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Dispensa Letteratura italiana contemporanea AA. 2019-2020 Luigi Meneghello e la letteratura italiana del dispatrio Rosanna Morace SAGGI DI CRITICA LETTERARIA SUL NOVECENTO Corso di laurea L-11 lingue, Culture, Letterature, Traduzione ( L ) - 29949 Codice 1027066

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Dispensa Letteratura italiana contemporanea AA. 2019-2020

Luigi Meneghello e la letteratura italiana del dispatrio

Rosanna Morace

SAGGI DI CRITICA LETTERARIA SUL NOVECENTO

Corso di laurea L-11 lingue, Culture, Letterature, Traduzione ( L ) - 29949 Codice 1027066

INDICE

1. ROMANO LUPERINI, Modernismo, avanguardie, antimodernismo, in Alla ricerca di forme nuove. Il modernismo nelle letterature del primo ’900, a cura di Romano Luperini, Lucca, Pacini, 2018, pp. 23-38.

2. ITALO CALVINO, «Prefazione» alla IIa edizione del Sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964.

3. FRANCESCO MUZZIOLI, La mappa e il movimento. Centri e margini del Gruppo 63, in On the Fringe of the Neoavantgarde / Ai confini della Neoavanguardia, Palermo 1963 - Los Angeles 2013, edited by Gianluca Rizzo, New York, Agincourt Press, 2017, pp. 22-36

4. MARGHERITA GANERI, Postmodernismo, Milano, Editrice bibliografica, 1998

5. RAFFAELE DONNARUMMA, Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno, in «Allegoria», anno XXIII, terza serie, n. 64, luglio/dicembre 2011, pp. 15-50.

6. GIANLUIGI SIMONETTI, Il realismo dell’irrealtà. Attraversare il postmoderno, in «CoSMo, Comparative Studies in Modernism», 1/2012, pp. 113-120.

Romano Luperini

Modernismo, avanguardie, antimodernismo La categoria di modernismo

La categoria critica di “modernismo” è segnata ancora, come si denunciava già trent’anni fa, da vaghezza e ambiguità(1). Ma se da un lato manca della precisione di altri “ismi” a cavallo fra Ottocento e Novecento, dall’altro però ha avuto così grande fortuna nella cultura anglo-americana, e successivamente, sulla sua scorta, nella critica continentale europea, da divenire ormai «inevitabile» (2).

Bisogna notare intanto che il termine viene oggi usato perlopiù in una accezione nuova e autonoma rispetto a quella originaria. Esso risale a Rubén Darìo che lo impiegò per la prima volta alla fine degli anni ottanta dell’Ottocento per indicare il programma letterario promosso da lui stesso e da un gruppo di poeti latinoamericani. In seguito anche ai viaggi di Darìo in Spagna, il movimento si diffuse nella letteratura di questo paese protraendosi sino alla prima guerra mondiale. Ma si tratta di una tendenza profondamente legata alla cultura decadente e al simbolismo francese “fin de siècle” e dunque non assimilabile a quella che noi oggi chiamiamo con lo stesso nome. All’inizio del Novecento il termine si diffuse, soprattutto in Italia, per indicare un fenomeno religioso che intendeva conciliare evoluzionismo e cattolicesimo e che perciò fu condannato come eretico da papa Pio X nel 1907. Infine la critica degli anni trenta chiamò “modernismo” il movimento letterario di avanguardia attivo a Lisbona intorno a Pessoa e alla rivista (effimera, peraltro) «Orpheu» alla metà degli anni dieci e fiorito in Brasile negli anni venti, a partire dalla Settimana d’arte moderna di Sâo Paulo nel febbraio 1922. Come si vede, sono fenomeni diversi fra loro, di natura letteraria o religiosa, che, oltre al nome, peraltro significativo perché allude a un rinnovamento, hanno in comune il dato cronologico: risalgono tutti al periodo a cavallo fra Otto e Novecento o all’inizio del nuovo secolo.

Nella cultura angloamericana il termine “modernismo”, anche se era apparso già negli anni venti, si è affermato soprattutto a partire dagli anni sessanta (3), in riferimento a fenomeni diversi rispetto a quelli appena nominati (solo quello portoghese vi può parzialmente rientrare). All’inizio si è parlato di “modernismo” in relazione al radicale bisogno di svecchiamento e di fondazione del nuovo rappresentato in Gran Bretagna dall’imagismo di Ezra Pound, dal vorticismo e dall’esperienza artistica degli «uomini del 1914»: oltre allo stesso Pound, T.S. Eliot, Joyce e Lewis. A questi quattro sono stati poi aggiunti altri, fra cui soprattutto Virginia Woolf. Successivamente il termine si è diffuso, ha riguardato anche altre letterature in ambito europeo ed extraeuropeo, sino a riguardare, negli studi più recenti, una prospettiva addirittura planetaria(4). Ma tale estensione, provocata anche dall’uso attuale di un’altra categoria periodizzante, postmodernismo, che lo evoca dialetticamente come inevitabile termine di raffronto, non ha giovato alla chiarezza, per cui oggi si parla spesso di modernismo in modo indeterminato e quindi non senza imprecisioni e confusioni.

Anche lasciando per ora da parte la questione del rapporto fra modernità e modernismo o modernismi, e limitandosi all’ambito letterario, si devono constatare una serie di oscillazioni. A volte infatti si usa “modernismo” per indicare un generico contenitore cronologico, anche se marcato da un qualche rinnovamento, che comincerebbe nel secondo Ottocento con il simbolismo e il decadentismo o addirittura col naturalismo e si prolungherebbe poi sino all’inizio degli anni trenta o sino allo scoppio della seconda guerra mondiale; altre volte si identifica invece modernismo e avanguardia facendo coincidere il primo con i gruppi più radicali e oltranzisti (dal futurismo al dadaismo e al surrealismo) del primo quarto del Novecento; infine, altre volte ancora, il termine

viene usato per designare indirizzi e singoli autori innovativi del primo Novecento, ma estranei e talora ostili alle avanguardie.

In merito a questo arco di problemi le proposte che seguono vorrebbero avanzare, in modo sintetico e molto schematico, qualche precisazione e proposta.

Modernismo, avanguardie, antimodernismo

Il modernismo non è una scuola né un movimento unitario. Non propone una unica poetica, ma poetiche diverse, talora tra loro alternative come accade nella letteratura inglese, in cui alle soluzioni più radicali dell’avanguardia (imagismo, vorticismo ecc.) e poi dello sperimentalismo di Joyce si oppongono quelle più moderate di Virginia Woolf e del circolo di Bloomsbury (5).

E tuttavia, nonostante questa varietà di poetiche, il modernismo presenta alcune marche caratterizzanti che lo rendono indubbiamente riconoscibile. La cultura a cui si ispira è sostanzialmente unitaria: è la rivoluzione epistemologica prodotta, a cavallo fra i due secoli e all’inizio del nuovo, dalla rapidissima industrializzazione, dalla nuova percezione della condizione umana nel mondo, dalla diffusione del pensiero di Nietzsche, di Bergson e di Freud. Il concetto di tempo e di spazio, le leggi della fisica, l’idea di verità ne escono sconvolti: la rivelazione della relatività da un lato e del mondo dell’inconscio dall’altro, la messa in discussione della certezza dei postulati scientifici, la percezione nuova della velocità delle comunicazioni e della simultaneità delle sensazioni (è l’epoca dell’automobile, dell’aereo, del cinema, del telefono, della radio) mettono in crisi i parametri della visione del mondo predominante nella seconda età dell’Ottocento e del pensiero positivista che vi esercitava una indubbia egemonia. La seconda rivoluzione industriale che si sviluppa fra il 1895 e il 1913, la valorizzazione delle macchine, la introduzione del motore a scoppio e la diffusione dell’elettricità, l’aumento gigantesco della produzione, la formazione di grandi società per azioni, la rapidissima urbanizzazione, la massificazione dell’esistenza, l’esperienza della “guerra totale” fra il 1914 e il 1918 modificano il senso comune e logorano le basi del sistema dei valori e dello stesso individualismo ottocentesco. Siamo in presenza di un rapido cambiamento di paradigma e della nascita di una nuova cultura e persino di una nuova antropologia, che tendono inevitabilmente a sviluppare nuove forme artistiche. Debenedetti mostrerà in modo suggestivo la correlazione fra le nuova teorie dei quanti e del probabilismo scientifico e le trasformazioni che avvengono nella struttura del romanzo e nella figura del personaggio-uomo. E Virginia Woolf , riflettendo sull’effetto sconvolgente delle mostre di pittura postimpressionista, scriverà che intorno al 1910 «la natura umana cambiò »(6). Se l’idea matura di moderno coincide, come vuole Jauss, con la coscienza di una radicale separazione dal passato(7), questo è appunto il momento in cui essa perentoriamente si definisce.

Il modernismo esprime l’affermazione piena del moderno nel campo delle arti, dall’architettura (art nouveau) alla letteratura, dalla pittura (espressionismo, futurismo, cubismo…) alla musica (fra la violenza politonale di Strawinskij e l’atonalità e la dodecafonia di Schönberg). «Make it New!» è l’ingiunzione notissima di Ezra Pound (8). E d’altronde la progressiva affermazione del moderno era già stata segnata dal primato dell’oggi, dall’esigenza di «trouver du nouveau» e di essere «absolument modernes», già enunciata da Baudelaire e da Rimbaud. Ma quanto nella seconda metà dell’Ottocento era coscienza di una élite ora diventa esperienza condivisa di larghe masse. Ciò corrode alle basi qualsiasi possibilità di privilegio aristocratico, ponendo fine all’estetismo decadente “fin de siècle”. L’indifferenza con cui il fante Umberto Saba guarda d’Annunzio in visita alle truppe, vestito fuori ordinanza ed eccentricamente accompagnato da un enorme attendente (9), è il solco che divide non solo due generazioni, ma anche due modi di concepire la vita e la letteratura (ma a questo proposito sarebbe istruttivo anche un confronto fra le poesie di guerra di

Rebora e di Ungaretti e le prose dannunziane sullo stesso argomento). La nuova arte nasce insomma “democratica” (in senso, beninteso, non politico, ma, per così dire, sociologico).

La prima frontiera che il modernismo traccia alle proprie spalle è dunque quella contro l’armamentario ideologico dell’estetismo, del simbolismo e del decadentismo europeo. Fare il nuovo significa anzitutto ribellarsi contro la cultura artistica della generazione precedente, ormai avvertita come anacronistica. In sede critica assumere consapevolezza di tale rottura non può che comportare una revisione del concetto di decadentismo di derivazione sia idealistica che marxista molto in uso nella tradizione storiografica italiana, sino alla recente Storia europea della letteratura italiana di Asor Rosa (10). In questa visione storiografica il decadentismo non è un movimento di fine secolo, ma una tendenza che, partendo da Fogazzaro Pascoli e d’Annunzio, e passando poi attraverso Pirandello e Svevo, giungerebbe in pieno Novecento, sino all’ermetismo, a Montale, a Gadda, a Moravia e alla narrativa di analisi fra anni trenta e cinquanta. Credo che sia giunto il momento – e su questo punto mi pare possibile registrare un accordo sempre più vasto – di delimitare i confini del decadentismo, la cui area cronologica coincide in realtà, in Italia, con gli anni che vanno da Il piacere (1889) ad Alcyone (1904), da Myricae (1891) a i Poemi conviviali (1904) e non può allargarsi a opere come Il fu Mattia Pascal o I colloqui, La coscienza di Zeno o Ossi di seppia. Fra l’estetismo dannunziano del «Verso è tutto» e l’elogio sveviano della letteratura come igiene quotidiana o addirittura come clistere c’è una distanza siderale. I tre pilastri ideologici del decadentismo − estetismo, simbolismo, concezione protagonistica della figura del poeta in senso civile e/o profetico-oracolare − sono sostanzialmente estranei all’atmosfera culturale del modernismo. Anche nel Regno Unito, per esempio, fra la stagione di Walter Pater, Charles Swinburne e Oscar Wilde da un lato e quella di Eliot e Joyce dall’altro la rottura è evidente. E per quanto riguarda i limiti cronologici, in Francia, in cui il termine “decadentismo” originariamente si diffuse, si cominciò a parlarne a proposito di un sonetto di Verlaine del 1883 e poi della rivista parigina «Le Décadent» del 1886, mentre il romanzo che ne consacrò la poetica, À rebours di Huysmans è del 1884; ma all’inizio del Novecento, con Apollinaire e le avanguardie, con Gide e con Proust ne siamo già fuori.

Una seconda frontiera è nei confronti del naturalismo, sentito come espressione del positivismo e come manifestazione di una concezione della realtà “borghese”, conformistica, gerarchica, troppo schematica e sostanzialmente aproblematica. Il paradigma della oggettività scientifica si sbriciola. Realtà e verità si soggettivizzano, diventano problematiche. Questa seconda frontiera, anzi, è più facile da tracciare dell’altra giacché inconciliabile con le premesse culturali della nuova tendenza, mentre il decadentismo, con le sue suggestioni intimistiche e psicologiche, poteva offrire anche alcuni interessanti punti di riferimento. Ma è vero poi che anche la narrativa naturalista e realista, con la sua scelta di vedere il mondo dal basso e per la sua stessa pretesa di visione totalizzante, poteva a sua volta costituire un punto di partenza, come mostrano in Italia il debito di Tozzi e Pirandello verso Verga e nella letteratura inglese quello di Joyce verso Flaubert (non solo nei Dubliners ma anche, come ben vide Pound, nell’Ulysses) (11). In Italia la ininterrotta polemica dei poeti crepuscolari, vociani e lacerbiani, ma anche del primo Montale, contro la figura del poeta vate, contro i poeti laureati e le “tre corone” di fine secolo e il nuovo sistema linguistico e tonale da loro inaugurato (assolutamente non scolastico e del tutto estraneo alla cultura greco-latina dei predecessori) esprimono non solo un salto generazionale, ma un orizzonte artistico antitetico rispetto a quello “fin de siècle”.

I caratteri di questa rottura sono stati da subito evidenti, se sin dagli anni trenta e quaranta del Novecento grandi critici come Debenedetti (nei saggi giovanili su Proust e su Svevo) e Auerbach nell’ultimo capitolo di Mimesis li tracciano con indubitabile sicurezza. Da un lato l’opera aperta o opera da farsi, lo sciopero dei personaggi, la fine del personaggio-uomo, il trionfo dei brutti e degli inetti, lo scrivere non per spiegare la realtà, ma perché non si può spiegarla, le epifanie e le

intermittenze del cuore, il romanzo come susseguirsi di esplosioni, anzi come esplosione di esplosioni (12). Dall’altro l’importanza che viene ad assumere l’attimo qualunque della vita quotidiana, la nuova centralità del frammentario, del caso, dell’accidente fortuito, la scomparsa delle grandi svolte della storia e dei colpi del destino, il poliprospettivismo, la interiorizzazione dell’ottica narrativa, la ricostruzione della realtà oggettiva attraverso un susseguirsi di impressioni soggettive…(13) Debenedetti e Auerbach, senza parlare ancora di modernismo, ne delineano perfettamente, almeno per quanto riguarda la grande narrativa europea, temi, forme e visione del mondo.

