manifesto 2012111

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È URGENTE VIRGILIO DOMENICA 11 NOVEMBRE 2012 ANNO II, NO° 45 SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» ALESSANDRO FO Corpo a corpo con la ricchezza imprendibile dell’«Eneide»: una versione generazionale di ROBERTO ANDREOTTI ●●●È ancora in grado di spiazzarci comparendo in forme e luoghi impreve- dibili che ne decretano, anche simboli- camente, la rinnovata necessità. Autun- no del 2010, manifestazioni degli stu- denti della «Sapienza» contro i tagli di Tremonti e la Riforma Gelmini. In piaz- za uno dei libri-scudo di gommapiuma colorata recanti i titoli di alcuni classici ‘a difesa della cultura’, insieme all’Odis- sea, al Satyricon, al Principe, al Conte di Montecristo,a Ragazzi di vita e a molti altri, è l’Eneide di Virgilio: testo tradizio- nalmente estraneo all’immaginario po- litico giovanile – o almeno così era per la mia generazione. Fa un certo effetto perciò vederlo levare ‘contro’ il mini- stro della Pubblica istruzione e gli agen- ti di polizia con l’elmetto. Roma, un an- no dopo. Alla Galleria d’Arte «L’Attico» di via del Paradiso Fabio Sargentini al- lestisce una staffetta teatrale dell’Enei- de in cui diversi attori si danno il cam- bio nella lettura integrale del poema (la performance viene registrata dal vi- vo per essere riversata in audiolibro). Se ci si mette in una prospettiva gene- razionale «L’Attico» è una location qua- si provocatoria. Negli anni sessanta ci esponevano Kounellis, Pascali, Patella, Mattiacci, De Dominicis, mentre Fran- co Angeli a Piazza del Popolo anneriva Lupe capitoline, aquile legionarie e Res gestae per obliterare, con la tecnica del- la velatura, la segnaletica della romani- tà. (Dopo il ’68 nei licei non pochi inse- gnanti di storia e filosofia avrebbero vo- lentieri messo all’Indice Virgilio come autore di regime, infiammando i ragaz- zi che spedivano in soffitta il latino «no- zionistico e reazionario»). La scena-madre di Heaney «Innumerevoli sono i volti che il poema presenta, e tuttavia resta come fasciato di mistero», confessa un Alessandro Fo non si capisce se più stordito o invasato dall’Eneide con cui ha convissuto e combattuto per anni (ne parla qui a fianco Raffaeli). Mistero non è un termi- ne consueto ai latinisti e non ci si aspet- ta di trovarlo nel corpo di una edizione erudita e filologica, per quanto non pro- priamente scientifica, la quale – ulterio- re Anchise sulle spalle – non si sottrae neppure al censimento critico di tutta la bibliografia dal dopoguerra a oggi. So- no dunque i diversi, contraddittòri volti del poema, il segreto della sua inesauri- bile vitalità duemila anni dopo? Restia- mo sulle cronache culturali, quasi l’Eneide fosse una notizia d’agenzia – ma senza addentrarci nella giungla di blog e social networks. Mantova, Tea- tro Bibiena, ottobre 2011. Consegna del Premio Virgilio a Seamus Heaney. «Acceptance Speech», uscito da una ta- sca della giacca: il poeta irlandese rac- conta il suo primo incontro con l’Enei- de, grazie a un’antologia scolastica con, sùbito, il celebre inizio Arma virumque cano, invero familiare a un orecchio in- glese a causa del titolo di una comme- dia di G.B. Shaw, tratto a sua volta dalla canonica traduzione di John Dryden. Poi passa a ricordare l’ultimo anno di li- ceo col malcelato rammarico dell’inse- gnante di latino, un sacerdote sensibile alla poesia, costretto dai programmi a spiegare in classe il IX Libro (inizio del- la guerra in Italia) quando avrebbe desi- derato di gran lunga il VI, in cui Enea scende agli Inferi per incontrare l’om- bra di suo padre. Il VI Libro ‘proibito’ dell’Eneide avrebbe alimentato una pre- dilezione privata di Heaney, e infatti nell’ultima raccolta, Catena umana, ha dato vita a una potente allegoresi, per cui la catabasi dell’eroe troiano rivive come interiore discesa del poeta ormai vecchio nei suoi anni verdi, al tempo della guerra irlandese. È abbastanza chiaro, credo: la soprav- vivenza di un grande classico, la cui lin- gua, essendo morta, sempre meno let- tori sono in grado di comprendere, pas- sa soprattutto attraverso questa Hu- man Chain di mediatori e di lettori, i quali non necessariamente si pongono il problema professionistico della tutela culturale (come trasmetterlo intatto a chi verrà dopo?) ma, si potrebbe dire con un paradosso, nel manipolarlo e trafficarlo soprattutto esistenzialmente riescono a mantenerlo in vita. Infatti Sargentini per la sua lettura non stop ha deciso di adottare, fra le tante disponibi- li, la versione italiana di Cesare Vivaldi (1962), da lui conosciuto in gioventù nella galleria del padre, come del resto Emilio Villa traduttore dell’Odissea. Le biografie si riallacciano anche se si è tra- passati. Che Vivaldi, altro poeta-artista, scrivesse testi per le mostre degli anni sessanta dell’«Attico», fa sorprendente- mente urtare oggi l’Eneide con una sta- gione febbrile romana, tra sperimenta- zione poetica, vernici acriliche e colla- ges polimaterici, ignota alla maggioran- za dei virgilianisti: e cinquant’anni do- po probabilmente ancora la ignorano. Non certo Alessandro Fo, come di- mostra il davvero singolare saggio, scrit- to con dottrina ed Erlebnis, a introdu- zione della sua nuovissima Eneide in versi ‘barbari’. È un testo dai frequenti squarci, sommersi o trattenuti ma sem- pre pressanti, di personal criticism, su cui incombe il mitologema Virgilio, che tradizionalmente, come del resto quel- lo di Enea, seduce poeti e scrittori più che filologi (tranne i grandissimi). Baste- rebbe l’incipit. Fo prende le mosse non dalla Vita Vergiliana di Elio Donato ma dal romanzo-mostro di Hermann Bro- ch, uno dei Moderni che più di altri ha sentito l’urgenza implacabile di Virgilio durante gli anni dell’oppressione nazi- sta e del carcere, sino a trasformare l’im- maginazione della sua morte a Brindisi con la propria stessa incombente mor- te, quasi venti secoli dopo. Questa rete di mediatori virgiliani prosegue e agisce sotto i nostri occhi. Sul web si recupera facilmente, anche in italiano, il bellissi- mo saggio che Durs Grünbein – poeta di Dresda un po’ più giovane del colle- ga Fo –, ha scitto qualche anno fa per un’edizione illustrata in folio del capola- voro «maniacal-patetico» (parole sue) di Broch. Nel finale Grünbein confessa di essersi sentito, alla lettera, «scelto» dal- la Morte di Virgilio, dopo averla incontra- ta la prima volta a diciott’anni e poi sem- pre custodita «come un tesoro segreto dall’invitante sovraccoperta verde». Fili sottili, addirittura invisibili ma forti co- me gomene, collegano le genera- di MASSIMO RAFFAELI ●●●Non è consueto che un poeta oggi si misuri con un autore classi- co come non è consueto si dedichi a un poema che esige il corpo a cor- po assoluto e il pieno possesso del repertorio tecnico. Lo è ancor me- no se si pensa a Virgilio e ad una Stimmung così imprendibile, nella sua ricchezza come nella sua sensi- bile delicatezza, da riuscire disar- mante nell’epoca che predilige gli estremi, o la nettezza oltranzista del segno o la sua trasecolata evane- scenza. È un fatto che il poeta (ed eccellente latinista, beninteso) Ales- sandro Fo ci dia ora la sua Eneide (note di Filomena Giannotti, «Nuo- va Universale Einaudi», pp. CVI-926, 38,00), un’impresa non solo encomiabile per la sua com- piutezza, e si dica pure la coerenza del risultato, ma che tutto lascia presagire corrisponda a un vero e proprio testo generazionale e cioè a un’effettiva mutazione del senso comune. Non che mancassero alcuni im- mediati precedenti di pregio e d’au- tore (come la versione in versi libe- ri di Luca Canali, uscita per la Fon- dazione Valla-Mondadori fra il 1978 e il 1983, e quella fornita pur- troppo solo per excerpta, in endeca- sillabi esclusivi, a firma di Giovan- na Bemporad da Rusconi nel 1983), ma il doppiaggio di riferi- mento, l’ultimo capace di produrre un senso comune e persino un pro- prio gergo, risaliva a Rosa Calzec- chi Onesti, la cui Eneide, edita dal- l’Istituto Editoriale Italiano nel ’62, si trasferisce al catalogo Einaudi nel ’67 e, a beneficio di almeno due generazioni di lettori e studenti, ap- proda agli «Oscar» Mondadori nel novembre del 1971. Qui va aperto un inciso nei riguardi di una studio- sa benemerita (mancata novanta- cinquenne a Milano nel 2011 e Fo ne fa cenno commosso nella sua in- troduzione), il cui lavoro di tradut- trice dai classici (solo per Einaudi una Iliade nel ’50 e un’Odissea nel ’63) corrisponde in Italia all’avven- to di un codice deliberatamente modernista. Allieva di Mario Unter- steiner che la mette in contatto con Cesare Pavese, lettrice di Lavorare stanca e dei Dialoghi con Leucò, il suo lavoro viene presto allineando- si a quello condotto dalla quasi coe- tanea Fernanda Pivano su Spoon Ri- ver. Che si tratti delle pentapodie giambiche degli angloamericani o di esametri dattilici, la resa sarà sempre il verso lungo e prosastico, vagamente esametrico solo nell’an- datura, su cui poggiare quei tre o NUOVE TRADUZIONI E ALTRI TITOLI PER GIOCARE OGGI, NELL’ORIZZONTE POLITICO-CULTURALE, UN CLASSICO RISCOPERTO DAL NOVECENTO E PIÙ CHE MAI NECESSARIO Una rappresentazione «romantica» del VI Libro dell’«Eneide»: William Turner, «Il lago d’Averno: Enea e la Sibilla Cumana», part., 1814-’15, Yale Center for British Art CUCCHIARELLI ENEIDE MP3 TOMMASEO BAYLE VON ALBRECHT FRINGS RAZZISMO USA/ITALIA FRANZEN GADDA REGIA TEATRALE VOLLARD SEGUE A PAGINA 3 SEGUE A PAGINA 6

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Page 1: Manifesto 2012111

È URGENTEVIRGILIO

DOMENICA

11 NOVEMBRE 2012ANNO II, NO° 45

SUPPLEMENTO SETTIMANALEDE «IL MANIFESTO»

ALESSANDRO FO

Corpo a corpocon la ricchezzaimprendibiledell’«Eneide»:una versionegenerazionale

di ROBERTO ANDREOTTI

●●●È ancora in grado di spiazzarcicomparendo in forme e luoghi impreve-dibili che ne decretano, anche simboli-camente, la rinnovata necessità. Autun-no del 2010, manifestazioni degli stu-denti della «Sapienza» contro i tagli diTremonti e la Riforma Gelmini. In piaz-za uno dei libri-scudo di gommapiumacolorata recanti i titoli di alcuni classici‘a difesa della cultura’, insieme all’Odis-sea, al Satyricon, al Principe, al Conte diMontecristo, a Ragazzi di vita e a moltialtri, è l’Eneide di Virgilio: testo tradizio-nalmente estraneo all’immaginario po-litico giovanile – o almeno così era perla mia generazione. Fa un certo effettoperciò vederlo levare ‘contro’ il mini-stro della Pubblica istruzione e gli agen-ti di polizia con l’elmetto. Roma, un an-no dopo. Alla Galleria d’Arte «L’Attico»di via del Paradiso Fabio Sargentini al-lestisce una staffetta teatrale dell’Enei-de in cui diversi attori si danno il cam-bio nella lettura integrale del poema(la performance viene registrata dal vi-vo per essere riversata in audiolibro).Se ci si mette in una prospettiva gene-razionale «L’Attico» è una location qua-si provocatoria. Negli anni sessanta ciesponevano Kounellis, Pascali, Patella,Mattiacci, De Dominicis, mentre Fran-co Angeli a Piazza del Popolo annerivaLupe capitoline, aquile legionarie e Resgestae per obliterare, con la tecnica del-la velatura, la segnaletica della romani-tà. (Dopo il ’68 nei licei non pochi inse-gnanti di storia e filosofia avrebbero vo-lentieri messo all’Indice Virgilio comeautore di regime, infiammando i ragaz-zi che spedivano in soffitta il latino «no-zionistico e reazionario»).

La scena-madre di Heaney«Innumerevoli sono i volti che il poemapresenta, e tuttavia resta come fasciatodi mistero», confessa un Alessandro Fonon si capisce se più stordito o invasatodall’Eneide con cui ha convissuto ecombattuto per anni (ne parla qui afianco Raffaeli). Mistero non è un termi-ne consueto ai latinisti e non ci si aspet-ta di trovarlo nel corpo di una edizioneerudita e filologica, per quanto non pro-priamente scientifica, la quale – ulterio-re Anchise sulle spalle – non si sottraeneppure al censimento critico di tuttala bibliografia dal dopoguerra a oggi. So-no dunque i diversi, contraddittòri voltidel poema, il segreto della sua inesauri-bile vitalità duemila anni dopo? Restia-mo sulle cronache culturali, quasil’Eneide fosse una notizia d’agenzia –ma senza addentrarci nella giungla diblog e social networks. Mantova, Tea-tro Bibiena, ottobre 2011. Consegnadel Premio Virgilio a Seamus Heaney.«Acceptance Speech», uscito da una ta-sca della giacca: il poeta irlandese rac-conta il suo primo incontro con l’Enei-de, grazie a un’antologia scolastica con,sùbito, il celebre inizio Arma virumquecano, invero familiare a un orecchio in-glese a causa del titolo di una comme-dia di G.B. Shaw, tratto a sua volta dallacanonica traduzione di John Dryden.Poi passa a ricordare l’ultimo anno di li-ceo col malcelato rammarico dell’inse-gnante di latino, un sacerdote sensibilealla poesia, costretto dai programmi aspiegare in classe il IX Libro (inizio del-la guerra in Italia) quando avrebbe desi-derato di gran lunga il VI, in cui Eneascende agli Inferi per incontrare l’om-bra di suo padre. Il VI Libro ‘proibito’dell’Eneide avrebbe alimentato una pre-dilezione privata di Heaney, e infattinell’ultima raccolta, Catena umana, hadato vita a una potente allegoresi, percui la catabasi dell’eroe troiano rivivecome interiore discesa del poeta ormai

vecchio nei suoi anni verdi, al tempodella guerra irlandese.

