memorie di lunigiana - adriana g. hollett · origine e del loro passato e col fascino delle...
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MEMORIE DI LUNIGIANAdi
ADRIANA G. HOLLETT
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Foto e disegni di A. G. Hollett©
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a mio marito Reginald
che condivide l’amore per la mia terra.
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Lunigiana, terra di luna...
SULLE TRACCE DI MEMORIE PERDUTE
Le storie di Lunigiana raccolte e raccontate da Adriana Giorgi
Hollett, sono il frutto di una lunga e laboriosa indagine nei luoghi
della memoria che costellano questa antica “zona di confine”,
arroccata e chiusa tra Liguria e Toscana.
L’idea di questo lavoro, svolto sul doppio registro della
documentazione fotografica e della scrittura, è nato nell’ambito
del corso di “Teoria e metodo dei mass-media” dell’Accademia di
Belle Arti di Carrara, nell’anno accademico 1994-95.
Il tema monografico di quell’anno era infatti “Le forme visive
del racconto”: come si può raccontare una storia attraverso una
sequenza di immagini, nel cinema, nel video, nella fotografia sia
documentaristica che artistica.
Da questo tema Adriana Giorgi Hollett, iscritta al corso, ha
ricavato lo spunto e una metodologia operativa per dare un corpo
organico, visivo e letterario, alla sua passione per la terra di
Lunigiana e le sue storie. Non tanto le storie ufficiali, quelle che
sono depositate nei documenti noti e celebrate nella memoria
storica collettiva, quanto piuttosto le vicende individuali, donne
soprattutto, che hanno vissuto all’ombra di un quotidiano spesso
doloroso, quando non addirittura tragico, segnato dalla fatica o
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dalla costrizione.
L’autrice descrive con tono discreto e un linguaggio semplice
l’umiltà silenziosa che accomuna creature di epoche diverse, di
nobile lignaggio o semplici contadini, facendo trapelare il mistero
di anime, delle quali oggi non si trova neanche più una lapide,
solo pochi, scarsissimi, indizi nella trasmissione orale e che solo
l’immaginazione può ormai riempire.
Sullo sfondo, un paesaggio oscuro e difficile, che non conosce
la soavità delle colline toscane, la ricchezza dei vigneti e degli
uliveti, il calore di quel sole e l’accessibilità di quel mare.
Una terra i cui frutti sono conquistati con il sacrificio più duro
e dove la miseria è compagna di strada.
Il tempo stesso scorre attraverso i secoli consumando le tracce
del passato ma lasciando immutata la durezza del vivere.
Ne sono emblemi - accuratamente scelti dall’occhio fotografico
dell’autrice - le austere fortificazioni, i palazzi e i vicoli di pietra,
con gli archi bassi, le prospettive labirintiche, i contrasti taglienti
tra luce e ombra.
Questo percorso a ritroso sulle tracce di memorie perdute è
allora un modo per evocare con le parole e le immagini quelle voci
di cui è ancora pieno lo strano silenzio della terra di Lunigiana.
ANDREA BALZOLA
Docente di “Teoria e metodo dei Mass Media”
all’Accademia di Belle Arti di Carrara
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...SE NOVELLA VERA
DI VALDIMAGRA, O DI PARTE VICINA SAI,
DILLA A ME, CHE GIÀ GRANDE LÀ ERA
DANTE - Purg. VIII
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Cenni storici sulla Lunigiana
La Lunigiana è una regione
storicamente situata attorno
al bacino della Magra. Abitata
fin dal paleolitico da popolazioni
liguri-apuane, sentì dapprima
l’influenza della civiltà etrusca fino al
177 a.C., quando subì la colonizzazione
romana e da Luni, caposaldo importante
e centro principale, prese il nome. Alla
caduta dell’impero romano passò sotto i bizantini e, unita alla
parte orientale della Liguria, formò la Provincia maritima
italorum.
Cedette poi all’invasione longobarda e venne aggregata al
Ducato di Lucca. Tale aggregazione si mantenne anche sotto la
dominazione dei Franchi nell’ordinamento della marca
carolingia.
Oberto I, entrato in possesso della marca orientale ligure,
staccò la Lunigiana dalla Toscana (951) per unirla ai comitati di
Genova e Tortona. Quando i possedimenti Obertenghi si divisero
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in quattro rami, Malaspina, Estensi, Pallavicini e Massa, la
Lunigiana nel secolo XI dipese dai marchesi di Massa.
Il dominio obertengo nella regione venne contrastato dai
Vescovi di Luni che avevano già conseguito da Berengario (900),
Ottone I (961), Ottone II (963), autorizzazioni sulle zone più
ricche e popolose. Ai vescovi venne riconosciuto il diritto di
coniare moneta e giurisdizione oltre che sulla Lunigiana,
sull’appennino parmense, sulle valli del Frigido e del Serchio,
sulle isole Capraia, Gorgona, Palmaria e Tino. Questi loro diritti
temporali, esercitati sin dall’inizio del secolo, furono sanciti
ufficialmente nel 1185 da Federico I.
A seguito di ciò, si acuirono i contrasti con i Malaspina,
finchè nel 1288 il vescovo
Gualtieri decise di spostare la
propria sede a Sarzana e ai
Malaspina venne riconosciuta
larga influenza su tutta la
Lunigiana. Nei secoli successivi,
XIII e XIV, si aggravò la crisi
dell’autorità politica dei vescovi e
a trarne beneficio furono le
numerose, seppur frazionate,
signorie malaspiniane.
Castruccio Castracani nel I322
tentò, senza successo, di unificare
la regione sotto un unico dominio politico, così pure Spinetta
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Malaspina attorno al I334 , finchè nel secolo XV si definì una
spartizione della Lunigiana tra i più forti stati confinanti: Milano
asservì il pontremolese, Genova giunse fin oltre la Magra a
Sarzana e Firenze ebbe Fivizzano, Bagnone e Castiglione del
Terziero.
Questa terra, pur essendo stata
frazionata e associata a molteplici
stati confinanti, conservò sempre
una identità propria e in ogni
borgo, in ogni paese rimasero usi e
costumi pressochè identici. Questa
terra verde di boschi come poche
altre, costituita in maggior parte da
zone collinari, si estendeva
dall’appennino sino al mare.
Durante la dominazione
malaspiniana venne divisa, seguendo il corso della Magra, in
Spino Secco alla sinistra e Spino Fiorito alla destra del fiume
stesso.
Sulle colline, sui dorsali selvosi, si creò un rosario di piccoli
paesi e solitarie pievi. Sulle alture e sui valichi, oltre
quattrocento tra castellari, torri e castelli sorsero a difesa del
piccolo territorio.
Di loro più che le vecchie carte, risparmiate dal tempo,
parlano ancora, con la voce dei secoli che li videro sorgere, le
costruzioni turrite su cui è passata l’ombra della storia.
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Dovunque, allo sbocco delle valli, alla confluenza dei fiumi o
lungo antichi percorsi, si levano ancora con la fierezza della loro
origine e del loro passato e col fascino delle leggende fiorite
attorno ad essi.
Molti di loro sono ormai scomparsi e di alcuni non restano
più che informi rovine, altri, rimaneggiati ad abitazioni private,
hanno perduto l’aspetto e la loro struttura antica; solo qualcuno
conserva ancora la massiccia solidità del tempo lontano con le
salde mura sostenute da barbacani o da speroni a sghembo a
difendere dall’alto le piccole umili case raggruppate ai suoi
piedi.
Solitarie torri mostrano i gravi danni del tempo e le belle case
torri, i borghi dai portali scolpiti, le piccole maestà ai crocevia
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delle mulattiere, oltre al degrado dovuto al tempo, mostrano
spesso gli insulti dell’uomo. Le belle pietre squadrate, gli
architravi modanati, i selciati
intelligentemente ideati per il
defluire delle acque sono stati, in
alcuni luoghi, indecentemente
ricoperti di cemento, così come gli
intonaci colorati hanno fatto
scomparire bellissime architetture
di pietra.
Il visitatore che percorre le
strette strade di Lunigiana, davanti
a quelle vecchie pietre, segnate dai
secoli, che conobbero storie di
terrore e di sangue, sogni di gloria e
prevaricazioni, prepotenze e umiltà, fatiche e speranze, dolci
episodi d’amore e poesia, si sente afferrare dal fascino delle
memorie che risorgono dalla lontananza con la preziosità delle
cose scomparse; ad ogni scorcio di panorama può trovare un
piccolo agglomerato di case, ora sulla sommità della collina ora
sulla sponda di un torrente; il primo mostra ancora
orgogliosamente i ruderi di un mastio o di una torre, e più spesso
quelli di un castello. L’edera avviluppa quelle antiche pietre, le
oltraggia e le sorregge. Ovunque finestre, come orbite vuote,
guardano il cielo attraverso i fitti rami dei rovi. Antichi cancelli,
dove la mano dell’uomo ha creato opere irripetibili, sembrano
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pendere esanimi dai cardini. Dai portali fatiscenti questi può
intravvedere giardini interni dove le palme svettano ancora tra
l’intrico disordinato del sottobosco che spesso ha cancellato
anche i vialetti e ricoperto le fontane. Sparsi sul territorio gli
ordini monastici hanno lasciato
nei secoli il loro segno: i Serviti,
gli Agostiniani, le Clarisse: i loro
conventi sono ancora ben
evidenti anche se spesso,
rimaneggiati a residenze private,
sono in completo abbandono; nei
chiostri interni gli uccelli
nidificano tra le volte e le acque piovane cadono in rivoli dai
coppi del tetto. Le alte finestre delle chiesette e delle pievi
mostrano, dai piccoli vetri rotti, i soffitti voltati e spesso
riammodernati con stili successivi.
Mentre percorre la Lunigiana, attraversando borghi e resti di
ruderi, il visitatore è pervaso da una suggestione strana. Nel
grande silenzio che regna ancora in questi piccoli paesi poco
raggiungibili e spesso del tutto deserti, negli stretti vicoli, in ogni
luogo dove l’occhio si posa può leggere i segni del tempo.
Osservando i castelli, le ville o le piccole case, il viandante non
può non avvertire la prepotenza dei primi, l’agiatezza nei
giardini delle ville e la disperata miseria nelle povere casupole.
Ovunque può trovare portali, stemmi, testine apotropaiche a
guardia dei morti nei cimiteri, protomi d’angelo o di demoni sui
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portali delle case posti a protezione dalle forze demoniache o dal
malocchio, monogrammi di famiglie scomparse anche dal
ricordo oltrechè dall’anagrafe, antichi stemmi araldici di casati
lombardi e fiorentini e molto più
frequentemente il cartiglio INRJ a
testimoniare la presenza di una
canonica, o una croce anche se inusuale
e strana.
Tutt’attorno la campagna
abbandonata mostra un intrico di alberi
aggrediti da liane rampicanti e piante
parassite, mentre il fitto sottobosco
impedisce la vista e ancor più il
passaggio dell’uomo. Chi si addentra
in questo strano mondo incantato
può ancora vedere il piccolo capriolo
che fugge e poi si ferma per
riguardare, così, come ai lati dei
sentieri, la sera, si trovano cinghiali
grufolanti, piccole volpi e grossi
rospi. I rami adunchi dei rovi
pendono sotto il carico delle more
assieme a quelli della rosa canina e
nei campi abbandonati vecchi alberi danno ancora qualche
frutto. Ma trova la meraviglia della natura incontaminata nei
fiori; specie quasi ovunque scomparse ammantano la Lunigiana
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in primavera: il croco azzurro che cerca di farsi strada tra le
foglie secche e i ricci delle castagne, poi primule, violette,
ciclamini e qualche piccola orchidea selvatica nei prati che
ancora rosseggiano di papaveri.
In questo contesto di luoghi, rimasti quasi inalterati, è stato
ancora possibile rievocare, anche attraverso le immagini, le
vicende umane di un tempo.
In quei borghi sulle alture,
costruiti con architetture
circolari e archi di contrasto
allacciati quasi sempre al
castello o alle fortificazioni e
negli stretti passaggi rettilinei
tra le case nelle cittadelle
fortificate di pianura, nelle
piccole aperture, difese da
poderose grate, dove oltre al
nemico non potevano entrare
nemmeno i raggi del sole,
rivivono piccole storie
quotidiane, in un contesto di usanze e di avvenimenti che nulla
hanno avuto a che fare con le mischie feroci tra turriti castelli e
ferrei signori della Lunigiana feudale, di cui molti hanno parlato.
In quelle povere dimore sembrano prender forma le ombre di
umili creature vissute in un contesto di grande miseria, di dure
fatiche quotidiane, di dolore, di rassegnazione e spesso
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Genoveffa e Anselmo Santini
disperazione, che hanno segnato quell’epoca. Rivivono così la
modestia di Luisita, la dignità di Erina, la disperazione di
Margherita, la rassegnazione di Zefra, la saggezza di Paulo e
l’umiltà di tanta povera gente ormai scomparsa, di cui non si
ritrova alcuna traccia scritta e che trovo doveroso ricordare.
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LUISITA
Pi a Caterina, detta Luisita, questo è il nome dell’ultima
Mazzini, nasce in Liguria ma viene subito portata a
Castiglione del Terziero nella casa degli avi paterni,
sulla collina all’Annunziata, e lì trascorre l’infanzia. Nella prima
giovinezza, accompagnata dai genitori, va a Firenze per
frequentare l’Accademia di Belle Arti, appena istituita,
distinguendosi subito per le sue doti di pittrice forte e gentile.
Tutto ciò era da considerarsi disdicevole per una signorina di
buona famiglia che durante le lezioni avrebbe visto posare i
modelli nudi, ma lei non parve scandalizzarsi più di tanto.
Rientrata alla S.S. Annunziata, Pia Caterina, aveva aperto il
suo studio sulla terrazza panoramica della casa e,
quotidianamente, aveva ritratto il mondo che la circondava.
Nelle sue tele rivivevano i colori della Lunigiana: il verde cupo
dei boschi, quello chiaro dei germogli, le foglie arrossate delle
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vigne e quello argenteo degli ulivi, i suoi contadini al lavoro, “il
ritorno dai campi”, “ l’idillio autunnale ”, “ il primo frutto”.
Ma era nei colori del cielo che la sua pittura si esaltava.
I tramonti di Lunigiana hanno colori inusuali: l’azzurro si
fonde col rosa e scolora nell’oro del sole quando lungo tutto il
crinale degli Appennini, nel violazzurro delle vallate si stendono
le prime ombre della sera.
Aveva nella pittura un tocco forte, seppur delicato, come del
resto era la sua stessa persona: una figura piccola e minuta, i
capelli candidi, raccolti morbidamente dietro la nuca come di
costume alle donne di Lunigiana, incorniciano un volto non bello
ma fine e severo, il sorriso accompagna una voce garbata.
Prima e unica dichiarata “ Signora di Lunigiana” nell’anno
1990, non porta mai gioielli e veste sempre abiti sobri.
Amava molto la sua casa dalla quale si distaccava
malvolentieri. Questa era stata ricavata dalla ristrutturazione
dell’antico convento dei Serviti che giunti al Terziero con la
dominazione fiorentina, rientrando a monte Senario avevano
rivenduto i sedici poderi e l‘intera proprietà al governatore del
capitanato di giustizia Raffaello Mazzini, il quale, inviato dalla
repubblica fiorentina, non volendo abitare il castello aveva
creato nel convento una residenza considerata la più elegante e
meglio arredata di Lunigiana.
Da un doppio ordine d’archi in pietra una scala portava al
grande salone al centro del quale troneggiava un gran tavolo; un
armadio monumentale era collocato tra le due porte finestra che
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davano sulla terrazza panoramica dalla quale si dominava il
castello e la valle.
Ai quattro lati del salone si aprivano le porte di accesso al
salotto, alla sala da pranzo e alle altre stanze.
Nel salotto le specchiere settecentesche illuminavano divani e
poltrone dalle coperture un poco consunte, così come i tendaggi
apparivano molto sbiaditi.
In una pregevole cornice cinquecentesca una Maddalena
bambina sorrideva illuminata dalla luna.
Le cucine, di cui una con un grande camino in cui si poteva
entrare in piedi, erano molto ben attrezzate come si conviene ad
una comunità quale era stata ed intelligentemente il nuovo
proprietario non aveva voluto modificare.
I mobili della casa erano veramente ricchi e soprattutto le
pareti erano interamente ricoperte di pregevoli quadri.
La famiglia possedeva ricchi gioielli ma Pia Caterina non ebbe
mai ad indossarli.
La madre soleva acquistare abbigliamento e biancheria dai
cataloghi delle case di moda per cui ogni anno veniva
convenientemente informata dell’arrivo di nuovi modelli
parigini dalle più rinomate sartorie, ma Pia Caterina, priva di
vanità e ricca di modestia, non se ne era mai curata.
Il visitatore era con lei sempre a proprio agio; Pia Caterina
sapeva ascoltare, consigliare, confortare. Aveva uno sguardo
attento e intelligente e con gli anni aveva assunto pazienza e
sopportazione.
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Nella sua lontana giovinezza, Pia Caterina, aveva ceduto quasi
passivamente al buon matrimonio, come era di consuetudine. Il
marito, medico, di nobile famiglia genovese, proprietario di ville
e possedimenti, l’aveva lasciata presto vedova con un figlio.
Assennata e modesta, avrebbe conservato intatto per lui il
patrimonio familiare e ne avrebbe fatto un medico come lo erano
stati prima di lui il padre e il nonno nella tradizione della
famiglia.
Pia Caterina, nel lungo scorrere degli anni, aveva preso
l’abitudine di sedere in una poltrona del salotto e lì, come prima
di lei la nonna e poi la madre, soleva restare assorta a lungo e
con gli occhi chiusi. Di natura riservata non aveva mai rivelato
quali fossero i suoi pensieri. Nella sua grande modestia non
aveva raccontato mai delle splendide bambole di porcellana
possedute, delle sue vacanze al mare di bambina ricca, dei premi
e riconoscimenti avuti per la sua pittura e tantomeno del “ felice
notte signoria” che contadini e servitù le rivolgevano ogni sera.
Accennava talvolta ai suoi amici scultori, ormai celebri e
morti, ai suoi professori dell’Accademia che, ospiti alla
S.S.Annunziata, avevano ritratto i suoi genitori. La sua passata
esperienza di insegnante e preside era testimoniata dalle visite
dei suoi ex allievi divenuti ormai uomini adulti e maturi.
La generosità con la quale, in periodi difficili anche per lei,
aveva provveduto ad un piatto di minestra per i poveri le era
valsa stima e riconoscenza.
Il suo pensiero, nel volger del tempo, era andato sempre più
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spesso ai suoi cari ormai tutti sepolti nella grande tomba di
famiglia; solamente il padre era stato inumato nella loro chiesa
vicino all’acquasantiera e lì, ogni giorno, Pia Caterina Luisita,
dopo aver pregato la sua Madonna miracolosa, era andata ad
inginocchiarsi restando alcuni minuti in devoto colloquio filiale.
Le stagioni si avvicendavano e con lo scorrere degli anni ella
aveva smesso di dipingere; si avvicinava il suo compiersi del
secolo nella quiete di quella casa ricca di ricordi, arredi e
modestia.
Al tramonto, nei pomeriggi estivi, soleva sedere a lungo sulla
terrazza panoramica a riguardare il tramonto del sole e mentre il
suo sguardo spaziava sui dorsali appenninici, che scoloravano
nel viola, esprimeva tutto l’amore per la sua terra chiedendo di
essere sepolta nel piccolo cimitero del paese accanto al fratellino
morto un secolo prima.
Luisita, oggi, non siede più sulla terrazza dove aveva atteso lo
spegnersi del giorno e della sua vita, così come non esiste più il
salotto un poco stinto e la poltrona nella quale soleva rimanere
assorta nei suoi reconditi pensieri.
L’ombra della storia, scorrendo sotto le oscure volte dove si
dice che ancor oggi risuonino delle litanie dei Serviti, ha
cancellato, una dopo l’altra, le figure delle creature che lì hanno
vissuto.
La grande casa e i poderi sono stati venduti e nuove storie si
avvicenderanno dentro quelle antiche mura sulle quali la minuta
e forte Luisita volle farvi affiggere la scritta “ casa Mazzini ” nel
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ricordo devoto del padre che, inumato davanti all’acquasantiera,
nessuno mai potrà più disseppellire.
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ERINA
Il sole aggirava ormai la massiccia mole del castello sulla
collina. Le bifore orlate di bianco risaltavano sul grigio
scuro delle antiche pietre. Il piccolo cimitero, in basso, era
ormai immerso nell’ombra. Il silenzio avvolgeva la campagna e i
boschi lontani. Dall’arco, nei contrafforti, la stradina di accesso
al paese scendeva ripidamente a valle. In tempi ormai remoti,
una donna, Erina, giunta sposa al paese, aveva risalito la ripida
strada per raggiungere la sua nuova casa situata all’ombra del
castello.
Poco prima, passando davanti alla chiesa della S.S.
Annunziata, si era fermata un attimo a guardare, dalla piccola
finestra munita di grata, la dolce immagine della Madonna
miracolosa e un senso di pace e di serenità l’aveva pervasa. Aveva
sussurrato una breve preghiera e, svelta, aveva seguito il marito
verso la strada di casa. Erina, entrando per l’arco nell’ombra
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delle mura, aveva avvertito un certo senso di malessere nel
sentirsi nascostamente osservata. Sapeva che dietro i vetri delle
piccole finestre innumerevoli occhi stavano spiando incuriositi
la sposa che veniva da fuori.
Il suo promesso l’aveva raggiunta al paese dove il suo parroco
li aveva uniti in matrimonio e dopo una modesta festa alla
presenza di pochi amici, aveva seguito il suo uomo…
A metà del vicolo si era trovata improvvisamente davanti al
portone di una bella casa, in pietra intonacata, con finestre
regolari e stipiti scolpiti. Un ricco portale, anch’esso di pietra
tagliata a punte di diamante, incorniciava un robusto portone di
legno.
Gli architravi delle finestre erano in pietra scolpita. Una scala
in ferro battuto portava alla grande sala del primo piano che era
arredata con mobili solidi e lucidi. Nella sua camera c’era un bel
letto con incrostazioni di madreperla, due comodini, un comò e
un baule nel quale aveva riposto il corredo. Da questo aveva tolto
il copriletto di picchè bianco e le lenzuola tessute a mano coi
quali aveva subito preparato il suo letto nuziale.
Nella sua nuova casa Erina non aveva trovato i famigliari del
marito che erano morti da tempo e così la casa le era sembrata
molto grande e vuota. Si era consolata pensando che una
numerosa prole avrebbe riempito le molte stanze vuote. Ogni
mattina aveva pulito la casa, preparato il desinare e rigovernato.
Ogni domenica, al suono della campana della messa, Erina aveva
portato in sacrestia gli ori per la chiesa e si era poi andata a
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sedere nella panca della sua famiglia, mentre il marito
raggiungeva gli uomini dietro l’altare. Finita la messa riprendeva
calice, patena e pisside e li riportava a casa nel cassetto del comò
assieme all’ostensorio e al resto dei paramenti.
La sua nuova famiglia era tra le più abbienti del paese e, oltre
a essere la proprietaria degli ori della parrocchia, era anche
depositaria di un altro lasciato: “ il pane dei poveri ”. Questo
significava che, da secoli, la famiglia doveva mettere fuori della
porta di casa una cesta di pane per i poveri ed Erina, ogni
settimana, aveva cotto il pane e l’aveva posto fuori dell’uscio di
casa.
