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LA FAME DEI PRIGIONIERI: LA SECONDA “PROVA” DI PASTORINO di Maria Teresa Caprile Carlo Pastorino era uno studente universitario della Facoltà di Lettere dell’Università di Genova ormai quasi trentenne quando, all’inizio del 1916, entrò nella scuola militare di Ceva, in provincia di Cuneo, per compiervi l’addestramento come soldato semplice 1 . Nel luglio di quell’anno, divenuto nel frattempo ufficiale, venne inviato in zona di guerra, de- stinato al fronte trentino in Vallarsa dove rimase fino al 25 maggio del 1917, quando venne trasferito con il suo reparto sul Carso; qui il 4 giugno fu catturato dagli austriaci du- rante l’assalto al monte Hermada; imprigionato in Boemia nella fortezza di Theresienstadt, vi fu detenuto fino al 15 novembre 1918 e fu congedato nel 1919. In questi dati si riassume dunque la vita militare di Carlo Pastorino, segnata da vicende dolorose che, terminato il conflitto e ritornato alla vita civile, prima (per pochi mesi) ancora da studente universitario e poi da insegnante, aveva inizialmente deciso di affidare solo alla sua memoria, sottraendosi così al nume- ro altissimo di soldati-scrittori che, sin dal 1918, avevano invece riversato in libri e articoli la propria testimonianza sugli anni vissuti in divisa. La prima fase di produzione libraria sulla Grande Guerra 1 Per più dettagliate notizie biografiche sullo scrittore si veda l’appendice Bio- grafia di Carlo Pastorino (pp. 339-346).

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LA FAME DEI PRIGIONIERI: LA SECONDA “PROVA” DI PASTORINO

diMaria Teresa Caprile

Carlo Pastorino era uno studente universitario della Facoltà di Lettere dell’Università di Genova ormai quasi trentenne quando, all’inizio del 1916, entrò nella scuola militare di Ceva, in provincia di Cuneo, per compiervi l’addestramento come soldato semplice1. Nel luglio di quell’anno, divenuto nel frattempo ufficiale, venne inviato in zona di guerra, de-stinato al fronte trentino in Vallarsa dove rimase fino al 25 maggio del 1917, quando venne trasferito con il suo reparto sul Carso; qui il 4 giugno fu catturato dagli austriaci du-rante l’assalto al monte Hermada; imprigionato in Boemia nella fortezza di Theresienstadt, vi fu detenuto fino al 15 novembre 1918 e fu congedato nel 1919. In questi dati si riassume dunque la vita militare di Carlo Pastorino, segnata da vicende dolorose che, terminato il conflitto e ritornato alla vita civile, prima (per pochi mesi) ancora da studente universitario e poi da insegnante, aveva inizialmente deciso di affidare solo alla sua memoria, sottraendosi così al nume-ro altissimo di soldati-scrittori che, sin dal 1918, avevano invece riversato in libri e articoli la propria testimonianza sugli anni vissuti in divisa. La prima fase di produzione libraria sulla Grande Guerra

1 Per più dettagliate notizie biografiche sullo scrittore si veda l’appendice Bio-grafia di Carlo Pastorino (pp. 339-346).

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era stata infatti a carattere prevalentemente documentario e memorialistico2, per lo più celebrativa dell’eroismo dei soldati e, cadute le remore imposte dalla censura e dall’au-tocensura, non esente da critiche nei confronti delle alte ge-rarchie militari che ai soldati avevano richiesto con troppa leggerezza inutili sacrifici e spesso avevano usato gli uo-mini come “carne da cannone” (secondo i principi militari propugnati soprattutto dal generale Cadorna). Furono allo-ra pubblicati numerosi diari di guerra che spesso erano la trascrizione ragionata degli appunti segnati frettolosamente dai soldati sui loro taccuini, testi certo interessanti come do-cumenti ma che spesso, proprio per la loro genesi, manca-vano di evidenti qualità di scrittura; il linguaggio era diretto e concreto, con abbondanza di vocaboli del gergo militare e dei molteplici dialetti che rendevano l’esercito italiano una piccola babele, nella quale, peraltro, ci si riusciva comun-que a capire, come illustrano le belle pagine del racconto La paura di Federico De Roberto3.

Nella maggior parte dei diari e delle memorie l'ele-mento che emerge come centrale nell’esperienza in corso è l’annullamento di ogni individualità, la tre-menda monotonia di una guerra ripetitiva che produ-ceva morte come una catena di montaggio4:

questa guerra è incomparabilmente diversa da quelle che l’hanno preceduta e in particolare da quelle del nostro Ri-sorgimento, alla cui memoria e al suo stridente confronto

2 Per un quadro generale della produzione letteraria italiana sulla Grande Guerra si rinvia a Francesco De Nicola, Letteratura di guerra, in Maria Teresa Capri-le – Francesco De Nicola, Gli scrittori italiani e la Grande Guerra, Formia, Ghenomena, 2014, pp. 15-33.

3 Federico De Roberto, La paura, in La paura e altri racconti della Grande Guerra, Roma, e/o, 2013, pp. 20-47.

4 Antonio Gibelli, La Grande Guerra degli italiani. 1915-1918, Milano, Rizzoli, 2007, p. 101.

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vanno i pensieri persino di chi, interventista, vi aveva aderi-to volontariamente e con entusiasmo:

Dal Risorgimento in poi quale immenso mutamento. Ci penso spesso: allora grandi risultati – positivi o negativi – in pochi mesi. […] Ah, la guerra moderna! Guerra di metri, di conquista, di tempo, e di milioni di uomini. [confronto] l’eroismo garibaldino con la pazienza atroce di queste campagne moderne, e la fama che allora veniva per un atto e l’oscurità che avvolge e terrà avvolti i nostri morti di ora.5