È abbastanza chiaro, credo: la soprav-vivenza di un grande classico, la cui lin-gua, essendo morta, sempre meno let-tori sono in grado di comprendere, pas-sa soprattutto attraverso questa Hu-man Chain di mediatori e di lettori, iquali non necessariamente si pongonoil problema professionistico della tutelaculturale (come trasmetterlo intatto achi verrà dopo?) ma, si potrebbe direcon un paradosso, nel manipolarlo etrafficarlo soprattutto esistenzialmenteriescono a mantenerlo in vita. InfattiSargentini per la sua lettura non stop hadeciso di adottare, fra le tante disponibi-li, la versione italiana di Cesare Vivaldi(1962), da lui conosciuto in gioventùnella galleria del padre, come del restoEmilio Villa traduttore dell’Odissea. Lebiografie si riallacciano anche se si è tra-passati. Che Vivaldi, altro poeta-artista,scrivesse testi per le mostre degli annisessanta dell’«Attico», fa sorprendente-mente urtare oggi l’Eneide con una sta-gione febbrile romana, tra sperimenta-zione poetica, vernici acriliche e colla-ges polimaterici, ignota alla maggioran-za dei virgilianisti: e cinquant’anni do-po probabilmente ancora la ignorano.

Non certo Alessandro Fo, come di-mostra il davvero singolare saggio, scrit-to con dottrina ed Erlebnis, a introdu-zione della sua nuovissima Eneide inversi ‘barbari’. È un testo dai frequentisquarci, sommersi o trattenuti ma sem-pre pressanti, di personal criticism, sucui incombe il mitologema Virgilio, che

tradizionalmente, come del resto quel-lo di Enea, seduce poeti e scrittori piùche filologi (tranne i grandissimi). Baste-rebbe l’incipit. Fo prende le mosse nondalla Vita Vergiliana di Elio Donato madal romanzo-mostro di Hermann Bro-ch, uno dei Moderni che più di altri hasentito l’urgenza implacabile di Virgiliodurante gli anni dell’oppressione nazi-sta e del carcere, sino a trasformare l’im-maginazione della sua morte a Brindisicon la propria stessa incombente mor-te, quasi venti secoli dopo. Questa retedi mediatori virgiliani prosegue e agiscesotto i nostri occhi. Sul web si recuperafacilmente, anche in italiano, il bellissi-mo saggio che Durs Grünbein – poetadi Dresda un po’ più giovane del colle-ga Fo –, ha scitto qualche anno fa perun’edizione illustrata in folio del capola-voro «maniacal-patetico» (parole sue)di Broch. Nel finale Grünbein confessadi essersi sentito, alla lettera, «scelto» dal-la Morte di Virgilio, dopo averla incontra-ta la prima volta a diciott’anni e poi sem-pre custodita «come un tesoro segretodall’invitante sovraccoperta verde». Filisottili, addirittura invisibili ma forti co-me gomene, collegano le genera-

di MASSIMO RAFFAELI

●●●Non è consueto che un poetaoggi si misuri con un autore classi-co come non è consueto si dedichia un poema che esige il corpo a cor-po assoluto e il pieno possesso delrepertorio tecnico. Lo è ancor me-no se si pensa a Virgilio e ad unaStimmung così imprendibile, nella

sua ricchezza come nella sua sensi-bile delicatezza, da riuscire disar-mante nell’epoca che predilige gliestremi, o la nettezza oltranzistadel segno o la sua trasecolata evane-scenza. È un fatto che il poeta (edeccellente latinista, beninteso) Ales-sandro Fo ci dia ora la sua Eneide(note di Filomena Giannotti, «Nuo-va Universale Einaudi», pp.CVI-926, € 38,00), un’impresa nonsolo encomiabile per la sua com-piutezza, e si dica pure la coerenzadel risultato, ma che tutto lasciapresagire corrisponda a un vero eproprio testo generazionale e cioèa un’effettiva mutazione del sensocomune.

Non che mancassero alcuni im-mediati precedenti di pregio e d’au-tore (come la versione in versi libe-ri di Luca Canali, uscita per la Fon-dazione Valla-Mondadori fra il1978 e il 1983, e quella fornita pur-troppo solo per excerpta, in endeca-sillabi esclusivi, a firma di Giovan-na Bemporad da Rusconi nel1983), ma il doppiaggio di riferi-mento, l’ultimo capace di produrreun senso comune e persino un pro-prio gergo, risaliva a Rosa Calzec-

chi Onesti, la cui Eneide, edita dal-l’Istituto Editoriale Italiano nel ’62,si trasferisce al catalogo Einaudinel ’67 e, a beneficio di almeno duegenerazioni di lettori e studenti, ap-proda agli «Oscar» Mondadori nelnovembre del 1971. Qui va apertoun inciso nei riguardi di una studio-sa benemerita (mancata novanta-cinquenne a Milano nel 2011 e Fone fa cenno commosso nella sua in-troduzione), il cui lavoro di tradut-trice dai classici (solo per Einaudiuna Iliade nel ’50 e un’Odissea nel’63) corrisponde in Italia all’avven-to di un codice deliberatamentemodernista. Allieva di Mario Unter-steiner che la mette in contatto conCesare Pavese, lettrice di Lavorarestanca e dei Dialoghi con Leucò, ilsuo lavoro viene presto allineando-si a quello condotto dalla quasi coe-tanea Fernanda Pivano su Spoon Ri-ver. Che si tratti delle pentapodiegiambiche degli angloamericani odi esametri dattilici, la resa saràsempre il verso lungo e prosastico,vagamente esametrico solo nell’an-datura, su cui poggiare quei tre o

NUOVE TRADUZIONIE ALTRI TITOLI PER GIOCAREOGGI, NELL’ORIZZONTEPOLITICO-CULTURALE,UN CLASSICO RISCOPERTODAL NOVECENTOE PIÙ CHE MAI NECESSARIO

Una rappresentazione «romantica»del VI Libro dell’«Eneide»: William Turner,

«Il lago d’Averno: Enea e la Sibilla Cumana»,part., 1814-’15, Yale Center for British Art

CUCCHIARELLI • ENEIDE MP3 • TOMMASEO • BAYLE •VON ALBRECHT • FRINGS • RAZZISMO USA/ITALIA •FRANZEN • GADDA • REGIA TEATRALE • VOLLARD

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(2) ALIAS DOMENICA11 NOVEMBRE 2012

EDIZIONI, TRADUZIONI, SAGGI IN LIBRERIA

●●●Il Ponte del Sale (Rovigo) stacompletando la traduzione delleGeorgiche con testo a fronte: è inarrivo Il canto d’api. Georgiche libro quarto,traduzione di Gianfranco MarettiTregiardini & Marco Munaro,prefazione di Giorgio BernardiPerini e tavole di Vittorio Bustaffa.Ancora sulle Georgiche: Pàtron,l’editore universitario di Bologna, hapubblicato Intacti saltus, una serie distudi sul III Libro di Bruna Pieri,recentemente premiata a Mantova.Da Liguori è uscita una raccolta diricerche di Crescenzo Formicola(Virgilio. Etica Poetica Politica) cheruotano sul ruolo paideutico delpoeta augusteo, da sempresottoposto ad anacrionismiinterpretativi e ideologizzazione.Infine Marco Fernandelli, che lavorada tempo sulle forme dell’eposellenistico, ha consegnato al tedescoGeorg Olms Verlag il suo Catullo e larinascita dell' epos. Dal carme 64 all' Eneide.

di BRUNA PIERI

●●●«Chi conosce soltanto l’Enei-de non conosce Virgilio (…). Dal Isecolo dell’Impero fino all’epocadi Goethe, lo studio del latino èsempre cominciato con la letturadella I Egloga; non si esagera affer-mando che manca una chiave del-la tradizione letteraria europea achi non abbia presente questo pic-colo poemetto. Inizia così: Tityretu patulae…».

Vogliamo aprirle con le paroledi Ernst Robert Curtius queste Bu-coliche con traduzione e commen-to che Carocci Editore proponenella sua collana «Lingue e Lette-rature» (Publio Virgilio Marone,Le Bucoliche, introduzione e com-mento di Andrea Cucchiarelli, tra-duzione di Alfonso Traina, pp.533, € 48,00). Un prodotto dell’ec-cellenza della scuola italiana di fi-lologia classica, frutto com’è dellasinergia fra un grande maestro de-gli studi di latino, Traina (emeritodell’«Alma Mater Studiorum» bolo-gnese), e un giovane professoreformatosi nella Normale pisana eora in servizio alla «Sapienza» diRoma, Cucchiarelli. Un prodottodell’eccellenza italiana che andràa raggiungere – e in molte occasio-ni a superare – i due moderni (an-che se il più nuovo ha già quasivent’anni) commenti scientifici al-le Bucoliche, quelli di R. Colemane di W. Clausen.

Traina, cui si devono pagine de-terminanti su Virgilio e che avevagià commentato in proprio treegloghe, stavolta veste i panni deltraduttore. Non è mai semplice tra-durre, tradurre un classico antico,tradurre un testo poetico, tradurreverso a verso; ma qui egli aggiun-ge l’obiettivo di «conciliare seman-tica e ritmo», di evocare «il respirodel testo virgiliano», di rendere, in-somma, quella che nel suo diariodel 1894 Gide definiva l’inafferrabi-le «armonia di versi, colori, formee musica» che fa delle Bucolicheun testo a suo dire mai veramenteposseduto dalla memoria, ma sem-pre nuovo, a ogni lettura. Un obiet-tivo che la consapevolezza del filo-logo – provare per credere – nonrende certo più facile.

Ad Andrea Cucchiarelli, già stu-dioso di Orazio e della satira, si de-vono l’introduzione e le quasi quat-trocento pagine di commento.Commento ‘perpetuo’, come si di-ce fra gli addetti ai lavori, a indica-re quell’interpretazione che non ècostretta in poche note a piè di pa-gina, ma gode di uno spazio auto-nomo, che le consente di seguire iltesto verso per verso, parola perparola. Scriveva Károly Kerényi, aproposito di Virgilio, che «i poetiantichi non hanno bisogno tantodi una introduzione, quanto, piut-tosto, d’una guida (…) che richia-mi l’attenzione su quanto di inso-stituibile ci è rimasto di loro». Per-ché «a cosa servono mai i poeti, senon vengono letti?». Ecco, il com-mento di Cucchiarelli ci fa leggerele Bucoliche, senza mai sottrarsi ainumerosi problemi che questo te-sto, con le sue altrettanto numero-se chiavi di lettura (letterale, allego-rica, intertestuale, simbolista, stori-ca, metapoetica…), via via propo-

ne; è un commento che sa guidareogni volta il lettore – sia egli esper-to, o meno – a riconoscere una for-ma linguistica, uno stilema, un mi-tologema, un modello: quanto, in-somma, di insostituibile ci è rima-sto di Virgilio.

D’altra parte, diceva ancora Ke-rényi, «presentare Virgilio al letto-re moderno, conquistargli un pub-blico, non è compito facile». Veris-simo. Ed è ancora meno facile of-frirgli le Bucoliche. Si fa presto a di-re ‘poesia pastorale’, snocciolandocategorie da manuale di letteratu-ra. Inutile negarlo, smaltiti da seco-li i fasti del dramma pastorale, di-menticati gli Aminta e i Mopso, leSilvie e le Filli – impensabili, certo,senza Virgilio – suona quasi unaprovocazione proporre al lettoremoderno, anzi, di più, al lettoregiovane, dei licei e delle università,questi curiosi pastori che cantanoin gara i tormenti dell’amore e del-la guerra. Ma forse era una provo-cazione già ai tempi di Virgilio,non a caso bersagliato da famigera-ti obtrectatores, critici che ne conte-stavano quel latino così ammiccan-te al registro popolare, e ripreso bo-nariamente persino dall’amicoOrazio, che in una satira pare rim-proverare alle Bucoliche il tono orascanzonato, ora malinconico, emai veramente forte, definitivo.

D’altronde Virgilio lo sapeva:non omnis arbusta iuvant humile-sque myricae («non piacciono atutti gli arboscelli e le basse tameri-gi», traduce Traina). Così l’effettostraniante delle Bucoliche ha fatto

nei secoli vittime illustri. La trovò,di primo acchito, «un po’ puerile,con strani pastori poeti che prati-cano strane storie d’amore» persi-no uno dei più suggestivi tradutto-ri della raccolta, quel Valéry che viseppe cogliere – per citare ancoraKerényi – l’uso virgiliano della «lin-gua come luogo della rappresenta-zione del mondo attraverso il suo-no e null’altro». E Huysmans, nei

panni di Des Esseintes, aveva giu-dicato le Bucoliche vertice della pe-danteria e della noiosità virgiliane.