Ma anche nella poesia lo spartiacque col passato è segnato dall’oltrepassamento del simbolismo e dal rifiuto di una sacralità orfica e oracolare ormai avvertita come inattuale e persino regressiva. Il superamento del soggettivismo e del simbolismo verso il correlativo oggettivo è passo decisivo della poetica di Eliot, mentre Yeats raggiunge la maturità lasciando alle spalle l’estetismo romantico e tardosimbolista della sua prima produzione per una poesia che può oscillare fra un realismo persino prosastico e una apertura fantastica alla impersonalità del mito e della «great memory» del mondo. Ma anche in Italia, quando elementi simbolistici rimangono (non solo in Ungaretti, poniamo, ma anche in Marinetti), essi si accompagnano a una democraticità del tutto nuova di tono e di linguaggio (in Ungaretti) o a un furore demistificatorio che mira a colpire al cuore la poesia stessa (in Marinetti). In Montale poi, nella parabola stessa degli Ossi di seppia, il simbolismo coincide con un panismo dannnunziano ormai sentito come improponibile e dunque da “attraversare” e da oltrepassare in forme che tendono già, nelle ultime composizioni del libro, all’allegorismo e alla fermezza classica delle Occasioni.

Si capisce dunque che la categoria di “modernismo” non può essere usata in senso puramente cronologico, come se si trattasse di un generico contenitore privo di identità (14). Piuttosto le va conferito un preciso valore critico periodizzante e caratterizzante. Non copre solo un periodo, ma indica la tendenza principale che lo qualifica, comportando dunque un criterio di inclusione e di esclusione. Da questo punto di vista, a suo confronto altre categorie periodizzanti risultano sfuocate o inadeguate. Non solo, come si è visto, quella di decadentismo, ma anche quella che spesso ne ha preso il posto, con la definizione del primo Novecento come “l’età delle avanguardie”.

L’avanguardia è la variante oltranzista del modernismo. Ne fa parte, nasce dalla stessa cultura, ma non lo qualifica in modo esclusivo. Fra gli autori dell’avanguardia e quanti, pur partecipando dell’atmosfera culturale e dello sperimentalismo modernisti, si dichiarano a essa estranei o ostili si registrano differenze notevoli in ordine almeno a tre punti decisivi: il modo di concepire il lavoro letterario e artistico, l’idea di tempo, il rapporto con la tradizione. Molti scrittori modernisti non ne vogliono sapere di scrivere manifesti, non operano in gruppo, non accettano di considerare l’arte come provocazione e di schierarsi esplicitamente e rumorosamente contro il pubblico borghese, ma lavorano in disparte e talora quasi isolati dal contesto sociale. Inoltre, e soprattutto, come già fece notare Peter Bürger (15), mentre l’avanguardia mette in discussione l’istituzione stessa dell’arte mirando a sabotarla o a dissolverla nel mondo della prassi, le altre tendenze moderniste rimangono al suo interno. Per quanto riguarda il tempo, Compagnon(16) ha mostrato la differenza fra quanti ne hanno una concezione intermittente o seriale e quanti invece ne propongono una genetica o dialettica, fra quanti non credono al progresso e non investono sul futuro e quanti invece pensano di interpretare meglio di altri il senso della storia e di porsi alla testa di questo processo. Mentre poi futuristi, dadaisti e surrealisti mirano a distruggere musei e tradizione per esaltare il presente o per registrare automaticamente gli strati profondi della psiche, una parte considerevole dei modernisti stabilisce un rapporto complesso con alcuni filoni del passato culturale talora recuperati polemicamente. Si pensi, per fare qualche esempio, al saggio sulla tradizione di Eliot e al suo recupero dei poeti metafisici in opposizione a quelli romantici. Ma anche in Italia, mentre i frammentisti vociani rifiutano il flusso narrativo del romanzo o della novella identificandoli come

generi di consumo borghese e proponendo una frantumazione narrativa o, al massimo, la formula della autobiografia lirica, Tozzi, Pirandello, Svevo operano invece un rinnovamento dall’interno dei generi letterari tradizionali. E più tardi Montale, rifacendosi a Foscolo e alla lezione dantesca, si cimenterà in un classicismo modernista capace di coniugare nettezza e austerità dello stile e ricorso alla tecnica della rivelazione epifanica, mentre Ungaretti si ricollegherà alla linea Petrarca-Leopardi ibridandola con la lezione non solo di Mallarmé ma dei barocchi (Góngora soprattutto).

Contraddizioni esistono non solo dentro il modernismo, ma fra il modernismo nel suo complesso e chi vi si oppone. L’età del modernismo è dunque anche quella dell’antimodernismo. Alcune tendenze antimoderniste fronteggiano apertamente e polemicamente il modernismo, altre convivono al suo interno, intrecciandosi con esso. Particolarmente nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale si sviluppa nelle arti un movimento che si oppone tanto alle innovazioni e allo sperimentalismo formale quanto al cosmopolitismo dei modernisti, proponendo misura, decoro, senso dello stile e soluzioni legate a un classicismo tradizionale o al carattere nazionale di una letteratura ispirata al realismo e alla materia popolare. E’ il rappel à l’ordre nella letteratura francese, ma aspetti di questo tipo si trovano anche in Germania nelle tendenze antiespressioniste presenti nella «Neue Sachlichkeit», o , in Italia, nella difesa dello stile, della misura classica e della prosa d’arte da parte della «Ronda», o successivamente nelle proposte populiste e strapaesane del «Selvaggio». Forse ancora più interessante però è la convivenza nello stesso autore di tendenze moderniste e antimoderniste. E’ il caso di Saba, per cui già Montale parlava di un «classicismo sui generis» o «paradossale» (17). Chi leggesse Storia e cronistoria del «Canzoniere» potrebbe addirittura pensare che Saba vada annoverato tout court nell’antimodernismo per la sua fedeltà alla tradizione e per la sua radicale opposizione non solo alle avanguardie ma all’ermetismo. Come è noto, Sanguineti vedeva in lui, nel suo linguaggio poetico ispirato a un classicismo minore e al romanticismo del melodramma verdiano, un esemplare tipico del conservatorismo antimodernista, salvandone tuttavia le supposte premesse crepuscolari (18). In realtà le cose sono più complesse e il tentativo di fornire col Canzoniere una sorta di romanzo autobiografico e freudiano ha indubbiamente un segno sperimentale e modernista, anche se filtrato da una poetica antimodernista e declinato in forme meno innovative di quelle cui fanno ricorso Montale o Ungaretti.

Modernismo, protomodernismo, neomodernismo

Il modernismo, non essendo una scuola, non ha confini netti. L’area cronologica che ne viene caratterizzata più fortemente copre il quarto di secolo che va dal 1904-1905 al 1930 circa, con epicentro negli anni venti, quando in Gran Bretagna escono The Wast Land di Eliot, Ulysses di Joyce, To the Lighthouse di Woolf, in Italia, La coscienza di Zeno di Svevo e Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello (ma anche Quaderni di Serafino Gubbio operatore e la maggior parte dei racconti, che in questi anni vengono rielaborati e raccolti in Novelle per un anno), in Francia Les faux monnayeurs di Gide e gli ultimi volumi della Recherche proustiana, mentre in lingua tedesca vengono pubblicati Der Prozess e Das Schloss di Kafka e Berlin-Alexanderplatz di Döblin e vengono annunciati i primi due volumi di Der Mann ohne Eigenschaft di Musil che però usciranno solo qualche anno dopo. Ma in realtà il modernismo si prolunga sino alla fine degli anni trenta, sovrapponendosi e talora intrecciandosi a tendenze diverse, anche antimoderniste: Finnegans Wake, l’opera più coraggiosamente sperimentale di Joyce, è del 1939, anno in cui esce, in Italia, il capolavoro poetico del classicismo modernista, Le occasioni di Montale. Lo scoppio della seconda guerra mondiale e la nascita di una letteratura impegnata e neorealista segnano un confine, proponendo una figura diversa di intellettuale, una narrativa spesso ispirata a modelli ottocenteschi e una poesia epica e cronachistica.

Anche da questo sommario elenco si può osservare una diversa presenza di opere narrative e poetiche. Mentre nella narrativa il modernismo fornisce molti dei suoi risultati più nuovi e

Rosanna Morace

convincenti negli anni venti, in poesia si afferma immediatamente prima e durante la grande guerra con tendenze avanguardiste o comunque vicine all’avanguardia (si pensi al ruolo di Apollinaire in Francia, di Ungaretti con Allegria di naufragi in Italia, di Trakl e Benn in Germania); invece, negli anni venti e trenta la ventata rinnovatrice viene spesso a patti con quella più tradizionale di matrice classicista e soprattutto simbolista o postsimbolista: in Italia è il caso, come si è visto, di Ungaretti e di Montale, ma soprattutto dell’ermetismo, in cui le pur presenti venature surrealiste sono spesso sopraffatte da un petrarchismo di ritorno. Più in generale, il modernismo nel suo complesso appare diviso in due fasi: mentre la prima va dagli inizi del secolo alla fine della prima guerra mondiale, la seconda copre gli anni venti e trenta. Nella prima prevalgono le tendenze distruttive e avanguardiste, nella seconda sono maggiormente attive quelle ricostruttive. Ebbene, questa nuova situazione sembra giovare soprattutto alla narrativa che può recuperare negli anni venti la propria vocazione al flusso narrativo e alla totalità, dissolta dalle avanguardie a vantaggio del frammento, seppure declinandola ora in strutture narrative radicalmente nuove che possono avvalersi delle precedenti esperienze di rottura.

In diverse situazioni nazionali è possibile anche identificare un’area protomodernista attiva già negli anni novanta dell’Ottocento, ma capace di prolungarsi a volte sin dentro il nuovo secolo. Si tratta di una produzione talora di alto valore, a metà strada fra vecchio e nuovo, fra decadentismo e/o naturalismo da un lato e rottura novecentesca dall’altro, fra senso aristocratico di decadenza e impegno analitico, fra conservazione delle strutture tradizionali e loro rinnovamento dall’interno. Penso in Italia ai primi due romanzi di Svevo, all’Esclusa di Pirandello o a Decadenza di Gualdo, in cui affiorano già le figure e le situazioni della narrativa modernista, ma declinate ancora nelle strutture narrative del romanzo psicologico di fine Ottocento. Nella letteratura in lingua inglese si è parlato giustamente di protomodernismo per James e Conrad (19). Ma la nozione di protomodernismo potrebbe forse risultare utile anche per inquadrare la figura di un grande autore di fine Ottocento, Anton Čechov, in cui la svalutazione della trama, dell’azione e dell’intreccio, la creazione di una letteratura di atmosfere e di stati d’animo, la dissoluzione della parabola narrativa e del valore della conclusione convivono con una rappresentazione in qualche misura ancora realistica di una piccola borghesia frustrata e umiliata.

Accanto a un’area protomodernista va segnalata poi un’area che del modernismo riprende e continua la lezione nella seconda metà del Novecento. Si entra qui nel territorio della tradizione del modernismo che dura sino a oggi e appare anzi particolarmente attiva nel romanzo americano dell’ultimo trentennio. C’è tutto un filone della narrativa statunitense – da American Pastoral di Roth a Flesh and Blood di Cunningham − che sembra voler unire realismo e modernismo nella rappresentazione delle classi sociali e del rapporto fra le generazioni, ispirandosi nel contempo a Balzac e Flaubert e a Virginia Woolf, Faulkner o Proust. Ma si può anche individuare un momento preciso in cui la ripresa del modernismo è stata apertamente teorizzata e praticata da movimenti artistici e da singoli autori. Mi riferisco al periodo che va dalla metà degli anni cinquanta alla metà dei settanta. E’ il momento delle neoavaguardie e, insieme, come all’inizio del secolo, di uno sperimentalismo che in esse spesso non si riconosce o che le contrasta e che tuttavia porta avanti un progetto fortemente innovativo. Abbiamo così, negli Stati Uniti la beat generation; in Italia, le esperienze del Gruppo 63 da un lato e di «Officina» e del «Menabò» dall’altro; in Germania e in Austria la “poesia concreta” e quella elettronica e asemantica, il Gruppo di Vienna e quello di Graz; in Francia il «nouveau roman”, «Tel Quel» e l’Ouvroir de littérature potentielle. E’ anche significativo che questa tendenza, che è possibile definire neomodernismo (19), si sviluppi, come era successo all’inizio del secolo, in coincidenza con una nuova rivoluzione industriale, che segna gli anni del “miracolo economico” e dell’affermazione del cosiddetto neocapitalismo, e con l’insorgere di processi sociali di proletarizzazione e di sovversivismo del ceto intellettuale e con la diffusione di una nuova cultura (in campo letterario, soprattutto dello strutturalismo). In Italia autori come Volponi o Amelia Rosselli, che pure non hanno mai aderito alle neoavanguardie, in tale

prospettiva possono acquistare una diversa luce. Ma anche Zanzotto nella Beltà o il Calvino degli anni sessanta reagiscono in modi diversi, ma comunque sperimentalmente innovativi, all’atmosfera culturale dominata dalle neoavanguardie.

In questo periodo, in alcuni paesi, come l’Italia, l’egemonia culturale esercitata dalle avanguardie organizzate produsse conseguenze anche in campo critico e storiografico, annebbiando retrospettivamente i contorni reali del modernismo storico, letto riduttivamente come “età delle avanguardie”. Risale a tale riduzionismo (già è stato accennato) l’interpretazione di Svevo e di Pirandello come autori di avanguardia frontalmente contrapposti a una supposta “barriera del naturalismo” e quella di Debenedetti come critico della avanguardia (laddove è piuttosto il critico del modernismo). Oggi, fuori ormai da tale egemonia, è possibile rileggere la storia letteraria e artistica del primo Novecento in una prospettiva nuova, più aderente ai processi reali e più capace di valorizzare l’ampiezza e la variegata ricchezza di stimoli e di proposte che il modernismo introdusse nella cultura europea.

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NOTE

Questo saggio riproduce la relazione di apertura al convegno sul Modernismo organizzato dalla associazione Sigismondo Malatesta a Sant'Arcangelo di Romagna nei giorni 30 e 31 maggio 2014.

1) Mi riferisco a M.H. Levenson, A Genealogy of Modernism. A Study of English Literary Doctrine1908-1922, Cambridge University Press, Cambridge 1984, p. VII. Sulla storia del termine si vedano G. Cianci, Modernismo/Modernism, in Modernismo/Modernismi. Dall’avanguardia storica agli anni Trenta e oltre, a cura di G. Cianci, Principato, Milano 1991 e soprattutto, aggiornati sino quasi a oggi, i saggi di L. Somigli, Dagli “uomini del 1914” alla “platenarietà”. Quadri per una storia del concetto di modernismo e di A. Nucifora, Note sul modernismo angloamericano, entrambi in «Allegoria», XXIII, 63, 2011.

2) L. Somigli, Dagli “uomini del 1914” alla platenarietà, cit., p. 7.

3) In genere si considera come punto iniziale del rilancio della categoria di “modernismo” il saggio di H. Levin, What was Modernism?, in Refractions. Essays in Comparative Literature, Oxford University Press, New York 1966 (ma il saggio era già uscito in «Massachussetts Review», August 1960).

