michele maduli gli anni terribili (2008-2014) · i calcoli sbagliati degli esodati. ... da me...

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MICHELE MADULI

GLI ANNI TERRIBILI (2008-2014)

(DALLA MIA FINESTRA DI FACEBOOK)DICEMBRE 2014

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Sommario

PREFAZIONE ....................................................................................................................................... 4

IL CODICE DI PASQUINO .................................................................................................................. 5

LE CARICHE DEI PADRI...NON RICADANO SUI FIGLI ................................................................ 6

LA SECONDARIA DELLA GELMINI ................................................................................................ 7

E LE IMPRESE NELLA SCUOLA ........................................................................................................ 7

PROPAGANDA E PRESIDENZIALISMO. ILCODICE DI CECCANTI .......... 8

ELUANA: FACEBOOK, OLTRE 6000 SCRIVONO A NAPOLITANO, NON FIRMI .................... 9

MODELLO DI TESTAMENTO BIOLOGICO .................................................................................. 10

TESTO DELL'ODG "ELEGGERE SUBITO IL SEGRETARIO DEL PD" DA PRESENTARE STASERA ALL'ASSEMBLEA DEL PD DI SAN BENEDETTO DEL TRONTO. ......................... 12

IO E IL TERREMOTO: QUAL È LA CITTÀ PIÙ SICURA? ........................................................... 13

LA LIBERTÀ DI STAMPA IERI E OGGI ......................................................................................... 14

I BRACCIANTI DI ROSARNO, ........................................................................................................ 15

IERI BIANCHI, OGGI NERI .............................................................................................................. 15

2 GIUGNO 2010: LA DISUNITÀ D'ITALIA. CORAGGIO, POSSIAMO FARCELA! ................. 17

LE SETTE MOSSE VINCENTI DI SILVIO BERLUSCONI ............................................................ 18

MILANESI, RIBELLATEVI AI BOSS! ............................................................................................. 19

SAPPIAMO TUTTI CHI È CESARE. MA BRUTO CHI È? ............................................................ 21

LA DROGA NON C'È PIÙ ................................................................................................................. 22

ADOTTIAMO UN PARLAMENTARE PDL .................................................................................... 23

ZERO IN STORIA E GEOGRAFIA .................................................................................................. 24

ALL'ON. STEFANIA CRAXI ............................................................................................................. 24

QUELL'INDOVINO DI LA ROCHEFOUCAULD ............................................................................ 25

ABBASSO IL LEADERISMO! ........................................................................................................... 26

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MODESTO PARERE PER LA FORMAZIONE DI UNA GIUNTA COMUNALE ......................... 27

ELOGIO DEL FISCHIETTARE ......................................................................................................... 28

UNA LEGA TUTTA DA RIDERE ..................................................................................................... 29

C'ERA UNA VOLTA UN PORTO ..................................................................................................... 30

UNA BIBLIOTECA DI STORIA LOCALE- PRESENTAZIONE DI "CRONACA DI UNA STRAGE ANNUNCIATA" ................................................................................................................. 32

RICORDANDO EMILIO ARGIROFFI ............................................................................................. 38

E' SOLO UNA MANOVRINA. ........................................................................................................... 43

LA CALABRIA DI BERTO (COMMENTO ALL'ARTICOLO DI MARIA FRANCO SU ZOOMSUD) ........................................................................................................................................ 44

SALVARE LE BANCHE O SALVARE LE SCUOLE? ....................................................................... 45

POSTO FISSO, GARANTITI, ........................................................................................................... 46

ART.18 E...MICHEL MARTONE ..................................................................................................... 46

I CALCOLI SBAGLIATI DEGLI ESODATI. .................................................................................... 47

L'INCREDIBILE VICENDA DI UN'AZIENDA CALABRESE ........................................................ 48

LETTERA A UN VINCITORE DA PARTE DI CHI HA VOTATO PER GLI SCONFITTI. ......... 49

IN RICORDO DI PEPPE VALARIOTI, UCCISO 33 ANNI ADDIETRO A ROSARNO, PUBBLICO UNO STRALCIO DI UN VOLUME DA ME SCRITTO ALCUNI ANNI ADDIETRO, DAL TITOLO "IN CALABRIA TRA SOTTOSVILUPPO E MAFIA (1964-1984) .................... 50

IL 21 GIUGNO DI 33 ANNI FA VENIVA UCCISO GIANNINO LOSARDO, GIA’ SINDACO COMUNISTA DI CETRARO (APPENA 10 GIORNIDOPO VALARIOTI) ................................. 55

DIAMO A CESARE QUEL CHE E' DI CESARE. COME E PERCHE' ANCHE LA LOMBARDIA E' TERRA DI MAFIA E DI LOMBARDI MAFIOSI ! ...................................................................... 57

UNA BATTAGLIA DI DEMOCRAZIA IN ITALIA CONTRO POTERI CRIMINALI E RAZZISMI. .......................................................................................................................................... 59

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PREFAZIONE

Quella che avete sotto gli occhi è una raccolta di note, di interventi, sui temi di varia umanità, da me svolti nei sei “terribili anni” che abbiamo vissuto in Italia e nel mondo, a partire dal 2008.

Chi, come me, appartiene all’era prefeisbucchiana, ha trovato, tutto sommato, naturale continuare a esprimersi sui temi del giorno, passando dalla carta stampata, dagli interventi politici, dalle lezioni, dai convegni di varia umanità, al mucchio informe, di idee, di sentenze, di “inutilia”, di opinioni più o meno coerenti, che è diventato, ormai, il deposito FB.

Qui, in questo grande calderone, ciascuno versa (a volte senza ritegno) le riflessioni, le angosce, i pianti e le gioie. Perché FB è accogliente e nel suo grande ventre riceve quel che di buono, di inutile, di malvagio si agita nelle povere menti umane.

Ordunque, questa è una raccolta –ordinata nel tempo- di quel che ho cercato di dire commentando gli eventi o rievocando anche fatti lontani nel tempo.

Non è un libro ma un catalogo ordinato di riflessioni sull’attualità e sulla memoria lontana.

Siccome è gratuito e immateriale (è un gentile omaggio ai miei “amici”) potrà essere utilizzato o messo in un cantuccio.

Per ora (siccome non dispongo di un sito o di un blog) mi premurerò di inviarlo per email a quanti vorranno richiederlo. In seguito, se troveremo qualche anima pia disposta a ospitarlo, sarà scaricabile senza alcuna formalità.

E, adesso, andiamo a incominciare.Michele Maduli, dicembre 2014.

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23.12.2008

IL CODICE DI PASQUINO

Ho lievemente rielaborato il corsivo pubblicato sull'Unità di domenica 21.12.2008 dal politologo Gianfranco Pasquino.

Personalmente condivido le "raccomandazioni" dell'autore che qui pubblico sotto forma di codice comportamentale per il PD:

CINQUE REGOLE PER CRESCERE

L'amalgama dentro il Partito Democratico non è ancora riuscito pienamente. E’ imperativo procedere ad uno sforzo sostenuto e mirato di innovazione, politica e organizzativa. Bisogna costruire un partito, non leggero

Primo, il segretario del PD, non potendo sciogliere le giunte lambite dalla corruzione, comincia con il commissariare le federazioni provinciali di Pescara, di Napoli, di Potenza e, forse, anche le federazioni regionali della Basilicata e della Campania.Secondo, il segretario invita tutti i dirigenti che cumulano cariche di partito con cariche istituzionali a qualsiasi livello a optare immediatamente per una delle due e, se necessario, inizia la procedura per l'inserimento di questa modifica nello Statuto del Partito. Terzo, il segretario chiede a tutte le federazioni la trasmissione al responsabile nazionale dell'organizzazione dei dati relativi a coloro che hanno aderito al partito. Chiede, altresì, che inizi una attività di reclutamento per il 2009, tanto più opportuna in vista delle elezioni amministrative e europee. Sia il reclutamento un momento di discussione, certamente in tempi diff icili, con potenziali aderenti, ma anche con tutti

coloro che, non disponibili ad aderire, vogliono saperne di più sul partito, sulle sue priorità, sul ruolo che intende svolgere. Quarto, il segretario emana una direttiva chiara e inoppugnabile relativa alla circolazione delle cariche. Nessuno dei dirigenti potrà passare da una carica di partito ad un'altra senza soluzione di continuità, ad esempio, i segretari provinciali attenderanno un turno prima di diventare segretari regionali. Quinto, verrà inserita nello Statuto la norma secondo la quale, "senza eccezione alcuna", nessuno/a potrà ottenere cariche elettive nelle zone nelle

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quali non risiede. In attesa di una legge elettorale che si basi sui collegi uninominali, il Partito Democratico abbandona per sempre la pratica dei candidati paracadutati. Parlamentari che conoscano il loro elettorato, che lo incontrino periodicamente, per spiegare, ascoltare, interloquire, costituiscono il più potente strumento per dare vita ad un'organizzazione piantata sul territorio ed incentivata ad essere molto attiva. Quei parlamentari verranno selezionati, ogniqualvolta vi siano più candidature per ciascuna carica, con il metodo delle primarie, l'unica innovazione politica di rilievo finora entrata nello Statuto del Pd, anche se praticata spesso a malincuore e controvoglia. Esclusivamente in questo modo, osservando scrupolosamente tutte le regole della democrazia, con piena assunzione di responsabilità da chi, a tutti i livelli, ha più potere politico, sarà possibile fare crescere il gracile Pd e garantirne il ricambio generazionale.

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24 dicembre 2008 ·

LE CARICHE DEI PADRI...NON RICADANO SUI FIGLI

Non vorrei infierire su certi personaggi, però una delle sottoregole del codice di Pasquino io l'applicherei alle famiglie italiane.

Se in una famiglia viene eletto un parlamentare, la famiglia non può avanzare pretese su un altro seggio: deve saltare almeno un turno.

Se volete è una regola uguale e contraria a quella fissata da Diocleziano che, per evitare la mobilità sociale, stabilì che ciascuno dovesse fare il mestiere del proprio papà. Proviamo, invece, a immaginare un'Italia nella quale il figlio del parlamentare non può fare il politico e occupare cariche pubbliche, il figlio dell'avvocato non può fare l'avvocato, il figlio del barone universitario non può aspirare a un incarico nell'università e via seguendo. Forse è una regola troppo drastica ma almeno eviterebbe a certi genitori di fare delle brutte figure a causa dei figli.

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24.12.2008

LA SECONDARIA DELLA GELMINI

E LE IMPRESE NELLA SCUOLA

Si è detto in passato che il Ministro della Pubblica Istruzione è teleguidato da Tremonti, nel senso che interpreta i tagli del Ministro dell'economia e cuce le riforme per la scuola. Io, invece, ho l'impressione che sia una gran furba, poiché dietro quegli occhi a "fessuretta" nasconde una vocazione fortemente conservatrice.

Siamo sicuri che il ridimensionamento del personale per la scuola elementare risponda solo ad una necessità economica? Se si guarda a quanto sta accadendo adesso per l'Istruzione secondaria e per gli Istituti tecnici in particolare, si potrebbe fortemente dubitare.Che il numero degli indirizzi (39) e delle tipologie (204) dell'istruzione tecnica fosse spropositato, si diceva da anni. Così pure faceva sorridere la storia delle ore di lezione ridotte forzosamente a 50 minuti.Una volta il Ministero convocò tutti i presidi di Istituto tecnico e li invitò a formulare un nuovo quadro orario. Nel mio gruppo di lavoro ci orientammo per 30-32 ore la settimana. I pareri vennero consegnati al Ministero che non li tenne in alcun conto. E così gli alunni continuarono con l'assurdo orario di sei ore al giorno per sei giorni la settimana e i presidi continuarono a chiedere le deroghe per l'ora a 50 o 55 minuti per causa di forza maggiore. La ragione di tale comportamento era da attribuire, sostanzialmente, al fatto che il taglio di 4 ore per settimana avrebbe comportato il ridimensionamento di alcune materie e, di conseguenza, la riduzione del numero dei docenti delle discipline oggetto del dimagrimento.Sarebbe stato più saggio discutere questi problemi insieme con le categorie, con le scuole, con i sindacati. Invece la Gelmini risolve il tutto d'imperio. Fosse solo questo! La cosa grave (che ancora non è stata suff icientemente elaborata) è che negli Istituti tecnici entreranno, di peso, i rappresentanti delle imprese. Nella scuola pubblica, finanziata dallo Stato, i rappresentanti delle imprese potranno mettere becco nella gestione e nei programmi oltre che nelle commissioni d'esami.Chi ha lavorato nella scuola può immaginare

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che cosa voglia dire tale tipo di intromissione. A parte il fastidio di dover concordare la linea e la gestione con degli esterni, sta il fatto che tali esterni sono portatori di interessi "altri" rispetto a quelli della formazione e dell'istruzione pubblica. La scuola pubblica ha il compito di formare dei cittadini, non degli esperti tornitori o esperti periti in relazione ai bisogni delle aziende esterne. Voglio dire, senza togliere nulla all'importanza della formazione tecnica o professionale, che mentre è relativamente facile "istruire" o "riconvertire" un bravo diplomato che abbia ricevuto una buona formazione culturale e ideale, è molto problematico compiere lo stesso "miracolo" con dei diplomati che abbiano ricevuto soprattutto una formazione tecnico-specialistica.Continuiamo a registrare il fatto che i Ministri della Pubblica istruzione (di vario colore) sono molto bravi a "riformare" dall'alto la scuola e che la scuola e la società sono di continuo costrette a mettere delle pezze ai guasti da loro provocati.Parleremo un'altra volta della "scuola ideale" di Renzo e Cristiano!

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25 dicembre 2008 ·

PROPAGANDA E PRESIDENZIALISMO. ILCODICE DI CECCANTI

Anche oggi parto da un intervento sull’Unità del 24.12.2008 del costituzionalista Stefano Ceccanti. L’assetto costituzionale è così delicato che non può essere affidato alle estemporanee e pericolose esternazioni dell’attuale Presidente del Consiglio.

Ripartiamo, quindi, dalle riforme possibili e condivise. L’esemplif icazione di Ceccanti è rigorosa e stimolante. Teniamo tutti la barra dritta!Il Codice di CeccantiI problemi istituzionali esistono, ma vanno affrontati con criteri rigorosi. Primo: niente complesso di Penelope, che ricomincia sempre daccapo a tessere. Nella scorsa legislatura i due schieramenti avevano condiviso la bozza Violante che prevedeva tra l'altro un rafforzamento del Presidente del Consiglio secondo standard delle democrazie parlamentari europee. Si riparte da lì, anche per emendarla, ma non da zero, altrimenti è propaganda inutile. Secondo, sempre sul metodo: niente presenzialismo del Governo, la materia costituzionale è tipica di intese tra i parlamentari, non schiacciamo anche quella sulla logica maggioranza-opposizione perché altrimenti le divisioni sul Governo si rovesciano anche lì. Conviene a tutti, anche ai parlamentari della maggioranza che sulla legislazione ordinaria hanno spazi minori di protagonismo. Il Governo sia un facilitatore, come Prodi, ma eviti eccessi, come parlarne in conferenze stampa sulla sua attività, per rimpinguare il magro bilancio reale con fuochi pirotecnici. Terzo: quando una transizione è iniziata, quando non si costruisce da zero, il diritto deve nascere dal fatto, non da schemi astratti. Il nostro fatto è dato da due elementi: una scelta sostanzialmente diretta del Presidente del Consiglio attraverso la sua maggioranza, da regolare bene con qualche dose di flessibilità ma non di trasformismi durante la legislatura; un Presidente della Repubblica in cui possano riconoscersi tutti. A questi elementi vanno aggiunti nuovi contropoteri. Non si vede perché dovremmo trasformare il Capo dello Stato in capo della maggioranza sopprimendo il Presidente del Consiglio o trasformandolo nel proprio principale collaboratore, riducendo una delle poche garanzie che già abbiamo.Quarto:

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niente clonazioni, niente modelli da prendere chiavi in mano. Il collegio uninominale a doppio turno è ottimo a prescindere dalla forma di governo; collega bene eletti ed elettori evitando preferenze e liste bloccate, il primo turno può anche funzionare da primaria, porta naturalmente alla scelta di una maggioranza. Lo proponeva don Sturzo per l'Italia parlamentare dei primi anni '50 contro lo status quo della proporzionale pura e contro il premio di maggioranza. Allora l'elezione diretta del Presidente in Francia non c'era e quando arrivò, nel 1962, trovò già il collegio uninominale introdotto dal 1958, dopo aver sperimentato sia la proporzionale pura sia il premio. Ripartiamo dal Parlamento e non dalle conferenze stampa del Governo, dalla bozza Violante e dalla rif lessione profetica di Sturzo. Con Penelope si fa propaganda, così invece si serve il Paese.

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6 febbraio 2009 ·

ELUANA: FACEBOOK, OLTRE 6000 SCRIVONO A NAPOLITANO, NON FIRMI

(AGI) - Milano, 6 feb. - "Caro Presidente Napolitano, nonostante i suoi recenti richiami alla moderazione riguardo all'uso dei decreti legge, apprendo con ansia il comunicato del Presidente del Consiglio dei Ministri, col quale annuncia un provvedimento sotto forma di decreto legge volto chiaramente a bloccare l'esecuzione della sentenza della Corte di Cassazione, riguardo il caso della Sig.ra Englaro". Comincia cosi' la lettera inviata gia' da oltre seimila persone attraverso il social network Facebook al Capo dello Stato per chiedergli di non firmare il decreto legge approvato dall'esecutivo. "Mi chiedo - continua la missiva - se il Governo si renda conto che tale decretazione è in contrasto con l'art. 77 della Costituzione, vista l'indimostrabile natura di 'straordinaria urgenza' e con l'art. 101 poiche' si configura come una vera e propria censura politica di una sentenza definitiva, minando la base elementare di uno stato di diritto, la divisione dei poteri". "Scrivo a lei - e' la conclusione del documento - che e' il Garante della nostra Costituzione, a lei che sapra' di certo vigilare sulla deriva meramente decisionista di provvedimenti di questo tipo e preservare il potere legislativo del Parlamento, l'unico organo delegato dal popolo per rappresentarlo, cui spetta la sovranita' della Repubblica".Numerosi i commenti sulla bacheca del gruppo che ha raccolto migliaia di persone in pochissime ore. "E' un colpo di stato!", grida qualcuno. "Mi vergogno di essere italiano", scrivono altri. Piu' d'uno parla del rischio che l'Italia diventi una "teocrazia".

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19 febbraio 2009 ·

Modello di testamento biologico

DICHIARAZIONE DI VOLONTÀ ANTICIPATA PER I TRATTAMENTI SANITARI

Lo sottoscritto/a

______________________________________________

nato/a il _______________ a

_______________________________________

prov. __________

residente a________________________prov. ______

indirizzo _________________________________________________________________________

nel pieno delle mie facoltà mentali, in totale libertà di scelta, dispongo quanto segue in merito alle decisioni da assumere nel caso necessiti di cure mediche.CONSENSO INFORMATO1. • Non voglio • Voglio essere informato sul mio stato di salute e sulle mie aspettative di vita, anche se fossi affetto da malattia grave e non guaribile2. Nel caso decidessi di non essere informato sul mio stato di salute e sugli esami diagnostici e le terapie da adottare, delego a essere informato e a decidere in mia vece il signor ________________________________________nato/a

_______________________________________

il_______________ prov. ______residente a ______ prov._____ indirizzo_____________________. •

Voglio essere informato sui vantaggi e sui rischi degli esami diagnostici e delle terapie

4. Autorizzo i medici curanti ad informare le seguenti persone:

5. DISPOSIZIONI GENERALI

In caso di perdita della capacità di decidere o nel caso di impossibilità di comunicare, temporaneamente o permanentemente le mie decisioni ai medici, formulo le seguenti

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disposizioni riguardo i trattamenti sanitari. Disposizioni che perderanno di validità se, in piena coscienza, decidessi di annullarle o sostituirle. Dispongo che i trattamenti:

1. • Siano iniziati e continuati anche se il loro risultato fosse il mantenimento in uno stato di incoscienzapermanente non suscettibile di recupero.

Non siano iniziati e continuati se il loro risultato fosse il mantenimento in uno stato di incoscienza permanentee senza possibilità di recupero.

2. • Siano iniziati e continuati anche se il loro risultato fosse il mantenimento in uno stato di demenza avanzata nonsuscettibile di recupero.• Non siano iniziati e continuati se il loro risultato fosse il mantenimento in uno stato di demenza avanzata senzapossibilità di recupero.

3. • Siano iniziati e continuati anche se il loro risultato fosse il mantenimento in uno stato di paralisi con incapacità totale di comunicare verbalmente, per iscritto o grazie all'ausilio di mezzi tecnologici.• Non siano iniziati e continuati se il loro risultato fosse il mantenimento in uno stato di paralisi con incapacitàtotale di comunicare verbalmente, per iscritto o grazie all'ausilio di mezzi tecnologici.

DICHIARAZIONE DI VOLONTÀ ANTICIPATA PER I TRATTAMENTI SANITARI DISPOSIZIONI PARTICOLARI. Qualora io avessi una malattia allo stadio terminale, o una lesione cerebrale invalidante e irreversibile, o una malattia che necessiti l'utilizzo permanente di macchine o se fossi in uno stato di permanente incoscienza (coma o persistente stato vegetativo) che secondo i medici sia irreversibile dispongo che:1. • Siano • Non siano intrapresi tutti i provvedimenti volti ad alleviare le mie sofferenze (come l'uso di farmaci oppiacei) anche se il ricorso a essi rischiasse di anticipare la fine della mia vita. 2. In caso di arresto cardiorespiratorio (nelle situazioni sopra descritte) • sia • non sia praticata su di me la rianimazione cardiopolmonare se ritenuta possibile dai curanti. 3. • Voglio • Non voglio che mi siano praticate forme di respirazione meccanica. 4. • Voglio • Non voglio essere idratato o nutrito artif icialmente. 5. • Voglio • Non voglio essere dializzato. 6. • Voglio • Non voglio che mi siano praticati interventi di chirurgia d'urgenza.7. • Voglio • Non voglio che mi siano praticate trasfusioni di

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sangue 8. • Voglio • Non voglio che mi siano somministrate terapìe antibiotiche.

NOMINA FIDUCIARIO Qualora io perdessi la capacità di decidere o di comunicare le mie decisioni, nomino mio rappresentante fiduciario che si impegna a garantire lo scrupoloso rispetto delle mie volontà espresse nella presente carta, il signor______________________________________nato/a a __________________________ il _________\ a prov. residente a ____________________________________ prov.___________indirizzo________________________________________________________________Nel caso in cui il mio rappresentante fiduciario sia nell'impossibilità' di esercitare la sua funzione delego a sostituirlo in questo compito il signor ________________________________________________________________.nato/a il _____________ a ______________________________________

prov___________.residente a prov. indirizzo ______________________________

ASSISTENZA RELIGIOSA1. • Desidero • Non desidero l'assistenza religiosa della seguente confessione:2. • Desidero • Non desidero un funerale.3. • Desidero un funerale religioso secondo la confessione da me professata.4. • Desidero un funerale non religioso. DISPOSIZIONI DOPO LA MORTE1. • Autorizzo • Non autorizzo la donazione dei miei organi per trapianti. 2. • Autorizzo • Non autorizzo la donazione del mio corpo per scopi scientif ici o didattici.3. • Dispongo che il mio corpo sia inumato/cremato.In fede,Si autorizza il trattamento dei dati personali ai sensi del decreto legislativo 196/2003 al solo fine dell’iniziativa pubblica “Sottoscrivi il tuo testamento biologico” In fede

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20 febbraio 2009 ·

Testo dell'odg "Eleggere subito il Segretario del PD" da presentare stasera all'Assemblea del PD di San Benedetto del Tronto.

ORDINE DEL GIORNO CHE SI CHIEDE VENGA MESSO AI VOTI

L’Assemblea del Partito Democratico di San Benedetto del Tronto prende in esame la grave situazione determinatasi con le dimissioni di Veltroni.

Non si tratta solo di una crisi di leadership ma anche di linea politica dell’intero gruppo dirigente, che non ha saputo coniugare le proposte del Lingotto con la necessità di dare corpo ad una forte e decisiva organizzazione nelle realtà locali.Questo straniamento ha contribuito a determinare le posizioni ambigue assunte dal Partito in questi mesi, sulla politica economica e sindacale, sulla collocazione internazionale, sul rapporto con la maggioranza di governo, sul laicismo (vedi il comportamento vergognoso e insopportabile della Bianchi sul tema del testamento biologico).L’Assemblea ritiene che soluzioni provvisorie o differite nel tempo possano esporre il PD a fortissimi rischi, in occasione delle elezioni amministrative ed europee.E’ indispensabile, addirittura vitale, che il PD sciolga immediatamente il nodo della direzione e della linea politica.

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6 aprile 2009 ·

IO E IL TERREMOTO: QUAL È LA CITTÀ PIÙ SICURA?

In principio c'è quello di Reggio e Messina, il "f lagello" come lo chiamava mia nonna che l'anno dopo avrebbe messo al mondo mio padre. La Marina militare italiana giunse con un giorno di ritardo rispetto alle navi norvegesi e russe. Per le generazioni future fu una fortuna, poiché i marinai norvegesi scaricarono gran parte delle provviste di cui disponevano: il merluzzo essiccato che poi sarebbe diventato, come stoccafisso, uno degli elementi di base della cucina calabrese.Curiosamente, conobbi il mio primo terremoto fuori della Calabria, in Emilia dove -credo nel 1969- andai a fare il commissario d'esame. Durante la notte nell'albergo dove mi trovavo, a Castelnuovo nei monti, in provincia di Reggio Emilia, avvertimmo distintamente una scossa sismica. Molte vecchiette uscirono senza ritegno, spaventate e seminude, nei corridoi.Nel 1970, qualche anno dopo l'evento, visitai Gibellina, al centro del Belice. Ancora la ricostruzione non era stata nemmeno avviata. Quei poveretti dormivano tra le lamiere infuocate delle

baracche messe a disposizione dalla Protezione civile. Fu quella la prima volta che una grande organizzazione mafiosa poté mettere impunemente le mani sui fondi che generosamente lo Stato aveva destinato ai terremotati. Forse la mole dei danni recati al territorio in Sicilia (a parte quelli che già la natura aveva provveduto a

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dispensare) fu di poco inferiore a quella procurata dalla camorra campana all'epoca del terremoto dell'Irpinia.Quell'anno -si era nel 1980- dovevo urgentemente raggiungere la capitale, dalla Calabria dove risiedevo, per sostenere le prove orali di un concorso. A differenza di quanto è poi avvenuto per gli altri terremoti, la stampa e la televisione non comunicarono all'opinione pubblica l'esatta dimensione del disastro. Per questo, dopo appena tre giorni dal sisma, io mi ritrovai con la mia auto immerso tra le colonne di bulldozer, di autocarri che da nord e da sud portavano i necessari soccorsi all'Irpinia. A Cava dei Tirreni, dove m'ero fermato per salutare un amico, vidi un paese apparentemente intatto ma in realtà ferito all'interno dalle scosse. Il mio amico aveva messo al sicuro la famiglia trasferendola in una zona lontana e la notte dormiva in corridoio a due metri dalla porta, pronto a balzare fuori.M'avevano assicurato che la riviera adriatica era uno dei posti più sicuri, perché le case sono costruite su un terreno sabbioso che assorbe le scosse ecc. ecc.Quando mi trasferii a San Benedetto del Tronto, in un palazzo costruito a qualche centinaio di metri dal mare, nel piano sabbioso e antisismico, mi dissi "è fatta, abbiamo chiuso con i terremoti!". Mal me ne incolse poiché una notte del 1998 sognai che la mia casa, al sesto piano, si muoveva di qua e di là, ondeggiava come un canneto al vento. Quando accesi la luce m'accorsi che non avevo sognato, visto che le pareti continuavano a danzare.Una settimana dopo l'evento, invitato dal mio amio Salvatore che guidava una missione di soccorso della Regione sarda, mi avventurai per la strada di Colfiorito e raggiunsi il campo di container tirato su in fretta a Serravalle. Cinque anni dopo, invitati dai residenti, ritornai con i Sardi a visitare il paese ricostruito.In viaggio verso il Sud nel 2002, uscii dall'autostrada per fare il pieno di metano. Il ragazzo della stazione di servizio era quasi in lacrime, aveva saputo che nei paesi dell'interno v'era stato un forte terremoto. Quello, appunto, in cui morirono i ragazzi della scuola di San Giuliano di Puglia.Dopo l'Umbria, le Marche, il Molise e la Campania mancava nel rosario la regione Abruzzo. Questa notte ho visto, ancora una volta, danzare le mie pareti al sesto piano. E' stata la mia gattina ad accorgersene per prima e a dare l'allarme. Il computer era acceso, dopo qualche minuto ho localizzato il terremoto. Sulle mappe di Google, curiosamente, andando su e giù, ingrandendo e riducendo, i primi nomi che ho letto, a parte l'Aquila, sono stati Collefracido, Malepasso, Inciampa La Notte, Fronte mortale. Non è uno scherzo. D'altronde Giustino Fortunato descrisse la mia regione, la Calabria, come "uno sfasciume geologico pendulo tra due mari". L'Italia, si sa, è

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ballerina. Abbiamo i centri storici -anche quelli dei piccolissimi paesi- più belli del mondo. Mille e mille piccole città di una bellezza sconvolgente che fa piangere, ma che necessitano di opere di consolidamento, di sostegno per i secoli che hanno sulle spalle.Questa che ho narrato è la vicenda di una persona normale che ha incontrato tanti eventi drammatici, al pari degli altri italiani che vivono sulle creste degli Appennini, sui monti ballerini, sulle coste violentate dai pirati dell'edilizia.Bisogna mettere in sicurezza l'Italia, ricostruire, consolidare gli abitati. Bisogna evitare di creare altre ferite al territorio. Poco fa ho parlato della Calabria come sfasciume geologico, ebbene, c'è qualcuno che pensa di potere collocare sulle sponde della Calabria e della Sicilia un enorme, pesantissimo manufatto come il Ponte. Tutti quei miliardi necessari per la costruzione dell' "opera meravigliao", potrebbero, invece, essere utilmente impiegati per la messa in sicurezza degli abitati.Credevo di abitare nella zona più pericolosa d'Italia, dal punto di vista sismico; e, invece, in cinquant'anni non ho mai avvertito alcuna scossa di terremoto. Con il terremoto di Reggio e Messina, la provincia di Reggio si è, in un certo senso vaccinata. Gran parte delle case a rischio sono già crollate nel 1908. Quelle successive sono stete costruite, nella grande maggioranza, secondo le rigide regole vigenti nelle zone sismiche di prima categoria. Così, paradossalmente, le case non rif inite di questa zona della Calabria, edif icate secondo la logica della Casbah, sono, da un punto di vista statico più sicure di quelle edificate, in tante regioni d'Italia dove, fino a pochi anni fa vigevano regolamenti più permissivi.Se qualcuno adesso, dopo queste mie peregrinazioni tra i luoghi devastati dai sismi, mi chiedesse qual è la città più sicura dal punto di vista sismico, io risponderei "quella dove sono vissuto nella prima parte della mia vita, Taurianova, provincia di Reggio Calabria" Certo, anche grazie al terremoto del 1908!

