell’ambiente.Possono trovare mille porte aperte, non avere ostacoli, ricevere gratificazione per ogni richiesta.

FragilitàIl linguaggio degli affetti

I bambini non sanno nulla del fatto che tutto ciò non è necessariamente giusto o naturale, che deriva solo da una pazienza affettiva dei loro genitori. Credono, sentono, che così è il mondo: “Desidero e ricevo, voglio e ho”.Quanti, tra i più attempati tra noi, si sono sentiti dire durante la crescita quella frasetta antipatica che suonava così: “L’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re”? Oggi pochi bambini ricevono lo stesso concetto dai loro genitori e finiscono per essere intimamente convinti che le cose debbano andare secondo il loro volere. Se trovano un intoppo, si arrabbiano e si disperano, ingag-giano battaglie furenti o disperate per ottenere quel che desiderano, inondano di urla e di lacrime l’ambiente, non si danno pace.Sono bambini vittime di un fraintendimento, pieni di ansia, che non sanno davvero cambiare registro, entrare in una dimensione più tranquilla di accettazione di un limite, della realtà in definitiva.Ci può essere quindi una relazione pericolosa tra l’alleva-mento che tutto concede (vecchio termine: “vizia”) e fragilità dei bimbi.La fragilità è, a sua volta, una insidia molto grande per la crescita. Al di fuori delle rassicuranti cure famigliari, en-trando nella vita i bambini si incontreranno con gli altri, con le regole e gli servirà davvero avere strumenti per restare sereni anche quando non possono fare esattamente (o per nulla) quel che vogliono. Ma se non hanno imparato, se non dispongono di questi strumenti, si troveranno scoperti e in ansia, non capiranno quel che succede, potranno non riuscire ad adattarsi.Quanti bambini vanno incontro a crisi nel contatto con la scuola? E quanti genitori sono indotti a pensare, sotto sotto, che la colpa sia delle insegnanti, che non li capisco-no o che pretendono troppo da loro?La crescita è adattamento, capacità di perdere, ricerca creativa di nuove strade davanti a piccoli fallimenti e frustrazioni.È un processo prezioso e chi è capace di inter-pretarlo ha molte più probabilità di crescere bene rispetto a chi, invece, soccombe, si arrabbia o si

ritira davanti agli ostacoli.Se vogliamo bene ai nostri bambini dobbiamo quindi aiutarli a superare le frustrazioni, anziché evitargliele, ad avere una buona opinione di sé anche quando perdono, anziché farli vincere sempre. Piccoli passaggi luttuosi durante la crescita, se accompagnati dalla mente di adulti che restano calmi e aiutano a sopportare un po’ di dolore, introducono a una forza d’animo e a una coscienza di sé migliori, vero e proprio patrimonio per il futuro.I genitori che fanno fatica a compiere questa operazione non sono persone strane o malate: hanno molte ragioni. Una di queste è data dal fatto che, lavorando entrambi nel-la coppia, possono sentirsi un po’ in colpa per il fatto di far mancare la loro presenza e tendono a compensare questa “colpa” attraverso un rifornimento eccessivo di bene nei tempi in cui stanno insieme.Un’altra ragione possibile è data da una nuova abitudine educativa nata come reazione alla rigidità delle vecchie famiglie. Molti nonni attuali hanno vissuto, da figli, regole rigide, talvolta molto severe, date da genitori che potevano sembrare poco sensibili al dolore o alla frustrazioni che tali regole a volte generavano.Queste generazioni hanno cambiato il modo di allevare i loro figli, sostituendo la tenerezza alla regola, la relazione empatica alla norma etica. Questo cambiamento (che na-turalmente ha molte altre componenti) è stato straordinario e ha mutato la cultura famigliare, crescendo generazioni di figli meno tormentate dal conflitto interno alla famiglia (come poteva avvenire, soprattutto dall’adolescenza in poi, nella famiglia di modello patriarcale), ma un po’ più fragili. Ogni vero mutamento sociale avviene in modo imperfetto e richiede assestamenti e adattamenti. A ciò non si sottrae quindi nemmeno l’evoluzione dei modelli educativi e affettivi delle nuove famiglie, chiamate ora non certo a rinunciare alla tenerezza, ma a sostenere

anche la capacità di forza dei loro piccoli, di quella forza vera che si esprime nel saper accogliere la vita (quindi, anche le difficoltà, le regole, le impossi-bilità) per interpretarla con sufficiente successo e vera soddisfazione.

Stefano Gastaldi.Psicologo e psicoterapeuta. Conduce in Associazione il gruppo “La terapia degli affetti”.

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Dottoressa Visai, ricevere ad Attivecomeprima una mail nella quale lei, una scienziata di calibro inter-nazionale del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Pavia, ci chiedeva un incontro, ci ha piacevolmente sorpreso. Cosa ha sollecitato questo suo interesse per il nostro lavoro?

L’interesse per il vostro lavoro è nato dal fatto che Attiveco-meprima segue e sostiene le donne che si sono ammalate di tumore al seno. Il lavoro estremamente importante da voi compiuto quotidianamente è a sua volta legato alla ricerca scientifica che il gruppo da me coordinato sta svolgendo anche in questo campo presso il Dipartimento di Medicina Molecolare (http://molecularmedicine.unipv.it/reseach-groups/biochemistry/l-visai/), dell’Università degli Studi di Pavia (http://unipv.it). Abbiamo quindi pensato che potesse essere importante conoscervi e, tramite voi, fare conoscere anche alle vostre associate le future potenzialità della ricerca scientifica per la cura e il trattamento del tumore al seno.

Quando ci si ammala emerge l’immediata consape-volezza che la malattia sia una dimensione esi-stenziale ben più complessa di ciò che la medicina individua con la sua diagnosi. L’ascolto dei bisogni e la valorizzazione di risorse individuali e relazio-nali a volte impensate, sembrano perfino poter migliorare gli effetti delle stesse terapie e questo, pur lentamente, sta generando una nuova cultura della salute e della cura. Alla luce di tutto ciò, a suo parere, potrebbe essere opportuno o necessario un ripensamento dei percorsi formativi dei giovani ricercatori e dei programmi di ricerca?

I percorsi formativi dei giovani ricercatori e dei programmi di ricerca certamente tengono in poco conto gli aspetti che non siano immediatamente riconducibili al trattamento chirurgico o farmacologico della malattia in quanto tale. Un ripensamento in questo senso sarebbe fondamentale per dare maggiore importanza all’aspetto esistenziale del paziente nella sua complessità in modo da fornirgli tutti gli strumenti (ad esempio, spiegandogli in modo semplice e meno brutale la malattia e il suo decorso e informandolo

sulle strutture che lo possono aiutare concretamente), perché possa uscire in modo rapido ed efficace dal tunnel della malattia. Inoltre, sarebbe oltremodo importante che, dall’altro lato, il paziente stesso fosse più attivo e consa-pevole e provvedesse a informarsi il più possibile anche semplicemente digitando delle parole chiave da poter utilizzare nella ricerca in internet. Il percorso per arrivare a questa consapevolezza è ancora lungo ma è opportuno insistere mettendo in campo tutti gli strumenti possibili e che sono a nostra disposizione.

Un suo progetto di ricerca sull’impiego di nano-tecnologie per la prevenzione dell’osteoporosi indotta negli astronauti dall’assenza di gravità, ha vinto un bando della Agenzia Spaziale Italiana (ASI) la cui sperimentazione è stata completata nel 2015 sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) dall’astronauta e Capitano dell’Aeronautica italia-na, Samantha Cristoforetti. I non addetti ai lavori vedono spesso una grande distanza fra questo tipo di ricerche e la salute di noi quaggiù... Ci vuole aiutare a colmarla?