Ogni notte aveva giaciuto a fianco del suo sposo nel letto di
ferro e di madreperla, ma, con gli anni, aveva perso prima la
speranza di diventare madre e poi il marito.
Erina era alta e sottile. I suoi capelli castani, quasi biondi,
erano raccolti morbidamente dietro la nuca. La sua andatura era
naturalmente elegante. Molto riservata, ma sorridente,
rispondeva sottovoce e brevemente.
I suoi occhi azzurri avevano un’espressione dolce e dignitosa.
I suoi abiti un pò lisi tradivano una lontana raffinatezza.
Nel paese le altre donne non l’avevano mai accettata perchè “
era di fuori” e dopo la morte del marito, come del resto prima, la
si vedeva uscire solo per andare nei campi o alla messa. Nessuno
l’invitava in veglia o l’andava a trovare a casa. La solitudine
l’attanagliava, ma Erina non cercava nessuno; viveva vestita di
nero e di dignità.
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Dalla sua casa, dietro le finestre con le tendine ricamate, il
suo sguardo spaziava sopra la catena dei monti lontani e quando
arrivava alle cime rosate delle Apuane si soffermava a ricreare,
dietro di esse, l’immagine della sua casa paterna. In quei
momenti i ricordi la sommergevano, ma anche la sorreggevano:
la chiesetta del suo paese, il profumo dell’incenso bruciato nel
turibolo, le violaciocche sul muro dell’orto, la fiera del paese, il
ballo sotto la pergola, le serenate, i canti dei giovani nelle notti
d’estate, le prime gioie del cuore innamorato...
La sua felicità di giovane sposa era ormai un ricordo lontano.
Dentro quelle antiche mura, nell’ombra del castello, folate di
vento gelido le avevano spento il corpo e l’anima. La sera davanti
al camino acceso guardava le fiamme che, danzando, creavano
luci e ombre sulle pareti; silenziosi fantasmi testimoni della sua
solitudine. Mentre le mani sgranavano la corona, le sue labbra,
senza suono, recitavano il rosario.
Questo, interrotto da nuove folate di ricordi, veniva ripreso
più volte, finchè, occhi e mente cedevano lentamente alla
stanchezza ed Erina si assopiva. Il lume a olio sul camino
spandeva una luce talmente fioca che spesso Erina lo accendeva
solo per andare a letto.
Uno scalpiccio di passi sull’acciottolato talvolta la risvegliava;
era raro in quel paese quasi deserto sentire suoni di voci umane,
ma mai Erina aveva ceduto alla tentazione di scostare le tendine
od origliare poichè, educazione e dignità erano state compagne
alla solitudine della sua vita.
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Solo alla sua dolce amica, la Madonna miracolosa della
S.S.Annunziata, Erina confidava sempre i suoi pensieri.
Un tempo l’aveva lungamente pregata, Lei, miracolosa
Madonna del Parto, affinchè le concedesse la benedizione di un
figlio. Spesso, quasi ogni sera, tornando dal lavoro dei campi,
Erina si fermava alla chiesa del convento, posava il carico sul
muro della strada, si avvicinava alla finestrella e nella penombra
cercava il dolce volto dell’immagine santa come il giorno in cui
era giunta sposa e come allora si rinnovava in lei un senso di
protezione e di pace.
Nella chiesa del paese andava per il dovere impostole quale
custode degli ori, ma a quella della S.S. Annunziata si recava per
trovare conforto alla sua tetra solitudine.
Quando un giorno aveva sentito che era giunta ormai l’ora
della sua morte, Erina aveva rifatto il letto con cura, aveva steso
il copriletto di picchè bianco tessuto a mano, ultimo ricordo
tangibile della sua giovinezza, si era vestita con l’abito nero dei
dì di festa, la corona tra le mani, si era stesa sul pavimento della
cucina e invocando il nome della Dolce Amica si era coperto il
volto con un fazzoletto.
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MARGHERITA
In un passato molto antico le ombre della sera avevano già
imbrunito Castiglione del Terziero e la ripida stradina
acciottolata che portava all’arco del paese. Lo stemma dei
Malaspina dello ”Spino Fiorito” si intravvedeva appena quando
Margherita, avvolta in un ampio mantello, era scesa dal carro e
si era apprestata a salire al castello.
Correva l’anno 1288 e Alberto, figlio di Obizzino marchese di
Filattiera, le aveva offerto asilo e protezione. Il lungo viaggio
l’aveva stremata. Passando sotto l’arco di accesso al castello il suo
sguardo si era posato sullo stemma gentilizio dei Malaspina; una
rinnovata angoscia l’aveva riportata a quello della sua famiglia,
la fiera aquila, che in quei giorni veniva scalpellinata e distrutta
su ogni muro di Pisa mentre si spargeva sale sulle rovine della
sua casa.
Nella sua fuga, Margherita aveva trovato rifugio presso gli
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“Incappucciati dell’Assunta” al Duomo, e su quell’altare, grata,
aveva deposto la preziosa collana d’oro e ambra, dono di nozze
del marito; in seguito, non sentendosi più al sicuro in Pisa, aveva
accettato la mediazione e l’ospitalità di Manfredina, figlia di
Fiesca dei Fieschi e Alberto Malaspina, andata sposa a Bonduccio
della Gherardesca, figlio spurio del suo Ugolino, presso i signori
del Terziero in Lunigiana.
Margherita era nata “dei Pannocchieschi”, nobile famiglia
senese, e giovanissima era andata sposa a Ugolino della
Gherardesca, conte di Donoratico, proprietario di vasti feudi in
Maremma e in Sardegna.
La sua bella casa, allineata sul Lungarno tra quelle dei
Gambacorta e dei Lanfranchi, era stata presto allietata da
numerosa figliolanza. Le sue figlie erano già tutte accasate e
anzi, Gemma, moglie di Pietruccio da Lucca, si era offerta di
ospitarla nei possedimenti di Lucchesia, ma Margherita,
istintivamente, diffidando del genero, aveva rifiutato.
Correva l’anno 1288; l’autunno cedeva posto all’inverno.
Fredde folate di vento cominciavano a spazzare spalti e cortili del
castello del Terziero.
Margherita alzava gli occhi all’alta torre quadrata che
sovrastava il maniero e l’immagine della Torre della Muda si
sovrapponeva a questa.
La torre dei Gualandi, chiamata anche della Muda perchè vi
venivano rinchiuse le aquile del comune di Pisa al cambio delle
penne, l’orrenda torre racchiudeva nel profondo delle sue
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segrete il marito, i suoi figli, i suoi nipoti.
Avvolta dal vento e dall’angoscia aveva cercato di guardare,
dagli spalti, oltre l’ampia vallata della Magra e, seminascosta
ormai dalle brume invernali, a oriente, la catena degli
Appennini, imbiancati dalla neve, dietro i quali si stendeva la
piana con la sua città.
Correva l’anno 1288; i giovani pisani, dopo quattro lunghi
anni, erano rientrati dalle galere genovesi nelle quali erano stati
rinchiusi dopo la battaglia della Meloria. Molti di loro non erano
tornati, perchè, per la legge del contrappasso, quando i riscatti
non venivano pagati, i prigionieri erano destinati a morire di
fame.
Margherita sapeva; era stato il suo sposo, il conte Ugolino, ad
accettare la sfida dei Genovesi alla Meloria, sicuro della vittoria,
perchè il sei agosto era stato sempre un giorno fausto per i
Pisani, ma quando si era reso conto della sicura disfatta aveva
riparato in porto facendo tirare la catena, per cui aveva lasciato
fuori i genovesi sì ma anche “la miglior gioventù pisana”. E i suoi
concittadini non avevano sicuramente dimenticato.
Il tempo scorreva lento e doloroso, l’inverno era ormai
passato e poi la primavera e l’estate; da nove lunghi mesi i suoi
cari giacevano nell’oscurità di una cella. Lei stessa, sradicata
dalla propria casa e dalle sue abitudini di signora, esule in terra
straniera, era obbligata a mendicare un tetto e il pane.
La “gallina dalle uova d’oro”, di cui si parlerà nei secoli
successivi, perchè una leggenda vuole che sia stata sepolta con
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lei, era nascosta tra le sue vesti.
Ben sapeva Margherita che, se voleva aver salva la vita,
doveva tener celata la propria identità. I suoi ospiti, Fiesca e
Alberto Malaspina, avevano nascosto a tutti la sua presenza al
castello per cui ella intuiva che, se fosse morta in quel luogo,
nessuno mai avrebbe onorato la sua sepoltura senza nome.
Un giorno era corsa voce che il suo Ugolino fosse stato
imprigionato, quale traditore della patria, per aver ceduto a
nemici confinanti alcune castella della repubblica pisana, ma
Margherita avvertiva che il grande odio dei concittadini verso la
sua famiglia aveva ben altro motivo. Quell’odio, covato per quasi
un lustro, si era acuito in coloro che non avevano potuto
riabbracciare, tra i reduci, i propri figli morti di fame nelle
prigioni genovesi. Infatti, perchè imprigionare anche i figli e i
nipoti, se l’unico responsabile del tradimento era stato il conte
Ugolino?
Nel cuore, greve d’angoscia, di Margherita si affaccia un
dubbio che invano cerca di scacciare. E il presentimento si fa
certezza quando un messaggero arriva per riferire che la porta
della segreta nella torre della Muda è stata inchiodata.
“ Pisa vituperio delle genti...”. I suoi cari erano destinati a
morire di fame!
Mai nessuno potrà descrivere la disperazione di una madre
che, impotente, segue la lenta agonia dei propri figli. I suoi figli,
Gaddo e Uguccione, i suoi nipoti, Nino e il piccolo Anselmuccio e
Ugolino...
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La sua figura, notte e giorno, senza posa, appariva e
scompariva sugli spalti come un nero fantasma. Il suo corpo di
donna, ormai avanti negli anni, era del tutto scheletrico; i suoi
lunghi capelli biondi solo un ricordo. Avvolta nel suo mantello e
nel suo dolore, alla notizia che era giunto un emissario da Lucca,
fidando in una notizia di conforto, Margherita corre a
raggiungerlo nella grande sala del camino e cade trafitta da un
ferro rovente per mano dello stesso Pietruccio da Lucca.
Nessuna penna nel corso dei secoli ha speso una sola parola
per lei, Margherita della Gherardesca, e del suo
incommensurabile dolore di madre e di sposa.
Nessuno mai, nella storia, dirà più della sua morte, della sua
tomba.
Il suo spirito angosciato aleggerà per sempre nello spazio e
fuori del tempo a ricercar di sè e della sua ignorata sepoltura.
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MARIA
Il pianto della bambina riempiva per molte ore al giorno il
silenzio dell’aia. Forse aveva fame, forse freddo e quasi
certamente entrambe le cose. Aveva pochi mesi e già tanto
pianto.
Le galline, indifferenti, continuavano instancabili a razzolare
sull’aia alla ricerca del cibo. Il gatto pigro e sonnacchioso
seguiva con gli occhi gli insetti che gli passavano vicino.
Le persone che passavano per il vicolo compiangevano la
bambina ma tiravano oltre.
Anche la madre, che ogni mattina doveva lasciarla sola nel
grande letto, doveva ignorare quel pianto per andare a lavorare
nei campi. Erano una famiglia di mezzadri e il loro dovere era
custodire accuratamente le terre che il padrone aveva loro
assegnato, che se questi li avesse mandati via sarebbero finiti alla
fame.
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In quel paese le tre uniche condizioni sociali trascritte nei
registri della parrocchia al battesimo erano: possidente,
mezzadro e miserabile. I secondi lavoravano i campi dei primi e
ne abitavano le case, gli ultimi non possedevano nulla e vivevano
di elemosina.
I mezzadri si alzavano avanti dì per recarsi al lavoro nei
campi e a mezzdì, al suono dell’Angelus, posavano gli attrezzi e
si segnavano la fronte attendendo il cesto del desinare.
Solo la madre correva a casa, prendeva la secchia per andare
alla fonte ad attinger acqua e, con rassegnata tristezza, ascoltava,
in lontananza, il pianto accorato della sua bambina, che, bagnata
e infreddolita, reclamava il cibo.
Stranamente le stagioni per i miseri si riducono solo a due:
una brevissima e torrida estate e un lunghissimo e gelido
inverno. Il freddo tra quelle povere case sembrava regnare
perenne.
La madre affannata spingeva l’uscio di casa, che rimaneva
sempre aperto, si toglieva la secchia dal capo e correva ad
allattare quella che sarebbe stata la sua unica figlia.
Maria, questo era il nome della madre, aveva sposato un
uomo vedovo con due figli, già cresciuti che, presto, se ne erano
andati da casa.
L’aspetto della donna era indefinibile, così pure l’età. Un viso
senza bellezza e senza sorriso, i capelli, semmai avessero avuto
un colore, non erano stati mai visti da alcuno, perchè sempre
coperti da un fazzoletto un tempo nero. Il corpo appariva senza
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forme sotto un vestito scolorito e coperto in parte da un
grembiule che le serviva sia per proteggere la sporgenza del
ventre che per contenere le verdure che raccoglieva nei campi.
Ai piedi, d’estate, calzava zoccoli di legno intagliati a mano
dal marito e, quando faceva freddo, aggiungeva grosse calze fatte
ai ferri con lana di pecora. D’inverno, nelle lunghe ore di veglia,
sola accanto al fuoco, con la bambina che dormiva nella paniera,
Maria filava la lana con la conocchia infilata nella cintura e
quando il fuso era pieno raccoglieva la lana in un gomitolo per
continuare la maglia.
Quando il fuoco perdeva la fiamma e rimanevano solo
tizzoni, Maria non vi aggiungeva più legna, prendeva la corona
del rosario e la sgranava sino al rientro del marito dall’osteria.
La legna non doveva essere sprecata, così pesante da
trasportare dai campi sulla schiena, e spesso nascostamente.
Il padrone arrivava sulle terre a sorvegliare il lavoro e il raccolto.
Occorreva il suo benestare per tagliare una pianta e si doveva
comunque dividere con lui ogni cosa. Al padrone andavano le
primizie e la metà di ogni ricavato col buon peso.
Durante la breve estate, alla fine di ogni giornata, la madre
stava seduta sulla panca nell’aia a sgranare ceci, fagioli,
granturco e la bimba le stava aggrappata alle gonne. Quando era
stata in grado di reggersi da sola, la piccola, aveva cominciato a
gattonare dietro ogni cosa che si muoveva sull’aia: un piccione,
un cane o un gatto, spesso le lucertole.
Aveva anche preso l’abitudine di mettersi in bocca ogni cosa
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che le fosse capitata tra le mani, per cui spesso aveva inghiottito
foglie, incauti insetti e spesso i loro escrementi.
Dopo alcuni anni, forse quattro e non più di cinque, la bimba,
cessato il pianto, non era più uscita al sole sull’aia a giocare con
gli animali o guardare i fiori, perchè la madre, prima di andare
nei campi, accendeva il fuoco nel camino, attaccava il paiolo
pieno d’acqua alla catena, la faceva sedere su un panchetto e le
consegnava un cesto di verdure. Le piccole mani pelavano le
patate, sgusciavano i fagioli, accudivano al fuoco, per ore, finchè
la minestra non era pronta.
La bimba crebbe senza conoscere la spensieratezza
dell’infanzia, ma la madre non ebbe mai ad accorgersene perchè
lei stessa era passata dal latte alla fatica. Maria non aveva
conosciuto l’amore e neppure la giovinezza perchè, presto, era
stata accasata a un vecchio e una morte prematura le aveva
impedito poi di conoscere, seppure attraverso la figlia, la gioia e
la felicità della vita.
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MADDALENA
Ma ddalena era nata “dei Ventura”. La sua casa di
quattro piani, la più alta del paese, aveva spigoli
perpendicolari e i muri alla base si allargavano,
come diremmo ora, a scarpa. Due archi, sovrastando i due vicoli
del crocevia, l’allacciavano uno alla casa di fronte e l’altro, di
lato, a un alto resede di terreno sovrastato da un’antica torre
ormai quasi distrutta. Le finestre del primo piano erano protette
da robuste inferriate e quelle dei piani superiori erano ingentilite
da architravi scolpiti e tendine di pizzo. Sui davanzali di pietra
fiorivano gerani e negli angoli delle scale e sul pavimento di
mattoni rossi erano disposti molti vasi di aspidistra. Nel portone
d’ingresso, chiodato, uno spioncino in ferro consentiva di
guardare nel vicolo. Suo padre era nato possidente e
nell’infanzia era stato mandato per qualche anno a Firenze, dagli
Scolopi nel loro collegio della Badia Fiesolana, ad imparare a
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leggere e far di conto e, dopo un adeguato matrimonio, passava
la vita andando a caccia e sorvegliando i mezzadri nei campi.
Sua madre, una donna piacente e di carattere assai remissivo, si
era subito dedicata alla casa e, con l’aiuto di qualche fantesca,
accudiva le figlie.
Maddalena, la maggiore, aveva appena raccolto i capelli
dietro la nuca come si conveniva alle giovinette, mentre le
sorelle, piu piccole di lei, portavano ancora i capelli sulle spalle
legati da un nastro colorato. Gli abiti smessi da Maddalena
passavano regolarmente alle sorelle minori; solo quando si
doveva andare a messa o al vespro si poteva indossare l’abito
nuovo di velluto. La madre vestiva sempre di nero con un colletto
di pizzo bianco e quando usciva di casa portava sempre con sè
un bastoncino dal pomo d’argento.
Durante il giorno, assieme alle sorelle minori Marianna e
Margherita, Maddalena tesseva la tela di cotone per il corredo e
quando la pezza era terminata si tagliava la biancheria che poi
sarebbe stata ricamata dalle mani abili delle donne di casa.
In famiglia veniva conservato un anello d’oro che doveva
essere tramandato, di generazione in generazione, al
primogenito maschio e Maddalena già sapeva che, mancando
questi, l’anello sarebbe stato suo.
Le tre sorelle non sapevano leggere nè scrivere, perchè la
scuola nel paese sarebbe arrivata da lì a poco con l’Unità d’Italia
e quel poco che avevano imparato dal padre era il saper fare la
propria firma. Così negli anni avevano ignorato, e prima di loro i
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genitori e i nonni, un baule chiuso in soffitta pieno di libri
rilegati in cuoio.
Del resto, nella civiltà contadina, l’interesse primario era
sempre stato il possesso della terra. Con i terreni dati a
mezzadria le cantine della casa erano sempre ben fornite: botti
piene di vino, orci d’olio, scrigni di granaglie, formaggi e salumi
appesi ai ganci e poi tanti sacchetti bianchi pieni di fichi secchi,
di mandorle e nocciole.
Per carnevale, dopo l’imbrunire, nel vicolo anulare del paese
giravano i mascri e questi, quando ballando e cantando
bussavano alla porta chiodata, ricevevano i frutti dei sacchetti
bianchi. Gli stessi frutti erano regalati quando, legate le campane
durante la settimana di passione, i ragazzi passavano per il paese
agitando sgricciole di legno per segnare le ore.
Maddalena e le altre donne, per tempo, seminavano il grano
nei vasi, che, riposti in cantina al buio, avrebbero germogliato
bianchi steli per adornare il Sepolcro e i bambini si recavano nei
prati a raccogliere violette per decorare piccole croci devozionali
da porre ai piedi dell’altare. Quando al sabato santo le campane
suonavano a distesa la resurrezione di Cristo, Maddalena e le
sorelle andavano a lavarsi gli occhi.
La sua famiglia, in una generazione precedente, avendo un
avo abate di nome Bonaventura Peccini, aveva assunto l’obbligo
di provvedere a uno dei sei altari laterali della chiesa e
precisamente quello al quale diceva messa l’abate, il primo a
sinistra vicino al fonte battesimale. A tal scopo, il ricavato di un
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campo, detto poi da sempre il prato di S. Caterina, era stato
devoluto al fabbisogno di cera e tovaglie per quell’altare.
Una panca, allineata ordinatamente tra le altre nella navata della
chiesa, portava scolpito nel legno il cognome della sua famiglia e
la domenica Maddalena, assieme alla madre e le sorelle, vi si
andava a sedere.
Solo in chiesa si potevano ritrovare i cognomi delle persone
perchè per tutto il resto si apparteneva a precisi gruppi familiari
con il relativo soprannome: quelli dei Ventura, dei Capitani,
dell’Alfiere, dei Nibai... Solo a queste famiglie importanti era
riservato il diritto di far precedere il proprio corteo funebre
dalla croce d’argento. Questi nomi, sussurrati sotto gli archi di
pietra del paese, parevano ancora far risorgere ricordi di antichi
agguati, di armigeri, di soperchierie.
Un giorno il padre di Maddalena venne indotto da tal Picciati
di Licciana a giocare in borsa e ben presto, con operazioni
sbagliate, si ridusse in miseria. Perduto l’intero parimonio,
Maddalena lo aveva visto partire a piedi per la Corsica a fare la
stagione delle olive per ritornare, dopo un mese, con una quareta
di grano per paga.
Perduta anche la sua bella casa, nei registri della chiesa venne
scritto che “Maddalena, Marianna e Margherita erano emigrate
nella piana di Molesana.”
Il destino aveva riportato Maddalena, sposa, nel paese in cui
era nata e con lei era ritornato l’anello, testimone, tutt’oggi
tangibile, di questa antica storia. Maddalena non seppe mai che
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la sua casa natale era stata una casa-torre medioevale, che,
qualche secolo prima, il suo avo abate e poeta Bonaventura
Peccini da Panicale, aveva scritto, in versi latini, quei libri
d’coram, di cui rimangono copia di poche pagine al museo civico
della Spezia, perchè dopo la vendita della casa erano stati
bruciati sotto le mura del paese.
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ROMEO
Il sole non raggiungeva mai la misera casupola ai piedi
della casa-torre. L’ombra regnava perenne tra le alte felci
sotto gli alberi di noci. L’acqua del canale, scrosciando,
rompeva un silenzio profumato di muschio.
Dietro un uscio sconnesso, nell’unica stanza, in un angolo un
focolare spento, in un altro un mucchio di foglie che serviva da
giaciglio, viveva Romeo.
Apparteneva costui alla categoria dei miserabili.
Non possedeva casa nè campi, non aveva famiglia e gli unici suoi
stracci li portava indosso.
Nessuno conosceva la sua età, anzi, nessuno si era mai curato
di saperla e forse nemmeno lui; l’avevano conosciuto sempre con
la lunga barba bianca e i capelli incolti sulle spalle curve.
Nella buona stagione compariva sull’uscio di buon’ora e si
allontanava su per la mulattiera oltre il colle per raggiungere
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luoghi lontani; passava per borghi e pievi, di casa in casa, a
mendicare il pane.
Il suo unico tesoro era un organetto, col mantice molto
sciupato, che Romeo sapeva suonare. Nelle fiere di paese le sue
allegre musichette gli fruttavano qualche soldo e più spesso un
pò di cibo.
Quando cominciavano a cadere le foglie, che i venti gelidi
delle Alpi facevano turbinare lungo il vicolo, Romeo tornava al
paese. Durante il giorno si sedeva a suonare seduto su uno
scalino in un angolo riparato della piazzetta e subito il gruppo
dei bambini gli si raccoglieva attorno. Egli amava molto quelle
vivaci creature, quasi fossero figli suoi, e con gioia cominciava a
raccontare dei suoi viaggi, di cavalieri diretti alla città santa
sulla via francigena, del predominio del giglio rosso fiorentino
sulla rosa celtica, di agguati di ladroni, di assalti di lupi...