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2 settembre 2009 ·

LA LIBERTÀ DI STAMPA IERI E OGGI

Negli anni ’80 collaboravo con il quotidiano romano Paese Sera. Il mio avversario politico, un democristiano noto alle procure calabresi (quel Ciccio Macrì che già nel1977 era stato costretto a darsi alla latitanza per oltre sei mesi) imperversava al comune, nella USL di Taurianova, nell’Amministrazione provinciale di Reggio, nonostante le condanne dei tribunali e le reprimende dello stesso Presidente della Repubblica.I miei “pezzi” sul giornale romano disturbavano i potenti del territorio che credettero di potere risolvere i problemi sparandomi addosso un nugolo di querele. E poiché la sede del giornale era a Roma, fui costretto a presentarmi decine di volte presso il palazzo di Giustizia di piazzale Clodio per difendermi dalle accuse lanciatemi contro dal boss locale democristiano e poi sostenute da uno dei tanti avvocati al suo servizio. Paese Sera, è vero, metteva a disposizione dei giornalisti denunziati un avvocato, un compagno-avvocato; ma l’onere della difesa spettava al malcapitato giornalista che veniva querelato per qualche motivo. Solo qualche minuto prima delle udienze conoscevo il mio difensore e lo informavo di come stavano i fatti. In una di queste occasioni incontrai l’avvocato Guido Calvi che già conosceva di fama il mio accusatore. L’avvocato non resistette alla tentazione di raccontare a destra e a manca che stava per presentarsi nell’aula del tribunale di Roma un campione del clientelismo calabrese, il ben noto Ciccio Mazzetta. Fu un accorrere di avvocati e di curiosi che, però, non poterono godersi alcuno spettacolo, visto che Macrì pensò bene di starsene alla larga dal tribunale romano affidando al suo avvocato il compito di chiedere l’ennesimo rinvio. Chi ha esperienza di tribunali, sa che l’arma della querela spesso viene brandita da quanti possono disporre di un nugolo di avvocati al loro servizio. E’ la tecnica dell’intimidazione contro i malcapitati che non dispongono di assistenza legale o di grandi mezzi finanziari.Quando il tempo ha già lenito l’offesa o quando i querelanti di professione non hanno più ragione di rivalersi sui loro avversari, allora è facile che si addivenga ad un accordo e che si chiuda la vicenda giudiziaria -con grande sollievo per tutti, denunciante, denunciato, avvocati e giudici- con la classica remissione di querela. Delle querele contro

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di me ho perso le tracce. In alcuni giudizi sono stato assolto, in altri casi i magistrati hanno proceduto alla archiviazione delle denunce a causa dell’assenza del querelante e della manifesta infondatezza delle accuse.E’ anche in ricordo e a nome dei tanti “giornalisti” che scrivevano e lottavano con la penna negli anni bui del regime democristiano che il 19 settembre sarò a Roma alla manifestazione indetta dai rappresentanti della stampa e dalle forze politiche di opposizione per la difesa della libertà di stampa, in segno di solidarietà con i giornalisti de la Repubblica, de l’Unità, dell’Avvenire e dei tanti che vengono minacciati o intimiditi per conto dei potenti di turno.

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8 gennaio 2010 alle ore 14.00

I BRACCIANTI DI ROSARNO,

IERI BIANCHI, OGGI NERI

Quello che segue è un estratto della memoria da me scritta in occasione della scomparsa del sen. Emilio Argiroffi. Segue un commento sui braccianti del 2020.

"Ricordo i rumori, i suoni, gli odori delle camminate collettive in Calabria negli anni ’50.

In primo luogo le processioni religiose, silenziose e struscianti, rotte dal canto stonato di qualche prete ma sostenuto, per fortuna, dalle voci squillanti delle donne. Il rito prevedeva la preghiera, la passeggiata, gli sguardi dardeggianti dei giovanotti e le risposte con gli occhi delle ragazze, e qualche furtiva toccata.

Poi c’erano i funerali, aperti dalle urla strazianti e, spesso, di maniera, delle donne vestite a nero; qui il rumore di fondo era costituito dai carri pesanti e infiorati o dai primi furgoni che rotolavano sul ceppato e sulle strade battute; e poi il sudore dei passeggiatori forzati, il bisbiglio delle voci di quanti ormai s’erano dimenticati del morto.

Di tutt’altro tenore le processioni dei ‘madonnisi’, i reduci dei faticosi pellegrinaggi alla Madonna di Polsi, che si facevano annunciare da mortaretti, urla di gioia, preghiere e canti alla madonna.

Ma di tutte le camminate collettive quella che mi colpiva di più era la sgroppata delle ‘cogghialivi’, delle raccoglitrici d’ulive che scendevano da Cittanova, da Polistena, la mattina presto, per recarsi sul posto di lavoro nelle campagne di Amato.

Era uno di quei rumori crescenti ed avvolgenti che aveva il potere di svegliarti e di attrarti. Il passo delle femmine delle ante era svelto, anche se appesantito dai fardelli e dai figli. I piedi nudi battevano sulla terra o sulle pietre levigate della ‘via nuova’. L’orda scendeva imperiosa e maestosa; le donne ridacchiavano e si

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scambiavano lazzi, a stento controllate dalle caporale. Poi tutto cessava, quasi all’improvviso: rimaneva negli occhi il ricordo di quelle ceste, di quei sacchi in equilibrio sui colli forti e levigati delle donne, le movenze forzatamente sinuose di quei poveri corpi.

La sera era tutt’altra musica. Dopo una giornata di lavoro, le ulive raccolte una a una, passate al pesante crivello, lanciate in alto per evitare i sassi più pesanti o le foglie più leggere, le stesse donne, scalze, lacere, stanche, risalivano come un serpente stordito le strade della Piana e ritornavano ai loro tuguri paesani.

Questa era ancora simile alla Calabria di prima della guerra, quando alla fame e alla disperazione dei braccianti del luogo si aggiungeva anche quella dei jornatari disperati che venivano dalla Jonica. I greci, con le loro zappette, si vendevano al migliore offerente per una due, tre giornate e dormivano all’aperto o in qualche casolare. Così come si vendevano, al mercato mattutino delle braccia in Piazza Duomo, gli uomini del luogo in cerca di lavoro.

Poi, il padrone radunava la ciurma, la portava sui campi, la schierava in riga, si disponeva a un lato con la sua seggiola e marcava stretti gli zappatori che dovevano procedere all’unisono: guai a chi sgarrava e restava indietro!

Qualche anno dopo, nella sezione comunista, uno di questi braccianti, Ciccio Zagari, raccontava ai compagni divertiti la favola dell’uovo (il padrone aveva regalato a ciascuno zappatore un uovo sodo, con la promessa che non avrebbe rivelato a nessuno il segreto; poi, dalla sua seggiola gridava “ehi, tu di l’ovu!” e i poveri braccianti, che si sentivano gratif icati dal regalo del buon padrone, affondavano con maggiore vigore la propria zappa nella terra umida).

Prima della guerra, dopo la guerra, fino a tutti gli anni ’50 e anche a parte degli anni ’60, nella Piana esistevano le caste, le stratif icazioni sociali. Si partiva dal mendicante per andare allo zappatore, al piccolo contadino, all’artigiano, al piccolo proprietario, al maestro elementare, all’impiegatuccio, al professionista, al commerciante d’olio e d’agrumi, al proprietario terriero, al nobile. Queste le caste principali; poi c’erano le sottocaste, le sfumature tra l’una e l’altra, l’appartenenza ai rioni

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poveri e a quelli più nuovi, a Radicena o a Jatrinoli. Quello che è certo è che nessuno poteva sgarrare, nessuno poteva, ad esempio, sposarsi con una ragazza di casta diversa; tutti dovevano rimanere entro i limiti assegnati, non si sa come o da chi.

Certo, l’immobilismo sociale era il risultato di una lenta sedimentazione secolare, di un sostanziale equilibrio che si era creato e si era mantenuto nel tempo: nessuna legge scritta impediva al singolo di travalicare il fosso, ma ciascuno stava ben attento a non varcare i limiti sociali.

Fino a qualche anno addietro è sopravvissuto a Taurianova, quasi mastio ringhioso, il vecchio carcere che ospitò per pochi giorni, nei primi anni ’50, i braccianti e i dirigenti del movimento sindacale e comunista che avevano osato ‘occupare le terre’ dei baroni e dei ricchi agrari della Piana. E’ stato proprio nel corso dell’Amministrazione presieduta da Emilio Argiroff i, negli anni ’90, che il carcere è stato smantellato e al suo posto è stato creato un parcheggio e un giardino su cui domina il busto del poeta Francesco Sofia Alessio. Una coincidenza, certo, poiché le pratiche per la demolizione erano state avviate molto tempo prima, ma molto gradita al senatore e al poeta comunista.

Raccoglitrici di ulive (cogghialivi) nelle campagne della Piana di Gioia Tauro

Se oggi lo chiedi in giro, pochi saprebbero dirti perché in quegli anni si svolgevano le lotte per la terra. O almeno, molti ti direbbero che esse furono un grande momento di battaglia politica e sociale, voluta dal partito e dal sindacato. Una decina d’anni addietro, in un locale posto sul mare più bello d’Italia, a Palmi, mille miglia lontano dalle cupe e drammatiche campagne della Piana, ho rivisto i protagonisti di quelle battaglie: Falleti, Tripodi, Rossi, Gullo e tanti altri vecchi militanti che in quelle esperienze crebbero e poi si piantarono come querce nei vari borghi della

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Piana, come segretari della Camera del lavoro, come segretari delle sezioni comuniste e socialiste. In quel mondo fermo, immobile, contrassegnato dal più cupo egoismo, quegli uomini e quanti attorno a loro si radunarono, costituirono il primo nucleo di progresso la prima volontà di crescita democratica.

Riunire i braccianti senza terra, le donne delle ante, raccontare loro che tutti gli uomini erano eguali, che esisteva una speranza di riscatto, magari prendendo la terra ai ricchi oppure organizzandosi contro i padroni, oppure ancora partecipando alla vita politica locale, eleggendo consiglieri comunali, gli onorevoli nazionali; ebbene, questa era una grande novità, una sorpresa, soprattutto in una realtà nella quale tutti erano abituati a stare al loro posto, a ubbidire ai più potenti.

Qualche anno più tardi, negli anni ’60, toccò proprio a me e a Emilio Argiroffi di commemorare, nel giorno dei funerali, il padre dei braccianti di Jatrinoli, il vecchio Giuseppe Falleti, detto Pòpita. Allora non riuscivo a capire il senso di quel funerale: in piedi su una moto Ape, a turno con Emilio Argiroffi, rivolgemmo l’estremo saluto a quel vecchio profeta che migliaia di braccianti erano venuti a salutare nel rione Santa Lucia. Più tardi avrei compreso il senso del legame forte che univa tutti quegli uomini, il grande rispetto che quella gente per anni e anni ha provato per i comunisti.

Oggi il vecchio rione dei braccianti di Jatrinoli non esiste più, la popolazione s’è dispersa per l’Australia, la Germania, l’America e la parte nuova della città di Taurianova. Ma, anche quando è lontana o diversa, perché ha cambiato casa, perché ha tradito il Partito (per necessità o per altro) mantiene questo filo sottile, questo legame con quegli uomini e quegli anni."

Non è cambiato nulla per i braccianti della Piana. Solo il colore. Ricordo ancora, sessant'anni addietro, la lunga fila di braccianti che si assiepavano nei pressi del Duomo di Radicena (Taurianova) per sottoporsi all'esame dei muscoli da parte dei caporali che palpavano bene i braccianti e prendevano per le loro squadre i più forti. A rimanere senza ingaggio erano i più deboli, i più disperati che si mettevano a piangere per l'esclusione.

Oggi i braccianti calabresi sono stati sostituiti, in larga parte, da quelli africani, quasi tutti immigrati clandestini, provenienti da regioni diverse, portatori di valori, di culture differenti. Più deboli perché clandestini ma più forti perché più giovani e più

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consapevoli. Abbiamo appreso che migliaia e migliaia di questi braccianti si muovono da una regione all'altra d'Italia, in relazione ai tempi di raccolta delle ulive, degli agrumi, degli ortaggi. Quello che non cambia è la modalità dell'ingaggio, da parte dei caporali mafiosi, ma anche di singoli coltivatori, per pochi euro. Questi braccianti vivono in condizioni molto precarie, nei capannoni dismessi, nei casolari abbandonati, ai margini di città che non vogliono vederli né sentirne parlare. Invisibili ma indispensabili. Senza di loro i mercati agricoli andrebbero in malora; ma 'loro' devono stare attenti a non mischiarsi alle popolazioni delle cittadine vicine ai luoghi dello sfruttamento.

Eppure, gli immigrati nordafricani no sono una novità in Calabria. Molti risiedono nei quartieri abbandonati dei centri storici da decenni, si sono integrati e si sono rifatti una vita, convivono con i calabresi che non si sono mai dimostrati "razzisti", almeno secondo il rito padano.

La novità è costituita dal fatto che i braccianti che si sono ribellati ed hanno devastato in questi giorni Rosarno sono merce sfruttata indegnamente dai caporali mafiosi ma anche da semplici coltivatori. Vittime di questa esplosione di rabbia sono, da una parte i cittadini di Rosarno già vessati dalla mafia e oggi colpiti dalla furia di quanti, sempre dalla stessa mafia sono stati sfruttati e abbandonati a se stessi.

La violenza a Rosarno è di casa. Non si contano nemmeno le volte in cui il palazzo comunale è stato bruciato o devastato. Negli anni in cui risiedevo in Calabria, i docenti evitavano accuratamente di prestare servizio nelle scuole, anche medie, infestate dai giovani con la pistola.

Doppia condanna, quindi, per la popolazione incolpevole che

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è costretta a subire la violenza della mafia e quella delle vittime della mafia.

Con questo non si vuole, in alcun modo, giustif icare la violenza compiuta dai nordafricani contro cose e persone.

Quel che si vuole dire è che l'analisi del ministro Maroni per il quale esistono dei clandestini che vanno respinti, è monca. I primi a non volere l'allontanamento degli immigrati sono i mafiosi e quanti sfruttano il lavoro bracciantile. Senza i braccianti nordafricani i prodotti della terra di Calabria, Puglia, Campania marcirebbero. Senza i braccianti nordafricani gli sfruttatori sarebbero costretti a rispettare i contratti e a pagare molto di più la manodopera locale (ammesso che esista).

Un ministro della Repubblica meno miope si preoccuperebbe di fare applicare la legge, di modificare la normativa sull'immigrazione, di creare condizioni di vita e di lavoro più decorose.

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2 giugno 2010 ·

2 GIUGNO 2010: LA DISUNITÀ D'ITALIA. CORAGGIO, POSSIAMO FARCELA!

Tristi dibattiti e tristi manifestazioni nel giorno in cui si dovrebbe celebrare l'anniversario dell'unità della nazione italiana.

Apri la TV e incappi nelle cronache del Quirinale dove un presidente del consiglio maleducato arriva in ritardo, delizia con le proprie gag il codazzo dei sodali e solo alla fine va a salutare il padrone di casa; il quale non le manda a dire e richiama con educazione l'ospite ingrato. Salti sul canale dei dibattiti e ti imbatti nel filosofo barbuto Cacciari che spande pessimismo e nell'assessore leghista che tiene la solita concione sui meridionali ingrati e spendaccioni e sul nord produttivo e generoso.

Le uniche note positive vengono dai commentatori sportivi che rilanciano per l'ennesima volta il 4-3 di Italia-Germania del 1970 o si aggrappano alla vittoria della tennista che sbaraglia l'avversaria e sbava contro il terreno del Roland Garros.Il buon Michele Mirabella fa l'elenco degli stereotipi sugli italiani e sulle autoironie dei nostri connazionali.Ma come stanno effettivamente le cose? Quando incominciai a interessarmi al tema, negli anni dell'università (inizi anni sessanta), c'era un grosso dibattito sulla "questione meridionale". Venivamo fuori dalla guerra ma stavamo anche assaporando il boom economico di cui furono protagonisti (spesso involontari) i milioni di lavoratori sradicati dal Sud e catapultati nelle fabbriche del Triangolo industriale, oltre che nelle aree industriali della Svizzera, della Germania, del Belgio.

In quegli anni, noi giovani che abitavamo nelle cittadine del Mezzogiorno, vedevamo partire a centinaia, a migliaia, verso terre lontane i nostri coetanei. Se ne andavano (come avviene oggi dall'Africa) i più giovani, i più forti, i più attivi. Rimanevano i vecchi, i malati, le donne, i benestanti.Cento anni prima, altri "emigranti" calati dal Nord, da Bergamo, da Brescia, al seguito del folle Garibaldi, sbarcavano a Marsala e conquistavano, con una certa facilità, la Sicilia, la Calabria e, poi, sul Volturno sgominavano le truppe borboniche. Quindi, consegnavano a Cavour e a Vittorio

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Emanuele le "terre liberate".

La relativa facilità della "conquista regia" non deve ingannarci: le classi borghesi, gli intellettuali (senza scomodare Petrarca, Guicciardini, Leopardi) si ponevano da tempo il problema della unif icazione della penisola. S'è discusso tante volte delle ragioni del ritardo della nazione italiana rispetto alle altre nazionalità europee (Francia, Inghilterra, Spagna). La causa principale credo sia da attribuire alla frantumazione dei poteri (comuni, ducati, staterelli vari) oltre che alla presenza ingombrante della Chiesa. Tra i meriti di Cavour c'è quello di avere approfittato della congiuntura internazionale ma, soprattutto, di avere capito, al pari dei grandi borghesi dell'800 che solo con l'unità politica della penisola si sarebbe potuto dare vita ad un grande mercato nazionale capace di eliminare dazi e gabelle.

Quello che avvenne dopo l'unità dovrebbe essere suff icientemente noto: voglio solo ricordare che la nascita di un nuovo mercato nazionale, senza le tutele e le garanzie necessarie, si tradusse in una crescita rigogliosa dell'economia delle regioni del centro nord e in un vero e proprio arretramento del vecchio Regno delle Due Sicilie. Questo in ragione delle caratteristiche diverse delle due economie regionali: più forte e più adusa al libero mercato quella del Nord, più statalista e protetta quella del Sud: è la nascita della "Questione meridionale".

Un esempio illuminante è quello relativo alla gestione delle finanze del nuovo Regno di Italia. Con la vendita dei beni ecclesiastici e dei vecchi feudi, lo Stato effettua un grandioso drenaggio di capitali che vengono impiegati a favore del capitalismo settentrionale.E veniamo ai nostri tempi. Negli anni '90 l'Italia discute sulla possibilità e sulla opportunità di entrare nel sistema monetario europeo basato sull'euro. E' stato merito di Ciampi e dei Governi di centrosinistra se l'Italia, dopo il tracollo finanziario dei primi anni '90 riesce, non solo a risollevarsi ma anche ad ottenere il via libera, da parte della Germania e degli altri stati. per l'entrata nell'euro. In quella circostanza Tremonti e la destra berlusconiana si dichiararono contrari.Alla luce di quanto ho detto sinora, non si comprendono le ragioni che hanno portato, prima il centrodestra a schierarsi contro la nuova economia europea e, poi, la Lega a pigiare sul tasto della secessione e, in subordine, della progressiva marginalizzazione delle regioni meridionali.Non è solo una questione di giustizia e di riconoscenza nei confronti del Mezzogiorno che ha contribuito in modo

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determinante, sia dal punto di vista finanziario, sia da quello umano, al successo dell'economia "padana".Nessuno nega che il Mezzogiorno, superata la lunga stagione dell'ascarismo (quando in cambio dei sussidi, delle pensioni facili, dei posti di lavoro veri o inventati, le genti meridionali sostennero il sistema clientelare della DC e dei suoi satelliti), debba fare rapidamente i conti con la realtà e procedere alla utilizzazione razionale delle risorse.E' un grande lavoro che bisogna fare, tutti insieme, per scrollarsi di dosso la morsa potente del sistema mafioso che colpisce in modo vario il Sud e il Nord.C'è qualcosa di vero nelle tesi del federalismo fiscale, nel senso che bisogna andare ad una corretta utilizzazione delle risorse e ad un controllo della spesa in sede locale. Ma il modello proposto dalla Lega (che prevede la secessione politica o economica) confligge con quello adottato 150 anni addietro dalla borghesia illuminata del Nord che procedette all'unificazione della penisola e alla creazione di una vasta area di scambio economico.

Io non condivido il pessimismo di quanti ritengono che sia entrato in crisi il sistema politico unitario della nostra nazione. Per alcune ragioni di fondo: non esistono (al di là delle velleità della lega e delle sparate antiunitarie di Bossi e dei suoi fedeli) ragioni valide per spingere gli italiani a rompere il patto stipulato 150 anni addietro. Esiste una tradizione culturale antichissima che costituisce la base solida sulla quale si è andata costituendo l'italianità.

Nella seconda metà del secolo scorso si è completato il processo di formazione della lingua comune che è l'italiano (al di là delle bambinesche pretese di volere riesumare in maniera impropria l'uso del dialetto). La televisione è stata un potente strumento di diffusione della nostra lingua che viene compresa, quando non parlata, dalla quasi totalità degli italiani e dei residenti sul nostro territorio. Sono rimasto molto colpito dalla scioltezza di eloquio di una anziana contadina calabrese che spiegava ad un intervistatore televisivo le ragioni della frana di Maierato.

Chi parla si considera bilingue, nel senso che ha appreso come primo linguaggio quello dialettale e continua a parlarlo piacevolmente con i propri amici, specie nelle occasioni in cui è richiesta una maggiore espressività. Ma non si sognerebbe mai di scrivere sui cartelloni stradali i nomi delle località in dialetto calabrese.

Lingua e dialetto si completano a vicenda, rendono più espressiva la comunicazione (quando vengono usati assieme). Ma

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la lingua italiana è lo strumento principe della comunicazione tra gli italiani e degli italiani con gli altri popoli. Imporre l'uso del dialetto nella comunicazione tra italiani di diversa provenienza geografica, è semplicemente idiota. E' giusto ed è bello che ciascuno conosca il linguaggio materno (non esiste il dialetto padano: nell'area settentrionale, impropriamente chiamata Padania, esistono centinaia di dialetti con migliaia di sfumature locali) ma è assolutamente decisivo, ai fini della corretta comunicazione, che ogni italiano conosca la lingua italiana e comunichi con essa.

A dimostrare che l'Italia è una nazione unitaria, concorre, purtroppo, la considerazione che la mafia si è diffusa in modo prepotente in tutto il territorio. Vale la metafora del cancro che può diffondersi in tutto l'organismo, fino a provocarne la morte. In questi anni (dal '70 in poi) la mafia è stata alimentata dal malgoverno e dagli interessi speculativi. Facciamo un esempio per tutti, quello della camorra o della 'ndrangheta che si alleano con certe realtà industriali del profondo Nord, per procedere allo smaltimento dei rif iuti tossici. Qui vale lo stesso discorso che si fa a proposito del risanamento dei conti pubblici: è necessario uno sforzo comune per procedere alla eradicazione delle mafie. Ammettiamo per un istante che la "Padania" acquisisca lo status di nazione sovrana; ebbene, dovrebbe comunque fare i conti con la questione mafiosa e dovrebbe, paradossalmente ,ricorrere all'aiuto delle regioni che hanno una conoscenza più approfondita dell'argomento. Ma ritorniamo al punto iniziale: esistono ancora le ragioni per credere nella necessità della nazione italiana e per celebrarne con allegria e con convinzione il centocinquantesimo anniversario dell'unità? Una volta si diceva: speriamo di non dover morire democristiani. La mia generazione è riuscita a realizzare questo sogno. Adesso non vorremmo morire berlusconiani o leghisti o, peggio ancora, in una patria che non sia l'Italia. Coraggio, possiamo farcela!

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6 luglio 2010 alle ore 16.48

LE SETTE MOSSE VINCENTI DI SILVIO BERLUSCONI

Ha detto "ghe pensi mi". Ci sta pensando sul serio.

Prima mossa: convince il fido Brancher, quello che quando stava a S. Vittore lui andava a consolare idealmente girando attorno al carcere con l'auto, a dimettersi da ministro. E' stata la cosa più facile, visto che l'Aldo aveva già bruciato la formidabile carta del legittimo impedimento.

Seconda mossa: per la nomina di un ministro per le Attività produttive, al posto di Scajola, sta pensando a qualcuno che provenga dal fronte finiamo e che abbia delle buone entrature con la Fiat: perché è necessario, anche a costo di qualche regalia, tenersi buona la Fiat e convincerla a produrre la Panda a Pomigliano.

Terza mossa: dopo le severe rampogne a Tremonti che ha disposto una manovra con la quale ricupererà, forse, 25 miliardi, ma ha fatto incazzare tre quarti degli italiani, Berlusconi sta procedendo alla distribuzione di zuccherini per tutti. Le prime zollette per la Marcegaglia e i suoi amici imprenditori, poi ci sarà qualcosa per alcuni amministratori e per le regioni di centrodestra. Nella categoria zuccherini rientrano i vari refusi già ritirati e quelli che verranno ancora, sbadatamente, lanciati da qualche parlamentare.

Quarta mossa, la manovra, ripulita dalle tossine, verrà ulteriormente imbellettata e e quindi votata con la fiducia. I finiani si incavoleranno di brutto ma piegheranno la testa. Rimarrà solo Errani, superincazzatissimo, a fare le linguacce al Governo.

Quinta mossa: La legge bavaglio verrà votata prima dell'autunno non senza qualche mal di pancia tra i finiani. In questa occasione non verrà utilizzata la fiducia; così Berlusconi e il triunvirato potranno espellere i parlamentari infedeli e fare finalmente pulizia nel partito.

Sesta Mossa: la legge Alfano, ulteriormente modificata, ma questa volta per escludere dai benefici il Capo dello Stato, verrà approvata tra suoni di fanfare e alalà.

Settima mossa: per tutto quanto non rientra nei punti

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precedenti, si provvederà con la modifica della costituzione, seconda e prima parte.

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13 luglio 2010 alle ore 23.58

MILANESI, RIBELLATEVI AI BOSS!

Risale al 1991 la strage delle "teste mozzate" di Taurianova, quando la mafia provocò la morte, nell'arco di 24 ore, di cinque persone. La reazione in Italia fu grande. Tutta la stampa guardò con sdegno agli eventi barbari della estrema provincia calabrese. Tra gli altri il Corriere della sera, per la penna di Giuliano Zincone, si chiese perché mai i calabresi di Taurianova non si ribellassero alla mafia. Io già vivevo lontano dal mio paese ma ero stato testimone -e anche protagonista- della battaglia politica svoltasi nei trent'anni precedenti. Per questo ritenni giusto scrivere al Corriere della Sera una lettera di risposta a Zincone che di seguito pubblico.

"Calabresi, ribellatevi ai boss", urla con sincero sdegno civile Giuliano Zincone sul Corriere della Sera. Ma quando i calabresi si sono ribellati ai boss e alla mafia, nessuno s'è accorto di loro.

Sono stato per ventisette lunghissimi anni capogruppo consiliare dell'opposizione proprio a Taurianova, il paese delle teste mozzate.

In questo paese ha sempre governato (tranne che per tre brevi periodi) un potentissimo clan DC. Ma l'opposizione al sistema clientelare democristiano è sempre stata molto forte, almeno sino al 1988, quando è apparso chiaro a tutti che non serviva più a niente e a nessuno ribellarsi.

Nel lontano 1956 la DC ed i prefetti impedirono l'elezione a sindaco del leader dell'opposizione. Nel 1965 il presidente dell'assemblea comunale (un democristiano) per ben tre volte brigò per rendere nulla l'elezione di una Giunta di sinistra e ci volle una lunga occupazione di consiglio per sbloccare la situazione.

Nel 1986 l'attuale sindaco democristiano, Olga Macrì, e suo fratello Ciccio, tentarono con ogni mezzo di impedire a 18 consiglieri (comunisti, socialisti, dc dissidenti) di formare una amministrazione alternativa. Dovettero scendere in piazza migliaia di persone per cacciare dal consiglio i due fratelli.

Fino al 1970 la DC, per governare, ha dovuto sempre catturare consiglieri di altri gruppi (tre sono stati strappati al PSI, due al MSI). Ma, anche quando ha avuto la maggioranza assoluta,

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essa quasi mai è riuscita a portare a termine il mandato.

Sono stato testimone delle più incredibili e sconvolgenti violazioni della legge, dei regolamenti, da parte dei boss democristiani e le ho puntualmente denunciate, insieme con i miei compagni, in consiglio, ai giudici, alla stampa, agli organi antimafia, in centinaia di interrogazioni, di inchieste che hanno avuto il potere di mettere più volte in ginocchio il gruppo di potere locale democristiano.

Innumerevoli sono stati i procedimenti giudiziari che hanno visto come protagonisti i dirigenti locali di questo partito, quasi sempre condannati in primo o in secondo grado e, qualche volta, anche in cassazione. Per ben due volte il Presidente della Repubblica è intervenuto per sciogliere gli organi dirigenti della locale USL controllata dallo stesso clan con metodi che sono stati più volte illustrati e portati ad esempio di come mai si dovrebbe governare la sanità.

Ho iniziato la mia battaglia amministrativa quando i boss democristiani perlustravano il paese, in campagna elettorale, scortati dai guardiacaccia e l'ho, praticamente, conclusa nel 1990, quando mi sono dimesso (insieme con tutti i consiglieri del PCI e del PSI) da un consiglio comunale "eletto in un clima di terrorismo politico-mafioso".

In tutto questo lunghissimo periodo la copertura dei dirigenti provinciali, regionali e nazionali della DC è stata totale nei confronti di un capoclan che ancora brandisce come arma, nei confronti dei propri amici parlamentari o aspiranti tali, il controllo pieno di 25.000 preferenze appartenenti, di certo, a cittadini italiani rassegnati e dimezzati.

Nei momenti diff icili tutti i dc che contavano sono venuti a Taurianova per sostenere i loro amici in diff icoltà. Quando Ciccio Macrì era latitante, la DC inviava l'on. Ligato e il capolista alle regionali, l'on. Battaglia, a parlare dal balcone di casa Macrì.

Ma altrettanto significativi sono stati i silenzi dei dirigenti nazionali come Misasi, De Mita o Forlani più volte chiamati in causa.

"Dov'è Taurianova?" -si chiede Zincone- Ce l'ha il coraggio di promuovere una sua rivoluzione culturale?

Taurianova, i paesi della Piana e del reggino la loro protesta l'hanno espressa, caro Zincone. Civilmente, ma con decisione,

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quando scendevano in piazza contro la mafia negli anni '70. Allora l'Italia democratica era forse -e giustamente- troppo occupata con il terrorismo per comprendere la gravità e l'eccezionalità di situazioni come quella di Taurianova, dove la parte più avvertita della popolazione combatteva una battaglia in difesa della democrazia e dei diritti civili, non solo locali, ma di tutto il Paese.