4) Cfr. S. Stanford Friedman, Planetarity: Musing Modernist Studies, in «Modernism/Modernity», XVII, 3, 2010, p. 471-499.

5) Cfr. G. Cianci, Il modernismo e il primo Novecento, in Storia della letteratura inglese, a cura di P. Bertinetti, vol. II: Dal Romanticismo all’età contemporanea. Le letterature in inglese, Einaudi, Torino 2000, pp. 176-180.

6) V. Woolf, Mr.Bennet and Mrs Brown, in Collected Essays, Chatto & Windus, London 1966, vol. I, p. 321.

7) H. R. Jauss, Literarische Tradition und gegenwärtiges Bewusstsein der Modernität, in Lteraturgeschichte als Provocation, Surkamp, Frankfurt am Main 1970, trad. it. Tradizione

letteraria e coscienza contemporanea della Modernità, in Storia della letteratura come provocazione, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 37-98.

8) E. Pound, Make It New, Faber & Faber, London 1934.

9)U. Saba, Tre ricordi del mondo meraviglioso, in Tutte le prose, a cura di A. Stara, Mondadori, Milano 2001, p. 495.

10) A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. III: La letteratura della nazione, Einaudi, Torino 2009, pp. 207, 217, 238 e 241 (in cui peraltro l’aggettivo del titolo, «europea», risulta dal contesto alquanto incongruo). Asor Rosa parla di un decadentismo che arriverebbe «in pieno Novecento» e che riguarderebbe Svevo, Pirandello, Tozzi e anche Moravia, Palazzeschi, Savinio, Bontempelli, toccherebbe Gadda e si prolungherebbe addirittura sino ad alcuni aspetti di Calvino. L’uso estensivo della categoria di “decadentismo” risale, in Italia, soprattutto alla critica marxista fra anni cinquanta e inizio settanta, e in particolare a C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano (D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro e Pirandello), Feltrinelli, Milano 1960 e a A. Leone de Castris, Il decadentismo italiano. Svevo Pirandello D’Annunzio, De Donato, Bari 1974 (poi Laterza, Roma-Bari 1989).

11) Sull’asse che congiunge L’éducation sentimentale e Ulysses ho parlato in più riprese in R. Luperini, L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2007, in discussione con F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal «Faust» a «Cent’anni di solitudine», Einaudi, Torino 1994, che mostra il ruolo di Pound nel rapporto Joyce-Flaubert. Ma sulla relazione fra naturalismo e modernismo scrive cose molto acute P. Pellini, In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo, Le Monnier, Firenze 2003, pur attribuendo al naturalismo un valore modernista che mi sembra inaccettabile. Per quanto riguarda la narrativa modernista e il suo rapporto con la tradizione del realismo ottocentesco, cfr. anche G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna 2011.

12) Sul rapporto Debenedetti-modernismo cfr. M. Tortora, Debenedetti, Svevo e il modernismo, in Per Romano Luperini, a cura di P. Cataldi, Palumbo, Palermo 2010, pp. 281-302.

13) Sul rapporto Auerbach-modernismo, cfr. R. Castellana, La teoria letteraria di Erich Auerbach. Una introduzione a «Mimesis», Artemide, Roma 2013, pp. 83-92 (ma di Castellana, cfr. anche Realismo modernista. Un’idea del romanzo italiano(1915-1926), in «Italianistica», XXXIX, 1, gennaio-aprile 2010, pp. 23-44).

14) A. Compagnon, Les cinq paradoxes de la modernité, Seuil, Paris 1990, trad. it. I cinque paradossi della modernità, Il Mulino, Bologna 1993, p. 70.

15) P. Bürger, Theorie der Avantgarde, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1974, trad. it. Teoria dell’avanguardia, Bollati Boringhieri, Torino 1990.

16) A. Compagnon, Les cinq paradoxes de la modernité, Seuil, Paris 1990, trad. it. I cinque paradossi della modernità, Il Mulino, Bologna 1993, p. 70.

17) E.Montale, Umberto Saba, in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, vol. I, p. 118.

18) E. Sanguineti, Saba e il melodramma, in «L’ombra d’Argo», II, 1985, 5-6, pp. 80-87 e cfr. anche Umberto Saba, in Poesia italiana del Novecento, a cura di E. Sanguineti, Einaudi, Torino 1969, p. 781.

19) R. Donnarumma, Tracciato del modernismo italiano, in Sul modernismo italiano, a cura di R. Luperini e M. Tortora, Liguori, Napoli 2012, pp. 35-38. Donnarumma parla per la situazione italiana di “secondo modernismo” e più raramente di “neomodernismo” datandolo fra il 1964 e il 1980.

20) Esemplari in tal senso due libri di uno dei principali teorici e critici della neoavanguardia, R. Barilli, La barriera del naturalismo, Mursia, Milano 1964 e La linea Svevo-Pirandello, Mursia, Milano 1972.

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ITALO CALVINO

«Prefazione» alla IIa edizione (Torino, Einaudi, 1964) del Sentiero dei nidi di ragno (Torino, Einaudi, 1947).

Questo romanzo è il primo che ho scritto; quasi posso dire la prima cosa che ho scritto, se si

eccettuano pochi racconti. Che impressione mi fa, a riprenderlo in mano adesso? Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente da un clima generale d’un’epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, «bruciati», ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello di una spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi racconti e del mio primo romanzo.

Questo ci tocca oggi, soprattutto: la voce anonima dell’epoca, più forte delle nostre inflessioni individuali ancora incerte. L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle «mense del popolo», ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie.

Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un’espressione mimica. Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un umore come di bravata, una ricerca d’effetti angosciosi o truculenti. Alcuni miei racconti, alcune pagine di questo romanzo hanno all’origine questa tradizione orale appena nata, nei fatti, nel linguaggio.

Eppure, eppure, il segreto di come si scriveva allora non era soltanto in questa elementare universalità dei contenuti, non era lì la molla (forse l’aver cominciato questa prefazione rievocando uno stato d’animo collettivo, mi fa dimenticare che sto parlando di un libro, roba scritta, righe di parole sulla pagina bianca); al contrario, mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale grezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse in

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quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed amplessi non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma, sapevamo fin troppo bene che quel che contava era la musica e non il libretto, mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere.

Il «neorealismo» per noi che cominciammo di lì, fu quello; e delle sue qualità e difetti questo libro costituisce un catalogo rappresentativo, nato com’è da quella acerba volontà di far letteratura che era proprio della «scuola». Perché chi oggi ricorda il «neorealismo» soprattutto come una contaminazione o coartazione subita dalla letteratura da parte di ragioni extraletterarie, sposta i termini della questione: in realtà gli elementi extraletterari stavano lì tanto massicci e indiscutibili che parevano un dato di natura; tutto il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che per noi era il mondo.

Il «neorealismo» non fu una scuola (Cerchiamo di dire le cose con esattezza). Fu un insieme di

voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l'una all'altra - o che si supponevano sconosciute -, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato «neorealismo». Ma non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia americana in quegli scrittori degli Anni Trenta di cui tanti critici ci rimproveravano d'essere gli allievi diretti o indiretti. Perciò il linguaggio, lo stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi, per questo nostro realismo che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo. Ci eravamo fatta una linea, ossia una specie di triangolo: I Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio (Continuo a parlare al plurale, come se alludessi a un movimento organizzato e cosciente, anche ora che sto spiegando che era proprio il contrario. Come è facile, parlando di letteratura, anche nel mezzo del discorso più serio, più fondato sui fatti, passare inavvertitamente a contar storie... Per questo, i discorsi sulla letteratura mi dànno sempre più fastidio, quelli degli altri come i miei).

Il mio paesaggio era qualcosa di gelosamente mio (è di qui che potrei cominciare la prefazione: riducendo al minimo il cappello di «autobiografia d'una generazione letteraria», entrando subito a parlare di quel che mi riguarda direttamente, forse potrò evitare la genericità, l'approssimazione...), un paesaggio che nessuno aveva mai scritto davvero (Tranne Montale, - sebbene egli fosse dell'altra Riviera, Montale che mi pareva di poter leggere quasi sempre in chiave di memoria locale, nelle immagini e nel lessico). lo ero della Riviera di Ponente; dal paesaggio della mia città - San Remo - cancellavo polemicamente tutto il litorale turistico lungomare con palmizi, casinò, alberghi, ville - quasi vergognandomene; cominciavo dai vicoli della Città vecchia, risalivo per i torrenti, scansavo i geometrici campi di garofani, preferivo le «fasce» di vigna e d'oliveto coi vecchi muri a secco sconnessi, m'inoltravo per le mulattiere sopra i dossi gerbidi, fin su dove cominciano i boschi di pini, poi i castagni, e cosi ero passato dal mare - sempre visto dall'alto, una striscia tra due quinte di verde - alle valli tortuose delle Prealpi liguri.

Avevo un paesaggio. Ma per poterlo rappresentare occorreva che esso diventasse secondario rispetto a qualcos'altro: a delle persone, a delle storie. La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui. Lo scenario quotidiano di tutta la mia vita era diventato interamente straordinario e romanzesco: una storia sola si sdipanava dai bui archivolti della Città vecchia fin su ai boschi; era l'inseguirsi e il nascondersi d'uomini armati; anche le ville, riuscivo a rappresentare, ora che le avevo viste requisite e trasformate in corpi di guardia e prigioni;

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anche i campi di garofani, da quando erano diventati terreni allo scoperto, pericolosi da attraversare, evocanti uno sgranare di raffiche nell'aria. Fu da questa possibilità di situare storie umane nei paesaggi che il «neorealismo»…

In questo romanzo (è meglio che riprenda il filo; per mettersi a rifare l’apologia

del «neorealismo» è troppo presto; analizzare i motivi di distacco corrisponde di più al nostro stato d’animo, ancor oggi) i segni dell’epoca letteraria si confondono con quelli della giovinezza dell’autore. L’esasperazione dei motivi della violenza e del sesso finisce per apparire ingenua (oggi che il palato del lettore è abituato a trangugiare cibi ben più bollenti) e voluta (che per l’autore questi fossero motivi esterni e provvisori, lo prova il seguito della sua opera).

E altrettanto ingenua e voluta può apparire la smania di innestare la discussione ideologica nel racconto, in un racconto come questo, impostato in tutt’altra chiave: di rappresentazione immediata, oggettiva, come linguaggio e come immagini. Per soddisfare la necessità dell’innesto ideologico, io ricorsi all’espediente di concentrare le riflessioni teoriche in un capitolo che si distacca dal tono degli altri, il IX, quello delle riflessioni del commissario Kim, quasi una prefazione inserita in mezzo al romanzo. Espediente che tutti i miei primissimi lettori criticarono, consigliandomi un taglio netto del capitolo; io, pur comprendendo che l’omogeneità del libro ne soffriva (a quel tempo, l’unità stilistica era uno dei pochi criteri estetici sicuri; ancora non erano tornati in onore gli accostamenti di stili e linguaggi diversi che oggi trionfano), tenni duro: il libro era nato così, con quel tanto di composito e di spurio.

Anche l’altro grande tema futuro di discussione critica, il tema lingua-dialetto, è presente qui nella sua fase ingenua: dialetto aggrumato in macchie di colore (mentre nelle narrazioni che scriverò in seguito cercherò di assorbirlo tutto nella lingua, come un plasma vitale ma nascosto); scrittura ineguale che ora quasi s’impreziosisce ora corre giù come vien viene badando solo alla resa immediata; un repertorio documentaristico (modi di dire popolari, canzoni) che arriva quasi al folklore…

E poi (continuo l’elenco dei segni dell’età, mia e generale; una prefazione scritta ha un senso solo se è critica), il modo di figurare la persona umana: tratti esasperati e grotteschi, smorfie contorte, oscuri drammi visceral-collettivi. L’appuntamento con l’espressionismo che la cultura letteraria e figurativa italiana aveva mancato nel Primo Dopoguerra, ebbe il suo grande momento nel Secondo. Forse il vero nome per quella stagione italiana, più che «neorealismo» dovrebbe essere «neo-espressionismo».

Le deformazioni della lente espressionistica si proiettano in questo libro sui volti che erano stati dei miei cari compagni. Mi studiavo di renderli contraffatti, irriconoscibili, «negativi», perché solo nella «negatività» trovavo un senso poetico. E nello stesso tempo provavo rimorso, verso la realtà tanto più variegata e calda e indefinibile, verso le persone vere, che conoscevo come tanto umanamente più ricche e migliori, un rimorso che mi sarei portato dietro per anni…

Questo romanzo è il primo che ho scritto. Che effetto mi fa, a rileggerlo adesso (Ora ho trovato

il punto: questo rimorso. E’ di qui che devo cominciare la prefazione)?. Il disagio che per tanto tempo questo libro mi ha dato in parte si è attutito, in parte resta: è il rapporto con qualcosa di tanto più grande di me, con emozioni che hanno coinvolto tutti ì miei contemporanei, e tragedie, ed eroismi, e slanci generosi e geniali, e oscuri drammi di coscienza. La Resistenza; come entra questo libro nella «letteratura della Resistenza»?

Al tempo in cui l'ho scritto, creare una «letteratura della Resistenza» era ancora un problema aperto, scrivere «il romanzo della Resistenza» si poneva come un imperativo; a due mesi appena dalla Liberazione nelle vetrine dei librai c'era già Uomini e no di Vittorini, con dentro la nostra primordiale dialettica di morte e di felicità; i «gap» di Milano avevano avuto subito il loro romanzo, tutto rapidi scatti

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sulla mappa concentrica della città; noi che eravamo stati partigiani di montagna avremmo voluto avere il nostro, di romanzo, con il nostro diverso ritmo, il nostro diverso andirivieni...

Non che fossi così culturalmente sprovveduto da non sapere che l'influenza della storia sulla letteratura è indiretta, lenta e spesso contraddittoria; sapevo bene che tanti grandi avvenimenti storici sono passati senza ispirare nessun grande romanzo, e questo anche durante il «secolo del romanzo» per eccellenza; sapevo che il grande romanzo del Risorgimento non è mai stato scritto... Sapevamo tutto, non eravamo ingenui a tal punto: ma credo che ogni volta che si è stati testimoni o attori d'un'epoca storica ci si sente presi da una responsabilità speciale…

A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non lasciarmi mettere soggezione dal tema, decisi che l'avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d'un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l'aspro sapore, il ritmo…

Questo romanzo è il primo che ho scritto. Come posso definirlo, ora, a riesaminarlo tanti anni

dopo (Devo ricominciare da capo. M’ero cacciato in una direzione sbagliata: finivo per dimostrare che questo libro era nata da un’astuzia per sfuggire all’impegno; mentre invece, al contrario…)? Posso definirlo un esempio di «letteratura impegnata» nel senso più ricco e pieno della parola. Oggi, in genere, quando si parla di «letteratura impegnata» ci se ne fa un’idea sbagliata, come d’una letteratura che serve da illustrazione a una tesi già definita a priori, indipendentemente dall’espressione poetica. Invece, quello che si chiamava l’«engagement», l’impegno, può saltar fuori a tutti i livelli; qui vuole innanzitutto essere immagini e parola, scatto, piglio, stile, spezzatura, sfida.