Le sue storie, sempre diverse, erano popolate di re, pellegrini,
frati e principi; i bimbi attorno a lui, con gli occhi sgranati,
vedevano passare principesse vestite di seta e soldati con le
lunghe spade, carrozze dorate tirate da cavalli bianchi, brutti
ceffi con la barba nera armati di pugnali.
L’Angelus del mezzogiorno interrompeva il suo racconto e i
bimbi correvano come rondini verso il desco vociando allegri; in
un momento la piazzetta risuonava dello scalpiccio di tanti
zoccoletti.
Romeo rimaneva lì, solo, col suo organetto.
Da lì a poco, ad uno ad uno, i bimbi ritornavano portando
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qualche frutto o una fetta di polenta per lui e ancora gli
venivano sollecitate nuove storie; trascorreva così buona parte
del giorno.
Verso sera, il suono dell’Angelus pareva diverso, più triste. Gli
armenti rientravano dal pascolo lentamente e in fila; i loro
campanacci ritmavano i passi dei mezzadri che, con gli arnesi in
collo, tornavano dai campi. Il profumo della solita minestra
riempiva il vicolo. Mentre le donne scodellavano, gli uomini,
volto lo sguardo al cielo per stimare il tempo del giorno dopo,
chiudevano l’uscio sulla notte.
Romeo non era mai dimenticato. Un povero meno povero di
lui gli offriva un posto accanto al ciocco.
Sotto la grada, sulla quale venivano messe la castagne a
seccare, si radunava la famiglia che spartiva con lui il misero
pasto. Al chiarore del fuoco si rimaneva seduti in veglia: si
raccontavano gli avvenimenti del giorno, si facevano previsioni
di semine e di raccolti. Alla luce dei tizzoni, il nero affumicato
delle pareti pareva lucido e le fiamme danzando creavano
immagini irreali. Le scintille balzavano vivide scoppiettando e il
vento soffiava contro l’uscio facendo frusciare le foglie secche
che creavano strani rumori.
In quell’atmosfera un pò magica, le storie di Romeo si
animavano di fantastiche creature che apparivano sui crocevia a
mezzanotte, di segni lasciati sulla pietra da diavoli beffati, di
fuochi fatui che seguivano i viandanti nella notte. Il Buffardel
era, tra i diavoli narrati, il più scherzoso perchè scombinava i
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calzini nei cassetti, intrigava le code alle vacche nella stalla,
soffiava via la farina dalla madia, portava via i cappelli dalla
testa e i panni stesi sul filo nell’orto.
Durante il racconto i bambini si rannicchiavano in grembo
alla madre, le donne filavano la lana o rammendavano.
Quando il vecchio dalla lunga barba bianca vedeva che gli
astanti cedevano al sonno, si alzava, si accomiatava e spariva
nella notte.
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IL PRETE
Qu ando scendendo per il vicolo rientrava in canonica
il suo passo quasi non si avvertiva. Solo il frusciare
della tonaca contro le gambe magre e nervose
rivelava, alle orecchie sempre tese ai rumori della notte, il suo
passaggio. Nell’interno delle casupole si udiva qualche pianto di
bimbo, l’acciottolare dei piatti, il miagolio del gatto.
La notte calava presto in quel paesino sperduto pieno di
ombre e di volte così basse e oscure che anche di giorno il sole
stentava a illuminarle. Le case, arroccate l’una all’altra, quasi
più a difesa dal freddo e dalla miseria che da antichi invasori,
parevano vive ma anche morte per i miseri lumi che filtravano
dalle finestrelle.
Il freddo lo attanagliava, anzi, pareva crearlo lui stesso,
mentre trascinava folate di vento con la sua tonaca. Rientrato in
canonica, mentre consumava il suo pasto di pane e formaggio, il
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suo sguardo frugava gli angoli bui e alla scarsa luce di una
lampadina, che fortunatamente lui aveva potuto permettersi da
quando in paese era arrivata la corrente elettrica, ritrovava le
solite crepe che, partendo dai travi del soffitto, solcavano le
pareti come una fitta rete di rughe.
Lontano, fuori dei vetri resi opachi dalla polvere, intravvedeva
ancora il profilo delle colline e più lontano quello dei monti. Tra
poco sarebbero apparse le stelle.
Dopo aver lavato il piatto e la posata si era messo, come al
solito, a leggere il breviario. Quando leggeva era sempre preso da
irrequietezza. I suoi occhi spesso si spaiavano e divergevano o al
contrario convergevano, ma nessuno pareva farci caso. Anche al
seminario quando lo avevano esaminato, non avevano dato gran
peso a quello che tutti avevano definito un ticchio.
Pareva ieri quando aveva visto per la prima volta il grande
palazzo vescovile col grande giardino, i cameroni col letto di
ferro dove, ogni sera, ciascun seminarista, dopo aver acceso il
lume, doveva andare a posarlo sul proprio comodino nel
dormitorio prima di andare a letto. Aveva accettato di fermarvisi
per alleggerire la sua famiglia di una bocca da sfamare e perchè
con la sua salute piuttosto cagionevole vedeva il sacrificio
compensato da un avvenire migliore.
Il suo pensiero andava spesso ai genitori lontani e ai suoi
fratelli che non vedeva da tanto tempo. Sembrava invece vicino il
giorno in cui era arrivato al paese.
Il suo accento dialettale e il suo latino erano linguaggi
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incomprensibili a quella povera gente, cionostante era entrato in
quella piccola comunità da rispettato protagonista.
Ogni domenica per celebrare la messa indossava pianeta e
stola di diversi colori: rosso per i martiri, verde per i confessori
della chiesa, viola per la settimana di passione, nero per i morti,
bianco e oro per le solennità. Ritto sui gradini dell’altare, a
braccia aperte o incrociate sul petto, si voltava, si inginocchiava,
s’inchinava. I chierichetti spostavano il messale sull’altare ora a
destra ora a sinistra, suonavano il campanello, porgevano
bianche pezzuole. Gli ori rilucevano al lume delle candele e il
profumo dell’incenso mitigava quello di sudore dei fedeli. Due
cartelli appesi al muro dicevano a grandi lettere: “Silenzio” e
“Non si sputa per terra”.
Solo le funzioni religiose a quel tempo distinguevano la
domenica dai giorni feriali. Il sabato pomeriggio le campane
davano i doppi chiocchi a festa e quello scampanio creava un
senso di sollievo al pensiero di un giorno di riposo.
Rimanevano però sempre impegni inderogabili; così il ragazzo
di turno, all’alba suonava il corno per chiedere di aprire le stalle
e far uscire le pecore che dovevano essere condotte al pascolo sul
monte, gli uomini riparavano il tetto o le botti, le donne
cuocevano un pane di grano, rammendavano sacchi e filavano la
lana.
In quel tempo era da considerarsi fortunato colui che
possedeva una pecora nera. Questa doveva esser ben custodita
perchè con la sua lana si potevano confezionare abiti da lutto.
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A quel tempo era usanza un mese di lutto per un parente, un
anno per i genitori e tutta la vita al marito; di lutto in lutto, le
donne finivano con l’esser sempre vestite di nero.
Durante le lunghe ore della giornata, il prete soleva recarsi
col suo breviario sul sagrato della chiesa. Questa era rivolta a sud
e sorgeva su un alto muro quasi a strapiombo sui campi.
Del resto, per tutto il paese, i muri delle case creavano un alto
recinto interrotto solo da due archi per l’accesso o l’uscita.
Su quell’altura lo sguardo spaziava, dall’Appennino alle Alpi,
giù per i dorsali sino alla Magra. I castagni dai colori mutevoli
con le stagioni, coprivano come un manto le colline a nord,
mentre a levante, degradavano verso la piana gli argentei ulivi.
Molto più lontano una chiostra di monti dalla vegetazione
indistinguibile chiudeva l’orizzonte.
La mente del prete passava oltre quelle cime e volava verso
terre lontane.
Aveva spesso provato a desiderare per sè una vita diversa, una
famiglia tutta sua, una donna, dei figli, il calore di un focolare.
Lontano, in un luogo dove nessuno lo conosceva, il tempo,
facendogli ricrescere i capelli, avrebbe cancellato la tonsura.
Provava a immaginare la sua partenza anzi, la sua fuga, ma poi
entrava in chiesa e l’immagine del Cristo Patiens sulla croce lo
faceva vergognare dei suoi sogni.
E così gli anni si erano susseguiti, tutti uguali, con la sola
eccezione di qualche notizia dalla sua famiglia lontana.
Nel paese i giovani, diventati ormai vecchi, narravano ancora,
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in veglia, della loro partecipazione alla presa di Caporetto, del
monte Grappa e del passaggio del Piave, quando un brutto giorno
arrivò il postino con la cartolina di precetto per i giovani e
quella di richiamo per gli adulti: era scoppiata una seconda
guerra mondiale.
Divise straniere occuparono il paesino, dichiarato zona di
rastrellamento, e il prete fu il primo a essere rinchiuso in una
stanza dalle finestre inchiodate.
La miseria aveva ceduto allora il posto alla fame ed erano
arrivati i Cavalieri dell’Apocalisse.
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LA BAMBINA
La bambina aveva rincorso il mercante che si
allontanava con le pecore che il padre gli aveva
appena venduto. Era sempre stata lei a condurle al
pascolo e quindi andava a rivendicare la sua bendiga. La bimba
non sapeva che il termine significava “Dio ti benedica”, ma felice
intascava il cavrin, e poco le importava che il soldo avesse preso
il nome dal conte di Cavour che ne aveva voluto il conio;
conosceva invece il valore del”cavurino” che le avrebbe
consentito di comprarsi alla fiera del paese un torroncino o una
scatoletta di liquirizie.
Per la festa del patrono, sulla piazzetta del paese e sul sagrato
comparivano gli ambulanti con le loro bancarelle; i vecchi si
compravano gli occhiali dopo averli ben provati, le donne un
velo nuovo per coprirsi il capo in chiesa, gli uomini il lattonzo
che, a loro parere, promettesse di diventare bello grasso e infine i
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bambini adocchiavano le stecche di zucchero colorate.
Non esisteva una bancarella con le bambole e la bambina se
ne era cucita una con degli stracci mentre pascolava il gregge.
La mattina andava a scuola nella pluriclasse del paese e con
vivo interesse e impegno aveva letto e imparato a memoria tutto
quanto c’era scritto nel libro, ma, giunta alla fine della terza
classe, solo ai suoi fratelli maschi era stato consentito di
frequentare la quarta e la quinta nel paese vicino; a lei, con
grande rammarico, era toccato di seguire le sorelle maggiori nel
lavoro dei campi.
Era una bella bambina dai capelli neri inanellati, era operosa
e intelligente, così, fin da piccola, le avevano accollato diverse
responsabilità; tenere le vacche lontane dall’erba medica e dal
trifoglio che, se lo avessero mangiato, si sarebbero gonfiate fino a
scoppiare; fare attenzione alle pecore che, se una fosse caduta
dal dirupo, le altre l’avrebbero seguita, riguardarsi dagli
sconosciuti e vagabondi che poteva incontrare nei campi; portare
a casa, la sera, legna per il fuoco e erba per i conigli.
La sua giornata era ritmata dal suono delle campane e a
queste faceva riferimento per alzarsi, mangiare e far ritorno a
casa con il gregge.
In Lunigiana le campane hanno sempre avuto un ruolo
speciale nell’informazione per chi le sa capire.
L’Angelus del mattino suona avanti dì per la sveglia, a
mezzogiorno la pausa per il desinare, quello della sera il ritorno
dai campi. Il sabato annunciano coi doppi chiocchi a festa la
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domenica e, prima di ogni messa, chiocchi e chiocchetti quando il
prete sale i gradini dell’altare. Ci sono poi i rintocchi a morto,
diversi da uomo a donna, l’allarme per una disgrazia, e infine,
usanza unica al mondo, lo scampanio a festa per la morte di un
bambino. Povera consolazione per una madre che crede così di
aver partorito un angelo.
E la bambina lo aveva visto, falciato dalla spagnola, un piccolo
angelo uscire dalla sua casa per essere sepolto con gli altri
bambini in un apposito angolo del cimitero.
La bambina crescendo si faceva sempre più bella e i suoi
coetanei l’invitavano al ballo e le facevano le serenate. I genitori
avrebbero voluto accasarla con un proprietario terriero di
Cassiolana che l’aveva chiesta in sposa, ma la ragazzina fuggiva
dalla porta dell’orto, quando questi arrivava, per non doverlo
incontrare. Ella non avrebbe mai acconsentito a sposare un
contadino nè tantomeno vivere in un paese di campagna.
Crescendo nel paese, aveva potuto sentire, poco a poco, quasi
impalpabile, avvolgerla un malcelato odio, forse dettato da
antichi rancori familiari o di faida, perciò, per il motivo inverso
a chi al paese era venuto da fuori, guardava alla cerchia dei
monti con un desiderio, sempre nuovo e forte, di fuga.
Nei giorni di festa, mentre la processione si snodava per la
stradina del paese, il suo sguardo era attratto dal gruppo di
uomini che anticipavano il baldacchino sotto il quale procedeva
il prete con l’ostensorio levato in alto. Gli appartenenti alla
confraternita del S.S. Sacramento, indossando una lunga cappa
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bianca legata in vita con un gran cordone, la mantellina rossa
sulle spalle, con grandi lanternoni accesi, aprivano il corteo.
La brillantina faceva rilucere i loro capelli. Gli sguardi dei
giovani incrociandosi portavano messaggi, ma lontano la
portavano i suoi desideri e altrove ella volgeva gli occhi.
Una mattina la ragazzina non aveva potuto alzarsi dal letto.
Una febbre altissima le bruciava le guance. Il medico non poteva
essere chiamato perchè mancavano i soldi; solo nei casi gravi
veniva chiamato il veterinario, che un animale valeva, per quella
povera gente, più di un cristiano.
Erano venute le esperte del paese che con la moneta d’argento
segnavano la torta e la risipola e col bianco dell’uovo
ingessavano le bende. Col chinino avevano calmato la febbre ma
la ragazzina non si era ripresa...
Ancora, dal suo letto, guardava verso quei monti che non
aveva potuto valicare, sognava la città tanto desiderata, vista solo
in cartolina, e il mare che qualcuno le aveva descritto grande e
azzurro come un cielo.
I suoi sogni rimasero con lei sotto un vestito bianco da piccola
sposa.
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LAURINA
Su l terrazzino prospiciente la piazzetta, Laurina sedeva,
come d’abitudine, in ogni pomeriggio della buona
stagione e da lì osservava il viavai delle persone che
animava il paese. Durante il giorno solo i ragazzini si
rincorrevano sull’acciottolato, qualche gatto vagava annusando
qua e là, i cani rimanevano sdraiati all’ombra del portico,
qualche gallina uscita dal pollaio razzolava alla ricerca del
chicco sfuggito dai sacchi.
La passiflora sul muro di fronte era già fiorita; la sua corolla
di petali bianchi circondava chiodi e corona di spine, simboli
della passione. Anche il melograno, simbolo di prosperità,
mostrava i suoi fiori oltre il muro del castello. Una bena già
carica di attrezzi, nell’angolo della piazza, stava per essere
aggiogata. Lontano, dai campi , arrivava il canto del cuculo.
Armida pensava che presto sarebbero arrivati gli stornellatori
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a cantar maggio. Sul balconcino nei barattoli della conserva il
basilico era già alto; sui gerani tutti in fiore ronzavano le api.
Di fronte alla sua si ergeva una casa gentilizia. Sotto l’arco,
un pilastro portava la data del 1114. L’incisione era stata fatta
con cura e scavata arretrata sulla superficie della pietra per non
consentirne l’usura alle intemperie.
Una potente famiglia, in secoli precedenti era venuta a
stabilirvisi. Dalle eleganti bifore, orlate di marmi, ogni tanto
appariva un viso coronato di capelli bianchi raccolti dietro la
nuca. La signora era venuta in sposa diversi anni addietro e ora,
rimasta vedova, viveva in riserbo e dignità.
Anch’ella, come Armida, non aveva conosciuto la gioia della
maternità.
I bambini si rincorrevano ancora sulla piazza e già qualche
donna appariva con la secchia appoggiata, sopra al renchingolo,
sul capo per andare alla fontana ad attinger acqua per il
desinare. Armida era contenta; lei era tornata ricca dall’America
e poteva permettersi di restare comoda e riposata sul balcone,
mentre una domestica provvedeva alla bisogna.
Non che fosse del tutto felice, perchè la mancanza di figli
metteva in crisi il suo matrimonio e la sua sterilità la faceva
sentire una donna menomata.
Spesso le venivano a raccontare che il marito era stato visto
ora con questa, ora con un’altra donna e la gelosia la
tormentava. Anzi, era la fedele domestica a provvedere di tenerla
aggiornata sugli spostamenti quotidiani del marito e delle sue
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scappatelle.
La sera, quando il marito tornava dal lavoro dei campi, sulla
piazza risuonava l’eco dei loro alterchi e spesso le urla della
donna stavano a testimoniare il dolore per le botte ricevute.
Durante il giorno, stando al balcone, quando Armida vedeva
passare le presunte rivali, le apostrofava con ira, e gli insulti e le
urla riempivano l’aria.
I litigi erano assai frequenti e nessuno ormai si meravigliava
più di tanto.
Un giorno la portatrice d’acqua, che non era sposata, aveva
cominciato a incedere nella piazza con un’andatura chiaramente
da donna incinta, anzi, quasi a esibizione della propria
gravidanza, soleva passare più volte, senza motivo apparente,
sotto il balconcino della padrona dalla quale aveva smesso di
lavorare.
Armida, insospettita per le menzogne subite e per
l’atteggiamento ormai del tutto strafottente della fantesca
gravida, preso il binocolo che aveva portato dall’America, dal
retro della casa, aveva cominciato a perlustrare il panorama e,
spaziando nella valle, aveva visto una cosa che l’aveva resa certa
della tresca e della ottenuta paternità del marito.
Quando l’uomo era rientrato in casa il litigio era scoppiato
violento come non mai. Le orecchie del paese si erano tese e
occhi indiscreti dietro gli infissi avevano spiato il balconcino.
Sulla piazzetta, buia e deserta, si avvertiva l’incombere di un
dramma. Come in una rappresentazione tragica le urla disperate
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della donna erano cessate di colpo quando si erano sentite
fronare le molli.
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ANNA MARIA
Ic ancelli della tomba di famiglia, chiudendosi dietro ad
Anna Maria, avevano concluso l’ultimo capitolo di una
grande dinastia antica di cinquecento anni. L’oblò,
colorato dallo stemma dei Medici di Lunigiana, lasciava
penetrare i raggi del sole che, durante il corso della giornata,
scorrendo sulle lapidi, andavano ad illuminare, uno dopo l’altro,
i volti dei componenti la nobile famiglia ormai riunita nel sonno
della morte.
Dal cimiterino sulla collina, volgendo il capo a occidente, si
poteva vedere il castello che era stata la dimora di questa
dinastia ormai estinta.
Il maniero, l’antichissima reggia degli Obertenghi, dopo il
900 era passato al marchese Adalberto I di Toscana; nel 1000 da
possedimento estense a feudo dei Malaspina, finchè, sotto
l’egemonia fiorentina, la rocca, rimaneggiata a palazzo signorile,
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era stata scelta quale residenza dei Medici di Lunigiana. Nel
salone del castello il frontespizio del grande camino recava
ancora un’incisione: “ANNIBAL MEDICES 1540 FECIT”.
Nel giardino pensile, a nord del castello, si intravvedevano
ancora i resti di un mastio gravemente degradato. Anche il
palazzo appariva trascurato e del tutto deserto. Chiuse le
imposte, niente fiori nei vasi della terrazza, non più il tubare dei
bianchi piccioni o il latrare dei cani da guardia. Solo nel trompe
l’oeil dipinto sotto la gronda del tetto era rimasta visibile
l’immagine di un gatto bianco sul davanzale di una finestra.
La rosa tea che saliva dal giardino al grande terrazzo non c’era
più, così pure, da tempo, erano seccati il melograno, il nespolo, le
due palme e la magnolia.
Il tempo e la morte avevano cancellato ormai ogni forma di
vita.
Rimaneva solo nel ricordo l’immagine di lei, Anna Maria,
quando ancora bambina con le treccine legate dal fiocco, gli
occhi vivaci ed un sorriso sempre allegro, scappava all’aperto
dopo le lezioni che la famiglia le imponeva.
Nel salotto rosso, durante quelle di pianoforte, dal ritratto a
olio, la nonna marchesa vigilava austera sulla nipote che tentava
ogni espediente per sfuggire alla maestra chiamata apposta per
lei dalla città vicina.
Anna Maria era nata secondogenita al fratello, che avrebbe
ereditato, come era sempre stato in uso nella sua famiglia, nome
e proprietà.
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La potente famiglia marchionale, ricca di vasti possedimenti
terrieri, usava lasciare indiviso il patrimonio famigliare, per cui
la bimba, crescendo, avrebbe difeso sicuramente i propri diritti,
rompendo la tradizione, se una morte prematura non avesse
falciato la giovane vita del fratello.
Anna Maria non era particolarmente bella, ma certo sapeva
essere gentile e simpatica. Il latino e la letteratura non le
andavano molto a genio, ma da una nonna maestra e soprattutto
dalla madre aveva ricevuto una buona educazione.
Alla morte del primogenito la famiglia aveva cessato ogni
rapporto col bel mondo che era usa frequentare, si era chiusa in
un lutto inconsolabile e lentamente aveva cominciato a isolarsi.
Solo lei, piccola e vivace, possedeva una gran voglia di vivere e
trovava sempre ogni pretesto per correre dove si festeggiava. Alle
sagre di paese, ai balli sotto la pergola o sulle aie la si poteva
vedere allegramente confusa tra i suoi contadini.
Molti furono i pretendenti alla sua mano: blasonati e plebei,
ricchi e poveri, professori universitari e modesti ambulanti. Ella
aveva sempre respinto ogni proposta e non si era mai capito cosa
l’avesse indotta ad avviarsi ad una vita solitaria senza volersi
costruire, come di consuetudine, una famiglia.
Rimaneva il ricordo del tichettio veloce di piccoli piedi, molto
spesso modestamente calzati da zoccoli come solevano fare le
donne del paese, nella penombra delle grandi stanze o nello
scaleo mentre usciva sulla piazzetta del paese.
Il suo paese. Non volle mai allontanarsene. Non ci furono
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viaggi, crociere o altri luoghi che avessero potuto attrarla.
Era stata una creatura semplice; modesta nel vivere e nel
vestire e questo faceva sì che gente ignorante, usa ad esibire
ricchezze e blasoni del tutto inesistenti, tentasse di sminuirla e
soprattutto criticarla per le sue scelte.
Con tutti si dimostrava socievole, ma sapeva anche imporsi su
coloro che tentavano di mancarle di rispetto.
Anna Maria rivelava la sua discendenza marchionale,
abituata al comando, quando, contrariata, nei suoi occhi neri
accendeva uno sguardo duro e prepotente.
Trascorso il tempo della giovinezza, nell’età matura, senza
mai lagnarsi, dopo la morte del padre, aveva accudito a lungo la
madre con grande dedizione e rispetto.
E i giorni erano scorsi; erano passati i mesi e gli anni nel
castello silenzioso e ormai vuoto. Dalle cornici, i suoi avi
continuavano a vegliare: la marchesa dallo sguardo altero, un
generale in divisa carico di medaglie, il giovane fratello dallo
sguardo dolce e sorridente.
Nella camera nuziale dei suoi genitori delicate tende di tulle
ricamato erano diventate ogni giorno più fragili; gli stemmi
scolpiti sui mobili sempre più coperti dalla polvere, gli orologi
fermi, le pendole silenziose, gli arredi stinti.