Esempio di poesia che riflette suse stessa e sul potere della propriadimensione simbolica, che è poi ilpotere di isolare dalle aggressionidella storia un mondo ideale cheda Virgilio in poi si chiamerà‘Arcadia’, le Bucoliche potrebberosembrare prodotto quanto mai sto-

nato in tempi come i nostri, chechiamano a un realismo spessoun po’ cinico. E invece questi‘idilli’ latini non ignorano i perico-li della fuga dalla realtà (l’ombrache avvolge, rassicurante, Titiro al-l’inizio della prima egloga diventanociva nell’ultimo verso della rac-colta), sanno anzi sin troppo benecome la storia, quand’anche abbiail volto ‘positivo’ dei «nuovi dèi» dicui parla Cucchiarelli nella sua pre-fazione, costringa sempre la lette-ratura a un frustrante arretramen-to. E proprio perché descrivono ladolorosa perdita di ogni regno dipace, piccolo o grande che sia, diuno o di tutti, e nascono da unacrisi della repubblica che partoriràcon dolore l’età augustea, le Buco-liche propongono una vena di can-to ad oggi non ancora esaurita e acui ricorrere negli estremi dellaStoria; lo ha scritto di recente Sea-mus Heaney, pensando al poetaungherese ed ebreo Miklos Ra-dnóti, traduttore delle egloghe vir-giliane e autore di egloghe in pro-prio. Le ultime le scrisse in campodi concentramento, nel 1944, po-chi mesi prima di essere fucilato, atrentacinque anni.

Dei sessanta discussi quesiti per

gli esami di accesso al TFA dellaclasse di concorso A052 (per inten-derci, quella che consente di inse-gnare Italiano, Latino e Greco neilicei), l’unica domanda virgiliananon riguardava l’Eneide, ma lachiusa della I egloga. Un riconosci-mento alle citate parole di Curti-us? A smentirlo, indirettamente, levicende editoriali che accompa-gnano opere come quella che quisi presenta: le Bucoliche, nelle edi-zioni per la scuola, sono destinateall’antologia, che di rado va oltreTitiro seduto all’ombra del faggio,e le profezie della IV che ne fissaro-no la fortuna nell’era cristiana. Edi-zioni integrali e annotate di fattomancano; né va meglio ai testi de-stinati all’università. È significati-vo, ad esempio, che il curatore del-l’ultimo commento italiano all’in-tera raccolta (uscito in secondaedizione per CUEM nel 2005),Massimo Gioseffi, si sia visto obbli-gato a limitarsi a brevi note esegeti-che e grammaticali, rinunciandoad altri approfondimenti. E chel’editore stesso di queste nuoveBucoliche, Carocci, le abbia riser-vate non alla collana «Classici»,che edita appunto testi destinati aun auspicabilmente largo pubbli-co di studenti, bensì a quella cheraccoglie saggistica, spesso di nic-chia. Ma qui non si tratta più dellafortuna moderna delle Bucoliche,quanto della fortuna moderna deiclassici, anzi degli studi classici, inItalia. Anche a dispetto degli eccel-lenti risultati che, come in questocaso, essi raggiungono.

MATERIALI VIRGILIANI

Le Bucolichee la crisi della Storia

Thomas Eakins, «Arcadia», ca. 1883,New York, Metropolitan Museum of Art

Una ricca edizionecommentata(A. Cucchiarelli)rilegge con forzala vena di cantoa cui sempresi ricorrenegli estremidella Storia

«VIRGILIO È URGENTE»

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(3)ALIAS DOMENICA11 NOVEMBRE 2012

GERENZA

IL «DICTIONNAIRE» 1697-1702 ■ DA SELLERIO

Così Pierre Baylesalvava Virgiliodalle accusedi oscenità e magia

Il Manifestodirettore responsabile:Norma Rangerivicedirettore:Angelo Mastrandrea

Alias Domenicaa cura diFederico De MelisRoberto Andreotti

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ANDREOTTI DA PAG. 1

Da Richard Heinzea Von Albrecht,quella catenadi lettori moderni

di ROBERTO M. DANESE

●●●Parlare di audiobook per untesto fondante dell’antichità comel’Eneide può forse sembrare curio-so, non tanto per la coniugazione(ormai assodata) fra cultura classi-ca e nuove tecnologie, quanto peril recupero di una dimensione diconsumo aurale, forse storicamen-te più adatta alla poesia greca e lati-na di quanto non lo sia una silen-ziosa lettura mediata dalla paginascritta. Il grande poema virgiliano,sulla cui imprescindibilità a tutti i li-velli per la nostra civiltà evitiamodi soffermarci per orrore dell’ov-vio, torna sui nostri lettori CD,MP3 e simili, grazie a un’edizionedell’ormai ineludibile Emons, cheriveste un ruolo di primissimo pia-no nel mercato italiano dell’audioli-bro (Eneide Live, € 19,90). Così pos-siamo riascoltare i versi del grandemantovano in una nuova, sontuo-sa versione audio, interessante inprimis per le circostanze e i modiin cui è stata prodotta, mentre nel2009 appariva un ancor ‘classico’audiobook per la collana Gli Ascol-talibri, con la lettura di Silvia Cec-chini, basata sulla traduzione diFrancesco Vivona.

Emons ci propone adesso qual-cosa di sensibilmente diverso, an-

che rispetto alle non poche produ-zioni straniere, anzitutto perché af-fida la direzione del progetto aun’attrice di grande esperienza(vuoi pure per lo specifico lavoro aRadiotre in Ad alta voce) come ElsaAgalbato e a Fabio Sargentini, fon-datore e gestore della galleria roma-na «L’Attico», ma anch’egli attore eregista. Proprio nei locali della gal-leria diretta da Sargentini si è tenu-ta la maratona di lettura dell’Enei-de il 22 e 23 ottobre 2011, che ritro-viamo in questo prezioso cd dun-que in versione live.

Il secondo motivo di originalitàè il ricorso a più voci narranti, scel-te fra grandi professionisti del tea-tro come la stessa Agalbato, Fran-cesco Biscione, Lucia Poli, Valenti-na Carnelutti, Alberto Di Stasio,Gianluigi Fogacci, Viola Pornaro eEdoardo Siravo. Questo ovvia inmodo deciso al rischio di monoto-nia per una lettura della durata me-dia di nove ore e rende accattivan-te quella che, grazie alla registrazio-ne live, è invece una vera perfor-mance con tensioni e vibrazioniimpossibili da trovare in un lavorototalmente realizzato in studio. Iltesto adottato è quello della forsetroppo dimenticata traduzione diCesare Vivaldi, poeta e critico d’ar-te, che pubblicò questa Eneide nel1962 per Guanda, accompagnatada una bella e fulminea presenta-zione del suo maestro GiuseppeUngaretti. Un’ultima notazionedobbiamo riservarla all’elegantepackaging, che può sicuramente in-trigare gli appassionati della rice-zione del mito troiano ai nostrigiorni: sulla copertina e sullo sfon-do della foto di gruppo degli attoricampeggia l’intenso dipinto Eneaeterno di Stefano di Stasio (2011),che raffigura l’eroe troiano in vestiattuali (elegante completo rosso ecamicia bianca), ma munito di ungrande scudo bronzeo, mentre in-combe gigantesco su una Roma in-crostata dei segni dei quei secoli’postantichi’ che non hanno più sa-puto fare a meno dell’immensa pa-rola poetica virgiliana.

di MARIO MANCINI

●●●Una delle sezioni più sugge-stive dell’Enciclopedia Virgiliana(1984-1991) è certo quella costitui-ta dalle voci sulla fortuna, che ciportano, come se fossimo su untappeto volante, da Leopardi aChateaubriand, da Petrarca aPuškin, da Góngora a Purcell. Aquesta magnifica serie possiamoora aggiungere il nome di Bayle.Nella collana «La città antica» diSellerio è da poco uscito PierreBayle, Virgilio nel «Dizionario» (a cu-ra di Maria Evelina Malgieri, conuna nota di Luciano Canfora, te-sto francese a fronte, pp. 188, €13,00). In questa voce del suo Dic-tionnaire historique et critique(1697-1702), che la critica conside-ra il grande antecedente dell’En-cyclopédie di Diderot, Bayle si con-fronta con imponente erudizionee con gaia spavalderia con i giudi-zi che il Grand Siècle aveva espres-so su Virgilio offrendo una sua ori-ginale interpretazione.

Per Jean Regnault de Segrais, tra-duttore e commentatore dell’Enei-de (1668-1681), per Gilles Ménage,l’ira di Enea alla vista di Elena du-rante la terribile notte della cadutadi Troia, fino al desiderio di ucci-derla, la sua freddezza nell’abban-dono di Didone, e soprattutto l’uc-cisione di Turno ormai inerme,nel libro XII, peccano contro labienséance. Segrais, piuttosto chepresentare al lettore un’azionenon conforme alla «magnanimitàfrancese» e ai «costumi del nostro

secolo» sceglie di modificare la tra-duzione: Turno non morirà piùper un secondo colpo infertogli daEnea che chiude le orecchie allasua supplica, ma per il primo col-po infertogli dal troiano. Bayle per-corre un’altra strada. Con un’anali-si serrata e impeccabile vuole libe-rare Virgilio dalle incrostazioniche nei secoli si sono accumulatesulla sua figura: le accuse di osce-nità e le leggende sulla sua magia.

Ebbene, se Virgilio aveva com-posto in giovinezza dei versi lasci-vi – «Non possiamo dubitarne dalmomento che Plinio, che ne avevacomposti di simili, si giustificavaattraverso un gran numero di illu-stri predecessori, e specialmentetramite il nostro Virgilio» –, questopunto non ha una grande inciden-za negativa sulla valutazione di co-stumi. Dopotutto san Crisostomoleggeva Aristofane, san Girolamofrequentava assiduamente Plauto,grandi critici e filologi moderni,non certo dissoluti, come Giusep-pe Scaligero, come Daniel Hein-sius, hanno scritto carmi priapei,hanno commentato Petronio.«Quando si teme che un altro nonsappia entrare in contatto con talioggetti senza infettarsi lui stessonon si fa altro che rendere troppomanifesta la propria debolezza difronte a cose di tal genere». E quiBayle, beffardamente, cita Mo-lière: Tartuffe che offre il fazzolet-to a una ragazza perché si copra ilseno, per evitare «colpevoli pensie-ri». E gli «amori sconvenienti» del-le Ecloghe, il «crimine» che indi-

gnava Gilles Ménage e tanti altri?Si tratta, come in Apuleio, comenell’imperatore Adriano, di unmondo di finzioni poetiche: «allie-tarsi scrivendo dei versi non coin-cide con il far mostra dei propri co-stumi».

Quanto alle leggende di magiafiorite intorno a Virgilio – la crea-zione di una mosca di bronzo cheteneva lontane tutte le moschedalla città di Napoli, il suo giardi-no incantato nel quale non piove-va mai, difeso da un muro di aria,l’evocazione degli spiriti per mez-zo di ossa o parti di cadavere –qui la confutazione di Bayle è radi-cale, in sintonia con la polemicadei libertini contro le superstizio-ni, anche e soprattutto religiose,con la loro campagna per rintrac-ciare e inventariare gli errori uma-ni che impediscono una vera co-noscenza. Appoggiandosi sul-l’Apologie pour tous les grands per-sonnages qui ont esté faussementsoupçonnez de magie (1625) del li-bertino Gabriel Naudé, Bayle indi-vidua il primo «inventore» del mi-to della magia virgiliana (Gerva-sio di Tilbury) e ne segue le suc-cessive, acritiche ramificazioni,quanto basta perché l’edificio simostri da se stesso infondato. Seil procedere di Bayle, in questa se-zione sulla presunta magia e intutta la voce, potrebbe sembrarea prima vista quasi farraginoso,l’Introduzione e le preziose notedella Malgieri ci consentono inve-ce di cogliere la peculiarità delsuo stile: una asistematicità quasistrutturale – uno dei suoi autori èMontaigne – e insieme un magni-fico rigore teorico.

Liberare Virgilio dalle accuse dioscenità e di magia, oltre a esserein sintonia con la precisa distinzio-ne tra libertinismo di pensiero e li-bertinismo di costumi, per Baylefondamentale, permette di recupe-rarlo pienamente dentro la Repub-blica delle Lettere. Alquanto diver-so sarà il Virgilio come nobile e unpo’ accademico campione del-l’umanesimo della parola che il li-berale Settembrini, nella Monta-gna magica di Thomas Mann – ri-cordata da Canfora nella nota in-troduttiva – difende contro i verti-ginosi, rivoluzionari teoremi delsuo antagonista Naphta (che è fi-gura del giovane Lukács).

L’ENEIDE IN MP3

Elsa Agalbatoe gli altri:una maratonadi letture viveall’«Attico»di Sargentini

BUCOLICHE/GEORGICHE

Niccolò Tommaseotraduttore(e ritraduttore)virgiliano: una linguache preconizzail Carducci

di RAFFAELE MANICA

●●●Lasciamo stare la solita domanda, chearriva ogni volta che s’incappa in un’opera delTommaseo (l’articolo ci vuole come ormai,fuori delle abitudini scolastiche, per pochi altri):dove egli abbia trovato il tempo per redigeretanti volumi, solenni dizionari, romanzi,raccolte e via elencando. Il tempo Tommaseol’ha trovato. Chino sullo scrittoio, ha riempitoanche gli spazi bianchi dei suoi fogli metaforicie no, spargendo qua e là, all’occasione, dentrol’opera sua, qualche non occasionale benchéintermittente ritaglio di traduttore di Virgilio.Sparsa attività ora composta in forma di librocol seguente frontespizio: Niccolò Tommaseo,Bucoliche e Georgiche di Virgilio. Traduzioni editee inedite, a cura di Donatella Martinelli,Fondazione Pietro Bembo / Ugo GuandaEditore (pp. LXX-321, € 38,00).