Già nella scelta del tema c’è un’ostentazione di spavalderia quasi provocatoria. Contro chi? Direi che volevo combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata.

Primo fronte: a poco più d’un anno dalla Liberazione già la «rispettabilità ben pensante» era in piena riscossa, e approfittava d’ogni aspetto contingente di quell’epoca – gli sbandamenti della gioventù postbellica, la recrudescenza della delinquenza, la difficoltà di stabilire una nuova legalità – per esclamare: «Ecco, noi l’avevamo sempre detto, questi partigiani, tutti così, non ci vengano a parlare di Resistenza, sappiamo bene che razza d’ideali…». Fu in questo clima che io scrissi il mio libro, con cui intendevo paradossalmente rispondere ai benpensanti: «D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!». Il senso di questa polemica, di questa sfida è ormai lontano: e anche allora, devo dire, il libro fu letto semplicemente come romanzo, e non come elemento di discussione su di un giudizio storico. Eppure, se ancora vi si sente frizzare quel tanto d’aria provocatoria, proviene dalla polemica d’allora.

Dalla doppia polemica. Per quanto, anche la battaglia sul secondo fronte, quello interno alla «cultura di sinistra», ora pare lontana. Cominciava appena allora il tentativo d’una «direzione politica» dell’attività letteraria: si chiedeva allo scrittore di creare l’«eroe positivo», di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria. Cominciava appena, ho detto: e devo aggiungere che neppure in seguito, qui in Italia, simili pressioni ebbero molto peso e molto seguito. Eppure, il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell’aria: quando scrissi questo libro l’avevo appena avvertito, e già stavo a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l’incombere d’una nuova retorica (Avevamo ancora intatta la nostra carica d’anticonformismo,

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allora: dote difficile da conservare, ma che – se pur conobbe qualche parziale eclisse – ancora ci sorregge, in quest’epoca tanto più facile, non meno pericolosa…). La mia reazione d’allora potrebbe essere enunciata così: «Ah, sì, volete “l’eroe socialista”? Volete il “romanticismo rivoluzionario”? E io vi scrivo una storia di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe. Il mondo delle “lingère”, vi rappresento, il lunpenproletariat (Concetto nuovo, per me allora; e mi pareva una gran scoperta. Non sapevo che era stato e avrebbe continuato a essere il terreno più facile per la narrativa)! E sarà l’opera più positiva, più rivoluzionaria di tutte! Che ce ne importa di chi è già un eroe, di chi la coscienza ce l’ha già? E’ il processo per arrivarci che si deve rappresentare! Finché resterà un solo individuo al di qua della coscienza, il nostro dovere sarà di occuparci di lui e solo di lui!».

Così ragionavo, e con questa furia polemica mi buttavo a scrivere e scomponevo i tratti del viso e del carattere di persone che avevo tenuto per carissimi compagni, con cui avevo per mesi e mesi spartito la gavetta di castagne e il rischio della morte, per la cui sorte avevo trepidato, di cui avevo ammirato la noncuranza nel tagliarsi i ponti dietro le spalle, il modo di vivere sciolto da egoismi, e ne facevo maschere contratte da perpetue smorfie, macchiette grottesche, addensavo torbidi chiaroscuri – quelli che nella mia giovanile ingenuità immaginavo potessero essere torbidi chiaroscuri – sulle loro storie… Per poi provarne un rimorso che mi tenne dietro per anni…

Devo ancora ricominciare da capo la prefazione. Non ci siamo. Da quel che ho detto, parrebbe

che scrivendo questo libro avessi tutto ben chiaro in testa: i motivi di polemica, gli avversari da battere, la poetica da sostenere… Invece, se tutto questo c’era, era ancora in uno stadio confuso e senza contorni. In realtà il libro veniva fuori come per caso, m’ero messo a scrivere senza avere in mente una trama precisa, partii da quel personaggio di monello, cioè da un elemento d’osservazione diretta della realtà, un modo di muoversi, di parlare, di tenere un rapporto con i grandi, e, per dargli un sostegno romanzesco, inventai la storia della sorella, della pistola rubata al tedesco; poi l’arrivo tra i partigiani si rivelò un trapasso difficile, il salto dal racconto picaresco all’epopea collettiva minacciava di mandare tutto all’aria, dovevo avere un’invenzione che mi permettesse di continuare a tenere la storia tutta sul medesimo gradino, e inventai il distaccamento del Dritto.

Era il racconto che – come sempre succede – imponeva soluzioni quasi obbligatorie. Ma in questo schema, in questo disegno che si veniva formando quasi da solo, io travasavo la mia esperienza ancora fresca, una folla di voci e volti (deformavo i volti, straziavo le persone come sempre fa chi scrive, per cui la realtà diventa creta, strumento, e sa che solo così può scrivere, eppure ne prova rimorso…), un fiume di discussioni e di letture che a quell’esperienza s’intrecciavano.

Le letture e l’esperienza di vita non sono due universi ma uno. Ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe letture e si fonde con esse. Che i libri nascano sempre da altri libri è una verità solo apparentemente in contraddizione con l’altra: che i libri nascano dalla vita pratica e dai rapporti tra gli uomini Appena finito di fare il partigiano trovammo (prima in pezzi sparsi per riviste, poi tutto intero) un romanzo sulla guerra di Spagna che Hemingway aveva scritto sei o sette anni prima: Per chi suona la campana. Fu il primo libro in cui ci riconoscemmo: fu di lì che cominciammo a trasformare in motivi narrativi e frasi quello che avevamo visto sentito e vissuto, il distaccamento di Pablo e di Pilar era il «nostro» distaccamento. (Ora magari quello è il libro di Hemingway che ci piace di meno; anzi, già a quei tempi, fu scoprendo in altri libri dello scrittore americano – particolarmente nei suoi primi racconti – la vera sua lezione di stile, che Hemingway divenne il nostro autore).

La letteratura che ci interessava era quella che portava questo senso d’umanità ribollente e di spietatezza e di natura: anche i russi del tempo della Guerra civile – cioè di prima che la letteratura sovietica diventasse castigata e oleografica – li sentivamo come nostri contemporanei. Soprattutto Babel,

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del quale conoscevamo L’armata a cavallo, tradotto in Italia già prima della guerra, uno dei libri esemplari del realismo del nostro secolo, nato dal rapporto tra l’intellettuale e la violenza rivoluzionaria.

Ma anche – su un livello minore – Fadeev (prima di diventare un funzionario della letteratura sovietica ufficiale), il suo primo libro, La disfatta, l’aveva scritto con quella sincerità e quel vigore (non ricordo se l’avessi già letto quando scrissi il mio libro, e non vado a verificare, non è quello che importa, da situazioni simili nascono libri che si somigliano, come struttura e come spirito); Fadeev che seppe finire bene come aveva cominciato, perché fu il solo scrittore staliniano, nel ’56, a dimostrare d’aver capito fino in fondo la tragedia di cui era stato corresponsabile (la tragedia in cui Babel e tanti altri scrittori veri della Rivoluzione avevano perso la vita), e a non tentare ipocrite recriminazioni, ma a trarne la conseguenza più severa: un colpo di pistola in fonte.

Questa letteratura c’è dietro al Sentiero dei nidi di ragno. Ma in gioventù ogni libro nuovo che si

legge è come un nuovo occhio che si apre e modifica la vista degli altri occhi o libri-occhi che si avevano prima, e della nuova idea di letteratura che smaniavo di fare rivivevano tutti gli universi letterari che m’avevano incantato dal tempo dell’infanzia in poi… Cosicché, mettendomi a scrivere qualcosa come Per chi suona la campana di Hemingway volevo insieme scrivere qualcosa come L’isola del tesoro di Stevenson.

Chi lo capì subito fu Cesare Pavese, che indovinò dal Sentiero tutte le mie predilezioni letterarie. Nominò anche Nievo, a cui avevo voluto dedicare un segreto omaggio ricalcando l’incontro di Pin con Cugino sull’incontro di Carlino con lo Spaccafumo nelle Confessioni d’un Italiano.

Fu Pavese il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad allora non me n’ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo, e cercai di confermare la definizione. La mia storia cominciava a esser segnata, e ora mi pare tutta contenuta in quell’inizio.

Forse, in fondo, il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello e basta, il grande strappo lo dài solo in quel momento, l’occasione di esprimerti si presenta solo una volta, il nodo che porti dentro o lo sciogli quella volta o mai più. Forse la poesia è possibile solo in un momento della vita che per i più coincide con l’estrema giovinezza. Passato quel momento, che tu ti sia espresso o no (e non lo saprai se non dopo cento, centocinquant’anni; i contemporanei non possono essere buoni giudici), di lì in poi i giochi son fatti, non tornerai che a fare il verso agli altri o a te stesso, non riuscirai più a dire una parola vera, insostituibile…

Interrompo. Ogni discorso basato su una pura ragione letteraria, se è veritiero, finisce in questo

scacco, in questo fallimento che è sempre lo scrivere. Per fortuna scrivere non è solo un fatto letterario, ma anche altro. Ancora una volta, sento il bisogno di correggere la piega presa dalla prefazione.

Questo altro, nelle mie preoccupazioni d’allora, era una definizione di cos’era stata la guerra partigiana. Con un mio amico e coetaneo, che ora fa il medico, e allora era studente come me, passavamo le sere a discutere. Per entrambi la Resistenza era stata l’esperienza fondamentale; per lui in maniera molto più impegnative perché s’era trovato ad assumere responsabilità serie, e a poco più di vent’anni era stato commissario d’una divisione partigiana, quella di cui io pure avevo fatto parte come semplice garibaldino. Ci pareva, allora, a pochi mesi dalla Liberazione, che tutti parlassero della Resistenza in modo sbagliato, che una retorica che s’andava creando ne nascondesse la vera essenza, il suo carattere primario. Mi sarebbe difficile ora ricostruire quelle discussioni; ricordo solo la continua nostra polemica contro tutte le immagini mitizzate, la nostra riduzione della coscienza partigiana a un quid elementare, quello che avevamo conosciuto nei più semplici dei nostri compagni, e che diventava la chiave della storia presente e futura.

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Il mio amico era un argomentatore analitico, freddo, sarcastico verso ogni cosa che non fosse un fatto; l’unico personaggio intellettuale di questo libro, il commissario Kim, voleva essere un suo ritratto; e qualcosa delle nostre discussioni d’allora, nella problematica del perché combattevano quegli uomini senza divisa né bandiera, dev’essere rimasta nelle mie pagine, nei dialoghi di Kim col comandante di brigata e nei suoi soliloqui.

L’entroterra del libro erano queste discussioni, e più indietro ancora, tutte le mie riflessioni sulla violenza, da quando m’ero trovato a prendere le armi. Ero stato, prima d’andare coi partigiani, un giovane borghese sempre vissuto in famiglia; il mio tranquillo antifascismo era prima di tutto opposizione al culto della forza guerresca, una questione di stile, di «sense of humour», e tutt’a un tratto la coerenza con le mie opinioni mi portava in mezzo alla violenza partigiana, a misurarmi su quel metro. Fu un trauma, il primo…

E contemporaneamente, le riflessioni sul giudizio morale verso le persone e sul senso storico delle azioni di ciascuno di noi. Per molti dei miei coetanei, era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile (Fu Pavese che riuscì a scrivere: «Ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione», nelle ultime pagine della Casa in collina, strette tra il rimorso di non aver combattuto e lo sforzo d’essere sincero sulle ragioni del suo rifiuto).

Ecco: ho trovato come devo impostare la prefazione. Per mesi, dopo la fine della guerra, avevo

provato a raccontare l’esperienza partigiana in prima persona, o con un protagonista simile a me. Scrissi qualche racconto che pubblicai, altri che buttai nel cestino; mi muovevo a disagio; non riuscivo mai a smorzare del tutto le vibrazioni sentimentali e moralistiche; veniva fuori sempre qualche stonatura; la mia storia personale mi pareva umile, meschina; ero pieno di complessi, d’inibizioni di fronte a tutto quel che più mi stava a cuore.

Quando cominciai a scrivere storie in cui non entravo io, tutto prese a funzionare: il linguaggio, il ritmo, il taglio erano esatti, funzionali; più lo facevo oggettivo, anonimo, più il racconto mi dava soddisfazione; e non solo a me, ma anche quando lo facevo leggere alla gente del mestiere che ero andato conoscendo in quei primi tempi postbellici, - Vittoriani e Ferrata a Milano, Natalia e Pavese a Torino, - non mi facevano più osservazioni. Cominciai a capire che un racconto, quanto più era oggettivo e anonimo, tanto più era mio.

Il dono di scrivere «oggettivo» mi pareva allora la cosa più naturale del mondo; non avrei mai immaginato che così presto l’avrei perduto. Ogni storia si muoveva con perfetta sicurezza in un mondo che conoscevo così bene: era questa la mia esperienza, la mia esperienza moltiplicata per le esperienze degli altri. E il senso storico, la morale, il sentimento, erano presenti proprio perché li lasciavo impliciti, nascosti.

Quando cominciai a sviluppare un racconto sul personaggio d’un ragazzetto partigiano che avevo conosciuto nelle bande, non pensavo che m’avrebbe preso più spazio degli altri. Perché si trasformò in un romanzo? Perché – compresi poi – l’identificazione tra me e il protagonista era diventata qualcosa di più complesso. Il rapporto del personaggio del bambino Pin e la guerra partigiana corrispondeva simbolicamente al rapporto che con la guerra partigiana m’ero trovato ad avere io. L’inferiorità di Pin come bambino di fronte all’incomprensibile mondo dei grandi corrisponde a quella che nella stessa situazione provavo io, come borghese. E la spregiudicatezza di Pin, per via della tanto vantata sua provenienza dal mondo della malavita, che lo fa sentire complice quasi superiore verso ogni «fuori-legge», corrisponde al modo «intellettuale» d’essere all’altezza della situazione, di non meravigliarsi mai, di difendersi dalle emozioni… Così, data questa chiave di trasposizioni – ma fu solo

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una chiave a posteriori, sia ben chiaro, che mi servì in seguito a spiegarmi cos’avevo scritto – la storia in cui il mio punto di vista personale era bandito ritornava ad essere la mia storia…

La mia storia era quella dell’adolescenza durata troppo a lungo, per il giovane che aveva preso la

guerra come un alibi, nel senso proprio e in quello traslato. Nel giro di pochi anni, d’improvviso l’alibi era diventato un qui e ora. Troppo presto, per me; o troppo tardi: i sogni sognati troppo a lungo, io ero impreparato a viverli. Prima, il capovolgersi della guerra estranea, il trasformarsi in eroi e in capi degli oscuri e refrattari di ieri. Ora, nella pace, il fervore delle nuove energie che animava tutte le relazioni, che invadeva tutti gli strumenti della vita pubblica, ed ecco anche il lontano castello della letteratura s’apriva come un porto vicino e amico, pronto ad accogliere il giovane provinciale con fanfare e bandiere. E una carica amorosa elettrizzava l’aria, illuminava gli occhi delle ragazze che la guerra e la pace ci avevano restituito e fatto più vicine, divenute ora davvero coetanee e compagne, in un’intesa che era il nuovo regalo di quei primi mesi di pace, a riempire di dialoghi e di risa le calde sere dell’Italia resuscitata.