I grandi corredi di lino ricamati, i gioielli di famiglia, le
posaterie d’argento e le stoviglie d’epoca erano chiusi negli
armadi e inutilizzati.
Anna Maria ormai si accingeva a concludere l’ultimo capitolo
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della storia della sua famiglia consapevole che non avendo figli
propri e non ritenendo alcuno degno di assumere il suo antico
nome, questo si sarebbe estinto.
Della sua grande solitudine, nelle lunghe notti silenziose e
forse anche paurose, nel vuoto castello, mai nulla aveva lasciato
trapelare.
Forse in gioventù qualche amante l’aveva raggiunta da uno
dei tanti ingressi del palazzo, forse molti, oppure nessuno. Certo
si era vociferato spesso di incontri amorosi notturni ma nessuno
lo aveva potuto mai affermare con certezza.
Forse nel piccolo nascondiglio, così impensabile da passare
inosservato, sarebbero rimaste per sempre nascoste le sue cose
più care, come i primi bigliettini del suo biondo amore dagli
occhi azzurri, e forse alcuni tra i suoi più bei gioielli che in
seguito non furono mai più ritrovati.
Anna Maria aveva preso coscienza da tempo che ogni suo
avere sarebbe andato disperso e che per lei sarebbe bastato ormai
l’ultimo posto nella tomba di famiglia, per cui, lentamente, aveva
cominciato a disinteressarsi delle sue proprietà. Passati gli anni
degli amorosi sensi era vissuta sempre più innamorata della
propria casa, del suo paese, dei suoi animali, quasi ignara dello
stato di abbandono delle proprie cose e del grande nome che
portava.
Il tempo scorreva inesorabile mentre si protendeva verso di
lei il suo amaro destino.
Nessuno capì lo stato d’animo dei suoi ultimi giorni perchè,
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com’era suo costume, ella non aveva mai gridato apertamente al
vento la disperazione e il dolore che provava. Non potendo più
difendersi dall’inelluttabilita` del fato, aveva ceduto al male
incurabile in un tormento di sentimenti.
Quando infine la malattia l’aveva condotta alla morte e la sua
salma era rientrata al castello, improvvisamente i suoi cani,
quasi in segno di rispetto, avevano taciuto e quando ne era uscita
per le esequie, latrando all’unisono affacciati al grande balcone,
parvero salutarla per l’ultima volta.
Anna Maria riposa ormai tra i suoi e i raggi del sole, nel
volger del giorno, scorrono sugli antichi ritratti come seguendo l’
ordine del tempo, sin quando al tramonto sfiorando il viso di lei,
l’ultima della grande famiglia, si spengono dietro i monti.
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LA SERVA
St ava seduta su una sedia e alla luce di una lampada
cercava di specchiarsi nei vetri della finestra che,
chiusa sul buio della notte, le rimandava l’immagine di
una brutta vecchia grassa. Aveva tirato una lunga boccata di vino
dalla bottiglia e aveva considerato che finalmente avrebbe potuto
adornarsi dei gioielli che, sino a pochi giorni prima, poteva solo
guardare, e da lontano.
Era andata a prendere la scatola che la famiglia costudiva
dietro l’antica cassapanca nel salone in un buco del muro.
L’aveva aperta e per un poco era rimasta in soggezione davanti
alle gioie che brillavano nei loro castoni, poi con circospezione e
avidità, vi aveva affondato le mani e aveva cominciato a provarsi
le parures: zaffiri, rubini, diamanti…
Erano suoi! Certo avrebbe dovuto dividerli, ma ben sapeva
che da sola non sarebbe mai riuscita ad impossessarsene, così
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aveva accettato l’aiuto di un complice che era riuscito a
completare il raggiro del padrone ormai defunto.
Nella notte attorno a lei nella grande casa si sentiva solo lo
scandire delle ore dal pendolo nell’anticamera. Attraverso i vetri
solo l’oscurità della notte e un gran silenzio. Aveva continuato a
infilarsi gli anelli tenendo le mani discoste per meglio ammirarli
e intanto non aveva potuto fare a meno di constatare come le sue
dita fossero rovinate. Povere mani sformate dai troppi bucati
nell’acqua fredda, mani use alla scopa, alla vanga, ai rovi. I
geloni avevano lasciato il segno; comparivano a novembre e
andavano via con l’acqua di maggio. Mani che avevano sempre
lavorato; piccole mani che lavavano i piatti nella grande casa
dove la sua famiglia l’aveva mandata per serva a pochi anni;
piccole mani che pulivano i tanti pavimenti e i molti camini,
mani che erano cresciute svuotando i vasi da notte e i secchielli
dei lavamani delle camere da letto.
Mentre le donne della grande casa restavano a poltrire nei
caldi letti dai materassi di lana, lei aveva dovuto riposare le
poche ore su freddi giacigli di crine; crescendo con poco cibo e
niente affetto, aveva covato anche una certa invidia verso i
padroni e rabbia per la sua cattiva sorte.
A lei si rivolgevano sempre con arroganza, le erano state
addossate colpe che non aveva, e talvolta aveva ricevuto anche
delle botte dalle signore di casa.
Erano trascorsi gli anni e lei si era ritrovata da adulta a
vecchia. Aveva continuato a vivere nella grande casa, perchè così
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aveva voluto il suo destino, il destino delle serve che muoiono
nella casa dove hanno servito.
A poco a poco i visi austeri che la controllavano mentre
svolgeva il suo umile lavoro avevano finito con l’osservarla solo
dalle cornici appese ai muri. Erano facce sempre molto serie,
talvolta dignitose, ma con sguardi autoritari.
Con piacere si era indotta a pensare che, per sua fortuna, i
suoi padroni erano ormai tutti morti. Uno ad uno se ne erano
andati dopo essere stati deposti nella bara ed esposti nel salone
all’omaggio dei notabili del circondario e del piccolo volgo.
Questa era l’usanza e dal grande salone, durante la veglia
funebre, nella notte, si sentivano recitare rosari e giaculatorie
dalle persone che vegliavano accanto al catafalco; gli specchi del
palazzo venivano velati, gli orologi fermati, le finestre socchiuse,
la porta d’ingresso spalancata alle visite di circostanza.
La serva era rimasta sola nella grande casa: il portone chiuso
e la bottiglia tra le mani ingioiellate per ubriacarsi in pace. I suoi
padroni se ne erano andati, uno ad uno, ma lei era sopravvissuta.
Così aveva pensato mentre aveva portato la bottiglia alla bocca e
continuato a tracannare quel vino che da sempre le era stato
misurato; anzi a lei era toccato solo il vino di botte e mai quel
buon spumante e biondo vermentino riservato ai padroni e ai
loro ospiti. Ora le bottiglie nere con lo stemma della famiglia
fuso nel vetro sarebbero state tutte sue. Aveva già cominciato a
vuotarle; infatti, non riuscendo più a specchiarsi distintamente
nei vetri della finestra, aveva cominciato ad osservare con
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attenzione, ora che era sua, la grande casa e solo ora aveva
notato come stesse per cadere a pezzi grazie all’incuria dei suoi
proprietari che l’avevano sempre trascurata.
Di padre in figlio mai nessuno aveva riparato il tetto,
sostituito un vetro alle finestre, imbiancato una stanza.
Tutti sapevano che la grande famiglia si sarebbe estinta,
anche i suoi padroni, e forse era stato per questo che avevano
cominciato a disinteressarsi di ogni proprietà.
I detti dei vecchi trovano sempre puntualmente riscontro e di
quel casato si era sempre detto che non sarebbe scampato alla
malasorte. Un loro antenato, sconsacrando una chiesa, aveva
avviato la maledizione sulla famiglia che da quel momento aveva
cominciato a estirparsi con tragici lutti.
Lei l’aveva constatato, e, mentre beveva, aveva continuato a
rimirarsi riflessa nei vetri provando coralli e granati.
Ormai erano suoi e così pure i bei mobili che aveva spolverato
da sempre sotto gli occhi superbi delle nobildonne. I gioielli che
ora aveva in mano, in altri tempi, li aveva visti da vicino
solamente quando andava a servire le signore a tavola durante i
pranzi di circostanza; a lei non era stato mai consentito toccarli e
nemmeno le era dato sapere dove venivano riposti.
E quanto al cibo, ricordava molto bene come ospiti e padroni
si rimpinzassero e per lei spesso non rimanesse nulla o le venisse
concesso di mangiare un uovo.
Certamente nella sua famiglia di origine non stavano meglio;
si raccontava di un suo fratellino di tre anni che, nudo su un
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albero di fichi, per potersi sfamare, ne mangiava con tutta la
buccia, maturi e acerbi, fin dove arrivava a raccoglierli.
Con gli anni le era stato concesso, dopo aver servito i
commensali, di sedere a tavola, un pò in disparte, e questa le era
parsa una conquista sociale.
La pendola in anticamera aveva continuato a scandire il
tempo e lei a bere.
Il lugubre verso della ciuetta l’aveva riscossa e le aveva
snebbiato un poco la mente riportandola alla realtà.
L’uccello del malaugurio si avvicinava sempre attratto
dall’odore di morte. Questa volta era venuto per il suo padrone,
l’ultimo della grande famiglia, che, disgraziatamente per lui,
gravemente malato, era stato da lei obbligato a lasciarla erede di
ogni suo bene. Da quel momento, serva ormai padrona, aveva
potuto infierire su di lui con ogni tipo di umiliazione e per
ultima grave ingiuria, nel grande palazzo, niente catafalco nel
salone, nè visite o veglia funebre; la povera salma era stata
collocata al buio in una stanza chiusa a chiave in attesa della
sepoltura.
Il verso della ciuetta si era fatto più distinto e il silenzio nella
casa era parso ancor più profondo. Ora la serva aveva
cominciato a sentire, oltre al tichettio del pendolo in anticamera,
un lieve frusciare sullo scaleo che portava in giardino.
Ripensando a quanti avevano assicurato che in passato molti
membri della famglia si fossero rivisti in castello e nel salone
accanto al camino, cominciò ora anche lei a vedere le ombre
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degli antichi defunti sfilarle davanti agli occhi, come in una lenta
processione, per recarsi a vegliare, con l’orgoglio e la dignità del
casato, l’ultimo dei loro congiunti.
Nessuno di loro l’aveva degnata.
In un crescendo di sensazioni e terrore per quel che le era
apparso, la serva aveva capito che, da quel momento, assieme
alle ricchezze, la maledizione della famiglia era passata su di lei.
Per chi aveva usurpato quei beni non ci sarebbero mai stati
discendenti.
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L’INFAME
Un a calura insopportabile avvolgeva il paese che
pareva intorpidito. Mentre i contadini nei campi si
concedevano una breve sosta prima di riprendere il
lavoro, le poche persone che erano rimaste in paese cercavano
un pò di refrigerio nell’ombra degli anditi o sotto le volte del
vicolo. I gatti sonnecchiavano all’ombra, i cani si mordevano le
pulci. Solo i bambini, incuranti del caldo, si rincorrevano
vociando sulla piazzetta del paese. Le loro grida festose
ricordavano quelle delle rondini, quando in primavera,
tornavano ai vecchi nidi sotto la gronda del tetto del castello.
Il portale della chiesa era aperto; in fondo, a fianco
dell’altare, un lume sempre acceso davanti al S.S.Sacramento
rischiarava la semioscurità della navata. I Santi, dalle loro
cornici, osservavano impassibili il riflesso colorato che il sole
disegnava, attraverso le vetrate, sul pavimento della chiesa.
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Lui stava rannicchiato nel buio del confessionale, le tendine
un pò accostate, lo sguardo attento del felino, mentre, attraverso
la porta della chiesa, continuava ad osservare un gruppo di
bambini che si rincorrevano festosi.
Dapprima aveva cercato di resistere a certi ignobili pensieri
che ormai affollavano quotidianamente la sua mente, aveva
anche tentato di chiudere gli occhi per non guardare, ma il
vociare dei fanciulli era un richiamo così allettante che non
aveva potuto resistervi, così aveva ripreso ad osservarli.
Si era nascosto nell’ombra per poter facilmente ricreare
eccitanti ricordi; un ossessivo desiderio l’aveva portato ad
appostarsi, ancora, come un animale, in attesa della preda.
Aveva un aspetto piacevole e l’espressione sorridente; non
guardava mai negli occhi il proprio interlocutore. Era diventato
esperto a nascondere le sue brame ed anche terrorizzato che
qualcuno potesse leggere i suoi pensieri.
Da sempre era sembrato un diverso, anche se non si sarebbe
potuto spiegarne la ragione; per parte sua, crescendo aveva
lottatto per essere normale, aveva cercato di fare quello che
facevano gli altri bambini e quando infine aveva preso una
decisione per la sua vita, un conoscente gli aveva espresso la
propria sorpresa e incredulità per la scelta che aveva fatto.
Lo gratificava essere protagonista ed era conscio di avere un
bell’aspetto. Sapeva, anche, come ipocritamente convincere le
persone per ottenere cose che potevano fargli comodo, e come
circuire le giovani donne lusingate dalle sue attenzioni.
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Aveva ignorato ogni scrupolo morale e aveva ottenuto
facilmente favori femminili; spesso erano le donne stesse che gli
si concedevano felici nel ritenersi prescelte.
Un giorno aveva passato un brutto momento quando era stato
scoperto in un luogo e con una persona proibiti per lui ma poi
tutto era stato ignorato e, in ogni modo, la sua vita era scorsa
come se niente fosse accaduto.
Quell’episodio però lo aveva reso prudente, non avrebbe più
dovuto rischiare.
Dalle donne adulte era sceso ad intrallazzare con ragazze
sempre più giovani per poi spostare le sue attenzioni sui
bambini. Aveva cominciato a rimanere più a lungo, anche per
molte ore al giorno, a giocare con loro. Nelle sere d’estate aveva
proposto giochi come il nasconderello, così non si poteva
valutare se, al buio, ne avesse trattenuto uno troppo a lungo tra
le braccia.
Anche adesso che li vedeva correre e ridere avrebbe voluto
essere con loro. Acchiapparli, stringerli a sè…trascinarne uno
nell’ombra…
Un lungo brivido di piacere gli aveva percorso la schiena.
Quelle tenere membra profumate, quelle carni delicate e
morbide…
I rintocchi del campanile lo avevano riportato al presente.
Un refolo di vento faceva leggermente ondeggiare le tovaglie
degli altari; dalla parete, un angelo di marmo col braccio alzato
sembrava minacciarlo.
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Aveva trattenuto il respiro e chiuso gli occhi per la vergogna,
poi si era lasciato andare con la testa abbandonata contro lo
schienale.
Si era rilassato e aveva cercato di ricordare quando fosse stata
la prima volta che era stato assalito dal desiderio di possedere un
bambino: non avrebbe potuto dirlo. Forse era successo quando,
inconsciamente o forse per gioco, ne aveva chiuso uno in una
stanza. Il piccolo era riuscito a scappare ma lui, per un
momento, aveva provato una strana sensazione di possesso e
quasi di piacere. Poi aveva voluto riprovare con un altro
bambino per verificare se avesse potuto ancora assaporare quella
piacevole e strana sensazione della volta precedente; aveva
scoperto così, come fosse facile ed eccitante approffittarsi di una
creatura che fiduciosa, non osa opporsi a quello che crede
semplicemente un gioco.
Aveva anche scoperto che i bambini non si confidano
facilmente con i genitori perchè era ormai passato molto tempo
da quando aveva messo a segno la sua prima infamia e ancora
nessuno lo aveva accusato; comunque, se lo avessero fatto,
pensava che avrebbe potuto facilmente smentire un bambino...
Ricordava spesso gli occhi azzurri di uno di loro che, dopo
una sua carezza, l’aveva guardato intensamente come per
ottenere una spiegazione. Quegli occhi innocenti erano per lui
un tormento che, ostinatamente, cercava di ricacciare in fondo
alla sua abiezione.
Dall’ombra in cui stava nascosto i suoi occhi, sempre avidi,
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continuavano ad osservare i bambini che passavano nello
specchio di luce della porta come un volo di rondini.
L’infame aveva continuato a crogiolarsi nei suoi turpi pensieri
e, come sempre, stava cercando una buona occasione che gli
permettesse di mettere le mani su uno di loro. Non sempre gli
riusciva, troppe volte aveva fallito per l’intervento di qualche
estraneo che inopportunamente gli aveva rovinato l’agguato.
Spesso le stesse madri arrivavano tempestivamente a
riprendersi i piccoli, talvolta un vecchio andava a sedersi sulla
panchina della piazza e passava il tempo intento ad osservare.
Questi, specialmente un vecchio, sarebbe stato un testimone
difficile da ingannare; ben sapeva quanto spesso i suoi stessi
bramosi pensieri erano passati per la mente di un vecchio
maschio.
Improvvisamente, come materializzato dal nulla, il bambino
era apparso davanti a lui. Forse si era distratto e il piccolo era
entrato per giocare a nascondino o forse era già all’interno
prima che lui si fosse nascosto nel confessionale. Il piccolo era
rimasto immobile a guardarlo senza parlare o sorridere.
Sicuramente lo aveva osservato durante tutto il tempo in cui la
sua mente elaborava pensieri infami.
Sembrava che quegli occhi innocenti arrivassero a leggergli
l’inferno che aveva nell’anima.
Non aveva osato toccarlo.
Dopo un tempo che non avrebbe saputo definire ma che gli
era parso senza fine, il bambino aveva puntato un dito contro di
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lui e gli aveva detto: “tu andrai all’inferno”. Poi si era voltato
verso la porta ed era uscito nella luce per associarsi al volo di
rondini dei suoi piccoli amici.
L’infame aveva tremato; le parole del bambino sembravano
evocare quelle del Vangelo sulla macina da mulino da
appendersi al collo per coloro che abusavano dei fanciulli.
L’innocenza l’aveva condannato e gli aveva detto che per lui si
stava preparando una giustizia divina.
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LA MAESTRA
La Maestra aveva vissuto in una grande e solida casa
che sorgeva fuori delle mura del paese. La costruzione
aveva belle inferriate alle finestre del pianterreno e
una ricca ringhiera al balcone centrale del primo piano.
Sopra l’arco di marmo che incorniciava il portale, lo stemma
della famiglia riproduceva le iniziali del parroco, PLG, che aveva
voluto apporvela nei secoli passati. Sulla linea del marcapiano
un’iscrizione latina diceva:”… questa casa sarà alloggio al
pellegrino…” Le parole erano appena percettibili poichè le
lettere incise sulle due fasce di marmo erano molto consunte e la
pietra, negli anni, aveva assunto il colore grigio del resto
dell’intonaco. Nel corso del tempo qualcuno poteva averla notata
e forse non avendo saputo tradurla era stata presto ignorata.
Certo è che un lato della casa era stato ingrandito con le
pietre che i contadini avevano dovuto portare per contribuire
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alla costruzione, anche se non c’è traccia che in seguito, questa
fosse stata mai usata quale alloggio ai pellegrini.
Le genti del contado, la domenica, avanti dì, col lume in
mano, passando a guado il canale per andare ad ascoltare la
prima messa , avevano dovuto raccogliere ciascuno una pietra e
avevano dovuto deporla in un bel mucchio che presto avrebbe
ampliato la costruzione.
Queste poveri cristiani, pur di santificare in qualche modo la
festa, avevano accettato questa ulteriore fatica ben sapendo che
al termine della messa li avrebbe attesi ancora per tutto il giorno
il duro lavoro dei campi. Diversamente da coloro che essendo
meno bisognosi si vestivano dalla festa e andavano alla messa
cantata nella tarda mattinata, questi vestivano gli abiti da tutti i
dì e non possedevano il soldo da mettere nel sacchetto delle
elemosine che il chierichetto a metà messa raccoglieva passando
tra le panche.
Quando la Maestra era venuta sposa al paese, la grande casa
era stata ormai ultimata, gli arredi interni erano ricchi e solidi,
nel sottotetto fioriva una piccola industria di allevamento di
bachi da seta e lei, al pianterreno in una piccola stanza, aveva
cominciato a insegnare ai bimbi.
In seguito, con la proclamazione del regno d’Italia, era stata
costruita una vera scuola con una pluriclasse nella quale
venivano riuniti bambini dalla prima alla terza e spesso erano
stati ammessi anche molti adulti, cosicchè lei , essendo stata la
maestra di tutti, era ormai chiamata unicamente la signora
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Maestra.
Era buona e generosa e il suo unico figlio ne aveva ereditato
l’intelligenza e l’amore verso il prossimo. Ella ne aveva seguito lo
sviluppo intellettivo e lo aveva accudito con dedizione.
Quando bambino si allontanava su per la stradina chiamata la
crosa per andare in collegio prima e all’Università dopo, la
madre usciva fuori dal portoncino della casa a guardarlo salire
verso il santuario sulla sommità della collina e lì il figlio, era uso
salutarla prima di sparire oltre il crinale. Lo aveva visto medico
stimato uscire per andare nelle campagne innevate a curare i
contadini e clinico illustre raggiungere in città il dispensario
antitubercolare che recava il suo nome a lettere cubitali sulla
facciata.
“Mamma…”
Il grido era sceso lungo il crinale sfiorando le cime dei
castagni fino a raggiungere la madre che, come sempre,
immobile sulla soglia della casa guardava il figlio che si
allontanava. Quel grido, quasi un ultimo saluto, aveva
comunicato alla madre il dolore, la disperazione e l’ amore che il
figlio provava in quel momento terribile.
La Maestra sapeva che non lo avrebbe più rivisto!
Nel tempo che precede una tragedia pare che la natura e la
vita si arrestino. Ogni cosa sembrava tacere, un silenzio irreale
sembrava avvolgere la natura. Occhi spaventati avevano spiato
tra le piccole imposte socchiuse; orecchi attenti avevano
ascoltato l’affievolirsi dei passi chiodati del plotone di esecuzione
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dei nazisti che, risalendo la mulattiera, avviava il dottore al luogo
dell’esecuzione. Si intuiva il verificarsi di un crimine, perchè la
fucilazione non veniva effettuata sulla piazza del paese, ma al
riparo delle fronde di un bosco.
A mani giunte la madre era rimasta a guardare il suo unico
figliolo, mentre al centro del plotone di esecuzione saliva su per
la crosa per andare a morire. Mentre si raccomandava alla
Madonna aveva pensato che anche il Figlio Suo aveva dovuto
subire la Crosa e come l’altra Madre anche lei ora avrebbe
dovuto soffrire un immenso dolore.
“Mamma…”
Alla seconda invocazione, sulla sommità della collina, il figlio
si era voltato e si era fermato un attimo a riguardar la madre,
prima di sparire nel folto del bosco, come per attingere da lei la
forza per proseguire sino ai colpi degli spari che gli avrebbero
stroncato la vita.
Sul sagrato antistante la chiesa un gruppo di donne vestite di
nero avevano guardato con occhi impauriti e stravolti
alternativamente la povera madre e il piccolo drappello che si
allontanava su per la crosa.
Nome più appropriato la piccola strada non avrebbe potuto
avere, e la scena pareva apparecchiata per un venerdì santo.
Attraverso le lacrime e la disperazione la madre aveva
continuato a guardare il punto in cui era sparito il figlio.
Le donne vestite di nero avevano allora circondato la madre,
anzi la loro Maestra, che tanti anni prima, era venuta giovane
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sposa da un paese al di là della Civiglia e avevano pianto con lei.
Nel punto in cui il figlio l’aveva invocata per l’ultima volta la
madre aveva piantato una rosa e per lunghi anni, anche dopo la
morte della Maestra, essa aveva continuato a fiorire; pochi
ricordarono e presto dimenticarono il motivo per cui essa era
stata piantata.