Ma questa sparsa attività regge però su unadevozione ininterrotta verso Virgilio, tornantein vista tra Leopardi e Manzoni, e informante disé parte vitale del grande Dizionario. Non solo;secondo quanto mostrano le note dellacuratrice oltre che l’introduzione, c’è unandirivieni tale di Virgilio che egli sembraproprio passeggiare a tutto agio nell’opera diTommaseo, come un possidente nelle sue terre.Prendiamo un breve frammento, tre versi, dalleBucoliche: «Malo me Galatea petit lascivapuella; / et fugit ad salices, et se cupit antevideri». Una prima volta Tommaseo traducecosì, con un eccessivo toscanismo: «Galatea labriosa mia fanciulla / la mi tira una mela: efugge a’ salci; / fugge, ma vuole esser vedutapria»; poi, superbamente, così ritraduce,sempre accantonando «lasciva» per «briosa», esoprattutto lasciando cadere il possessivofreudiano «mia» della prima versione: «Galatea,la briosa giovanetta, / d’una mela mi coglie, e a’salci fugge, / e, fuggendo, ama ch’io di leim’avvegga». Dice la nota che Tommaseotradusse o ritradusse avendo nella testa uncanto popolare greco dedicato alle mele: «Edella coglie mele, e me le avventa». Virgilioritorna sulle mele («Sepibus nostris in parvamte roscida mal […]vidi») e diventa sintomaticoche Tommaseo, di tanti passi, proprio su quellifinisca per soffermarsi: «Nelle mie siepi te vid’iofanciulla / coglier le mele sul mattin roranti»: luinon ha ancora dodici anni, non arriva airamoscelli più bassi, ma la vede: «e il cor mi furapito e morto». Col che, quel possessivo chesopra si diceva trova altri risvolti, ben coperti. Ilmovimento, anche interiore, dice come Virgiliofosse pel Tommaseo un’immaginazione checontinuamente si reinventa, rimanda la propriaimmagine, lievemente a volte modificandone itratti, ma tenendone ferme sembianze esostanze. Certo, la consonanza con lo spiritovirgiliano è mirabile. Si veda ad esempio undistico delle Georgiche, del Virgilio più tipico, sesolo si sta a quell’aggettivo, «mollissima», chepuò essere agguato dei più insidiosi («Tumpingue agni, et tum mollissima vina: / tumsomni dulces, densa eque in monti busumbrae»), così vòlto: «Pingui gli agnelli allor /soavi i vini, / e dolci i sonni, e fitte al poggiol’ombre»: dove il linguaggio della poesia è già invista di certi esiti del Carducci: dunque, aquell’altezza, modernissimo. Così questo libro«involontario» – come lo avrebbe etichettato ungergo critico non più in voga ma utile –, scrittonel trascorrere, si immagina, di piccoli maintensi ozi e passioni, e che prende adessoforma, è un capitolo insieme culturale e intimonella storia di quel «barbato» (Debenedetti), chenascose se stesso dietro la scienza, e viene fuori,da qui, con una sensibilità non propriamenteremota.

zioni dei lettori di Virgilio o, come inquesto caso, dei lettori dei lettori di Vir-gilio lungo i secoli, con scale di propor-zione ovviamente variabili ma proprioper questo in grado di stimolare sem-pre inedite possibilità di rappresenta-zione del Classico.

Limitiamoci qui ai libri, alle vite e al-l’eredità del Novecento, il secolo cheper molti di noi è, almeno in parte, unvissuto di cui possiamo ricordare i pal-piti. La rinascita moderna dell’Eneidee del suo autore, è bene ricordarlo, sideve in massima parte allo specialetouch, capace di dare forma a un Eve-rest filologico, di un latinista tedesco,Richard Heinze, il cui libro rivoluzio-nario sulla Tecnica epica di Virgilio(1903, edizione definitiva 1915) rima-ne ancora insuperato. È di Heinzel’avere restituito all’Eneide tutta la po-tenza e l’originalità sottrattele per mol-to tempo da canoni e pregiudizi ege-monici: non una poesia fredda o stan-ca, solo debitrice di Omero, tutt’al più‘sentimentale’; ma, all’opposto, mai vi-sta prima perché drammatica, cioè te-sa al/dal «pathos» (nell’accezione ari-stotelica). Come sintetizza sull’ultimonumero di «Quaderni di storia» Ales-sandro Schiesaro, risalendo ad alcunetrascurate ma decisive fonti della Tec-nica epica – da Racine a Schiller a Cha-teaubriand (fonti assorbite durante glianni di formazione a Strasburgo) –, lostesso Heinze sta godendo di un revi-val fuori stagione dovuto probabil-mente alla traduzione inglese e poi ita-liana del suo libro, negli anni novanta.Non è mai troppo tardi. Su estensionee intelligenza dei contributi forniti al-l’esegesi virgiliana dal metodo‘positivo’ dello Heinze fa fede la mi-gliore letteratura dal dopoguerra inqua; e da ultimo, per tornare agli og-getti che sono sotto i nostri occhi, lafrequenza con cui Fo è ‘costretto’ aconvocare Heinze nel corpo minoredi questa nuova Eneide della «Nue»: alui, o allo sviluppo di sue intuizioni,quasi sempre risalgono le linee inter-pretative portanti del poema.

Due virgilianisti in simultaneaSe apriamo l’angolo del compasso diuna generazione e ci spostiamo a Mo-naco da Werner Suerbaum, o a Heidel-berg da Michael von Albrecht, vedia-mo per esempio che i virgilianisti tede-schi della seconda metà del Novecen-to hanno coltivato Heinze, ciascunonel proprio specifico campo d’indagi-ne, in un modo più intimo: molto inprofondità, quasi assorbendone conla lingua madre anche la visione strut-turale dell’Eneide. Merita senz’altrosoffermarsi sul secondo dei due pro-fessori emeriti di Filologia classica,Von Albrecht, che resta tra i maggiorilatinisti viventi, perché Vita e Pensieroha di recente pubblicato nell’impecca-bile traduzione dal tedesco di Aldo Se-taioli la sua magnifica Einführung aVirgilio: Virgilio. Un’introduzione, Bucoliche Georgiche Eneide (pp.X-300,€ 25,00). Semplice «introduzione» o non piuttosto monogra-fia tout court? Introduzione suona ai nostri orecchi, avvezzi ormaia titoli fantasmagorici e pretenziosi, come parola dimessa, un po’anni cinquanta; ma va senz’altro premiata nel senso scolastico edidattico-filologico, in quanto garanzia di solidità, di padronanzaassoluta della materia e della bibliografia, di chiarezza espositiva,di completezza. All’interno di questo impianto tradizionale, uni-versitario se si vuole (ma di un’università che oggi ci sogniamo),Von Albrecht affronta tutte le questioni dirimenti delle tre operedi Virgilio: dalla officina (tecniche compositive, generi, predecesso-ri e fonti, lingua e stile) all’esegesi dei passi cruciali, dall’interpreta-tazione concettuale – su cui le diverse scuole di studi potrebberomettere mano alla pistola –, al Fortleben, sino alle singole espres-sioni da secoli «passate in proverbio».

Come le partite in simultanea dei maestri di scacchi, ho alterna-to la lettura di Von Albrecht con quella del citato «Profilo di Virgi-lio» di Alessandro Fo. Si tratta, è chiaro, di due generi letterari nonomogenei, anche se per la verità, e limitatamente all’Eneide, unutilizzo più scolastico ed esegetico del secondo appare garantitodalle fitte note di Filomena Giannotti a corredo della traduzione(con testo latino a fronte di Geymonat 2008), alle quali lo stesso Forimanda con insistenza nel saggio, quasi en abyme. Naturalmenteaccanto alle divergenze di indirizzo e di generazione molte sono lecoincidenze – si è già detto di Heinze, il capostipite. A una primaimpressione per così dire sinottica, rispetto alla limpida ed elegan-te prosa di Von Albrecht, che tiene sempre al centro la compren-sione del testo e non il proprio io critico, l’‘invito a Virgilio’ di Fo fapensare a una fuga di finestre contemporaneamente aperte sullascrivania del pc: dalla biografia del poeta mantovano sino alle‘confessioni di un traduttore’, le diverse cornici si intersecano dan-do luogo a interferenze talvolta imprevedibili, anche ‘in verticale’quando ci si inabissa nelle onnivore note. Orchestra questa fuga,insieme enciclopedica e sentimentale, il consueto stilismo, con do-ratura crepuscolare da finale della prima egloga.

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(4) ALIAS DOMENICA11 NOVEMBRE 2012

di VALERIO MASSIMO DE ANGELIS

●●●Nel pieno di una campagnapresidenziale americana in cui iltema della razza è stato confinato aimargini del dibattito ed è peròrisultato determinante nella cruda«materialità» demografica di scelte divoto orientate sulla base dellacollocazione «razziale», è uscito unimportante volume sui diversi«colori» e valori dell’identità in Italiae in America, e sulle censure eamnesie che sia su questo siasull’altro lato dell’Atlantico (anzi,assai di più sul nostro) hannoostacolato l’edificazione di unaarticolata consapevolezzadell’intrecciarsi delle differenze nelledue società, sostituita dalla brutalestereotipizzazione semplificatoria chedi esse viene proposta nei luoghideputati in cui si dovrebbe elaborareuna qualche forma di «coscienzacollettiva». In tutti i contributiraccolti da Tatiana Petrovich Njegoshe Anna Scacchi in Parlare di razza La

lingua del colore tra Italia e StatiUniti (Ombre Corte, pp. 318, € 25,00)l’assunto di partenza è appunto lasottolineatura del carattere costruito,non-naturale e non-biologico, delconcetto di razza, assieme alla(amara) constatazione che ancoraoggi è necessario ribadirlo dicontinuo. Il libro infatti non si limitaa giustapporre una serie di studiravvicinati di alcuni particolarifenomeni socio-culturalicontraddistinti dal ruolo centrale chein essi giocano la lingua el’immaginario della razza, negli StatiUniti come in Italia, ma ambisce atracciare la mappa dell’intricata retedi relazioni e interferenze che si èandata stabilendo nel corso deisecoli, a partire dall’evento storicoche innesca i processi di definizionedel razzismo moderno: la scopertadell’America – e già il termine«scoperta» inaugura una distinzione euna gerarchia tra un protagonistaattivo che svela un nuovo mondo eun antagonista passivo che lo abitava

senza evidentemente essere mai statocapace di «scoprirlo».

Nei densi contributi delle duecuratrici, posti all’inizio e alla fine delvolume, si delinea una cornice diriferimento, a livello tanto teoricoquanto di storia culturale, cui tutti glialtri saggi in un modo o nell’altro sirapportano, seguendo secondo levarie prospettive (inter-)disciplinariuna serie di motivi ricorrenti che,anche quando abbiano già trovatoacuti indagatori nel campo dellaricerca accademica e non, ben pocarisonanza sembrano aver suscitatonella cultura diffusa. Il primo e piùimportante di questi motivi èprobabilmente quello del distortoadeguamento dei discorsi americanisulla razza al contesto italiano.Petrovich Njegosh ricorda come neiprocessi di costruzione econsolidamento (o deterioramento)del simulacro della nostra identitànazionale tra la nascita dello statoitaliano e la fine del fascismo lemodalità di autorappresentazione

di RAUL CALZONI

●●●Fondatore nel 1974, con alcu-ni compagni di università, di ungruppo di attivisti gay nella propriacittà natale, Helmut Matthias Fringssi è trasferito a Berlino nel 1977 e hariscosso, negli anni ottanta, un certosuccesso con il saggio Amori. Ma-schi – Manuale per chi è gay e per chivuole diventarlo. Alla Fiera del Librodi Lipsia, nel 2009, L’ultimo comuni-sta, appena pubblicato dalla Vo-land, (trad. it. di Chiara Marmugi,pp. 560, € 18) venne accolto comeuna rivelazione: definito dalla criti-ca «una biografia a tratti romanza-ta», il libro si apre con l’approdo nel-la Berlino dei tardi anni settanta diHelmut – allora Frings non aveva an-cora rinunciato al primo nome dibattesimo con il quale oggi si firma– e restituisce al tempo stesso il vis-suto dell’autore fino ai primi anninovanta e la vita del collega e amicoRonald Schernikau, scomparso acausa dell’aids nel 1991.

Schernikau si era trasferito a Berli-no ovest circa dieci anni prima,quando aveva pubblicato con enor-me successo Romanzo di una picco-la città, un’opera di matrice autobio-grafica in cui si racconta il comingout di un giovane omosessuale.Quando Frings lo incontra per la pri-ma volta a Berlino, Schernikau è al-l’apice del successo ed è già «un Gia-no bifronte, un letterato esperto, col-to, che pretende molto dal propriointelletto», ma anche un’anima in-fantile, propensa all’adorazione,che non si fa scappare l’occasioneper provare piacere. «Con la stessaforza con cui desiderava il giovanesportivo, esigeva la letteratura e il co-munismo»: così dice la postfazioneall’Ultimo comunista che, firmatadallo stesso Frings, sottolinea la du-plice personalità di Schernikau e ri-percorre la genesi del romanzo, sve-lando come mai per ricostruire la vi-ta dell’amico attraverso la narrazio-ne della propria, Frings non si sia li-mitato ai ricordi ma ne abbia inter-rogato le lettere, i documenti, gli ap-punti e il suo intero lascito di scritto-re. Il grande respiro corale e socialedel romanzo nasce, perciò, dalla si-nergia fra questi realia e i ricordi diFrings, degli amici e degli amantidei due scrittori, ma anche di Ellen,la madre di Schernikau fuggita a oc-cidente nel 1966 per inseguire il so-gno impossibile di una vita matri-moniale con il padre già sposato delpiccolo Ronald. Le biografie di Frin-gs e Schernikau, ricostruite con pre-cisione, parlano quindi delle due Re-pubbliche tedesche senza rinuncia-re a descrivere le sensazioni, le rifles-sioni e le emozioni che questi conte-sti sociopolitici e culturali suscitanonei due amici. In effetti, L’ultimo co-munista offre due spaccati riuscitis-simi del clima delle due Germanienel periodo che precede e segue lacaduta del Muro, mentre le emozio-ni e i sentimenti di Frings e di Scher-nikau sono costantemente amplifi-cati da una Berlino nella quale i dueautori si muovono, fra l’impegno po-litico-letterario e l’affermazione del-la propria identità di genere.