Di fronte a ogni possibilità che s’apriva, io non riuscivo a essere quello che avevo sognato prima dell’ora della prova: ero stato l’ultimo dei partigiani; ero un innamorato incerto e insoddisfatto e inabile; la letteratura non mi s’apriva come un disinvolto e distaccato magistero ma come una strada in cui non sapevo da che parte cominciare. Carico di volontà e tensione giovanili, m’era negata la spontanea grazia della giovinezza. Il maturare impetuoso dei tempi non aveva fatto che accentuare la mia immaturità.

Il protagonista simbolico del mio libro fu dunque un’immagine di regressione: un bambino. Allo sguardo infantile e geloso di Pin, armi e donne ritornavano lontane e incomprensibili; quel che la mia filosofia esaltava, la mia poetica trasfigurava in apparizioni nemiche, il mio eccesso d’amore tingeva di disperazione infernale.

Scrivendo, il mio bisogno stilistico era tenermi più in basso dei fatti, l’italiano che mi piaceva era quello di chi «non parla l’italiano a casa», cercavo di scrivere come avrebbe scritto un ipotetico me stesso autodidatta.

Il sentiero dei nidi di ragno è nato da questo senso di nullatenenza assoluta, per metà patita fino allo strazio, per metà supposta e ostentata. Se un valore oggi riconosco a questo libro è lì: l’immagine d’una forza vitale ancora oscura in cui si saldano l’indigenza del «troppo giovane» e l’indigenza degli esclusi e dei reietti.

Se dico che allora facevamo letteratura del nostro stato di povertà, non parlo tanto d’una

programmaticità ideologica, quanto di qualcosa di più profondo che era in ciascuno di noi. Oggi che scrivere è una professione regolare, che il romanzo è un «prodotto», con un

suo «mercato», una sua «domanda» e una sua «offerta», con le sue campagne di lancio, i suoi successi e i suoi tran-tran, ora che i romanzi italiani sono tutti «di un buon livello medio» e fanno parte della quantità di beni superflui di una società troppo presto soddisfatta, è difficile richiamarci alla mente lo spirito con cui tentavamo di cominciare una narrativa che aveva ancora da costruirsi tutto con le proprie mani.

Continuo a usare il plurale, ma vi ho già spiegato che parlo di qualcosa di sparso, di non concordato, che usciva da angoli di provincia diversi, senza ragioni esplicite in comune che non fossero parziali e provvisorie. Fu più che altro – diciamo – una potenzialità diffusa nell’aria. E presto spenta.

Già negli Anni Cinquanta il quadro era cambiato, a cominciare dai maestri: Pavese morto, Vittoriani chiuso in un silenzio d’opposizione, Moravia che in un contesto diverso veniva acquistando un altro significato (non più esistenziale ma naturalistico) e il romanzo italiano prendeva il suo corso

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elegiaco-moderato-sociologico in cui tutti finimmo per scavarci una nicchia più o meno comoda (o per trovare le nostre scappatoie).

Ma ci fu chi continuò sulla via di quella prima frammentaria epopea: in genere furono i più isolati, i meno «inseriti» a conservare questa forza. E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno finirlo (Una questione privata), e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata.

Una questione privata (che ora si legge nel volume postumo di Fenoglio Un giorno di fuoco) è costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso tempo c'è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest'altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perchè.

E’ al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione: non al mio. Questo romanzo è il primo che ho scritto, quasi la prima cosa che ho scritto. Cosa ne posso dire,

oggi? Dirò questo: il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto. Finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una

sola volta nella vita, il primo libro già ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall’esser definito; e questa definizione poi dovrai portartela dietro per la vita, cercando di darne conferma o approfondimento o correzione o smentita, ma mai più riuscendo a prescinderne.

E ancora: per coloro che da giovani cominciarono a scrivere dopo un’esperienza di quelle con «tante cose da raccontare» (la guerra, in questo e in molti altri casi), il primo libro diventa subito un diaframma tra te e l’esperienza, taglia i fili che ti legano ai fatti, brucia il tesoro di memoria – quello che sarebbe diventato un tesoro se avessi avuto la pazienza di custodirlo, se non avessi avuto tanta fretta di spenderlo, di scialacquarlo, d’imporre una gerarchia arbitraria tra le immagini che avevi immagazzinato, di separare le privilegiate, presunte depositarie d’una emozione poetica, dalle altre, quelle che sembravano riguardarti troppo o troppo poco per poterle rappresentare, insomma d’istituire di prepotenza un’altra memoria, una memoria trasfigurata al posto della memoria globale coi suoi confini sfumati, con la sua infinita possibilità di recuperi… Di questa violenza che le hai fatto scrivendo, la memoria non si riavrà più: le immagini privilegiate resteranno bruciate dalla precoce promozione a motivi letterari, mentre le immagini che hai voluto tenere in serbo, magari con la segreta intenzione di servirtene in opere future, deperiranno, perché tagliate fuori dall’integrità naturale della memoria fluida e vivente. La proiezione letteraria dove tutto è solido e fissato una volta per tutte, ha ormai occupato il campo, ha fatto sbiadire, ha schiacciato la vegetazione dei ricordi in cui la vita dell’albero e quella del filo d’erba si condizionano a vicenda. La memoria – o meglio l’esperienza, che è la memoria più la ferita che ti ha lasciato, più il cambiamento che ha portato in te e che ti ha fatto diverso -, l’esperienza primo nutrimento anche dell’opera letteraria (ma non solo di quella), ricchezza vera dello scrittore (ma non solo di lui), ecco che appena ha dato forma a un’opera letteraria insecchisce, si distrugge. Lo scrittore si ritrova ad essere il più povero degli uomini.

Così mi guardo indietro, a quella stagione che mi si presentò gremita d’immagini e di significati: la guerra partigiana, i mesi che hanno contato per anni e da cui per tutta la vita si dovrebbe poter

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continuare a tirar fuori volti e ammonimenti e paesaggi e pensieri ed episodi e parole e commozioni: e tutto è lontano e nebbioso, e le pagine scritte sono lì nella loro sfacciata sicurezza che so bene ingannevole, le pagine scritte già in polemica con una memoria che era ancora un fatto presente, massiccio, che pareva stabile, dato una volta per tutte, l’esperienza, - e non mi servono, avrei bisogno di tutto il resto, proprio di quello che lì non c’è. Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo.

Giugno 1964 I.C.

1. Quando cominciano gli anni Zero?Gli anni Zero, se per essi dobbiamo intendere una nuova fase culturalee letteraria della contemporaneità, cominciano a metà degli anni Novanta:non con l’inizio del nuovo millennio, che è una data di comodo, e nep-pure con l’11 settembre 2001, che infatti si presta a una lettura postmo-derna o, al contrario, sancisce mutamenti già avviati. La stessa ambiguitàaveva segnato già la prima guerra del Golfo (1990-1991) e le guerre nel-l’ex-Jugoslavia (1991-1995): eventi così obbiettivamente gravi sono statianche quelli che hanno più alimentato il mito della cancellazione me-diatica della realtà e della fine dell’esperienza. Eppure, il mutamentoc’era; le contraddizioni stavano strappando il velo di un ordine che soloper illusione o malafade si voleva ammettesse pochi assestamenti.

Resta difficile precisare il rapporto tra fenomeni culturali e fatti storici,tanto più dove cultura e fatti si muovono entrambi con velocità diverse ein parte nascondendosi l’una agli altri. Una volta rinunciato al causalismo,storia e storiografia letteraria entrano in un regime di analogia o conco-mitanza che non ha nessuna garanzia a priori, e che però continuiamoa percepire. Non occorre affatto essere storicisti volgari per credere che,nonostante tutto e tra continui sfasamenti, la letteratura sta nella storia.E così il vecchio adagio, secondo cui non si può dare storia del presente,è smentito ogni giorno dalla pratica di chi, soprattutto se fa critica mili-tante, presuppone un disegno storiografico almeno implicito. Qui, dun-que, si tratterà di giocare a carte scoperte. Anzitutto, bisogna riconoscereche militanza e storiografia non coincidono: segnalare un mutamento diquadro non significa metterlo sotto la coazione al giudizio di valore. Trop-po spesso, infatti, una forma affrettata di critica militante crede che suocompito sia elogiare e deprecare, e che ogni attività di lettura vada postasotto questa necessità che, alla fine, vizia lo sguardo. Non nascondo affattodi accogliere con sollievo la fine di quel postmoderno che, in Italia, ha

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Ipermodernità: ipotesi per un congedodal postmoderno

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conosciuto versioni molto deludenti. Negli anni scorsi, dire che il postmo-derno si era concluso significava in realtà dire che doveva concludersi;annunciare adesso una fase differente significa anche incoraggiarla. Nonmi faccio però illusioni sulla capacità della critica di orientare gli scrittori:la critica è un’attività seconda, sta a lei accordare il passo con la libertàdi chi scrive, e non certo il contrario. Giudizio e storiografia sono in unrapporto circolare: non si disegna una mappa se non si è prima capitocosa merita di essere segnalato, e non si apprezza il singolo oggetto senon si ha un quadro dell’insieme. Ma il giudizio di cui si parla qui non ènecessariamente quello estetico. Se la storiografia letteraria del passatoè, credo, anzitutto una storiografia del canone, la storiografia del presenteè anzitutto una storiografia dei sintomi. Anche quando vuole suggerireun canone sa che, per costruirlo davvero, ci vorrà il lavoro del tempo. Az-zardare previsioni su cosa resterà è una trappola: gli sforzi che val la penadi compiere sono cercare di capire quanto accade e individuare i problemiche meritano una discussione, accantonando quelli ingannevoli o ormaiesauriti.

2. Dopo il postmodernoAnnunciata più volte, respinta con sufficienza, messa in dubbio per cautelao avversata con rivendicato spirito di parte, la fine del postmodernismoè ormai entrata nel senso comune. Eppure, quali siano i tratti di questanuova fase culturale, quando sia iniziata, come pure che nome darle, sonoquestioni che cominciamo appena a discutere o sulle quali, al contrario,non si è ancora discusso.

Il declino generale, anche se non incontrastato, delle poetichepostmoderniste data alla metà degli anni Novanta.1 Esso coincide anzituttocon la senescenza delle parole d’ordine della testualizzazione del mondo,del labirinto, dell’autoriflessività, della riscrittura, del manierismo, dellaparodia bianca, e coincide con una riconsiderazione sia delle tradizionidel realismo, sia dell’eredità modernista. Confrontare i libri che si sonodiscussi nel 2000 e nel 2010 con quelli di cui si discuteva nel 1980 o ancoranel 1990 permette di misurare intuitivamente e subito questo cambio diregistro. Per le arti figurative, Hal Foster data già all’inizio degli anni No-vanta una frattura, segnata dalla «svolta verso il reale» e «verso il referente»,dal presentarsi della «realtà sotto forma di trauma» e da un ritorno del«soggetto nella profondità sociale della sua identità».2 Tuttavia, il muta-mento di clima culturale, artistico e letterario non coincide affatto con

1 Rimando per questo al mio Nuovi realismi e persistenze postmoderne: la narrativa italiana di oggi, in«allegoria», 57, 2008, pp. 29-54.

2 H. Foster, Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento [1996], Postmedia Books, Milano2007, p. 127.

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Ipermodernità:ipotesi per uncongedo dalpostmoderno

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un’eclissi del mondo della vita postmoderna. I vecchi idoli della fine dellastoria, dello sciopero degli eventi, della morte del soggetto sono ormaitramontati; ma non assistiamo né alla fine del tardocapitalismo e del neo-liberismo (le cui crisi, per allarmanti che siano, sono le febbri di crescenzadel Leviatano, anziché la sua agonia), né all’addio dalle mutazioni nellapercezione e nell’immaginario prodotte dall’informatica e ormai diventateuna nostra seconda natura. In un certo senso, il processo che si è impostodalla metà degli anni Sessanta ha subito un’accelerazione e un’espansioneplanetaria che ne dichiara il trionfo; e dall’altra, sono caduti l’ironia,l’anything goes e il laissez faire postmoderni nei quali molti hanno ricono-sciuto un’ideologia organica a quegli anni, o forme di scetticismo troppodeboli per poterli contrastare davvero. Se allora il postmoderno si è pen-sato come l’epoca della fine della storia e dei conflitti, in questa nuovafase la storia si è rimessa in moto, i conflitti prendono di nuovo a mani-festarsi, l’attrito fra vita intellettuale e assetti politico-economici è tornatoa essere produttivo.

Che nome dare a questo cambiamento, che sta in un atteggiamentodiverso rispetto al dominio e all’arroganza del tardocapitalismo, anzichéin una trasformazione radicale di quei modi di produzione? In Italia, siè parlato di ritorno alla realtà e di neomodernismo, suscitando opposizionianche violente. Il rifiuto più deciso è quello di Carla Benedetti, che, con-dannando severamente la «dimensione chiusa, antropocentrica, cultura-lista costruita sulle strutture di pensiero della modernità», con la sua vo-cazione mortificante al disincanto e all’astrazione, polemizza e ironizzasui ritorni, del moderno o alla realtà che siano. Così, riconoscendo chela nostra epoca «non si presenta più come “postmoderna” ma neppure,e a maggior ragione, può definirsi “moderna”», scredita tutte le «cerimoniedi nominazione» (almeno, storiche).3 Quanto a lungo, però, si può salvarel’apertura e l’impensato del presente? Con il passare del tempo, dovremopur farcene qualche concetto limitandolo in possibili interpretazioni e,quindi, dargli un nome. È anzi quello che cercherà di fare questo saggio.Ma il punto è un altro: da un lato, Benedetti schiaccia la modernità artisticasulle sole avanguardie – che, come vede benissimo, sono state apologiao ideologia della modernità; dall’altro, cancella del tutto dal suo discorsoil modernismo – che ha sempre esercitato una critica senza indulgenzesulla modernità e che ha raggiunto risultati incontrovertibili. Quale fu-turista, quale dadaista, quale surrealista potrebbe competere con Flauberte Baudelaire, Joyce e Woolf, Eliot e Pound, Kafka e Musil, Pirandello eSvevo, Montale e Gadda? Proiettata sul presente, questa riduzione di cam-po rivela come ciò che oggi continua le avanguardie è spesso quanto di

3 C. Benedetti, Disumane lettere. Indagini sulla cultura della nostra epoca, Laterza, Roma-Bari 2010, pp.14 e 61.

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più chiuso e autoreferenziale producano le arti; e nasconde che ciò cheriprende il modernismo ha invece (per usare categorie di Disumane lettere)una capacità creativa e un genio inattesi. Sui guasti della modernità sipossono accumulare prove in abbondanza; ma il suo valore di emancipa-zione e la sua intelligenza autocritica restano, anche per chi non è haber-masiano.

Benedetti ha però del tutto ragione quando mostra che bisogna pursempre attraversare le categorie del postmoderno e che un ritorno sem-plice e letterale al moderno e alle sue poetiche sarebbe, prima che inde-siderabile, impossibile. Il postmoderno non può essere sbrigativamentearchiviato, e occorre fare i conti con quello che ne sopravvive. Proprio inquesta prospettiva si sono tentati, fuori d’Italia, una nominazione e, so-prattutto, un’interpretazione più generale della contemporaneità. L’ipotesinon si è ancora affermata, resta a tratti incerta e suscita qualche dubbiosoprattutto per la fiacchezza dell’argomentazione; eppure, merita di essereconsiderata. Secondo questa ipotesi, siamo entrati nell’età ipermoderna.