I libri sulla guerra usciti negli anni immediatamente succes-sivi alla sua conclusione ebbero un certo seguito e seppero conquistare un discreto numero di lettori, evidentemente curiosi di saperne di più – rispetto agli articoli dei giornali e di propaganda usciti durante gli anni di guerra6 –, sui fatti del conflitto da poco concluso; ma in realtà, tra il 1919 e il 1924, ne vennero pubblicati ogni anno solo poco più di un centinaio su oltre 5.000 (e dunque il 2% del totale)7.Nel 1921 l’interesse degli italiani era già prevalentemente rivolto all’incerto presente, che stava ponendo le premes-se per l’ascesa al potere del fascismo, piuttosto che, dopo la “vittoria mutilata”, alle vicende della guerra conclusa; anzi, si stava diffondendo un atteggiamento di rifiuto nei confronti di quanti avevano combattuto e, come Pastorino, erano tornati alla vita civile. Esemplare di questo sentire è un passo dell’Introduzione alla vita mediocre di Arturo Stanghellini, laddove il protagonista, dopo aver raccontato

5 Gualtiero Castellini, Lettere (1915-1918), Milano, Treves, 1921, pp. 41, 54-55.6 Su questi argomenti rimane fondamentale Mario Isnenghi, Il mito della grande

guerra, Bologna, Il Mulino, 2014 (I edizione Bari, Laterza, 1973). 7 Cfr. Giovanni Ragone, Un secolo di libri. Storia dell’editoria in Italia dall’U-

nità al post-moderno, Torino, Einaudi, 1999, p. 66.

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le proprie vicissitudini militari vissute combattendo per tre anni ad una signora, si sente domandare da lei:

Ma ora, Arturo, ti metterai a fare qualcosa?8

Per contro i reduci, che si sentivano nel diritto di ricevere riconoscimenti e ricompense per i sacrifici patiti, andarono incontro a cocenti delusioni e svilupparono un profondo ri-sentimento verso

il governo, la classe dirigente e la società dei bor-ghesi imboscati, i commercianti speculatori, gli in-dustriali ‘pescecani’, gli operai esentati dal fronte9.

La distinzione tra combattenti e civili (non dimentichiamo che il fronte percorreva una porzione ben delimitata dell’I-talia e che quindi, tranne nelle zone dove si verificarono sfollamenti, esso era fuori dalla percezione di gran parte della popolazione italiana) si era costituita già nel corso del conflitto e, durante le licenze, i soldati avvertivano l’estra-neità del mondo normale alle loro vicende e sentivano di vivere un’esperienza sostanzialmente incomunicabile. Pe-raltro questa percezione dell'esistenza di due paesi separati e separanti all’interno della stessa nazione e dello stesso po-polo era condivisa da altre nazioni belligeranti:

Siamo separati in due paesi stranieri l’uno all’altro: il fronte, laggiù dove ci sono troppi infelici, e la zona lontano dai combattimenti, dove ci sono troppe per-sone contente10.

8 Arturo Stanghellini, Introduzione alla vita mediocre, a cura di Giovanni Capec-chi, Pistoia, Libreria dell’Orso, 2007, p. 149.

9 Emilio Gentile, Storia illustrata della Grande Guerra, Roma-Bari, Laterza, 2014, p. 180.

10 Henri Barbusse, Le feu, traduzione italiana Il fuoco, Milano, 1918, citato in A. Gibelli, Op. cit., 2007, p. 172.

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Tuttavia proprio nel 1921 uscirono alcuni tra i più significa-tivi libri sulla prima guerra mondiale che, nella loro diffe-rente varietà, di fatto ne conclusero la prima e più massiccia fase di produzione: dal primo romanzo italiano ispirato a quegli eventi – Rubè di Giuseppe Antonio Borgese – al dia-rio di Paolo Monelli Le scarpe al sole, che sarà tra i libri più venduti e letti sull’argomento11; dal magmatico Notturno di Gabriele d’Annunzio a Viva Caporetto! del già allora pro-vocatorio Curzio Malaparte, al romanzo futurista L’Alcova d’acciaio di Marinetti, dove l’immagine del titolo alludeva al da lui diletto carro armato. Ciascuno di questi libri deli-neava, come ovvio, una propria immagine della guerra, tra il bellicismo eroico di Marinetti e d’Annunzio e la visione rivoluzionario – politica di Malaparte, dalla creazione del soldato inetto di Borgese (che anticipava di pochi anni lo Zeno di Svevo) alle cronache realistiche e demistificanti di Monelli che, appunto per il sopraricordato comune senti-mento di rimozione della guerra, si vide rifiutare il suo libro da più editori, come ricorderà nella nota introduttiva alla prima edizione, datata febbraio 1921:

Il manoscritto di questo libro era compiuto da un pezzo, ma gli accorti editori me lo rifiutarono, or è già più di un anno, perché era passato di moda; per-ché pareva ormai cattivo gusto occuparsi ancora dei vivi e dei morti che ubbidirono ad un ordine di olo-causto12.

.Pastorino aveva cominciato a seguire la produzione lette-raria sulla guerra sin da quando era soldato in Vallarsa e gli

11 Tra i libri sulla guerra i più venduti furono il Notturno (100.000 copie), Le scar-pe al sole (70.000 copie) e Trincee di Carlo Salsa (50.000 copie), dati riportati in Michele Giocondi, Lettori in camicia nera. Narrativa di successo nell’Italia fascista, Messina-Firenze, D’Anna, 1978, pp. 18-22.