La metropoli degli anni ottanta èil luogo ideale per inseguire il suc-cesso di cui va in cerca l’allora emer-gente Frings ed è il palcoscenico ide-

ale, di cui gode Schernikau, per farsicelebrare in quanto star del momen-to. Berlino è, inoltre, il posto giustoper dare fondo all’espressione delleproprie istanze identitarie, in parti-colare per chi come Schernikau «daun certo punto di vista … era una re-gina». È una definizione che del-l’amico diede lo stesso Frings, inuna intervista rilasciata a Die Tages-zeitung nel 2009, e il romanzo la tra-duce nel racconto delle performan-ce en travesti e della quotidianitàdei due amici, fra i locali gay e quelli«alternativi» di Berlino ovest, arri-vando a restituire un’immagine del-la collettività omosessuale berlinesenon priva di una sua routine, scandi-ta da un linguaggio in codice e dallamise en abîme del proprio sé.

L’ultimo comunista ci riconduce,così, sulle tracce della sensibilitàcamp che a Berlino regnava già du-rante la Repubblica di Weimar: quel-la temperie di cui ha testimoniato,tra l’altro, Christopher Isherwood inGoodbye to Berlin. Se il fondale dellagran parte del romanzo è la città di-visa dal Muro, quello degli ultimi ca-pitoli è la Berlino troppo presto riu-nificata; ma in entrambi i casi, inperfetta sintonia con la letteraturadella metropoli più riuscita della Re-pubblica di Weimar, il romanzo in-nalza la vita del singolo a exemplumdi una collettività e di un collettivopolitico. Tra le pagine di Lo Spiritodell’epoca naturalistica, AlfredDöblin – che nel 1929 con Berlin

Alexanderplatz avrebbe pubblicatoil primo romanzo metropolitano del-la letteratura tedesca – aveva d’al-tronde già definito la città come un«banco corallino che cementa l’indi-vidualità in socialità». Vale lo stessoper L’ultimo comunista, in cui il da-to documentario e quello della fin-zione si fondono in un racconto delvissuto individuale e di quello collet-tivo, anche grazie alle descrizioniplastiche delle manifestazioni orga-nizzate nella Berlino occidentale de-gli anni Ottanta dalle cellule di sini-stra, alle cui attività Schernikau par-tecipa attivamente.

Berlino è, in altri termini, lo sfon-do ideale sul quale Ronald può mo-strare il suo volto bifronte, esibendola propria omosessualità e entrandoprima nel partito comunista tede-sco di Lehre, a metà degli anni ’70,poi nel partito socialista unificato diBerlino ovest. Intanto cova un gestoclamoroso: quando cade il Muro,mentre i tedeschi orientali si affretta-no a raggiungere l’ovest, Schernikausegue il percorso inverso e, dopoavere ottenuto l’ultimo passaportoemesso dalla ddr, si trasferisce nellaparte est. Si spiega così il titolo delromanzo, in cui la parabola queer diSchernikau nella letteratura e nellasocietà tedesca degli anni ottantaha fornito a Frings la possibilità diraccontare, da un’inedita prospetti-va, le due Germanie al culmineestremo della loro esistenza.

Si potrebbe, sulla scia della criticatedesca, considerare L’ultimo comu-nista un romanzo gay, documenta-rio, camp, sociale e persino «ostalgi-co», e lo si potrebbe anche descrive-re come una autobiografia all’inter-no di una «biografia in parte roman-zata». Eppure, l’opera sfugge a qual-sivoglia definizione, perché come isuoi protagonisti si avvale di quella«lingua altra» che, secondo RolandBarthes, «si parla da un luogo politi-camente e ideologicamente inabita-bile: luogo dell’interstizio, del margi-ne, dell’obliquità e del passo claudi-cante, luogo cavaliere perché si po-ne attraverso, a cavallo, apre unaprospettiva panoramica».

Parabola di un gaya est del Muro

Un recente ritratto di Matthias Frings,giornalista, autore televisivo e scrittoretedesco. Sotto, Barack Obama nell’ultimacampagna elettorale

Un Giano bifronte,colto e infantile:lo scrittoreRonald Schernikausi presenta cosìa Matthias Frings,che ne racconteràla storia, dopola morte per aids

FRINGS

COMPARATISMI

Njegosh-Scacchi,il caratterecostruitodel concettodi razzatra Italia e Usa

«L’ULTIMO COMUNISTA», ROMANZO BIOGRAFICO DELL’AUTORE TEDESCO PER VOLAND

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(5)ALIAS DOMENICA11 NOVEMBRE 2012

di FRANCESCA BORRELLI

●●●Se c’è una ragione, e non puònon esserci, per la quale JonathanFranzen ha deciso di nascondere (al-meno un po’) il racconto in cui final-mente si concede di dedicarsi al-l’amico suicida, David Foster Walla-ce, quella ragione deve chiamarsi pu-dore. Non è una certezza, è una inter-pretazione. Ma non si vede quale al-tra strategia se non quella suggeritadallo speciale understatement cheaccompagna i sentimenti molto for-ti debba averlo guidato nella sceltadi non aprire l’ultimo volume deisuoi scritti, Più lontano ancora (Ei-naudi, trad. di Silvia Pareschi, pp.300 € 19,50) con quel pezzo così in-tenso, così saturo di commozione eper lui tanto coinvolgente in cui evo-ca l’autore di Infinite Jest. Evitandodi isolare quel racconto e dunque diesibirlo, Franzen ha scelto di infra-mezzarlo insieme a conferenze, di-scorsi d’occasione, recensioni,omaggi ai classici e, soprattutto, alunghi esercizi di devozione verso ro-manzi misconosciuti. Per quanto di-versi, questi scritti in qualche modoaiutano a configurare il carattere diJonathan Franzen, la sua indifferen-za alle leggi dell’opportunità, la suamancanza di cinismo, una intratteni-bile generosità verso gli autori chegli hanno restituito il piacere un po’adolescenziale del testo, e anche lasua congenita mancanza di radicali-tà, che si esprime tanto nei contenu-ti quanto nello stile in cui scrive.

Cominciamo dalla sua estraneitàall’opportunismo: non che dichiarar-si tendenzialmente nemici della tec-nologia, peraltro maneggiando condisinvoltura e-mail, BlackBerry, Gp-se altri oggetti ai quali non pochiscrittori, benché americani, si rifiuta-no, sia un gesto eroico; certo, invitaa metterti dalla parte del passato, ilche per un autore mainstream nonequivale al massimo. Nella prima trale conferenze raccolte nel libro, quel-la titolata «Il dolore non vi ucciderà»,Franzen ragiona ironicamente sulloscopo ultimo della tecnologia, ossiaallearsi con il nostro narcisismo perfarci fare bella figura, e dunque sosti-tuire il mondo indifferente ai nostridesideri, alle nostre tensioni, ai no-stri cuori fragili, con un mondo «cosìsensibile a quegli stessi desideri dadiventare, in pratica, una meraestensione dell’io.»

La logica del tecnoconsumismo –dice – ha sviluppato una straordina-ria abilità nel creare prodotti corri-spondenti al nostro ideale di relazio-ne erotica, quella in cui l’oggettoamato non chiede nulla e concedetutto, evitando scenate quando lo siaccantona in un cassetto per sosti-turlo con uno più bello. La chiusadel ragionamento è funzionale a in-trodurre Franzen a quanto gli sta acuore: a volte – dice – tra gli zombieche passeggiano per Manhattan digi-tando messaggini sul telefono o bla-terando sulla organizazione del pros-simo evento, c’è qualcuno che litiga

con la persona amata, la accusa, lasupplica, la insulta. «Queste sono lecose che mi danno speranza». E dun-que, non per la prima né per l’ulti-ma volta, passa a evocare quella in-tollerabile sofferenza che da un cer-to punto in avanti si installò nel suomatrimonio e lo fece precipitare. Al-la resa dei conti, però, quanto inten-de depositare in questo discorso in-dirizzato a studenti alla vigilia dellalaurea è che «il dolore fa male, manon uccide». Naturalmente non hadel tutto ragione, ma andiamo oltre.

È il momento di illustrare la suamancanza di cinismo: tutto quantoFranzen ha scritto fino a adesso tor-na utile a dimostrarla, ma forse ciòche in questo ultimo libro meglio laesemplifica è l’impossibilità di ag-giungere alla distanza indispensabi-le all’ironia altra distanza ancora, fi-no a perdere i contatti con l’emotivi-tà che si sprigiona dall’oggetto viavia osservato e riparare in quell’ap-prodo massimamente difensivo cheè il disincanto. Il fatto stesso di con-cepire la narrativa come «una speciedi sogno volontario» e, a dispetto del-la raffinata strumentazione teoricache Franzen possiede, abbandonar-si alla voluttà dell’immersione in ro-manzoni estranei a qualsiasi canoneche non sia quello del puro intratte-nimento depone, semmai, a favoredi un invidiabile infantilismo senzaperversione. Quanto alle sue dichia-razioni di poetica, o almeno di ciòche intende evitare, i bersagli princi-pali sono il sentimentalismo, l’au-toindulgenza, l’eccesso di lirismo, ilsolipsismo, gli sterili giochetti lettera-ri e i feticismi informativi. Coerente-mente intrecciata con queste pre-messe, la generosità di Franzen siesprime in una sorta di travolgenteesigenza di rendere pubblico il suodebito di riconoscenza con gli autoriche ha amato, viventi e non, speciese misconosciuti. Anche della suamancanza di radicalità e di un certorelativismo ostentato con orgogliosamodestia Franzen ha dato non po-che prove nel corso del tempo; ma,se non altro, la passione per il bird-watching e la conseguente battagliaper la salvaguardia dei volatili, lo hareso più intransigente verso gli abusisubiti dalla natura. Ciò non toglieche, come racconta tra le pagine delsuo report titolato «Cieli silenziosi»,nel pieno di una missione finalizzataa combattere in varie geografie lastrage di uccelli perpetrata a dispet-to della legge, lui e i suoi compagniabbiano acconsentito a mangiare,non senza un colpevole gusto, i tordiserviti in un ristorante di Cipro. Co-me a dire che è l’eccezione ciò che fadi una regola una regola.

«Per me – ha scritto Franzen – an-dare in cerca di nuove specie volatilisignifica inseguire le tracce di unaautenticità quasi perduta». Con que-sta premessa, una volta conclusa laestenuante tournée per la promozio-ne del suo ultimo romanzo, Libertà,prossimo a sentirsi un automa e or-mai profondamente immerso nellasensazione di essere stato deprivatodi ampie porzioni della sua vita per-sonale, Franzen parte alla volta diuna piccolissima isola dell’oceanoPacifico al largo del Cile. La speran-za è di avvistare nuove specie di uc-celli canori, e in particolare il rayadi-to, che conta non più di cinquecen-to esemplari, difficilissimi da vederese non altro perché è davvero moltoarduo raggiungere il loro habitat na-turale. Franzen ha con sé il minimoindispensabile, e di questo minimofa parte una copia di Robinson Cru-soe, il primo grande documento del-l’individualismo radicale, che IanWatt disse essere nato dalle ceneridella noia. È probabile che il roman-zo fosse stato ispirato a Defoe dallavita di un avventuriero scozzese chia-mato Alexader Selkirk, e proprio alui venne intitolata l’isola verso laquale Franzen ora si dirige, una isolache gli indigeni ribattezzarono Masa-fuera, ovvero la «più lontana».

Prima di partire, lo scrittore ameri-cano fa visita alla vedova di FosterWallace che, inaspettatamente, glimette tra le mani un minuscolo cas-

setto in forma di libro, depositando-vi un po’ delle ceneri del marito. «Lepiaceva pensare, disse, che una par-te di David avrebbe riposato suun’isola remota». Ma fece quel gesto«anche per me», scrive Franzen, fi-nalmente consapevole di non esser-si ancora concesso «qualcosa di piùdi un dolore fugace e una rabbia per-sistente» per la morte dell’amico.D’ora in avanti, nel racconto di Fran-zen si alterneranno grazie a un mon-taggio meravigliosamente intonatoalla sua commozione, le esplorazio-ni dell’isola, le riflessioni su Robin-son Crusoe, e i tentativi di ricongiun-gere nella sua mente il David che co-nosceva meglio con quello che glisfuggiva, l’uomo impegnato a strap-pare all’ansia e al dolore una basepiù solida per il suo lavoro e per lasua vita, e lo stratega della propria di-struzione, che progettava la sua ven-detta finale contro chi più lo amava.

Sarebbe stata quella parte di lui avincere la battaglia, e perciò DavidFoster Wallace si impiccò in casa, co-erente a «un insensato desiderio dionestà». Quella onestà che gli impo-se di meritarsi la sua condanna ese-guendola nel modo più lesivo perchi gli stava vicino, a ulteriore e defi-nitiva dimostrazione del fatto chenon meritava di essere amato. Perquanto dolore gli costasse la proget-tazione del suo suicidio, questo di-venne – scrive Franzen in una dellesue intuizioni migliori – «una speciedi presente». Da quelle lontananzeesistenziali, da quel disancoraggiodalla vita che permette a Franzen diparagonarlo a un’isola virtuale, ognitanto Foster Wallace componeva epoi mandava «dispacci solitari» informa di scritti in prosa. Finché lostrappo definitivo dal suo investi-mento nella narrativa lo sottrasseper sempre a chi lo amava e lo conse-gnò alla consacrazione tardiva dipersone che, perlopiù, non lo aveva-no mai letto.