3. IpermodernitàElaborata in Francia soprattutto da filosofi e sociologi come Paul Virilioe Gilles Lipovetsky per primi, quindi Jean Serroy, Nicole Aubert e SébastienCharles (che indulge però, talvolta, a un semplicismo disarmante), la ca-tegoria di ipermodernità ricorre in due accezioni diverse.4 Da un lato,anche se minoritariamente, è alternativa e antagonistica rispetto al post-moderno, poiché (come già, in parte, la surmodernità di Augé)5 intendespiegare in modo differente fenomeni che siamo soliti riferire a quello,e che infatti ne occupano lo stesso ambito cronologico.6 Dall’altra, designainvece uno spazio che si è aperto dopo il postmoderno, sostituendolo(come accade di fatto con la modernità liquida di Bauman).7 Questa am-biguità si spiega meno con un’incertezza teorica e storiografica, che con

4 Segnalo almeno G. Lipovetsky, S. Charles, Les Temps hypermodernes, Grasset, Paris 2004; L’Individuhypermoderne, sous la direction de N. Aubert, Eres, Toulouse 2004; S. Charles, L’Hypermoderne expliquéaux enfants, Liber, Montréal 2007; La Société hypermoderne: ruptures et contradictions, coordonné parN. Aubert, L’Harmattan, Paris 2011; G. Lipovetsky, J. Serroy, L’Écran global. Du cinéma au smartphone[1a ed. 2007, col sottotitolo Culture-médias et cinéma à l’âge hypermoderne], Seuil, Paris 2011.

5 Augé non propone infatti una periodizzazione, ma presenta la surmodernità come «il diritto diuna medaglia di cui la postmodernità ci ha rappresentato solo il rovescio – il positivo di un nega-tivo» (M. Augé, Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità [1992], Eleuthera, Mi-lano 2002, p. 32).

6 Il libro che apre la riflessione di Lipovetsky è L’Ère du vide. Essais sur l’individualisme contemporain:sebbene non parli ancora di ipermoderno, risale già al 1983 (trad. it. L’era del vuoto. Saggi sull’in-dividualismo contemporaneo, Luni, Milano 1995).

7 Bauman ha adottato la categoria di postmodernità dalla fine degli anni Ottanta sino a tutti glianni Novanta; poi, dichiarandosene insoddisfatto, l’ha dismessa a partire da Liquid Modernity del2000 (trad. it. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002).

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la natura della cosa. Nell’interpretazione dei suoi studiosi, l’ipermodernonon segna una frattura netta, violenta e polemica rispetto al postmodernocome appunto il postmoderno aveva voluto fare con la modernità, ma èuno scivolamento rispetto ad esso e può a tratti sovrapporvisi. Perciò leanalisi sull’immaginario e sul sensorio ipermoderno ripetono spesso quasiletteralmente – e senza citarle – le analisi di Jameson, dettagliando unquadro che conoscevamo già. E tuttavia, parlare di ipermodernità vuoldire svelare che il proclama postmoderno dell’uscita dalla logica modernadel nuovo è stato solo un desiderio, o forse una velleità: a smentirlo, c’èun’inflazione di rincorse alla novità e al suo valore differenziale in moltiambiti, dalla scienza al marketing, dalla moda alle stesse arti, soprattuttofigurative.8 In questo senso, la modernità non è mai finita, e quello a cuiassistiamo ora, nell’economia o nelle tecniche, è una sua continuazioneesasperata, quando non caricaturale. Questo spiega l’adozione del prefissoiper-, che Lipovetsky applica a una quantità persino esorbitante di fenomenicontemporanei, parlando così di iperindividualismo, di ipernarcisismo,di iperconsumo, di ipercapitalismo o di ipercinema: sono l’eccesso, l’ac-celerazione, l’iperbole a dominare nella vita pubblica e privata. La logicadella modernizzazione sembra affermarsi senza più alcun ostacolo, ricon-ciliata con se stessa: Lipovetsky segnala perciò una seconda modernità,che compie e realizza unilateralmente la prima, sostituendo al suo caratteredi negazione uno di integrazione. Così, se per il moderno il passato eracampo di giudizi, scelte, ricontrattazioni, rifiuti, ora esso è l’oggetto in-discriminato di celebrazioni: persa la sua esemplarità parziale, ha acquisitouna fruibilità generalizzata e anodina, erede diretta dello storicismo po-stmoderno.

L’idea di un esodo definitivo dalla modernità è accantonata: è questoil passaggio dall’illusione del post all’invadenza dell’iper. Tuttavia, il so-vraccarico è sempre pronto a capovolgersi in privazione, l’esaltazione inangoscia, la smania di dominio in smarrimento. Si tradisce così una logicaviziosa: l’ipermoderno, che ha abbandonato la fede moderna nel pro-gresso, non crede sino in fondo alle sue promesse di felicità. Esso è unacompulsione nevrotica che neutralizza i suoi stessi idoli (rapidità, novità,efficienza, fattività…) nel momento stesso in cui li innalza. L’attuale crisieconomica ne è lo svelamento: la smania ipercinetica, la rincorsa a profittisempre maggiori, l’affanno per una produttività sempre più alta sonopronti da un momento all’altro a rovesciarsi nel tracollo. Il meccanismogira a vuoto, impazzito, spente da lungo tempo le favole feroci dell’età

8 Benedetti, Disumane lettere, cit., pp. 61-81. Insieme a F. Jameson, Una modernità singolare. Saggio sul-l’ontologia del presente [2002], Sansoni, Milano 2003, p. 24, Benedetti ricorda che la postmodernitàè stata «incapace di disfarsi davvero del “valore supremo dell’innovazione”» (ivi, p. 74). Perciò,«la forma del moderno, svuotata due volte e ridotta a semplice differenza sincronica e snobistica,è oggi il meccanismo che domina sia nell’arte che fuori» (ivi, p. 81).

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di Reagan e Thatcher. Potremmo allora dire che l’ipermoderno è la ri-sposta e in parte la conseguenza disforica al postmoderno, poiché, esal-tandone i colori, finisce per virarli al nero. Il prefisso iper- depone cosìogni possibile sfumatura celebrativa, e rivela il suo carico ansiogeno e in-timidatorio: l’iper- è il dover essere della contemporaneità, la sua ossessioneprestazionale.

Tuttavia, la crisi – che non è solo economica, ma riguarda la stessa so-pravvivenza del pianeta e delle specie che lo abitano – ha prodotto ancheforme di consapevolezza e di attività civile o politica alternative rispettoal riflusso degli anni Ottanta, e radicalmente diverse anche dalla conte-stazione del Sessantotto e degli anni Settanta. Le frequenti campagnedi solidarietà e di mobilitazione mediatica testimoniano di una sensibilitàcollettiva reale, e non possono essere liquidate come falsa coscienza, re-torica vittimaria, maschere di interessi delle multinazionali o apripistaal dominio imperialista. Analogamente, sarebbe improprio mettere in-sieme i no global, le manifestazioni contro i governi di Berlusconi, Sarkozye Cameron, la protesta degli indignados, le rivolte e i cambi di regimedell’Africa del Nord; eppure, i segni di un nuovo clima sono evidenti. Èqui, allora, che l’ipermoderno riprende la volontà critica e autocorrettivadella modernità, ma dando per scontato che nessuna rivoluzione è piùpossibile.

In Italia, come del resto in genere fuori di Francia, di ipermoderno si èparlato e si parla ancora molto poco. Tuttavia, un’eccezione da tenere inconto è Massimo Recalcati, che mette giustamente in guardia da alcunisemplicismi del dibattito francese.9 Sebbene allo psicoanalista non interessiuna discussione della categoria di ipermodernità (e anzi, nel costante ri-chiamo a Lacan egli retrodata alcuni fenomeni anche a prima del po-stmoderno), L’uomo senza inconscio è un libro sull’antropologia contem-poranea. Recalcati individua le nuove patologie emergenti e simbolichedel presente: anoressia, bulimia, crisi di panico, tossicomanie, disturbipsicosomatici richiedono una clinica della psicosi anziché della nevrosie mettono fuori gioco l’inconscio giacché non fanno emergere alcun ri-mosso. In questo modo, Recalcati sembra ritrarre molti personaggi con-temporanei e illuminare un atteggiamento narrativo che descrive il disagiosenza credere al profondo e alla psicoanalisi: sembrano strumenti fattiapposta per leggere Easton Ellis o Coetzee, Houellebecq e Littell, Novee Siti. In Cosa resta del padre? Recalcati analizza però una letteratura e uncinema di tutt’altro genere: Roth, McCarthy e Eastwood diventano letappe di un’indagine sulla possibilità di restituire la figura del padre nel

9 M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Cortina, Milano 2010; eId., Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Cortina, Milano 2011.

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Ipermodernità:ipotesi per uncongedo dalpostmoderno

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tempo della sua evaporazione. L’altra faccia del disagio ipermoderno, in-fatti, è una volontà etica che si muove con categorie meno sfuggenti diquelle postmoderne e qualitativamente diverse da esse. Lo dimostranol’addomesticamento di Lacan compiuto da Recalcati (uso l’espressionenel senso in cui Habermas ha parlato di un’“urbanizzazione” di Heideggerda parte di Gadamer), il richiamo a principi di paternità metaforica e an-tiautoritaria, la vocazione alla cura. Del resto, letteratura e cinema sonopresi sul serio e fatti oggetto di domande che riguardano l’esperienza divita di chiunque: nulla a che vedere con gli interessi postmoderni che,infatti, ricadevano su un Hölderlin heidegerizzato, sul Rilke orfico e an-gelologo, o su un Kafka esoterico.

4. Ipermodernità letterariaNata dunque nella sociologia, assunta brillantemente dalla psicoanalisi,ma in attesa di definizioni filosofiche più acute, l’ipermodernità non èancora diventata una categoria della storiografia e della critica letteraria– e se ambisce a esserlo, sa comunque di scontrarsi, prima di tutto, conla radicata avversione alle grandi narrazioni e alla storia della letteraturache proprio il postmoderno ha consolidato. Senza dubbio, occorre pensareun modello storiografico che rifiuti il facile allineamento fra mutamentistrutturali e vita culturale, senza però rinunciare a leggere la seconda indialogo e in tensione con i primi. Se allora l’ipermodernità è anzitutto larisposta disincantata e critica alle illusioni postmoderne, gli indizi in let-teratura non mancano affatto. La letteratura postmoderna è stata accusata,da parte dei suoi avversari, di essere ideologica e organica rispetto allapostmodernità: quella dell’età ipermoderna, al contrario, si mostra dasubito come critica del presente. Lipovetsky sottolinea come l’ipermodernonon veda solo l’espansione del consumo e dell’edonismo (che, nella lorounilateralità, sono stati propri degli anni Ottanta in tutto il cosiddettomondo sviluppato), ma anche l’affermarsi di forme di solidarietà, di re-sponsabilità etica, di attivismo ecologico: una logica dell’emergenza (perusare l’espressione di Carla Benedetti), che impedisce di parlare di undominio attuale del nichilismo, giacché ne rappresenta un correttivo. Ladiagnosi di Lipovetsky, che si spinge a indicare l’affermarsi di un nuovoumanesimo, può convincere a patto di tenere fermo il senso del conflittoe di non scivolare, per scongiurare l’apocalisse in pantofole, in un otti-mismo altrettanto comodo. La storia non ha direzioni lineari: piuttostoche credere che sia già stato fatto e detto tutto, ci siamo abituati alla co-stanza del nuovo, senza aver fede però in nessuna favola sul progresso. Ilfuturo crea stupori di routine.

Anche per questo, ciò che è mutato è anzitutto la posizione intellettualedi chi scrive, e si sente chiamato a prendere la parola sul presente; con

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la conseguenza di un vistoso mutamento anche nella scelta dei temi dirappresentazione. È una forma di impegno? La categoria mi sembra lasca,impropria. Anzitutto, converrà ricordare che gli scrittori postmoderni,soprattutto in Italia, o preferivano non pronunciarsi sulla vita pubblica,o per farlo mettevano a punto una serie di figure dell’obliquità, dell’in-diretto, del mascheramento. La convinzione (espressa meglio di tutti daCalvino) era che quanto più la letteratura parlava di sé, tanto più potevadire qualcosa del mondo – ridotto così al pendant non scritto della scrit-tura e al fantasma proiettato dalle parole, tanto ostinato nei suoi ritornie nella sua muta presenza/assenza, quanto irraggiungibile bersaglio discongiuri ed esorcismi. In nessun modo parlerei dunque di un “impegnopostmoderno”: anche perché le strutture di integrazione sociale, politicae culturale che l’impegno prevede (i partiti-massa, la delega, l’investituradi ruolo…) non solo si sgretolano a partire dagli anni Sessanta, ma sonooggetto di rifiuto e polemiche.10 Neppure, però, parlerei di impegno perl’età ipermoderna, sebbene, con una netta inversione rispetto ai decenniprecedenti, scrittori e intellettuali sentano sempre più la necessità di pro-nunciarsi in modo diretto (e cioè senza maschere ironiche o metalette-rarie) sul presente. Dal punto di vista delle istituzioni politiche e culturalidi cui parlavo prima, la sostanza sembra poco cambiata, almeno in Occi-dente: il postmoderno ha segnato, sino ad ora, un punto di non ritorno.L’intellettuale o il narratore che discute le trasformazioni antropologichein atto, i conflitti etnici o la criminalità organizzata lo fa da solo, senzagaranzie ideologiche, privo di tutele partitiche, in cerca di un’udienzatrasversale. Per questo, parlerei di partecipazione civile; e così, l’interessee persino l’inflazione di temi tratti dalla cronaca, e che vanno dal preca-riato alle vite dei cosiddetti migranti, talvolta ridicolizzati come mode emodi per fare rapidamente audience, rivelano una trasformazione che sa-rebbe miope ignorare o censurare.

Rispetto al postmoderno, dunque, il passaggio verso l’ipermoderno sicompie in una pluralità di modi: scivolamento e trasformazione, enfatiz-zazione, declino e progressivo esaurimento. Più rara, invece, l’opposizioneaperta. Limitiamoci al caso italiano: se tra i critici della cultura il postmo-

10 Postmodern Impegno. Ethics and Commitment in Contemporary Italian Culture, edited by P. Antonelloand F. Mussgnug, Peter Lang, Oxford-Bern-Berlin-Bruxelles-Frankfurt am Main-New York-Wien2009. I due curatori, che seguono J. Burns, Fragments of Impegno. Interpretations of Commitment inContemporary Italian Narrative, 1980-2000, Northern Universities Press, Leeds 2001, sono consapevoliche la formula può suonare come «a category error, a contradiction-in-terms», ma intendono li-berarla «from any restrictive ideological embrace» (pp. 1, 10). In questo modo, però, si scivolanella genericità e si occulta un mutamento di paradigma intellettuale sia rispetto al clima del do-poguerra, sia rispetto al costume dominante sino alla metà degli anni Novanta. Non a caso, lamaggior parte dei saggi del volume esamina proprio l’arco cronologico che qui chiamo ipermo-derno.