Non è retorica né esagerazione la mia. Se è vero che oggi il gesto terribile dei tagliatori di teste, verif icatosi nella stessa città, viene visto come offesa all'intera democrazia ed all'intera civiltà.

Ormai vivo lontano, per motivi di lavoro ma anche per libera scelta, dal mio paese. Oggi, in una città profondamente sfiduciata nei confronti dello Stato e che esprime un consenso di massa nei confronti della mafia, non c'è più posto per chi voglia combattere in difesa della democrazia.

No, io non pongo l'antico dilemma se valga la pena di morire per Danzica o per Kuwait City. Mi chiedo, invece, se abbia un senso continuare a combattere, ribellarsi, "sputare in faccia ai mafiosi", quando coloro i quali dovrebbero guidare politicamente tale lotta, in passato si sono sempre schierati dalla parte dei prepotenti.

Non mi meraviglio più di tanto se questo è avvenuto. Anche per la guerra del Golfo è successo qualcosa di analogo. Le nazioni occidentali si sono accorte solo nel 1990 della pericolosità e della diabolicità di un dittatore come Saddam Hussein che essi avevano amorevolmente assistito, finanziato, rifornito di armi nei decenni precedenti.

Molti di coloro i quali oggi si sbracciano e si scandalizzano per la barbarie dei killer calabresi, ieri, però, assistevano tranquilli alle trasformazioni sociali del Mezzogiorno, frutto di interventi economici sbagliati e improduttivi. Nella Piana di Gioia Tauro, che è un'immensa distesa di ulivi, sono piovuti -a partire dagli anni 60- centinaia di miliardi di integrazione della CEE. I mafiosi, per impossessarsene, hanno acquisito con le buone o con le cattive la proprietà dell'uliveto, espellendo la vecchia nobiltà agraria. Nello stesso periodo, lo Stato ha letteralmente corrotto con le pensioni facili, con gli assegni di disoccupazione, di maternità, migliaia di braccianti. Al resto hanno pensato i vari capiclientela, come i Macrì, che hanno utilizzato gli enti pubblici, soprattutto gli ospedali, per catturare i disoccupati locali.

Non ripeto quanto è più volte stato detto sul modo in cui si è

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proceduto all'industrializzazione delle Calabria (cattedrali nel deserto, Vo centro siderurgico, centrale a carbone) o sul tipo di approccio che l'industria e l'impresa del Nord hanno avuto con questa regione (ad alimentare la logica della mazzetta non sono solo gli imprenditori locali, ma anche quelli blasonati del Centro-Nord, gli Enti pubblici, la grande Cooperazione ecc.).

Gli effetti di tali politiche disastrose sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di governo hanno sì stravinto nel Mezzogiorno, sul piano dei consensi elettorali, ma facendo pagare elevatissimi costi all'economia e alla società: in più hanno dovuto accogliere nei propri ranghi i quadri della mafia, intenzionata ormai a controllare non solo la campagna e il traffico di droga, ma anche l'edilizia, gli appalti, il territorio.

Per ritornare alla guerra del Golfo, lì gli americani, gli europei, nel momento in cui si sono schierati contro l'Iraq, hanno dovuto operare una brusca inversione di rotta. Nessuno sarebbe andato a combattere contro un nemico come Saddam Hussein rifornito di armi dallo Stato maggiore occidentale.

Neanche i calabresi, che per la stragrande maggioranza -come riconosce lo stesso Zincone- sono persone per bene, se la sentono di combattere contro i locali Saddam Hussein, almeno fino a quando lo Stato maggiore dei partiti di governo non intende recidere, in tutti i sensi, i propri legami con le forze che inquinano la democrazia meridionale.

Il problema non è solo di polizia o di leggi speciali. Riguarda essenzialmente il tipo di politica economica che si vuole perseguire in Italia; in tutta Italia, non solo nel Mezzogiorno.

Per questo, parafrasando Zincone, io dico: milanesi, ribellatevi ai boss!

Mi chiedo, infatti, quanti democristiani o repubblicani o socialisti di Milano o di Padova o di Torino, abbiano chiesto ai loro dirigenti conto della politica seguita dai partiti di governo nel Mezzogiorno! Possibile che tutti si indignino per i tagliatori di teste e poi nessuno, o quasi, si scandalizzi per il comportamento della Democrazia Cristiana che continua a proteggere ed a difendere la Giunta comunale di Taurianova?

Ha ragione l'on. Martelli quando chiede lo scioglimento del Consiglio comunale di questa città; anche se personalmente mi riterrei soddisfatto di un semplice scioglimento della sezione locale

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da parte di una DC divenuta improvvisamente coraggiosa. Certo, la DC, quella calabrese e quella di Milano, di Padova o di Torino, potrebbe perdere (ma non è sicuro) in voti e in preferenze, ma certo ne guadagnerebbe in trasparenza e in pulizia.

Oggi, potremmo dire paradossalmente, i calabresi per bene si dividono in due grandi categorie: quelli che vorrebbero andare via e possono farlo, e quelli che vorrebbero andare via ma non possono farlo.

A dire il vero, tanti altri hanno accettato la logica e la protezione dei capiclientela e dei mafiosi e votano per loro senza costrizione alcuna. Tutti, però, hanno capito che il governo gioca a lenire e a sopire e che non è per nulla intenzionato a tagliare i rifornimenti ai boss, come pure dovette fare Bush prima di sferrare l'attacco all'Iraq.

Questo è il motivo per cui a doversi preoccupare maggiormente della situazione calabrese dovrebbero essere gli altri, quelli che vivono nelle regioni più fortunate e più tranquille: prima che sia troppo tardi, prima che il modello dei tagliatori di teste prenda definitivamente piede anche altrove. Ecco perché ripeto: “milanesi, ribellatevi ai boss!”

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15 luglio 2010 ·

SAPPIAMO TUTTI CHI È CESARE. MA BRUTO CHI È?

BRUTO: Siate pazienti sino alla fine. Romani, compatriotti, e amici! uditemi per la mia causa, e fate silenzio per poter udire: credetemi per il mio onore; ed abbiate rispetto pel mio onore affinché possiate credere: giudicatemi nella vostra saggezza, ed acuite il vostro ingegno affinché meglio possiate giudicare. Se vi è alcuno qui in questa assemblea, alcun caro amico di Cesare, a lui io dico che l'amore di Bruto per Cesare non era minore al suo. Se poi quell'amico domandi perché Bruto si sollevò contro Cesare, questa è la mia risposta: non che io amavo Cesare meno, ma che amavo Roma di più.Preferireste che Cesare fosse vivo e morire tutti da schiavi, o che Cesare sia morto per vivere tutti da uomini liberi? In quanto Cesare mi amò, io piango per lui; in quanto la fortuna gli arrise, io ne godo; in quanto egli fu coraggioso, io l'onoro; ma in quanto egli fu ambizioso, io l'ho ucciso: vi sono lacrime per il suo amore, gioia per la sua fortuna, onore per il suo coraggio, e morte per la sua ambizione. Chi v'è qui sì abietto che sarebbe pronto ad essere schiavo? Se vi è che parli, perché lui io ho offeso. Chi vi è qui sì barbaro che non vorrebbe essere romano? Se vi è che parli; perché lui ho offeso. Chi vi è qui sì vile che non ami la sua patria? Se vi è, che parli, perché lui ho offeso. Aspetto una risposta.I CITTADINI: Nessuno, Bruto, nessuno. (dal Giulio Cesare di w. Shakespeare)

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25 agosto 2010 ·

LA DROGA NON C'È PIÙ

La droga è scomparsa dai luoghi di spaccio. Ricordate i palazzi di Gomorra, i quartieri degradati di Palermo e delle altre città, i vicoli di Genova, le discoteche dei vip e dei disperati, i quartieri nelle mani degli slavi, dei nordafricani, dei cinesi, dei calabresi, dei napoletani, dei siciliani? Non c'è più niente, è tutto finito. Le grandi navi non attraccano più cariche di droghe al porto di Gioia Tauro; la 'ndrangheta ha dovuto rivedere i propri piani di conquista. In Afghanistan non si combatte più per il controllo del papavero. La coca è stata restituita ai contadini colombiani e i narcos son rimasti disoccupati.

Rapido flash back. Ricordate i filmetti tv americani con le macchine della polizia di Rosco sempre in caccia di contrabbandieri? Ricordate come la mafia italoamericana riuscì negli anni '20 a fare il gran salto con il commercio dei liquori, allora proibiti? Fu, quello del proibizionismo in America, un caso da manuale. La mafia, i commerci illegali, l'aumento dell'uso degli alcolici furono diretta conseguenza dell'assurdo divieto di commerciare liberamente wisky e altri alcolici.

Ritorniamo a Scampia; dal momento in cui la droga è stata resa legale, sono scomparsi gli spacciatori e i luoghi sordidi e tristi di scambio di coca, crack, eroina. Adesso le droghe si vendono, sotto controllo, in farmacia. E' un sogno, una richiesta irrazionale, una invenzione giornalistica?

E' solo uno scenario possibile. Io non so se la diffusione libera, a prezzi controllati, sotto vigilanza sanitaria possa servire a limitare la diffusione delle droghe di qualsiasi tipo. Né discuto sull'eticità della scelta. D'altronde, nessuno se la sentirebbe di rimproverare i gestori dei tabacchini o dei bar che vendono tabacchi e liquori!

So, però, che mafie, narcos, spacciatori sarebbero costretti a cambiare mestiere ed a ridurre drasticamente le operazioni di riciclaggio di denaro sporco nelle banche e nelle borse di tutto il mondo. Riprenderebbero i sequestri di persona e altri crimini? potrebbe darsi. Ma sarebbe poca cosa di fronte di fronte alla prospettiva di potere eliminare, quasi definitivamente, lo smercio di droghe nelle nostre città.

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Il dibattito è aperto.

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6 aprile 2011 ·

ADOTTIAMO UN PARLAMENTARE PDL

E' inutile sperare nella redenzione di Silvio Berlusconi. E' un uomo perso, irrecuperabile, disperato ma tenace, bugiardo ma apprezzato da milioni di persone. Il suo obiettivo (legittimo) è quello di salvarsi la pelle, di evitare gli attacchi più o meno credibili degli avversari e della magistratura. Per questo, qualsiasi ragionamento politico viene meno di fronte alla preoccupazione più grande dell'uomo: quella di salvarsi il patrimonio e la vita, di evitare condanne e galera.

Chiuso, quindi con Berlusconi: inutile rimproverargli le barzellette fuori luogo (e anche cretinette), le corna, il dito medio proteso, le amicizie squalif icate, l'allegra compagnia di giro delle starlettes televisive, la politica del cucù e il baciamani all'orribile Gheddafi.

Occupiamoci, invece, delle centinaia di parlamentari che lo sostengono. E' vero, sono stati quasi tutti "nominati" da Berlusconi e dall'amico di balia Umberto Bossi. Non politici che hanno sudato la cadrega, che hanno battagliato nelle piazze piccole e grandi del Paese o nelle sezioni impolverate dei Partiti, ma addestrati yesman, portaborse prima e poi servitori selezionati tra le categorie preziose degli Avvocati, dei Fiscalisti, degli Esperti in affari, imbrogli, pastette e poi, ancora, belle figliole capaci di soddisfare le voglie dei camionisti e di allietare le serate di Palazzo Grazioli, Arcore, Villa Certosa e altre residenze in giro per l'Italia e nel mondo. Meno che a Lampedusa, dove l'affare non è stato concluso.

Dopo queste divisioni per competenze, io passerei alle divisioni per territorio -che sono le più importanti- tranne che per alcuni personaggi senza tempo e senza storia che potrebbero venire nominati in qualsiasi luogo.

La prima grande ripartizione è quella per regione. Almeno venti grandi luoghi e, poi, per provincia: cento e passa (ma potrebbero ancora crescere!).

La proposta che avanziamo è quella di procedere alla identif icazione di tali personaggi, regione per regione, provincia per provincia, vallata per vallata. Alcuni, pezzi di pregio, la gran

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parte, peones sconosciuti al di là dei confini municipali.

La catalogazione è facile. Sul sito della Camera dei deputati, ad esempio, è possibile, con gli opportuni filtri, procedere alla identif icazione dei deputati di maggioranza (PDL, Lega e varie minuzzaglie). Ogni parlamentare può essere raggiunto tramite posta elettronica. Alcuni dispongono di un sito internet o di un blog. Tutto questo per facilitare il contatto tra parlamentare e popolo. Non c'è rischio di incorrere nel reato di stalking perché i deputati non sono bellocce o bellocci da importunare, ma rappresentanti del popolo che, nel dialogo continuo con gli elettori, hanno tutto da guadagnare.

Perché diciamo che il parlamentare va "adottato"? Perché crediamo che molti, tanti di loro non si rendono nemmeno conto del ruolo che sono stati chiamati a svolgere. Sì, lo sappiamo, non sono degli imbranati da imboccare; fanno quel che gli viene chiesto di fare. Ma un conto è che una squadra di rapinatori compia il colpo del secolo, grazie alla professionalità e all'abilità dei membri; altro che un insieme di scalcagnati entri in una banca dalla porta principale, aperta dalle guardie private e che, poi, scappi dalla scena del crimine con la protezione di polizia e carabinieri, tra l'esultazione degli amministratori e del popolo plaudente.

Pochi interrogativi bisognerà porre: moltissimi parlamentari non riescono nemmeno a rispondere alle domandine delle Iene, figuriamoci se possono fornire compiute spiegazioni su leggi, decreti, commi e pandette!

Due domandine facili facili, per iniziare:

1) Onorevole, lo sa che la legge in votazione sul processo breve, porterà all'annullamento di migliaia e migliaia di processi, impedendo a tanti cittadini che attendono da anni, di avere giustizia e a tanti probabili mascalzoni di farla franca? Lo sa che l’approvazione di tale legge consentirà all'on. Berlusconi di evitare il giudizio sulla vicenda Mills?

2) Onorevole, si discute se la competenza a giudicare il Presidente del Consiglio per il reato di concussione sia del Tribunale di Milano o di quello dei ministri. Pur di non comparire presso il Tribunale milanese, Berlusconi ha affermato che era proprio convinto che Ruby fosse nipote del Presidente egiziano Mubarak. Proprio per evitare crisi internazionali e guerre in Nordafrica (che, poi, sarebbero scoppiate comunque), lo stesso

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Berlusconi ha telefonato da Parigi alla Questura di Milano chiedendo la liberazione della Ruby e il suo affidamento, in quanto minorenne, alla sua amica Minetti.

Prima di rispondere, Onorevole, rif letta: lei è proprio convinto che il Berlusconi sia tanto “pirla” da credere che la ragazza marocchina fosse, invece, egiziana titolata? O non ritiene, invece, che Berlusconi sia una persona furba e intelligente che mai si sarebbe bevuto la storia di una Ruby egiziana, nipote di un potentissimo dittatore? Libero di pensarla come vuole, anche che l’asino vola e che ai Poli si fanno i bagni termali.

Tutti i cittadini, a prescindere dall'idea politica, possono interpellare i deputati e i senatori della propria provincia, del proprio territorio. Lo possono fare isolatamente, scrivendo una e-mail al Parlamentare "adottato" o invitando lo stesso a partecipare a un dibattito aperto. Possono pubblicare un volantino, possono scrivere lettere ai giornali, possono -in poche parole- compiere tutte le azioni opportune al fine di evitare che il proprio "protetto" incorra in ulteriori sviste.

Le domande che abbiamo posto, possono essere riformulate o anche cambiate. L'importante è evitare che i nostri "adottati" possano continuare a fare male a se stessi e agli altri.

23 aprile 2011 ·

ZERO IN STORIA E GEOGRAFIA

ALL'ON. STEFANIA CRAXI

Non c'è cosa peggiore che fare politica in nome del padre. Perché questo ti carica di responsabilità e ti spinge ad assumere comportamenti malsani. Il fatto che -nel caso che intendo esaminare- il padre si chiami Bettino Craxi e che i due figli abbiano abbracciato posizioni diverse, tutti e due in nome del padre Bettino, conferma la validità del mio assunto.

Chi scrive non è stato mai antisocialista, anzi militava nello stesso partito di Craxi nel lontano 1963, quando Stefania era una bambina. Ha continuato a esserlo fino al '72, quando il Psiup si scioglieva e, in ricordo di quel primo innamoramento, quando

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Occhetto liquidò il vecchio PCI, propose, insieme ad altri, che il nuovo partito (che poi si sarebbe chiamato PDS) assumesse la denominazione di "Eurosocialismo". Devo dire che Craxi, quando era ancora in auge, facilitò l'ingresso del PDS nell'internazionale socialista, dimostrando una lungimiranza sconosciuta ai tanti che, poi, si dispersero, come schegge impazzite, nell'arcobaleno politico italiano. Oggi, a fronte di pochi superstiti che resistono nelle formazioni che ancora si richiamano al socialismo, si ritrovano nuclei consistenti di ex-socialisti anche nel partito che, in teoria, dovrebbe essere il più distante, dai principi universalistici, egualitari, libertari, democratici del vecchio socialismo, cioè nel PDL di Silvio Berlusconi. Ora, a me non interessa per nulla che Stefania Craxi o Bobo Craxi si dichiarino di destra o di sinistra; è nel loro diritto: l'importante è che lo facciano per conto loro, per le convinzioni che hanno maturato e non perché "sic et simpliciter" siano figli di Bettino Craxi.

Mi ha fatto una certa impressione, pertanto, sapere che per la venuta di Stefania Craxi a San Benedetto del Tronto si siano mobilitati due leader locali, uno dichiaratamente di centro-destra e l'altro a capo di una lista che si richiama al socialismo. Ma la cosa più strana è che, a un certo punto, l'on. Stefania Craxi, con notevole sprezzo della storia e della geografia, abbia levato l'indice accusatorio nei confronti delle amministrazioni locali marchigiane, arrivando a sostenere che il centrosinistra le amministrerebbe “con uno stile che non ha nulla da invidiare agli stili mafiosi del sud Italia”.

Ora, per carità, comprendiamo che un intervento elettorale non può avere la stessa nitidezza del saggio politico o storiografico; però non è lecito a nessuno azzardare siffatte teorie che fanno male non solo alla verità storica e geografica ma anche alle intelligenze di quanti ascoltano o leggono i resoconti elettorali. Partiamo dalla geografia; l’on. Craxi parla degli “stili mafiosi del sud Italia”, lasciando capire che tali stili sarebbero propri delle regioni a sud del fiume Tronto. Ora, è innegabile che la stragrande maggioranza degli eventi mafiosi, delle collusioni politiche con la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, appartengano alle regioni meridionali, in primis la Sicilia, la Calabria, la Campania. Ma le cronache, anche recenti, ci dicono che tali fenomeni collusivi si ritrovano in quantità preoccupanti nelle regioni del centronord, segnatamente a Milano e in Lombardia, dove l’on. Craxi svolge la propria attività politica. Esiste una sorta di sciame mafioso coincidente in gran parte con quello dell’emigrazione calabrese e

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siciliana nel secondo dopoguerra. Quando i braccianti, i disperati del Sud, furono risucchiati dal sistema industriale del Nord affamato di braccia, migliaia, anzi milioni di esseri umani si spostarono nel Triangolo settentrionale Milano-Torino-Genova con tutto il loro carico di sofferenze, di disperazione, di voglia di riscatto sociale. E siccome gli uomini sono portatori di valori, di abitudini, di convincimenti, assieme alla pastasciutta e al caffè, portarono anche quei disvalori che, con una generalizzazione comprensibile potremmo definire la “mafiosità”.

In un libro-intervista di qualche anno addietro, Pino Arlacchi ripercorse l’evoluzione della mafia siciliana narrando la storia di un esponente siciliano che non era vissuto nelle storiche lande mafiose ma nella provincia “babba” di Catania. Le province “babbe”, cioè buone a nulla, erano quelle orientali della Sicilia. Così come “babbe” nella classificazione interna alla mafia, erano le altre realtà italiane: Roma, L’Emilia e Romagna, il Piemonte, la Lombardia, la Liguria ecc, cioè tutte le regioni verso le quali si era indirizzata l’emigrazione meridionale. Fino agli anni ’60 la mafia era stata un fenomeno rurale; si era limitata a controllare le terre dei baroni e aveva espresso sentimenti antistatuali. In alcune zone della Calabria, gli ‘ndranghetisti avevano compiuto un tratto di strada in comune con le organizzazioni contadine: gli uni e le altre esprimevano una forte rabbia contro i rappresentanti dello Stato e contro le forze politiche che con lo Stato erano un tutt’uno.

Sarebbe lungo e complicato descrivere la trasformazione delle forze mafiose, ‘ndranghetiste che da antistatuali si evolvono in forze alleate del potere e dei partiti che ne sono l’espressione. Tutto questo avviene a partire dagli anni ’60, in seguito al trasferimento di enormi risorse economiche verso il Sud e, soprattutto, in relazione alle integrazioni europee a favore dei produttori di olio e di agrumi. La ‘Ndrangheta in quegli anni espelle, con metodi violenti, i vecchi padroni dalle terre (esemplare è la vicenda della famiglia Cordopatri) e presenta un conto falso e salato allo Stato e alla Comunità europea. Diventa cittadina, organizza la speculazione edilizia e, a partire dal 1975, entra con i propri rappresentanti nei consigli comunali del reggino.

Sempre in quegli anni, lavorando sottotraccia, si insinua tra le comunità calabresi e siciliane del Triangolo industriale, stringe rapporti, intese economiche e politiche con i rappresentanti del potere locale. Il quindicennio berlusconiano coincide con lo sbarco della finanza mafiosa nelle regioni economicamente progredite ed

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è storia di questi giorni (in seguito alle inchieste della tanto vituperata magistratura milanese, d’intesa con quella calabrese) la denuncia e l’arresto (con conseguente sequestro dei beni) degli esponenti delle cosche in combutta con tanti amministratori locali.

Traiamo la prima conclusione: la maestrina Stefania Craxi che viene dalle zone “inquinate della Lombardia” che, di certo, ha sostenuto il sottosegretario Cosentino, espressione di un certo mondo campano, viene nelle Marche a fare la lezione agli amministratori marchigiani e ai loro “stili mafiosi”. Ora nessuno può escludere che anche una Regione come le Marche possa essere permeabile agli stili mafiosi. Ma si dà il caso che, storicamente, l’emigrazione calabrese e siciliana abbiano interessato solo di striscio la regione marchigiana e che solo, dopo il 1980, in relazione al terremoto dell’Irpinia, ci siano stati trasferimenti signif icativi di popolazione. In altri momenti ho espresso la mia preoccupazione per quanto si sarebbe potuto verif icare nelle realtà non contaminate dalla presenza dei gruppi mafiosi e tuttora esprimo il mio allarme, da vecchio meridionale che ha conosciuto da vicino la realtà terribile della mafia, per quanto potrebbe verificarsi in qualsiasi parte d’Italia.

Se l’on. Craxi è a conoscenza di episodi specifici di collusione tra le cosche mafiose e le amministrazioni marchigiane, allora proceda alle denunce. Altrimenti taccia e si ricordi di ripassare la storia e la geografia.

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18 maggio 2011 ·

QUELL'INDOVINO DI LA ROCHEFOUCAULD

Come facesse il duca di La Rochefoucauld, nel lontano 1657, a conoscere che cosa sarebbe successo in Italia nell'ultimo ventennio, rimarrà per me sempre un mistero.

La lettura del brano pubblicato domenica scorsa da Scalfari sul suo giornale mi ha stordito. Ecco che cosa scriveva il nostro indovino:

"L'amore per se stessi quando supera il limite diventa una perversa passione sia per chi ne è invaso sia soprattutto per gli altri che egli vuole render suoi soggetti distruggendone l'indipendenza e trasformandola in amore verso di lui. Se l'uomo affetto da tale perversa passione si trova al vertice della società, gli effetti che ne derivano sono ancora più sconvolgenti poiché ogni equilibrio tra le varie istituzioni viene distrutto ed ogni libertà confiscata".

Per fortuna dopo la domenica de La Repubblica è venuto il Lunedì di Milano.

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26 maggio 2011 ·

ABBASSO IL LEADERISMO!

Ascolto in TV la trasmissione in cui si recensisce un libro non molto tenero nei confronti della Chiesa, nel quale si sostiene che c'è un crollo verticale delle vocazioni a cui si tenta di rimediare sia con iniziative di marketing (i monaci svizzeri che selezionano i nuovi quadri via web) che con il rilancio di figure emblematiche (Woityla e la sua canonizzazione). Penso che il mondo vivrebbe meglio se non avesse la fregola di creare miti e leggende. Semplicemente stupida l'idea di trasformare in reliquia un prelievo ospedaliero di sangue di papa Woityla (come s'è fatto per duemila anni con tutti i santi tagliuzzati, smembrati, contesi, trasferiti da un luogo all'altro del Medio Oriente e dell'Europa). Idiota la semplice idea di mettere all'asta dentiere di potenti e cappellini di rampolle reali inglesi. Lo stesso governo degli USA ha avuto paura di seppellire da qualche parte Bin Laden e di trasformarne i resti in oggetti di culto. Mi disturba la mitizzazione dei personaggi trapassati ed ancora di più quella dei personaggi (della politica, dello sport, dello spettacolo ecc.) viventi.

La mitizzazione della mummia di Lenin e del putroppo lungo vivente Stalin, ha nuociuto alla causa del comunismo che se non avesse trovato la nazione pià incartapecorita per affermarsi (la Russia dei pope, degli zar) avrebbe potuto avere un decorso più decente. Lo stesso dicasi di Fidel Castro o del campioncino del liberalismo Silvio Berlusconi, che per il semplice fatto di sopravvivere alla presa di potere iniziale e di volersi erigere a icone delle proprie ideologie, hanno ammorbato l'aria di Cuba e dell'Italia.

Detesto, quindi, tutte le forme di leaderismo (per fermarci in Italia dal suddetto Berlusconi a Grillo, a Di Pietro, per finire a Vendola e ad altri leader del centrosinistra. Perché il leaderismo è la negazione della democrazia, o, meglio, la limitazione dei diritti e della stessa possibilità di crescita di ciascun individuo. La vecchia didattica prevedeva il racconto della storia attraverso la narrazione degli eventi riguardanti i sovrani, le genealogie, gli scannamenti reciproci di sovrani e cavalieri, duci, führer ecc. George Braudel e gli storici francesi ci hanno, invece, insegnato che potevamo apprendere di più leggendo un albero che consultando le

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genealogiae deorum et principum.

E, allora, a costo di passare per populista, vale di più la conversazione che ieri ho fatto con un falegname sotto casa che le farneticazioni di tanti politici che, attraverso gli innumerevoli talk show tentano di convincermi anche a tradire la mia natura. Il signore che ho già citato, sostiene che se votassi per Pisapia sarei un uomo senza cervello. Dovrebbero essere per primi gli elettori di destra a ribellarsi a tale riduzione della politica a cabaret, a barzelletta.

E' utopia la mia, è fissazione anarchica? Né l'una né l'altra: è solo voglia di maggiore democrazia di maggiore partecipazione, di maggiore coinvolgimento di tutti i cittadini.

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4 giugno 2011 ·

MODESTO PARERE PER LA FORMAZIONE DI UNA GIUNTA COMUNALE

Dopo le fatiche della campagna elettorale vi sono (per i sindaci e i gruppi politici) quelle per la composizione della Giunta. E' un momento delicato, importante, perché non ci si può permettere di sbagliare e di mandare così all'aria gli importanti risultati raggiunti nel confronto con gli elettori. Chi scrive ha più confidenza con il vecchio sistema amministrativo (quello in auge nella prima repubblica) che con l'attuale. Quando il metodo elettorale venne cambiato, si ebbe l'impressione di assistere ad una vera e propria rivoluzione del modo di fare politica nei comuni, anche perché si consentì al Sindaco (vero centro del sistema) di sganciarsi dalle camarille e dai ricatti dei consigli e di procedere con speditezza alla formazione delle Giunte che divennero più stabili, meno legate ai giochi di potere dei gruppi politici. Credo che i primi dieci anni di esperienza siano stati molto positivi, hanno fatto emergere nuove classi dirigenti locali ed abbiano reso più autonomi e più credibili i Capi delle Amministrazione.

Poi, a poco a poco, sono emersi i difetti del sistema: anzitutto per quanto riguarda la selezione dei consiglieri (il vecchio sistema, con il gioco delle preferenze permetteva la selezione di una classe amministrativa più in linea con il lavoro e i programmi dei partiti politici). Nella moderna competizione amministrativa crescono le liste e i candidati che non sono più frutto delle selezioni operate politicamente ma con un duro e spietato lavoro individuale sul campo: emergono soltanto i portatori di voti, spesso espressione di ferrate clientele; vengono messi ai margini i gruppi e i candidati più deboli: donne, giovani, e quanti, pur essendo validi dirigenti politici non hanno le schiere cammellate a disposizione.

Emerge, così, un personale politico meno navigato politicamente ma forte di consenso clientelare: spesso i consigli comunali perdono la competenza e l'autorevolezza antica e diventano luoghi dove il confronto politico tra maggioranza e opposizione lascia molto a desiderare.

C'è la sensazione che i veri centri del dibattito politico siano altri (in primis la Giunta comunale) e che il Consiglio sia una mera

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sede di ratif ica delle decisioni assunte altrove.

C'è da aggiungere che, con il tempo, in molti Comuni si è proceduto ad un vero e proprio svuotamento (politico) dei consigli, con la trasmigrazione dei consiglieri eletti in prima battuta verso le postazioni di comando esterne (Assessorati, Enti comunali ecc.). Il Consiglio comunale, in questi casi, ha perso ulteriore autorevolezza ed ha reso politicamente più deboli le maggioranze consiliari esposte duramente al fuoco nemico (di solito i consiglieri di minoranza rimangono tutti al loro posto).

Venendo al caso specifico del Comune di San Benedetto del Tronto che, come si sa, ha confermato per la seconda volta al comando il Sindaco Giovanni Gaspari, credo che il destino e l'operatività della nuova Amministrazione dipendano, essenzialmente, dall'equilibrio che si riuscirà a creare tra i vari momenti amministrativi che io vedo ripartiti in tre grandi blocchi: anzitutto il Consiglio comunale, poi la Giunta e gli apparati amministrativi, infine il Sindaco. L'unico blocco definito e immutabile, è quest'ultimo; gli altri sono variabili e la loro composizione dipende essenzialmente dal Sindaco e dalle forze politiche di maggioranza.