12 Paolo Monelli, Le scarpe al sole, Milano, Mondadori, 1971, p. 5.

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capitò, ricevendo una rivista che riportava alcune poesie di argomento militare, di avere l’impressione che per l’autore “la guerra altro non fosse che un campo d’immagini nuove, di coreografie impensate, di spettacoli grandiosi: questo e nulla più”13. Pastorino non cambiò parere nel dopoguerra e, considerando quanti commilitoni si erano dedicati alla stesura delle pro-prie memorie di guerra, non li approverà, come si legge nella Prova della fame nel capitolo Le farfalle sotto l’arco di Tito, che riassume il suo pensiero polemico sui libri di guerra:

La guerra, quest’enorme e spaventevole carneficina, ha dato già migliaia di volumi; e pareva che gli uo-mini la desiderassero, quasi, per scrivere di essa e su di essa. Ma sono volumi nati morti; perché l’enorme e spaventevole cosa non è fatta per gli allineatori di parole. Quei volumi sono i servi, i lacchè, i lustra-scarpe della guerra e non altro (p. 128).

Queste considerazioni spiegano allora le ragioni per le quali Pastorino, tornato dalla prigionia, si era invece dedicato alla stesura di pagine suggeritegli dal suo mondo contadino al quale, con la fantasia, era tornato nei lunghi giorni trascorsi a Theresienstadt e sul quale, forse per evadere dal quel te-tro grigiore, aveva cominciato già allora a scrivere, come testimonia un passo del capitolo Le farfalle sotto l’arco di Tito. E così, dopo un paio di libri di versi giovanili14, Pasto-rino esordì come scrittore nel 1921 e poi si ripropose nel 1924, sollecitamente guidato da Alfredo Galletti – già suo professore di Letteratura Italiana all’Università di Genova e poi all’Università di Bologna sulla cattedra che era stata di

13 Carlo Pastorino, La prova del fuoco, Rovereto, Egon, 2010, p. 93 (d’ora in poi nelle note quest’opera sarà richiamata con la sigla PFU).

14 Si veda in appendice la Biografia di Carlo Pastorino.

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Giovanni Pascoli –, con i libri autobiografici La madonna di Fanaletto e Il ruscello solitario. Tuttavia, trascorsi ormai quasi dieci anni dagli eventi, che gli furono necessari per far decantare la furia e il dolore dei ricordi, Pastorino ritenne che fosse giunto il momento – pur sentendosi ancora tanto contrario alla memorialistica militare da dichiarare addirit-tura il suo rifiuto di leggerla –, di dedicarsi al riordinamento e a una stesura dei suoi appunti di guerra15, mosso dal de-siderio di lasciare ai propri figli e nipoti una testimonianza veritiera di ciò che egli aveva fatto per affrontare le prove, della guerra prima e della prigionia dopo, alle quali la Prov-videnza (secondo le sue convinzioni religiose di fervente cattolico) lo aveva sottoposto.Inizialmente Pastorino utilizzò le sue memorie e i docu-menti conservati come ufficiale seguendo uno schema cro-nachistico; si servì dunque degli appunti segnati (ma in La prova della fame negherà questa circostanza) su un taccuino ricevuto dall’edicolante della stazione di Klagenfurt il 13 giugno 1917, durante il suo viaggio di prigioniero verso la Boemia. Dopo aver riordinato quegli appunti, senza però programmarne la pubblicazione per le ragioni prima indica-te, nel 1925 cominciò a redigere un preciso e rapido resocon-to – conservato nell’archivio dello scrittore amorevolmente custodito a Masone dai suoi eredi – steso continuativamente senza suddivisioni in capitoli e senza annotazioni soggetti-ve, degli avvenimenti militari vissuti dall’arrivo al fronte nell’estate del 1916 sino all’inverno di quello stesso anno. In seguito passò a una nuova elaborazione, suddividendo la materia in brevi capitoli e introducendo passi dialogati e de-scrittivi prima assenti; più tardi poi, in un’ulteriore redazio-

15 Le notizie sull’elaborazione dei materiali che porteranno alla stesura della Pro-va del fuoco sono desunte dalle pp. XVI-XXI dell'introduzione di Francesco De Nicola a Carlo Pastorino, La mia guerra. La prova del fuoco. La prova della fame, Genova, Marietti, 1989 e dalla postfazione all’edizione 2010 della Prova del fuoco, pp. 201-205.

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ne, diede vita a un personaggio autobiografico protagonista degli episodi che nelle precedenti stesure erano raccontati impersonalmente e ora invece suddivisi in capitoli temati-co-cronologici. Questo libro uscì nell’estate del 1926 presso la casa editrice cattolica SEI di Torino con il titolo La prova del fuoco; era formato da cinquantuno capitoletti, due dei quali presenta-vano prose ritmiche e alcune poesie, che accompagnavano minutamente la vita militare dello scrittore narrata in prima persona.

Seguito da notevole successo e presto esaurito, La prova del fuoco ebbe nel 1931 una seconda edizione, considere-volmente ampliata (i capitoli da 51 passavano a 81) e più organicamente strutturata, in modo da perdere progressiva-mente la dimensione memorialistica e da avvicinarsi, se non proprio al romanzo, ad un’opera essenzialmente narrativa, che aveva al suo centro un protagonista sempre meglio de-lineato. Ma la nuova edizione della Prova del fuoco pre-sentava nuovi passi, dettati evidentemente da quanto stava accadendo rispetto al tempo della prima edizione, contro gli imboscati e i profittatori, con allusioni palesi a quanti, du-rante il fascismo, avevano vantato presunti meriti di guerra per ottenere privilegi. Pastorino già ne aveva individuato le premesse proprio in tempo di guerra quando aveva con-statato come i soldati imboscati fossero pronti a sfruttare le situazioni più di quanti invece realmente rischiavano la vita in combattimento:

Il gruppo dei sergentini ben rasati s’ingrossa e noi siamo spinti sempre più indietro. […] Con l’immagi-nazione sono corso all’avvenire; e ho visto che l’av-venire non sarà nostro, ma di costoro. In tutti i campi

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saranno in testa; in tutti meno quello di battaglia (p. 120)16.