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derno ha avuto avversari dichiarati e tenaci sin dagli anni Ottanta, gliscrittori di oggi che rivendichino la necessità di un distacco dal recentepassato sono pochi (e anzi, non sono mancati coloro che a inizio anniZero si sono pronunciati per un postmoderno italiano più deciso e ag-gressivo). Moresco ha combattuto, in Calvino, tutta un’idea di letteratura;i Wu Ming hanno fatto di New Italian Epic il manifesto del ripudio dei«giochetti» manieristici e autoreferenziali; eppure, Saviano presenta lasua volontà di una «parola diretta» ed efficace come un recupero dellalezione di Pasolini, piuttosto che come una presa di distanza da altri.

Riconosciuta questa postura, e individuati alcuni temi dell’immaginariocontemporaneo, resta da chiarire provvisoriamente se si possano ricono-scere alcune forme di un ipermoderno letterario.

5. La svolta narrativa. Fiction/non fictionUno dei primi mutamenti della letteratura a partire dalla metà degli anniNovanta è l’emergere di scritture di non fiction cui ha fatto seguito, al-meno in Italia e più di recente, un uso sempre più esteso delle etichettefiction e non fiction.11 La stessa adozione di queste categorie ridisegna ilpanorama: non solo essa definisce nuovi confini per il letterario, impe-dendo una distinzione semplicistica fra giornalismo e letteratura, cronacae romanzo, ma corrode il modo in cui siamo abituati a pensare la lette-ratura – che, del resto, non può essere tutta messa sotto l’etichetta di fic-tion. Il discrimine diventa, infatti, l’empiricamente dato, sul quale ognipretesa di verità rischia di essere schiacciata. La distinzione tra fiction enon fiction è dunque largamente abusiva e, per certi versi, primitiva erozza. Tuttavia, occorre riconoscerle un ruolo decisivo come sintomo delmutamento in atto: dove infatti il postmoderno affermava che tutto è fic-tion, e operava per la trasformazione in fiction degli elementi tratti dallacronaca e dalla storia, l’ipermoderno vede una resistenza alla finziona-lizzazione, che si compie (ma neppure lì incontrastata) nel dominio deimedia vecchi e nuovi. L’etichetta stessa di non fiction, che non riesce adesignare il proprio oggetto se non in negativo, rivela che questo va strap-pato appunto alla fiction.

Come leggere questa produzione? L’atteggiamento che ha preso piedeè quello di individuare la quantità di artificio, e quindi il tasso di fiction,

11 Rimando, per questo, al mio Angosce di derealizzazione. Non fiction e fiction nella narrativa italiana dioggi, in Finzione, cronaca, realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, acura di H. Serkowska, Transeuropa, Massa 2011, pp. 23-50. S. Ricciardi, Gli artifici della non-fiction.La messinscena narrativa in Albinati, Franchini, Veronesi, Transeuropa, Massa 2011, mette a fuocoproblemi e novità anche prima dell’uscita di Gomorra. Trovo giusto sostenere «l’insensatezza dicontinuare a definire la non-fiction in opposizione alla fiction» (ivi, p. 15), ma resta la necessità didistinguere i due campi.

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iscritto nella non fiction. Si tratta di una mossa in apparenza controintui-tiva, giacché cerca, se non il falso là dove si fa mostra del vero, almeno ilmediato e il costruito là dove dovrebbero esserci l’immediato e il ripro-dotto. Invece, è una mossa ambigua e poco convincente. Da un lato, l’ideache ogni scrittura sia artificio e fiction è stabilmente insediata nella dottrinacritica e nella cultura postmoderna: riaffermarla una volta di più vuoldire occultare un cambiamento di paradigma. Gomorra non è Hylarotra-goedia: questa letteratura combatte la finzionalizzazione universale, proprioperché ci fa i conti. Dall’altro lato, infatti, una lettura come questa sembracoltivare in negativo il mito di una mimesi diretta e immediata, nella qualenon si vede chi possa credere se non appunto, alla fine, i suoi denegatori.Ogni rappresentazione ha una forma, ogni racconto è costruito, ogniscrittura è – in senso strettamente letterale – un artefatto; ma questo nonsignifica che ogni rappresentazione, ogni racconto, ogni scrittura sia fic-tion, cioè (e qui scatta l’ambiguità del termine) finzione, menzogna, in-ganno.

Certo, e pure nella loro varietà, queste forme di narrazione recuperanospesso stilemi del vecchio romanzo, demoliti dall’antinaturalismo moder-nista (quando non dallo stesso naturalismo) e ormai caduti in desuetudine:la ricostruzione delle circostanze di tempo e di spazio, la descrizione, lapresentazione dei personaggi, il ritratto psicologico tipico, lo scrupolodocumentario. Tuttavia, da un lato l’etichetta di non fiction novel non sem-pre si può adattare a questi libri; dall’altro, essa impedisce di vederne lanovità, che sta fuori di una pur effettiva ripresa della tradizione otto-no-vecentesca o, per meglio dire, di una scelta, al suo interno, di elementicui prestare un altro ruolo. Di fatto, difficilmente questi libri riprendonola narrazione progressiva e comunque obbligatoriamente orientata delromanzo. Gli esempi italiani sono parlanti. In Campo del sangue e nellaCittà dei ragazzi di Affinati, o in Maggio selvaggio di Albinati, la progressionesembra mantenuta, poiché se ne assume la forma più elementare: il mo-dello è infatti il diario, ora esibito, ora nascosto. Eppure, sebbene registrinoi fatti nel punto più vicino al loro svolgersi, questi diari sono estranei allateleologia romanzesca, nonostante la riscrittura finale; inoltre, il raccontosvaria di continuo in una riflessione e in un diario di letture (di qui la fre-quenza di estese citazioni da opere altrui) che si sottraggono a una tem-poralità narrativa lineare. Anche per quei libri che hanno fatto invocarecon qualche maggiore pertinenza il non fiction novel, la categoria mi sembraimpropria. In Gladiatori di Franchini, in Cibo di Janeczek o in Gomorra ilpasso saggistico e dimostrativo consente un andamento narrativo abba-stanza rapsodico e rivela una strutturazione tematica. Così, elementi e at-mosfera della letteratura di genere e del poliziesco o noir (reperibili inGomorra o ancora nell’Abusivo di Franchini) sono dissolti in una strutturache può rinunciare al primo motore di quella narrativa: la suspense. Sem-

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mai, conta che per una materia potenzialmente saggistica questi autoriabbiano scelto invece una forma comunque narrativa (e, val la pena diripetere, non romanzesca). Come molti critici degli ultimi decenni, essicredono che il racconto sia un modo del pensiero e della comprensione.E, in questo, stanno in quel successo dello storytelling che si è manifestatoanche nel marketing a partire dalla metà degli anni Novanta, cioè in sin-cronia con l’ipermoderno.12 Ben inteso, i narratori possono avere fini di-vergenti da quelli dei pubblicitari (anche se nulla garantisce che i primisiano tutti animati dall’intento di demistificare, e i secondi chini solo sullamistificazione); eppure, come loro, cercano forme di racconto che, cadutele grandi narrazioni, consentano di orientare la comprensione del quo-tidiano facendo leva anche sulla soggettività e l’emotività e spesso propo-nendo modelli positivi di comportamento. Se il postmoderno era statosegnato dalla svolta linguistica, l’ipermoderno è segnato invece da unasvolta narrativa.

Di fatto, il non fiction novel (quello alla In cold blood, insomma) da noipaga dazi così pesanti, da riuscirne trasformato. Se moltissimi noir hannoaccolto elementi riconoscibili della cronaca, li hanno però piegati a ungenere così codificato, da imporre schemi rappresentativi e interpretativicostretti e immiserenti. D’altro lato, è significativo che anche dove l’empiriasia mostrata e inseguita con particolare accanimento, gli effetti possanoessere opposti rispetto a quelli del non fiction novel. In Elisabeth, Sortinoracconta la vicenda di Elisabeth Fritzl, che, sequestrata dal padre e vio-lentata, partorisce i figli nati dall’incesto. Eppure, dove un non fiction novelavrebbe mosso verso l’accertamento dei fatti e la ricostruzione documen-taria, animato dal pathos della rivelazione di verità ignote, qui, al contrario,si parte da quanto cronache e processi hanno già detto, per andare versola visionarietà e l’ambiguità.13 Del resto, mentre la non fiction indaga conestreme cautele il mondo interiore dei personaggi che mette in scena, eal quale si può avere accesso solo a patto di cedere loro direttamente laparola, Sortino ritaglia proprio sul mondo interiore lo spazio dell’inven-zione, secondo la più classica delle poetiche romanzesche.14

6. Documenti: poetiche della realtà e declino dell’autonomia esteticaElisabeth a parte, dunque, converrebbe chiamare questi libri di non fictionnarrazioni documentarie, in ragione del modo in cui sono costruiti. Se

12 Ch. Salomon, Storytelling. La Machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits, La Découverte,Paris 2007.

13 G. Simonetti, Il sottosuolo. Su «Elisabeth» di Paolo Sortino (e sul romanzo contemporaneo), in http://www.le-paroleelecose.it/?p=993.

14 D. Cohn, The Distinction of Fiction, The Johns Hopkins University Press, Baltimore- London 1999.

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ne mette in luce così solo un lato (fra gli altri, ci sono, come abbiamovisto, la tendenza al saggismo e, come vedremo, una poetica testimoniale);eppure è un lato determinante, che permette di scansare qualche equi-voco. In primo luogo, quello della referenzialità: non solo perché referentesarebbe usato qui in modo inesatto (anche l’ippogrifo e don Chisciotte,in termini linguistici, hanno un referente), ma perché non si può nascon-dere lo scandalo più duro da digerire, e cioè che questa letteratura, po-nendo dei limiti all’invenzione e misurandosi con l’empirico, minacciala nostra stessa idea consueta di letteratura. Parlare di documenti, invece,vuol dire da subito allontanare lo spettro di un accesso immediato allarealtà: il documento è un atto scritto, sottoposto a una validazione pub-blica, in cui chi scrive si assume una duplice responsabilità di fronte allacosa e di fronte a coloro cui si rivolge.15 Dichiarando una conformità alvero, il documento impegna eticamente chi lo produce o lo riporta, nefonda l’autorevolezza, ma insieme ne limita la soggettività. La realtà, in-somma, non è oggetto di alcun rispecchiamento, ma viene messa nel cam-po di una contrattazione sociale. Realtà, appunto, con il suo corredo dicronache, casi giudiziari, vicende da studio sociologico, tabelle statistiche.Continuo a preferire la banalità di questa designazione, perché ciò di cuiparliamo qui è sì qualcosa che oppone resistenza alla scrittura, ma nonè quello che Lacan ha definito Reale, e che è diventato costume richiamaresempre più spesso. Questo non esclude affatto che, in altri casi, ci si trovidi fronte a forme di realismo traumatico, analoghe a quelle di cui parlaFoster per Wahrol, intendendole come ripetizione anziché riproduzionemimetica.16 La loro retorica narrativa sarà però di altro tipo, e si fonderàsu figure di rimozione, spostamento, elusione: il problema sarà aggirareun non dicibile, piuttosto che inscenarlo in una coazione (che, del resto,chiederebbe forme sperimentali di frammentazione del plot).17 Il docu-mento muove invece in direzioni che hanno poco a che fare con il trauma,né basta che il trauma, vero o potenziale, sia materia del contenuto. Fainsomma bene chi mette in guardia dagli abusi che quest’ultimo concettoconosce oggi.18 Anche per questa via, si apre una sensibile asimmetria traqueste poetiche di realtà e il ritorno del reale di cui Foster ha parlato giu-stamente per le arti figurative. Del resto, mentre là è molto forte la con-

15 Su questi temi ha costruito la sua ontologia degli oggetti sociali M. Ferraris, Documentalità. Perchéè necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009. Per quanto apprezzi il rasoio di Ockham, le tesidi questo libro mi appaiono segnate talvolta da un certo semplicismo (a Platone, Kant e Nietzschesi contrappone con affabile baldanza la retorica del «banalmente»). Tuttavia, la radicalità di Ferrarismi pare molto adatta a spiegare i termini in cui si pone oggi il dibattito intorno a letteratura erealtà, fiction e non fiction.

16 Foster, Il ritorno del reale, cit., pp. 133-145. 17 Ne accenno in Nuovi realismi e persistenze postmoderne, cit., pp. 44-47. 18 D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Quodlibet, Macerata

2011, pp. 7-11.

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tinuità con le avanguardie, in letteratura è stato compito del postmodernoliquidarle, così che, oggi, esse appaiono lontane o destinate a riemersionisporadiche e localizzate.

Se dunque nei libri di non fiction si affollano citazioni, riferimenti, corredibibliografici, non è per testualizzare postmodernamente il mondo, ma,al contrario, per additarlo in quelle forme mediate che sono le unichepossibili.19 La poetica documentaria ipermoderna è ben distinta da quellanaturalista: mentre i naturalisti intendevano produrre un’opera che fosseessa stessa, anche, documento, nascondendo e riassorbendo le fonti neltessuto della narrazione (come accade, per esempio, a Verga con l’inchie-sta di Franchetti e Sonnino), ora la fonte è esibita nella sua lettera e nellasua alterità. Il racconto diventa così plurivoco per statuto, e tende a mol-tiplicare le marche di responsabilità: quella di chi ha prodotto il docu-mento (che è sempre firmato), e quella duplice dell’autore, che racco-gliendolo ne conferma l’autorevolezza, come il testimone a un processo,e ne fa un fondamento dell’autorevolezza propria. Tra documento e testod’autore non si compie però nessun’altra equiparazione che sul pianodella responsabilità. Proprio la virgolettatura e la citazione, infatti, isolanoil documento dalla scrittura che, dunque, pretende al suo trascendimento.Resta il fatto che il documento è parola sociale – anzi, fondamento stessodella socialità – e verificabile: l’extralocalità che il narratore si attribuisceè dunque sottoposta a vincoli, che stanno anzitutto nel rispetto della fontee che perciò risultano anche più forti di quelli dei naturalisti (dove, infatti,la fonte era nascosta, manipolata e sottratta al controllo del lettore).

Il realismo documentario (ed è il secondo equivoco da fugare) rivelaun rapporto fra narrazione e cronaca diverso da quello dei romanzi ot-tocenteschi. Da Stendhal a Flaubert a Dostoevskij, la grande narrativa siè sempre nutrita di fatti che le giungevano dalla cronaca giornalistica:20

dietro Julien Sorel, o Emma Bovary, o Raskolnikov ci sono le vicende diindividui reali, di cui, però, solo gli specialisti ricordano il nome – e giu-stamente, poiché la loro esistenza non è un tratto pertinente nella frui-zione e nella stessa costruzione dell’opera. Chi invece leggesse Gomorradimenticando che i Casalesi esistono, o L’abusivo come se Siani non fossestato assassinato davvero, snaturerebbe quelle opere. Una misinterpreta-zione del genere è possibile, come dimostrano coloro che definisconoGomorra un romanzo; forse, è quasi inevitabile che scatti con il tempo. Sipuò leggere Tucidide come Omero, e figurarsi Pericle al pari di Achille;

19 Ferraris, Documentalità, cit., pp. XII-XV e passim, dichiara il principio secondo cui «nulla di socialeesiste al di fuori del testo» in esplicita polemica contro il testualismo integrale postmoderno e inparticolare derridiano.