L’approdo di Franzen all’isolasperduta nel Pacifico era stato tut-t’altro che romantico: le mosche, lamusica proveniente dalle baracchedei pescatori di aragoste, un bo-schetto di grandi alberi calcificati,quantità scoraggianti di escrementidi mulo e poi la noia erano quantogli sarebbe bastato, da lì a pocheore, per rimpiangere la metropolita-na operosità dalla quale era fuggito.Sparse le ceneri dell’amico, Franzenlascia sull’isola la sua rabbia e se neva con il solo carico del dolore final-mente liberato. Ne trarrà quello cheè, probabilmente, il suo raccontopiù bello; ma prima di scriverlo,quando è ancora sulla rotta del ritor-no, prende di nuovo in mano il ro-manzo di Defoe e riflette sulle pagi-ne dell’incontro di Robinson Cru-soe con la prima impronta di un uo-mo sulla spiaggia, dopo quindici an-ni di perfetta solitudine. Quel chene deduce vale per Robinson comevale per se stesso, ancora empatica-mente immerso nel suo legame conl’amico di cui ha appena disperso iresti: «Possiamo difenderci dal no-stro io finché vogliamo, ma bastauna sola impronta di un’altra perso-na in carne e ossa per ricordarci i ri-schi eternamente interessanti dellerelazioni autentiche.»

(ricostruite in dettaglio nel saggio diStefano Luconi) abbiano oscillato trala necessità di distanziarsi da unascomoda posizione di «quasi negri»(nella codificazione dal Censostatunitense a cavallo tra Otto eNovecento) e il desiderio di«sbiancarsi» (anche letteralmente,con l’ossessione igienista del periodofascista e del primo consumismopostbellico studiata da CristinaLombardi-Diop) o addirittura ergersia paladini di una nobile missionecivilizzatrice nei confronti delle razze«inferiori», non dissimiledall’americanissimo «ManifestDestiny». A distanza di più di unsecolo, l’inversione della polarità traemigrazione e immigrazione che statrasformando la demografia italiana,rendendola più simile a quellastatunitense, si traduce nella cattivaimitazione delle pratiche dirazzializzazione dell’altro che alloravenivano impiegate negli USA, omeglio, secondo quanto Scacchipuntualmente rileva, nella loro

(pessima) traduzione, di cui moltiprotagonisti del dibattito pubblicopaiono essere inconsapevoli(l’«abbronzatura» di Obamaamorevolmente elogiata daBerlusconi ne è il caso più esemplare,ma anche la stampa progressista hainanellato le sue perle, individuate daNadia Venturini), oppurecondividono senza alcuna remora,sorprendendosi di essere criticati perl’uso secondo loro etimologicamentecorretto e politicamente neutro deltermine «negro» – in più di uncontributo si rimarca comel’espressione «politicamentecorretto», soprattutto per le questionirelative alla razza, sia ormai stataribaltata dal senso comune inun’accezione eminentementenegativa, al punto che chi si gloriaimpavido della propria scorrettezza,immaginando chissà qualeostracismo popolare, si ritrova inveceprotetto da branchi affollatissimi dilupi per nulla solitari. Del resto, bastaleggere il saggio di Antonio Soggia per

capire come all’irresponsabilesuperficialità del razzismo quotidianocorrispondano precise scelte dipolitica sociale. Oppure si può andarealla ricerca del precipitato ultimodelle più o meno buone intenzioniitaliane di «invisibilizzazione» dei«colori» americani (di solito il nero,ma anche il rosso dei nativeAmericans, assimilati e riciclati nellepiù improbabili contestualizzazioni«bianche» esaminate da GiorgioMariani), dalle rappresentazioni dellarazza nei fumetti americani tradottidurante il fascismo (CaterinaSinibaldi) alle edulcorate versionidella poesia del maggiore poetaafroamericano, Langston Hughes(Simone Francescato), e dallestrategie di «esoticizzazione» forzatadella letteratura chicana adottatedall’editoria nostrana ai doppiaggiche normalizzano, anestetizzandola,l’alterità della lingua afroamericananelle serie TV (Leonardo Buonomo eAnna Belladelli). Di contro, anche lacultura statunitense può almeno in

parte «tradire» il testo razzializzatoitaliano che vuole tradurre, comenella affascinante ma controversainstallazione di Fred Wilson per laBiennale di Venezia del 2003, chenella lettura di Jeffrey C. Stewarttende a rendersi complice dellavittimizzazione del nero nella civiltàdel Rinascimento, sottovalutandone ilfecondo ruolo ispiratore, incarnatocome meglio non si potrebbe daAlessandro de’ Medici, il «Moro»,probabile figlio naturale del cardinaleGiulio e della domestica di originiafricane Simonetta da Collevecchio, eprimo capo di stato nero del mondooccidentale (ma anche, andrebbericordato, primo responsabile dellatrasformazione di Firenze darepubblica in principato autoritario).Una volta di più, quando si parla dirazza, in America quanto in Italia, infondo de te fabula narratur, perché ènella complessità anche ambiguadelle differenze che si radical’appartenenza all’unica razzaesistente, quella umana.

Fra gli ultimi scritti di Jonathan Franzen,il suo racconto di viaggio verso una isola remotaper spargervi le ceneri di David Foster Wallacee ritrovare se stesso con l’aiuto del birdwatching

Le improntedi un amicosul nostro Io

Birdwatcher con la tipicaattrezzatura mimetica

FRANZEN«PIÙ LONTANO ANCORA», SAGGI, PROSE D’OCCASIONE, REPORTAGE DELL’AUTORE AMERICANO PER EINAUDI

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(6) ALIAS DOMENICA11 NOVEMBRE 2012

RAFFAELI DA PAGINA 1

L’«Eneide» di Fo:un’onda fonicache insiemescandisce e uniscequattro accenti forti che non lo di-stanzino troppo dagli endecasilla-bi sciolti che si legano agli automa-tismi del lettore. (Tant’è che da Ei-naudi, già agli esordi su Omero,più d’uno è perplesso se Pavese, il7 giugno del ’48, è costretto a ri-spondere stizzito alle cautele classi-ciste del collega Carlo Muscetta –in Officina Einaudi: Lettere edito-riali 1940-1950, a cura di Silvia Sa-violi, introduzione di Franco Con-torbia, Einaudi 2008 –: «Che il ver-so resti almeno come strutturamentale se non come cadenza .

(…) Non credo alla tua teoria del-l’endecasillabo. Non credo nem-meno all’esametro. Non credo ingenere a nessuna metrica»). Vale adire a nessuna metrica che non siadissimulata in prosa o che in prosariscriva un suo ritmo.

Ecco per esempio come Rosa Cal-zecchi Onesti traduce l’attacco delII libro dell’Eneide, il racconto dellevicissitudini di Enea che innamoraDidone, luogo proverbiale che latradizione vuole fra quelli redazio-nalmente più arcaici e addiritturaletti al cospetto di Augusto da Virgi-lio in persona, in una specie di ante-prima, nel 21 a. C.: «Tacquero tuttie intenti il viso tendevano. / Dall’al-ta sponda il padre Enea cominciò:/ ‘Dolore indicibile tu vuoi ch’io rin-novi, o regina...’». La traccia in pro-sa tende alla atonalità, il verso siasciuga in un disegno ellittico. D’al-tro lato, l’incipit nella soluzione diAlessandro Fo: «Tacquero tutti, e te-nevano intenti su lui i loro sguardi/ Quindi dall’alto giaciglio così inco-minciò il padre Enea: / ‘Chiedi, regi-

na, che io ripercorra un dolore indi-cibile...’». Stavolta, non solo c’è unmetro più riconoscibile (qualcosache duplica, alla maniera della me-trica «barbara», il tempo lungo o ladilatazione un poco sonnambolicadell’esametro originale), ma c’è an-che e soprattutto un’onda fonicache insieme scandisce e unisce (sipotrebbe dire in un continuo fono-sintattico) ciò che nell’originale pre-senta una tessitura tanto intramatada apparire cangiante e, alla lette-ra, versicolore.

Fo intuisce che la intimità dei co-lori emotivi, in Virgilio, così come ilperpetuo décalage dei toni poetici(una grandiosa partitura dove con-fluiscono e infine si identificano liri-ca e drammaturgia, ci ha insegnatoun maestro quale Antonio La Pen-na), non sono entità duplicabili aspecchio. Pertanto Fo rigetta sial’ambigua modestia del mimeti-smo sia la esibita superbia, o la co-moda scorciatoia, dell’inventiva.Semmai opta per un gesto ambiva-lente che, rispetto all’originale, è

tanto di distanza quanto di conver-genza: da un alto decide infatti dichiudersi in una gabbia metricache non gli lascia scampo e anzi gliimpone durissimi vincoli (tutti ri-cordati nella sua nota introduttiva,specie l’esatto corrispettivo delleunità frastiche e lessicali), dall’altroinvece si concede la massima liber-tà, sia per omologia sia per analo-gia, nella riconversione della tramafonica.

Poeta di fisionomia da tempo de-finita (e di limpido segno, comesanno i lettori di Corpuscolo, Einau-di 2004, o di Vecchi filmati, Manni2006), firmatario di un’altra versio-ne a suo tempo memorabile, il DeReditu suo di Rutilio Namaziano (IlRitorno, Einaudi 1992), l’attuale im-presa di Fo è nell’avere restituito aVirgilio una musica, dentro una par-titura che non richiamasse piùl’acustica sospettosa, trattenuta insordina, dei modernisti, ma nean-che, o tanto meno, il fragore stereo-fonico dei postmodernisti. Una pe-tite musique, questo è ovvio data la

grandezza schiacciante dell’origina-le, ma pur sempre una musica. Lìdel resto si è sempre giocata la gran-dezza dei traduttori virgiliani a par-tire da colui che per secoli ha tenu-to banco, esattamente dal 1581 fi-no agli anni della nostra scuola me-dia, quando l’Eneide di Annibal Ca-ro ancora resisteva come terza coro-na fra l’Iliade del Monti e l’Odisseadi Pindemonte. E coi ritmi mossi diun «moderno tramato sull’antico»(nota Giulio Ferroni in ‘Per fuggirla mattana’. Annibal Caro e la scrit-tura, Andrea Livi Editore 2009), co-sì comincia il suo II libro dell’Enei-de, lo stesso, sia qui detto soltantodi volata, su cui il giovane filologoGiacomo Leopardi darà una primaprova di scrittore: «Stavan taciti, at-tenti e disiosi / d’udir già tutti,quando il padre Enea / in sé raccol-to, a così dir da l’alta / sua sponda,incominciò: ‘Dogliosa istoria/ ed’amara e d’orribil rimembranza,/regina eccelsa, a raccontar m’invi-ti’...». È una musica di endecasilla-bi, gli eterni endecasillabi italiani,

tuttavia così esatti e scanditi che lisentiamo giustamente datatissimi.Ma Annibal Caro, mentre traducel’Eneide, può sentire Virgilio allastregua di un suo contemporaneo,mentre per i moderni, appena duesecoli dopo, è già questione di unautore antico tout court (tanto cheLeopardi nello Zibaldone, circal’impresa del Caro, ne rileva la«scioltezza che la fa apparire un ori-ginale non una versione»). Oggi,nell’età cosiddetta postmoderna, lapresenza dei classici può soltantoessere paradossale, perché remotis-simi ma sempre incombenti comepossono essere soltanto gli spettri.Sia lode dunque ai temerari chesanno captarne l’abbrivo musicalecon cui, di volta in volta, costoro siannunciano.

Ipernarrativoper lettorie ascoltatori

di NICCOLÒ SCAFFAI

●●●Leggere Gadda: restava da fa-re questo. Non dico rileggerlo, perdarne nuove interpretazioni (co-munque ben accette, se non altrocome prova della vitalità dell’ope-ra gaddiana: penso, ad esempio, al-l’analisi del Pasticciaccio alla lucedi Freud e Schrödinger, propostadi recente da Gabriele Frasca inUn quanto di erotia); intendo pro-prio dire: leggerlo, seguendone ilpasso, la cadenza, come se fosse laprima volta. E, per molti, le nuoveuscite di questo periodo potrebbe-ro in effetti rappresentare la primaoccasione per avvicinarsi a un au-tore indiscutibilmente canonico,ma che del canone fa parte pro-prio per la sua ‘illeggibilità’. Puòsembrare un controsenso o unaprovocazione, e in parte lo è; maproviamo a chiedere agli studentidi un corso di Lettere se conosco-no il nome di Gadda e se lo hannoletto: alla prima domanda molti ri-sponderanno di sì, alla seconda dino – in larghissima maggioranza.Non solo: domandiamo a chi inse-gna letteratura italiana, magari al-l’estero, se pensa che Gadda sia unautore proponibile, per di più a unpubblico di non italofoni. Parecchisorriderebbero scoraggiati al solopensiero.

Non si può negare che Gaddasia un autore difficile; ma il punto,messo a fuoco dalla critica special-mente negli ultimi anni, è che lastraordinarietà della lingua gaddia-na – tale da giustificare l’invenzio-ne del paradigma storico-stilisticoche chiamiamo, con Contini, «fun-zione Gadda» – fa ombra alla consi-stenza narrativa della sua scrittu-ra. Credo occorra ripartire da lì perleggere (e probabilmente ancheper insegnare) Gadda, da quellaconsistenza o meglio stratificazio-ne, perché dietro a ogni scarto les-sicale – arcaismi, dialettalismi, fo-restierismi, solecismi – si intrave-dono storie: della società in cui siinquadrano le vicende e dei perso-naggi coinvolti anche per un soloistante, un rigo o meno, nella mac-

china mimetica del narrare gaddia-no. La complessità della linguanon è perciò la causa, ma la conse-guenza della bulimia conoscitivadello scrittore, che divora l’espe-rienza e ne restituisce i frammenti:brandelli di dialoghi, scorci descrit-tivi, cronache di fatti e persone.Per questo Gadda non è uno scrit-tore poco narrativo ma, all’oppo-sto, è uno scrittore ipernarrativo;nelle sue opere, infatti, la moltipli-cazione delle voci e delle prospetti-ve serve a esprimere e quasi a rin-correre i mille rivoli reconditi attra-verso cui le cause imponderabilisfociano in quell’effetto frastaglia-to che è il reale. Contini, che pureha fabbricato le lenti formali concui siamo abituati a leggere Gad-da, l’aveva compreso da tempo: «IlGadda narratore rischia perfino diessere più temerario del Gadda sti-lista» (così scriveva nell’85, alla fi-ne della sua Introduzione ad «Ac-coppiamenti giudiziosi»).