La prova del fuoco, caratterizzato “da una visione etica del-la guerra, intesa, pur con tutti i suoi orrori e le colpe dei responsabili, come occasione di fratellanza e di sacrificio di fronte a una dolorosa prova (di qui il titolo) imposta da Dio agli uomini”17, mancava di quei toni di esplicita denuncia – qui gli ordini sono tutti eseguiti e, anche se assurdi, mai nep-pure discussi – che troveremo invece in un altro dei grandi libri sulla prima guerra mondiale, Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu18; e tuttavia velatamente il libro di Pastorino alludeva, ad esempio, alla distanza incolmabile tra i soldati che in guerra morivano e i politici che la guerra avevano voluto, tra il paese formato da cittadini pronti al sacrificio e quelli chi detenevano il potere, politico e industriale so-prattutto; e ciò lo scrittore ligure aveva con chiarezza affer-mato, quasi programmaticamente, già nel secondo capitolo, quando, appena giunto al fronte, alla domanda di un solda-to: “Quando finirà la guerra?” aveva osservato che “gli am-basciatori, i ministri, i regnanti a Londra, a Parigi, a Roma banchettavano insieme e allo sciampagna brindavano, con i calici alzati alla vittoria, ma aggiungevano, brindando, che

16 Sono parole che riecheggiano tristemente quelle di Giuseppe Cesare Abba, vo-lontario della spedizione dei Mille che, il 27 ottobre 1860, dopo che a Teano Garibaldi ebbe devoluto a Vittorio Emanuele II i territori meridionali conqui-stati in pochi mesi, così scrive: “Il Dittatore non andò a colazione col Re. Disse d’averla già fatta. Ma poi mangiò pane e cacio conversando nel portico d’una chiesetta, circondato dai suoi amici, mesto, rassegnato. A che rassegnato? Ora si ripasserà il Volturno, si ritornerà nei nostri campi o chi sa dove; certo non saremo più alla testa, ci metteranno alla coda” (G. C. Abba, Da Quarto al Vol-turno. Noterelle d’uno dei Mille, a cura di Francesco De Nicola, Sestri Levante, Gammarò, 2010).

17 Francesco De Nicola, postfazione cit., p. 205.18 Scritto tra il 1936 e il 1937, il libro fu pubblicato per la prima volta dalle Edizio-

ni Italiane di Cultura di Parigi, dove l’autore, perseguitato dal fascismo, viveva in esilio. In Italia uscì per la prima volta nel 1945 presso Einaudi.

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la vittoria sarebbe stata cosa lontana, che la guerra sarebbe stata lunga lunga” e conclude amaramente:

Che ne sanno a Londra, a Parigi, a Roma? La guer-ra si fa qui: essi chiacchierano: qui si muore (p. 15).

La prova del fuoco, pubblicato quando il fascismo aveva conquistato il potere, aveva dunque evitato di collocarsi nel-la linea ufficiale sostenuta dal regime, secondo la quale la guerra ’15-’18, interpretata in chiave nazionalista, era stata la necessaria premessa alla rivoluzione fascista e dunque i libri che la raccontavano dovevano evitare ogni accenno pa-cifista e darne invece una raffigurazione epica. Ma, ahimè, di tali libri c’era carenza e di qui la polemica di regime con-tro i libri di guerra stranieri diffusi in Italia (come Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, del quale però fu vietata la visione della trasposizione cinematografica19), con un intervento di Bontempelli che lamentava l’indifferenza dei lettori italiani per libri di nostri scrittori, come Nostro purgatorio di Antonio Baldini o quelli scritti da Monelli, Salsa, Soffici, il già citato Stanghellini e Puccini considerati non inferiori al libro di Remarque20. Seguì poi un acceso intervento di Luigi Tonelli che auspi-cava un massiccio ritorno degli scrittori italiani ai libri sulla guerra, ovviamente in ottica fascista, nella certezza che essi avrebbero avuto numerosi lettori individuati sia tra quanti avevano combattuto (“Guai se non amassero i loro ricordi

19 Philip. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Bari, Laterza, 1975, p. 305. Il film di Lewis Milestone, All’ovest niente di nuovo (1930) era critico non solo nei confronti della prima guerra mondiale, ma era schierato contro tutte le guerre.

20 Massimo Bontempelli, L’avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 1938, p. 198.

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più sacri”), sia nei giovani plasmati dal fascismo (“Guai se non avessero interesse per la guerra dei padri”)21. Questo appello cadde nel vuoto e ciò spiega perché una del-le voci ufficiali del regime, Francesco Formigari, nel suo saggio La letteratura di guerra in Italia (1935), avesse ce-lebrato solo i testi ispirati da forte nazionalismo e dunque in qualche misura interpretabili come prefascisti, mentre ave-va dato valutazioni negative sui libri pacifisti, come Cola di Mario Puccini e Giorni di guerra di Giovanni Comisso, e aveva liquidato con poche e generiche parole le opere di autori non allineati con il regime come appunto La prova del fuoco sul quale scrive:

La narrazione dei fatti e delle esperienze comuni a tutti i combattenti giunge a comporsi in un tono par-ticolare di sentimento e in uno stile proprio: si nota, cioè, la presenza dello scrittore22.

Un giudizio ben più articolato e meno frettoloso si leggerà invece nell’ampio volume dedicato al Novecento dal suo maestro Alfredo Galletti che, rilevate le compiaciute lette-rarietà di Kobileck di Ardengo Soffici e di Le scarpe al sole di Monelli, osserverà invece che La prova del fuoco

esprime più direttamente e ingenuamente le impres-sioni di un animo schietto e equilibrato di fronte all’orrore della guerra, che non ci mostra mai lo scrittore nell’atto di ammirarsi allo specchio della propria immaginazione. […] Esso ci conquista colla sua semplicità, colla sua spontaneità, con quella pia-na scorrevolezza dell’espressione così avvincente:

21 Luigi Tonelli, Ricordi di guerra, “Il Marzocco”, 28 dicembre 1930, p. 3.22 Francesco Formigari, La letteratura di guerra in Italia, 1915-1935, Roma, Isti-

tuto nazionale fascista di cultura, 1935-XIII, p. 82.