Le nanotecnologie definibili come l’insieme di metodi e tecniche per la manipolazione della materia su scala atomo-molecolare, quindi nanometrica, hanno l’obbiettivo di realizzare prodotti e processi radicalmente nuovi. In que-sto senso, il mio gruppo di ricerca con la collaborazione di altri tre partner italiani (Università degli Studi di Milano, Isti-tuto di cristallografia del CNR di Roma e l’azienda Kayser Italia di Livorno) ha applicato a un bando pubblico di ASI (http://www.asi.it) per proporre, mediante un approccio che prevede l’utilizzo delle nanotecnologie, delle contromi-sure alla osteoporosi secondaria indotta dalla microgravità o meglio dalla permanenza dai 4 ai 6 mesi degli astronauti sulla ISS (progetto NATO, Nanoparticles and Osteoporosis). D’altra parte l’osteoporosi primaria, che colpisce più di 200 milioni di persone sulla Terra, è legata al processo di invecchiamento a cui tutti noi dobbiamo andare incontro. Ma l’aspetto sorprendente è che, sebbene abbiamo cause completamente diverse, sia l’osteoporosi indotta dalla microgravità sia quella dovuta all’invecchiamento sono

L’intelligenza delle nanosfereIntervista a Livia Visai

Tra medico e paziente

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accomunate dal processo di demineralizzazione dell’osso. Infatti, il risultato finale è una maggiore fragilità delle ossa che comporta una maggiore incidenza di fratture con le conseguenze ad esse legate in termini non solo di qualità della vita di coloro che ne sono stati esposti ma anche per gli elevati costi sociali. Pertanto la ISS è un eccellente laboratorio scientifico per poter testare le possibili contro-

misure che, se efficienti in microgravità, possono essere utilizzate per curare i tanti che soffrono di questa patologia sulla Terra. Il nostro progetto NATO (blog della missione: http://nano-space.unipv.it) ha fatto quindi parte della Missione Futura di Samantha Cristoforetti, il cui obiettivo finale riguardava il re-cupero dell’RNA da cellule di controllo oppure incubate con

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le nanoparticelle ed esposte alla microgravità dello spazio per condurre poi a terra analisi di sequenziamento di RNA. Il nostro esperimento è stato lanciato con il razzo SpX-6 il 14 aprile 2015 e ha raggiunto la ISS il 17, giornata in cui l’astronauta Cristoforetti ha manovrato il braccio robotico per agganciare il dragon e recuperare i campioni biologici. Al termine dell’esperimento i campio-ni, congelati e conservati nel freezer (Melfi) presente sulla ISS, sono rientrati felicemente a terra il 21 maggio 2015 con la capsula Dragon e sono stati quindi spediti in Italia il 26 maggio con arrivo a Milano il 29 maggio 2015. Le analisi biologiche sono piuttosto complesse e ci vorrà ancora tempo per comprendere la validità della ipotesi da noi proposta. È comunque possibile seguirci anche su Facebook (https://www.facebook.com/NATO-Project-1824935091065272/)!

Sappiamo che è in corso un suo importante proget-to che prevede l’utilizzo di nanotecnologie appli-cate alla chemioterapia del carcinoma mammario. Da questa innovativa modalità, quali benefici si possono ipotizzare sull’efficacia delle cure, gli effetti dei farmaci sull’organismo e l’impatto socio-economico di questa metodologia?

Le nanotecnologie hanno veramente il potere di cambiare il modo di pensare e di progettare le modalità per veicolare e rilasciare in generale sostanze, in particolare farmaci chemioterapici. Questi ultimi hanno sull’organismo del pa-ziente, come è già noto, effetti collaterali indesiderati, piut-tosto deleteri senza considerare la possibilità di insorgenza di nuovi tumori dovuta alla somministrazione del farmaco stesso. In questa direzione, il nostro progetto di ricerca dal titolo “Tumore al seno: sconfiggerlo con nanosfere d’oro intelligenti” ha partecipato ad una selezione per poter fare parte della piattaforma di crowdfun-ding di Universitiamo (https://universitiamo.eu/cam-paigns/tumore-seno-diagnosi-cura-nanoparticelle-

doro) dell’Università di Pavia, la prima Università al mondo ad avere pensato a un’iniziativa di questo genere in ambito accademico. Il progetto è stato selezionato positivamente per la piattaforma nel periodo compreso tra il 16 marzo 2015 e il 10 luglio 2015 raggiungendo tramite donazioni l’80% del budget proposto. I fondi raccolti sono serviti a proseguire nel lavoro di ricerca e a consentire di poter aprire collaborazioni con l’Università di Brighton, di Madrid ma anche con l’Univer-sità di Milano. Il progetto è quindi ancora molto attivo ed è possibile donare per contribuire alla nostra ricerca ma soprattutto a finanziare borse di studio per studenti molto competenti e motivati che non avrebbero altre possibilità. Abbiamo davvero bisogno dell’aiuto di tutti. Questi i riferi-menti per chi volesse darci una mano: (https://www.face-book.com/Tumore-al-seno-sconfiggerlo-con-nanosfere-doro-intelligenti-865316286866305/) (bonifico bancario: IT 14K 05048 11302 000000059256; Beneficiario: Università degli Studi di Pavia; causale: Universitiamo – Tumore al seno: sconfiggerlo con nanosfere d’oro intelligenti). Il nostro progetto prevede la sintesi e la caratterizzazione fisico-chimica e biologica delle nanoparticelle d’oro rive-stite di polimeri biocompatibili a cui sono legati i farmaci chemioterapici. I nostri risultati preliminari sono piuttosto positivi e confermano che il nanosistema proposto possa efficacemente consentire di “targhettare” solamente le cellule tumorali e ucciderle senza danneggiare al contem-po le cellule sane. In questo senso il nanosistema po-trebbe essere utilizzabile anche per la cura di altri tumori, modificando in modo opportuno il farmaco da utilizzare. Le potenzialità potrebbero essere elevate per la cura del pa-ziente, per i minori effetti collaterali e per i più rapidi tempi

di ripresa dell’organismo. Tutto ciò si tradurrebbe in una migliore qualità della vita del paziente e delle sue attività. Inoltre, anche i costi sociali verrebbero fortemente ridotti gravando meno sulla società civile e sugli ospedali.

Da sinistra: Livia Visai, Alberto Ricciuti, Stefano Gastaldi, Arianna Leccese.

Alberto Ricciuti. Medico di medicina generale. Presidente di Attivecomeprima.

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Fulvia Soncini è medico oncologo radioterapista presso la Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Oltre che di Oncologia, si occupa anche di Arteterapia, e in particolare di Cinematerapia, che insegna presso la scuola di Arteterapia L’Albero di Milano. Da quest’anno conduce gruppi di Cinematerapia anche ad Attivecomeprima.

Dottoressa Soncini ci può raccontare che cos’è la Cinematerapia?

La Cinematerapia è la più giovane disciplina nella grande famiglia delle Artiterapie. Nata una decina di anni fa negli Stati Uniti, si è poi diffusa in Europa, soprattutto in Gran Bretagna e Germania, e da pochi anni si sta sviluppando anche in Italia.Il cinema non cura patologie, ma utilizza le emozioni che emergono dalla visione di determinate pellicole, per poi lavorarci sopra e stimolare attraverso di esse processi di cambiamento, di aiuto, di sostegno, di trasformazione. Non si tratta quindi di una visione meramente ludica, con il solo scopo di intrattenimento, bensì di un lavoro con intenti trasformativi. Si avvale, infatti, del potere evocativo e simbolico delle immagini, al fine di far emergere emozioni inconsce, per poi elaborarle e trasformarle in pensieri più complessi, che stimolino l’individuo alla riflessione.Gli ambiti di utilizzo della Cinematerapia sono molteplici: i più comuni sono l’area didattica, l’area sociale e so-prattutto l’area clinica nei suoi molteplici aspetti, come il campo riabilitativo, neurologico, psichiatrico, oncologico.