Oggi la rosa non c’è più, rivive solo in queste righe a
testimoniare l’amore di una madre.
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GENOVEFFA
“Do v sev stà brut furmigon?” Genoveffa non
aveva dato molto peso alle parole del marito
che pazientemente l’aveva aspettata nella
piazza in fondo al paese. Col suo solito sorriso bonario si era
accostata a lui e, soddisfatta, gli aveva fatto l’elenco delle cose
che aveva appena acquistato con i soldi delle loro pensioni
appena incassate: una sedia a sdraio, un nuovo colapasta,
qualche pacco di biscotti… Il marito si era così reso conto che
per lui in quel mese non ci sarebbe stato piu` un soldo da
spendere.
Da quando lo Stato aveva erogato una piccola pensione
sociale, i vecchi si erano sentiti veramente ricchi e l’uomo poteva
finalmente comprarsi i toscani ed il tabacco da pipa senza dover
fare grossi sacrifici.
Un altro motivo di soddisfazione per Genoveffa era dovuto al
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fatto che al momento della riscossione della pensione lei, con
orgoglio e diversamente dalla maggioranza che soleva firmare
con una croce, aveva saputo apporre la propria firma sul modulo
per la ricevuta.
Dopo l’Unità d’Italia al suo paese era diventato obbligatorio
per i bambini frequentare la scuola sino alla terza classe e per
lei, adulta, imparare a leggere e scrivere era stato un privilegio
dovuto alla generosa maestra dei suoi figli che l’aveva accettata
in classe ancorchè adulta.
Sempre brontolando sul suo libretto della pensione
desolatamente vuoto e ripromettendosi di non consentire più a
Genoveffa di metterci sopra le mani il mese seguente, l’uomo si
era avviato alla mulattiera per tornare a casa.
La moglie lo aveva seguito come sempre, anche se da tempo, il
seguirlo era diventata una normale abitudine e non una
condizione di inferiorità. Per tutta la vita non gli aveva mai
camminato a fianco, sempre un passo indietro.
Quel giorno, mentre il marito la precedeva come al solito, un
passo dietro l’altro con ritmo regolare, ma un pò lento,
Genoveffa si era messa a considerare che il suo uomo era
diventato veramente vecchio: i calzoni un pò sformati
mostravano gambe piuttosto magre, così come la giacca
sembrava un poco ciondolargli dalle spalle ossute.
Era stato sempre un bell’uomo, alto, biondo e forte e lei
l’aveva sempre amato tanto e ne era anche sempre stata gelosa
nei confronti delle altre donne. Un giorno si era anche sentita
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dire da una di loro: “brutta malattia la gilosia Ginoefa…” Anche
ora che era vecchio se lo riguardava con gli occhi innamorati di
sempre.
Era un pò risentita e anche un pò offesa per essere stata
definita da lui brut furmigon; lei lo capiva bene di somigliare ad
una grossa formica nera, ma il sentirselo dire da lui le aveva
procurato un certo malessere.
Da sempre, cioè da quando si era fatta adulta, il solo colore
dei suoi abiti era sempre stato il nero come si conviene alle
donne di Lunigiana dopo maritate, così pure i capelli che da neri,
con gli anni, potevano solo diventare grigi. Bella poi non era
stata mai, forse graziosa, buona, semplice, laboriosa e generosa;
questo sì, e chiunque si fosse rivolto a lei avrebbe dovuto
riconoscerle una grande disponibilità e una rara onestà.
Ora poi con gli anni e le molteplici gravidanze i suoi fianchi
si erano fatti larghi e sformati e quel pò di grazia che aveva
posseduto era sparita.
Genoveffa veniva da una buona famiglia che abitava una casa
di quattro piani con una bella terrazza antistante, un balconcino
sul retro con vista sulla vallata e un’antica meridiana sulla
facciata verso il sole. Quando era stata chiesta in sposa, ne era
stata molto felice, anche se la condizione di mezzadro del suo
futuro marito non lo faceva ritenere adatto alla sua famiglia che
era invece possidente.
Dopo le nozze il suo uomo aveva voluto emigrare nel Nuovo
Messico per far fortuna e ricomprare le proprietà che il suocero
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si era giocate in borsa ed ella lo aveva seguito negli States
dividendo con lui ogni esperienza. A lei era toccato andare in
banca a depositare il denaro, poichè per strada mai sarebbe stata
rapinata e anzi, qualsiasi poliziotto, a manganellate, avrebbe
fatto scendere dal marciapiede il malcapitato che non avesse
ottemperato all’uso di cedere il passo ad una signora, e così in
banca la fila degli uomini, allo sportello, si sarebbe scansata per
far posto a una donna onorata.
Là era nata la prima bambina che, avendo ereditato la
straordinaria bellezza del padre, aveva scatenato il malocchio
dalle altre madri. Là il suo uomo per anni era sceso in miniera e
quando era miracolosamente scampato al grisou, avevano
contato i risparmi e avevano deciso di tornare al paese.
Genoveffa era una moglie felice. Aveva una bella casa con
accanto la stalla e il fienile. L’ovile e il pollaio erano vicino ai due
orti annessi all’aia. Il marito le aveva costruito anche un piccolo
cess che era stato molto invidiato e spesso anche usato dai vicini.
Accanto alla finestrella della grada, usata solo al momento
della raccolta delle castagne, si apriva quella del pozzo e questo
era stato veramente un gran regalo, poichè la fontana era assai
lontana e il marito glielo aveva realizzato per alleviarle qualche
fatica dopo che la casa era stata rallegrata dall’arrivo di altri
sette figli.
Con il denaro faticosamente risparmiato avevano comperato
molti campi e anche una seconda casa che veniva genericamente
definita la cà vecchia.
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In questa erano costudite le scorte alimentari della famiglia:
una stanza con gli scrigni delle granaglie, una con ceci, fagioli,
fave e piselli, ben divisi sul pavimento per qualità, mentre dai
travi pendevano collane di pomodori secchi, agli e cipolle.
Un’altra stanza aveva la frutta appesa ai travi: i fichi secchi nei
grandi sacchetti bianchi, le mele sulle tavole o a fette in collane, i
sacchetti con le noci e le nocciole. Le patate erano distese sul
pavimento di un’altra stanza che conteneva, allineate su tavole
sospese al soffitto, le formagette che Genoveffa preparava e poi
accudiva mentre stagionavano.
Il vino era invece custodito dal marito, il quale provvedeva
anche a travasare l’olio dalla preda di pietra agli orci di
terracotta per evitare che inacidisse.
Mentre seguiva il suo uomo, Genoveffa pensava alla sua vita
trascorsa con lui e considerava che ormai, paragonandosi ai loro
vecchi, pochi anni ancora sarebbero rimasti loro da vivere.
In quanto alla sua figura, Genoveffa rimuginava ancora sul
discorso del marito, sapeva bene di somigliare ormai al furmigon,
non fosse altro che per il suo incedere col corpo un poco obliquo
in avanti, ma sentirselo dire l’aveva proprio offesa.
Presa da questi pensieri, giunta sulla sommità della collina,
Genoveffa si era fermata un momento a riguardare da un lato il
santuario che l’ aveva vista sposa felice, si era segnata e volgendo
il capo al cancello del piccolo cimitero nel quale erano sepolti
ormai tutti i suoi cari, compreso il suo piccolo Emilio morto di
spagnola, con un sospiro che lei stessa non avrebbe saputo
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spiegarsi, aveva oltrepassato il dosso e si era avviata verso la sua
casa pensando che presto, forse molto presto, avrebbe, come
sempre, seguito il suo uomo anche dentro quel cancello.
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ANSELMO
Qu ando rientrava la sera era abituato a passare dal
cadr dell’orto per non sporcare il pavimento della
casa con gli zoccoli infangati. Passava sotto la pergola
davanti alla stalla delle pecore e saliva fin sulla terrazza davanti
alla casa dove sua moglie aveva già preparato per lui la bolia
piena d’acqua. Anselmo si sedeva sullo scalino della porta, si
toglieva gli zoccoli, le pezze dai piedi e li immergeva nell’acqua.
Ritornava da un paese lontano dove si recava avanti dì per fare il
muratore percorrendo a piedi molti chilometri.
Gli zoccoli che calzava li preparava un suo figlio che li
intagliava in un ceppo di cerro e fissava la tomaia, cucita dalla
moglie, con una strisciolina di latta ritagliata dai barattoli della
conserva. L’acqua fresca dava un incredibile sollievo ai suoi
piedi stanchi e, mentre si asciugava, pensava che dopo il piatto di
minestra della cena avrebbe potuto distendersi nel suo letto per
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un breve sonno e troppo presto avrebbe dovuto alzarsi per una
nuova e lunga giornata di lavoro.
L’orario di lavoro era da “sole a sole” e poteva dirsi fortunato
se poi il padrone lo avrebbe pagato. Infatti Anselmo che
possedeva una piana vicino al cimitero, avendogli chiesto la
famiglia del dottore di costruirgli una cappella mortuaria sulla
sua proprietà, aveva addirittura regalato loro la terra sperando
di vedersi almeno pagato il lavoro, ma, trascorsi gli anni,
ciascuno, per ragioni diverse, aveva preferito dimenticare.
Anselmo era un bell’uomo, alto e biondo, ma soprattutto era
forte e molto saggio. Discendeva per parte di madre dai Ventura,
una ricca famiglia proprietaria della casa torre, e dal poeta
Bonaventura Peccini da Panicale che aveva scritto un poema in
versi latini, oggi introvabile.
A causa dei debiti contratti dal padre, che amava giocare in
borsa, diventato mezzadro aveva dovuto lavorare duramente per
mantenere la sua famiglia.
Raramente andava all’unica osteria del paese, perchè il suo
vino era migliore di quello di Sarafin d’ l’ost però, ogni tanto, gli
piaceva andare per ritrovarsi tra uomini e parlare di argomenti
legati alle semine o al governo; stava seduto tra gli altri con la
pipa tra i denti e ascoltava più che parlare.
I suoi abiti erano lisi e sformati ma aveva sempre la camicia
pulita e il gilè abbottonato sotto la giacca. Portava sempre il
cappello, come era in uso all’epoca, e sapeva soprattutto quando
doveva toglierselo.
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Era considerato un uomo educato e riservato e sapeva farsi
rispettare, da potenti e prepotenti. Una volta era riuscito a
disarmare un delinquente che nella notte era entrato nella sua
camera per sgozzarlo con un rasoio e da quel momento Anselmo
l’aveva usato ogni mattina per radersi ringraziando la
provvidenza di averlo lasciato in vita. Ma l’episodio si riferiva al
periodo in cui viveva nel nuovo mondo dove era andato per
guadagnare i soldi per comperarsi una casa e nuova terra dopo
che la sua casa natale, la casa torre, era stata venduta per i debiti
contratti dal padre.
Anselmo rimboccandosi le maniche, aveva acquistato e
ricostruito una vecchia casa ben esposta al sole con una bella
vista verso il santuario e, dopo la morte del padre, aveva accolto
nella propria casa, la madre, i suoi due fratelli e una sorella
ancora nubile. Aveva comprato terre da semina e da foraggio,
vigneti e uliveti sufficienti a mantenere la sua grossa famiglia. In
un suo castagneto di fronte alla casa tre grossi tumuli segnavano
le tombe delle sue vacche morte di malattia e quando i fuochi
fatui danzavano la notte tra quegli alberi, Anselmo pensava alla
grave perdita economica subita e al supplemento di lavoro subito
per comprarne altre.
Le vacche, la mora e la bionda venivano aggiogate e per arare
la terra e per trasportare con la bena e la viola ogni tipo di carico
dai campi. Nella bena potevano trovare posto attrezzi pesanti,
sacchi, botti e fasci di legna mentre sulla viola si potevano
caricare materiali voluminosi che si potevano comprimere come
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foraggi, paglia o fieno.
Anselmo amava la sua casa e i suoi campi.
Nelle sere di maggio sedeva sulla terrazza e restava a
guardare nel buio le lucciole che silenziose animavano la notte
oppure si perdeva ad ascoltare l’unisono dei grilli o il gracidare
dei rospi. Al tramonto guardava le rondini che volavono alte nel
cielo a significare il bel tempo e, quando queste volavano basse,
Anselmo si preparava un lavoro al coperto per l’indomani. Egli
amava tutti gli animali fuorchè le cicale che, di giorno, con il
loro frinire parevano aumentare la calura dell’estate.
D’inverno, quando la terra dormiva, andava dove era
chiamato a fare opere di muratura nelle quali era molto bravo.
Era altrettanto ricercato per conciare le carni di maiale che, sotto
le sue mani, diventavano salami, salsicce e prosciutti. Accudiva
personalmente anche alla sua cantina; sapeva quanto doveva
durare la fermentazione del mosto, prima di svinare, a seconda
della temperarura e del grado di maturazione dell’uva.
Nessuno l’aveva mai sentito cantare, neppure da giovane e
anche il suo conversare era raro. Poteva all’occorrenza
intervenire per dare un consiglio o fare qualche esclamazione di
disappunto per un lavoro fatto male, ma niente più.
L’espressione del suo viso era molto seria e gli occhi
impenetrabili per cui istintivamente i figli crescevano rispettosi
ed educati e gli estranei gli usavano molto riguardo. Se nella casa
regnava la moglie, lui era il padrone della cantina: due grosse
botti su pilastri servivano per la pigiatura dell’uva e nell’angolo
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lo strengin era pronto coi suoi fiscoli impilati e puliti; due brevi
scalini portavano alla cantina sotterranea dove da un lato erano
allineate le botticelle col vino a maturare e la spina innestata a
quello che man mano veniva vuotato, mentre dall’altro lato
erano allineate le damigiane col loro bel barattolo capovolto sul
tappo a difesa dai topi. Molte bottiglie nere di vino spumante
erano nelle loro rastrelliere e in un angolo c’erano prede di
pietra piene d’olio coperte da una tavola su cui posava una
grossa pietra. Anselmo amava il vino e non beveva mai liquori;
anzi a quel tempo il solo liquore conosciuto era il cognac, e
semmai che ce ne fosse stato in casa, sarebbe servito soltanto a
rinfrancare un malato; questo perchè la povertà di quel tempo
non avrebbe mai permesso a nessuno di comperarne anche solo
una piccola bottiglia.
Anselmo ricordava spesso, ai figli e ai nipoti, quando nella sua
infanzia non si giocava a biglie, ma coi tappi da birra, e chi
perdeva pagava i debiti la sera a cucchiai di minestra e come
puntualmente il vincente si presentasse a riscuotere.
La salute di Anselmo era sempre stata buona, anzi amava dire
che per lui tutti i dottori potevano anche morire di fame, perchè
nella sua vita non ne aveva avuto mai bisogno, e così era stato
sino al momento in cui aveva cominciato, durante il giorno, a
restare seduto a lungo e in silenzio. Gli occhi sembravano
guardare lontano; forse pensava alla sua trascorsa gioventù
oppure al duro lavoro in miniera, nessuno sapeva perchè
Anselmo non amava parlarne.
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Talvolta teneva gli occhi chiusi fingendo forse di dormire e
spesso pareva assopito. Un giorno una vecchia del paese
osservandolo, con un sospiro rassegnato, presagì per lui
“durmindo murindo”; la sua ora era vicina.
Era stato chiamato il dottore che, con un grosso spillone, gli
aveva bucato le piante dei piedi per sincerarsi che fosse morto,
ma Anselmo non lo aveva potuto vedere nè soffrire perchè era
già andato a raggiungere i suoi vecchi nel piccolo cimitero sulla
collina.
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LAURA
Il carro funebre sostava davanti al grande portale. La bara
aveva disceso lo scaleo in marmo, aveva traversato l’atrio
ed era stata deposta dentro il carro. Un tappeto di gerbere
bianche con lunghi bianchi nastri inanellati scendendo dal
tappeto fiorito aveva incorniciato la bara. Era gennaio e i rari
passanti si erano fermati a riguardare il funerale con l’aria di
non capire.
Dall’atrio del nobile palazzo, abitato da sempre da donna
Laura, era uscita una piccola salma. La signora del palazzo aveva
da tempo compiuto i cento anni e col tempo si era fatta
veramente minuscola, ma i fiori bianchi erano inspiegabili.
Il portale era stato aperto completamente cosicchè dalla via si
poteva osservare il grande atrio dalle volte incrociate poggianti
su colonne, col pavimento in pietra e le grandi inferriate alle
finestre. Un grande arco sul fondo apriva ad un giardino interno
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con aiuole, grandi palme e piccoli cespugli verdi che in
primavera dovevano coprirsi di fiori. Tutt’attorno un alto muro
lo racchiudeva nascondendolo agli occhi indiscreti anche se
qualche finestra, nei secoli, aveva osato affacciarsi su questo
angolo recondito.
Lo scaleo portava al primo piano dove un grande portone
introduceva a un appartamento che si affacciava sul giardino e
sulla via principale di fronte al Duomo.
L’appartamento era molto grande. Una teoria di salotti con
mobili d’epoca e soffitti affrescati portava alle stanze della
famiglia altrettanto riccamente arredate. I tendaggi e le
coperture erano di fine damasco e broccati di seta, nei vari
colori, ricoprivano sedie e poltrone nelle diverse stanze.
La policromia dei vetri alle finestre alternava ai grandi tappeti
disegni multicolori sui pavimenti. Ricami a piccolo punto
decoravano gli arazzi dei parafuochi e delicate trine
arricchivano le tovaglie distese sui lucidi mogani.
Donna Laura raramente aveva abitato questa parte della casa
preferendole il piano superiore, dove abitualmente viveva, e vi
scendeva solo quando i suoi innumerevoli nipoti venivano a farle
visita e si trattenevano da lei per qualche tempo. Anche il piano
superiore era riccamente arredato: quadri, stampe e mobilia
erano di grandissimo valore. Le argenterie splendevano dentro le
cristalliere e le sovrapporte erano decorate con la foglia d’oro.
Nella zona di servizio un lungo terrazzo coperto si affacciava
sul giardino, un tempo chiostro, e consentiva di sciorinare al
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coperto il bucato. Sempre da una zona riservata si poteva
accedere alle stanze della servitù che erano collocate all’ultimo
piano nel sottotetto e da queste si accedeva ad un enorme
stanzone aperto e voltato, dal quale si poteva godere un
magnifico panorama sulla città.
A questo punto dal pavimento sembrava fuoruscire un’ampia
cupola e ci si rendeva allora conto di essere sulla sommità di
quella che doveva essere stata la cappella del convento e così era,
poichè diversi secoli prima, nel Seicento, il palazzo era stato un
convento delle Clarisse.
La millenaria famiglia Magni Griffi, da cui donna Laura
discendeva, ascritta nel 1528 nell’albo d’oro della nobiltà
italiana e imparentata con papa Niccolò V Parentuccelli, lo aveva
acquistato agli inizi del settecento, lo aveva rimaneggiato e
adattato a propria dimora.
Donna Laura era nata a Napoli perchè il padre, generale
dell’esercito, era di stanza in quella città, e del fatto di non esser
nata in Lunigiana si era sempre dispiaciuta; diversamente da lei,
i suoi fratelli, la sorella e così pure il padre erano venuti al
mondo nel palazzo di Sarzana. La marchesa sua madre era una
discendente degli Spinola e di questa grande famiglia genovese
Laura aveva ereditato, attraverso la madre, un prezioso velo da
sposa che, non avendo mai potuto indossare, religiosamente
aveva conservato sino alla morte.
Laura era cresciuta timida e riservata e, sebbene avesse
frequentato il liceo, a causa di una salute un poco cagionevole, il
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padre non le aveva permesso di frequentare l’Università. Aveva
avuto lezioni di piano e di ricamo come di consuetudine e in più
da un professore dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, spesso
loro ospite, aveva imparato a dipingere.
Nell’arco della sua vita aveva visto i fratelli e la sorella,
sposati, con la loro numerosa prole, invadere nei giorni di festa il
grande palazzo che i genitori avevano lasciato in eredità a lei,
rimasta nubile.
Aveva amato la lettura e per questo aveva passato molto del
suo tempo nello studio dove una ricca biblioteca raccoglieva
opere di vario genere: dai classici, al teatro, alla narrativa. Aveva
amato anche scrivere; di lei rimane una pubblicazione della
storia della sua famiglia ultimata alcuni mesi prima della morte.
Aveva trascorso il suo tempo tra le visite delle nobili signore,
il ricamo e il pianoforte. Solo quando aveva ormai superato il
secolo di vita, aveva confessato che nella sua ormai antica
giovinezza si era innamorata di un professore del liceo, ma aveva
tenuto a precisare che mai la cosa era stata palesata. In seguito,
un suo corteggiatore, ufficiale dell’esercito, l’unico che le avesse
manifestato affettuose attenzioni, le era stato allontanato dal
padre perchè dedito al gioco.
Il tempo scorreva nel grande palazzo allineato tra quelli dei
notabili; tanto ne era passato che Laura era riuscita a conoscere
tre secoli. Ma nella sua lunga vita non aveva mai conosciuto la
gioia dell’amore, mai una carezza di innamorato sui suoi capelli
nè un casto bacio maschile sulle sue labbra.
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Nell’antico convento delle Clarisse, si era compiuto il suo
destino di donna che senza essersi votata a Dio, aveva vissuto
come le antiche consorelle in solitudine, castità e in preghiera.
Laura, come loro, aveva vissuto vergine nel corpo e nello
spirito e quando era venuto il grande momento per lei di passare
ad altra vita, un’anima gentile, forse interpretando il muto
desiderio del suo cuore, ricoprendole il feretro di fiori e nastri
bianchi, aveva voluto onorare la sua purezza.
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PAULO
Er ano i giorni della merla. L’ultimo intensissimo freddo
dell’inverno. La brina imbiancava l’erba e i rovi.
Ancora un poco e poi il gelo sarebbe sparito sotto la
prima pioggia. Il tempo sarebbe andato in dolciura e sui poggi si
sarebbero affacciate le primule e le viole.
Già le prime giunchiglie cercavano di fiorire a ridosso del
muro del cimitero nell’angolo dove di consuetudine venivano
sepolti i bambini.
A ridosso delle siepi cristallizzate dal ghiaccio sarebbero
sparite le piagnole, perchè gli uccelletti, trovando più facilmente
cibo altrove, non si sarebbero lasciati schiacciare dalla pietra
mentre andavano a beccare il chicco ingannatore.
Il paese pareva addormentato, immerso com’era, in una
ferrea cortina di ghiaccio che, negli angoli appena illuminati dal
sole, si trasformava in un triste umidore. Per lo stretto vicolo
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anulare, prima di inoltrarsi in una lunga galleria, si poteva
accedere ad un’aia chiusa da un portone ormai molto fessurato e
usurato dal tempo. Una bella scala in pietra, con una pensilina
sorretta da colonne anch’esse di pietra, portava al piano
padronale.
Al limitare dell’aia un basso muro fungeva da parapetto allo
strapiombo sottostante.
Sul fondo tra le pietre del canale si intravvedeva una cortina
di ghiaccioli, mentre l’acqua scorreva con un piccolo gorgoglio
liberando un sottile odore di muschio. Le piagne umide del
selciato lucevano al pallido sole.
Da un lato dell’ara una porta sconnessa dava accesso al luogo
in cui da sempre viveva Paulo. Una finestrella inferriata, nei
giorni di sole, disegnava sul pavimento della stanzetta una nitida
croce. In un letto di legno con le sponde, su un giaciglio di
scarfuglia, giaceva da tempo Paulo.