Proprio dagli Accoppiamenti hapreso avvio l’anno scorso, per Adel-phi, la nuova edizione delle operegaddiane, diretta da tre filologi discuola pavese (Paola Italia, GiorgioPinotti, Claudio Vela), che prose-guono il lavoro già compiuto daDante Isella. A quel volume si ag-giunge ora L’Adalgisa Disegni mila-nesi (Adelphi «Biblioteca», pp. 432,€ 24,00). A curarla è Claudio Vela,un’autorità gaddiana, che fornisceuna Nota al testo rigorosa e al tem-po stesso arguta (si legga la diver-tente Microazione grammatical-re-dazionale a tre personaggi, nellaquale il Curatore immagina di dia-logare con il Perché, accento acuto,e il Perchè, accento grave, l’un con-tro l’altro armati in difesa delle ri-spettive soluzioni grafico-editoria-li). Soprattutto, Vela ci permette dileggere (in questo senso, come di-cevo prima, quasi per la prima vol-ta) L’Adalgisa così come il libro èstato originariamente concepitodall’autore: l’opera viene infatti ri-proposta secondo il testo della prin-ceps del 1944, che aveva visto la lu-ce per i tipi di Le Monnier. Quel-l’uscita, al culmine della Secondaguerra, era apparsa intempestiva al-lo stesso autore, che quasi se nescusava in una lettera a Carlo Lina-ti: «Io mi rendo conto altresì che illibro è uscito in un momento pocopropizio: cure gravi occupano l’ani-mo dei miei concittadini: mentregli scritti pubblicati risalgono ad an-ni relativamente sereni, in cui loscherzo era esteticamente lecito».

Ma, come spiega Claudio Velanella Nota al testo, L’Adalgisa piùche un frutto fuori stagione era«un libro che chiudeva un periododi Gadda ma guardava avanti». Almomento della sua uscita, infatti,la stagione milanese dell’autore,così ben descritta nei tipi e nei co-stumi (memorabile il catalogo deinotabili «coniugati fra loro, impa-rentati fra loro, associati fra loro»:«i Lattuada, i Perego, i Caviggioni, iTrabattoni, i Berlusconi…»), avevagià lasciato il posto a quella fioren-tina. Anche l’idea di un romanzoche rappresentasse quella stessasocietà – Un fulmine sul 220 – erastata accantonata a favore di unanarrazione frammentata nei diecibrani o ‘disegni’ che formanoL’Adalgisa (la raccolta prende il ti-tolo dall’ultimo, collocato a suggel-lo di un progetto macrotestuale

che l’edizione Vela contribuisceora a chiarire e valorizzare). Anchein questo senso, il libro «guadavaavanti», al futuro: perché, facendodi necessità virtù, dava forma allanarrazione propagginata e senzatrama tipicamente gaddiana. Unanarrazione in cui il fatto, se nonscompare, viene dislocato fuoricornice: esemplare è il terzo dise-gno, Claudio disimpara a vivere,costruito intorno a un evento tragi-co, eppure (o proprio per questo)raccontato solo nelle note che l’au-tore aggiunge al testo: il crollo o«drammatico e anzi addirittura fe-rale mancamento di ponte verifica-tosi negli anni tra il 1920 e il 1930in una laboriosa città della pianurapadana», che provocò la morte disette ragazzi.

Se l’edizione dell’Adalgisa pre-suppone un gruppo di lettori colti-vato (e filologicamente attrezzato,nel caso voglia accedere pienamen-te alla Nota del curatore), un’altrarecente uscita gaddiana potrebberivolgersi addirittura a un pubblicodi non-lettori, o di lettori potenzia-li: si tratta infatti dell’audiolibro diQuer pasticciaccio brutto de via Me-rulana letto da Fabrizio Gifuni epubblicato in formato CD Mp3 nel-le edizioni Emons di Roma (€18,90). Una lettura nel vero sensodella parola, condotta da un attoreche vanta già un’esperienza gad-diana di grande rilievo (il monolo-go teatrale L’ingegner Gadda va al-la guerra o della tragica istoria diAmleto Pirobutirro, nato daun’idea dello stesso Gifuni per laregia di Giuseppe Bertolucci). Madiciamo chiaramente, a scanso diequivoci, che il supporto digitalenon autorizza in alcun modo il di-simpegno intellettuale: il Pastic-ciaccio di Gifuni è una vera, prege-vole interpretazione del romanzoche Gadda pubblicò in volume piùdi cinquant’anni fa, nel 1957, emette voglia, ascoltandolo, di acce-dere al libro e leggerlo per la primao per la centesima volta. La perfor-mance vocale di Gifuni è fuori dalcomune: durante le 13 ore e mezzodella lettura, alterna le pose mime-tiche (da imitatore d’alto rango, omeglio ri-creatore di timbri e dia-letti quale sa anche essere) al tonodi grisaglia di una studiatissima vo-ce autoriale. Certo, il camaleonti-smo tra una calata regionale e l’al-tra, dal veneto al romanesco, diver-te e ‘funziona’ anche se inevitabil-mente carica di colori vivaci quelleche nel libro sono sfumature deli-cate tra discorso diretto e indirettolibero, tra le parole e i pensieri delnarratore e quelli dei personaggi.Ma la lettura dà ai caratteri un cor-po ed è come se riuscisse a tradur-re in movimenti e posture quasi fi-siche, sensibili, anche i tratti psico-logici più sottili dei protagonisti ole allusioni meno esplicite del corodi figure vociferanti sulla ‘scena’della pagina.

«L’ADALGISA» A CURA DI CLAUDIO VELA E IL «PASTICCIACCIO» INTERPRETATO DA FABRIZIO GIFUNI

GADDA

«L’Adalgisa» di Carlo Emilio Gaddanella trasposizione di Lorenzo Loris

Dietro ogni scartolessicale di Gaddasi intravvedonostorie: occorreripartire da quiper apprezzarnela consistenzanarrativa«oltre» la lingua

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(7)ALIAS DOMENICA11 NOVEMBRE 2012

Dialettiche scenichedai moderni a oggi

di LUCA SCARLINI

●●●Nel 1961 sugli schermi inglesi fece sensazione il filmVictim, di Basil Dearden, in cui Dirk Bogarde interpretavamagnificamente il ruolo di un avvocato omosessuale chesi trova coinvolto in un giro vorticoso di ricatti. La novità,sensazionale per quel tempo, era che il protagonista,posto alla gogna mediatica di un processo, non perdeva ilsostegno della moglie, che mostrava di comprendere lasua esistenza vissuta fino a quel momento nell’ombra. Eraancora in azione la legge cosiddetta del Buggery Act,risalente nella sua prima formulazione addirittura altempo di Enrico VIII: una norma abolita soltanto nel 1967.Qualche anno prima del film, nel 1958, era comparso sulmercato, sotto le insegne prestigiose della Jonathan Cape,un libro, per prudenza pubblicato anonimo, che avevafatto scalpore. Una stanza a Chelsea era statotempestivamente presentato in Italia nel 1961 daLonganesi, nel cui catalogo si trovavano non pochi titolidalla precisa suggestione erotica. L’autore del volume,Michael Nelson, era stato dichiarato assai tardi, nel 1986,quando il libro era diventato un titolo della collana «GayModern Classics». Ora Riccardo Reim riproponeopportunamente questo cimelio di un tempo remoto perCastelvecchi (Una camera a Chelsea, pp. 190, € 16,50), conuna sua prefazione dal titolo I nuovi garofani verdi, in cuidisegna in modo sintetico i dati storici della vicenda. Ilplot principale è quello di una seduzione: il ricco e

dispotico Patrick, che gioca con gli ambienti culturali econ la mondanità, vuole sedurre il provinciale Nicholas.In cambio gli fa balenare un posto come giornalista, cheper l’altro sarebbe il compimento di un sogno. In unasocietà cinica e dove tutti barano, il giovanotto si troveràdecisamente scavalcato dagli eventi, rovinato e senzanemmeno una speranza di futuro. Siamo in piena comedyof manners, con echi evidenti di Noël Coward, strepitosidrammaturgo e entertainer, che giocava spesso consottotesti gai, su toni evidenti di sarcasmo. Quello checolpisce soprattutto qui è la rappresentazione esatta di unambiente nei suoi meccanismi: nelle pagine scorrono tuttii nomi del tempo. Una citazione rubata a Auden in unaconversazione dopo il letto, va a fianco di un verso, chevuol essere un manifesto esistenziale, di Stephen Spender.La generazione degli anni trenta, che era sfuggitaall’Inghilterra geograficamente e politicamente (Auden,Britten e Isherwood presero tutti il largo per gli Stati Unitinello stesso momento e solo il secondo tornò in patriadopo una residenza di qualche anno), qui vienepresentata come modello di possibile rivolta e critica allasocietà. In questa storia, scritta a fine anni quaranta e cheper un decennio aveva ottenuto solo rifiuti dalle caseeditrici, ha il tono puntuale della parodia di una fiaba.Nicholas, che non vuole sostenere il ruolo di modernaCenerentola, viene subito scartato a favore di un altropretendente: Victor, un meno problematico commesso digioielleria.

di GIANNI MANZELLA

●●●Al centro di un celebre dipin-to di Velázquez conservato al mu-seo del Prado, Las meninas, stal’infanta Margarita circondata dal-le sue damigelle d’onore. Ma suun lato del quadro, quasi emer-gendo da una zona d’ombra, èrappresentato lo stesso pittore al-l’opera. Si sporge dalla grande te-la per guardare il suo soggetto, losguardo fisso a un punto invisibi-le, e nello stesso tempo si rende vi-sibile agli occhi dello spettatore dioggi, che occupa il posto verso cuisi dirige lo guardo del pittore. E aquesto incrocio di sguardi non cisi può sottrarre. Guardiamo la sce-na e ne siamo guardati, in un enig-matico gioco rappresentativo sucui non a caso si sono moltiplica-te interpretazioni letterarie e varia-zioni pittoriche, aprendo unosquarcio nel rapporto fra il lin-guaggio e il visibile, fra Le parole ele cose, per seguire un fondamen-tale titolo di Michel Foucault, pub-blicato a metà degli anni sessan-ta. E doveva averlo ben presentePasolini che, negli stessi anni, fa-ceva del dipinto di Velázquez lacornice del suo Calderón.

Da lì, dalla lettura che Foucaultdà delle Meninas, prende le mosseanche Annalisa Sacchi nel volumeche ha dedicato alle «estetiche del-la regia teatrale nel modernismo enel contemporaneo», intitolato si-gnificativamente Il posto del re(Bulzoni, pp. 368, € 28,00). Il rifles-so di uno specchio, sul fondo deldipinto, restituisce visibilità alla fi-gura a cui guardano il pittore al la-voro e gli altri personaggi del qua-dro, la principessa e la sua corte. Ilposto che abbiamo un po’ abusiva-mente occupato, ora ce ne accor-giamo, è quello del sovrano. Assen-te dalla scena ma nondimeno pre-senza che organizza intorno a sétutta la rappresentazione. Ma que-sto posto regale è anche quello oc-cupato, davanti alla scena teatra-le, dal regista. È lui a muovere larappresentazione rimanendone as-sente, in una invisibilità che puòessere svelata solo da un riflessocatturato in uno specchio.

Si parla dunque di regia, dellasua funzione nella scena contem-poranea. Funzione che sfugge auna facile definizione. Nessunasembra soddisfacente, cioè in gra-do di contenere tutto ciò che si col-lega a questa parola. Che cosa siala regia (e il regista) lo si sa fino ache non la si pensa, a dispetto ditutte le possibili teorie. Il regista èdi volta in volta il compositore deimateriali scenici, il garante dell’in-terpretazione del testo, colui che èchiamato a dare unità al lavoro ar-tistico o si assume la responsabili-tà del fatto scenico... Ma quali sia-no le forme e i contenuti in cui siesprime la funzione registica è im-possibile circoscriverlo. Del restoquella registica è una pratica anco-ra recente e sfaccettata, ha pocopiù di cento anni giacché la suanascita si può far coincidere conl’imporsi del modernismo nelle ar-ti. E tuttavia facciamo fatica a pen-sare a un teatro senza regia, seppu-re qualcuno già teorizzi l’avventodella non-regia. Da Stanislavskijin poi il teatro di regia ha accom-pagnato il Novecento, malgradotaluni tentativi di restaurare il pri-mato dell’attore. E pazienza se leevoluzioni di una storiografia so-prattutto nostrana ci hanno rac-contato di una involuzione o diuna inarrestabile decadenza dellapratica registica, del suo scaderein un mero esercizio formale. Qua-si che nella «età di mezzo» fra leesperienze delle avanguardie stori-che e il contemporaneo si sia crea-to il deserto.

Altra cosa è affermare che le pra-tiche sceniche fondate su una cen-tralità registica cambiano inevita-bilmente con i tempi e col mon-do, laddove si confrontano chiparla i linguaggi dei padri in ma-niera nuova e chi invece lavora

per far sorgere nuovi linguaggi ca-paci di scalzare quegli altri. Ovve-ro una dialettica che può rivelarsifeconda fra le esperienze più «spe-rimentali» che rivendicano una to-tale estraneità rispetto al lascitodella tradizione e altre che affer-mano la necessità di «riattivare»le acquisizioni della regia primo-novecentesca. Non siamo in que-sto caso di fronte a un teatro di re-gia post-modernista ma un teatroche intrattiene rapporti complessicol modernismo. Da cui si distac-ca per il polverizzarsi in una galas-sia di voci quanto nel moderni-smo confluiva in un «movimen-to», cioè per il venir meno dellanozione stessa di un universo col-lettivo. La scena registica contem-poranea, è la tesi della giovane stu-diosa che oggi insegna a Harvard,accoglie ciò che il modernismoaveva scartato, lavorando sul resi-duo come forma di minorazionedelle forme maggiori, ad esempioaffermando nell’opera scenica ilvalore dell’informe.