Com’è nato il suo interesse per questa disciplina e come ci si è avvicinata?

Fin da ragazza ho sempre avuto due grandi amori: l’arte, nelle sue varie forme ed espressioni, e la medicina. Ho

sempre pensato che vi fosse un legame profondo fra arte e cura. Da questo mio sentire è nata la decisione di iscri-vermi a una scuola di Arteterapia e iniziare a frequentare il laboratorio artistico-terapeutico dell’ospedale presso il quale lavoro.L’amore per la Cinematerapia è nato dal desiderio di ap-profondire una branca dell’Arteterapia ancora poco nota in Italia, ma da tempo sviluppata in altri paesi. Per questo ho frequentato corsi specifici presso l’ospedale universitario La Charité di Berlino, dove questa tecnica è ben utilizzata in ambito sanitario, in particolare con i pazienti oncologici e sieropositivi.

Come concilia la sua anima medica con la passione per il cinema e per la Cinematerapia?

La mia passione per il cinema e la mia professione di medico si combinano molto bene insieme.La persona malata non ha bisogno solo di terapie mediche e di supporto fisico, ma di una più globale e complessiva presa in carico, che tenga conto delle emozioni e dell’a-spetto traumatico che la malattia comporta. Credo che attraverso l’Arteterapia, e in questo caso la Cinematera-pia, tutte queste emozioni possano emergere nella loro completezza.Qui sta il vero significato del prendersi cura, che va ben oltre il solo prestare delle cure fisiche.

Si parla tanto di ricerca di evidenze scientifiche anche per le terapie complementari, come lo Yoga, l’Arteterapia e la Danzaterapia. Vale anche per la Cinematerapia?

Certamente. Anche per la Cinematerapia vi sono evidenze di validità scientifica. Molti studi sono stati condotti negli

Tra cinema e cura: la CinematerapiaIntervista a Fulvia Soncini

Vivere il cambiamento

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Stati Uniti e attualmente sono in corso studi anche in Italia, per esempio dall’equipe del Policlinico Gemelli di Roma.

Ci può raccontare come si è svolta la sua esperienza ad Attivecomeprima?

È stata un’esperienza molto importante per me. Nella primavera scorsa ho condotto il primo gruppo di Cinematerapia formato da otto donne, che avevano già fre-quentato in Associazione i gruppi di sostegno psicologico. Nei vari incontri ho proposto la visione di spezzoni di film scelti appositamente. La scelta del film, infatti, non è mai casuale, ma nasce dalla conoscenza del gruppo che assi-ste alla visione e delle problematiche da trattare.Il gruppo con il quale ho lavorato con la Cinematerapia mi ha insegnato tanto a livello personale. Credo infatti che questi incontri siano un mutuo scambio di emozioni ed esperienze, che arricchiscono sia i partecipanti che il conduttore.

Ci può anticipare qualche suo progetto futuro?

Mi piacerebbe portare ad Attivecomeprima incontri di fotografia terapeutica. Le fotografie, infatti, possono avere grande potere terapeutico: suscitano un universo di emozioni e sensazioni, andando oltre l’indagine verbale, quando il dialogo si ferma tra ricordi dimenticati e rimossi.Le immagini diventano veicolo per parlare di sé, per dire ciò che non riusciremmo a raccontare con le parole e per superare traumi e momenti di diffi-coltà. Sono quindi uno straordinario strumento per analizzare il proprio vissuto emotivo.

Serena Ali.Psicologa e psicoterapeuta. Conduce in Associazione il gruppo “Riprogettiamo l’esistenza”.

Il binomio “cinema-passione” ben mi definiva da giovane, poi la mia vita è stata allietata dall’arrivo di due bimbe che hanno assorbito i miei interessi e la mia passione, sino all’incontro con Fulvia.

Attive ha proposto questi incontri con un’incantevole medico appassionato di cinema, Fulvia, e la mia giovanile passione si è riaccesa ed ho deciso di parteciparvi.

Un po’ scettica, come mio solito, ho ascoltato la presentazione di Fulvia che mi ha conquistata; proponeva di guardare i film non da spettatori passivi, ma in modo attivo, in modo nuovo, partecipativo. È stata una scoperta piacevole.

Durante i nostri incontri, mi sono, di volta in volta, immedesimata nel personaggio a me emotivamente più vicino, ho modificato il finale secondo le mie sensazioni, ho scoperto le mie emozioni più profonde per situazioni a me sconosciute, le mie trepidazioni, le mie sicurezze ed insicurezze, ho rivisitato la mia malattia e con essa la mia vita.

Così agendo mi riscoprivo, mi analizzavo, mi stupivo di me stessa e delle mie esperienze pregresse. Il film restava sullo sfondo della mia vita e nello stesso tempo mi dava forza, mi vitalizzava, mi stimolava e mi motivava a riprendermi la vita.

Il binomio “cinema-passione” ha lasciato il posto a “vivere con passione”.

Grazie Fulvia, grazie per la tua empatia, la tua capacità di ascolto, la tua solarità, la tua professionalità e per avermi dato l’occasione di incontrarti.

Francesca (partecipante al gruppo di Cinematerapia)

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Il primo pensiero è stato di Ada, come sempre attenta e lungimirante. È stata Ada, accogliendo Manuela Provantini, allora giovane tirocinante, a suggerirle: “Respira l’aria che c’è qui ad Attive”. E Manuela l’ha respirata, quell’aria vi-brante di serenità che ti avvolge quando entri in via Livigno al 3; l’ha respirata a lungo e in punta di piedi, osservando. Era il 2004. Manuela Provantini, psicologa e psicoterapeu-ta, assisteva ai gruppi di donne, agli incontri condotti da Stefano Gastaldi. E si accorgeva ogni volta di un’esigenza inascoltata: quella di farsi carico dei familiari. Nasce da quest’intuizione lo spazio per i caregiver. Sono passati oltre dieci anni: la richiesta di aiuto da parte di chi sta vicino al paziente è sempre più forte. All’inizio, nel 2006, gli incontri proposti erano di gruppo: una decina in tutto. A partecipare erano mariti, genitori, figli, sorelle. Difficile mettere insieme esigenze così diverse.Il sostegno diventa allora personalizzato; chi chiama viene accolto individualmente. Oggi il sostegno ai caregiver ha compiuto dieci anni. Manuela Provantini e Attive non pote-vano pensare a un regalo migliore: la pubblicazione di un saggio, dal titolo Chi aiuta i caregiver, appena uscito nella collana self help di Franco Angeli.Se ne sentiva il bisogno. In letteratura, il focus è ancora troppo sul paziente. Allargare lo sguardo alla sua famiglia significa dare un sostegno ancor più saldo a chi sta viven-do nel trauma della malattia.

Manuela, chi sono e cosa ti chiedono i familiari nel vostro spazio di ascolto?