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tutti i sentimenti – dolore e amore, sdegno e pietà – vi rampollano naturalmente dal succedersi delle espe-rienze e rispondono alle reazioni di un animo candi-damente umano. Sono pregi assai rari che ritornano anche nei romanzi e nelle novelle di Pastorino di ar-gomento contadino23.

Ma per Carlo Pastorino, esaurita l’esperienza della vita in trincea e dei sanguinosi combattimenti, nel giugno del 1917 era cominciata la guerra vissuta da prigioniero, tema in real-tà fino ad allora piuttosto trascurato dai nostri scrittori dopo il risorgimentale Le mie prigioni (1831), alcune pagine do-lorosissime delle Ricordanze (1879) di Luigi Settembrini e con l’eccezione luminosa di quelle di Gadda disseminate tra Il castello di Udine (1934) e Il giornale di guerra e di prigionia (1955). Perché questo scarso interesse per tanta sofferenza che pure aveva riguardato 600.000 italiani, dete-nuti nelle varie carceri dell’impero austro-ungarico e morti a migliaia durante la prigionia? Una possibile risposta è da ricercarsi nell'opinione diffusa sui prigionieri tra gli alti co-mandi dell'esercito italiano, secondo la quale il bravo solda-to era quello che almeno era rimasto ferito (si pensi al passo di Un anno sull’altipiano di Lussu, dove il generale Leone si indispettisce perché l’ufficiale protagonista non è mai sta-to ferito e lo accusa di essere “un timido” e cioè un codar-do) e che si faceva uccidere piuttosto che cadere in mano nemica, tanto che appunto il prigioniero era generalmente visto come un soldato pavido che aveva trovato una scappa-toia per sopravvivere, un vigliacco che non era giunto fino al sacrificio supremo; e prova di ciò era data dal fatto che, mentre i prigionieri di altri paesi belligeranti erano assistiti dai rispettivi governi, ciò non accadeva, o si verificava in proporzioni assai minori, per i prigionieri italiani.

23 Alfredo Galletti, Il Novecento, Milano, Vallardi, 1939, p. 595.

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E così, mentre La prova del fuoco, il libro delle sue espe-rienze di combattente in Vallarsa e poi sul Carso, continua-va a ottenere un discreto successo, raggiungendo le 5.055 copie vendute nelle sue edizioni uscite presso la SEI nel 1931, 1933 e 1935 dal 30 giugno 1931 al 30 giugno 1939, Pastorino decise di raccontare la seconda parte della sua vita militare, quella di prigioniero, cominciata con la cat-tura sul monte Hermada ricostruita nell’ultimo capitolo di La prova del fuoco (e qui proposta come premessa al libro successivo), peraltro già preannunciata nella prefazione alla stessa Prova del fuoco la cui dedica era stata rivolta

ai dilettissimi Cesare Ludovici, Paolo Perrini, Piero Dottori, Mario Labroca ricordando la tetra camera-ta 101 della fortezza di Theresienstadt in Boemia.

Attingendo nuovamente dagli appunti riordinati nel 1919, egli scrisse La prova della fame24, alcuni capitoli del qua-le nel frattempo erano cominciati ad uscire, a partire dal febbraio 1937, sulla terza pagina del quotidiano della curia genovese “Il nuovo cittadino”. Nel 1938 egli propose il li-bro alla SEI, la casa editrice che aveva pubblicato La pro-va del fuoco, ma l’accoglienza non fu favorevole perché il consulente che aveva esaminato il manoscritto espresse (in una lettera del 24 agosto 1938) questo non entusiasmante parere:

Il Pastorino scrive sempre bene ed è interessante; ma per questo volume direi: 1) È troppo prolisso e non poche pagine si potrebbero stralciare. 2) Non so se oggi, dopo venti anni, e dopo la copiosa letteratu-

24 Le notizie sulla gestazione della Prova della fame sono desunte dalle pp. XXI-XXIV dell’introduzione di Francesco De Nicola a Carlo Pastorino, La mia guerra, cit.

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ra in merito, il lavoro possa ancora destare grande interesse. Personalmente sono però del parere che, anche dopo venti anni, il libro interessi ancora e con-venga. Ma è però necessario sia sveltito un poco.

Non è noto se lo scrittore sia intervenuto poi sul testo a se-guito di questa richiesta, ma evidentemente l’accordo non venne raggiunto e il libro uscì nel 1939 (in due successive edizioni di 1.000 copie ciascuna) presso un’altra, ma più piccola casa editrice cattolica milanese, l'Ancora, che rac-coglieva l’attività di alcune altre piccole case editrici catto-liche prevalentemente lombarde. In realtà già dal 1934 Pastorino vi pubblicava suoi libri – peraltro senza troppo successo se, in una lettera del diretto-re dell’11 novembre 1939, proprio all’indomani dell'uscita della Prova della fame, si leggeva che

l’Ancora, finora, dalle edizioni Pastorino non ha avuto che l’onore. Non vorrà certo pensare che si abbia avuto un guadagno: perché osservando le gia-cenze ci sarebbe da spaventarsi.

In ogni caso le prime edizioni della Prova della fame furono ottimamente accolte dalla critica, con recensioni molto fa-vorevoli di lettori autorevoli25 e anche il pubblico gli rivolse una buona accoglienza, tanto che le due edizioni andarono esaurite e nel 1943 finalmente la SEI ristampò il libro in terza edizione, poi seguita dalla quarta nel 1954 proposta in edizione ampliata e definitiva (che è quella seguita in questa nuova ristampa).