A dare testimonianza delle prati-che registiche contemporanee An-nalisa Sacchi convoca tre artisti al-l’apparenza assai lontani l’unodall’altro: Romeo Castellucci, Tho-mas Ostermeier e Jan Fabre. Nonc’è in questa scelta una gerarchiadi valori, la prefigurazione di uncanone del contemporaneo (al dilà della coincidenza, forse perònon casuale, che in anni recentisono stati tutti invitati come diret-

tori associati al festival di Avigno-ne). Per quanto ovviamente lascelta non sia innocente, esprimacioè una voluta parzialità. Si trattapiuttosto, nel caso dei tre eccellen-ti artisti, di paradigmi utili a darconto della differenza che Sacchiintroduce, sulla scorta di una sug-gestione di Alain Finkielkraut, framoderni e sopravvissuti. Moder-no è l’uomo al quale il passato pe-sa, ed è dunque felice di superar-lo; al sopravvissuto il passato man-ca, e dunque vorrebbe farne teso-ro. Il regista sopravvissuto è coluiche si incarica di un ruolo testimo-niale nel presente, come l’Ange-lus novus di Benjamin, con losguardo rivolto al passato e le aliimpigliate nella tempesta che lospinge verso il futuro.

Moderno è Romeo Castellucci,l’artefice della Societas RaffaelloSanzio, che pure non sollecita unarottura totale con la tradizione masembra viverla come luogo delleforme resistenti, che corrono sot-terranee per emergere con inattesibaluginii. Al contrario Ostermeier,il regista tedesco giunto assai gio-vane alla guida della prestigiosaSchaubühne berlinese, mantieneun confronto continuo soprattut-to con le origini della regia nove-centesca, non a caso consideraBrecht determinante non solo perla sua formazione ma anche per isuccessivi orientamenti del suo la-voro. Quella di Jan Fabre è inveceuna sorta di terza via che sfugge aogni tentativo di clausura discipli-nare, giacché l’artista fiammingousa il linguaggio teatrale al pari dialtri, dalle arti visive alla perfor-mance. Ma proprio Fabre serveforse a verificare una mutazioneche ha fatto della pratica registicaun luogo in cui si danno convegnoartisti di provenienza diversa.

Questo polverizzarsi dell’espe-rienza artistica porta tuttavia consé una analoga pluralizzazione del-lo spettatore. Viene cioè menol’utopia di uno spettatore «model-lo», alla cui capacità compositivafa appello lo spettacolo. Lo spetta-tore contemporaneo si sottrae allegrandi ipotesi del Novecento, daArtaud a Brecht, che lo volevanopartecipante attivo della perfor-mance anziché osservatore passi-vo. Chiamato a completare l’opera(non a caso «aperta») ma allo stes-so tempo a esserne testimone, ga-rante della vita postuma dello spet-tacolo. Ecco invece che la moltitu-dine di spettatori si fa comunitàproprio nel momento in cui lasciala sala. Facendosi carico della re-sponsabilità di garantire al teatro,esperienza artistica effimera perstatuto, una forma differita di esi-stenza. Non per l’altro ma per ave-re memoria di sé, di ciò che si sen-tiva quando la scena si consuma-va di fronte al suo sguardo di spet-tatore. Il posto del re è diventatoanche quello dello spettatore.

«IL POSTO DEL RE», UNA RICOGNIZIONE DI ANNALISA SACCHI (BULZONI)

ARTE DELLA REGIAUna scena dell’«Hedda Gabler» di Ibsendiretta da Thomas Ostermeier, foto ArnoDeclair

Da Stanislavskij in avanti il teatro di regiaha accompagnato il ’900, oscurando il primatodell’attore. E oggi? L’autrice convoca alla verificatre «paradigmi»: Castellucci, Ostermeier, Fabre

CLASSICI GAY

Michael Nelson,‘Comedyof Manners’anni quaranta,tra Cowarde Auden

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(8) ALIAS DOMENICA11 NOVEMBRE 2012

di BARBARA CINELLI

●●●Col titolo Quadri in vetrina Ei-naudi pubblicava nel 1959, nella colla-na dei «Saggi», i ricordi di AmbroiseVollard, la cui prima edizione france-se risaliva al 1938, e che la casa editri-ce torinese traduceva dalla ristampadel 1948. Nella collana dei «Saggi»non molti erano a quella data i titoli distoria dell’arte contemporanea, chesembrano comunque indicare una at-tenzione a fonti sulla vita degli artisti,sulla loro immagine, sul definirsi diuno spazio professionale: nel 1954 ilDiario di Delacroix, nel 1953 le Letteredei macchiaioli.

Nel 1978, esaurita quella edizione,Einaudi riproponeva il testo ne «GliStruzzi», ora col titolo direttamentetradotto dal francese Ricordi di unmercante di quadri, omettendo la Pre-messa dell’autore, La prima volta chemi dissero di scrivere i miei ricordi, etagliando dall’Appendice due braniche esemplificavano in modo mini-mo, ma evidentemente ritenuto signi-ficativo da Vollard, la recezione deiSouvenirs al loro apparire nel ’38. I ta-gli della nuova edizione Einaudi ri-guardavano in realtà questioni sostan-ziali, perché costituivano in aperturae in chiusura un orientamento piùche utile per decifrare un testo soloapparentemente facile. L’invito a scri-vere sarebbe stato prima rivolto a Vol-lard nel corso di una conversazionemondana quando il mercante avevadato prova di una singolare ed eccen-trica vocazione all’autopresentazionedelle proprie idee; e si sarebbe succes-sivamente confermato, nell’autore,per il casuale incontro con un clientedi una libreria che aveva ‘mollato’ IMiserabili per l’ultimo best-sellerd’après Hugo. Queste notizie valeva-no dunque una dichiarazione che ilsuo libro poteva essere unicamenteun collage di aneddoti, ma certamen-te con modelli e contenuti non bana-li. E in Appendice si riprendevanoquesti temi campionando tre tipolo-gie di lettori: un critico astioso lo rim-proverava di aver taciuto la parte‘sporca’ del lavoro del mercante, chegonfia il mercato per pure ragioni diprofitto personale a danno della Sto-ria e dunque del pubblico; un colon-nello presuntuoso si sente defraudatoda una pubblicità ingannevole nonavendo trovato neppure «un briciolodi critica d’arte» in un libro cui si attri-buiva, nelle recensioni coeve, «un fa-scino inimitabile», e dove invece nonsi raccontavano altro che storie, scrit-te per di più «come si parla»; e infineuna viscontessa si dichiarava delizia-ta dalle memorie appena lette e chie-deva di avere a uno dei suoi ricevi-menti del mercoledì «Cézanne, Re-noir, Degas e tutti quei maestri di cuiho tanto sentito parlare».

Dunque Vollard stesso, a cornicedel suo libro, forniva le linee guida diuna lettura appropriata. La scelta pro-grammatica di una scrittura colloquia-le e di un montaggio antiaccademico,nel quale il flusso dei ricordi la vince-va sulla sequenza cronologica, dovevacorrispondere all’immagine di mer-cante che egli aveva ritagliato per sénella scena della Parigi fin-de-siècle e

poi in quella tra le due guerre, un mer-cante che Soffici ricordava «ritto nellastanza guardando di traverso a testabassa i visitatori con una sorta di so-spettosa diffidenza quasi fossero degliintrusi»; sarebbero bastati i nomi deisuoi artisti, da Cézanne a Picasso, daDegas a Renoir a Redon, a garantire lasolidità delle scelte e del mestiere. El’apparente accantonamento dellepiù specifiche ragioni mercantili, co-me il silenzio sulle trattative con gli ar-tisti, a favore invece di gustosi aneddo-ti sui rapporti con i collezionisti, sem-

pre delineati come bizzarri e impreve-dibili, sancivano una delle convinzio-ni di Vollard: i prezzi dei quadri salgo-no e scendono per combinazioni difattori non sempre prevedibili, e l’abi-lità del mercante non sta nella previ-sione a lungo termine, ma nella capa-cità di adattare con la massima veloci-tà possibile le proprie reazioni di fron-te alle multiformi psicologie degli ac-quirenti. Consapevole, comunque,Vollard, di esporsi, con queste scelte,a due estreme tipologie di lettori: i bur-banzosi censori che si fingono specia-

listi e dunque desiderano la gratifica-zione della ‘critica d’arte’, e le signoresnob e molto ignoranti che considera-no possibili decorazioni per i proprisalotti artisti defunti da tempo: perambedue il libro di Vollard era, ed è,muto, inutile e stonato.

Forse nella consapevolezza chel’amputazione di questi brani impone-va un risarcimento, l’edizione Einaudidel 1978 era introdotta da un testo diMimita Lamberti, allora una delle rareconoscitrici delle questioni legate almercato dell’arte, un tema che pro-

prio in quegli anni settanta rivelava leconnessioni profonde e feconde conla volontà di rinnovamento linguisti-co degli artisti ottocenteschi. Le inda-gini sulle committenze e le istituzioninon erano certo nuove nel campo del-la storiografia artistica, e proprio Ei-naudi aveva pubblicato nel 1954, nel-la stessa collana dei «Saggi» dove eracomparso Quadri in vetrina, Artistiprincipi e mercanti di Henry FrancisTaylor, cui seguirà nel 1960 il famoso-famigerato testo di Antal sulla Pitturafiorentina e il suo ambiente sociale neltrecento e nel primo quattrocento; manon si erano ancora estese alla con-temporaneità, che restava purtroppoabbandonata alla sociologia, discipli-na certo rispettabilissima, ma chenon poteva, per suo statuto, procede-re negli spinosi e ramificati sentieri diuna storia tutta da ricostruire. E fu pro-prio a partire dai contributi di Bodel-sen del 1968 sulle vendite degli Im-pressionisti e del grande storico JohnRewald su Theo van Gogh e Goupildel 1973, nonché da una attenta anali-si di letteratura francese di e su l’Otto-cento che Mimita Lamberti seppe con-densare in poche pagine di Prefazio-ne il quadro nel quale il mercante di

nascita creola e naturalizzato pariginoaveva mosso i primi passi, e si era poiaffermato come il «patron of theavant-garde»: titolo, questo, della ver-sione anglosassone di una mostra iti-nerante tra gli Stati Uniti e la Francianel 2006 e 2007.

La fortuna di Vollard, dunque, conti-nua e a ragione; e dobbiamo certoplaudere alla scelta di Johan & Levi diripubblicare, arricchite ora da un utilerepertorio iconografico, le Memorie diun mercante di quadri ormai fuoricommercio nell’edizione Einaudi ’78,rispetto alla quale si restaurano corret-tamente le espunzioni della Premessae di parte dell’Appendice; non si ritie-ne però necessario offrire al lettore al-cuna istruzione per l’uso, e questo se-gnala una sostanziale modifica inter-venuta nell’editoria di quelle che chia-miamo fonti, la cui ineliminabile ne-cessità nella ricerca storica non si tra-duce automaticamente in notizie e in-formazioni certe e oggettive. Quellaparticolare categoria di fonti che inclu-de le memorie, i diari, i carteggi può ri-sultare molto ambigua; le modalitàdella scrittura rispondono a conven-zioni che devono essere decifrate e in-terpretate, come pure le allusioni, leapparenti banalità, il rimando ad altritesti, utilizzati in un gioco delle partiche deve essere svelato, e messo a si-stema con altre tipologie di fonti. Quel-lo che appunto aveva fatto, nel 1978,Mimita Lamberti, verificando su altridocumenti la tranche de vie di Vollard.Memorie, diari e carteggi ci restituisco-no certo uno spessore storico e di am-biente di cui non disporremmo in loroassenza; ma dovrebbero essere rubri-cati sotto l’etichetta: «maneggiare concura», per non incorrere negli abbaglidi quei pubblici che già Vollard esem-plificava nella sua Appendice.

Ma esiste un rischio ancora più gra-ve, ed è quello di trascurare l’operazio-ne di consapevole travestimento cheVollard compie sugli artisti, travesti-mento di cui la monografia su Cézan-ne edita nel 1914 costituisce una spiadi grande interesse. In quella lussuosainiziativa editoriale, alla quale non eracerto del tutto estranea una volontà diautopromozione, Vollard ha utilizzatofonti importanti, come il Journal diMaurice Denis, gli scritti di Emile Ber-nard, i ricordi di Guillemet e le stesselettere del pittore: il confronto conquelle che per Vollard stesso sono sta-te fonti chiarisce che l’immagine di ru-vida misantropia corrisponde a una re-gia sapiente dell’autore, perché nelpubblico la volontà di autosegregazio-ne si saldasse con il mito dell’artista digenio. Anche nelle Memorie dovrem-mo dunque ricondurre gli aneddoti su-gli artisti piuttosto sul piano di unaplausibile ricostruzione letteraria, chemolto ci dice sui meccanismi dellamondanità e sulle psicologie dei carat-teri, e molto ci illumina sulle vie checonducono alla costruzione dei miti edelle icone di gusto.

Forse in questo aspetto risiede l’ulti-mo, ma non il minore, dei rischi di que-sto libro: pubblicato in tempi di corsaal gossip non sarà forse consumato co-me antologia di pettegolezzi cinemato-grafici? Come possibile sceneggiaturaper un sequel di Midnight in Paris?

Ambroise Vollard nel ritratto che gli fecePierre-Auguste Renoir nel 1917. Accanto,fotografato a Parigi, al 28 di rue Martignac,1932 ca.

VOLLARD

Un libro celebredi aneddotid’epoca, che peròvanno decostruiti:qui le memorie,infatti, si caricanodi funzionalivalenzemitologiche...

Impressionistifonti ambigue

DEGAS, RENOIR, CÉZANNE NEI «RICORDI DI UN MERCANTE DI QUADRI», AMBROISE VOLLARD