Gli uomini, i mariti, sono perlopiù orientati a domande pra-tiche. “Cosa posso fare per mia moglie”, è la richiesta più frequente. Sono persone dinamiche, operative, ma hanno bisogno di istruzioni sull’accudimento emotivo, un ambito su cui sono meno preparati. C’è una differenza di genere in questo. Le donne sono più abituate a parlare di emozioni; gli uomini si accorgono di essere carenti su questo versante quando ne parliamo qui ad Attive o quando la moglie li accusa di essere superficiali o sdrammatizzare troppo. Poi ci sono le mamme che arrivano soprattutto quando la

situazione clinica peggiora e hanno bisogno di una mano per accettare la realtà che stanno vivendo.Anche i figli si rivolgono a noi: di solito inviati dalla mam-ma. Per loro c’è uno spazio ad hoc, lo sportello Caro figlio. Sono spesso adolescenti che parlano della malattia ma-terna, ma, come sempre accade con i ragazzi di quest’età, usano poi presto questo spazio per affrontare le loro questioni: relazioni di amicizia, scuola, fidanzati, genitori, anche alla luce di ciò che sta succedendo in famiglia.

Perché hai sentito l’esigenza di raccogliere in un libro l’esperienza di questo spazio di sostegno?

L’idea è stata della editor di Franco Angeli, Gabriella Castagnini: mancava un saggio che fosse dedicato ai caregiver.il libro si divide in tre sezioni: la prima sui familiari, la seconda sui figli e la terza contiene interviste tratte dalla rivista di Attive.C’è un messaggio in particolare che spero di aver trasmesso. In questi anni ad Attive ho imparato che un’esperienza traumatica, per quanto devastante, può essere vissuta al meglio. Ho conosciuto persone che sono arrivate a ringraziare il cancro. All’inizio ero scettica, quasi infastidita, ma quando le don-ne che te lo confidano sono più d’una ti fermi a riflettere. E quando assisti al lavoro e alla fatica per riprendere in mano la propria vita comprendi cosa vuol dire quel “grazie”. Vuol dire che senza il tumore non sarebbero state in grado di costru-

Caregiver

Sguardo allargatoOltre il malato, il caregiver

ire quel profondo cambiamento. Forse non ci avrebbero pensato, sarebbero andate avanti sospinte nel circolo delle cose da fare. È come se stessero dicendo che prima della malattia si stavano perdendo la vita; andavano avanti giorno dopo giorno senza fermarsi a sentire come stavano nel vivere. Quando ci si scontra con l’esperienza traumatica della malattia si impara a chiedere a se stessi: “come sto?”.

Quali sono i bisogni di chi sta accanto a un familiare che ha un tumore?

Sono tanti. La voglia di dare una mano, di alleggerire la sofferenza, di trovare i propri spazi senza sentirsi in colpa. Ma anche il desiderio di parlare di futuro, soprattutto quan-do la situazione si fa critica. Ho conosciuto coppie in cui uno dei partner viveva una situazione di malattia molto grave, ma con energia e forze per pensare nuovi lavori, cambiare casa: progettare vita.Ci sono persone che affrontano la situazione con strategie molto pratiche. Le cure, gli appuntamenti per i controlli, le medicine diventano una tabella di marcia che rassicura. Obiettivi per alleggerire l’altro. Senza accorgersi a volte

che l’altro ha bisogno di fermarsi a fare il punto della situazione. Spesso non c’è equilibrio, nella coppia, tra la spinta al pratico e quella al riflessivo. In questo caso il lavoro nello spazio d’ascolto consiste nel dare un sostegno per ritrova-re un nuovo ordine. Chi affronta un’esperienza traumatica spesso mette in discussione come ha vissuto fino a quel momento. Non ha più tempo da perdere: si riposiziona dentro la scala dei propri valori mettendosi finalmente ai primi posti. Dovrebbe farlo anche il caregiver.

Quali indicazioni per non rimanere impigliati nel trauma?

Fermarsi, fare il punto della situazione; vedere come si è vissuto fino al giorno prima; guardarsi dentro e capire se ciò che facevamo non era nelle nostre corde. Per esempio, come accade spesso alle donne, se eravamo persone troppo accondiscendenti. Che dicono di sì perché si sentono in colpa a dire di no.Mi vengono in mente quelle madri sacrificali che non trovano mai tempo per se stesse perché l’altro viene

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sempre prima. Siamo cresciuti in un mondo in cui ci hanno insegnato a sacrificarci, ma questo ci fa vivere male; ogni volta che desideriamo qualcosa per noi stessi proviamo un senso di colpa, ci sentiamo egoisti.La malattia ci cambia, ci mette al primo posto. Però è faticoso perché ci si scontra con una realtà che si aspetta qualcosa di diverso da noi; convivente, figli, amici, genitori, erano abituati a un’altra persona.

Fermarsi a fare il punto: in che senso?

Non possiamo pensare di affrontare una malattia che fa entrare nella mente la nostra finitezza facendo finta di nulla. È vero che ognuno di noi convive con la consapevo-lezza di non essere eterno, ma a fronte di una diagnosi di tumore la prospettiva cambia. C’è chi tenta di non pensarci: tratta il tumore come un’in-fluenza, non ha tempo di fermarsi. E allora continua ad andare avanti, impegnatissimo: lavoro, famiglia, sport. Guai a chi gli prospetta di doversi fermare perché più stanco a causa della chemio.È una tendenza molto comune e molto femminile. Ma è come se mettessimo un coperchio gigante alla nostra pentola di emozioni. Ed ecco che il corpo presenta il conto: ansia, insonnia, attacchi di panico.Bisogna allora imparare ad ascoltarsi: rimettersi in gioco in quella scala di valori da cui per un lungo periodo ci si era chiamati fuori. Una volta che ci si è riposizionati ai primi posti di questa scala di priorità, si possono anche prendere decisioni di cambiamento strutturale. Con queste persone, il lavoro è sulla speranza, inte-sa come capacità di svolgere compiti. E per superare un’esperienza traumatica è necessario tornare a svolgere i propri compiti. Il tempo perde importanza: se vivo meglio è come se vivessi di più. Con Ada: “Il tempo non è nelle nostre mani, ma il modo vivere sì”.

Quale è il ruolo del caregiver in tutto questo?

Il caregiver aiuta il paziente a tirare le fila della sua vita per capire cosa può migliorare e facilita i cambiamenti. Se, ad esempio, la persona malata aumenta gli spazi da dedicare a sé, il caregiver lo asseconda, lo incoraggia, lo sostiene. Ma è anche colui che si ferma a cercare ciò che conta per sé. Ad Attive lo aiutiamo a crearsi spazi di benessere propri; spesso i caregiver si sentono in colpa, tendono a rinunciare a sé per mettersi a disposizione. In realtà, se anche lui riesce a capire cosa può fare per se stesso, la coppia trova una nuova affinità e si regala momenti di incontro, racconto e confronto unici. E non solo per ciò che riguarda la malattia, ma la vita.

Daniela Condorelli.Giornalista.

Il servizio di ascolto per i Caregiver è ad Attive in via Livigno 3 a Milano. Per prendere appuntamento si può scrivere a:

[email protected]

oppure telefonare allo 02 6889647

In pratica:

CaregiverSostegno psicologico rivolto a famigliari, partner e persone vicine al paziente

Progetto Caro FiglioSostegno psicologico rivolto ai figli dei pazienti. Specifico dai 12 ai 21 anni

Disponibile in libreria e in Associazione:

CHI AIUTA I CAREGIVER? Quando un famigliare si ammala di cancrodi Manuela ProvantiniFrancoAngeli Editore15,00 €

Manuela Provantini

Quando un famigliare si ammala di cancro

Prefazione di Stefano Gastaldi

CHI AIUTA I CAREGIVER?