Personalmente ritengo che vada mantenuto e rafforzato, con modesti ingressi, il Gruppo dei consiglieri comunali. Se gli eletti sono i più forti e i più capaci (o, almeno, i più rappresentativi) allora è giusto e preferibile (al di là delle sia pur legittime aspirazioni personali) che essi rimangano nella postazione originaria e che si battano perché il Consiglio e le Commissioni consiliari riacquistino la giusta autorevolezza. Il destino di questa "consigliatura" dipende tutto dalle scelte che verranno compiute in questi giorni, anche perché le eventuali dimissioni dei consiglieri non sono reversibili. Il Sindaco e i Gruppi dirigenti dei partiti di maggioranza (che, a volte, si intrecciano con il gruppo degli eletti) devono compiere delle scelte, anche dolorose, ben sapendo che dal rafforzamento del Consiglio comunale può dipendere il successo dell'eperienza amministrativa. La responsabilità maggiore, ovviamente, è del Sindaco, dato che, come si diceva poc'anzi, spesso i dirigenti politici di maggioranza sono pure consiglieri comunali. Il secondo blocco è costituito dalla Giunta; e, anche in questo caso il peso e la responsabilità del Sindaco sono assolutamente preponderanti. Dalle scelte che il Sindaco compirà (che dovranno, a mio parere, essere assolutamente svincolate dalle rivendicazioni o dalle richieste di chicchessia) deriverà il volto

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della futura amministrazione.

So bene che la politica è anche un gioco di mediazioni, ma, in questo momento, la mediazione peggiore e che, per questo, non si può fare, è quella con le aspirazioni o le ambizioni degli individui. Sono convinto che, alla fine, quando le decisioni verranno prese, saremo tutti più tranquilli e più contenti.

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12 giugno 2011 ·

ELOGIO DEL FISCHIETTARE

Lo so, lo so che oggi è possibile ascoltare centinaia, migliaia di brani musicali, mentre passeggi o corri o stai seduto in panchina, utilizzando ipod vari e cuffiette. Ma non è la stessa cosa. Certo, se guardiamo ai risultati, non c'è storia tra il brano digitalizzato e quello fischiettato. Con un paio di cuffie importanti è come se ti portassi dietro una filarmonica o una band, mentre la canzone fischiettata è soggetta a interruzioni, a correzioni a invenzioni dell'unico artista che esegue e che ascolta. Perché, nella gran parte dei casi, si fischia (o si fischiava) per se stessi non per gli altri. Da vecchio fischiettatore posso dire, infatti, che una cosa è la musica percepita da chi fischietta, altra la musica percepita da chi ascolta. Chi fischia, infatti, dispone di un sofisticatissimo sistema di correzione in tempo reale che serve a rimediare agli errori, ai toni sbagliati, alle note storpiate. Alla fine l'artista del fischio è convinto di avere eseguito un brano decentemente, proprio perché ha messo in azione il sistema di autocorrezione. Un tempo, quando non si disponeva di strumenti di diffusione della musica (prima ancora della TV o della radio, o dello stesso grammofono che era, comunque, privilegio di pochi) le occasioni di ascoltare musica erano ridottissime. A parte il Teatro dell'opera, riservato a un'élite, c'erano le orchestrine e, soprattutto, le bande musicali che, in occasione delle feste patronali, diffondevano anche le arie famose di Verdi, di Bellini, di Rossini, di Mascagni, di Cilea. Tutti ascoltavamo, nelle giornate di festa, le arie celebri eseguite dalla Banda dei Carabinieri, da quella della Polizia (la Metropolitana), della Finanza ecc. A volte l'autorizzazione ad esibirsi nelle piazze di paese veniva data dai Comandi centrali e dal Ministero dell'Interno che, poteva negare ai sindaci "comunisti" l'autorizzazione. Quando la Banda partiva, calava il silenzio assoluto; i più anziani zittivano i bambini impertinenti e il maestro poteva miracolosamente dar vita al concerto. A questa fonte si abbeveravano i fischiettatori i quali erano in grado di memorizzare intere opere e di restituirle all'aria per il proprio godimento ed anche per quello degli estimatori. Poi il monopolio ebbe fine e milioni di macchinette furono in grado di riprodurre brani di ogni genere. Oggi se vai in piazza, se passeggi sul lungomare, vedi torme di cuffiettari che consumano

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onanisticamente i motivi sputati dalle macchinette, dai telefonini e da ogni genere di dispositivi. All'inizio c'era una certa ritrosia, la stessa che avevano i primi telefonisti con auricolare che temevano di essere scambiati per squilibrati. Poi l'uso dilagò impetuosamente in terra, in cielo, in ogni luogo. Ogni tanto scorgo di lontano un anziano che modula le labbra per fare uscire dei suoni. Ma è un attimo, appena si accorge che qualcuno lo nota, chiude la bocca e si ammutolisce. Ma è nei bagni o all'aria aperta, nei prati o nei luoghi solitari dove si celebra la vendetta del vecchio fischiatore. E allora si scatena la fantasia, si accavallano le melodie, riemergono i motivetti che nemmeno troveresti con google o youtube. E' come quando ripeti le poesie mandate a suo tempo a memoria; quando ringrazi in cuor tuo i professori cerberi che ti costrinsero a imparare a memoria l'antologia dei poeti, i canti della Divina Commedia e, persino, i brani dei Promessi Sposi. Eppure, di recente, la moderna tecnologia ha riabiltato il fischiettare, quando con alcune "Apps" per iPhone, Ipad e altri OS (come SoundHound o Shazam) ha consentito di rintracciare dei motivi o di definirne i titoli. Vuoi sapere come si chiama quel motivetto che ti ronza in testa o che hai appena ascoltato alla radio? càntalo o, meglio, fìschialo e docilmente SoundHound ti darà il titolo, il nome dell'interprete e ti dirà dove potrai reperirlo a pagamento o gratis.

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19 giugno 2011 ·

UNA LEGA TUTTA DA RIDERE

Con la Lega, mettiamola sul ridere: anzitutto, Bossi andrebbe sottotitolato. La gente faceva finta di capire ma, in realtà, non capiva un tubo. 4 Ministeri al Nord e perché non tutti? Riterrei più logico il trasferimento dell'intera capitale piuttosto che il frazionamento degli organi. Chiedere a un calabrese per farsi un'idea di quel che avviene avendo la Giunta regionale in una città e il Consiglio in un'altra. Ma chi andrebbe a spiegare la cosa a un siciliano che dovrebbe impiegare alcuni giorni per andare e venire dalla capitale? Se la capitale deve essere situata nel punto più centrale d'Italia, allora facciamo riferimento al mitico birillo del biliardo del bar centrale di Foligno. Oppure facciamo come i brasiliani o come gli americani che hanno scelto città marginali o, addirittura, inesistenti. Una soluzione potrebbe essere quella di collocarla a L'Aquila. In questo modo prenderemmo due piccioni con una fava. Oppure facciamo una capitale itinerante: dopo Torino, Firenze, Roma, potrebbero starci Napoli, Palermo, Venezia, Milano, Ponte di Legno e, con qualche sconfinamento, come si fa per il Giro ciclistico d'Italia, San Marino, Siviglia, Tirana ecc. Pensate quale enorme sviluppo per il turismo, quali movimenti di massa si determinerebbero. Ultima ipotesi: facciamoci costruire dalla Fincantieri (che è in crisi e che non sa che cosa fare) delle enormi navi-ufficio che potremmo schierare a piacimento nei quattro mari italiani. Oppure attiviamo la secessione della Valtellina, diamo la buonuscita ai leghisti che scelgono la nuova patria con Sondrio capitale, con una sola prescrizione: di non imporre più ai bambini il nome di Roberto che non è solo il nome dei moschettieri leghisti Maroni, Calderoli, Castelli ma anche una sorta di acronimo delle città dell'Asse ROma-BERlino-TOkio (mi scuso con i Roberto che rimarrebbero in Italia).

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6 luglio 2011 ·

C'ERA UNA VOLTA UN PORTO

Quest’anno dalla mia spiaggia preferita non vedrò più scivolare sull’acqua le enormi navi porta-lego. Erano uno spettacolo, specie se colte mentre abbandonavano di sera il Porto di Gioia Tauro e si stagliavano come figurine sullo sfondo delle fumanti isole Eolie. All’inizio era stata vista come una sorta di profanazione del mare mitologico di Ulisse e del disgraziato Oreste che venne inseguito dalle Erinni proprio sino a Taureana, sino a quello che da lui prese il nome di Portus Orestis. Ma negli anni precedenti se ne erano viste di peggio, quando si diede inizio alla eradicazione di migliaia di mandaranci e di ulivi nel territorio delle “Casette” di Eranova, a due passi dal centro di San Ferdinando.

Allora un immenso territorio venne spianato per potervi ricavare l’immenso porto che avrebbe dovuto servire il favoloso Quinto Centro Siderurgico. Quinto viene dopo Quarto che, a quei tempi era il più grande centro siderurgico d’Italia, a Taranto. Nell’immaginifico “Pacchetto Colombo”, dal nome del Presidente del Consiglio dei primi anni ’70, il Centro siderurgico sarebbe dovuto essere il “contentino” per Reggio Calabria che aveva perso il titolo di capitale della Calabria a vantaggio di Catanzaro e dell’alleata provincia di Cosenza.

Nell’estate del ’70 la Provincia reggina aveva ormai perso l’innocenza degli anni ’60, quando le elezioni erano feste di popolo, vissute al suono delle trombe proletarie che cantavano inni di speranza e di appartenenza. Occasioni per riflettere sulla politica, sull’attualità, sulle scelte da compiere, in un clima di festa e di sagra paesana. Con i fascisti non ci si parlava, i veri nemici

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erano quelli che stavano al governo.

In un anno che doveva essere il 1968 ero a Caulonia per tenere un comizio elettorale; prima di me parlava da un piccolo podio a qualche decina di persone, un oratore del MSI, di nome Ciccio Franco. Con la rivolta di Reggio quell’oratore sarebbe divenuto un capopopolo, trascinatore di folle, più volte senatore della destra dei ‘boiachimolla’.

I reggini non considerarono mai come risarcimento valido il Centro siderurgico da costruire nella Piana del Tauro dove, invece, l’opera venne accolta con riserva, come occasione per far lavorare i tanti disoccupati.

C’erano voluti secoli per far crescere i grandi ulivi, decine di anni per costruire gli aranceti e i mandarineti che lambivano le coste di Gioia e San Ferdinando. Bastarono pochi mesi per radere al suolo gli alberi, per scavare il terreno, per spostare la grassa terra sulle centinaia di camion che la mafia acquisì in poco tempo, intestandoli a società fittizie, a “ignari” impiegati, professori ecc.

Ricordo la lunga teoria di camion che percorrevano come formiche le strade della Piana per scaricare, dove possibile, la terra espiantata per far posto al mare che fremeva quasi per subentrare.

Per mesi e mesi gli abitanti della Piana respirarono la terra che volava dai bestioni su gomma; ma resistevano in attesa della “fabbrica” che avrebbe dato lavoro ai giovani e ai meno giovani che rientravano dalla Germania.

C’era parecchia gente che credeva sinceramente alle prospettive offerte dal “siderurgico”; specialmente i socialisti di Mancini, ma non solo. Quando fu sufficientemente chiaro che non c’era più la prospettiva dell’acciaio e che in Italia si procedeva pian piano allo smantellamento delle grandi acciaierie, iniziarono le grandi manifestazioni per il “siderurgico”, organizzate dalla sinistra e dal sindacato che reclamavano il pagamento della cambiale firmata dall’incauto Colombo.

In quegli anni venne costituito il Comitato dei Sindaci della Piana ad opera di amministratori di vario colore. In una riunione di amministratori e delle forze sociali, un tecnico che non rappresentava solo se stesso si alzò e disse con grande spregiudicatezza: “Tutto ciò che provoca movimento di terra a noi sta bene”.

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Inutile dire che quando si incominciò a parlare della possibilità di utilizzare l’area portuale per la costruzione di una grande centrale a carbone per la produzione di energia, il fronte incominciò a dividersi. Anche questa volta le sirene della possibile occupazione suonarono in tutte le direzioni e riuscirono ad ammaliare molta gente.

Il movimento politico-sindacale fu a lungo indeciso sulle scelte da compiere. Lo stesso PCI faticò prima di assumere una posizione contraria alla centrale a carbone. Alla fine prevalse l’opinione dei comunisti locali che riuscirono a esprimere un netto no alla centrale.

Veniva posto con chiarezza l’alternativa tra un modello di sviluppo pienamente in linea con la politica di abbandono e di sfruttamento selvaggio del territorio e, dall’altra con un progetto di trasformazione che facesse perno sulle potenzialità e sulle risorse della Piana e prefigurasse la creazione di un tessuto industriale compatibile con le sue vocazioni.

Chiuso il periodo carbonifero, si procede, in tempi relativamente recenti, alla utilizzazione dell’area portuale, secondo quanto ha raccontato qualche giorno addietro Eduardo Meligrana (alle cui analisi rimando)

http://www.finanzaecomunicazione.it/admin/junior/la-nave-non-va-piu-in-porto-il-dramma-di-gioia-tauro/

Alcune considerazioni finali.

Il porto, come abbiamo visto, nasce all’origine al servizio di quello che sarebbe dovuto diventare il Quinto centro siderurgico d’Italia. Successivamente, esaurita questa ipotesi e svanita (per fortuna) l’altra relativa alla creazione di una centrale a carbone, si pensa alla utilizzazione del porto come terminale del Mediterraneo al servizio dell’area italiana ed europea. La cosa funziona bene fino a quando non nascono altre alternative meno onerose per il transhipment. Perché questo è potuto accadere? Una delle cause più serie è da addebitare alla inadeguata rete di trasporti da e per la Calabria sia su rete ferroviaria che su gomma. E’ una verità semplice ed elementare, al di là degli altri ostacoli (presenza mafiosa, scarsa produttività ecc.).

Commenti

Francesco Politi C'è stata pure l'Isotta Fraschini, tante 488 nate esclusivamente per vivere pochi anni e poi dissolversi nel

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vento e che alla fine hanno fatto solo gli interessi di chi è stato l'artefice oppure il tramite per la loro realizzazione e foraggiato le industrie del Nord che hanno effettuato la fornitura delle attrezzature. Adesso in quell'area c'è un termovalorizzatore che sta per essere raddoppiato, un megarigassificatore da 12 miliardi di mc di gas che potrebbe nascere e nessuna certezza.6 luglio 2011 alle ore 22.18 ·

Maria Franco Grazie della nota, Michele. Non ho competenze economiche, ma penso che il Porto di Gioia avrebbe potuto, anche senza il V Centro Siderurgico, un grande snodo commerciale, se la Calabria avesse avuto adeguate strade, ferrovie ecc. ecc. E' una grande tristezza questo continuo spreco di energie, di soldi, di progetti che non resistono nel tempo, che magari sopravvivono, vivacchiano, ma non creano movimento reale...6 luglio 2011 alle ore 23.34 ·

Nicoletta Allegri dire di essere sconfortati appare quasi inutile!!! da qualsiasi parte del mondo attorno a qualsiasi porto,anche il più microscopico,c'è un pullurare di attività, indotti...ecc.solo a gioia tauro non c'è praticamente nulla....!!!7 luglio 2011 alle ore 0.00 ·

Gianni Agostini Grazie Michele per ciò che illustri in maniera cosi limpida. Per quel poco che ho letto credo che sia mancata come al solito una visione progettuale unitaria e condivisa.7 luglio 2011 alle ore 9.17 ·

Michele Maduli Caro Gianni, il porto � nato...per caso. Per caso é diventato un grande terminal. I governi, nazionale e locale, non sono stati assolutamente in grado di sfruttare questa grande opportunità. Una classe politica all'altezza e intelligente avrebbe completato la A3 in un anno e costruito l'alta velocità in due. Invece hanno tutti mangiucchiato in un piatto che prima o poi, date le condizioni, si sarebbe svuotato. La Calabria può chiudere bottega ed affidare alla 'ndrangheta spa il compito di curatore fallimentare. D'altronde, anche se non è sottoposta al giudizio delle società di rating, dimostra di sapere gestire con efficienza la Val di Susa, Milano e l'Expo, Roma e i suoi bar, Duilsburg ecc.ecc.7 luglio 2011 alle ore 12.23 ·

Gianni Agostini Sono perfettamente d'accordo con te!!!!!!7 luglio 2011 alle ore 16.34 ·

Antonino Maria Calogero Grazie Michele mi hai fatto emozionare nel rivivere le pagine più recenti della storia del Porto.

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sono stato più toccato nel sentirmi coinvolto nei tuoi ricordi più lontani che ho sentiti miei pur non avendoli vissuti E' LA STORIA DEL POPOLO DELLA PIANA CHE HA INVESTITO OGNI SPERANZA ...OGGI NON SI PUO' ACCETTARE DI FAR MORIRE L'UNICO SUCCESSO VERO DELLA NOSTRA TERRA' !

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20 luglio 2011 alle ore 10.21

UNA BIBLIOTECA DI STORIA LOCALE- PRESENTAZIONE DI "CRONACA DI UNA STRAGE ANNUNCIATA"

Da vecchio studente di storia conosco l'importanza dei documenti, per questo ho cercato, finché mi è stato possibile, di conservare tutta la documentazione che mi passava per le mani (libri, articoli, documenti amministrativi, politici, manifesti, volantini ecc.). C'è un secondo livello di documentazione locale ed è costituito dai prodotti semi-lavorati, come possono essere i libri, le memorie, scritti da chi è stato testimone dei fatti o ha tentato di ricostruire, su base locale, una prima versione degli accadimenti. La proposta che lancio è di andare al ricupero ed alla sistemazione di tutto il materiale documentale che riguarda la Regione Calabria (o altre regioni o aree del Paese), in maniera sistematica, facendo leva sui luoghi già esistenti della cultura locale: bilioteche, scuole, fondazioni, comuni ecc. Penso di dar vita ad una pagina su Facebook e attendo adesioni, suggerimenti, proposte.

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Intanto, mi permetto di proporre alla vostra attenzione un libretto che io scrissi, quasi a caldo, in seguito ai gravi fatti di Taurianova del 1991: cinque morti ammazzati in un giorno. I morti complessivi, nell'arco di pochi giorni furono nove, se vogliamo aggiungere i poliziotti della scorta di Martelli e di Scotti. Fu in seguito a tali fatti che il Parlamento varò la normativa sugli scioglimenti degli enti locali per ragioni di mafia. Inutile aggiungere che che quello di Taurianova fu il primo consiglio comunale sciolto per mafia. Vi propongo, di seguito, l'introduzione:

Michele Maduli, Cronaca di una strage annunciata, Il caso Taurianova (1986-1991)

Il 2 maggio 1991 ha inizio la danza macabra.

Il primo a cadere, nel salone del barbiere, sotto i colpi del fucile a pallettoni, è Rocco Zagari, consigliere comunale della D.C., ufficialmente infermiere presso la locale USL. Aveva ereditato lo scettro del comando da Domenico Giovinazzo, il boss di Jatrinoli ucciso, insieme con Vincenzo Rositano, il 22 maggio del 1990 a Polistena.

Il 3 maggio tocca agli avversari di Zagari. Cadono sotto i colpi della lupara Pasquale Sorrento e poi, nel pomeriggio, i due fratelli Giovanni e Giuseppe Grimaldi, quest’ultimo padre di Giovanni, che è in carcere e non può essere raggiunto facilmente. La sera viene ucciso Rocco Laficara, garzone di negozio, fratello di due pregiudicati.

Non è finita. Domenica 5 maggio, mentre piangono i parenti, i figli di Giuseppe Grimaldi, Rosita e Roberto sono gravemente feriti da alcuni killer travestiti da carabinieri.

La stampa nazionale dedica alla strage solo poche righe. Mi tengo al corrente della situazione, sul filo del telefono, comunicando con i miei familiari che sono rimasti in paese. Le notizie, fornitemi quasi in diretta, s'intrecciano con gli spezzoni d'informazione del televideo e dei telegiornali.

Indignato e preoccupato per il silenzio della grande stampa spedisco un fax al giornale la Repubblica nel quale rilevo che “cinque morti ammazzati in 24 ore per un comune di 15.000 abitanti, come Taurianova, equivalgono a 666 morti per Milano, o a tre-quattromila, sempre in un sol giorno per New York”. Dopo avere aggiunto che nell’ultimo anno sono già state uccise trenta

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persone, ricordo che i consiglieri comunali d'opposizione della cittadina “si sono dimessi esprimendo fortissime riserve sulla legittimità di un consesso rinnovato nel 1988...in un clima di terrorismo politico mafioso”.

La lettera viene pubblicata quando il caso Taurianova è ormai esploso. Un giornale locale, infatti, ha rilevato un particolare raccapricciante: i killer, dopo aver tranciato di netto la testa al povero salumaio Grimaldi, l’hanno usata per compiere macabri giochi di pistola.

La grande stampa e la televisione riprendono e amplificano la notizia; spostano i rif lettori della cronaca sulla sperduta località calabrese.

* * *

Per la prima volta sono costretto a seguire le drammatiche vicende della mia città da lontano.

Il ricordo corre al 1977, quando, in un casolare di campagna nei pressi di Taurianova, al termine di uno scontro a fuoco, muoiono due carabinieri e due mafiosi della famiglia Avignone, la stessa alla quale appartiene il boss Giovinazzo, ucciso poi nel 1990.

Erano venute la grande stampa e la televisione; anche i giornali stranieri, inglesi, francesi, s'erano interessati al summit mafioso di Razzà ed avevano catapultato in Calabria i loro corrispondenti.

Tante volte avevo ricevuto gli inviati della stampa ed avevo illustrato loro la situazione diff icile e contraddittoria della città. Negli anni ‘70 Giuseppe Marrazzo aveva girato un documentario sugli Intoccabili di Taurianova ed aveva visto giusto, poiché i protagonisti del suo racconto sarebbero rimasti fermi ai loro posti fino a qualche anno addietro. [1]

Gli inviati erano ritornati nel 1986, quando la maggioranza dei consiglieri comunali aveva dovuto occupare l’aula consiliare per vedere riconosciuto il proprio diritto a presentare le dimissioni. Erano venuti, poi, nel 1988, durante e dopo le elezioni che avrebbero visto il trionfo della mafia e poi l’arresto del capo della DC, Francesco Macrì.

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Questa volta, però, la strage di Taurianova riesce a tenere desta per molto tempo l’attenzione dell’opinione pubblica italiana che non s'accontenta più di poche e scarne notizie. Intervengono gli editorialisti. Scrive Dacia Maraini sull’Unità del 6 maggio, nell’articolo di fondo dal titolo "Quella testa presa a calci", “Troppe immagini raccapriccianti ci hanno raggiunti in questi ultimi tempi dal nostro sognante e furente Sud, di torture, squarciamenti, atrocità senza nome. Non si risparmiano i bambini e ora, neanche i morti” e poi continua “In tutti i paesi del mondo ci sono degli individui che uccidono e torturano...Abbiamo permesso loro di infiltrarsi nelle amministrazioni delle città, di spadroneggiare, legalmente e illegalmente, in ogni parte d’Italia. E l’esempio, che è la cosa essenziale, l’esempio che viene dall’alto non è purtroppo limpido. Ci sono troppi intrecci, poco chiari, troppi silenzi, ambiguità, menzogne...”

Su la Repubblica del 7 maggio, nel fondo intitolato I tagliatori di teste, Corrado Augias annota: “C’è nella mattanza di Taurianova un connotato politico, come se i criminali avessero detto: badate a voi, nel nostro territorio queste sono la legge e la pena vigenti per chi sgarra”.

“Il nemico è interno” scrive sul Manifesto dell’otto maggio, Giuseppe Di Lello il quale poi ricorda come basterebbe “aver presenti le due mappe, quella elettorale e quella criminale, per capire come, di là dalle due parole, tra i poteri delle due aree non vi sia antagonismo ma una chiara complementarietà”. Lo stesso giorno, sul quotidiano la Repubblica il ministro della giustizia, Claudio Martelli, denuncia d'avere “riscontrato latitanze del 20/30 per cento” negli uffici giudiziari. “Non si può fare finta di svegliarsi adesso -rileva la Voce repubblicana- perché mentre la situazione si deteriorava, coloro che compongono l’attuale maggioranza hanno votato i provvedimenti di amnistia, di indulto, di concessione di benefici anche a detenuti responsabili di crimini gravissimi”.

Il 9 maggio il ministro Martelli propone lo scioglimento del Consiglio comunale di Taurianova “per evidente inquinamento mafioso”.

Al Governo e al ministro dell’Interno Scotti, lo stesso giorno, rispondono polemicamente i vescovi italiani che sono stati messi sotto accusa: “In Calabria noi facciamo il nostro dovere, il Governo no”, e a Taurianova il parroco Don Francesco Muscari si fa

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fotografare con un manifesto rivolto ai mafiosi: “Vi conosco, fermatevi maledetti”.

Giorgio Bocca (la Repubblica 9.5.1991), dopo avere escluso che “i partiti di governo vogliano davvero colpire, scardinare un meccanismo elettorale, un'organizzazione del consenso basati sulla complicità dei partiti padroni della finanza pubblica con la malavita che controlla voti e territorio” conclude: “se al sud non si muovono gli onesti, se non ci pensano i cittadini, la mano nera della Mafia continuerà a crescere”.

Sullo stesso giornale, il giorno dopo, Guido Neppi Modona rincara la dose: “Secondo un recentissimo sondaggio, in caso di elezioni anticipate, nelle regioni del mezzogiorno DC e Psi sono accreditati di un clamoroso successo elettorale, tale da assicurare la maggioranza assoluta. Quei voti provengono -è inutile storcere il naso- anche dalle zone sottoposte al controllo territoriale della mafia, ed in questo confuso crepuscolo della nostra democrazia le esigenze elettorali passano, come è noto, davanti ad ogni valutazione dell’interesse generale del paese”.

Sempre il 10 maggio viene pubblicato il testo del rapporto riservato dall’Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la mafia, Domenico Sica, sul governo delle cosche a Taurianova (vedi appendice). Il sindaco della città, Olga Macrì, riesce solo a replicare “Qui la mafia non esiste” (La Repubblica 10.5.1991).

Ma l’articolo di fondo che mi colpisce di più è quello di Giuliano Zincone sul Corriere della Sera dal titolo “Calabresi, ribellatevi al boss”. E’ vero, qualche giorno prima alla manifestazione indetta dalle donne contro la mafia a Taurianova sono presenti solo qualche centinaio di persone, in massima parte donne e ragazzi delle scuole medie. Ma il momento per scendere in piazza non è dei migliori.

Ad ogni modo non è vero che la Calabria, i calabresi di Taurianova non abbiano mai protestato contro la mafia. L'hanno fatto, inascoltati per decenni.

* * *

Forse è proprio quest’ultimo intervento di Zincone che mi ha spinto a riguardare tra le mie carte, per ripercorrere le tappe di una

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battaglia iniziata negli anni ‘60.

Ho voluto limitare l’ambito d’indagine al periodo 1986-1991: dal momento in cui la DC di Taurianova perde il monopolio del potere ed è costretta a subire l’assalto dei boss che vogliono contare di più nella vicenda amministrativa, alla strage del maggio 1991, quando la cittadina balza agli onori della cronaca nazionale ed anche internazionale.

Le domande alle quali tento di rispondere vertono sostanzialmente sulle cause che hanno determinato la caduta di un’intera comunità sotto il controllo della mafia; sulla responsabilità di quanti hanno tollerato o favorito con il loro colpevole silenzio o con l’aiuto più o meno esplicito, l’ascesa delle forze mafiose; sulla possibilità che certe realtà possano essere sottratte al controllo delle organizzazioni criminali e che vi si possa instaurare o ristabilire il potere dello Stato.

Le risposte sono tutte lì, nei disperati appelli che tanti di noi lanciavano dalle pagine dei giornali, dai convegni, dai consessi elettivi. [2]

Una democrazia può anche tollerare l’esistenza di corpi estranei o malati nel proprio tessuto; quello che, però, non può consentire è che tali cellule cancerose permangano, si moltiplichino e che nessun chirurgo intervenga per tagliare, per limitare i danni, per curare.

Il dramma esploso nel ‘91 a Taurianova era stato previsto con notevole anticipo da quanti vivevano in quella realtà ed avevano modo d'osservare l’evoluzione del male.

La rottura della legalità democratica era iniziata in modo manifesto nel 1976, all’epoca della latitanza, durata sei lunghi mesi, del boss locale democristiano, coinvolto nello scandalo dell’Antimalarico reggino. [3]

Gli organi dello Stato, i dirigenti di quel partito che aveva responsabilità di governo, non solo non fecero nulla per ostacolare il ritorno alla politica di un esponente che intanto andava accumulando decine di procedimenti giudiziari, ma lo difesero accanitamente dagli attacchi degli avversari, anzi lo promossero a nuovi incarichi politici e amministrativi.

Tutto l’establishement democristiano dai Vincelli ai Ligato, ai Misasi, ai De Mita, ai Forlani, fece quadrato attorno ad un gruppo

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di potere locale ormai politicamente alle corde, consentendogli di resistere, di sopravvivere anche se a costo di gravissime compromissioni.

Il patto stipulato da questi desperados locali assomiglia a quello che i commercianti in diff icoltà sono costretti a contrarre con le bande degli usurai: il debito da pagare diventa sempre più pesante; è davvero impossibile ricuperare il terreno perduto, la conclusione spesso inevitabile consiste nello svendere la propria attività agli strozzini.

Fino all’inizio degli anni ‘70 la ‘ndrangheta locale era rimasta confinata nel rione Jatrinoli, occupata a gestire i piccoli affari della campagna, poco interessata alle vicende politiche cittadine.

I mutamenti che stavano intervenendo nel Mezzogiorno e nella Piana, toccavano in modo marginale la vecchia mafia locale che, nei quartieri in cui contava qualcosa, lasciava l’elettorato sostanzialmente libero di votare per la DC o per il PCI.

All’epoca del siderurgico nuovi protagonisti irrompono nel gioco tradizionale delle cosche mafiose e ne mutano profondamente abitudini e aspirazioni.

Tale processo di trasformazione è efficacemente illustrato nella sentenza emessa dal Tribunale di Palmi sulla strage di Razzà del 1977.[4]

Nelle elezioni amministrative del 1979 il Partito comunista subisce un vero e proprio salasso di voti nei quartieri tradizionalmente controllati dalla mafia e passa da cinque a tre consiglieri: è il segnale inequivocabile che quest'ultima si è ormai apertamente schierata. In molti comuni della Piana, d’altronde, i mafiosi sono entrati nei consigli comunali già nelle elezioni del 1975.

Quando, nel 1988, si vota per rinnovare quel consiglio comunale che poi nel 1991 sarà sciolto per motivi di mafia, questa è divenuta ormai soggetto politico e condiziona pesantemente ogni aspetto del vivere civile, dell’economia, della società.

Essa ha sciolto l’amministrazione comunale precedente della quale facevano parte anche comunisti e socialisti ed ha dettato le nuove regole per la politica locale.

Ai consiglieri di sinistra eletti in quel consiglio non resta altro

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che protestare rif iutandosi di riconoscere la legittimità democratica di un consiglio eletto in un clima d'intimidazione, di minacce, di violenza sociale.

Le richieste di scioglimento, gli appelli alle istituzioni statali, agli stessi dirigenti della DC nazionale perché intervengano per porre fine ad una situazione molto pericolosa, cadono nel nulla.