25 Cfr. p. 291 degli Scritti su Carlo Pastorino in Gabriella Corbo Cerruti, Contri-buto alla bibliografia di Carlo Pastorino, in AA.VV., Atti del convegno nazio-nale di studi “L’opera letteraria di Carlo Pastorino” (Genova-Masone, 15-17 maggio 1987), a cura di Francesco De Nicola, Genova, Ecig, 1988 (d’ora in avanti nelle note quest’opera sarà citata come Atti).

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Come per La prova del fuoco, anche la seconda edizione di La prova della fame venne ampliata, passando dagli ini-ziali sessantotto capitoli a settantadue, in conseguenza non tanto dell’inserimento di nuovi episodi, quanto soprattutto di una diversa organizzazione e suddivisione della materia, con numerose varianti; queste riguardavano per lo più scelte stilistiche differenti volte alla sintesi e alla semplificazione, ma anche con una decisa tendenza all'eliminazione sia di precisazioni superflue (riduzione delle citazioni di date e di luoghi non indispensabili), sia di dettagli sui sentimenti provati non tanto dal protagonista, ma soprattutto dagli altri personaggi, nel tentativo di ridurre ogni concessione al pa-tetismo e alla retorica.

La premessa della I edizione, datata I settembre 1939, si richiamava, con un’enfasi inusuale in Pastorino, alla nuova guerra appena esplosa per partecipare alla quale egli, ormai ultracinquantenne, dichiarava di avere già pronta quella di-visa del Regio Esercito Italiano che aveva deposto nel 1919 e che era il simbolo

di quest’Italia che da qualsiasi nuova prova alla qua-le si cimentasse, uscirebbe vittoriosa e gloriosa come sempre.

Ma pagato questo inevitabile scotto propagandistico inizia-le, richiesto da una censura di regime sempre più intran-sigente nel concedere il lasciapassare a libri soprattutto di argomento militare, La prova della fame si configurava tuttavia come un esplicito affresco pacifista, rivelandosi contrario alla guerra sin dalle prime pagine segnate dall’as-senza di rivalità tra i soldati di eserciti nemici. Nel capitolo iniziale, infatti, gli ufficiali austriaci accolgono con il mas-simo rispetto i parigrado italiani che sono appena divenuti loro prigionieri, rivelando così una solidarietà tra militari

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che era la negazione dello spirito bellicoso richiesto dalla propaganda fascista. Peraltro anche se in seguito la prigio-nia non mancherà di rivelarsi crudele, in vari episodi Pasto-rino si pronuncerà apertamente contro la guerra:

Dovremo dirci che non avvenga mai più che popoli prosternati al piede della stessa croce in una stessa fede appuntino le armi per annientarsi a vicenda (pp. 267-268, in I calvari delle vallate austriache).

Tuttavia la situazione dell’autunno del 1939 induceva al pessimismo e la minaccia di una nuova, lunga e forse an-cor più sconvolgente guerra era ben avvertibile, tanto che Pastorino assumerà un ruolo quasi profetico nelle parole di uno dei personaggi della Prova della fame:

Questo immane flagello che gli uomini hanno voluto non li farà rinsavire […]; e domani ricominceran-no a lottare tra loro, a uccidersi tra loro, con una successione ininterrotta di ondate di popoli gli uni contro gli altri che non avranno fine sino a che un vincitore e un vinto rimangano sotto il sole. Perché è chiaro che la fine imminente di questa guerra imma-ne e la pace che la seguirà non saranno che il semen-zaio di altre guerre future, e già il cuore a pensarle ne trema (Il filosofo dell’Elba, p. 215).

E che, nonostante i toni della premessa fossero patriottardi, Pastorino non fosse inquadrato nel regime – in ciò degno allievo dell’antifascista professor Alfredo Galletti – lo aveva dimostrato il rifiuto che egli ricevette quando volle parteci-pare, appunto con La prova della fame, al concorso annuale dell’Accademia d’Italia del 1941, perché l’autore non ave-va allegato al libro l’indispensabile dichiarazione di essere iscritto al PNF con il relativo numero di tessera, che peral-

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tro non risulta egli avesse mai preso. Tant’è che, quando nel marzo 1943, il libro venne ristampato dalla SEI, al posto della premessa della prima edizione in linea con le attese del regime, Pastorino vi antepose invece una prefazione priva di retorici richiami alla guerra in corso e segnata piuttosto dalla dolente rievocazione di quella ormai affidata alla memoria.

Sebbene non mancassero accenti polemici contro la mani-polazione delle notizie operata dai giornali già denunciata nella Prova del fuoco, nella Prova della fame Pastorino, ri-correndo al ricordo di vicende lontane venti anni, assumeva generalmente un tono più pacato e disteso, a mano a mano che subentrava l’assuefazione alla grigia vita dei prigionie-ri, che avevano accesso solo a echi lontani e occasionali delle vicende della guerra che si svolgevano ormai a miglia-ia di chilometri di distanza da loro, con contatti rarissimi e difficili con le famiglie. Pastorino e compagni, detenuti nella fortezza boema dall’inizio dell’estate, ricevettero solo a metà settembre i primi pacchi da casa: all’autore furono consegnate tre cassette, con dentro numerosi panini all’olio, in uno dei quali era stato messo un ritaglio del giornale ge-novese “Il Caffaro”: vi si riportava la notizia che al tenente Carlo Pastorino era stata assegnata la medaglia d’argento al valor militare come “eletto esempio di costante audacia e sprezzo del pericolo” dimostrati nell’attacco al monte Cor-no, in Vallarsa, nel settembre 1916. L’inattività forzata, conseguente anche alla denutrizione e alla mancanza di energie, non di rado sfociava in situazioni esasperate:

Scoppiano ire improvvise; e violenti litigi pongono gli uni contro gli altri giovani che fino a ieri erano stati amici. Certuni impazziscono (in Tre patate, p. 77)26.