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Parlami di te

Che giornata!Convegno Internazionale a Brescia della Società di Psico-Oncologia sulle Terapie Complementari. Marie France è coinvolta da me per partecipare insieme, come conduttrici, al Workshop di danza-terapia. Finalmente è pronto il filmato sul nostro gruppo di danzaterapia e, dopo tanto lavoro, viene messo sul mio computer, pronto per essere dupli-cato. È fatta, finalmente siamo alla fine di questo tormentone, l’ennesima visione del film ormai è... insopportabile.Conto sulla capacità tecnologica, sempre ineccepibile, di Marie France per fare dei dvd: prova per ore, non riesce, ha un blocco informatico, non ce la fa. Pazien-za, abbiamo la chiavetta, c’è la caveremo. Interpellato in ritardo mio marito, in un attimo, crea il dvd dal suo computer. Che figura... Tutto pronto, è fatta!Partenza ore 6,15 per Gorgonzola. Direzione: casa di Marie. Lascio a malincuore, dopo poche ore di sonno (circa tre...), la casa e le mie cagnoline, so-prattutto Pile che sta tra vita e morte, perché molto ammalata. La guardo e le chiedo, con un nodo in

gola, di aspettarmi.Parto. Buio pesto. Strada deserta. Il navigatore fa le bizze, mi vuole portare dove non voglio, sono in autostrada e mi dice, perentorio, di girare a destra in viale Brianza. Mi confonde le idee e alla fine de-cido di fare di testa mia, testa che a quell’ora non è esattamente lucida.Ho il foglio delle indicazioni ossessivamente preci-se, scritte da Marie, con la sua capacità di pro-grammare e organizzare fantastica... sono a posto. Con lei sono in una botte di ferro!Nulla può sfuggire al controllo! Vado, veloce, anche se con il buio ho difficoltà a guidare,ma sono tranquilla. Scorrendo di sfuggita il foglio vedo la parola “uscita ad Agrate” senza leggere che prima c’è scritto NON USCIRE. Vedo solo USCIRE... e così faccio (forse un po’ per la cecità e un po’ per il sonno).Mentre sono al casello e sto pagando, mi chiama Marie per sapere a che punto sono eorgogliosamente le dico, con aria vittoriosa: “Sono al

casello di Agrate!”. Sento l’urlo: “NOOOO! Non dovevi uscire lì!”. Ma come... riguardo il foglio e mi sento morire. Oddio e adesso? Grazie al cielo la mia amica viene a salvarmi e a prelevarmi in mezzo alla cam-pagna. Salendo finalmente in macchina con lei, mi riprendo dallo stress e andiamo sicure verso la meta.Arriviamo perfette ed efficienti con la macchina pie-na di tappetini, veli, stoffe, bastoni, computer, cavi (non si sa mai....): nulla può sfuggire al controllo!Scarichiamo e allestiamo la stanza. Dvd pronto nel computer, musiche, tutto perfetto.Arrivano in 20, tutte donne più due uomini di cui uno psicanalista molto noto... Grande successo, grande calore. Proiettiamo il film per fare vedere come avviene il nostro lavoro con le donne di Attive, quelle che hanno un problema oncologico, ma... sorpresa... il dvd non contiene la versione definitiva! Aiuto! Dopo tanto lavoro e tanto stress... quello non definitivo sta girando senza rimedio. Fortunatamen-te lo sappiamo solo noi!Prima del lunch, affannosamente, sgombriamo la stanza da tutti i nostri tappetini, veli, bastoni, stoffe, carte crespate. Circondata dai materiali, vedo Marie un po’ in crisi, mentre fruga nella borsa, ma non ci faccio caso, io finalmente fumo una sigaretta in pace, è fatta e tutto è andato meglio di ogni possi-bile aspettativa.Non smette di cercare e alla fine con aria desolata dice: “Non c’è più la chiave della macchina!”.Oh mio Dio! E adesso? Riportiamo tutto nella stan-za. Lei non abbandona il computer, grazie al cielo, perché in quell’intervallo di tempo, ne spariscono ben tre! Che fortuna!Comincia la ricerca affannosa nel bagno, alla re-ception, per strada, ovunque... guardiamo tra i veli, saranno cadute nelle stoffe? Buttiamo all’aria tutto, niente da fare, non ci sono più! Guardiamo scon-solate le nostre valigette dentro a una macchina chiusa inesorabilmente. Che facciamo? Un’illumina-zione! La chiave sarà sicuramente chiusa nel baule, dopo aver scaricato tutti i nostri materiali. Che si fa? Sfasciamo la serratura?Rompiamo il vetro? E se poi non fosse lì? Andia-mo a mangiare qualcosa, ormai poco è rimasto al buffet, ma pazienza! Ragioniamo con lucidità sul da farsi. Un po’ di vino ci rilassa e ci fa decidere.Marie France tornerà a casa sua a prendere le altre chiavi, il doppione. Con l’aiuto delle hostess con-tatta un autista e mentre sta per partire... la vedo impallidire... le chiavi di casa sono in macchina...

aiuto! Ci voleva anche questo. E adesso? Grazie a Dio, si ricorda che dieci anni fa ne ha nascosto un mazzo in un vecchio stivale nella casetta degli attrezzi, in giardino. Chiama il vicino di casa che si offre di scavalcare il cancello e cercarle. Ci sono! Parte alla volta di casa.Dopo qualche ora e mille messaggi su ogni suo spostamento, finalmente sta tornando. Cerco nella mia borsa una caramella e...orrore! Sento qualcosa che non riconosco... ma cos’è? Mio Dio, le chiavi famigerate! Sono lì nella MIA borsa! Perché? Quasi svengo, mi sento in colpa, ma non so come sono finite lì e non lo sapremo mai.Le mando un messaggio accorato e la sua risposta mi conforta: risate a non finire! Cacciamo tutto, per la terza volta, in macchina, tappetini, veli, stoffe, ba-stoni, carte crespate... e finalmente, stremate, alle 19 andiamo in albergo! Resta solo la cena alla sera con tutti i relatori, ma lo stress è finito, sem-bra... Parcheggiamo e saliamo in camera, ci cambiamo di corsa, per-ché siamo già in ritardo e siamo pronte, pur sognando il letto, per l’ultimo round della giornata. Come sempre nella mia valigia ci sono le cose che non mi servono e non quelle essenziali, mi conosco, lo so. Pazienza. Vedo Marie che di nuovo fruga nella sua borsa, poi nella giacca e poi nella stanza... mi terrorizzo... ha perso il cellulare. Aiuto! Non è possibile! Non c’è fine! Corre al parcheggio, torna senza successo, riguarda ovunque, io guardo nella mia borsa, casomai fossi diventata cleptomane senza esserne cosciente, nulla. Ritorna alla macchina, mentre io chiamo il suo numero per far illuminare il telefono silenziato, è buio, sarà sfuggito al primo controllo. Nulla, non c’è più. Dobbiamo andare, siamo in ritardo

e non vorremmo digiunare per la seconda volta. Taxi, scendiamo, prima di entrare fumo una siga-retta. Fuori dal ristorante c’è un portacenere un po’ defilato nel buio. Mi avvio per spegnere la sigaretta, ma sento che il mio piede sinistro affonda in una enorme massa morbida e calda, una immensa cacca di cane... presumibilmente un alano!“Marie!” – grido forte – “Aiuto! Guarda dove sono finita!”. A quel punto le risate non sono più conteni-bili: “Sembriamo Fantozzi!”. Puliamo la scarpa con fazzolettini e gel lavamani. Se fossimo entrate così nella sala avremmo fatto fuggire tutti. Non se ne può più! Dobbiamo farci benedire!

A serata finita, ritorniamo finalmente in albergo e ci rimettiamo a cercare il

cellulare scomparso. Sarà sicu-ramente in stanza, buttiamo

all’aria tutto, ma nulla. Marie France riparte

stremata verso il par-cheggio e finalmente riappare, stravolta ma vittoriosa, con il telefono in mano.Dov’era? Alla recep-

tion! Ma nessuno le dice com’è finito lì.