Alla fine del 1990 l’opposizione formalizza le dimissioni dal consiglio comunale e lascia sola la DC a governare, fino al tragico maggio del 1991, quando la testa mozzata del povero Grimaldi non sveglierà bruscamente dal sonno i poteri dello Stato e un’opinione pubblica spesso distratta.[5]

* * *

Ma nel libro si parla anche d’altro; di come, ad esempio, sia svanito il sogno di poter cambiare la Piana di Gioia Tauro e la Calabria; si parla delle responsabilità dei tanti ascari meridionali che hanno accettato il compromesso politico in base al quale, a partire dagli anni ‘60, al Mezzogiorno è stato consentito di non morire, di sopravvivere. Tutto questo grazie alle provvidenze della Cassa; ai sussidi erogati in vario modo (pensioni, assegni di disoccupazione, integrazioni comunitarie), alle illusioni tante volte fatte balenare con il Centro siderurgico e le tante cattedrali nel deserto, ormai sconsacrate. La contropartita era che i meridionali non dessero fastidio, se ne stessero buoni buoni, non rompessero l’anima e votassero per i partiti di governo.

E la mafia? Anche per la mafia, passata dall’opposizione antistatuale degli anni ‘40 e ‘50, alla collaborazione attiva, c’è stato un ruolo da svolgere: in molti casi è rimasta a collaborare in ombra, in altri ha debordato pretendendo di sostituirsi pienamente alla classe politica tradizionale.

Le notizie che mi giungono dalla Calabria, lasciano pensare che nulla sia cambiato dopo tangentopoli e che nuovi equilibri si siano venuti a creare tra gli interessi mafiosi e le nuove forze politiche che hanno occupato il vuoto lasciato dai vecchi partiti ormai scomparsi.

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* * *

L’unica nota positiva è costituita dal fatto che nella vecchia e sgarrupata Taurianova si è insediata nel 1993 un’amministrazione guidata da un sindaco del PDS, l’ex senatore comunista Emilio Argiroffi.

E’ stata una vera e propria vampata di novità, un desiderio di liberazione covato per tanti anni, che ha spinto oltre il 60% della popolazione -in un momento di vero e proprio interregno, poiché la DC era scomparsa e i boss mafiosi erano in galera- a votare in modo assolutamente inedito.

Nelle elezioni successive, però, gli antichi rapporti di forza sono stati ristabiliti e i vecchi gruppi dominanti sono riemersi in forme e sembianti diverse.

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L’ultimo capitolo di questo libro è intitolato “Tertium non datur”. Sull’onda dell’emotività accumulata dopo i drammatici fatti del 1991, forse con una radicalità eccessiva che, pure, traeva alimento dalla mia vicenda personale, affermavo:

“Che dire ai tanti giovani incolpevoli che ancora non sono stati corrotti, appestati dall'aria malefica che grava sulla città? Che non vale proprio la pena di vivere a Taurianova se poi il loro ruolo dovrà ridursi a quello di portatori d'acqua, di masse clientelari a disposizione dei padroni e dei padrini di turno.

O lottare (con scarsissime speranze di successo) o andare via: tertium non datur!”

Il limite della posizione espressa in quelle circostanze drammatiche non consiste tanto nel suo pessimismo di fondo quanto, piuttosto, nella riduzione, sia pure involontaria, del problema della mafia a fatto locale.

Erano quelli momenti diff icilissimi, in cui di lotta alla mafia non si voleva nemmeno parlare; gli anni, tanto per intenderci, in cui si andava consumando il dramma del pool di Palermo, dei giudici Falcone e Borsellino.

Certo, dopo la strage di Capaci lo Stato è riuscito ad infliggere colpi molto pesanti alla mafia. Merito delle forze di polizia ma anche del clima unitario che si è venuto a determinare nel Paese dopo l’uccisione dei magistrati siciliani.

Quello che manca nella battaglia contro la mafia è, non solo, la continuità dell’azione, ma anche l’ampiezza del fronte di lotta.

E’ importante che le forze politiche non si dividano sul terreno della mafia e che non cedano alla facile tentazione di allearsi con essa al fine di acquisire posizioni di vantaggio nei confronti dell’avversario. La vicenda, minore, ma non per questo meno signif icativa, della mia città è lì a ricordarcelo.

Ma è indispensabile che tutti gli italiani, anche quelli che abitano al di sopra del Garigliano, si convincano della necessità di combattere il sistema mafioso.

Certo, è importante che i magistrati e le forze di polizia, continuino a fare il loro dovere; che i cittadini del mezzogiorno combattano la loro battaglia in difesa della democrazia. Ma a nulla vale tutto questo se poi la mafia continua a tessere allegramente le

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proprie trame politiche, economiche, finanziarie fuori della Sicilia e della Calabria.

Non si è ancora creato nel Paese un clima analogo a quello che si conobbe ai tempi del terrorismo. Allora le morte eccellente di uomini come Moro servì a far comprendere quanto fosse insidioso il germe di questa mala pianta. La lunga sequela di cittadini, di magistrati, di uomini politici caduti sotto il piombo mafioso non è stata ancora sufficiente a far maturare una coscienza collettiva contro il fenomeno mafioso.

Nonostante tutti i bei discorsi, la preda dei voti meridionali è troppo appetibile. Da Giolitti ad Andreotti ci si è turati il naso ma si è trescato con le cosche mafiose. Anche la seconda repubblica non sembra poi così insensibile al richiamo e al fascino del compromesso mafioso, e tutto questo nel solco della migliore tradizione politica italiana. S. Benedetto del Tronto, Giugno 1995

Note

[1]Con lo scioglimento del consiglio comunale di Taurianova, per motivi di mafia, il clan Macrì scompare dalla scena politica. Il maggiore rappresentante, Francesco, condannato a piú riprese, sta scontando una pena detentiva.

[2] Le occasioni per denunciare i fatti non sono poi molte, se si considera che l’unico quotidiano di peso esistente in Calabria, la Gazzetta del Sud, è su posizioni conservatrici ed ignora, o quasi, le posizioni della sinistra. Tolto il breve periodo (1980-82) in cui Paese Sera stampa una pagina regionale, per gli esponenti della sinistra non c’è la possibilità di esprimere le proprie opinioni. Rimangono i periodici locali, come questacittà e Cittanuova, davvero inadeguati a rappresentare le posizioni di un largo arco di forze politiche che in Calabria rimangono spesso senza voce.

[3] Lo Sterminal concentrato liquido, acquisito in enormi quantità dall’Ente presieduto da Macrì, era in realtà solo acqua sporca.

[4]Saverio Mannino, La strage di Razzà, Ed.Dimensione 80, 1983

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[5]Francesco Misiani, Per fatti di mafia, Ed. Sapere 2000, 1991. Cfr. Il cap. “Mafia, politica ed appalti a Taurianova, p.155

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Chi fosse interessato, potrà chiedermi (lasciandomi il suo indirizzo email) il testo in formato PDF. Provvederò a inviarlo per posta elettronica,

Per quanti (anche in relazione al discorso prima avanzato sulla costituzione di biblioteche locali) fossero interessati al libro su carta, fornisco l'indirizzo presso il quale reperirlo:

http://www.lulu.com/product/a-copertina-morbida/cronaca-di-una-strage-annunciata/16295222?productTrackingContext=search_results/search_shelf/center/2

Commenti

Maria Franco molto interessante il testo; condivido la proposta di costituzione di biblioteche locali

20 luglio 2011 alle ore 12.02 ·

Giovanni Pecora Carissimo Professore, leggere i tuoi appunti ed i tuoi ricordi ha scatenato in me una tempesta di sensazioni, visto che anche io ho vissuto (in parte ed indirettamente) quegli anni ed ho conosciuto i protagonisti citati.

Leggerò volentieri il resto del racconto, se vorrai inviarlo anche a questa email su Facebook.

L'idea di una biblioteca di storia locale è ottima ed importante. Mi permetterei solo di suggerirti di non pensare troppo al cartaceo e più al web.

La nostra terra ha bisogno di prendere coscienza della sua storia per cercare di predisporsi ad un futuro migliore e possibile.20 luglio 2011 alle ore 19.41 ·

Michele Maduli Carissimo Giovanni, ti invio con piacere il testo del mio libretto scritto quando ancora i ricordi erano vivi. Quanti, come noi, hanno conosciuto i mali della prima Repubblica, sono oggi in grado di comprendere meglio i guai della seconda. Spero che il progetto di dare vita ad una biblioteca di materiali per la conoscenza piena delle storie locali, possa andare avanti. Molte volte siamo noi stessi a scartare e a cestinare documenti che, invece, andrebbero messi a disposizione di quanti vogliono capire

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che cosa è realmente successo nelle realtà locali (ricordo, a proposito, una tua polemica sulla sintesi operata da Lucio Villari nel suo ultimo libro sull'Unità d'Italia). Sono d'accordo con te sulla opportunità di utilizzare sino in fondo, in modo intelligente, il web. C'è un livello, però (mi riferisco alle carte, ai faldoni diff icilmente trasferibili in digitale) che rimane per forza di cose nel cartaceo. Di qui la necessità che alcuni volenterosi si facciano carico dei lavori preliminari che consentano agli storici di cose locali (e non solo) di utilizzare una base di dati più ampia. Ho pure io qualcosa in serbo che dopo le vacanze porterò a conoscenza dei nostri amici. 20 luglio 2011 alle ore 20.52 ·

Pasquale D'Agostino Dobbiamo accontentarci della tua presenza culturale da lontano. Manca la tua presenza fisica in questa Calabria che si va desertif icando, Scopelliti e Berlusconi imperando. 22 luglio 2011 alle ore 15.29 ·Pasquale D'Agostino Tu eri la prosa e ed Emilio era la poesia di Taurianova e della Piana. Un abbraccio 22 luglio 2011 alle ore 15.30 ·

Pasquale D'Agostino Ma tu non sei stato allievo di Villari? 22 luglio 2011 alle ore 15.33 ·

Michele Maduli @pasquale, cerco di rimediare ritornando, almeno una volta l'anno (da ieri sera sono in Calabria). Quello che tu rimarchi, mi angustia; ma è un problema che tocca tantissimi calabresi che, come me, sono andati via. Affondi la lama ricordandomi il sodalizio con Emilio Argiroffi, un vero poeta che riusciva ad affascinare anche gli stupefatti avversari democristiani in quel consiglio dove siamo stati fianco a fianco per un quarto di secolo. E' vero, sono stato allievo di R. Villari e mi sono laureato con lui, con una tesi su G. Filangieri. Ma come fai a ricordare tutte queste cose? Affettuosi saluti.22 luglio 2011 alle ore 20.30 ·

Domenico Luppino Ho letto il testo con molta attenzione e l'ho trovato molto interessante. Ma altrettanto interessante mi pare la tua proposta di costituire delle biblioteche locali. Voglio augurarmi, soprattutto, di poter leggere storie e racconti di uomini e donne da poco, produttori di sangue e terrore, che niente è, al contempo, tutto hanno dato per determinare i destini di questa terra. Sono loro, purtroppo, i protagonisti della nostra storia. Le storie degli altri, gli esempi edificanti, di quelli che hanno sollevato lo sguardo e per questo sono morti ammazzati o sono stati costretti ad andare via e, più semplicemente, ma non meno importante, la gente comune, quella costretta per generazioni e vivere con la testa e lo sguardo rivolti in basso, dovranno essere e

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risultare un ulteriore elemento rafforzativo per evidenziare la crescita esponenziale dello strapotere 'ndranghetista. Sarà bene, dunque, raccontare e raccogliere tutto, ma ancora di più sarà bene raccontare e parlare delle tante storie sconosciute, che molti di noi figli di queste contrade conoscono e non hanno mai superato il limite del coraggio o, in certi casi, del pudore per raccontarle. Storie poco o per nulla conosciute, le più inconfessabili e proprio per questo, forse, le più terribili. La Calabria, ed in particolare la provincia di Reggio Calabria degli ultimi cinquanta anni, è stata caratterizzata più da eventi che hanno seguito il loro corso, senza che nessuno se ne interessasse e, quindi, finiti nel dimenticatoio, che da storie e fatti conosciuti. Sono stati molti di più i Consigli Comunali " costruiti " o " sciolti " dalla 'ndrangheta, che quelli messi in piedi dalle regole della democrazia o sciolti dalle norme dello Stato democratico. Mi auguro, dunque, che la tua interessante proposta possa avere un seguito, da parte mia tutta la disponibilità possibile.

24 luglio 2011 alle ore 10.12

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26 agosto 2011 alle ore 21.21

RICORDANDO EMILIO ARGIROFFI

Qualche giorno addietro il giornale online Zoomsud di Aldo Varano ha pubblicato un ricordo di Emilio Argiroff i scritto alcuni anni addietro da Adele Cambria. Proprio quest'estate, in un incontro estemporaneo con i vecchi compagni di Taurianova nell'antica sede del PCI, ho manifestato l'intenzione di proporre al Sindaco della città di voler degnamente ricordare il nostro illustre concittadino Emilio Argiroff i che, oltre ad essere stato dirigente e senatore del PCI ha ricoperto l'incarico di Sindaco di Taurianova. Non parlo soltanto di un discorso commemorativo ma di qualcosa di più manifesto e duraturo quale l'intitolazione di un luogo della città.

Emilio Argiroff i era nato in Sicilia, a Mandanici, ma ha vissuto la parte fondamentale della propria esistenza, come medico, intellettuale, poeta, dirigente politico, nella nostra città. La proposta parte da chi, come me, gli è stato a fianco, per un quarto di secolo, nel Consiglio comunale di Taurianova, nei luoghi della cultura e della politica, in un rapporto autentico, non privo di momenti di tensione, ma sempre alimentato dalla passione comune per la crescita civile e culturale delle nostre genti.

Nell'invitare le forze politiche, le forze vive della città a voler sostenere questa proposta, ritengo utile ripubblicare quanto ebbi a scrivere in memoria di Argiroffi in occasione della prima festa dell'Unità di Taurianova svoltasi dopo la sua morte.

IIN RICORDO DI EMILIO ARGIROFFI

lI medico dei braccianti

Emilio Argiroffi venne dalla sua Mandanici a Jatrinoli nei primi anni ’50 e divenne subito il medico delle raccoglitrici d’ulive, dei braccianti diseredati.

Quando il medico era una persona rispettabile che passava il tempo libero al circolo e che curava solo la gente che aveva i soldi o le cambiali per pagare, Emilio Argiroffi apparve come un diverso che curava anche gli indigenti e che, soprattutto, parlava ai suoi pazienti trattandoli da esseri umani. Le donne e i braccianti di

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Jatrinoli che negli stessi anni seguivano le indicazioni politiche di Falleti, adesso, per la prima volta, avevano la possibilità di raccontare la propria vita a questo strano giovane dai modi gentili, che aveva la pazienza di ascoltarli e di curarli.

In quegli anni conobbi anche io il giovane medico Argiroffi e rimasi colpito, oltre che dei suoi modi anche della personalità complessa, degli interessi culturali e artistici che in lui si agitavano e che spesso venivano fuori in modo prorompente attraverso i disegni e le poesie. Ma era soprattutto la parola che mi affascinava. Ho ritrovato in un libro di Argiroff i una sua dedica “A Lino Maduli che ritrovo vicino soprattutto nell’uso della parola come arma rivoluzionaria contro la violenza…”.

Le donne di Jatrinoli. Gli asili-nido.

In quelle case basse di Jatrinoli, nelle tristi abitazioni dei braccianti che vivevano la loro grama esistenza nell’unica stanza dove coesistevano il bagno, la cucina e il letto, il giovane medico conobbe sul serio la vita, che non era più soltanto quella dei salotti, dei libri e della bella gente, ma anche quella degli umili, dei bastonati, dei morti di fame.

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In quegli anni mi ritrovavo spesso tra le donne del popolo che frequentavano lo studio medico di Emilio Argiroffi, nel cuore popolare di Jatrinoli. Quei visi, tristi e allegri, scavati, sofferti raccontavano al medico non solo i propri mali, ma anche la propria vita, le proprie angosce. Lo studioso raccoglieva i dati, metteva le notizie l’una dietro l’altra e faceva venire fuori un racconto impietoso sulle condizioni delle braccianti nella Piana di Gioia Tauro.

In quel libretto pubblicato agli inizi degli anni ’60[1] Argiroff i raccoglieva le testimonianze di centinaia di donne che avevano svolto per decenni il loro lavoro di braccianti, dalla mattina alla sera, scalze, malnutrite, con il peso della famiglia e dei figli oltre il duro orario di lavoro. Nel rapporto veniva sottolineato, ad esempio, il legame esistente tra il lavoro dei campi e l’ankilostomiasi, una vera e propria malattia professionale delle braccianti quasi tutte infestate dai vermi perché abituate a lavorare scalze negli uliveti.

Nel 1963 Argiroffi e il PCI organizzarono a Taurianova un convegno nazionale sulla condizione umana e sociale delle raccoglitrici d’ulive che servì a lanciare la proposta di legge sugli asili nido.

Nel 1964 da Cittanova a Taurianova si dispiegò la “Marcia dell’ulivo”. Migliaia di giovani, di donne, di militanti e di uomini non legati ai partiti; calabresi e venuti da ogni parte d’Italia, gridarono la loro voglia di pace.

L’organizzazione della “Marcia dell’ulivo” aveva coinvolto decine di militanti e di giovani che, prima ancora che scoppiasse la grande stagione delle battaglie pacifiste in America e in tutto il mondo, esprimevano la loro voglia di reagire alle prepotenze degli uomini di governo, locali e nazionali, che non tenevano in alcun conto la voglia di costruire una società più civile e più aperta.

Nella marcia dell’ulivo e nelle tante manifestazioni per la pace promosse da Argiroff i in Calabria e sostenute dal Partito comunista che, a partire dal 1964 era diventato anche il suo partito, erano presenti simboli, paesaggi, ritmi voluti da Emilio Argiroffi.

V’era il richiamo all’ulivo, alla palma, al mare, alla poesia. Riemergevano anche in queste manifestazioni politiche i miti che appartenevano all’uomo Argiroffi che aveva trasferito in terra di

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Calabria i colori, i sapori, gli odori, gli dei Penati della sua Sicilia.

Il mito e la parola

Argiroff i aveva inventato la dizione “Piana del Tauro” per definire la Piana di Gioia Tauro. Il Tauro non era solo il fiume Petrace, ma anche la radice della sua Taormina, Tauromenium. Dalle coste ioniche della Sicilia, dove Argiroffi era nato, passavano i pescespada che poi sarebbero stati catturati nel mare di Bagnara e di Scilla. Sulla spiaggia di Palmi, la Tonnara (il Portus Orestis) era approdato, tanti secoli prima, il matricida Oreste. Nei discorsi del medico che diveniva in quegli anni politico, trascinatore di folle, con la sua calda oratoria, il mito omerico si fondeva con l’epopea dell’emigrante: i fiori, gli odori, le piante della sua Sicilia divenivano tutt’uno con i sapori, le storie, i colori della Calabria, della Piana dell’ulivo sacro alla dea Atena.

Per l’uomo e il poeta Argiroff i la parola contava molto; così come molto contavano i miti, antichi e recenti (la Grecia classica di Omero si mescolava con quella nuova di Panagulis; la Resistenza, le rivoluzioni si fondevano con le lotte dei braccianti, con le battaglie dei democratici e dei laici). Questo impasto di antico e di moderno, di vicino e di lontano mi divenne familiare negli anni trascorsi fianco a fianco in Consiglio comunale, quando Argiroff i esprimeva con passione, con ironia, con gusto, la propria indignazione nei confronti di quanti contribuivano a rendere il Sud sempre più lontano, più distante dal resto d’Italia e d’Europa.

La battaglia che Emilio Argiroffi e i suoi compagni iniziarono a combattere negli anni sessanta e poi proseguirono fino agli anni ’90, fu essenzialmente una battaglia per affermare i diritti elementari delle classi più povere, innanzitutto, e poi quelli delle migliaia di cittadini laboriosi, di giovani, di donne, di intellettuali, offesi da un governo locale tra i più corrotti e i più inetti che la storia italiana conosca.

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Argiroffi visto da Renato Guttuso

Argiroffi al Senato: Taurianova alla ribalta

Nel 1968, sull’onda di un’avanzata popolare della sinistra nella Piana di Gioia Tauro, Argiroffi venne eletto senatore della repubblica, nelle liste del PCI-PSIUP; in contemporanea con Mommo Tripodi, sindaco di Polistena, nominato deputato. Al Senato Argiroff i, sempre nelle liste del PCI, venne confermato per altre due legislature

Nella sua attività parlamentare, come in quella consiliare a Taurianova, v’è il richiamo continuo al dramma della sua città, al grave vulnus inferto alla democrazia e alla convivenza sociale dai potentati locali che godevano del consenso delle gerarchie politiche provinciali e nazionali. Grazie al suo impegno, alla sua appassionata denuncia, Taurianova balza all’attenzione della cronaca nazionale, diviene un monstrum sul quale si esercitano la grande stampa, nazionale e internazionale, gli inviati della televisione, la magistratura.

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Taurianova viene indagata dai giudici, viene vivisezionata dalla stampa, dagli studiosi di scienze politiche e sociali, diviene oggetto di rif lessione per quanti hanno a cuore le sorti della democrazia: poiché non può non preoccupare il fatto che ordinanze dei giudici, inviti delle forze politiche, raccomandazioni degli enti di controllo, delle prefetture, decreti del Presidente della Repubblica vengano disattesi, respinti, buttati nel cesso.

In questa situazione di estremo degrado che aveva, per giunta, in serbo l’esplosione della violenza mafiosa e la sua affermazione come classe politica predominante, Argiroffi e la sua gente esercitarono un’azione di denuncia e di controllo, di contenimento della frana politica e sociale che poi si sarebbe scaricata addosso al paese all’inizio degli anni ’90.

L’uomo politico Argiroffi.

Si farebbe un torto all’uomo se si legasse l’attività politica di Argiroffi solo all’ambito cittadino. In effetti, Argiroffi ha goduto di grande popolarità in tutta la Regione Calabria, per il suo impegno continuo e appassionato in difesa dei diritti civili e democratici (per molti anni fu presidente della Consulta calabrese per la pace). In questo campo il suo impegno era di lunga data. Ricordo i viaggi fatti assieme su e giù per la Calabria in occasione delle manifestazioni, delle marce, delle campagne politiche. Mi è vivo, in particolare, il ricordo di una lontanissima notte del 1963 o 1964, quando ci avventurammo tra le strade innevate della Calabria per raggiungere, a Catanzaro, nei giorni di Natale, una comunità evangelica che voleva rif lettere sul significato della pace. Ecco, Argiroffi su questo terreno non aveva pregiudizi di sorta, sapeva dialogare con tutti, comunisti, laici, cattolici, purché si mirasse a consolidare il bene più prezioso: la pace.

L’altra grande passione della sua vita, che egli seppe trasfondere nell’attività politica, fu la questione della salute. Di questo tema si occupò nell’ambito delle commissioni di partito, nelle commissioni e nell’assemblea del senato, come presidente dell’Ospedale di Polistena. Del suo impegno quale amministratore dell’ospedale rimane traccia in un libro che egli volle pubblicare sulla sua esperienza di medico e di organizzatore.

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Non ho avuto modo di apprezzare l’attività di Argiroffi nelle aule del Senato o nelle tante occasioni in cui egli ebbe l’incarico di rappresentare il suo Paese o il suo Partito, in Italia o all'estero. Credo, però, di essere stata la persona che più e meglio ha goduto della sua presenza nelle sezioni del partito, nelle aule del Consiglio comunale di Taurianova. Qui, in particolare, ci siamo ritrovati, quasi ininterrottamente, dal 1964 sino al termine degli anni ’80.

Più di venticinque anni di riunioni, di accese discussioni, di battaglie. Era diff icile, per me, essere il capogruppo di una schiera di consiglieri di cui faceva parte un uomo come Emilio Argiroffi. Il quale sapeva ascoltare, seguire il dibattito politico, raccogliere le indicazioni di quei compagni che si interessavano da vicino delle questioni locali; poi, l’oratore appassionato, il fine dicitore, riusciva a raccogliere i brani sparsi di un dibattito, nel quale v’erano state le concretezze dei fatti, le asprezze degli scontri, e li trasformava in un discorso alto, politico, che volava nell’aula, arricchito della sapienza, della esperienza di un uomo che conosceva il cuore e le passioni degli altri uomini.

In quell’aula di Consiglio comunale, nella quale sarebbe ritornato come primo cittadino quasi al termine della sua vita, c’è ancora il ricordo di quella voce calda, appassionata che sapeva invitare alla rif lessione e alla pacificazione ma sapeva anche incitare alla battaglia, come quando si trattò di reagire nel 1965 e poi, ancora, nel 1986 ai soprusi di quella classe politica che da lui era lontana anni luce, per i contenuti e per la forma della lotta politica.

Michele Maduli

[1] E. Argiroffi, La condizione umana e sociale delle raccoglitrici d’ulive nella Piana di Gioia Tauro.

Commenti:

Filippo Andreacchio Grazie Michele per il tuo contributo, dopo averlo letto ho avuto un flashback, ricordando la prima volta che entrai in una sede di partito.

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Era la sede del PDS di Taurianova (oggi PD) ed io ero giovanissimo, attratto da un movimento di ragazzi e ragazze molto propositivo e soprattutto "insolito" per la letargica Taurianova di quel periodo non semplice.

Era un tardo pomeriggio d'estate, dopo la prima rampa di scale e alcuni manifesti della CGIL, di Enrico Berlinguer, nella seconda stanza, quella più grande e con televisore, stava seduto sul divano il senatore Emilio Argiroffi, calmo, con il suo bastone, intento ad ascoltare un'edizione del telegiornale.

Mi sorrise, conosceva mio padre che mi accompagnò fin sopra e conosceva il padre di mio padre, uno dei tanti braccianti agricoli che si faceva assistere e curare da Argiroffi, medico e politico.

Io aspettai qualche minuto in compagnia di gente che non conoscevo, poi arrivarono Gianni Accardi, Walter Schepis e mi accolsero subito come se fossimo stati sempre amici, quel pomeriggio c'era la mia prima riunione, ascoltai tutto il tempo e anche se non capivo tutti i ragionamenti e i riferimenti, "sentivo" che lì circolavano idee fresche.

Emilio Argiroff i era una di quelle persone in grado di folgorarti al primo incontro, capace di tessere con ricercate parole una visione "umana e poetica" del futuro. Un politico che ha lottato per conquistare nuovi diritti, richiamando come pochi potevano permettersi, il ruolo centrale della "cultura" nel progresso reale dell'uomo.

Per molti la sua era solo "utopia delirante" rispetto ai problemi veri di una comunità, pensiero che secondo me ha ancora molti sostenitori nella nostra città.

Quanto manca a Taurianova un personaggio come Emilio?

Io credo tantissimo, fuori da ogni retorica commemorativa.

26 agosto 2011 alle ore 22.05

Maria Franco ti ringrazio molto di questo scritto, Michele; penso che hai molte cose da raccontare: un'esperienza ricca che va trasmessa con cura26 agosto 2011 alle ore 22.56 ·

Pasquale D'Agostino Caro Michele, grazie per questo messaggio.26 agosto 2011 alle ore 23.55 ·

Pasquale D'Agostino Voglio ricordare che ho partecipato alla marcia della pace del 64 portando un grance cartello (2mc. circa)

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con un dipinto, di cui dovrei rinvenire la foto, con la scritta "Con la piena di un nuovo diluvio laveremo le città dei mondi". Majakovski. Ricordo la presenza, tra gli altri, di don Andrea Gaggero,fondatore del Movimento dei Partigiani della Pace-. Ricordo, oltre Emilio, anche la tua allora giovanissima cara persona-@Michele un forte abbraccio-27 agosto 2011 alle ore 0.04 ·

.Servizi Al Cittadino Taurianova Emilio possedeva l'anima pura dell'artista, il suo passo elegante ed il colore delicato della sua pelle rendevano il suo carisma ......disarmante. Ho avuto l'onore di conoscere l'uomo, l'artista ed il politico.....ed in tutte e tre le sfaccettature.....si esternavano sentimenti di grande solidarietà umana. La sua eloquenza incantava qualsiasi interlocutore.....il quale rimaneva disarmato dinanzi a tanta cultura verbale....e alla stessa umiltà con cui la condivideva.Ricordo il rammarico della solitudine negli ultimi mesi.....della sua vita, la cagionevole salute e la consapevolezza con cui attendeva il grande passo. Ricordo il racconto di sua sorella Maria che colse l'ultimo istante di vita di Emilio....in una mattinata qualunque mentre i raggi del sole illuminavano il suo volto in quel, inospitale per chicchessia, letto d'ospedale. Ricordo....il suo rispetto verso il prossimo...e l'acuta ironia nel descrivere la personalità di chi politicamente lo calunniava..... Emilio vive ancora...nel ricordo di chi aveva avuto la fortuna di riconoscerne l'estro...,chi si è perso questa occasione.....ha sprecato una grande occasione.....Lory27 agosto 2011 alle ore 1.57 ·Giovanni Pecora Taurianova e la Calabria tutta non sono riuscite a scrollarsi di dosso la maledizione che ha visto sempre privilegiare il furbo sul migliore, l'utile sul bello, il servilismo sulla liberazione. Anche, e forse devo aggiungere soprattutto, nel partito comunista prima e nella sinistra fino ai giorni nostri.

Altrimenti oggi non ci sarebbe Berlusconi, né il berlusconismo.

La parabola politica di Emilio Argiroffi, ancorché prestigiosa, fu sempre sofferta e frenata.

Né il suo amato paese adottivo, né il partito che aveva avuto la fortuna di averlo tra le sue fila, seppero valorizzarlo se non nel limite di quanto non gli si poteva negare se non cadendo nello scandalo.

E mentre non uno ma almeno due personaggi gli contendevano la sua città, alcuni altri politici di caratura infinitamente inferiore alla sua gli rubavano spazi elettorali e nel partito.

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Avremmo potuto avete un grande principe a rappresentare la nostra terra, ed abbiamo scelto un astuto scudiero, ed a possibili ma non certi banchetti futuri abbiamo preferito il sicuro pane e cipolla.

E poi ci lamentiamo se Taurianova viene ricordata per la stagione circense di Ciccio Mazzetta, per la strage di Razzà, per la testa mozzata e per il baby killer. Questo significa rinunciare ad alzare la testa e accontentarsi di nutrire l'anima di pane duro e puzzolente cipolla. Non si vive, si sopravvive.

Emilio Argiroff i voleva darci un'anima, e lo abbiamo sbeffeggiato. Era gentile e mite, e lo hanno chiamato finocchio. Era ricco di cultura e di intelligenza superiore, e lo hanno definito superbo.

Ci voleva donare le ali per farci volare, ed abbiamo preferito volare a calci in culo.

Adesso sta a noi, Michele, far si che almeno prevalga il suo bel sorriso nei nostri ricordi anziché il ghigno beffardo e catarrale dei suoi oppositori.