Rimaneva disteso per tutto il giorno, poichè le sue gambe per
vecchiaia o per malattia non lo reggevano più, ma, pur non
potendo uscire, poteva stabilire le ore della giornata dall’ombra
della croce che scorreva sul pavimento e, dalla intensità
dell’ombra stessa, conoscere anche le condizioni del tempo.
Spesso i bimbi per curiosità o per gioco spingevano
quell’uscio, sempre aperto, per cercare di vederlo e il vecchio
non li sgridava mai, rimaneva a guardarli in silenzio o forse
neanche più li vedeva.
Da tempo immemorabile, nella buona stagione, fin quando ne
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era stato capace, nei giorni di festa era andato a sedersi sul lungo
gradino di pietra posto appena fuori dell’arco di accesso al
paese, e lì rimaneva assorto, le palpebre molto abbassate, quasi
socchiuse, una pipa spenta tra i denti, a riguardare lontano.
Paulo non amava parlare, anzi preferiva ascoltare senza
intervenire nei discorsi altrui.
Il suo aspetto era severo, l’espressione quasi impassibile non
rivelava i suoi pensieri.
Durante la sua infanzia la povertà era stata così terribile che
spesso ricordava quando i bambini, giocando ai tappi sul
selciato, andavano la sera in casa dei perdenti a reclamare i
cucchiai di minestra vinti al gioco.
Paulo era nato miserabile; nel paese chi non era possidente e
non era stato assunto mezzadro, nei registri della parrocchia
veniva definito di condizione miserabile.
Della sua famiglia non era rimasta notizia e nessuno si era
mai interessato del suo cognome.
Nel paese si apparteneva ad una razza e, spesso, si
riconoscevano in tutti coloro che ne facevano parte, le
peculiarità o il mestiere che avevano determinato il soprannome:
quei di barbota, mengota, barca , scaletta, biasin, marangon.
Di lui non si conosceva nulla, forse era stato un trovatello
preso all’ospizio e allevato per qualche soldo. Eppure Paulo era
stato un uomo di un certo rilievo, aveva una profonda saggezza e
un grande riserbo e la particolare caratteristica di ricordare con
precisione le date degli avvenimenti. Era la memoria vivente del
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paese.
Durante le varie stagioni, sempre all’alba, si recava nei campi
altrui, dopo che i mezzadri avevano terminato il raccolto e, con
pazienza e umiltà, raccoglieva le poche spighe sfuggite ai covoni,
qualche frutto rimasto sull’albero, un grappolo d’uva nascosto
da una foglia, qualche grana d’uliva rimasta tra l’erba. Questa
era una legge non scritta che consentiva anche ai miserabili di
sopravvivere.
Sui suoi vestiti le pezze si coprivano di ulteriori rammendi e i
suoi piedi erano sempre scalzi. Durante l’inverno si metteva sulle
spalle e attorno al collo un vecchio scialle nero smesso da una
qualche vecchia. Non aveva mai posseduto un cappello e spesso
guardando il lavoro dell’ombrellaio che veniva apposta al paese
per cambiare le stecche rotte agli ombrelli, aveva tanto
desiderato possedere almeno un ombrello per ripararsi dalla
pioggia, invece, quando era necessario, gli toccava farsi un
cappuccio con un vecchio sacco ripiegato che gli faceva anche da
mantello.
Nella buona stagione, una volta all’anno, arrivava al paese un
carro carico di paglia e di ragazzi dalla testa rasata e denutriti; a
cassetta sedeva un uomo ben pasciuto con una catena d’oro che
gli traversava il panciotto. Il cavallo veniva alloggiato in una
stalla e i ragazzi nel fienile.
La mattina all’alba cominciavano ad arrivare le sedie da
rimpagliare e sulla piazza del paese i poveri ragazzi si
adoperavano alacremente ad attorcigliare la paglia nuova o sfare
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la vecchia, il tutto sotto lo sguardo non certo paterno
dell’ambulante.
Paulo sapeva bene interpretare nei loro grandi occhi straniti
la paura, la fame, il ricordo della loro famiglia, ma nulla poteva
perchè i suoi piedi erano scalzi come i loro con la differenza che
la loro giovinezza poteva ancora farli sperare in un futuro
migliore.
Alla fiera del paese Paulo avrebbe voluto comperarsi, come
tanti altri, un paio di occhiali e una volta aveva avuto anche il
coraggio di avvicinarsi alla bancarella e nel provarsene
velocemente un paio aveva scoperto un mondo di piccole cose.
Quanto avrebbe desiderato possederli poter osservare tante
piccole meraviglie!
La cosa più difficile per lui era infilare il filo nella cruna
dell’ago, quando doveva rammendare qualche strappo e per
questo chiedeva sempre aiuto a qualche bambino che gli passava
accanto.
Oggi i piedi scalzi di Paulo non lasciano più orma sulla neve
fresca, così come i gusci delle pannocchie non gli fanno più da
giaciglio; i bambini, nel volger degli anni dopo la sua scomparsa
non si sono mai più avvicinati a quella porta rimasta socchiusa,
anzi timorosi e impauriti hanno imparato a sorpassare di corsa il
portone di accesso all’aia nel timore di vederlo forse
ricomparire.
Nel piccolo cimitero sulla collina non c’è traccia della sua
sepoltura, nessuno ricorda quando sia morto e quale fosse stato il
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suo cognome. Nella grande storia stanno scritti tutti i nomi di
coloro che nel corso dei secoli si sono avvicendati nel possesso
del paese, dagli antichissimi Obertenghi ai grandi Malaspina e ai
più recenti Medici.
Molti possidenti, talvolta arroganti e presuntuosi, sono vissuti
con la prepotenza del danaro o del casato ma di nessuno è
rimasta traccia nella piccola storia, quella che non è scritta sui
libri ma rivive nel cuore e nella memoria dei semplici.
E mentre il viandante percorre il vicolo anulare del paese,
chiunque ancor oggi, col dito, gli sa indicare l’ara di Paulo.
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LA SIGNORA
C’ era stato un tempo in cui la signora del castello, nei
pomeriggi estivi, nel ricevere le amiche, amasse
condurle nel giardino all’ombra degli alberi, dove, in
un luogo riparato alla vista degli estranei, era stato costruito nel
bosso, un piccolo bersò.
Anche quel giorno ella le aveva fatte accomodare sotto gli
alberi, poichè l’estate inoltrata tormentava ancora con
un’insopportabile calura, e l’ombra scura di quel recesso
ombroso era molto invitante.
Il giardiniere con arte e pazienza aveva potato i rami del
bosso sino a formare un capanno fresco nel quale erano
sistemate diverse panche e sedili di ferro; le signore strette nei
busti, i colletti chiusi da nastri in velluto, chiusi i ventagli, si
erano sedute a godersi la frescura del luogo.
Dalle piccole finestre aperte nel verde esse potevano,
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nascoste, sorvegliare i figli che le avevano seguite in visita.
I maschietti correvano dietro i cerchi che sospingevano con una
bacchetta, mentre le bambine, dai fiocchi di taffetas tra i capelli,
cullavano le loro bambole di porcellana. Talvolta, giocando, i
fanciulli si scambiavano tra loro, lanciandoli con due
bastoncelli, dei piccoli cerchi di legno che dovevano essere
raccolti e infilzati al volo come nelle antiche giostre tra cavalieri.
Nessuno si era mai saputo spiegare perchè i figli dei ricchi
fossero anche sempre così belli.
Quel giorno la signora era particolarmente felice, perchè
erano state ormai fissate le nozze del suo primogenito. Questo
era quindi l’argomento che interessava le signore; per l’erede
della casata ci sarebbero stati grandi festeggiamenti e sarebbero
intervenuti anche molti ospiti blasonati.
La signora si sarebbe preoccupata delle toilettes e del
ricevimento, mentre il marito avrebbe calcolato quante quarete
di grano avrebbe dovuto distribuire ai poveri per questi sponsali,
come era in uso in Lunigiana presso le famiglie ricche.
La signora amava la futura nuora che era bruna ed elegante,
di buona famiglia, anzi era l’erede di ricchi possedimenti
nell’alta Lunigiana; era anche bella e, quando a fianco del suo
promesso cavalcava per i sentieri e le fratte, i contadini si
fermavano a guardare la giovane coppia con muta ammirazione.
Erano veramente due belle creature. La signora era
innamorata del suo ragazzo che rispecchiava i canoni della
bellezza maschile del tempo: alto, una bella testa di capelli, la
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faccia bianca e rossa dall’espressione buona e sorridente,
somigliante in tutto alla madre.
La signora ne era fiera e, mentre preparava per il suo
primogenito uno sposalizio degno del nome che portava,
ritornava col pensiero a quando era giunta lei stessa al paese,
giovane sposa in una grande famiglia. Aveva sedici anni quando
aveva conosciuto colui che avrebbe sposato di lì a qualche mese.
Amici comuni avevano presentato il giovane bene alla
famiglia di lei e, anche se li divideva un certo numero di anni,
quando la sposa era entrata felice nella cappella del proprio
palazzo per passare dal braccio del padre a quello dello sposo,
aveva portato con sè una ricca dote fatta di palazzi, terre e
gioielli.
Quando la fanciulla fu giunta alla strada mulattiera per
arrivare al paese dove avrebbe vissuto nella nuova famiglia, i
contadini, che lavoravano come mezzadri le loro terre avevano
fatto ala ad una bellissima sposa dall’aspetto quasi di bambina.
La voce della sua bellezza si era sparsa in tutta la Lunigiana, e
nessuno mai si era stupito che, contrariamente all’uso dei maschi
della famiglia, il marito le avesse portato sempre grande amore e
rispetto.
Dopo le nozze, la sposa era entrata come di consuetudine in
casa dei suoceri che l’avevano ben accolta e ben trattata.
La giovane coppia aveva preso possesso del piano nobile, mentre
i suoceri si erano ritirarati al piano superiore, chiamato
genericamente “in castello”, perchè le stanze avevano le finestre
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con le bifore e un avanzo di mastio era rimasto accanto alla
cappella di famiglia nel giardino pensile.
La camera da letto della nuova signora aveva un’ anticamera,
nella quale trovavano posto il lavamani e la commode, che si
apriva sul salotto rosso attorno al quale erano distribuite la altre
camere da letto destinate ai loro futuri figli. Era stata arredata
con mobili lussuosi che avevano sostituito quelli con lo stemma
di famiglia che i suoceri avevano traslocato “in castello”. Il
corredo era stato riposto nel grande armadio e leggerissime
tende di tulle ricamato erano state appese davanti alle finestre.
Il fotografo aveva immortalato le due coppie, la giovane e la
vecchia, entrambe sedute; alle loro spalle, in piedi, avevano
posato gli altri membri della famiglia che, per tradizione, non
avevano potuto sposare per non dover dividere il patrimonio.
La giovane sposa aveva avuto in dono di nozze due orecchini di
brillanti dalla marchesa sua suocera la quale, a sua volta, li
aveva portati in dote preferendoli ad un podere.
Il nuovo signore si alzava all’alba per andare a caccia o a
sorvegliare i mezzadri nel lavoro dei campi e, quando rientrava
in casa, coglieva una rosa tea dal giardino per omaggiare la
giovane moglie. Questa, dopo essersi accudita nella persona,
andava a sorvegliare che le domestiche facessero bene il loro
lavoro, cucinava il pranzo consultando il libro di ricette, l’Artusi,
avuto dalla madre, e nel pomeriggio raggiungeva la suocera che
viveva ormai in compagnia del suo pappagallo, mentre il suocero
cercava di rincorrere le domestiche più prosperose.
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Con la suocera la sposina ricamava i grandi corredi di lino
che sarebbero serviti per il primogenito già grandicello e per la
bambina che pur piccola mostrava già un carattere forte e
prepotente come quello del padre.
La signora era una sposa molto felice e molto invidiata.
Col prossimo matrimonio, sapeva che anche lei avrebbe
dovuto lasciare il piano nobile per lasciar posto alla nuova
generazione di sposi, il fotografo avrebbe immortalato di nuovo
entrambe le coppie e gli orecchini di brillanti sarebbero passati
ai lobi della giovane nuora.
Il problema invece sarebbe stata la presenza dell’antica
signora, sua suocera, che, sopravvissuta al marito, occupava
ancora “in castello”; tra l’altro, questa aveva anche assunto, negli
ultimi tempi, un comportamento riservato, anzi schivo e triste.
Non sarebbe stato facile, con lei, la coabitazione.
Sua suocera da qualche tempo non aveva voluto più ricevere
visite, non era più uscita di casa per le funzioni religiose e non
aveva più frequentato il suo salotto.
Da qualche tempo aveva preso a osservare a lungo il nipote, e
quando le veniva chiesta una qualche spiegazione per questo
strano comportamento, la nonna abbassava tristemente lo
sguardo e si ritirava. Questo atteggiamento, che la impensieriva,
la signora avrebbe voluto commentarlo con le amiche, ma
temendo che potessero sorgere spiacevoli chiacchiere, non ne
aveva fatto parola continuando a dialogare e a scambiare con
loro sorrisi e complimenti.
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Quando le amiche si furono accomiatate, la nuora era salita
“in castello” per una breve visita alla suocera e l’aveva trovata
seduta ad un tavolo davanti al mazzo dei tarocchi.
Nel piegarsi per baciarla, aveva gettato lo sguardo alla distesa
delle carte, poi, allarmata per quanto aveva potuto leggervi,
aveva guardato gli occhi spaventati dell’anziana signora che
velocemente aveva cercato di raccogliere le carte.
La signora si era messa allora a sedere e, con apprensione le
aveva chiesto di stendere un nuovo giro: ecco nuovamente la
casa, la sventura, il picchiotto della porta, un uomo giovane della
famiglia, la malattia, la morte.
Ora conosceva il motivo della tristezza della suocera.
Poco tempo sarebbe passato che una fulminea mortale
malattia avrebbe cancellato le nozze e la vita del giovane erede e
lei sarebbe diventata la signora più commiserata di tutta la
Lunigiana.
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ZEFRA
Ze fra si era alzata come ogni altra mattina dopo aver
scavalcato nel letto il bambino che le aveva dormito a
fianco. Era abituata a tenere il suo ultimo nato dal lato
esterno del letto anzichè all’interno, nel timore che il marito,
girandosi durante la notte, inavvertitamente lo soffocasse. Ciò
non era del tutto inusuale; lei aveva sentito parlare spesso di
simili disgrazie.
Aveva indossato il vestito che la sera aveva appeso ai piedi del
letto e su questo aveva messo lo scialle che, incrociato sul
davanti, veniva fermato dietro i fianchi. Preso il mazzetto di
foglie secche che la sera avanti aveva posto vicino al fuoco ad
asciugare l’ aveva posto nel fornello e col furminant aveva
cercato di accenderlo per ottenere un pò di fuoco per scaldare il
latte ai figli più grandicelli, che, grazie a Dio, quello piccolo
prendeva ancora il suo.
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Anche quella mattina, l’umidità aveva reso inservibili i
fiammiferi, per cui Zefra sarebbe dovuta andare dalla vicina a
chiedere in prestito un tizzo e sventolarlo per strada perchè
potesse arrivare ad accendere le foglie secche nel suo focolare.
Scaldato il latte, la donna aveva preso il piccolo lume ad olio
e, dopo aver allungato con le dita il paver perchè facesse più
luce, lo aveva appeso al trave per rischiarare la stanza. Il paver
era diventato troppo corto e Zefra doveva ricordarsi di
sfilacciare un poco la coperta di cotone per procurarsene uno
più lungo e anche di aggiungere altro olio al lume.
Col prossimo raccolto, se la stagione fosse andata bene, il
marito le avrebbe comperato alla fiera un lume nuovo, diverso da
quello a olio: uno che aveva una rotellina, girando la quale, si
sarebbe potuto ottenere più luce quando serviva.
Preso il piccolo, la madre lo aveva sfasciato e aveva cercato di
pulirlo con gli stessi drapisei che gli aveva tolto, l’aveva avvolto
in un grande rettangolo pulito di cotone che aveva ottenuto
lacerando vecchie lenzuola, l’aveva riavvolto da capo a piedi con
una fascia asciutta e, diversamente dalla consuetudine, gli aveva
lasciato libere le braccia. Il piccolo, attaccato al petto, suggendo
avidamente con la manina appoggiata al seno, gli occhi fissi in
quelli della madre, aveva avviato il solito scambievole colloquio
d‘amore.
Zefra aveva voluto lasciare i suoi bambini con le braccia
libere e non costrette dentro la fasciatura; era per lei una gioia
osservarli mentre giocavano con le loro stesse mani e quando si
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succhiavano un dito in attesa del pasto.
Dopo la fasciatura, Zefra aveva baciato lo scapolare e con una
spilla a balia lo aveva attaccato alla maglietta del bambino, lo
aveva sdraiato nella piccola cuna per portarlo nei campi dove
avrebbe dovuto andare a vangare nella mattinata. Intanto i bimbi
più grandicelli si erano svegliati, ma non avevano alcuna voglia
di scendere dal letto, malgrado la fame, perchè amavano stare
nel tepore delle coperte e anche perchè sapevano che ci
sarebbero stati anche per loro dei piccoli lavori da sbrigare: le
pecore o la vacca da portare al pascolo, la legna da raccogliere
per il focolare o l’erba per sfamare i conigli.
I suoi figli avrebbero desiderato essere ricchi per poter
dormire sino a tardi la mattina come solevano fare quelli che
vivevano nella casa più bella sulla piazza del paese, loro invece
avevano una casa piccola, posta nel vicolo e dovevano alzarsi
all’alba per andare a lavorare. Sul portale, proprio sulla pietra
che faceva da chiave di volta all’arco stesso, qualcuno, chissà
quando, vi aveva scolpito un omino, forse un paggio o un
guerriero, così loro avevano sperato che fosse proprio lo stemma
di un ricco cavaliere che, tornando da terre lontane, li avrebbe
resi favolosamente ricchi.
Avevano viste spesso, scolpite in pietre più grandi, queste
figure stilizzate e talvolta rozze, uomini con pugnali e donne con
seni e collane, poste qua e là nei muri e nei campi; dissotterrate
dall’aratro, quelle figure un secolo dopo, sarebbero finite nei
musei col nome di Statue Stele.
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Spesso i suoi bambini puntavano il dito sull’omino del portale
e chiedevano spiegazioni che lei non sapeva dare, così Zefra
inventava per loro qualche piccola storia o recitava a memoria
una filastrocca imparata a sua volta dalla nonna, una storia di
numeri progressivi in cui il primo era:” uno è il nome di Gesù
Cristo di casa Emanuele evviva questo regno e sempre sia lodà,
due sono i testamenti di casa Emanuele…., tre sono le persone
dello Spirito Santo…, quattro gli evangelisti, cinque i profeti, sei
le strade di Betlemme, sette le lampade di Gerusalemme…” e i
suoi bimbi con gli occhi sgranati imparavano i numeri con le
storie di luoghi lontani, di personaggi straordinari che avevano
ricevuto le Tavole della Legge, che erano vissuti eremiti nel
deserto o avevano riconosciuto in un pastore un grande re. Zefra
aveva la corona del rosario appesa al chiodo e tutte le sere,
durante la veglia, seduta accanto al fuoco coi suoi figli, recitava
il rosario mentre attendeva il marito che, per vendere spille e
rocchetti di refe, girava di borgo in borgo fin oltre l’ arpa e
quando rientrava raccontava loro sempre nuove storie di
briganti che incontrava sui valichi delle Apuane.
Quel giorno i figli più piccoli tossivano, perchè si erano
raffreddati cadendo nell’acqua.
Era accaduto che tenendo il piccino nella cuna sotto il braccio
e quello più grandicello per mano, nel cercare di passare a
guado il canale per andare a vangare nel campo, scivolando sulle
pietre brinate, Zefra li aveva trascinati entrambi in acqua.
Faceva freddo ed era corsa a casa a cambiarli col risultato di
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averli fatti ammalare e di aver anche perduto lei stessa mezza
giornata di lavoro. Ma ormai era cosa fatta e Zefra sapeva che
non si doveva piangere sul latte versato, così aveva deciso di
profittare della restante parte della giornata per stare a casa e
fare il bucato.
All’aperto, sull’angolo dell’aia, un grosso concone era alzato e
appoggiato su due grosse pietre per consentire al ranno che
fuorusciva dalla spina di essere raccolto in un secchio. Il ranno
veniva scaldato nel grande lavegg che stava sul fuoco e, quando
era caldo, doveva venire ripetutamente versato dall’alto sulla
cenere che copriva i panni dentro il concone, finchè il bucato
fosse pronto per essere sciacquato. L’aria era fredda ma il tempo
aveva l’aria di mantenersi bello, così, posti i panni strizzati in
una panera Zefra aveva pensato che all’indomani, sciacquati
all’acqua corrente del canale e stesi sull’erba ad asciugare,
avrebbero profumato di pulito il suo povero letto di foglie.
Mentre le campane suonavano l’Angelus della sera la polenta
era già scodellata sulla povera mensa. Nel vicolo si sentivano i
campanacci delle vacche che passavano per rientrare nelle stalle
e il vociare allegro dei ragazzi che si rincorrevano facendo
scalpitare gli zoccoli sulle pietre del selciato.
I figli, accorsi al primo richiamo, con le loro belle guance
rosate, si erano seduti davanti alla scodella in attesa della fetta
fumante della polenta che la madre tagliava col filo di lana.
Zefra li osservava con amore e, mentre la luce del sole si
affievoliva, pensava che un altro giorno era passato e
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sicuramente quelli a venire avrebbero portato sempre più gioia e
serenità.
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GIULIETTA
La madre le aveva dato il nome di una delle sue sorelle
così come, prima di lei, aveva chiamato le altre figlie
coi nomi delle donne della sua famiglia.
Giulietta era alta e bionda, perchè, diversamente dalla madre
che era bruna, aveva ereditato la bellezza e i colori del padre. Era
cresciuta assieme alle sue sorelle, ne aveva diviso il pane e il
letto; ogni sera le aveva sentite bisbigliare, loro che erano più
grandi, dei loro pretendenti, degli sguardi che mandavano
messaggi, degli appuntamenti al ballo la domenica.
Durante la settimana, lei che era la più piccola, aveva il
compito di portare, dopo la scuola, a pascolare le due vacche, la
bionda e la mora, e mentre quelle lentamente brucavano l’erba
con la loro lunga lingua nera, doveva preparare un piccolo fascio
di legna da portare a casa la sera.
Aveva con sè l’abecedario da leggere e il quaderno sul quale
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scriveva i compiti con una matita copiativa.
La mattina la madre le preparava il cavagnin con le fugazzine
o le pattone che dovevano essere il suo pasto del mezzogiorno;
Giulietta alle prime che erano fatte di farina di granturco
preferiva le altre che erano di farina di castagne e quindi dolci.
La madre impastava la farina di castagne con l’acqua,
prendeva due foglie di castagno dal mazzo che aveva preparato
nella stagione primaverile, le appaiava, vi versava la pasta molle,
le ripiegava e le metteva accostate l’una all’altra nei testi di ghisa
che aveva precedentemente fatto arroventare al fuoco sulle
fascine. Quando i testi venivano scoperchiati il profumo delle
pattone si spandeva nell’aria e Giulietta, pur scottandosi le dita,
ne prendeva subito una e dopo averla liberata dalle foglie la
mangiava golosamente.
Questo accadeva la sera quando la famiglia si riuniva per la
cena e queste venivano servite calde con dentro la ricotta che la
madre ricavava dal siero del latte quando faceva il formaggio.