Lo scorbutico portiere immobile sulle sue carte,

non alza lo sguardo (sarà vivo?) e l’infame che ha sentito

suonare mille volte non ha risposto. Non importa, adesso c’è.

Ultima toelette serale, prima di una meritata e agognata nanna. O Dio mio, non posso crederci: mi sono dimenticata a casa lo spazzolino da denti! Mi lavo come posso con dentifricio e con il dito, che non essendo peloso non ha la stessa funzione. Sono definitivamente stremata. Cadiamo nei letti stecchite dalla stanchezza e finalmente nanna!Il grande senso dell’umorismo di entrambe ha reso

questa esperienza leggera e divertente. Questa è una fortuna che sempre, nella vita, aiuta a superare le cose e se davvero la risata è terapeutica...siamo a posto per sei mesi di sicuro!

Nicoletta Buchal.Medico e psicoterapeuta. Conduce in Associazione il gruppo

“Armonizzazione mente-corpo attraverso la danza”.Rivista Attive © di Attivecomeprima Onlus © La Forza di Vivere © : Tutti i diritti Riservati - Anno XXXIII - n° 2 - dicembre 2016

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La medicina che ci aspettiamo

L’infermiere immaginato

Intanto, cominciamo dalla grammatica. Infermiere/in-fermiera: sostantivo di genere maschile o femminile? Femminile, avremmo detto per tanto tempo. Non solo, ma ci saremmo compiaciuti di appendere alla parola tutti i più triti stereotipi della femminilità: dolcezza, dedizione incondizionata, premura, abnega-zione totale. Insomma, l’infermiera come una mamma all’ennesima potenza. E il prendersi cura come la provincia delle donne. Un curioso aneddoto illustra quanto sia radicata questa immagine. Florence Nightingale è passata alla storia come “la Signora con la lampada”. L’abbiamo vista raffigurata come l’infermiera che di notte, lampada in mano, passa di letto in letto per curare e consolare. Ebbene, questa immagine è un falso. La trasformazione è dovuta a un cronista del Times, che riteneva la de-nominazione con cui Florence era conosciuta troppo volgare per i suoi lettori, inappropriata per una donna. Veniva chiamata, infatti, ”la Signora con il martello”. Lo era diventata il giorno in cui, martello in mano, aveva forzato la porta di un deposito che un ufficia-le si ostinava a tenere chiuso. Nel deposito erano custoditi i materiali medici che le servivano per curare i malati. L’immagine della devota infermiera, che si aggira di notte vegliando sui poveri infermi, le è stata cucita addosso con finalità edificanti. Ma è una forzatura storica, oltre che un melenso ghirigoro maschilista: modellava bene l’immagine che si aveva della donna, in particolare della donna che si occupava dei malati.Ebbene, quell’epoca è finita: infermiere è oggi una professione esercitata sia da uomini che da donne. Il genere non è qualificativo. Non per questo, però, infermiere e infermieri hanno perso il calore umano che associamo alle attività di cura. Ai nostri giorni infermiere è una professione. Non semplicemente il prolungamento delle attività di cura, tradizionalmen-

te attribuite alle donne. Come tutte le professioni si impara. E per esercitarla bisogna essere certificati: dedizione e buona volontà non bastano.La fine della “dominanza medica” (Eliot Freidson) tra le professioni sanitarie ha sparigliato antichi giochi di ruolo e rapporti tra le professioni. Si è così incomin-ciato a delineare un nuovo modo di praticare il lavoro di cura. Non più per trasmissione di ordini dall’alto in basso nella piramide gerarchica, ma attraverso la collaborazione di professioni diverse. Non ci sono più professionisti “figli di un dio minore”: le diverse funzioni si esigono e si completano recipro-camente. Se è la dea Cura, resa celebre dal mito di Igino, a indicare il percorso, dobbiamo con coerenza rifiutare subordinazioni gerarchiche, favorendo una salutare anarchia che dia corpo all’integrazione tra i processi in cui prende forma il prendersi cura. La gerarchia semmai si ridisegna a partire dalla vicinanza ai bisogni e ai desideri della persona che riceve le cure. La scelta migliore resta la ricetta che Arundati Roy attribuisce ai personaggi positivi del suo non dimenticato romanzo: quello di aggrapparsi alle piccole cose; perché “le grandi cose stavano acquat-tate dentro” (A. Roy: Il dio delle piccole cose). Vale per la medicina e per le relazioni di cura, così come per la vita tout court: le grandi cose ci vengono come dono, quando tutta la nostra tensione morale è rivolta a non disdegnare quelle piccole. Sempre, ma soprattutto quando l’in-fermità è parte strutturale della nostra vita, l’in-fermiere (colui che ci aiuta a recuperare la firmitas, a stare in piedi) lo auspichiamo accanto a noi. Con la lampada in mano; ma, se necessario, anche con il martello. Soprattutto ai nostri giorni, quando non sono più miopi ufficiali di fureria quelli che chiudono i depositi di medicinali e presidi sanitari, ma i tecnici dei bilanci, in nome della spending review. La subalternità non è più solo quella degli infermieri rispetto ai medici, ma tutti i professionisti sanitari, compresi i medici, sono diventati subalterni rispetto a chi è autorizzato a decidere quanto si può spendere e quali

sono le priorità. Sentiamo il bisogno di figure dirompenti che, in nome degli impegni di cura che hanno scelto come professione, osino far violenza ai nuovi conformismi che si traducono in deprivazione della salute.

Sandro Spinsanti.Psicologo, direttore Istituto Giano - Roma.

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Va bene che le eccezioni sono consentite, almeno du-rante le feste, ma... a volte esagerare non permette di goderci la serata perché ci fa sentire troppo appesan-titi! Quindi, per il cenone di fine anno sarebbe meglio includere nel menù dei piatti tradizionali ma anche sani e magari, se vi piace, abbinare alla mangiata un bel po’ di movimento, ballando fino a notte fonda!Spolverando tra i ricordi, mi è tornato in mente un piatto molto buono e che vi invito a provare: la così detta “insalata di rinforzo”. È un ottimo antipasto per il nostro cenone. L’ingrediente base è una crucifera... il cavolfiore! La presenza di fibre permette di saziarci un po’ senza esagerare con le calorie, oltre a far bene al nostro intestino...Le crucifere non dovrebbero mai mancare sulle nostre tavole visto che, più di altre verdure, sono considerate dalla ricerca scientifica degli importanti cibi ad azione antitumorale. Non ci preoccupiamo se durante la cottura si libera un forte odore di zolfo che potrebbe infastidire i nostri ospiti... Sono proprio le sostanze

protettive quelle che hanno il caratteristico “odore del cavolo” e poi perché possiamo preparare questo piat-to con la ricetta di Angela (vedi Le Ricette di Angela a pag. 23) anche il 30 dicembre e riporlo in frigorifero, così per il 31 la casa sarà di nuovo profumatissima!Concentriamoci ora sul pesce: con questo alimento, oltre a seguire la tradizione italiana per la notte di San Silvestro, mangiamo un cibo leggero e anche ricco di omega-3, i grassi buoni ad azione antinfiammatoria utili principalmente al nostro cuore. A patto, però, di scegliere il pesce giusto. Il miglior pesce è quello azzurro e piccolo (sgombro e alici) che ben si presta a preparare altri antipasti fatti con pane integrale, paté di sgombro o con maionese di soia e un’alice sott’olio. Angela, invece, ci propone un primo davvero gustoso e utile alla salute: riso rosso con verdure e una capa-santa. Il riso rosso è ottimo perché integrale, quindi non ci fa alzare troppo la glicemia come farebbe un riso raffinato, tiene bene la cottura restando croc-cante e unito alle verdure e ci permette di mangiare

Nutrire il benessere

Chi mangia sano a capodanno...