Forse la memoria può essere catartica. 27 agosto 2011 alle ore 10.28

Achille Bonifacio Ricordo con commozione Emilio Argiroffi! Uomo dotato di altissime qualità umane e culturali. Il suo impegno politico e culturale nella Calabria delle grandi lotte è stato degno di grande ammirazione e di grande stima! Grazie per il tuo lucidissimo intervento e per avermi fatto ricordare il compagno Emilio Argiroffi! 27 agosto 2011 alle ore 17.29

Beppe Orefice Avevo scritto ai Commissari qualche tempo addietro; in particolare trovavo folle non ci fosse alcuna menzione nel sito internet comunale. Magari intitolare una via complica il lavoro di uffici e servizi ( a dir il vero poco) ma scrivere due righe sul web e' cosa semplice : quantomeno. Poi, con tutto il rispetto del caso, il tempo per inserire Antonio Marziale e Agostino Sacca' lo hanno trovato. Mi chiedo allora se sia una pregiudiziale politica. Scrivessero del poeta e del pittore allora. Ma forse e' meglio cosi' infondo e' come dire che non ce lo siamo meritato. Vediamo cosa fara' Romeo.

Ps. Vorrei ricordare anche una persona da poco scomparsa come la Prof.ssa Loschiavo: donna caparbia e caparbiamente protesa ad accultutare generazioni dal liceo all'universita' della terza eta'.

29 agosto 2011 alle ore 19.56 ..Altro...29 agosto 2011 alle ore

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19.56 ·

Giovanni Pecora Bravo, Beppe. In effetti se il sito del Comune di Taurianova commemora i vivi Marziale e Saccà, diciamo diplomaticamente che Emilio Argiroffi è... un'altra cosa!

Un caro ricordo, mi associo anch'io, per la cara Professoressa Isabella Loschiavo, donna di scuola per quasi quarant'anni, giornalista, saggista e meridionalista di prim'ordine.29 agosto 2011 alle ore 20.58 ·

Nicoletta Allegri Emilio Argiroffi era un faro nel nostro" mondo oscuro",il faro si è spento ed ora siamo circondati da una greve oscurità!!30 agosto 2011 alle ore 20.23 ·

Michele Maduli Ecco, adesso potremmo riaccendere quel faro! 30 agosto 2011 alle ore 20.31 ·

Nicoletta Allegri l'oscurità è particolarmente intensa!!30 agosto 2011 alle ore 20.33 ·

Antonio Marziale Condivido totalmente, ricordando la signorilità, la delicatezza e lo spessore culturale di Emilio.

26 agosto 2011 alle ore 22.30

Maria Corica Ricordo che alla sua morte un illustre esponente del partito con incarichi regionali promise la costituzione di una fondazione a suo nome, mai realizzata! Emilio Argiroffi è stato un grande non solo dal punto di vista professionale ( forse meno in quello politico, come lui stesso ha riconosciuto nel corso della sua ultima intervista) ma anche come uomo di cultura, pittore e poeta.

26 agosto 2011 alle ore 22.47 ·

Maria Corica Intitolare una strada o quel "famoso" centro culturale( grande incompiuta) è il minimo che il paese per cui ha speso quasi tutta la sua vita possa fare!26 agosto 2011 alle ore 22.51 ·

Sandro Taverniti Niente era più estraneo alla Piana di Emilio. Eppure era così fertile la sua presenza e così disperatamente vana.31 agosto 2011 alle ore 9.57 ·

Lina Boeti Forse ha combattuto troppo spesso contro i mulini a vento.23 maggio 2013 alle ore 8.49 ·

Nadia Parrone Io ho di lui dei teneri e cari ricordi, ero piccola ma abbastanza grande da appassionarmi alla sua arte oratoria;

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trainata dalla passione di mio padre per quelle correnti, quel partito, quelle persone, mi immergevo in quel calore umano, sentivo quei discorsi di lotta e mi prendevano... mi prendevano lo stomaco. E' anche merito suo che oggi ho, nonostante i tempi, la forza di lottare ancora.24 maggio 2013 alle ore 19.53 ·

Lina Boeti Nadia , nono ti conosco ma ti ringrazio per le tue parole , perchè i tuoi ricordi sono anche i miei. Anche io e mio fratello seguivamo mio padre e quei discorsi di cui parli ci hanno aiutato a crescere con certi valori .Certo quei valori oggi sono un po' sbiaditi ma noi continuiamo a lottare! 24 maggio 2013 alle ore 21.17

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6 settembre 2011 ·

E' SOLO UNA MANOVRINA.

Quella definita la sera del 6 settembre 2011, nonostante le apparenze, è solo una manovra parziale, ingiusta e inadeguata. Andiamo al cuore del problema: l'Italia ha un debito enorme (circa 1.800 miliardi di euro) per coprire il quale è costretta a ricorrere periodicamente all'emissione di titoli di Stato. Fino ad ora i titoli sono stati acquistati da investitori italiani ed esteri che hanno avuto fiducia nella solvibilità del nostro Stato. Viviamo in un mondo orientato, condizionato dai mercati finanziari. Quel che conta non è più, o soltanto, la ricchezza o la produttività di una nazione, ma l'immagine che viene costruita dalle borse, dalle società di rating, dagli investitori e dai grandi scpeculatori. Il paradosso è costituito dal fatto che l'Italia continua ad essere una delle nazioni più ricche (con un grande fondo patrimoniale pubblico e privato) ma, nello stesso tempo è una delle nazioni più a rischio di default.

Ed ecco due notizie positive: la nostra economia tira, soprattutto sul versante delle esportazioni, dove percentualmente siamo più forti della stessa Germania. E, poi, a fronte di un debito pubblico enorme, disponiamo di una ricchezza privata impressionante. Se i nostri ricchi decidessero, in un impeto di generosità, di comprare il nostro debito, avrebbero la possibilità di farlo senza svenarsi, poiché essi dispongono di fondi equivalenti ad oltre 8.500 miliardi di euro.

Allora, facciamo alcune semplici considerazioni: i nostri guai sono iniziati quando i governi della prima Repubblica hanno gonfiato le spese ed hanno depositato sul nostro groppone un peso insopportabile. Il debito, in un contesto di economia globalizzata, ci ha reso succubi dei mercati e degli speculatori. Che cosa fare? Bisogna, nella maniera più assoluta, riacquistare la nostra autonomia e la nostra libertà, liberandoci dal mostro del debito pubblico. Il rischio, se non la certezza, è che si possa andare verso il default, il fallimento nazionale.

Non sono un economista e non sono nelle condizioni di avanzare proposte scientif icamente sicure; però mi baso sulle analisi di alcuni esperti che, con molta cautela hanno ipotizzato la possibilità di ricavare nell'immediato, un incasso dai 200 ai 400

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miliardi di euro mettendo mano ai grandi patrimoni che, come si è detto prima, ammontano a circa 8.500 miliardi. Se poi questa "patrimoniale", questo prelievo sulle grandi ricchezze, sui grandi patrimoni mobilari e immobiliari, assumesse carattere di continuità (almeno cinque anni), si potrebbe ipotizzare un taglio sostanziale del debito nazionale. Ovviamente verrebbe meno la necessità di impoverire gli enti locali, i pensionati, i lavoratori e i consumatori con gli iniqui prelievi che fanno parte dell manovra 4.0. Rimarrebbero di riserva la lotta all'evasione fiscale e al lavoro nero, la liberalizzazione delle professioni, l'alienazione di parte del patrimonio dello Stato ecc.

Il Governo in carica è costituzionalmente incapace di concepire una manovra che assomigli, anche vagamente, a quella sopra delineata. Eppure, negli ultimi tempi, a propugnare la patrimoniale sono proprio i grandi capitalisti, come Buffett, De Benedetti, Montezemolo, Della Valle ecc. Perché tutto questo? perché chi ha un po' di sale in zucca si rende conto che dal fallimento della nazione tutti usciremmo più poveri. Certo, alcuni furbi scapperebbero a Montecarlo, in Svizzera, nei paradisi tropicali; ma il grosso dei benestanti sarebbero costretti a rimanere in Italia. A chi giova, quindi, lo sfascio? Nella favoletta della nave sequestrata dai pirati che ho pubblicato ieri (1), i ricchi e i benestanti, alla fine decidono di mettere mano al portafogli per evitare il sequesto o l'affondamento della nave. Perché sono gli unici a potere pagare.

Ad ogni modo aspettiamoci tra qualche settimana la manovra 5.0. Alla fine, quando la Banda dei Berlusconi con la coorte delle escort, dei Tarantini, dei Lavitola; dei Tremonti e dei Milanesi, dei Sacconi e dei Brunetta, per non dire degli Scaiola, abbandonerà questo "paese di merda" (la definizione è di Silvio Berlusconi), questo Paese potrà ritornare ad essere un "Bel Paese".

(1) Un panfilo con mille persone, passeggeri, personale, lavoratori, viene aggredito dai pirati che pretendono un milione di euro per non fare affondare la nave. c'è chi dice:"paghiamo mille euro a testa". Altri, tra cui il Comandante, obiettano che ciascuno deve pagare in rapporto alle proprie capacità, per questo, chiedono che paghino i ricchi e i benestanti. La nave così viene salvata con soddisfazione di tutti.

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15 settembre 2011 ·

LA CALABRIA DI BERTO (COMMENTO ALL'ARTICOLO DI MARIA FRANCO SU ZOOMSUD)

V’è stato un momento in cui la civiltà contadina calabrese ha avuto una connotazione progressista: in occasione delle lotte sociali e dell’occupazione delle terre del secondo dopoguerra. Per secoli, infatti, essa aveva sempre diff idato delle rivoluzioni borghesi che miravano a rompere il feudalesimo e a riscattare le terre dall’abbandono, Nel corso dei secoli i contadini avevano acquisito pochi ma indispensabili diritti (raccogliere la legna e i frutti di bosco in montagna, coltivare piccoli appezzamenti al di fuori del feudo ecc.) Per questo s’erano sempre schierati contro la rivoluzione, per il mantenimento dello status quo. Con l’alienazione dei feudi e la vendita dei beni ecclesiastici, i contadini ricevettero un colpo terribile, proprio perché dovettero rinunciare ai miseri privilegi che avevano strappato ai vecchi padroni.

Con la grande migrazione degli anni 50-70 del secolo scorso verso il Nord, la Svizzera, la Germania, la Calabria si svuota, il vecchio sistema contadino entra in crisi. “L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti –nota Berto- è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili…”

Come siano andate le cose noi calabresi lo sappiamo molto bene. I vecchi braccianti, reduci dalla fatica dell’emigrazione, trassero fuori le famiglie dai catoi e dai vicoli e costruirono, senza regole e senza geometria, le nuove case sui terreni ceduti loro, a basso prezzo, dai proprietari dei suoli. Contemporaneamente la borghesia benestante investiva nel mattone marino e devastava le coste del Tirreno e del Jonio.

Berto, da poeta, racconta l’evento: “L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili… La conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto, il furbo…” e, poi, dà la mazzata finale “ (I calabresi)… si sono messi fervidamente al lavoro e, bisogna riconoscerlo, hanno

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sbagliato quasi tutto. E’ sorprendente come siano riusciti, in un tempo tutto sommato neanche tanto lungo , a rovinare bellissimi paesaggi con brutte costruzioni, a trasformare siti fino a poco fa campestri in luoghi pieni di cartacce…”.

Quello che lo scrittore vede come offesa alla bellezza: ” I calabresi sono i primi a non credere alla bellezza e all’altezza della loro civiltà, che è una civiltà contadina. Per essi la civiltà contadina è simbolo di miseria, di scarso cibo e di molte malattie, di disprezzo, vero o supposto, da parte di altre popolazioni economicamente e tecnicamente più progredite. E’ comprensibile, quindi, che essi vogliano cancellare le vestigia di tale civiltà”, noi possiamo prosaicamente classificare come assenza di regole e di legalità.

Nel secondo dopoguerra in Calabria non sono mancati i soldi e le occasioni. Fiumi di miliardi (di lire) si sono rovesciati sotto forma di impianti industriali destinati ad essere smantellati, di pensioni e di sussidi facili, di rimborsi ai produttori agricoli (olio, agrumi). A beneficiarne sono stati tutti coloro i quali hanno vissuto la democrazia come il luogo dell’assenza della legalità. Quando qualcuno, preso da legittimi dubbi, chiedeva se fosse conveniente comprare i suoli al di fuori dei piani regolatori, l’amministratore corretto spiegava che il vantaggio del minor costo sarebbe svanito dinanzi al fatto che non esistevano le opere di urbanizzazione (strade, fogne, impianti ecc). Ma la battaglia per la legalità era persa in partenza, perché il vecchio bracciante aspirava ad avere un tetto sopra la testa e subito; della legge, della “Bucalossi” non gli interessava niente e, poi, alle elezioni avrebbe votato per chi non gli rompeva le scatole con le storie di legalità.

Qualche volta riprenderò la storia delle “vacche sacre” e delle inutili perorazioni agli uomini dello Stato e ai politici. Quando raccontavo di questi animali bradi che sconvolgevano le campagne, che mettevano in pericolo la vita di quanti circolavano per le strade della Piana, che facevano morire per la seconda volta i morti del Cimitero, uomini anche importanti dello Stato e della politica mi sorridevano divertiti e tiravano avanti.

Mancanza di bellezza o mancanza di legalità; dite quello che volete, il risultato non cambia: una terra violentata, piena di veleni. Notava Berto:” I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali”

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30 novembre 2011

SALVARE LE BANCHE O SALVARE LE SCUOLE?

In vita mia ho avuto modo di conoscere centinaia di edifici scolastici. Tranne pochissime eccezioni, sono quasi tutti scalcinati, bisognevoli di cure, privi dei certif icati rilasciati dagli enti proprietari ai sensi della L. 616. Nei miei ricordi c'è anche qualche bidello in divisa: per fortuna la credibilità dei luoghi o dei settori di lavoro non dipende tanto dall'apparenza, quanto, piuttosto, dalla sostanza. Per questo le scuole sopravvivono nonostante i tagli di Tremonti e i tunnel della Gelmini.

Non conosco, invece, una sede bancaria scalcinata; al più qualche arredamento d'epoca ma, in genere, le banche sono ubicate in ambienti moderni, bene arredati, con tanto di riscaldamento o di condizionatori, con macchine e strumenti sempre all'altezza della situazione. Certo, lo status del bancario non è più quello di una volta, ma non di questo voglio parlare.

Nella città in cui abito ci sono più banche che scuole, non solo, ci sono gruppi bancari che hanno una decina di sedi sul territorio cittadino; c'è una grande banca che ha due sedi nella stessa via, a cinquanta metri di distanza l'una dall'altra. Il rapporto sedi bancarie/abitanti è impressionante: almeno una ogni mille abitanti, una ogni 250 famiglie (e non contiamo le poste che sono diventati veri e propri sportelli bancari oltre che suk stile arabo dove si vendono libri, telefonini, giocattoli ecc).

Perché in un momento in cui si propongono misure lacrime e sangue, in cui si tagliano diritti, risorse, pensioni, stipendi, parlamentari, province risorse per lo sviluppo (e chi più ne ha più ne metta), non si pensa a razionalizzare le sedi e le attrezzature delle banche? Mi si dirà: ma le banche sono in gran parte private, coi loro soldi possono fare quello che vogliono. E qui casca l'asino, perchè non appena le banche hanno qualche lieve mal di pancia, tutti i governi intervengono per salvarle coi soldi pubblici. Perché -si sostiene- le banche svolgono una importantissima funzione sociale ed economica: debbono prestare i soldi alle imprese e ai cittadini ecc.

Abbiamo finito per credere a tali fandonie ed oggi rischiamo di fallire come nazioni euro per colpa delle politiche finanziarie (ma

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sono cose di cui tutti siamo diventati esperti!). Io mi limito a un semplice problema, quello dello spreco delle risorse pubbliche per mantenere in piedi questi enormi carrozzoni dove si propinano ai risparmiatori titoli tossici, si pretendono commissioni elevatissime per la gestione dei conti e si liquidano interessi sui depositi a volte ridicoli. E finisco con una proposta provocatoria: chiudiamo la metà degli sportelli e utilizziamo i risparmi così ottenuti a favore delle scuole!

Commenti:

Patrizia Gambini La ringrazio, Preside, per aver condiviso anche nella mia bacheca un suo pensiero così importante..lei sa molto bene quante lagrime e sangue si spargono invece nelle scuole,dove i riscaldamenti sono al minimo,i colloqui con i genitori di pomeriggio avvengono a termosifoni spenti,e gli esami di maturità contendendosi gli unici due o tre ventilatori, leggasi ventilatori, esistenti in tutto l'istituto..altro che condizionatori...quando invece dei tagli vergognosi ed inopinati alla scuola si penserà ad incentivi fruttuosi e davvero proficui perchè si investe sul reale futuro della società, forse,e dico forse, potremo essere orgogliosi di noi stessi... La saluto, caramente! 30 novembre 2011 alle ore 22.34 ·

Mirella Cappelli Grazie!30 novembre 2011 alle ore 23.17 ·

Giovanni Gaspari caro preside, sei ottimista; 65 (sessantacinque) sportelli bancari per 48.000 abitanti e non finisce qui. lucida analisi ma temo sarà poco ascoltata da questo governo se penso a qualche ministro dal trascorso (presente) ai vertici della più importante banca italiana. nel nostro piccolo, come comune stiamo progettando poli scolastici di nuova costruzione ma da soli non potremmo farcela.1 dicembre 2011 alle ore 1.23 ·

Michele Maduli Grazie a Giovanni Gaspari per la puntualizzazione: il rapporto tra gli sportelli e le banche (considerando circa 12000 famiglie, ma il sindaco potrebbe ulteriormente correggere il dato) è di 185 famiglie per ogni sportello. Se consideriamo il personale impiegato in ciascuna sede (dal Direttore agli addetti alle pulizie) possiamo ipotizzare un rapporto di poco superiore a 1 a 10. Quando penso che si lesina su un docente di sostegno e che si chiede ai ragazzi di portare la carta igienica da casa...@Giovanni Desideri sono d'accordo sull'apertura di un dibattito. Potremmo scoprire altre relazioni interessanti!

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1 dicembre 2011 alle ore 16.54 ·

Marina Franza grazie del tag, nota decisamente interessante.1 dicembre 2011 alle ore 17.53 ·

Achille Bonifacio Condivido in toto il ragionamento di Michele Maduli; mi pare di dover aggiungere una considerazione: non penso assolutamente che le cose possono essere risolte con la razionalizzazione dell'edilizia bancaria, magari in favore dell'edilizia scolastica. Credo che ci troviamo, ancora una volta, ad una precisa situazione di lotta di classe: non esistono governi tecnici, si tratta esclusivamente di una presa di posizione politica. I "cosiddetti" professori hanno una precisa connotazione politica e si regoleranno secondo queste precise ispirazioni politiche. Cioè il liberismo non è una "condizione obiettiva", secondo cui si debbano richiedere lacrime e sangue, ogni volta che le cose si mettono male. Siamo ancora ad uno scatto della borghesia padronale, l'indecenza e l'incapacità politica berlusconiana sono inefficaci e dannose, cerchiamo di ammantare di nobile "tecnicità" quella che è una politica di destra, e a fare pagare, sempre, le classi lavoratrici!

2 dicembre 2011 alle ore 10.42

Michele Maduli Bisognerà valutare con molta attenzione le proposte che il Governo adotterà lunedì prossimo. Certo, le prime avvisaglie non sono per niente rassicuranti: non ci si fa scrupolo di modif icare le pensioni e di bloccare gli aumenti legati all'inflazione ma non si fa nulla per bloccare la regalia delle frequenze televisive che, se regolarmente messe in vendita, procurerebbero 6-7 miliardi di euro. Potrebbero essere queste le "garanzie" chieste da B. nel corso del pranzo con Monti a favore delle aziende di famiglia.

2 dicembre 2011 alle ore 17.46

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7 febbraio 2012 ·

POSTO FISSO, GARANTITI,

ART.18 E...MICHEL MARTONE

C'è chi sostiene che dietro le dichiarazioni sul "posto fisso" di vari esponenti del Governo vi sia la deliberata intenzione di picconare l'art. 18 e le tutele dei "garantiti". Ebbene, affrontiamo il toro per le corna. Vediamo qual è lo status dei singoli ministri; chiediamo loro quale sia il percorso seguito dai loro padri (e parenti) e dai loro figli. Di Michel (Dio ti ringrazio perché il mio nome è Michele!) Martone sappiamo tutto. Degli altri gradiremmo conoscere che mestiere facevavo i loro padri; che mestiere fanno i loro figli. Vado a naso: i figli dei professori universitari, se non sono già diventati cattedratici, hanno goduto dei privilegi riservati alla casta e oggi sono banchieri, consulenti finanziari, addetti diplomatici ecc. Lo stesso dicasi (tranne che per qualche 'maestro di strada') per i figli dei luminari della medicina, degli avvocati di grido ecc.ecc. Mi si dirà: ma hanno dovuto frequentare costosissimi master in università straniere; allontanarsi dalle famiglie e dall'Italia; lasciare le comide residenze e le città d'origine ecc.ecc. A parte il fatto che da un secolo e mezzo a questa parte, tantissimi veneti, meridionali, italiani in genere, i loro "master" li hanno frequentati nelle miniere di Marcinelle e d'America, nelle vie di Broccolino o di Adelaide o di Toronto, o di Buenos Aires; che nelle loro borse cartonate v'era solo il biglietto d'andata e che solo pochi hanno avuto la possibilità di rientrare nelle loro contrade.

Da un'inchiesta giornalistica (Bechis, mi pare) risulta che solo uno tra i membri del Governo non possiede nemmeno un misero appartamento. Gli altri ne hanno uno o più di uno, lo stesso Monti ne ha 20, alcuni addirittura trenta o quaranta e così via. Nessuna intenzione qualunquistica, come sa bene chi mi conosce, solo un tentativo di riportare la conversazione nei corretti binari. Ecco, possiamo discutere con Monti e Fornero, con Cancellieri e con Passera, e con gli altri eccellentissimi ministri e sottosegretari, solo quando faranno chiarezza -come si diceva- sul loro "status". Poi potremo accettare che si ponga mano a tutte le riforme necessarie

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28 marzo 2012 ·

I CALCOLI SBAGLIATI DEGLI ESODATI.

CHE LA FORNERO E GLI ALTRI SAPIENTONI SI PRENDANO CARICO DEL DESTINO DI QUESTI LAVORATORI

La vicenda ha dell'incredibile. Una caterva di teste d'uovo, capitanate da Monti e dalla Fornero, non sono riuscite a effettuare il calcolo preciso degli "esodati". Badate, l'errore non è dell'ordine di centinaia o anche migliaia di persone ma di centinaia di migliaia. Quando decisero di elevare a 67 gli anni del pensionamento degli italiani, qualcuno fece presente che ci sarebbero stati tanti lavoratori che, per effetto degli accordi con le proprie aziende, sarebbero rimasti per tanti anni senza alcuna fonte di reddito. Il "governone" Monti calcolò che non sarebbero andati al di là delle 40 - 50.000 unità, e che si sarebbe provveduto in seguito, con calma. Adesso sembra che il numero degli esodati sia almeno dieci volte tanto, oltre mezzo milione. Al di là della soluzione che si dovrà trovare, rimane il fatto che esistono precise responsabilità per quanto riguarda la determinazione dei numeri. O è malafede o è ignoranza. Mi augurerei che non si tratti di malafede, poiché questo porrebbe un problema di credibilità di tutti i conti, di tutte le riforme, di tutte le elaborazioni del Governo Monti.Che cosa fare, a questo punto? Io una modesta proposta ce l'avrei. In attesa che il ministro Giarda faccia il punto sulla "spending review" e sull'enorme massa di denaro che si potrebbe risparmiare, chiederei allo stesso Giarda di estrapolare le somme che lo Stato spende per pagare migliaia di alti e medi dirigenti e funzionari dello stato, degli enti locali, delle aziende statali o parastatali. Ci sono alti dirigenti che costano 300.000, 600.000 o milioni l'anno (per non parlare dei magistrati col doppio incarico, degli stessi parlamentari (almeno quelli che, come gli avvocatoni, guadagnano più dalla professione che dallo scranno parlamentare). Ebbene, basterebbe che ciascuno di questi strapagati personaggi "adottasse" un esodato (diciamo uno per ogni centomila euro). Che cosa volete che siano 15.000 euro l'anno ogni centomila, per questi "signoroni" che hanno spremuto per anni le casse dello Stato? So bene che un liberal che più liberal non si può, come Monti, salterebbe dalla sedia, alla sola notizia che qualche sprovveduto, come chi scrive, osi mettere in discussione le regole

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del mercato. Ma qui, cari Monti e Fornero, si tratta di assicurare la sopravvivenza a tanti (mezzo milione) capifamiglia. O vogliamo che esploda la rabbia di quanti, di fronte al silenzio e all'indifferenza di chi comanda, adottano la soluzione drammatica e terribile (come il piccolo imprenditore di Bologna) di dare fuoco alla propria persona e di chiuderla con la vita?

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28 novembre 2012 ·

L'INCREDIBILE VICENDA DI UN'AZIENDA CALABRESE

Franco fa l'imprenditore e vive a Gioia Tauro. Ogni anno, quando ritorno in Calabria, vado a trovarlo. Discutiamo, ci raccontiamo le cose che sono successe agli amici, ai nostri conoscenti, ricordiamo la militanza comune nel PCI, quando dirigevamo il Partito nella Piana.

Erano anni di grande tensione civile e sociale, quando bisognava fronteggiare problemi di un qualche rilievo, come la difesa del territorio (centrale a carbone), dell’industrializzazione (Centro siderurgico, Porto ecc.); come la mafia che usciva dagli agrumeti e dagli uliveti ed entrava nei grandi affari (fondi europei, movimento terra, sequestri di persona), occupava progressivamente i consigli comunali, dava il via a una sanguinosa ristrutturazione degli apparati.

In quei momenti diff icili (la mafia aveva ucciso il segretario della Sezione comunista di Rosarno, Peppe Valarioti), Franco, Nicola e tanti altri giovani dirigenti, mi aiutavano a tenere i contatti con le sezioni e i gruppi del territorio, a comprendere la natura dei nuovi processi.

Poi, dopo la morte del padre, Franco decideva di dedicarsi alla piccola azienda di famiglia e, nel giro di qualche decennio, la trasformava in una moderna impresa con qualche decina di dipendenti.

Qualche anno addietro, l'azienda di Franco, la “Elettroimpianti” viene coinvolta nella cosiddetta “operazione Arca” promossa dalla DDA di Reggio Calabria, ma tutte le accuse vengono, poi, totalmente archiviate, su richiesta degli stessi magistrati inquirenti.

Intanto un altro calabrese, Giovanni Tizian, emigrato al Nord dopo l’omicidio del padre, avvenuto nel 1989 a Bovalino, ad opera della ‘ndrangheta, si appassiona al tema delle infiltrazioni mafiose nelle zone del Nord, scrive libri sull’argomento, viene anche messo sotto scorta perché, in base a informazioni investigative, il suo lavoro ha dato fastidio alle organizzazioni che operano in Emilia Romagna.

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A questo punto il destino di Tizian si incrocia con quello di Franco Romeo perché il giovane giornalista che adesso scrive per L’Espresso, cita il ‘caso esemplare’ della Elettroimpianti: “L’azienda arriva dalla Piana di Gioia Tauro, feudo della famiglia Piromalli. Negli atti dell’operazione Arca sulla ’ndrangheta nei cantieri della Salerno- Reggio Calabria, si legge che due soci sarebbero vicini proprio alla cosca Piromalli. La donna del gruppo imprenditoriale è cugina di Tommaso Atterritano, «organico alla cosca Piromalli», inserito nel 1998 nell’elenco dei ricercati più pericolosi e a lungo residente a Bologna”

E qui Tizian si fa prendere la mano e si dimentica di compiere dei controlli sullo sviluppo delle indagini relative alla “Operazione Arca”. Così, prima ancora che le Prefetture e gli inquirenti si esprimano sulla integrità delle aziende (tra cui quella di Franco) iscritte nella white list, Tizian esprime seri sospetti sulla stessa azienda, etichettandola come contingua alla mafia perché già coinvolta nella cosiddetta “Operazione Arca” attuata nel 2007 dalla DDA di Reggio Calabria!, perché la moglie di Franco, “la donna” della società, è cugina di un tale che è stato annoverato fra i più pericolosi latitanti, per giunta già residente in passato a Bologna.

E’ un grave scivolone che rischia di ritorcersi su una persona per bene e su una azienda che potrebbe essere esclusa da qualsiasi chiamata di lavoro da parte della comunità emiliana.

E’ vero, Franco ha il torto di essere nato e di avere operato a Gioia Tauro e in Calabria. Ma questo è un “peccato” originale dal quale sono marchiati milioni di cittadini calabresi.

Il fatto nodale è costituito dalla “Operazione Arca” Lì furono formulate le accuse nei confronti della Elettroimpianti. Ma, sempre in quella inchiesta, Franco venne totalmente scagionato, proprio per decisione degli stessi magistrati inquirenti. Ricordo i mesi di tensione all’interno della famiglia e la legittima soddisfazione nel vedere riconosciuta la totale estraneità di Franco e della Elettroimpianti.

Un altro dei capisaldi dell’accusa è costituito dal fatto che Franco ha sposato una donna di Gioia Tauro che ha la sfortuna di avere un parente di sesto grado, accusato di essere collegato con una importante cosca della stessa città. Ma ci si dimentica di dire che lo stesso personaggio era solo un ragazzo all’epoca del matrimonio e che, comunque, non ha da anni alcun rapporto con la famiglia Romeo.

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Ebbene, confesso anch’io le mie colpe: ho incontrato più volte uno studioso di letteratura italiana e calabrese che aveva lo stesso cognome della cosca suddetta. Inoltre, anni addietro sono stato inquilino di uno stabile di proprietà di un signore che aveva lo stesso cognome della cosca più importante del mio paese. Non parliamo dei tanti figli di mafiosi di cui sono stato docente nelle scuole pubbliche. In ultimo, confesso che la mia nonna materna, originaria di Cinquefrondi, morta circa 90 anni addietro, aveva lo stesso cognome di una nota famiglia di Rosarno recentemente colpita dalla mano della giustizia.

Dimenticavo, sono stato seduto per anni sui banchi del consiglio comunale di Taurianova, più volte sciolto per motivi di mafia.

Io ritengo che un giornalista serio, come Tizian, non possa non riconoscere lealmente l’errore commesso; anche perché ne va della serenità di una famiglia e del futuro di un’azienda.

E lo chiedo anche da ex giornalista che, di recente, si è espresso duramente contro gli estensori di una legge che mira a colpire la stampa e i giornalisti.

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19 aprile 2013 ·

LETTERA A UN VINCITORE DA PARTE DI CHI HA VOTATO PER GLI SCONFITTI.