26 Nella versione originale, quella del 1939, c’era un frase in più: “Ne hanno por-

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E qui Pastorino affrontava di sfuggita uno dei grandi proble-mi conseguenti alla partecipazione alla guerra (e per lo più ignorato dagli scrittori e dagli studiosi) e cioè la perdita del senno come conseguenza dei traumi subiti.

Una figura nuova si aggira nei campi di battaglia, negli ospedali delle retrovie e nelle pagine degli specialisti dell'alienazione mentale: è la figura del soldato impazzito, smemorato, ammutolito, che non riconosce gli altri ed è divenuto irriconoscibile, tra-volto da una radicale metamorfosi27.

Le guerre del Novecento, a cominciare da quella russo-giap-ponese del 1904-1905, hanno qualcosa di terribilmente nuo-vo rispetto a tutte quelle che le hanno precedute:

e questa tremenda novità ha lasciato tracce senza precedenti sui corpi e sulle menti dei protagonisti. […] La guerra moderna non è più un combattimento più o meno personale, conforme all’idea che ce ne siamo fatta da secoli; essa è attualmente una sorta di carneficina industriale dalle procedure perfezionate. Il pericolo, la morte stessa si presentano ora sotto forme nuove, inusitate, alle quali la nostra psicologia non si è ancora assuefatta, di fronte alle quali non ha ancora preso posizione. […] La tecnica attuale della guerra differisce totalmente dalla tecnica delle guerre precedenti dal punto di vista delle sue influen-ze psicologiche e psicopatologiche. […] Le battaglie moderne, terrestri e navali, per la subitaneità, l’e-stensione e l’orrore delle distruzioni, agiscono sem-

tati al manicomio e ne porteranno ancora”.27 Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni

del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 122.

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pre più a somiglianza delle catastrofi cosmiche, dei terremoti, ad esempio, che determinano delle vere e proprie epidemie di turbe psicotiche. Come nei gran-di disastri collettivi si vedono soldati smarriti, diso-rientati, fuggire meccanicamente davanti a sé, spa-esati, incoscienti, talvolta allucinati, che non sanno più quello che fanno28.

A volte un battaglione era spazzato via dalle artiglierie o dal fuoco della mitragliatrice senza che i soldati avessero nem-meno il tempo di vedere il nemico: la morte fulminea che inghiotte centinaia di uomini, ma anche l’allarme continuo, i bombardamenti interminabili, alterano lo stato mentale dei combattenti.

È stato calcolato – seppur la cifra vada considerata con approssimazione – che i militari ospedalizzati per ragioni psichiatriche siano stati circa 40.000. Spesso i fanti arrivavano alle soglie degli ospedali in condizioni fisiche di estrema prostrazione, emaciati, denutriti, in preda alle febbri, testimoniando nel cor-po esaurito dalle fatiche le difficili condizioni della vita di trincea. […] Il manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo fra il 1915 e il 1918 aprì le porte a 269 militari provenienti da tutte le regioni italiane e lo fece pur non avendo allestito al suo interno una se-zione psichiatrica militare. Tutti gli internati si offri-vano allo sguardo psichiatrico attraverso una serie di comportamenti anormali connessi all’attività bel-lica che ne avevano reso incompatibile la presenza al fronte o fra le file dell’esercito. […] Se la guerra aveva creato uomini nuovi – soldati impazziti, sme-morati, impauriti, regrediti –, il dopoguerra continuò

28 Antonio Gibelli, Op. cit., 2007, pp. 18, 22, 20.

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ad affollare la scena sociale di figure inedite come quella del veterano che, dopo che aveva varcato il confine tra due mondi sociali disgiuntivi, fra pace e guerra, era ritornato ridefinito nella sua identità. Il materiale clinico del Sant’Antonio Abate registra il passaggio di queste figure: ricoveri di reduci e di civili con alienazioni strettamente connesse alla guerra proseguirono per molti anni, furono registrati ingressi addirittura fino al 1929.29

La vita priva di avvenimenti conciliava, nel protagonista della Prova della fame (che anche qui raccontava in prima persona), il ritorno alla dimestichezza e alla contemplazione del mondo naturale, descritto con sapiente attenzione e sen-sibilità e, con i primi permessi di uscita dalla prigione alla vigilia della fine della guerra, nel paesaggio campestre sol-cato dalle acque dei grandi fiumi Eiger ed Elba, si profilava un sempre più netto e convinto sentimento di solidarietà e amicizia tra i prigionieri italiani e la gente boema, allora im-pegnata nella rivoluzione sokolista30 per conquistare l’indi-

29 Annacarla Valeriano, Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931), Roma, Donzelli, 2014, p. 172, 157, 210). Interessante, per le testimo-nianze visive che offre e le convinzioni che lo sorreggono, il dvd Scemi di guer-ra di Enrico Verra, un documentario dedicato ai soldati colpiti da psiconevrosi e internati in manicomi dove venivano spesso sottoposti a trattamenti non meno crudeli e alienanti di quelli della guerra che li aveva ridotti alla follia e che co-munque, di certo, non li aiutarono a guarire. “Le migliaia di soldati che vennero reclusi nei manicomi furono coloro che non riuscirono a dare un significato alle loro sofferenze, ad accettare il drammatico mutamento avvenuto nelle loro vite né ad adattarsi ai nuovo modelli di condotta personale. Per allontanare paura, dolore, smarrimento, essi impoverirono la loro coscienza e rinunciarono a udi-re, vedere, parlare o ricordare” (Quinto Antonelli, Storia intima della Grande Guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati dal fronte, Roma, Donzelli, 2014, p. XIII).