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tanti antiossidanti utili a proteggere le nostre cellule. Ma non solo: le capesante, come anche le cozze e le vongole, sono ricche in ferro che è utile per il traspor-to dell’ossigeno in tutto il nostro corpo. A volte se ci sentiamo stanche può dipendere anche dalla carenza di ferro. Quindi, a San Silvestro, le ca-pesante o anche una pasta con le vongole sono tutti piatti che possono aiutare il ferro a rialzarsi un po’!Per continuare nel menù, il mio consiglio è quello di rimanere sul pesce, magari proponendo un’insalata di mare, senza dimenticare di accompagnare il tutto con verdure di stagione e di tutti i colori, come zuc-ca, carciofi, topinambur, cipolla arrosto o in agrodol-ce, cardo, che vanno ad arricchire il nostro cenone di vitamine e minerali in modo decisamente sano. Ma poi come facciamo al momento del dolce?Se volete mangiare un dolce tradizionale è meglio il panettone rispetto al pandoro (che

è decisamente più grasso e più ricco in zuccheri, specie se spolverato con zucchero a velo!); ma io vi consiglio di mettete in tavola anche frutta secca come noci, mandorle, pistacchi... e frutta essiccata come uva passa, datteri al naturale, fichi e altro perché questi alimenti restano il dolce migliore da consumare (senza esagerare) magari da abbinare a un pezzetto di cioccolato fondente sopra l’80%! Se proprio siamo molto golosi possiamo assaggiare altri dolci tradizionali ma non replichiamo nei giorni successivi! E poi, come da tradizione, zuppa di lenticchie a mezzanotte... ma io ve la consiglio senza zampone e senza cotechino. Una buona zuppa condita con un gustoso olio extravergine di oliva e del

pane integrale tostato è sufficiente per onorare la tradizione senza bisogno di mangiare carni conservate che, come ben si sa, non fanno bene alla nostra salute! Buon anno a tutte e tutti!

Anna Villarini.Biologa specializzata in scienze dell’alimentazione.

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Foto GiòArt

Foto 1) Ingredienti (per 6 persone):360 g. riso rosso2 gambi di sedano2 carote2 cipolle1 porroOlio extravergine di oliva

Foto 2) Preparazione: Lavate il riso finché l’acqua non sia limpida. Met-tetelo a cuocere in pentola con due parti di acqua, portatelo a bollore. Aggiungete il sale e cuocetelo per 25 minuti senza mai togliere il coperchio e ab-bassando la fiamma. Intanto, preparate le verdure tagliate a julienne e saltatele in padella con olio extravergine. Devono risultare al dente. Preparate i piatti e, con delle formine rotonde, il riso. Guarnite con le verdure lasciando un piccolo spazio per la capasanta.

Ingredienti capesante:pane grattugiato1 spicchio d’agliosale e pepeun trito di prezzemoloolio extravergine1/2 bicchiere di vino bianco1 buccia d’arancia

Foto 3) Preparazione capesanteLavate bene le capesante con acqua corrente fredda. Passatele in tegame con un giro d’olio, fatele dorare e spruzzatele di vino bianco. Sgocciolatele e tenetele al caldo. Preparate la panatura con l’aglio schiacciato, sale, pepe e buccia di arancia tritata. Irrorate con il sughetto delle capesante e formate un letto sul guscio delle stesse. Appoggiate la polpa delle capesante e ricopritele con un po’ di pane grattugiato. Conditele con olio extravergine e un fiocchetto di burro. Infornatele per 10 minuti a 180°.Servitele calde con il riso rosso e le julienne.

Riso rosso, verdure julienne e capesante

Foto 1 Foto 2 Foto 3

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Foto 1) Ingredienti (per 6 persone):1 Kg cavolfiori già puliti100 g. olio extravergine di oliva100 g. acciughe sotto sale1 pugno olive verdi grandi1 pugno di capperi100 g. giardiniera250 g. peperoni sott’aceto1/2 bicchiere aceto di vino biancoqb origano

Foto 2) Preparazione:Iniziamo dal cavolfiore, il protagonista della ricetta. Prendete il cavolfiore e dividetelo in tante cime di piccole dimensioni. Mettetele in una pentola con abbondante acqua bollente salata. Fate cuocere per 10 minuti in modo che il cavolfiore resti abba-stanza croccante. Scolate e lasciate raffreddare.

Foto 3) Su un piatto di portata, disponete le cime fredde in modo ordinato e guarnite il tutto con i capperi, le acciughe (dopo aver tolto la lisca), le olive, la giardiniera e i peperoni fatti a pezzetti. Condite con olio extravergine, aceto e un po’ di origano.

Insalata di rinforzo

Angela Angarano. Cuoca nella ricerca Diana.

Foto 1 Foto 2 Foto 3

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Profili

Un premio al coraggioIntervista a Maurizio de Cicco AD Roche Italia

Gentile Dott. de Cicco, cosa ha indotto un’azienda come Roche, leader mondiale nella ricerca e svi-luppo di farmaci innovativi per l’oncologia, a ideare e promuovere un premio letterario indirizzato agli uomini che hanno vissuto a fianco della loro com-pagna con una malattia oncologica?

In Roche crediamo fermamente in una ricerca ambiziosa, che negli anni ci ha permesso di contribuire a riscrivere i libri di medicina soprattutto nei tumori che colpiscono la donna, come quello del seno, delle ovaie o della cervice. Siamo però altrettanto convinti che perseguire un concetto di innovazione dirompente, significhi anche contribuire a ripensare al concetto di malattia e di paziente. In que-sta direzione è nato il progetto #afiancodelcoraggio, per promuovere un cambio culturale nell’approccio ai tumori femminili e sensibilizzare la società su queste patologie: si vuole fare in modo che la malattia non sia un problema solo della donna che ne soffre, ma anche della collettività,

che può sostenerla ed aiutarla. Per questo abbiamo voluto indirizzare questo premio agli uomini, non solo mariti e compagni, ma anche padri, figli e amici che vogliano condividere un racconto di quotidianità, un messaggio che possa colmare la solitudine con cui spesso le donne con-vivono durante la malattia e far comprendere che il cancro è un problema della collettività tutta, non solo di colei che ne è affetta.

L’immaginario della malattia cancro è indubbia-mente cambiato, da male incurabile a male sempre più spesso guaribile o comunque controllabile e cronicizzabile per lungo tempo. Anche per queste ragioni la qualità della vita durante e dopo le cure, è divenuta negli anni un aspetto irrinunciabile che sembra perfino contribuire al miglior esito delle stesse terapie. Secondo lei, l’emergere di questo nuovo scenario, può in qualche modo richiedere l’individuazione di criteri più complessi di valuta-

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zione dell’efficacia dei farmaci, che prendano in considerazione non solo la quantità ma anche la qualità di vita della persona?