Diciamoci la verità. Alla base dello scompiglio nel mondo della politica italiana c'è il grande, sconvolgente risultato di Peppe Grillo. Il PDL s'è, in parte, salvato dietro l'usbergo di Berlusconi e anche perché non ha avuto l'onere dell'iniziativa politica. Per Monti, ma soprattutto per il PD e di tutto quello che sta alla sua sinistra, è stato un vero e proprio cataclisma. In questo clima di rovine fumanti è stato chiesto al povero Bersani di elaborare delle proposte per la salvezza dell'Italia. E' come se avessimo chiesto al Sindaco dell'Aquila, all'indomani del terremoto, di assumere la guida del Paese e anche quella delle operazioni militari in Afghanistan.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

A questo punto, spetterebbe all'autore del sommovimento, a quello che viene unanimemente indicato come il vincitore, l'onere di provvedere alla messa in sicurezza del territorio ed alla sua ricostruzione.

Grillo sostiene Rodotà come Presidente della Repubblica? Ebbene, aiutiamolo ad eleggere il valido giurista. Grillo ha da proporre un presidente del Consiglio? Aiutiamolo a sbrogliare la matassa. Che vada lui all'estero a difendere i diritti degli italiani, che indossi i guantoni con la Merkel e la stenda a terra.

Se ha bisogno di ministri competenti, sia a sinistra che a destra ne abbiamo a carrettate. Venga a chiederci i nomi, glieli daremo!

Perché è vero, disponiamo di grandi competenze come partito: abbiamo ex-presidenti del Consiglio, ministri degli esteri, economisti di vaglia ma non riusciamo a utilizzarli decentemente. Anzi sono gli stessi grandi politici che si beccano l'un l'altro e si mandano alternativamente al tappeto.

E allora, Grillo, rimboccati le maniche: hai voluto la bicicletta? Allora pedala. La tua grande aspirazione, lo sappiamo tutti, era quella di vedere PD e PDL alleati in un abbraccio mortale e di

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poterli impallinare da dietro una siepe. Invece t'è toccato l'ingrato compito di sanare i conti del Paese, di provvedere agli esodati e ai licenziati, di salvare gli aspiranti suicidi, di rilanciare la ripresa economica, di eliminare la povertà, di dare assistenza e istruzione a tutti ecc. ecc.

Hai un'unica possibilità alternativa: rinunciare a tutto e ritornare ai tuoi brillanti show! Altrimenti mettiti subito al lavoro, mobilita Stanlio e Ollio (autodefinizione della Lombardi), manda i tuoi giovani deputati a lezione dai vecchi e scafati parlamentari che gli insegneranno il mestiere: come scrivere un disegno di legge, come fare un discorso credibile ecc.

I deputati del PD (che non hanno gran che da fare e che sono occupati a farsi le scarpe a vicenda) saranno ben lieti di trasmettere ai neofiti del Parlamento tutta la loro scienza.

Approfitta di questa temporanea disponibilità delle forze degli sconfitti, perché fra qualche mese, quando avrai preso il 99%, dovrai sopportare per intero l'onere della gestione.

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12.6.2013

IN RICORDO DI PEPPE VALARIOTI, UCCISO 33 ANNI ADDIETRO A ROSARNO, PUBBLICO UNO STRALCIO DI UN VOLUME DA ME SCRITTO ALCUNI ANNI ADDIETRO, DAL TITOLO "IN CALABRIA TRA SOTTOSVILUPPO E MAFIA (1964-1984)

VALARIOTI

La mattina dell’11 Giugno fui svegliato dalla telefonata di un compagno che mi comunicò la notizia dell’assassinio di Peppe Valarioti.

Quando giunsi a Rosarno molti compagni erano già in sezione.

Gli attacchini stavano affiggendo i primi manifesti sui muri scalcinati. Entrai nella stanza semi-buia e vidi i compagni seduti a semicerchio con gli occhi umidi che si ricevevano le condoglianze. La famiglia era lontana, in un’altra stanza fredda a piangere il povero Peppe, ma qui v’erano gli affetti, i ricordi, la rabbia degli amici più cari. Abbracciai uno ad uno i compagni e me ne sedetti muto, come s’usa fare ai funerali in Calabria.

Al centro della stanza vi era Peppino Lavorato, incapace di parlare e di piangere. Era stato lui, insieme con gli altri compagni recatisi al ristorante La Pergola, a raccogliere Peppino Valarioti tra le braccia, morente: “Mi hanno ammazzato, compagni.”

Poi la corsa in macchina verso l’ospedale, inutile, perché

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Peppe era morto quasi subito. Ma perché avevano ucciso Valarioti e chi?

Sin dai primi momenti apparve chiaro che si trattava di omicidio politico. Quella sera Peppe e gli altri dirigenti comunisti erano andati nei quartieri popolari di Rosarno per ringraziare i cittadini che non avevano avuto paura di votare comunista.

Le elezioni erano andate bene per il PCI dopo il calo subito l’anno prima alle comunali e alle politiche: il 3,4% in più che aveva consentito di rieleggere alla provincia Peppino Lavorato e di mandare al consiglio regionale Fausto Bubba, che per tanti anni era stato direttore della Cooperativa Rinascita. Tutta la campagna elettorale condotta dai comunisti era apparsa come una sfida ai mafiosi che nel ‘79 erano riusciti ad intimidire molti elettori. Come non rif lettere sul fatto che l’anno prima tra le amministrative e le europee vi fosse stato un salto di 880 voti?

La sezione comunista decise nel 1980 di affrontare di petto il nodo mafioso; anzitutto andando a parlare nei quartieri controllati dai capibastone, sforzandosi di spiegare a giovani e ad anziani che non bisognava avere paura della mafia.

LE “CASE NUOVE” DI ROSARNO

Le “case nuove”, i quartieri popolari di Rosarno, sono cresciute nel dopoguerra a misura dei bisogni dei braccianti; anzi degli ex braccianti che, dopo aver occupato negli anni cinquanta le terre del Bosco, erano divenuti ormai piccoli proprietari. Casette basse, massimo a un piano sopraelevato, costruite muro dopo muro coi primi guadagni, senza alcun rispetto per l’estetica, come le vecchie casette a schiera dove i braccianti poveri di un tempo, dopo diciottoore di fatica, ritornavano la sera a dormire come cani.

Ancora oggi Rosarno presenta un tessuto urbano elementare, una tipologia edilizia tra le più povere della Piana. Tutto questo, unito all’incuria in cui sono tenute le piazze e le strade, al pessimo stato dell’igiene pubblica, infonde in chi vi giunge un senso di profondo squallore.

In quelle “case nuove” abitano, però, uomini dotati di memoria storica che legano indissolubilmente la propria vicenda personale, la propria ansia di riscattarsi dalla condizione bestiale in cui sono stati tenuti per secoli, alle lotte, alle fiammate ideali del sindacato, del Partito comunista degli anni difficili ma pieni di speranza del

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dopoguerra. A distanza di tanti anni il Partito continua a essere un cuore pulsante che può rallentare i battiti, anche ansimare, ma che riprende la corsa non appena il suo popolo gli si riaccosta. Così, dopo gli anni neri e tristi seguiti alla morte di Valarioti, il Partito comunista ha riguadagnato i consensi di un tempo, ha riaperto affollata come una volta la propria sezione.

Nelle “case nuove” il tempo passa, tante cose sono cambiate; sono invecchiati i padri, sono cresciuti i figli che, spesso si sono allontanati dal quartiere ed hanno dimenticato l’epopea vissuta dai genitori. Qualcuno, come Peppe Valarioti, è andato a scuola, fino all’università, s’è laureato ed ha provato l’ebbrezza di riscoprire le proprie radici contadine, di collocare la vicenda della propria famiglia in una dimensione più ampia. Per questo ha scelto, razionalmente, di militare nel PCI e ne è divenuto ben presto dirigente.

Nel suo rione, chiamato anche significativamente “Corea”, Peppe cresce alimentato dalle voci, dalle liti, dalla passione delle donne contadine, costrette ogni giorno a fare i conti con i problemi dell’esistenza. Sono gli anni ‘50; I braccianti poveri di Rosarno hanno occupato da poco le terre del Bosco, le stanno mettendo a coltura, consapevoli di essere stati gli unici nella Piana ad averla spuntata contro gli agrari, contro i galantuomini. Altrove, infatti, i braccianti, anche se hanno sostenutol unghe e appassionate lotte, sono rimasti con un pugno di mosche in mano, perché gabbati dallo Stato o traditi da chi avrebbe dovuto difenderli.

Fino alla seconda guerra mondiale, chi, che cosa ,erano i braccianti? Niente, villani, “mezzomini”, perché non sapevano nemmeno leggere. Con Peppe Valarioti, già professore, spesso discutevamo di come le classi diseredate del Mezzogiorno si fossero sempre collocate, negli ultimi secoli, dalla parte della conservazione. Al cafone meridionale poco interessava la scomparsa del feudo, se poi questo doveva significare per lui più fame, più oppressione, e nemmeno un fazzoletto di terra per coltivare pomodori e patate.

Poi la grande illuminazione della lotta per la terra degli anni ‘40. Con il partito, con il sindacato, il bracciante povero acquisisce coscienza, si fa uomo, conquista il suo pezzo di terra.

Quante volte si è sentito dire: “cu non ha, non è”, chi non possiede qualcosa, cioè, è come se non esistesse. Per questo s’iscrive al Partito comunista, partecipa alle lotte sociali, alle

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battaglie politiche per la conquista del Municipio. Certo, a partire dagli anni ‘60 la società va cambiando; i braccianti più poveri emigrano verso la Fiat, in Calabria giungono le autostrade.

Quando Peppe Valarioti ha vent’anni ed è già uomo, a Rosarno spuntano le prime cooperative; la “Rinascita” sorge per un atto di volontà dei dirigenti comunisti e dei piccoli proprietari, i vecchi assegnatari del Bosco, i quali intuiscono che è necessario associarsi per non cadere nelle grinfie della speculazione mafiosa.

Nel ‘74 il referendum sul divorzio mette in luce nella Piana l’esistenza di un grave handicap culturale: qui la “cultura” popolare non è stata sopraffatta ma non ha nemmeno vinto. Peppe è uno di quei giovani che comprende l’importanza della cultura ai fini della sopravvivenza e della crescita del partito e delle organizzazioni democratiche a cui, intanto, si è avvicinato per un atto di amore e di intelligenza.

Lì a Rosarno (l’antica Medma) egli coltiva interessi inconsueti, come quello per l’archeologia e per la musica classica. A un certo punto, messi da parte il latino e Ammiano Marcellino, argomento della sua tesi di laurea in lettere classiche, va alla scoperta delle proprie origini, incomincia ad indagare con passione il mondo contadino e le lotte del dopoguerra.

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Nelle case dei contadini, dunque, i comunisti erano ritornati durante la campagna elettorale del 1980, per spiegare ai padri l’importanza di riprendere a votare comunista dopo la sbandata dell’anno precedente, e per far capire ai giovani che il messaggio della mafia, la quale prospettava alle nuove leve ricchezze e prestigio, era insidioso ed insincero.

Vecchi e giovani compresero, in gran parte, il messaggio di liberazione e di pace lanciato dai comunisti e li votarono scrollandosi di dosso la paura dei capetti mafiosi dislocati in ogni quartiere .Quando i comunisti andavano a parlare nei rioni, le donne del popolo si affacciavano sugli usci e lanciavano fiori.

In Calabria la mafia detiene il potere attraverso il consenso di massa. I regolamenti di conto sono un fatto eccezionale e interno alla comunità mafiosa. I boss non hanno bisogno di mostrare i pugni e le pistole alla gente che, da parte sua, li sostiene perché convinta della validità delle norme che sovrintendono all’organizzazione della ‘ndrangheta. I mafiosi, del resto, più che delle leggi, dei carabinieri (hanno messo nel conto la possibilità di incappare nei rigori della giustizia ed anche di morire violentemente) hanno timore dell’isolamento e della perdita del consenso popolare in virtù del quale essi si ritengono legittimati a esercitare il potere.

La mafia, capisce dunque la pericolosità del messaggio lanciato dai comunisti e decide di fermarli. Il 20 maggio dell’80 la sezione del PCI viene data alle fiamme; la stessa notte viene incendiata l’auto del consigliere provinciale e capogruppo al comune, Peppino Lavorato. Non solo: bande di mafiosi pedinano i militanti comunisti durante la campagna elettorale, controllandone ogni mossa; infine, per lanciare un chiaro messaggio di violenza e di morte, strappano i manifesti del PCI e li ricollocano capovolti.

I FUNERALI

I funerali di Valarioti si svolsero il 12 Giugno e furono imponenti: vennero dalla Piana, dalla Provincia, da tutta la Calabria. Il sindacato invitò i lavoratori a fermarsi per quella giornata; la Giunta comunale (Valarioti era consigliere) proclamò il lutto cittadino.

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La cosa che più mi colpì in quel funerale fu la lunga teoria di donne vestite di nero che seguivano il feretro: in pratica tutte le donne del popolo (che di norma non partecipano all’accompagnamento dei morti al cimitero) si strinsero quel giorno attorno alla bara di uno dei loro giovani.

In piazza, tra il silenzio di tutti, parlò per primo Lavorato, poi altri oratori, inf ine l’on. Achille Occhetto per la Direzione nazionale del PCI. Provai a salire sul palco e vidi una marea di gente, almeno ventimila persone sparse in una piazza oblunga. Franco Romeo, un giovane funzionario di partito piangeva ai piedi del palco e così pure altri giovani, compagni di partito o di lavoro del povero Peppe.

“Con il feroce assassinio del nostro compagno – disse Occhetto- si torna, dopo decenni, ai delitti compiuti ai primordi del movimento. Si torna a quando si colpivano i contadini non tanto per i comportamenti personali quanto per l’azione di progresso impostata.”

A macchiare quella giornata di dolore e di commozione giunsero le incaute dichiarazioni del sindaco socialista di Rosarno, secondo il quale il delitto era da ricondurre ad una “questione di donne”. Lo stesso quotidiano del PSI, l’Avanti, scrisse a proposito delle voci che anche la mafia aveva fatto circolare: “E’ questo un modo di continuare ad assassinare Giuseppe Valarioti, senza che, come nella morte reale possa difendersi. D’altra parte i mafiosi sanno soltanto sparare alle spalle.”[1]

“Valarioti - affermò Occhetto nel suo comizio – nona veva nemici personali. Egli aveva però accusato la Giunta comunale di avere distribuito fondi in modo clientelare e di aver affidato importanti incarichi urbanistici ai propri amici.”

Per il partito comunista il colpo fu molto duro. I dirigenti alternavano a momenti di fiducia vere e proprie manifestazioni di sconforto. Poco prima dei funerali, nel corso di una conferenza stampa, il segretario regionale del PCI, Tommaso Rossi, ammise: “Nella lotta contro la mafia noi comunisti ci sentiamo abbastanza soli.” In una lettera a “Paese Sera” un militante comunista di Vibo Valentia, riferendosi ai funerali di Valarioti, scrisse: ”Eravamo in molti, ma eravamo soli: noi comunisti, soli a combattere la mafia... Contro la mafia non c’erano né le bandiere dello scudo crociato né quelle del garofano né altre”.[2]

Ai funerali, in realtà, c’era stato accanto ai comunisti tutto il

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popolo di Rosarno, solo che dalla commozione e dalla partecipazione del primo periodo si passò alle ambiguità del giorno dopo, per poi precipitare nel silenzio e nella paura dei giorni successivi.

“Questa azione - giudicò a caldo il Direttivo provinciale del PCI - testimonia un salto di qualità dell’iniziativa mafiosa nella Piana di Gioia Tauro: ci troviamo di fronte ad un vero e proprio omicidio politico compiuto dalla mafia...”[3]

IL PSI MUTA ALLEANZE

Nel documento si faceva riferimento a pericolosi segnali di inversione di tendenza manifestatisi nel settore della giustizia all’indomani delle elezioni politiche del 1979. In particolare alla conclusione, non certo esaltante, del giudizio d’appello al processo dei 60 che aveva visto la sostanziale assoluzione dei boss precedentemente condannati a pene ben più severe; ed ancora alla assoluzione del clan degli Ursini per i fatti di Gioiosa Jonica.

In questa cittadina il sindaco comunista, Francesco Modaffari, protagonista di tante battaglie contro la mafia, era stato estromesso dall’incarico per colpa dei socialisti, alleatisi con la DC. Ma anche a Rosarno la Giunta di sinistra era stata sfasciata per far posto al centrosinistra.

“Sull’onda di acquiescenza e di complicità – sostenevano i comunisti reggini - si sono ulteriormente cementati i rapporti tra mafia e potere politico; in particolare con il sistema di potere della DC che costituisce il principale brodo di coltura per la crescita dell’organizzazione mafiosa. Accanto a ciò si sono, però, manifestati già da qualche tempo, e in particolare in concomitanza con le ultime elezioni, nuovi intrecci che hanno interessato anche altre forze politiche, non esclusi alcuni settori non trascurabili della stessa sinistra”.4

Nell’analizzare i comportamenti dei socialisti che in diversi comuni (Rosarno, Africo, Gioiosa) avevano operato un rovesciamento delle alleanze e s’erano accordati con la DC, Corrado Stajano affermava: “La sinistra perde il potere. il coraggioso sindaco comunista Modafferi, instancabile avversario della mafia, è costretto a lasciare. La lotta alle cosche si arena:

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l’amministrazione comunale è addirittura assente dalle manifestazioni popolari contro le violenze mafiose. Cosa dire del PSI calabrese dopo tutti questi fatti? Il passaggio dall’altra parte degli amministratori diAfrico procura una gran vergogna... Quando si realizza il passaggio dei socialisti dell’area della sinistra alla DC, l’atteggiamento nei confronti della mafia cambia”.[4]

All’indomani del delitto molti di noi s’interrogarono sulle ragioni che avevano spinto la mafia a individuare come obiettivi della loro azione la città di Rosarno, la sezione comunista, il suo giovane segretario.

“La mafia - scrivevo in quei giorni su “Paese Sera”,ha voluto lanciare con il delitto Valarioti un esplicito messaggio ai comunisti e alle popolazioni della Piana e della Calabria. E’ a Rosarno, cuore economico dell’agricoltura della Piana, che le forze della reazione e della mafiai ncontrano notevoli resistenze. Per questo l’avvertimento è stato dato a Rosarno: sfondato il caposaldo, la mafia non avrebbe diff icoltà a vincere le ultime resistenze della Piana.

L’on. Occhetto ha affermato dal palco dei funeraliche, di là dalla identif icazione dei killer e dei mandanti, la responsabilità di fondo ricade sul sistema di potere instaurato dalla DC nel Mezzogiorno...Anche per il terrorismo esistevano delle motivazioni di fondo; eppure ci si è mossi con tenacia, con rigore... ed oggi, anche se permangono le cause di fondo, il terrorismo appare in grosse diff icoltà”.

Per quanto tempo ancora il Mezzogiorno, o gran parte di esso, sarà considerato come un’isola alla deriva che ora si avvicina al continente della democrazia, per effetto delle correnti, ora se ne allontana? In quest’isola alla deriva, il sistema assistenziale, voluto dalla DC, e la mafia, la stanno facendo la padroni. La mafia sta progressivamente occupando in tutta la Calabria spazi importanti all’interno dei partiti di governo. Negli anni Settanta, con una serie di attentati e di intimidazioni, ha piegato la resistenza di molti uomini politici al potere nelle province, nella regione e nei comuni; adesso mira a vincere la resistenza di chi sta all’opposizione.

I dirigenti comunisti calabresi che vanno a Roma in questi giorni dovranno dire con estrema chiarezza alla Direzione del loro partito che la partita contro la mafia non può essere giocata solo dalle forze locali; proprio perché quella mafiosa è una delle grandi

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questioni nazionali che, come la strategia della tensione o il terrorismo, hanno mirato e mirano a sconvolgere le basi democratiche dello Stato. C’è bisogno di un impegno generoso delle forze democratiche, del PCI in primo luogo, per fermare e piegare le forze della mafia.”[5]

Se si guarda agli altri delitti politici ordinati dalla mafia in quegli anni (da Boris Giuliano a Piersanti Mattarella, dal capitano Basile al giudice Terranova) ci si accorge che dietro ciascuno di questi fatti criminosi esiste un fatto preciso, una ragione specifica. L’uomo politico, il poliziotto, il carabiniere, il magistrato, erano persone scomode che avrebbero potuto, nell’esercizio delle loro funzioni, ostacolare gli affari della mafia.

Nel caso del segretario della sezione comunista di Rosarno niente di tutto ciò; Valarioti era un capace dirigente sezionale che ,alla pari di tanti altri, aveva denunciato brogli e malefatte; ma non era il leader della sua sezione né apparteneva al gruppo degli esponenti più noti e più prestigiosi della Piana di Gioia Tauro. Nella stessa Rosarno, infatti, il Partito aveva eletto un consigliere provinciale e uno regionale.

Nessun fatto specif ico, dunque, nessuna circostanza precisa. Il delitto Valarioti appare tanto più grave - forse il più grave dei delitti politico-mafiosi consumati in Calabria - quanto più si consideri che con l’uccisione del dirigente comunista si è voluto in quegli anni lanciare un messaggio terroristico, al Partito comunista in primo luogo, ma anche alle altre forze politiche, agli amministratori locali, a quanti, insomma, costituiscono le prime maglie del tessuto democratico. Perché, in fondo, il fine della mafia è identico a quello del terrorismo nel momento in cui si propone di minare alle basi lo Stato democratico, di colpirne le istituzioni (e anche il Partito comunista che nella Piana di Gioia Tauro ha finito per assumere, in assenza di altro, il ruolo di grande istituzione democratica).

Forte era la consapevolezza in ognuno di noi della gravità del momento. Si giustificano così gli accorati appelli che in quei giorni lanciavamo sulla stampa al Partito nazionale, alle altre forze democratiche, perché rif lettessero con attenzione sul significato nuovo che andava attribuito agli eventi di Giugno.[6]

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NOTE

[1] D.Labate, Il boss ha lasciato il confino per aiutare la DC in “Avanti”,14.6.1980 p. 4.

[2]Lettera di G. Loriani, Noi comunisti soli a combattere la mafia, in“Paese Sera”, 22.6.1980, p. 5.

[3]Partito comunista italiano, Comitato direttivo provinciale di Reggio Calabria,comunicato del 12.6.1980.

[4]Corrado Stajano, Fermare la lotta del PCI è l’obiettivo dei killer, in “PaeseSera”, 21.6.1980. Autore di una monografia su Africo, Stajano venne assolto daltribunale di Torino dall’accusa di averdanneggiato la reputazione del prete don Stilo che, nell’Agosto del 1984, è statotratto in arresto sotto l’accusa per associazione per delinquere.

[5] in“Paese Sera”, 15.5.1980.

[6]“L’assassinio di Valarioti può stimolare, come a suo tempo quello di Guido Rossa, la reazione delle forze sane del Paese contro l’imbarbarimento. Solo che la battaglia contro la mafia è più

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diff icile e complessa di quella contro ilterrorismo.

Il PCI e le altre forze democratiche debbono capire che se la lotta contro la mafia non viene assunta come uno dei doveri principali dello Stato democratico, come un impegno nazionale di lunga lena, se non si comincia, intanto, a porre un argine nella Piana di Gioia Tauro, identif icando mandanti e killer, del delitto Valarioti, facendo pulizia all’interno delle istituzioni. c’è il pericolo, non tanto di perdere un avamposto ma di perdere alla democrazia grossa parte del Mezzogiorno. Anzi, di sprecare un’importante occasione per porre su basi nuove e diverse il rapporto tra lo Stato e il Mezzogiorno.

I dirigenti comunisti calabresi debbono saper dire che sono gli stessi militanti di base che oggi gli chiedono di essere cauti e attenti contro la mafia. C’è in tutto ciò la consapevolezza del semi-isolamento in cui si trova il PCI calabrese nei confronti delle altre forze democratiche locali. Guai se le grandi forze democratiche nazionali, in primo luogo i comunisti, i socialisti, il sindacato, il movimento cooperativo, non riuscissero a rispondere con decisione a questa accorata richiesta di aiuto che viene dalla Calabria”. In Paese Sera cit.

Commenti

Beppe Orefice Lino lo metto sul mio blog ...ovviamente scrivo che è roba tua 12 giugno 2013 alle ore 14.22 ·

Michele Maduli Ti ringrazio. Il povero Peppe se lo merita. Io non l'ho mai dimenticato. Nel primo anniversario (allora ero Segretario del PCI della Piana) feci venire a Rosarno un'orchestra perché suonasse in suo onore (era un appassionato di musica classica).12 giugno 2013 alle ore 14.31

Beppe Orefice Faccio con piacere e per dovere.12 giugno 2013 alle ore 14.32 · Beppe Orefice IN RICORDO DI PEPPE VALARIOTI, UCCISO DALLA MAFIA 33 ANNI ADDIETRO. (di Michele Maduli)

http://www.peppeorefice.it/?p=363

http://www.peppeorefice.it/wp-content/uploads/2013/06/1010510_10200605552174585_2137775724_a.jpgPeppe Orefice » IN RICORDO DI PEPPE VALARIOTI, UCCISO DALLA MAFIA 33 ANNI ADDIETRO. (di...PEPPEOREFICE.ITDomenico Cristofaro Ma quanti oggi sono

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degni di uno come Peppe Valerioti!!!12 giugno 2013 alle ore 19.56 ·

Achille Bonifacio La tua rievocazione merita una risposta lunga e articolata: sulla lotta dei braccianti a Rosarno, sul ruolo del PCI...Limito il mio intervento a poche righe soltanto. La morte di Peppe Valarioti l'ho appresa quando già abitavo in Sicilia. Ma conoscevo tutti i protagonisti della vicenda e del ruolo dei partiti della sinistra. E ho voluto ricordare Peppe Valarioti, con la presentazione del libro "Gli africani salveranno Rosarno..." (sulla lotta dei neri africani a Rosarno) di Antonello Mangano, con uno scritto commovente di Peppe Lavorato, e alla presenza dell'autore stesso del libro Mangano. E' stato un evento veramente di notevole rilievo....emozionante! Grazie Michele Maduli, per queste tua nota: mi ricordano molte cose...!

13 giugno 2013 alle ore 10.21

Nicola Gargano .... E fu proprio in seguito al dramma causato dal barbaro assassinio per mano mafiosa del caro Peppe che il PCI della Piana (e della provincia di Reggio) attraversò uno dei periodi più diff icili della sua storia. Quella tragica vicenda cambiò la vita di tanti, e anche la mia. Fu proprio in seguito a quel tragico atto, al culmine di una strategia terroristico-mafiosa contro il PCI ed il Movimento democratico della Piana, che mi fu proposto di entrare nell'apparato e diventare, a settembre del 1980, funzionario del PCI...12 giugno 2013 alle ore 15.05 ·

Michele Maduli E fu proprio in seguito al dramma che io venni chiamato (da "laico") a dirigere il PCI della Piana dove trovai due giovani funzionari che si chiamavano Nicola Gargano e Franco Romeo...

Lory Viola Generalmente questi atti di vile barbarie ci vengono raccontati ......dalla terra siciliana, una terra contraddittoria quanto coraggiosa se si pensa ai più nobili servitori dello Stato.....di origine siciliana.....e paradossalmente....agli ingegni mafiosi che quella terra ha generato.....Valerioti era un calabrese, un eroe silenzioso di Rosarno.....a cui la cronaca non ha riservato grandi meriti, solo il ricordo dei suoi compagni lo narra, e mentre la Sicilia...celebra i suoi eroi.....la Calabria......nell'indifferenza ne distrugge anche la memoria, con questo omicidio si è annientato....il seme rivoluzionario che si stava generando, lasciando spazio ai falsi eroi ed alle pseudo eroine, ai moderni bollini autoreferenziali....che della lotta alla

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mafia ne rappresentano solo l'utile personale propaganda....La nostra terra non celebra eroi.....12 giugno 2013 alle ore 21.02

Michele Maduli E pensare che gli eroi sono stati tanti. Ho intenzione di parlarne in un'altra occasione. Per ora dico soltanto i nomi: Lo Sardo, dirigente della Sezione di Cetraro, ucciso una settimana dopo Valarioti; Francesco Vinci, della Federazione Giovanile Comunista di Cittanova e Rocco Gatto, indomito mugnaio comunista di Gioiosa Jonica.12 giugno 2013 alle ore 21.07 ·

Lory Viola ecco...prof......la mia ignoranza sconosce....questi nomi....., mi vergogno di questo...anche se non ho deciso io....di non sapere in merito......, però la sua lodevole considerazione....mi ha suggerito un idea......, ne riparleremo....presto.....GRAZIE per la conoscenza che mi trasmette.......12 giugno 2013 alle ore 21.16

Antonino Romeo Il loro ricordo ci porta a pensare che il cambiamento avviene sempre e comunque.13 giugno 2013 alle ore 18.17 ·

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20 giugno 2013 alle ore 20.32

IL 21 GIUGNO DI 33 ANNI FA VENIVA UCCISO GIANNINO LOSARDO, GIA’ SINDACO COMUNISTA DI CETRARO (APPENA 10 GIORNIDOPO VALARIOTI)

(da“In Calabria tra sottosviluppo e mafia -1964-1984”, di Michele Maduli)

A rendere più drammatico il clima contribuì, a distanza di pochi giorni, l’assassinio del dirigente comunista Giannino Lo sardo da parte della mafia di Cetraro. Ai funerali di Losardo, il 24 giugno 1980, intervenne anche il segretario generale del PCI, Enrico Berlinguer, ma c’erano pure Occhetto e il povero Pio La Torre.

Ci ritrovammo, in una Cetraro già infuocata dal sole dell’estate, tutti quelli che eravamo stati a Rosarno per Valarioti. “ Attenzione- disse Berlinguer - si comincia dai comunisti, per poi

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colpire tutti. Tutti gli uomini onesti, di tutti i partiti. Tutti coloro che vogliono proseguire il cammino per il rinnovamento. In Sicilia, un’altra regione dominata dalla mafia, si è colpito il giudice Terranova, e si è colpito anche il Presidente democratico della Regione, Mattarella. Nessuna forza democratica deve sottovalutare quanto sta avvenendo in Calabria.”[1]

Per le stradine tortuose di Cetraro c’era un via vai di compagni che si recavano in municipio per rendere omaggio alla salma di Losardo. Sui visi della gente vi erano sgomento ed incredulità. Lì, in quella cittadina a strapiombo sul mare più azzurro della Calabria, in una provincia fino a poco tempo prima preservata dai riti barbarici della mafia, la violenza compiuta ai danni di un uomo inerme e coraggioso appariva ancora più grave, ancora più inaccettabile.

“Colpiscono i dirigenti comunisti - affermò in quell’occasione l’on. Frasca - perché in questo momento è il PCI che conduce più conseguentemente la battaglia contro la mafia... Chi ha ammazzato Ferlaino? -proseguiva l’esponente socialista - chi ha ammazzato Valarioti e Losardo? Non si può rispondere a metà, o col silenzio, a queste domande. E poi voglio dire chiaro e tondo che sta succedendo anche di peggio, ossia che qui in Calabria non c’è sindaco o consigliere regionale o deputato o senatore che non sia stato eletto con l’appoggio della mafia. Insomma la delinquenza organizzata sta diventando un partito politico, sceglie gli uomini e formula i pianir egolatori...”[2]

In seguito ai due delitti la direzione del PCI incominciò a prestare grande attenzione a quanto succedeva in Calabria. Ai primi di luglio una delegazione di parlamentari comunisti, guidata da Pecchioli, visitò le zone più calde della Regione. Il 12 Luglio fu Pietro Ingrao a commemorare a Rosarno Valarioti, a un mese dalla scomparsa.