30 Sokol, che significa ‘falco’ in ceco, è un movimento fondato a Praga attorno al 1860 da Miroslav Tyrs e Jindrich Fugner, ufficialmente come una società di ginnastica allo scopo di sviluppare sia la corporeità sia lo spirito dei cechi che, attraverso l’educazione e la cultura, avrebbero potuto e dovuto raggiungere la libertà nazionale. Si tratta dunque di un’istituzione nazionalista ma non politi-

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pendenza dall’impero austro-ungarico, a ribadire così quan-to le divisioni tra i popoli volute dall’alto finiscano sempre per essere annullate dai sentimenti di fratellanza.Se certo la monotona permanenza nella fortezza di Theren-sienstadt non aveva offerto a Pastorino spunti per un rac-conto mosso e drammaticamente teso (come nelle pagine di combattimento di La prova del fuoco), toni più accesi ritornavano qui infine nel racconto del rientro in patria dei prigionieri, spesso malauguratamente colpiti dall’epidemia spagnola (detta grippe) e talora, per la diffusa convinzione che essi fossero stati dei vigliacchi, anche derisi e ostaco-lati dagli stessi soldati italiani e perfino preda del cinismo dei civili, che non esitavano a tentare di derubarli dei loro poveri averi:

Il dolore è cocente. Oltre il confine trovammo com-piacenza e treni sempre pronti per noi; e qui siamo respinti (La luna di Gemona, p. 277).

Come ha osservato Mario Isnenghi, Pastorino ha scritto dunque, con La prova della fame, nella prima parte

una delle rare rappresentazioni non afflitte dal senso di colpa dei vinti di Caporetto,

ca, alla cui base era la democrazia: “Tutti i soci, il cui elemento distintivo era la camicia rossa, erano ritenuti uguali; tra di essi venivano eletti democrati-camente i funzionari. Nucleo dell’organizzazione era l’unità locale, alla quale appartenevano anche donne e ragazzi”. Si sviluppò fortemente in Boemia, Slo-vacchia, Croazia, Serbia; sciolta dal governo asburgico nel 1915 per i suoi scopi patriottici, tornò alla ribalta verso la fine della prima guerra mondiale quando i giovani sokolisti organizzarono una “rivolta delle popolazioni ceche, anelanti all’indipendenza” (cfr. nota di Piero Pastorino in Mio padre Carlo Pastorino, Genova, Liguria-Sabatelli, 1981, p. 141), che riscosse l’approvazione e il soste-gno degli italiani. L’associazione è tuttora operativa anche se nell’attuale Re-pubblica Ceca non riveste più l’importanza che ha avuto nel passato e organizza numerose attività sportive.

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sebbene anch’egli fosse tra i sospetti prigionieri del 1917, e nella seconda parte il libro del ritorno dalla guerra alla vita civile laddove anche qui, come nel più animato ma meno introspettivo La prova del fuoco,

l’eroico non si declina in grado sublime, ma in grado medio, e non precipuamente in forme individuali, ma comunitarie e di gruppo31,

tanto che i quattro compagni di prigionia dello scrittore non risultano essere comprimari, ma protagonisti quasi al pari di lui e comunque amorevoli complici nel suo impegno in-confessato a recuperare con la penna la memoria dei luoghi perduti della sua campagna. In realtà i prigionieri che condi-videvano con Pastorino la camerata 101 erano individui non comuni: il drammaturgo Cesare Vico Ludovici, il musicista Mario Labroca, il filosofo Paolo Perrini e il dotto conserva-tore Piero Dottori, ai quali talora si aggiungeva Carlo Salsa, il futuro autore di Trincee (1923); e un altro ospite occa-sionale della fortezza era stato Stefano Pirandello, il figlio maggiore di Luigi32.

Ma il personaggio più famoso rinchiuso nella fortezza bo-ema era nientemeno che Gavrilo Princip, l’attentatore di Sarajevo, “colui che appiccò il fuoco al mondo”, come è intitolato il capitolo a lui dedicato; la sua presenza a The-resienstadt era tenuta segreta, ma la notizia era giunta alle orecchie di alcuni e Pastorino tra questi; e così, pur senza vederlo nella sua cella di isolamento, egli lo sente tossire divorato da quella tisi che in quei sotterranei era di casa:

31 Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra, cit. pp. 416-417.32 Su questi personaggi e sui loro rapporti con lo scrittore si leggono utili notizie

in Piero Pastorino, Op. cit., pp. 58-60 e 133-136.

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La denutrizione e la fame prolungata distruggono i tessuti e intaccano i polmoni. […] Princip morirà prima che l’incendio da lui provocato sia estinto (p. 181).

E tuttavia Pastorino non mostrava sentimenti di avversione nei suoi confronti, tanto da paragonarlo a Paride che col ra-pimento di Elena aveva causato la guerra di Troia. Potrebbe parere impropria questa citazione mitologica, se non lo si in-serisse in un più ampio contesto di richiami culturali nei qua-li spesso Pastorino si rifugiava per vincere la sofferenza della prigionia, riferendosi spesso a Dante e Manzoni, richiaman-dosi alle sue letture giovanili dei grandi romanzieri russi e insomma trovando nella letteratura quello stesso conforto e quella spinta a non cedere che proverà Primo Levi, ricordan-do i versi danteschi dedicati a Ulisse in Se questo è un uomo.

Dalla somma dei lunghi e monotoni, e tuttavia vivificati, giorni di prigionia, in La prova della fame Pastorino ha re-cuperato e rivissuto però solo le situazioni che

sono vive e perciò degne di essere scritte […] e che continuano a vivere nel nostro spirito; e quelle altre cose che il nostro spirito ha lasciato cadere, non è bene che la penna vada a raccattarle (Il lumino a petrolio, p. 126).

E ciò che la sua penna ha salvato dall’oblio restituisce al let-tore la forza di un uomo che, come i dannati dei Lager della seconda guerra mondiale, dalla somma umiliazione della privazione della libertà ha saputo trovare, con il sostegno dell’amicizia e l’aiuto dei suoi auctores la forza per soprav-vivere e affrontare con dignità questa seconda (dopo quella della guerra guerreggiata), ma non meno sconvolgente pro-va che gli era toccato affrontare.