Oggi, grazie ai continui progressi della ricerca scientifica abbiamo potuto trasformare diverse patologie oncologiche da “mali incurabili” a malattie croniche, fino a poter parlare in alcuni casi di guarigione. La cronicizzazione di queste malattie, insieme alla necessità di continuare a rendere di-sponibili attraverso il Sistema Sanitario Nazionale i farmaci più innovativi, porta inevitabilmente con sé la necessità di una valutazione delle conseguenze assistenziali, economi-che, sociali ed etiche legate alla scelta di un farmaco. Un processo di valutazione già in essere da diversi anni insieme alle autorità regolatorie e basato sull’Health Technology Assesment.Consapevoli che le decisioni relative alla concessione o al diniego dell’accesso a terapie e servizi sanitari innovativi hanno profonde implicazioni sulla vita e sul benessere dei pazienti, delle loro famiglie e della società più in gene-rale, Roche si impegna affinché il valore dei farmaci sia adeguatamente valutato e riconosciuto. Perché questo avvenga è necessaria una visione condivisa, aperta e par-tecipata, che in Italia solo l’AIFA può garantire, in qualità di Organo centrale nazionale, favorendo l’omogeneizzazione delle prassi regionali e la riduzione delle disparità di acces-so e trattamento.Da parte nostra, già dal 2005 collaboriamo con AIFA, e siamo stati i primi a farlo, per negoziare accordi di prezzo innovativi che consentono di minimizzare il rischio di paga-re, da parte del SSN, per l’insuccesso terapeutico.

La conoscenza di questi nuovi bisogni emergenti e la necessità di dare risposte efficaci per aiutare chi si ammala a rimanere sul treno della vita, richiede l’interazione e la collaborazione delle migliori com-petenze umane e professionali presenti oggi nel sociale, anche per sviluppare nuovi filoni di ricerca in questi ambiti. Come possono interagire, su que-sti temi, in modo sistematico e fecondo, le Associa-zioni presenti sul territorio e le stesse Aziende?

Da oltre 15 anni crediamo nel valore della collaborazione con realtà come la vostra, fondata su principi e valori comuni, quali l’integrità, il reciproco rispetto dei ruoli, l’equità e la trasparenza. In questi anni la partnership con le associazioni sul territorio ha portato al raggiungimento di traguardi importanti, nelle campagne di informazione e per la prevenzione di numerose patologie oncologiche, così come in iniziative come quella citata poc’anzi, #afiancodelcoraggio, e siamo convinti che il nostro impegno debba essere portato avanti con la consa-pevolezza che il bisogno di salute va oltre l’aspetto puramente terapeutico, abbracciando dimensioni

umane ed emotive, troppo spesso non considerate. Tuttavia, siamo consapevoli che ancora molto può essere fatto e siamo al vostro fianco nel far sì che i bisogni che rappresentate e le istanze per cui continuamente vi battete, raggiungano gli interlocutori che possono prendersene realmente carico. In questo scenario sanitario in continua evoluzione, la voce di voi Associazioni diventa più che mai fondamentale per contribuire alla definizione di politiche sanitarie capaci di garantire la migliore presa in carico dei pazienti.

Caterina Ammassari.Redattore Rivista Attive.

#afiancodelcoraggio#afiancodelcoraggio è un progetto

finalizzato a sensibilizzare la società

ad un approccio diverso alla patologia

tumorale femminile e aiutare le donne

a sentirsi meno sole.

Il premio ideato da Roche è volto

a raccogliere storie di vita realmente

accadute raccontate da uomini che

abbiano vissuto da vicino l’esperienza

di vivere accanto ad una donna

con un tumore. Dal racconto

vincitore sarà tratto uno spot.

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VERDE BRILLANTEdi Stefano Mancuso e Alessandra ViolaGiunti Editore16,00 €

Verde brillante spiega perché le piante hanno intelligenza, apprendimento e memoria. Sono organismi viventi niente affatto inferiori. Come scrive Michael Pollan nella presentazione al libro: “Verde brillante è, come nella migliore scienza, il prodotto di un’immaginazione poderosa e di una capacità di guar-dare il mondo da un punto di vista inedito”. Il mondo vegetale ha molto da insegnarci: le piante hanno una personalità, possiedono i cinque sensi come noi, si scambiano informazioni e interagiscono con gli animali. Per sopravvi-vere adottano strategie mirate, hanno una vita sociale, sfruttano al meglio le risorse energetiche. Sono capaci di scegliere, imparare e ricordare, sentono perfino la gravità. Charles Darwin lo aveva già detto più di un secolo fa: le piante non hanno un cervello, perché sono le loro radici a determinarne il comportamento intelligente. Nel 2013 Verde brillante ha ottenuto il Premio Nazionale per la Divulgazione Scientifica dell’Associazione Italiana del Libro e nel 2014 il Premio Gambrinus “Giuseppe Mazzotti”.

TRA DUE VITEdi Laura MazzeriGiunti Editore14,90 €

Perché una storia così particolare come quella di un trapianto ci riguarda tutti? Per quale motivo può interessare anche chi non ha vissuto questa esperienza? Forse perché nella vita di molti di noi avviene, prima o poi, un qualche evento traumatico che per la sua gravità o importanza segna il confine tra un prima e un dopo. In questo libro Laura Mazzeri racconta il trapianto di fegato che l’ha tenuta sospesa “tra due vite”: la sua, prima e dopo l’intervento, e la vita del donatore. Prima c’è il tempo sospeso dell’attesa, in cui la vita familiare scorre tra l’appa-rente normalità quotidiana e le assenze imposte da ricoveri sempre più frequenti. Un tempo nel quale contano i veri affetti, e che prepara alla prova più difficile: il momento temuto e desiderato dell’intervento. Laura non tace il turbamento di sapere, sulla soglia della sala operatoria, che il donatore è un ragazzo. Dopo, il ritorno. Non alla normalità del prima, come tutti si aspettano e vorrebbero, bensì a un’esistenza nuova che si deve confrontare con quella precedente, ma anche con la vita che non c’è più, quella del donatore, il «Giovane Cavaliere». Quando l’ostacolo è superato ci accorgiamo che la vita, in definitiva, è proprio questo: rimettersi in gioco continuamente, nonostante tutto. Questo è il lavoro più impor-tante. È l’avventura della nostra vita quotidiana. Un libro intenso, autentico, che parla a tutti della vita, delle sue prove difficili e della straordinaria, struggente voglia di farcela, sempre.

Letti e piaciutia cura di Serena Ali

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CHI AIUTA I CAREGIVER? Quando un famigliare si ammala di cancrodi Manuela ProvantiniFrancoAngeli Editore15,00 €

Questo libro si rivolge a tutti coloro che si trovano ad affrontare la malattia oncologica e ad accompagnare una persona cara nel difficile percorso che essa comporta, con uno sguardo, in particolare, alla relazione con i figli e ai loro vissuti. Quali sono i bisogni di chi sta accanto a un famigliare ammalato? Come ci si sente a farsi carico della sofferenza di una persona cara? Come la malattia di un genitore influenza la crescita di un figlio adolescente? A questi e ad altri interrogativi si è cercato di dare una risposta in queste pagine, a partire dall’esperienza clinica dell’autrice all’interno di Attivecomeprima Onlus, nel lavoro quotidiano con i pazienti oncologici, i famigliari, i figli ado-lescenti e giovani adulti. È un libro che aiuta a comprendere le difficoltà e a trovare prospettive per non restare impigliati nel trauma, e ciò è fondamen-tale per mantenere la speranza e la capacità di ridare prospettiva alla vita.

Manuela Provantini

Quando un famigliare si ammala di cancro

Prefazione di Stefano Gastaldi

CHI AIUTA I CAREGIVER?

Letti e piaciuti

Incontro con l’autriceil 24 gennaio ore 18.30Sala Alessi Palazzo Marino, Milano

interverranno:Alberto Ricciuti (Presidente Associazione)

Stefano Gastaldi (Presidente Comitato Scientif ico Associazione)

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Ringraziamo chi, anche con un piccolo contributo, sostiene il nostro lavoro.

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Tanti Auguri di Buone Festee Felice Anno Nuovo da tutti noi!