La madre, che sapeva quanto le piacessero, gliene conservava
alcune per il pranzo dell’’indomani.
Giulietta nel cestino, assieme al cibo, metteva i calzetti o gli
scapinei con i ferri che la madre le aveva iniziato e che lei doveva
finire entro sera; talvolta metteva anche calze bucate da
rammendare.
Un giorno, che aveva lasciato incostudito il cestino, aveva
visto una vacca che si era mangiata il gomitolo di lana nel quale
lei aveva infilato il grosso ago da rammendo. Le aveva preso il
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panico.
Ben sapeva che entro poco tempo l’ago avrebbe perforato
l’intestino dell’animale e suo padre, dovendolo sotterrare
avrebbe cercato e trovato la causa della morte.
Lo spavento della punizione era pari alla preoccupazione del
danno che avrebbe subito la sua famiglia con la perdita della
vacca.
Si era buttata in ginocchio sulle ricce delle castagne e con le
ginocchia sanguinanti aveva fatto solenne voto che ogni sera, se
l’animale non fosse morto, avrebbe recitato tre pater ave gloria
alla Madonna di Loreto. L’animale non era morto e dopo poco la
vacca era stata anche venduta ma lei aveva deciso di perseverare
nel suo voto fino alla morte.
Era iniziato forse da questo episodio il particolare
comportamento di Giulia che aveva vissuto, la sua giovinezza
prima e il resto della sua vita poi, con un comportamento quasi
maniacale. Alla vita spensierata scelta dalle sorelle aveva scelto
quello della compostezza e della riservatezza.
Aveva cercato di dimenticare l’amore che nutriva per un
giovane che, innamorato, le faceva dolci serenate dall’aia vicina
e a dormire accanto alla nonna con la quale ogni notte diceva il
rosario e che le aveva anche assicurato, che se fosse stato
possibile, sarebbe ritornata a lei dal mondo dei morti per farsi
rivedere.
Assieme alla nonna aveva recitato le preghiere, frequentato la
chiesa del paese per mettere fiori sull’altare, spazzato il
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pavimento, lavato le tovaglie degli altari e lucidato i candelieri.
Assieme avevano preparato il presepe ed il sepolcro e
naturalmente avevano assistito alle messe e fatto penitenza in
quaresima.
Giulietta era diventata rigorosa nell’osservanza religiosa:
comunicarsi il primo venerdi del mese, mangiare di magro nei
giorni prescritti e osservare il digiuno.
Forse avrebbe scelto la strada del convento se qualcuno avesse
potuto darle indicazioni. La madre, intuendo in quella tendenza
un possibile pericolo, era riuscita a indirizzarla al matrimonio,
l’aveva spinta a sposare un cugino, figlio di una sorella, che
viveva nel paese vicino.
Giulia si era lasciata convincere e dopo il matrimonio aveva
cominciato una vita di sposa in casa della suocera che,
ovviamente, le voleva bene per il duplice motivo di esserle anche
zia.
La sua vita appariva serena e così sarebbe parsa agli occhi di
tutti, se non fosse stato per l’eccessivo ardore che metteva nella
frequentazione delle funzioni religiose e che lasciava indovinare
quello che mai Giulietta avrebbe rivelato ad alcuno: una totale
infelicità.
Non frequentava nessuno, non aveva amiche. Usciva per fare
la spesa e subito ritornava a casa.
Nei giorni di primavera aveva preso l’abitudine di salire sulla
collina verso il santuario e, mentre percorreva la mulattiera,
recitava il rosario.
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Talvolta si univano a lei le ragazze che recitavano novene per
trovare marito; altre volte andava a trovare la madre e, in
alternativa, al piccolo cimitero per pregare sulla tomba di quella
nonna che, dopo morta, non le era riapparsa mai, nemmeno in
sogno.
In tutti gli altri giorni stava seduta davanti alla porta di un
piccolo terrazzo che spaziava alto sul fiume e sulla pianura
antistante.
Nessuno lassù poteva vederla. Nessun testimone della sua
disperazione. Mentre guardava l’acqua scorrere sotto il ponte,
avrebbe voluto essere trascinata via lontano, dimenticare,
morire.
Tali erano state per lei le delusioni nel matrimonio, la
solitudine che si era imposta e il rigore delle penitenze, che,
quando era giunta per lei l’ora della morte, l’aveva accettata con
sollievo, quasi con la certezza che la vita nell’aldilà non avrebbe
potuto essere peggiore di quella che aveva vissuto.
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MARIA e VERGIÒ
Ar rivavano, la domenica mattina, dalla corte vicina per
assistere alla messa cantata. Erano entrambi alti e
molto magri, quasi allampanati; due grandi ombre
scure.
Maria vestiva di nero, estate e inverno, con abiti dalle
maniche lunghe. Nessuna donna di Lunigiana sarebbe andata a
messa con abiti dalle maniche corte, assolutamente mai si
sarebbe presentata in chiesa con la men che minima scollatura e
senza velo in testa.
Anche le ragazze dovevano mettersi uno scialle sulle spalle
per coprirsi le braccia nude, ed era tollerato per loro un velo
bianco e anche un piccolo fazzoletto, ma il capo scoperto mai,
perchè il prete le avrebbe vergognosamente fatte uscire dalla
chiesa.
Maria portava calze di lana nera fatte in casa, scarpe col
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tacco basso, stringate e nere, che parevano da uomo e forse erano
proprio del marito. Un fazzolettone, anch’esso nero, cercava di
raccogliere e trattenere i suoi lunghi capelli che, sempre folti e
inanellati, ancora adesso, ai lati del viso, fuoruscivano
ostinatamente in grossi boccoli grigi.
L’abito nero era stato scelto con piccoli puntini grigi proprio
con l’intenzione di impedire allo sguardo di rilevare segni di
polvere o qualche rammendo.
Tra le mani, quando veniva in chiesa, aveva sempre la corona
del rosario e il libro della messa.
Forse Maria non sapeva leggere e il messale era del tutto
superfluo, ma la domenica era d’obbligo portarlo assieme al velo
nero, col quale si sarebbe coperta il capo, come tutte le altre
donne.
Vergiò le camminava accanto. Anzi si potrebbe dire che Maria
camminava, contrariamente all’uso di quel tempo, a fianco del
suo Vergiò.
L’uomo era straordinariamente alto e ossuto. Il cappello nero
e sformato copriva una candida capigliatura folta e arricciata; i
suoi lunghi baffi, con le punte rivolte all’in sù, denotavano la
cura con cui egli sapeva custodirseli.
Anche lui indossava l’abito della festa; il panciotto
rigorosamente nero, anzi lo era stato, ma ora era diventato molto
stinto e consumato negli orli. Nei calzoni erano modellati i segni
delle ginocchia e la sua camicia chiara, ma senza un colore
definito e piuttosto stropicciata, era decorosamente abbottonata
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al collo.
Quelli erano gli abiti che avevano indossato al momento del
matrimonio e in circostanze particolari, ed entrambi sapevano
che sarebbero stati anche quelli che avrebbero indossato dentro
la bara. Farsi una muda di drappi nuova era stato impossibile in
tutti gli anni passati e per il futuro del tutto impensabile.
Quando si erano conosciuti, tanto tempo prima, era stato in
un paese piuttosto lontano in una fiera importante.
La chiamavano la fiera di San Ginesio e si svolgeva d’estate
sotto le frasche di un grande castagneto che tutti dicevano che
fosse sempre esistito e dove popoli antichi si riunivano per
combinare matrimoni e svernare.
Nella Selva di Filetto sarebbero stati poi rinvenuti reperti
archeologici che avrebbero avvalorato i detti dei vecchi, e le
Statue Stele del museo del castello del Piagnaro sono oggi
contrassegnate coi nomi di Filetto primo, Filetto secondo…
I castagni che tutt’oggi costituiscono la Selva appaiono più
che centenari; ve ne è poi uno, in particolare, che viene chiamato
“il castagno di Dante”.
Quando si erano conosciuti Maria era giovane e snella e i suoi
capelli neri le ricadevano sulle spalle in morbide volute. Vergiò
era alto e forte e quando rideva i suoi baffi incorniciavano una
bella chiostra di denti.
Nel bosco ombroso i due giovani si erano cercati con gli occhi
e quando Vergiò si era persuaso dell’interesse che suscitava in
Maria, aveva cercato di sapere da quale paese provenisse e subito
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era andato a chiederla in moglie.
Allora non c’era tempo da dedicare agli svaghi amorosi, si
doveva guardare se la donna aveva una dote, se l’uomo sarebbe
stato in grado di mantenerla, se viveva sui suoi campi o se era
mezzadro e di chi, poi si andava dal parroco del paese per
informazioni, e per finire il giovane si presentava alla famiglia
della ragazza e la chiedeva in sposa.
Dopo il loro matrimonio nessuno più aveva ricordato di quale
paese Maria fosse originaria nè quale fosse stato il suo cognome,
quindi, per distinguerla dalle innumerevoli omonime, venne
chiamata semplicemente la Maria di Vergiò.
Di lui sapevano tutti che possedeva un asino che gli serviva
per trasportare la legna e il carbone dai boschi mentre lei
accudiva i campi, l’orto e le galline.
Vergiò faceva il taglialegna; andava sui monti col suo asinello
e per qualche tempo si fermava a dormire nei boschi per
accumulare la legna tagliata e per fare il carbone.
Egli sapeva come si disponeva la legna nella carbonaia,
perchè una volta ricoperta di terra la catasta,questa, bruciando
in assenza di ossigeno, si sarebbe trasformata in carbone da
portare al mercato. Egli sapeva lasciare liberi giusti spazi interni
per creare fumarole dalle quali sarebbe fuoruscito il fumo e
quanto tempo sarebbe occorso al carbone per raffreddarsi prima
di togliere la terra che lo ricopriva. Quando il carbone era
pronto, per venderlo, lo trasportava in paese e talvolta anche in
città chiuso dentro sacchi legati al basto del suo asinello.
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Passava molto tempo lontano da casa; sui monti per accudire
le carbonaie e in viaggio per andare a vendere in città, ma
quando era a casa, ogni domenica, Vergiò con la sua Maria,
arrivava lungo la mulattiera; entravano in chiesa, lui dalla parte
degli uomini dietro l’altare, lei con le donne nelle panche,
assistevano alla messa e all “ite missa est” si ritrovavano nella
piazzetta del paese; insieme andavano all’osteria dove Vergiò
offriva alla sua Maria un bicchiere di vino prima di rientrare a
casa.
Quello era stato l’unico lusso, l’unica concessione alla loro
vita grama fatta di fatica e di stenti.
Quando apparivano, sempre insieme, era una gioia constatare
come una coppia, ancorchè senza figli, potesse vivere un
rapporto di costante serenità e reciproco affetto, ed ancor più
stupefacente era stato risapere che Maria, dopo le nozze e in
seguito per sempre, alle richieste maritali di Vergiò, si era
rifugiata di corsa nel fienile e col forcone in mano, puntato al
suo Vergiò, gli aveva ripetuto: “ven su se t’ghe coragh”.
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FILOMENA
Tu tt i la chiamavano Filomena, ma il suo nome era
Maria.
Al tempo in cui era nata era quasi sempre il prete a
decidere il nome al battesimo e quello per non sbagliare
imponeva il nome della Madonna.
Talvolta le madri protestavano:” a lu, a go già una fiola cla s’
chiam Maria” e il prete concedeva allora un altro nome pur che
fosse semplice e di famiglia. Così, per distinguerla dalle altre, e
non essendo ancora maritata, avevano cominciato a chiamarla
Filò.
Abitava con la sua famiglia in un paese sperduto tra le colline
che si susseguivano, sempre più indistinte, fino ad un’alta catena
di monti.
La sua casa era tra il vicolo del paese e l’angolo della piazza.
Su un esiguo ballatoio, davanti all’ingresso, poteva trovar posto
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una sedia; dietro una stalla, la cantina e l’orto.
In un basso muricciolo che recintava l’aia, vi era stata murata
una piccola maestà marmorea.
Era un piccolo bassorilievo e, diversamente da quasi tutte le
icone che rappresentavano invece la Madonna, questo portava
scolpita la passione del Golgota col Cristo morto, Maria e
S.Giovanni. Filomena a causa dell’abbigliamento, aveva
scambiato il santo con un altra Maria, era quindi stata lieta del
proprio nome che, nella vita, pensava, le avrebbe portato bene.
Filò passava le giornate a lavorare i campi come il resto dei
suoi famigliari; quando ritornava a casa la sera, e sempre che il
tempo lo avesse permesso, sedeva su una sedia sul terrazzino a
guardare le persone che che si aggiravano sulla piazza.
Da tempo aveva adocchiato un bel ragazzo che si era
trasferito dalla Toscana in Lunigiana e a lei era piaciuto, perchè
le era parso, oltrechè bello, anche intraprendente, poichè,
diversamente dai suoi famigliari, che avevano accettato di fare i
mezzadri ad un ricco proprietario terriero, di lui si sapeva che
era andato a cercare lavoro in città.
Francesco, questo era il nome del ragazzo, era un giovane
robusto con un bel paio di baffi e due grandi occhi neri. Erano
proprio gli occhi a fare di Francesco un tipo affascinante. Aveva
nelle iridi il colore mutevole dei castagni, dal verde al marrone, a
seconda dell’umore e del tempo e nello sguardo una vivacità di
interesse per ogni cosa che lo circondava.
Filò era alta e magra; i suoi capelli, raccolti in un nodo dietro
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la nuca, erano castani e lisci; il naso un tantino aquilino. Non era
certamente una bellezza e, per fortuna, nella sua discendenza
non era rimasta traccia della sua fisionomia, mentre gli
straordinari occhi di Francè si potevano riconoscere sin dalla
prima volta che il neonato apriva gli occhi.
La donna aveva anche il difetto di possedere un cattivo
carattere tant’è vero che, in seguito, il nome di Filò era stato
usato per definire un carattere impossibile.
Certo in un qualche modo e per un qualche merito era
riuscita a farsi sposare dal bel ragazzo e con lui era emigrata in
città; era andata a vivere in una zona collinare, e lì erano nati i
dieci figli che Filò aveva accudito durante la giornata, durante il
duro lavoro dei campi che la famiglia aveva a mezzadria.
Francesco lavorava come operaio alla costruzione di un
grande porto che sarebbe stato, nel secolo successivo, di grande
importanza militare; Filò, per guadagnare qualche soldo in più,
quando il marito rientrava la sera, era solita andare con lui, per
qualche ora, in una cava di pietre a cielo aperto in una zona
vicina.
Era una donna forte e volitiva, laboriosa e straordinariamente
pulita.
La prima figlia era stata chiamata, come al solito, Maria e la
seconda per non ripetere il nome della primogenita e della
madre era stata battezzata Assunta.
I figli maschi, nati uno dopo l’altro, avevano avuto i nomi di
famiglia.
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Il carattere particolare di Filò faceva sì che, spesso, gelosa
dell’avvenenza di Francè, senza ragione alcuna, gli si scagliasse
contro e lo picchiasse con un bastone; riusciva ad essere gelosa
anche delle sue stesse figlie ed in particolare della sua stessa
primogenita così come, poco maternamente, era solita
manifestare la propria predilezione e la forte antipatia per uno o
l’altro figlio.
Durante la sua lunga vita e dopo la morte del marito, alcuni
dei suoi figli non le sopravvissero: il giovane Umberto, che aveva
ricevuto da lei più botte che pane, le era venuto a mancare a
causa della tubercolosi e delle notti passate all’addiaccio quando
lo chiudeva fuori di casa, e Dante il suo ultimogenito, da lei
invece adorato, che era morto in guerra.
Filò aveva passato gli ultimi suoi anni ora con uno, ora con un
altro dei suoi figli, sempre mal sopportata a causa del suo
terribile carattere.
Il giorno della sua morte, alcuni parenti che circondavano il
suo letto d’agonia, l’avevano sentita salutare Umberto, il figlio da
lei tanto esecrato, e dopo un lungo colloquio, avevano capito che
Filomena si era avviata con lui per un altro spazio.
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TELLIO
Av eva atteso la notte prima di rientrare in casa per
non mostrare in paese il viso pesto dalle botte.
L’umiliazione lo rimordeva assieme alla rabbia
impotente dell’uomo, ormai privo di forze, alle soglie della
vecchiaia.
Si erano appostati fuori al buio e quando Tellio gli era passato
davanti lo avevano aggredito e malmenato.
Antichi rancori avevano concorso ad armare le mani, vecchi
ricordi di soprusi e violenze subite un tempo da parte del signore
del castello; quei tempi erano ormai lontani, ma la memoria era
rimasta e la vendetta era spesso consumata su “un piatto
freddo”.
Era nato signore del castello e di tutte le terre che a vista
d’occhio circondavano il paese. Alto e fisicamente molto forte,
dal padre, prima di ogni proprietà, aveva ereditato la
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prepotenza. Adulti e bambini al suo passaggio si scostavano
velocemente, apparentemente per rispetto, col timore invece di
subire qualche inaspettata punizione.
Senza motivo alcuno il malcapitato che gli fosse arrivato a tiro
avrebbe certamente subito una soperchieria. Era del tutto degno
del padre che arrivava direttamente a rapinare i propri mezzadri
e cercava di appropriarsi con ogni mezzo dei beni altrui.
Quando vendeva un pezzo di terra ad un contadino, si
limitava a firmare soltanto un compromesso con la promessa di
farne fare trascrizione da un notaio, ma in seguito si rifiutava di
presentarsi a sottoscriverlo e, alle ragionevoli proteste, il
malcapitato era rabbonito con botte e ritorsioni varie per cui le
proprietà, con gli anni, ritornavano sempre a lui.
Quando trovava un individuo che sapeva resistergli, cercava
di colpirlo a tradimento colpendolo dall’alto, quando gli passava
sotto le finestre, con un mattone o una tegola. Se poi finiva col
rompere i denti a qualcuno con una scarica di botte gli era
sufficiente tacitarlo con una damigiana d’olio, specialmente se il
ferito aveva una famiglia numerosa.
Era certamente un individuo temuto e pericoloso.
Nella notte usciva di casa col fucile a tracolla per recarsi nei
propri campi apparentemente a controllare i raccolti, ma in
realtà a spostare i testimoni sui confini per ingrandire i suoi
campi.
Diversamente dalla Toscana in cui era in uso piantare un
cipresso ai confini di ogni proprietà, era abitudine in Lunigiana
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sistemare, al posto dell’albero, una pietra centrale con altre due
ai lati, orientate verso il testimone del lato opposto.
Tellio aveva sposato, un pò in là negli anni, una moglie molto
giovane e ricca, ma in compenso ancor più esperta di lui a
derubare del giusto compenso chi lavorava per quella casa.
Viveva nel castello con la coppia dei vecchi genitori: la madre
marchesa, in compagnia dell’antico pappagallo che sapeva
avvertire la padrona quando un estraneo si presentava fuori
della sua stanza, e il padre, vecchio satiro che rincorreva le
servotte e strappava le corde dalla spinetta secentesca quando
aveva bisogno di un pezzo di filo.
C’era Sante, lo zio, che non aveva mai potuto sposare perchè
non poteva disporre dei beni della famiglia e non aveva di che
mantenere una moglie; l’asse patrimoniale non doveva essere
diviso, il primogenito maschio diventava di fatto l’unico erede
per cui Sante, secondogenito, in casa, aveva solo il diritto di una
stanza e del puro mantenimento.
Valter, il fratello più giovane, studiava agraria all’Università
di Pisa e, anche se, come voleva la tradizione di famiglia, non
avrebbe mai potuto vantare diritti sulle proprietà e tantomeno
sul castello, non ebbe a competere con Tellio perchè, ancor
giovane e scapolo, era morto dissanguato in un incidente di
caccia.
Tellio, unico erede di un grande nome e di un cospicuo
patrimonio, la mattina prima dell’alba, era già in piedi e coi cani
al seguito se ne andava a caccia; nel pomeriggio, assieme al
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fattore, si occupava della conduzione dei campi.
Sapeva che era importante avere alla propria tavola il prete, il
dottore e il maresciallo dei carabinieri, perciò li invitava spesso.
Quando gli era morta la madre, aveva combinato in fretta un
nuovo matrimonio per il padre con una maestra, gentile ma in là
negli anni, onde evitare che l’arzillo vecchietto, pronto invece a
sposare una giovane servotta, gli regalasse numerosi fratelli
bastardi, certamente pronti, coi tempi che cambiavano, ad
esigere una qualche parte di eredità.
Astuto e prepotente, aveva l’abitudine di uccidere, con la
fionda, piccioni e galline, non suoi, che gli fossero venuti a tiro.
Senza il rumore dello sparo che avrebbe potuto mettere in
allarme il proprietario, dopo averli colpiti, attendeva la notte per
andare ad appropriarsene.
Un maledetto giorno, per sbaglio, o per lo meno è preferibile
pensarlo, con una pietra della fionda aveva colpito in un occhio
una contadina e l’aveva quasi accecata.
Naturalmente la natura malvagia di Tellio aveva considerato il
fatto del tutto trascurabile, ma così non era stato: la donna, c’è
chi ancor oggi può ricordare, aveva maledetto colui che l’aveva
colpita e gli aveva augurato la completa cecità.
Poco tempo dopo aveva cominciato a non uscire più di casa; la
famiglia non aveva fatto mai commenti, ma i rari ospiti che lo
frequentavano avevano notato che l’uomo restava quasi sempre
seduto e qualcuno doveva leggergli i documenti scritti.
Se “la vendetta è un piatto freddo” c’è un proverbio che dice:
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“ciò che è fatto è reso”.
Tellio era diventato cieco.
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Angiolina
La pergola gettava un’ombra invitante sull’aia dove
Angiolina sedeva in quel caldo pomeriggio estivo; il
suo pensiero andava al suo amato marito che
quest’anno non era piu’al suo fianco a godere la frescura estiva
della vigna; erano ormai sei mesi che giaceva sotta una lastra di
marmo nel piccolo cimitero poco lontano dal paese. Una
fulminea malattia l’aveva sottratto alla loro semplice
quotidianeita’ fatta di stagioni, di annate buone e cattive, di
raccolti abbondanti e grami, di tetto da riparare ed estimo da
pagare.
Durante l’ultimo inverno forti temporali avevano spostato le
piagne del tetto e quando pioveva l’acqua entrava a rovesci
soprattutto nella prima stanza, quella d’angolo che dava verso il
borgo, dove gli antichi travi, fortemente incurvati, lasciavano
intravvedere il cielo attraverso le sconnessure.
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Quella stanza era stata per lei il rifugio e il soggiorno di tutta
la sua lunga vita di sposa. Una delle due finestre dava sulla via
antistante la casa e l’altra direttamente verso il borgo cosicche’
lei, pur non uscendo di casa, da quell’altezza, vedeva e sentiva
ogni cosa che avveniva nel paese.
Dopo che le era morto il marito Angiolina aveva fatto
chiudere quelle finestre con mattoni e grosse tavole di legno e
mai piu’ aveva voluto abitare quella bella stanza che, si diceva,
fosse stata quella di una certa Irene, donna bellissima arrivata
come lei da Treschietto ad abitare il palazzo che era stato la
prima e piu’ bella casa di Jera.
Nel corso dei secoli, ogni persona che transitava per il
sentiero acciottolato di la’ dal fosso che costeggiava la casa,
alzava gli occhi a guardare le strane pietre scolpite che avevano
inserito nelle mura durante la costruzione del palazzo. Queste
epigrafi erano innumerevoli e chiaramente di epoche diverse:
piu’ recenti quelle di forma quadrata, piu’ antiche quelle
rettangolari disposte simmetricamente sul prospetto della casa.