In estate, nel corso delle feste dell’Unità s’incominciò a discutere del problema della mafia anche nelle altre regioni d’Italia. Molti di noi furono invitati a partecipare a dibattiti o a conferenze.

A me toccò di andare in una borgata romana, a Torpignattara. Non era facile parlare di mafia a settecento chilometri di distanza. I compagni mi accolsero con calore e mi consegnarono 300.000 lire perle sezioni di Cetraro e di Rosarno. Partecipai pure a un dibattito organizzato dalla Federazione comunista di Cosenza, a Paola, insieme con i giornalisti Madeo e Ardenti.

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Da queste esperienze, ma anche dai contatti che ebbi in quel periodo con gente di diverso orientamento, in varie parti d’Italia, trassi l’impressione che esistesse una sostanziale sottovalutazione di quanto stava succedendo in Calabria. Sfuggivano a molti il senso dell’operazione che la mafia stava conducendo, la qualità nuova dell’attacco mafioso volto a indebolire il PCI, ma anche le istituzioni democratiche, in ultimo il taglio terroristico delle imprese criminali.

Nel mese di Agosto la FGCI lanciò ai giovani di tutta Italia l’invito a scendere a Palmi per manifestare contro la violenza mafiosa ed il suo messaggio di morte. Nei tre giorni di festival, dal 10 al 12, tanti giovani lindi, ignari di quanto potesse accadere, per il resto dell’anno, a pochi passi dai loro campeggi, ascoltarono musica e parlarono di politica.

In quest’occasione gli inviati dei principali quotidiani italiani discussero su come il problema mafioso veniva proposto sulle pagine dei giornali. Qualche settimana prima, il giornalista Andrea Santini aveva pubblicato su “Paese sera” un’intervista fatta all’on. Franco Quattrone, democristiano reggino, che aveva risposto con sincerità e spregiudicatezza alle domande postegli sul nuovo ruolo assunto dalla mafia nella regione calabrese. Sulla “Gazzetta del Sud”, invece, l’on. Vico Ligato, anche lui reggino e democristiano, aveva fatto capire come non fosse consigliabile per nessuno parlare, sbilanciarsi sul terreno minato della mafia.

Era inevitabile che nel corso del dibattito il pubblico polemizzasse apertamente con l’inviato di quest’ultimo giornale, accusato di scrivere da 20 anni di mafia, ma di non aver mai infastidito seriamente i mafiosi. E’ tipico dei giornali locali, infatti, dilungarsi nella descrizione minuta e macabra degli efferati omicidi di marca mafiosa, nella rievocazione delle imprese dei boss. In questo modo, sia pure senza volerlo, non si fa che mitizzare i criminali. I vari “don” trattati alla stregua di personaggi da romanzo popolare. Altro vizio della stampa locale (che fa da contrappunto a quello di certa stampa del Nord che non perde occasione per criminalizzare il Mezzogiorno) è quello di stendere un velo pietoso su alcune vicende, ritenendo in questo modo di salvaguardare l’onore e l’integrità morale dei calabresi.

BIOGRAFIA DI GIANNINO LOSARDO

Giannino Losardo (1926-80)

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Nato a Cetraro nel 1926, da Giuseppe ed Angelina Seta, è allievo prediletto di Francesco Aita; che lo prepara a sostenere, in piena guerra, gli esami ginnasiali. Nel 1945, s’iscrive alla Sezione di Cetraro del Partito Comunista Italiano, diretta dal confinato milanese Peppino Rigamonti. E nel 1946, conseguita a Vibo Valentia la maturità classica, s’iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli. Nel clima di riforma, inaugurato nel Meridione dai Patti Agrari, partecipa con fervore alla politica locale; contribuendo all’aumento di consenso del suo partito. Nel 1950, partecipando ad un concorso per segretario comunale, pur essendo giunto tra i primi dieci in graduatoria, non viene mai chiamato ad espletare tale incarico; per via, forse, della sua militanza comunista. Partecipa allora, nel 1955, a lconcorso per cancelliere; e superatolo gli viene assegnata la sede di Verbania-Pallanza, sul lago Maggiore. Dopo pochi anni ottiene il trasferimento presso la Pretura di Paola; finendo per ricoprire il ruolo di Segretario Generale della Procura della Repubblica. Stabilitosi a Fuscaldo, nei primi anni ’70 riallaccia i rapporti politici col suo paese d’origine; e collabora attivamente alla rivista Chiarezza diretta da Luigi Gullo. Capolista del PCI nelle amministrative del1975, diventa Sindaco di Cetraro; iniziando subito una drastica politica di contrasto al nascente abusivismo edilizio ed ai primi fermenti d’inquinamento sociale. Ma la sua esperienza dura solo tre mesi. Rieletto consigliere comunale nel 1979, riveste la carica d’assessore ai lavori pubblici e quindi alla pubblica istruzione. In tale veste, dopo una seduta di consiglio comunale, la notte del 21 giugno 1980, mentre fa ritorno alla sua abitazione di Fuscaldo, cade vittima d’un agguato nei pressi di S. Maria di Mare. E muore il giorno dopo, all’ospedale civile di Paola. I suoi funerali hanno risalto nazionale per la venuta a Cetraro del Segretario Generale del PCI, Enrico Berlinguer. E molte sezioni comuniste d’Italia portano il suo nome. Cetraro lo ricorda per avergli intitolato il largo della Porta di Basso, dov’era un tempo la sua casa; e nel Premio Nazionale ‘Giovanni Losardo’ che si tiene ormai da molti anni.

http://www.laboratoriolosardo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=86&Itemid=116

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[1] In“Paese sera”, 3.7.1980.

[2] In“Paese Sera”, 3.7.1980

Lory Viola prof Michele Maduli......questi fatti raccontano la vita, narrano la reale lotta contro il malaffare, sembrano trame di film........che una volta apparivano surreali....e con protagonisti.....eroi silenziosi....alla portata di qualsiasi cittadino, tanto grande era la loro umiltà.....pur nella grandezza,mentre oggi si corre il rischio di sbiadirli......con il surreale delle propagande antimafia locali....che commemorano se stessi...invece di restituire memoria pensante ai valorosi protagonisti di una storia......da non dimenticare. Grazie....20 giugno 2013 alle ore 21.42 ·

Orfeo Notaristefano Atroce e indimenticabile delitto a Cetraro. Abbiamo tutto ben presente, come fosse ieri.20 giugno 2013 alle ore 21.49 ·

Giuseppe Macino Era un grande compagno, Cancelliere al Tribunale di Paola. In Calabria con gli omicidi Valarioti Lo sardo e Gatto incominciò la strategia a lungo vincente del terrorismo politico mafioso. La Calabria ha pagato carissimo la diff icoltà di reagire a questa prepotenza.20 giugno 2013 alle ore 23.25 ·

Giovanni Pecora Condivido questo triste ricordo.20 giugno 2013 alle ore 23.5

Michele Garri TI i RINGRAZIO, ANCHE SE HAI TOCCATO UN TASTO DOLOROSO. MA E' PROPRIO QUELLO CHE CHE CI ILLUMINA E CI FA ANDARE AVANTI21 giugno 2013 alle ore 12.07

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18 novembre ·2014

DIAMO A CESARE QUEL CHE E' DI CESARE. COME E PERCHE' ANCHE LA LOMBARDIA E' TERRA DI MAFIA E DI LOMBARDI MAFIOSI !

Parliamoci chiaro: le cosche di 'ndrangheta non sono un distaccamento della Calabria arretrata e mafiosa nella regione onesta e sana della Lombardia. L'Italia ormai è stata "mescolata" per bene, sin da quando milioni di meridionali vennero strappati alle loro radici ed assorbiti nelle imprese industriali del Triangolo e del Nord Est. Allora una economista inglese, Vera Lutz, giunse addirittura a teorizzare l'opportunità di trasferire tutto al Centronord e di lasciare al proprio destino il Sud spopolato e spolpato.

E' chiaro che lo sciame che partiva in quegli anni tristi dal Sud era formato da tantissime persone per bene ma anche da mafiosi più o meno inseriti nelle organizzazioni criminali.

Ma è stato così anche a New York, in Canada, in Australia. Tutte le comunità che si trasferiscono in paesi lontani per fame o per ragioni politiche, tendono a ricreare le condizioni di vita, i rapporti sociali e di potere originari dei paesi di provenienza.

Forse che i guerrieri dell'Isis non sono figli dei siriani, degli africani, degli islamici scappati dai loro paesi di origine?

O bisogna, addirittura, risalire ai trasferimenti forzosi di milioni di africani rimasti, per secoli in condizioni di schiavitù nelle americhe?

Quel che voglio dire è che, quando gli Agnelli della Fiat e le migliaia di piccole e grandi industrie richiamavano al Nord milioni di braccia, erano certamente consapevoli del fatto che avrebbero alimentato tensioni, malesseri, problemi di ogni natura.

La classe politica e industriale italiana del tempo, scelse lo sradicamento di intere popolazioni, piuttosto che la creazione di fabbriche e di lavoro nei territori centromeridionali.

Fu quella una scelta della classe dirigente che oggi non può far finta di niente, alimentando, addirittura, l'opinione che i guasti e i mali del Nord sarebbero da attribuire a quei mafiosi di San Luca, di Africo, della Jonica reggina e di tutta la Calabria che vanno a contaminare le sane realtà del Nord (ma dopo il Mose e l'Expo non

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ci crederebbe più nessuno!)

E, allora, che si abbia il coraggio di guardare in faccia la realtà e di riconoscere che alla base dello sfascio sociale v'è questa ferita inferta al Mezzogiorno negli anni '50. Le riunioni delle 'ndrine lombarde sono il prodotto di questa nuova società che è venuta fuori dalla commistione di Nord e Sud.

E la smettano i malaccorti commentatori della grande e piccola stampa, di richiamare sempre il fantasma della malavita calabrese, visto che ormai i mafiosi che sono dentro agli affari delle piccole e grandi città del Nord, sono a pieno titolo abitanti del Nord, milanesi, torinesi, padovani ecc.

Nessuno ormai, nemmeno il Ku Klux Klan, si sognerebbe di addebitare al Kenia, al Ghana o alle altre nazioni africane la responsabilità di quel che fanno i neri degli Stati Uniti.

Paradossalmente la città che ha combattuto seriamente la mafia è la città di Corleone; sono stati i siciliani, i calabresi che hanno lasciato sul campo migliaia di vittime nella lotta contro il malaffare mafioso. Sarebbe ora che anche i cittadini del Nord prendessero atto della esistenza nel loro territorio del malaffare mafioso e si comportassero di conseguenza.

Commenti

Paolo Calibano Virgili chapeau!19 novembre alle ore 12.31 ·

Pino Prochilo Condiviso al 100%, caro Michele, finalmente una voce che tenta di mettere le cose al giusto posto.19 novembre alle ore 13.27 · Peppino Riso Chiunque sia dotato di un minimo d'intelligenza sa benissimo che _le cause risiedono in un cattivo sviluppo gestito dall'alto sin dalle origini dell'Italia unita e voluto principalmente da ciechi economisti del Nord. Fino a poco tempo fa i vari Moratti...Altro...19 novembre alle ore 14.05 ·

Peppino Riso Chiunque sia dotato di un minimo d'intelligenza sa benissimo che le cause risiedono in un cattivo sviluppo gestito dall'alto sin dalle origini dell'Italia unita e voluto principalmente da ciechi economisti del Nord. Fino a poco tempo fa i vari Moratti negavano che vi fossero malaffare e associazioni a delinquere al Nord mentre, invece, molti cosiddetti industrialotti ci guazzavano come porci. La tua analisi è spietata, ma vera

Antonio Marziale Si, vero analisi spietata, ma vera! 9

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dicembre alle ore 16.33 ·

Peppino Riso Un'analisi dura, spietata, ma vera.9 dicembre alle ore 17.27 ·

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19 dicembre 2014 alle ore 17.38

UNA BATTAGLIA DI DEMOCRAZIA IN ITALIA CONTRO POTERI CRIMINALI E RAZZISMI.

Relazione tenuta da Michele Maduli all’Assemblea del circolo “G. Ianni” di San Benedetto del Tronto il 18.12.2014.

Quello che è successo a Roma nelle ultime settimane ha impressionato notevolmente l’opinione pubblica nazionale, ha indotto tutti noi a rif lettere seriamente su questi fenomeni che hanno sollevato ansie tra il popolo della sinistra e che hanno costretto i nostri organismi dirigenti, ai più alti livelli, a intervenire pesantemente rimuovendo il responsabile locale e nominando come commissario la più alta carica del Partito, dopo il segretario.

Inutile dire che le altre forze politiche hanno cercato di inserirsi nella vicenda chiedendo, addirittura, le dimissioni del Sindaco e il commissariamento della più grande città italiana, anzi della capitale dello Stato italiano.

Dirò in seguito qualcosa su questo argomento; per ora mi preme rif lettere sullo stupore che ha colpito tanti osservatori, sull’incredulità di tanta parte della classe politica che riteneva impossibile che la mafia si disvelasse a Roma, così come in altre città del centro-nord.

Quel che ha colpito l’opinione pubblica nazionale è questo connubio tra criminalità residua della Banda della Magliana, la cooperazione basata sul recupero degli ex carcerati, avamposti di mafie tradizionali, funzionari corrotti disseminati un po’ in tutte le strutture di potere, politicanti di vario livello (ahimè molti gravitanti nell’area di sinistra). E poi, il coinvolgimento dei poveri di periferia, dei migranti e degli zingari sistemati nei loro campi rom, a ridosso dei quartieri popolari.

Che non ci fosse molta simpatia tra gli zingari e le popolazioni delle borgate si sapeva da tempo. L’uomo delle cooperative, Buzzi, non ne era particolarmente preoccupato. Per lui contavano le risorse erogate a favore dei migranti, dei borgatari e degli stessi zingari. Su queste, Buzzi e Carminati facevano le creste; sul

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malessere di queste persone era basata la continua ricerca di finanziamenti, le mille occasioni per speculare, con il consenso e l’aiuto di certi funzionari e di certi amministratori.

Curiosamente, quasi negli stessi giorni, scoppiava qui nella nostra città, il bubbone dell’intolleranza nei confronti degli zingari e degli immigrati. (1)

D’accordo, si tratta di un episodio limitato ma anche del segnale di un malessere che cova da molto tempo. Le leggende metropolitane degli zingari che rapiscono i bambini esistono da tempi immemorabili; ricordo che le mamme, agitando lo spauracchio delle zingare rapitrici, cercavano di tenerci legati al territorio del quartiere.

E’ cosa vecchia e risaputa che i primi a fare le spese nei periodi diff icili sono gli zingari e gli stranieri (specie di colore). Ne sanno qualcosa in Germania e in Alabama. E’ il vecchio vizio delle destre reazionarie sempre alla ricerca di deboli da perseguire, in difesa della razza privilegiata.

Sbaglieremmo, però, se non cogliessimo con attenzione le ragioni di una certa rabbia che spinge la gente semplice ad intrupparsi nelle battaglie di retroguardia promosse dalle destre e dai Leghisti di Salvini.

Noi per primi, laddove amministriamo, dovremmo evitare la creazione di altri centri rom, specie in prossimità di altri campi, delle periferie povere e delle residenze degli stranieri. Io non so se sia possibile evitare o ridurre il nomadismo; so, però, che dobbiamo fare di tutto perché la paglia stia lontana dal fuoco, evitando, inoltre, la contrapposizione delle categorie meno abbienti, di qualsiasi razza o religione; operando affinché si realizzi l’integrazione tra quanti operano e vivono nel medesimo territorio.

Sarebbe interessante censire con cura (spero che qualcuno lo abbia già fatto) la presenza e la localizzazione delle varie etnie, individuarne i bisogni (primi fra tutti il lavoro e la casa, ma anche l’educazione), favorirne la piena integrazione.

Ma ritorniamo alla questione romana.

Ecco, la prima considerazione da fare, è che la mafia (intesa come fenomeno criminale che opera a tutti i livelli, per conseguire illeciti profitti) è ben presente –da lungo tempo, nelle sue varie articolazioni di origine siciliana, campana e calabrese, nonché

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autoctone- nel corpo sociale ed economico di Roma e di tante altre città, grandi e piccole dell’Italia.

Per molto tempo è passata l’opinione secondo la quale l’attività criminale in Italia fosse riconducibile alle infiltrazioni, in un tessuto sostanzialmente sano, di organizzazioni criminali provenienti dalle regioni nelle quali, storicamente si erano sviluppati i vari ceppi mafiosi.

A suffragio di tale tesi due considerazioni:

1) la mafia si è insediata al Centro e al Nord al seguito delle grandi migrazioni del dopoguerra;

2) la mafia si è sviluppata, in modo particolare, laddove hanno operato le famiglie inviate al confino.

Ora, chi ha studiato il fenomeno mafioso sa che esso non è facilmente assimilabile al problema antropologico che ancora spopola in terra padana e che ha spinto,”seri studiosi” a ritenere possibile l’esistenza di ragioni di carattere –come dire- razziale; teoria che è alla base della decisione di una delle più importanti istituzioni museali di Torino di tenere in bella mostra, in una teca, il cranio staccato, ai tempi di Cesare Lombroso, al cosiddetto brigante Villella il quale altri non era che un povero bracciante calabrese che, per fame, aveva combattuto gli “invasori” piemontesi” nella seconda metà dell’Ottocento.

Anche nel film di Tarantino “Django_Unchained” il benestante impersonato da Leonardo di Caprio esibisce il cranio di un uomo di colore che, pure, era stato un servitore fedele della propria famiglia, per suffragare la tesi secondo la quale gli schiavi erano tali non perché costretti dai negrieri a lasciare l’Africa per lavorare al servizio dei bianchi, ma perché costituzionalmente diversi, inferiori.

Ma ritorniamo al tema, partendo dagli sconvolgimenti economici innestati dal processo di ricostruzione della Nazione italiana nel secondo dopoguerra.

La scelta compiuta dalle classi dirigenti fu quella di puntare allo sviluppo della nazione italiana che prevedesse la localizzazione degli insediamenti industriali al Nord con l’utilizzazione della forza lavoro dei braccianti e dei contadini meridionali.

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Molti dei presenti ricordano questo processo di trasferimento del capitale umano dal Sud al Nord, certamente superiore a quello che sin dall’800 aveva visto le popolazioni povere del Sud e del Nord emigrare oltremare in cerca di fortuna.

Né gli italiani del Nord né quelli del Sud potevano lontanamente immaginare quello che sarebbe successo con il cosiddetto “miracolo economico italiano”; pochi erano in grado di valutare la portata delle operazioni compiute. Ci fu chi, in quegli anni avvisò gli italiani dei pericoli connessi allo spopolamento di una parte del territorio e alla crescita selvaggia del resto d’Italia. L’economista inglese Vera Lutz giunse ad affermare che, al punto in cui stavano le cose, vista l’impossibilità di modificare l’assetto economico-sociale del Sud, era preferibile concentrare al Centro Nord tutte le risorse.

A questi anni risale, a mio giudizio, la definizione del ruolo delle forze mafiose, prima al Sud e poi, progressivamente, nel resto d’Italia.

C’è stato un periodo, abbastanza lungo, in cui si sperò che l’intervento pubblico nel Mezzogiorno, gli incentivi economici offerti dal Governo italiano e dalle istituzioni europee potessero riequilibrare le condizioni di vita e di benessere delle popolazioni del Sud e di quelle del Nord.

Mi limito a elencare gli interventi di natura industriale realizzati in una Regione meridionale come la Calabria: trasferimento di alcune fabbriche dal Nord, industrie tessili di Praia a Mare, quelle manifatturiere a Lamezia Terme; il nucleo industriale di Crotone, la realizzazione del Grande porto di GioiaTauro, la promessa del Quinto Centro siderurgico in Calabria, L’impianto per la produzione di bioproteine, realizzato e presto abbandonato, di Saline Ioniche, la Centrale a carbone di Gioia Tauro (per fortuna mai realizzata) ecc.

In quegli anni (siamo ormai negli anni sessanta) la Comunità europea incomincia a erogare sostanziose integrazioni per i produttori di olio e di agrumi. Fiumi di danaro inondano gli uliveti ma a goderne è la nuova leva dei proprietari terrieri che scalzano la vecchia classe nobiliare dagli uliveti e incassano le integrazioni sulla produzione di olio. I contributi non vanno ai produttori ma ai proprietari, poiché la Comunità rimborsa a ettaro di uliveto e non a quintale di olio.

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Le integrazioni facili, i lavori per la secolare A3, quelli per la realizzazione del più grande porto italiano a Gioia Tauro, stimolano la riorganizzazione e la crescita delle famiglie mafiose della Piana di Gioia Tauro e dell’intera provincia di Reggio Calabria (quella di Catanzaro e di Cosenza, al pari delle province della Sicilia orientale erano ancora “babbe”; sarebbero cresciute a partire dagli anni ’70-80 del secolo scorso).

Senza entrare nei particolari, la riorganizzazione delle mafie meridionali è in stretta connessione con il processo di sviluppo dell’Italia di quegli anni, distorto, disordinato, fonte di enormi arricchimenti. A partire dagli anni ’70 i mafiosi entrano direttamente nei consigli comunali e scalzano le vecchie figure dei mediatori democristiani.

Dall’altra parte, il rientro di molti meridionali al Sud che aspirano a costruirsi un’abitazione moderna, stimola il mercato immobiliare e la costruzione di migliaia di alloggi senza regole e senza il minimo rispetto per l’ambiente e per i piani regolatori.

Queste sono le basi sulle quali si fonda la ‘ndrangheta, su cui si innestano poi l’industria dei sequestri, il commercio delle droghe (secondo Saviano la ‘ndrangheta è al primo posto a livello internazionale, per quanto riguarda il traffico di cocaina), il mercato immobiliare, il movimento terra ecc.

La storia della mafia siciliana è, ovviamente, più nota e più rilevante. Gli italiani conoscono, soprattutto, le vicende degli ultimi trent’anni, la battaglia dello Stato, dei magistrati, delle forze dell’ordine; si ricordano le terribili vicende di Falcone e Borsellino, soprattutto i cedimenti dello Stato nei confronti delle organizzazioni mafiose, l’intreccio tra politica e malaffare.

In quegli anni diff icili altri problemi angustiavano la società italiana. Mi riferisco al terrorismo che non si è limitato a sconvolgere la vita di alcune generazioni di giovani ma ha inciso in negativo sull’evoluzione dei processi politici. Forse la platealità dei gesti delle organizzazioni terroristiche, l’incidenza sui processi economici e sociali del territorio centrosettentrionale, hanno avuto la capacità di oscurare i processi di trasformazione direttamente legati allo sviluppo impetuoso dei poteri mafiosi.

Perché, mentre il terrorismo operava allo scoperto, intenzionato com’era a scardinare l’assetto politico-istituzionale, le

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mafie, invece, agivano sotterraneamente per imbastire trame e affari ai danni delle comunità e anche della società nel suo complesso.

Quando lo Stato italiano, dopo aspre lotte, riuscì a piegare la violenza delle forze terroristiche, si ritrovò di fronte un altro avversario, apparentemente meno inquietante, ma ugualmente pericoloso. Le mafie avevano imparato a mischiarsi con la società e con le istituzioni, con l’intenzione, non tanto di abbattere il potere politico e statuale, quanto di condizionarlo, convivendo con esso.

Lo Stato, sostanzialmente, non ebbe la forza di reagire adeguatamente (anche perché fiaccato dallo scontro con il terrorismo); una parte della classe politica preferì venire a patti, non solo negli anni ’80 ai tempi di Andreotti ma anche in seguito, dopo le stragi dei magistrati e dei poliziotti, nel corso della seconda repubblica.

Fu un errore imperdonabile perché le mafie ebbero il tempo di riorganizzarsi e di elaborare nuove strategie (alleanze politiche, controllo della società a tutti i livelli, espansione in tutto il territorio italiano oltre che in parti fondamentali dell’Europa).

Quel che colpisce è l’incapacità di pezzi importanti della società di comprendere le grandi trasformazioni intervenute in Italia, specie a partire dagli anni ’90. Anzi, v’è di più, poiché molta parte dell’opinione pubblica di vaste aree del centro-nord ha sostanzialmente rimosso il problema della criminalità mafiosa, relegata a fatto regionale o che, comunque, riguarda i crimini commessi dagli aderenti alla mafia siciliana, alla ‘ndrangheta, alla camorra ecc. sia nelle regioni di provenienza che nelle città del centro o del nord.

L’altro giorno m’è capitato di scorrere l’elenco degli ‘ndranghetisti arrestati a Milano. Certo, la maggioranza proviene dalla Calabria, ma parecchi sono nati fuori della regione o dall’Italia. Qualche mese fa è stata data notizia dell’indagine relativa alla costituzione di autonome ‘ndrine, sempre a Milano, che non rispondono più alle ‘ndrine poste in Calabria, ma sono autonome, un po’come è avvenuto in America con Cosa Nostra che all’origine reclutava i picciotti tra i nativi siciliani e, poi, inevitabilmente, nel corso degli anni, ha assunto una fisionomia “americana”. La stessa cosa è successa in Canada, in Australia, nelle nazioni europee, dove le mafie sono presenti con autonome

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e autoctone formazioni.

Oggi nessuno si sognerebbe di imputare alla responsabilità dei Siciliani o dei Calabresi i crimini avvenuti nella città di New York o in Colorado o a Melbourne o a Toronto.

La criminalità di natura mafiosa è vista come fenomeno ormai autoctono, frutto dell’intreccio tra malavita locale o proveniente da altre realtà e interessi e affari locali. Nel grande affresco sulla malavita americana che è il film “C’era una volta in America”, i protagonisti sono quasi tutti di origine ebrea e i pochi siciliani svolgono un ruolo marginale. Tra l’altro –spiega lo studioso Federico Varese nel suo libro intitolato “Mafie in movimento: come il crimine organizzato conquista nuovi territori”, spesso le mafie venute dall’esterno intervengono a coprire dei vuoti criminali.

Così, ad esempio, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, a New York erano i poliziotti, reclutati con criteri non ortodossi, a controllare i commerci di varia natura (negozi, prostituzione, gioco). Fu il sindaco Gaynor, al termine di una forte azione moralizzatrice, a modificare questo stato di cose e a controllare la Polizia in modo che essa non operasse più in difesa del malaffare. Le organizzazioni criminali d’origine italiana erano allora dedite a lavori meno lucrosi, come la falsif icazione delle monete, il furto dei cavalli o l’estorsione pura e semplice (la Mano nera).

Inseguito alla trasformazione dei corpi di polizia, molte attività illegali o semilegali (ad es. la prostituzione) rimasero senza protezione e fu, paradossalmente, l’azione moralistica di Gaynor a sollecitare la trasformazione della malavita italiana che, poco a poco venne a riempire i vuoti lasciati dai poliziotti e che, poi, ai tempi del proibizionismo gestì alla grande il commercio dell’alcool.

A questo punto credo sia matura la domanda sulle ragioni per cui le mafie si diffondono in alcune realtà italiane e, in particolare, se questo rischio di penetrazione e di diffusione esiste per le nostre città e la nostra Regione.

Secondo lo studio già citato “In passato si attribuiva l’esistenza della criminalità organizzata a un’entità immateriale –la ‘cultura’ del Meridione- e si immaginava che il soggiorno obbligato sarebbe bastato a redimere i condannati per il solo fatto di andare a respirare aria di legalità al Nord. La versione accademica di

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questo dibattito consiste nel credere che zone con un alto tasso di ‘civismo’ e di ‘capitale sociale’ siano immuni dal trapianto mafioso”.

“Ora– conclude Federico Varese- in presenza di una combinazione di fattori economici specifici, qualunque zona è a rischio di penetrazione, e in modo particolare certi mercati locali, come quello del movimento terra…

La mafia si combatte in forme e modi diversi. La repressione della polizia e l’azione della magistratura sono fondamentali, ma spesso arrivano tardi, dopo anni di indagine e altri anni sono ancora necessari perché i processi giungano a conclusione. L’imposizione di misure ferree di antitrust nei mercati a rischio è un modo rapido e inflessibile per assicurarsi che le mafie non penetrino l’economia legale”.

Aggiungo che un punto nodale è quello del riciclaggio e, ancora, quello della tracciabilità dei pagamenti di tutti i soggetti. Ma gli sforzi non devono essere concentrati solo nel colpire il riciclaggio dei profitti della criminalità; lo Stato deve riappropriarsi del controllo del territorio nelle aree dove le mafie sono già governo locale.

Quest’ultimo richiamo deve riportarci ai temi affrontati all’inizio, a proposito della questione romana.

Soprattutto noi democratici che abbiamo governato Roma per lungo tempo, dobbiamo interrogarci sulle ragioni che hanno determinato questa grave crisi di democrazia e che hanno spinto il segretario Renzi a commissariare lo stesso partito della Capitale.

La prima considerazione da fare è che i dirigenti del nostro stesso Partito non sono stati in grado di prevedere quel che sarebbe potuto succedere una volta venuta meno la protezione del “Porto delle nebbie”, come veniva considerata la procura romana. Chiunque abbia avuto a che fare, negli anni passati, con la Procura della repubblica della Capitale, sa quanto fosse diff icile pretendere ed ottenere giustizia in tempi decenti.

Roma sarà la città della “Grande bellezza” ma somiglia tanto alla Villa dei mostri di Bagheria o al Parco dei mostri di Bomarzo.

Abbiamo bisogno di “nuovi architetti e di nuovi urbanisti”. Dobbiamo sostenere lo sforzo enorme, gigantesco,

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provvidenzialmente affidato al Sindaco Marino. Personalmente ho espresso la mia fiducia e il mio sostegno a Marino in epoca non sospettabile, quando buona parte del partito romano e anche nazionale si divertiva a fare le pulci al buon Ignazio, giungendo anche a commissionare un sondaggio sul suo operato. Adesso questi veri e propri capibastone sono stati messi da parte. Io spero che, dopo la potatura, una nuova pianta possa germogliare per riportare la capitale al suo ruolo di guida della Nazione.

1) Una settimana addietro, al termine di un funerale, qualcuno ha creduto di assistere al tentativo di rapimento di una bambina da parte di un gruppetto di zingari. Non era vero niente, come ha assicurato la forza pubblica al termine delle indagini, solo qualche attacco istericod a parte di qualcuno. Ma quel che è grave, un gruppetto di "giustizieri" si è mosso immediatamente alla ricerca dei presunti rapitori ed ha pestato a sangue il primo ragazzo di colore incontrato in un bar. Credo fosse del Bangladesh: ogni giorno portava una rosa al Bar e riceveva in cambio un caffè

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