Incomprensibilmente le pietre erano state poste cosi’ in alto che
era impossibile dalla strada leggervi anche una sola parola.
Nell’ultimo secolo, dopo che il canale era stato ricoperto, era
stata appoggiata una lunga scala per poter arrivare a vedere cosa
vi fosse inciso; si disse che fosse scritto in latino, ma a causa della
scarsa conoscenza delle abbreviazioni, si decreto’ che fosse una
lingua sconosciuta. In seguito si preferi’ dimenticarle del tutto e
nessuno se ne curo’ mai piu’.
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Angiolina aveva subito visto quelle memorie di pietra e aveva
accettato, come gli altri, la loro presenza senza aver potuto mai
sapere, per tutto il corso della sua vita, cosa vi fosse scritto e chi
ve le avesse collocate.
Un tempo, i genitori del marito, le avevano detto che in quella
casa vi aveva abitato un prete, il quale aveva voluto aggiungere
due epigrafi alle diverse gia’ presenti sulla facciata, proprio ai
due lati della stanza che a lei era sempre piaciuta, ma lei non
aveva potuto mai vederle da vicino neanche sporgendosi dal
parapetto dell’aia posta al terzo piano a fianco alla stanza. Certo
era che le memorie di pietra sul prospetto erano diverse da quelle
due che si diceva fossero state aggiunte, anche perche’ le prime
erano nate incastonate, mentre le ultime erano state ingraffettate
e incorniciate da un decoro in stucco. Tutta la facciata della casa
verso il canale mostrava ancora un intonaco molto stinto ma
colorato in azzurro con affreschi attorno alle finestre e gli stessi
architravi in facciata apparivano piu’ riccamente scolpiti,
mentre il lato a est della casa sembrava reintonacato a malta solo
al terzo piano attorno alle ultime memorie di pietra ingraffettate.
Angiolina, malgrado l’eta’ avanzata, aveva conservato un
aspetto dolcissimo; era garbata nei modi e nel parlare. Portava
un fazzoletto legato attorno al capo alla maniera contadina per
cui i capelli non si potevano vedere ma due grandi occhi azzurri
le illuminavano il viso. La sua persona, coperta da un abito lento,
stinto, con le maniche lunghe dimostrava oltre ottant’anni.Il suo
corpo era molto magro e si faceva fatica a pensare che lei sola,
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cosi’ piccola e minuta, avesse potuto accudire un marito che nei
mesi della malattia era diventato molto grasso e pesante.
Angiolina non aveva avuto figli ma nessuno l’aveva mai
sentita dolersene. Aveva accettato la sorte cosi’ come il Signore
aveva voluto.
Era arrivata a ca’ Brunelli giovane sposa; era entrata in
famiglia come di consuetudine, aveva visto sposare i fratelli del
marito i quali, in seguito, si erano allontananati dalla casa
paterna che era destinata a suo marito, il primogenito.
Aveva convissuto con i suoceri col rispetto dovuto, li aveva
accuditi con pazienza nella loro vecchiaia e nella morte, ne
aveva curate le tombe a fianco dell’oratorio di S.Biagio nel
piccolo cimitero del paese e infine aveva sepolto il marito a
fianco ai suoceri.
Da oltre sessant’anni, da quando aveva sposato, aveva
faticosamente lavorato per sostenere quella grande casa, pur
sapendo che, a suo tempo, avrebbe dovuto lasciarla ad altri.
Angiolina non aveva mai saputo che in una delle memorie di
pietra JOSEPH BRUNELLI invocava: “POSTERI SISTITE LOCO
HAEDES HAS ET MAENIA LABORIOSE CONSERVATAS SUSTINETE
EGOMET NO MIHI SIC VOS NON VOBIS [AD OMNES]
CALAMIT~ MDCCCIX”
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MICHELE
Il vecchio sedeva sul poggio erboso con lo sguardo rivolto
alla stretta e lunga gola che saliva fino a raggiungere la
cima dell’alpe.
A destra e a sinistra il pendio ripido dell’Appennino, ricoperto
da un manto verde scuro di alberi, convergeva verso un ripido
torrente che, malgrado fosse molto in basso e lontano, si sentiva
distintamente rombare.
In certi punti, sui dorsali della costa, si distingueva
nitidamente dove gli alberi, più piccoli e meno verdi, avevano
ricoperto le frane antiche.
Piccoli nembi punteggiavano un cielo sereno.
Michele quella mattina aveva attraversato il paese, come al
solito, per recarsi alla fontana delle tre cannelle che distava
qualche centinaio di metri dall’ultima casa del paese. Un tempo
era usata dai pastori per abbeverare le greggi, ora era diventata
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la meta quotidiana della sua passeggiata.
Giunto alla fontana, aveva visto questi tre potenti getti
d’acqua che, tracimando dal lungo abbeveratoio, avevano
allagato tutta la strada e si perdevano lungo il pendio fino al
torrente; aveva pensato, con tristezza, che un tempo lontano
quell’acqua fresca e chiara era stata la fortuna per le mandrie
che a primavera ritornavano all’alpe per la transumanza.
Con una certa fatica, data la ragguardevole età, Michele si era
chinato per bere; non aveva sete, ma l’acqua aveva un richiamo
molto invitante ed egli aveva voluto immergervi anche le mani.
Avrebbe voluto proseguire per il sentiero fino al vecchio mulino,
ormai abbandonato, ma il torrente d’acqua che attraversava la
strada glielo aveva impedito, così era tornato sui suoi passi e, per
passare il tempo, si era fermato a esaminare la maestà posta sul
ciglio della strada.
Una dolce Madonna col Bambino scolpita nel marmo era
incassata in un volo di angeli intagliati nella pietra.
Un profumo di erba nuova, di margherite e violette, di fresche
foglie sui rami degli alberi denunciavano una primavera
inoltrata.
Michele aveva un ricordo vivido del giorno in cui era arrivato
in quel paese, l’ultimo sull’alpe, dove la strada moriva e si viveva
come nella Bibbia; il suocero, proprietario di greggi, la sera
riempiva alcuni stazzi con le pecore e a lui, appena era arrivato
giovane sposo in una famiglia di pastori, aveva chiesto di
mungerle.
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Era stato felice di poterlo accontentare perchè a casa sua
l’aveva fatto fin dall’età di sei anni, in quanto anche al suo paese
al di là del costone appenninico si viveva di pastorizia.
Non era mai andato a scuola, ma il prete ricambiava, con una
specie di servizio scolastico che gli aveva permesso di imparare a
leggere e scrivere, un aiuto per la conduzione delle proprietà
della parrocchia.
Era ancora bambino quando aveva visto il fratello maggiore
riparare un muro della chiesa e inaspettatamente trovare una
tomba col morto e un sacchetto di marenghi d’oro nella cassa.
Il parroco aveva fatto immediatamente sparire nelle sue tasche il
sacchetto coi marenghi, ma al ragazzo era sempre rimasto in
mente la bellezza del luccichio dell’oro.
Nato sull’ arpa era diventato alpino e sui monti aveva
combattuto quando la patria glielo aveva chiesto. Aveva visto i
suoi compagni uccisi dal fuoco del nemico. Li aveva visti cadere
durante la drammatica ritirata di Russia e morire nei lunghi anni
della prigionia ai confini della Mongolia.
Si moriva di fame, di dissenteria, di tifo petecchiale e di botte,
ma Michele era sempre riuscito a sopravvivere.
Quando finalmente era riuscito a tornare a casa, si era
guardato attorno; i tempi erano cambiati e non si poteva più
vivere come al tempo della sua prima giovinezza. Quindi,
abbracciata nuovamente la moglie, era ripartito per andare a
lavorare in Francia; da là poi era passato in Argentina e in
seguito, come Dio volle, il figlio cresciuto e la vecchiaia
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assicurata, era rientrato nella sua casa, al fianco della sua donna,
al suo paese. IL suo bel paese dai portali scolpiti, dagli architravi
modanati, dalle Madonne marmoree nelle nicchie di pietra.
Questo era il paese dei più bravi scalpellini di tutta la
Lunigiana e non vi è un altro paese così riccamente arredato da
queste straordinarie opere d’arte: ovunque protomi d’angelo e di
demoni, Madonne e cornucopie, angeli e simboli di rose celtiche
o gigli fiorentini, a seconda che la dominazione del momento
fosse lombarda o fiorentina.
Michele era stato molto felice di tornare a passare gli ultimi
giorni della sua fortunosa vita di uomo errante e già assaporava
il piacere di vivere il resto dei suoi giorni nella sua casa, accanto
al camino, coi nipoti tra le ginocchia ai quali raccontare della
sua lunga marcia nella neve, dei fiumi che aveva attraversato,
della prigionia ai confini della Mongolia.
Stava seduto, coi suoi pensieri, sul ciglio del sentiero e
guardava il cielo solcato da qualche piccolo cumulo bianco. In
alto sulle vette ancora qualche ombra di neve. L’aria un poco
frizzante, un grande silenzio.
Ora, uscendo di casa, aveva attraversato come ogni mattina il
paese; un paese silenzioso dalle porte sprangate e sulle quali un
residuo di cartello portava la scritta “vendesi”. Di alcuni cartelli
rimaneva qualche lembo strappato dal vento o dai proprietari
quando, andandosene, avevano anche perduto la speranza di
trovare un compratore. Nello stretto borgo non c’era più ombra
di vita e non solo umana. Non più il chiocciare delle galline nel
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pollaio o l’abbaiare di un cane alla catena. Ma neppure l’ombra
di un gatto o qualche altro segno di vita. Anche ora che sedeva
sul ciglio del sentiero, Michele, non sentiva la presenza di altri
animali, nè lo sfrecciare di rapaci e nemmeno il solito cinguettio
degli uccelli.
Da tempo questi suoni usuali avevano abbandonato la
campagna circostante.
Il piccolo cimitero del paese, nel quale avrebbe voluto
riposare per sempre, stava franando sulla bella chiesa che,
almeno per ora, non mostrava ancora segni di cedimento, come
pure il solido campanile di pietra sembrava ancora sfidare con la
sua perpendicolarità ogni cattiva sorte.
La chiesa, un tempo con le porte sbarrate, era ora aperta in
ogni ora del giorno, i fiori freschi dei campi sull’altare a
testimoniare la devozione delle due uniche famiglie rimaste
ancora in paese.
Due grosse frane avevano abbracciato il paese come in una
morsa e lentamente lo facevano sprofondare.
Michele aveva sempre visto le grandi voragini che
inghiottivano grandi superfici di boschi sul crinale dall’altro lato
del torrente, ma non avrebbe mai pensato che delle
straitificazioni di gesso fossero presenti anche sotto il suo paese.
Camporaghena, l’ultimo paese sull’alpe, era abitato dai più
bravi scalpellini di tutta la Lunigiana; ogni casa aveva finestre e
portale di pietra scolpita, in ogni casa, sulla facciata,
un’immagine sacra e la data della costruzione. Per tutta la
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lunghezza del borgo una fila di bellissimi portali stavano a
testimoniare la bravura e l’amore che gli abitanti dimostravano
al loro paese.
Michele aveva avuto le prime avvisaglie del disastro
incombente, quando in un suo bosco improvvisamente gli alberi
erano seccati. Le radici, rimaste nel vuoto di una caverna
formatasi per il degrado di uno strato sottostante, avevano fatto
rinsecchire gli alberi in superficie; poco dopo tutto ciò che vi era
sul suolo era stato inghiottito nella voragine.
Michele sapeva che avrebbe dovuto andarsene molto presto e
forse sperava di poter morire, lui che aveva tanto lottato per
vivere, prima di assistere alla totale distruzione di quelli che
erano stati tutti i ricordi della sua vita.
Nessuno più poteva essere sepolto nel cimiterino che stava
sprofondando; chiusi i portali del borgo, quelli non puntellati
con il cartello “vendesi”e il paese deserto.
Sempre seduto sulla sponda erbosa, Michele aveva continuato
a fissare l’ultima casa del paese. La montagna le incombeva sopra
paurosamente e gli abitanti, andandosene per sempre, nell’orbita
vuota di una finestra, avevano posto il simbolo di Colui che,
Unico ormai, avrebbe potuto fermarne la distruzione.
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COLOMBA
St ava seduta sulla grande terrazza e, in attesa che
arrivassero gli ospiti, aveva tolto il portacipria dalla
piccola borsa, si era specchiata e incipriata il viso.
Annoiata, osservava con indifferenza il panorama. Laggiù, un pò
più in basso, il piccolo paese dominato dal castello e tutt’attorno
la grande vallata della Magra solcata dal fiume. Le alture
circostanti punteggiate da piccoli agglomerati di case che
parevano stringersi l’una all’altra, qualche pieve solitaria e i
ruderi di una torre quasi sepolti dal verde. Il panorama di
sempre.
Ogni mattina svegliandosi aveva ritrovato le stesse immagini,
gli stessi boschi, la stessa grande solitudine, e ogni notte sognava
del suo bel mare e della vita elegante che aveva condotto sino al
momento del matrimonio.
Riandava col pensiero a quando con la sorella passeggiava sul
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lungomare, ai suoi vestiti di taffetas, ai cappellini guarniti di
fiori e al parasole.
Sognava la riviera, dove la primavera inoltrata portava
sempre tiepidi refoli di vento dal mare, e dai muri dei giardini la
mimosa traboccava prepotente con i suoi tralci solari. Il mare
increspato era di un turchino acceso e piccole onde si
infrangevano sulla barriera di scogli appena sotto la passeggiata.
Colomba ricordava il momento in cui aveva preso coscienza
di dover lasciare quei luoghi, così ameni e solatii, per relegarsi in
un luogo sperduto di Lunigiana e ne era amareggiata, ma sapeva
anche di doversi ritenere fortunata, per aver trovato marito, lei
che si avviava ormai a rimaner zitella.
Certamente la sorella era stata più fortunata di lei che
sposando un ingegnere era rimasta a vivere in città e avrebbe
condotto un’ elegante vita sociale.
Colomba era decisamente brutta; era molto bassa di statura
come se in lei la crescita si fosse arrestata sui dodici anni. Il suo
viso era allungato e gli occhi avevano un’espressione dura. Il suo
carattere si era fatto sempre più difficile e arrogante quando, col
tempo, si era evidenziata tra le due sorelle una notevole diversità:
brutta e sgraziata la prima quanto graziosa e garbata la seconda.
Quando passeggiavano, accompagnate da una domestica che
le seguiva a rispettosa distanza, non poteva non notarsi la
grandissima differenza per cui le due sorelle in città erano
commentate e conosciute da tutti.
Colomba apparteneva ad una ricca famiglia ligure e per parte
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di madre vantava anche un’ importante parentela: Giuseppe
Mazzini; casualmente, dal matrimonio con un fiorentino
trapiantato in Lunigiana, lei ne avrebbe ripreso il cognome.
La sua famiglia era felice che il matrimonio fosse stato
concluso, poichè trovare un marito a una figlia così brutta, era
stata cosa non facile. Dopo ripetuti ripensamenti si era cercato in
un’altra regione una persona adeguata e inconsapevole della
notoria bruttezza di Colomba e dopo un certo tempo si era
trovata la soluzione.
Enrico era un ricco discendente di una nobile famiglia
fiorentina trapiantata in Lunigiana al tempo della dominazione
medicea, praticava l’arte del notaio, era buono e scapolo, ma era
soprattutto miope.
Si racconta ancora che era stato invitato da conoscenti
comuni a casa della fanciulla e al posto di Colomba gli fosse stata
fatta conoscere Luigia la bella sorella minore; la fanciulla era
piaciuta e il promesso sposo era ripartito.
Dopo poco la presentazione si era parlato di dote e fissata la
data delle nozze che sarebbero state, per sicurezza, celebrate in
Lunigiana, nella chiesa del palazzo dello sposo.
Il gioco era fatto.
Quando la sposa era arrivata all’altare coperta da candidi
veli, celebrati gli sponsali, il buon uomo aveva capito di essere
stato ingannato ma aveva preferito tacere e anzi, mai più aveva
voluto commentare l’accaduto.
Colomba aveva aveva apprezzato quella cerimonia sfarzosa. Il
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marito non aveva badato a spese, come si conveniva ai signori del
tempo e soprattutto perchè la chiesa era grande e non una
semplice cappella gentilizia. Costruita al tempo della
dominazione medicea in Lunigiana, era stata eretta da un ordine
monastico, i Serviti, che aveva privilegiato le dimensioni della
chiesa rispetto a quelle del convento annesso.
Quando questo era stato trasformato in residenza signorile,
del convento era rimasta la struttura, che, non essendo stata
ampliata, aveva reso al confronto la chiesa monumentale.
Per la cerimonia erano stati ordinati fiori e cere dalle più
premiate ditte italiane e un allestito nel salone del palazzo un
sontuoso banchetto.
Colomba aveva apprezzato subito la ricchezza della famiglia,
le molte domestiche, il “felice notte signoria” che le rivolgevano i
contadini alla sera, i numerosi poderi e la grande bontà del
marito.
Col matrimonio la coppia aveva ottenuto la stanza da letto più
grande, come in uso a quel tempo, mentre i suoceri erano andati
ad occuparne un’altra, sempre al piano nobile, ma meno
sontuosa.
La stanza da letto degli sposi comunicava direttamente con
quella destinata alla balia e ai bambini piccoli.
Colomba aveva presto partorito il suo primogenito ma, sorda
alle richieste del marito che avrebbe voluto usare per il neonato
un nome della tradizione famigliare, aveva imposto quello di
Pierino.
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Il carattere prepotente di Colomba non era il suo unico
difetto. Ella, con la conquista del matrimonio e la mancanza del
diretto paragone con una donna più bella o più giovane nella
casa, era diventata molto vanitosa.
Possedeva uno splendido corredo di lino fatto ricamare dalla
sua famiglia: camicie da notte e da giorno, corsetti, sottogonne e
biancheria varia; le lenzuola di lino portavano addirittura il
numero ricamato in rosso in un angolo, come pure era stato
ricamato il numero nelle tovaglie e nei tovaglioli. Possedeva
magnifici centri ricamati a punto inglese e a punto rinascimento
e per le finestre aveva tendine di organdis ricamato.
Tutto questo a Colomba non era bastato; la sua sete
insaziabile di eleganza la portava ad ordinare tele di lino dalle
più rinomate fabbriche italiane e straniere che venivano poi
mandate ad un convento di monache perchè fossero ricamate.
Ordinava un numero incalcolabile di prodotti di bellezza
dalle più reclamizzate case di cosmetici; crème, ciprie, colonia e
profumi, prodotti contro la caduta dei capelli.
Arrivavano figurini di moda da Parigi dove Colomba si serviva
per il proprio abbigliamento e cataloghi che proponevano un
ampio assortimento di calze.
Da Bologna le arrivava un invito personale da un atelier di
moda che le comunicava l’arrivo da Parigi delle ultime novità in
fatto di cappellini per signora e signorine.
Il marito non ebbe mai a rimproverarla per la grande
quantità di denaro che Colomba dissipava a piene mani, semmai
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era ella stessa che, annoiata della vita poco brillante che
conduceva, aveva preso l’abitudine di rimproverarlo e anche di
umiliarlo con il termine “piccagiun“ che, dalle sue parti al mare,
aveva il significato di “buono a niente.”
Colomba aveva anche un gran desiderio di frequentare il bel
mondo per cui in ogni momento la grande casa era allietata da
molti ospiti che vi soggiornavano a lungo e rallegravano con la
loro presenza la sua monotona vita di padrona di casa.
Tra gli ospiti che frequentavano quotidianamente la casa
erano da annoverarsi il parroco della parrocchia e gli altri del
circondario, i quali, quando per una qualche festa religiosa si
allestiva la grande chiesa, erano invitati a officiare cerimonie
solenni alle quali usavano partecipare anche mezzadri e contado.
Anche le feste e i ricevimenti privati erano assai frequenti e
ben se ne rendeva conto il buon marito quando arrivavano i
conti dai diversi fornitori.
Ma a Colomba non bastava la devozione del marito, nè il
confuso parlottio del suo piccino perchè, sempre annoiata da
quotidiane mansioni domestiche, preferiva oziare nei ricordi del
passato.
Non era una buona madre; il suo bambino era accudito da
una balia e lei quasi si dimenticava della sua esistenza, presa
com’era ad agghindarsi e profumarsi. E forse non ebbe a soffrire
neanche quando il piccino, morì prima ancora di riconoscere in
lei la mamma.
Di Colomba oggi rimane un ritratto che per la sua bruttezza
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nessun erede ha mai voluto; rimangono i resti del suo buon
marito, sepolto vicino all’acquasantiera della grande chiesa e
quelli del piccolo Pierino, che giace sotto una lastra bianca, al
fianco della sorella, Pia Caterina detta Luisita.
Sotto le arcate di pietra, ombrose e fresche, dove si dice che si
risentano i Salmi dei Serviti, disperse le proprietà, le tradizioni e
le memorie, solo il vento sussurrerà ormai “ felice notte
Signoria…”
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stradine quasi abbandonate portano ai piccoli cimiteri
sperduti nei boschi di Lunigiana
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qualche gradino di pietra e un vetusto cancello di ferro
appaiono davanti a noi
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alte file di cipressi ci accolgono sulla soglia
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una croce leggera pare danzare nell’aria
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l’alta erba e l’oblio nascondono ormai le tombe di molte
creature scomparse anche dalla memoria
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dignitose croci di ferro, senza nome, che il tempo consuma, si
confondono quasi tra le alte erbe
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antiche lapidi, dove i secoli sono riusciti a cancellare ogni
traccia di nome, restano mute testimoni di umili vite, di fatiche,
dolore e povertà, di antiche storie e di tradizioni perdute.
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E L’OCCHIO SCORRE QUESTA DI CASTELLI
ERMI TURRITA NOBIL TERRA; IL MAGRA
PER UN GREMBO DI MONTI IN SINUOSO
ARCO SI ADIMA
E LA RISPECCHIA.
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi
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BibliografiaE. Branchi: Storia della Lunigiana Feudale – Forni Editore
Bologna, vol.III, pp.20,21,22,23.
I Castelli della Lunigiana. A cura di P. Ferrari – Edizione
Cavanna -Pontremoli 1927. Tav.6,pp.20,21,22.
L’Araldica, fonti e metodi. A cura di Laura Galoppini – Editore
– La Mandragora, ( Giunta Regionale Toscana) edizione fuori
commercio da G. Sercambi.
Le illustrazioni delle Croniche Lucchesi, commenti di O.Banti,
E. Cristiani e De Simoni :Medaglioni Storici Pisani. 1932.
Mappa planimetrica della Lunigiana ricordata da Almagia`:
“Monumenta Italiae Cartographica”pag. 60-Acquerello su carta-
Piante antiche dei confini del 1643- rappresentante i vari feudi
lunigianesi.
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INDICE
Cenni storici sulla Lunigiana pag. 11
Luisita ” 21
Erina ” 33
Margherita ” 43
Maria ” 53
Maddalena ” 61
Romeo ” 71
Il prete ” 79
La bambina ” 89
Laurina ” 97
Anna Maria ” 105
La serva ” 117
L’infame ” 129
La Maestra ” 141
Genoveffa ” 151
Anselmo ” 163
Laura ” 175
Paulo ” 185
La signora ” 197
Zefra ” 209
Giulietta ” 221
Maria e Vergiò ” 231
Filomena ” 241
Tellio ” 249
Michele ” 259
Colomba ” 271
Bibliografia ” 301
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Prima edizione agosto 2002
Seconda edizione settembre 2009
Tipografia Digitale - Carrara
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