20 Per quest’ordine di problemi è molto utile C. Bertoni, Letteratura e giornalismo, Carocci, Roma2009.

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ma si tratta, appunto, di una misintepretazione. Mentre infatti Stendhal,Flaubert o Dostoevskij occultavano la cronaca, cancellando i nomi propri,le narrazioni documentarie esibiscono l’una e gli altri, così che dove ilnome proprio venga taciuto, sostituito o ridotto a un’iniziale, questa ope-razione è dichiarata e l’anagrafe salva.

Proprio questo scrupolo di esattezza acuisce i contrasti con tutto quantosia sospetto, invece, di essere stato inventato. Perciò le narrazioni docu-mentarie intrattengono con i fatti un rapporto molto diverso da quellodel romanzo storico, dove al contrario la mescolanza di verità appuratae di invenzione è statutaria e gli attriti tendono a essere smussati o neu-tralizzati. Se il romanzo storico, come ogni narrazione letteraria cui siamoabituati, chiede la volontaria sospensione dell’incredulità, i racconti do-cumentari in qualche modo sfidano sempre l’incredibilità, e debbonoguadagnarsi a fatica un credito.

Il primo corollario che se ne può trarre è che il romanzo storico, ri-vendicato da qualcuno come forma nuova, non lo è affatto anzitutto per-ché evade il problema del rapporto tra fiction e non fiction nei terminiin cui lo pone la cultura ipermoderna – e del resto, la sua rinascita dataproprio al postmoderno, di cui è un contrassegno.21 Il secondo, e più im-portante, riguarda lo statuto di questi testi, che, mentre adottano i modidi qualcosa che non è tradizionalmente letterario (si chiami reportage,giornalismo, non fiction), tuttavia intendono ancora essere letteratura.Non è l’ambiguità postmoderna, che punta all’indecidibilità; è semmaiun’ambivalenza ipermoderna, che mantiene la tensione. Il documentostesso, in quanto realtà già scritta, manifesta questa natura duplice. Inoltre,il documento ha un carattere performativo: esso non si limita a registrare,ma pone in essere. Una poetica documentaria ha dunque finalità pratiche,morali, civili: in ogni caso, extraletterarie. Essa guarda alla realtà non solocome alla propria origine, ma come al proprio fine, sia in un’accezionemassimalista (mutare un ordine di cose), sia in una minimale (ristabilireuna verità disconosciuta e produrre un mutamento nelle coscienze).22

Proprio qui si fissa un’idea di letteratura che non è né moderna, né post-moderna: a essere di fatto respinte sono l’autonomia dell’estetico e l’este-tizzazione diffusa. Questa letteratura si rifiuta di essere separata; e perquesto si attira censure così violente. L’ipermoderno gioca così la cartadell’impuro. Sotto i nomi di documento e di realtà sta appunto questoscandalo.

21 M. Ganeri, Il romanzo storico in Italia. Il dibattito critico dalle origini al post-moderno, Manni, Lecce 1999,pp. 101-124.

22 Come riassume Ferraris, Documentalità, cit., p. 361, «i documenti hanno delle finalità pratiche, op-pure mirano principalmente alla evocazione di sentimenti».

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7. Testimonianze: poetiche della verità e riabilitazione del soggettoLa poetica del documento non esaurisce le aspirazioni di questa lettera-tura. La mediazione soggettiva è sempre così decisiva, da conferire al nar-ratore la natura di testimone. Si tratta di due tendenze distinte, ma cheinterferiscono: lo mostrano bene, tra gli altri, gli scrittori italiani di secondagenerazione (formula certo preferibile a quella di scrittori della migra-zione), che rappresentano uno dei fenomeni più nuovi dell’ipermodernoitaliano.23

Sui problemi connessi alla nozione di testimone rifletteva qualcheanno fa Agamben. In primo luogo, distingueva fra due accezioni del ter-mine: il testimone può essere testis, cioè il terzo che depone per qualcosadi cui c’è contesa pubblica; o superstes, cioè colui che ha preso parte aifatti di cui riferisce (e, al limite, martis, colui che rende ragione di quantoè accaduto con la propria esistenza).24 In secondo luogo, ricordando cheil testimone parla per la verità e la giustizia, spiegava l’irriducibilità dellaquaestio facti alla quaestio iuris, poiché «vi è una consistenza non giuridicadella verità». Compito del diritto è pronunciare un giudizio, e non, pro-priamente, dire la verità o stabilire ciò che è eticamente giusto: questealtre diventano le prerogative del testimone. Un realismo testimoniale,allora, sebbene possa farne le viste, non reclama tanto la sua fedeltà allecose come sono andate, quanto la necessità di dire un vero che esorbitadai limiti dell’empiricamente accaduto. Se la cultura postmoderna inten-deva abbattere la verità come un idolo vuoto e minaccioso, l’ipermodernotende a ristabilirne i diritti, in modo antidogmatico e, anzi, attraversandolo scetticismo postmoderno.25

La testimonianza scavalca il documento, come la verità oltrepassa larealtà: se la prima convoca la responsabilità di chi la enuncia, la secondanon ne ha bisogno, poiché esiste indipendentemente dai nostri enuncia-ti.26 La verità è quello di cui dobbiamo essere persuasi, la realtà è ciò chebisogna mostrare; a differenza della realtà, la verità è il campo della re-

23 D. Brogi, Smettiamo di chiamarla «letteratura della migrazione»?, in http://www.nazioneindiana.com/2011/03/23/smettiamo-di-chiamarla-«letteratura-della-migrazione»/.

24 Piego qui alle necessità del mio discorso, a volte contravvenendo ad alcune sue raccomandazioni,G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998, inparticolare pp. 13-36.

25 Il tema è tornato di attualità: accanto alle posizioni ancora postmoderne di chi ne nega il valore(Rorty, Vattimo), si assiste a una sua prudente rivalutazione. Fra i testi più interessanti usciti di re-cente mi limito a segnalare P. Engel, R. Rorty, A cosa serve la verità?, il Mulino, Bologna 2007; D.Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino 2007; G. Vattimo, Addio alla verità, Mel-temi, Roma 2009; F. D’Agostini, Introduzione alla verità, Bollati Boringhieri, Torino 2011.

26 Ferraris, Documentalità, cit., pp. 92-94. P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare,testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 6, sottolinea che la forza della testimonianza«non sta nella sua corrispondenza ai fatti»: essa va piuttosto pensata come un «enunciato incoativo»che impegna a un «compito etico».

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torica: è la porta, insomma, attraverso cui le poetiche documentarie riac-colgono quei principi intorno ai quali tradizionalmente si è costruita lanostra idea di letteratura che, pure, corrodevano insidiosamente. È questoche legittima quel tasso di finzione, quella quota ineliminabile di ritualitàformale e di messa in maschera senza cui non esiste letteratura; e, perriaprire il contrasto, lo legittima eticamente. Per questo Walter Siti puòraccontare del suo omonimo cose che lui, in prima persona, non ha maifatto, trovando una giustificazione di senso alla menzogna; ma per questoRoberto Saviano può narrare in Gomorra episodi che appaiono improbabilio inventati.27

Posta l’impossibilità di far coincidere documento e testimonianza,realtà e verità, si capisce perché sia negli autori, sia nei lettori e nei critici,l’ossessione del come-davvero-sono-andate-le-cose operi nel momentostesso in cui la scrittura sembra metterla fuori gioco. La verità combattecontro il puro ordine dei fatti, senza riuscire a emanciparsene sino in fon-do. Sempre sull’orlo di essere ridotto a fantasma dell’invadenza mediatica,e da anni di testualismo più o meno radicale, l’empirico si difende facendola voce grossa. Il realismo testimoniale e le scritture dell’io mettono inscena questo conflitto, non il gioco postmoderno della finzionalizzazioneuniversale, né una supposta brutalità neorealistica.

È ancora Agamben a rileggere la nozione di autore insieme a quelladi testimone, nei significati chiariti prima: «auctor indica il testimone inquanto la sua testimonianza presuppone sempre qualcosa – fatto, cosa oparola – che gli preesiste, e la cui realtà e forza devono essere certificate»;e aggiunge: «la testimonianza è […] sempre un atto di “autore”, implicasempre una dualità essenziale, in cui una insufficienza o una incapacitàvengono integrate e fatte valere».28 Agamben, che certo non è accusabiledi rozzezze neorealistiche, sgombra anzitutto il campo dal partito presoanti-referenziale dei postmoderni: il realismo testimoniale è quello chepiù si confronta con i limiti della scrittura di fronte ai fatti già consumati,alle cose che sono o sono state, alle parole pronunciate da altri (senza es-sere però preso nel gioco di specchi della riscrittura). Per questo, credo,parla di presupposizione: il termine lascia impregiudicato il rapporto trala scrittura e il mondo testimoniato, ma esclude illusioni di rispecchia-mento o di immediatezza. Al contrario, esiste sempre una mediazione,

27 Il censore più implacabile è A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Manifestolibri,Roma 2010, secondo cui Saviano ha costruito un libro che non è «mera fiction» e «nemmeno do-cufiction», ma surrettizia «docu/fiction, ovvero narrazione “a piega”, in cui finzione letteraria e fun-zione documentaria si implicano, a ogni pagina» (p. 36). In questo modo, il lettore è di fronte aun libro in cui «non è presentata alcuna documentazione» e dove il peso dell’effetto-verità gravatutto sull’io-testimone (pp. 30-32): Dal Lago depreca come vizio e truffa quello che è invece ilbello di Gomorra e che, oltretutto, ne rivela la natura letteraria.

28 Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., pp. 139-140.

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che è garantita appunto dall’autore-testimone. Quanto a quest’ultimo, ilrecupero dell’io e della coscienza è problematico e aperto: per Agamben,il testimone è sempre preso in un duplice processo di soggettivazione edesoggettivazione; inoltre, la testimonianza prevede sempre un’«insuffi-cienza» o «incapacità», che segna la sua responsabilità etica, più che versola scrittura (secondo un refrain anni Sessanta), verso ciò che è testimoniatoe che, come dicevamo sopra, non può essere ridotto all’empirico.

L’io posto a fondamento della scrittura testimoniale è precario, instabile,dubitoso, ma tenace. La strada percorsa dagli scrittori ipermoderni è dunqueopposta sia a quella modernista (dove il problema era appunto disarcionarel’io, abbassandolo o disgregandolo), sia a quella postmoderna (che procla-mava, invece, la morte del soggetto e dell’autore). In questo senso, la scrit-tura testimoniale non può essere ridotta in alcun modo alle pratiche de-realizzanti postmoderne (poiché la desoggettivazione è solo un momentodella testimonianza, che prevede pure la soggettivazione), e neppure almodernismo, che invece ha combattuto contro l’io battaglie senza numero.È in effetti questo che la cultura ipermoderna registra, e per cui molta fi-losofia contemporanea lavora: la riabilitazione del soggetto.29

8. Autofiction ed espansione delle scritture dell’ioContro il mito postmoderno della morte del soggetto, la presa di parolaindividuale è uno dei fenomeni tipici dell’ipermoderno, insieme fomen-tato e svalutato dalla rete. L’io appare carico di responsabilità e di inve-stimenti che lo riscattano e, insieme, finiscono per renderlo fragile.30 Al-l’interno di questo riemergere della funzione soggettiva, come pure delridisegnarsi dei confini tra fiction e non fiction, occupa uno spazio centraleun nuovo genere letterario, la cui nascita (o meglio, la nascita della cuidesignazione) si compie nel 1977 con Serge Doubrovsky.31 Legato alla

29 L’affermazione che non ci sarebbe ora un ritorno al soggetto, perché il soggetto non è mai uscitodi scena, è una mossa retorica che convalida il nuovo clima filosofico e scredita quanti per annihanno proclamato appunto la morte del soggetto (cfr. V. Descombes, Ch. Larmore, Dernières nou-velles du moi, Presses Universitaires de France, Paris 2009, p. 74). Oltre a quel libro, su questo temasegnalo a titolo di esempio Ch. Larmore, Pratiche dell’io [2004], Meltemi, Roma 2006, oppure R.Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano 2002; M. Nussbaum,L’intelligenza delle emozioni [2001], il Mulino, Bologna 2004; P. Ricœur, Soi-même comme un autre,Seuil, Paris 1990.

30 Lipovetsy, Charles, Les Temps hypermodernes, cit., pp. 74-82. 31 L’interesse sull’autofiction è sempre più grande. Ho tenuto presente Ph. Forest, Il romanzo, l’io.

Nella vertigine dell’identità [2001], Rizzoli, Milano 2004; Ph. Gasparini, Autofiction. Une aventure dulangage, Seuil, Paris 2008 (lo studio più sistematico, almeno per la Francia); Ch. Delaume, La Règledu je, Presses Universitaires de France, Paris 2010 (che sottolinea la natura etica e il valore perfor-mativo del genere); V. Martemucci, L’autofiction nella narrativa italiana degli ultimi anni. Una rassegnacritica e un incontro con gli autori, in «Contemporanea», 6, 2008, pp. 159-188; Giglioli, Senza trauma,cit., pp. 53-100.

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nouvelle critique, da cui pure prenderà le distanze, egli presenta così Fils,libro in cui, nei modi del nouveau roman, narra una giornata ripercorrendoalcuni momenti centrali della propria vita anche grazie a una seduta psi-coanalitica:

Autobiographie? Non, c’est un privilège réservé aux importants de cemonde, au soir de leur vie, et dans un beau style. Fiction, d’événementset de faits strictement réels; si l’on veut, autofiction, d’avoir confié le langaged’une aventure à l’aventure du langage, hors sagesse et hors syntaxe duroman, traditionnel ou nouveau. Rencontres, fils des mots, allitérations,assonances, dissonances, écriture d’avant ou d’après littérature, concrète,comme on dit musique. Ou encore, autofriction, patiemment onaniste,qui espère faire maintenant partager son plaisir.32

Protagonista e narratore del libro è lo stesso Doubrovsky, che si attri-buisce i propri tratti verificabili e cita amici e conoscenti con i loro nomi:influenzato dalla lettura del Pacte autobiographique di Lejeune, uscito nel1975, egli dispone però i fatti della propria vita in una trama verbale vi-stosamente artificiosa, e in una struttura temporale che non ha corrispettivinell’autobiografia classica ma semmai richiama il romanzo modernista,Ulysses in testa. Molto di questa definizione ha il colore del tempo: l’enfasisul linguaggio, la polemica contro il romanzo, il proclama di sperimen-talismo, il richiamo alle nuove avanguardie, la poetica della riscrittura. Eper paradosso, restano sullo sfondo gli elementi più nuovi e problematici:cosa vuol dire raccontare se stessi in un libro che si dichiara finzionale?che io è quello messo qui in scena? che rapporto c’è fra invenzione ro-manzesca e patto autobiografico?

Come prevedibile, la definizione di Doubrovsky si presta male a de-scrivere quello che l’autofiction sarebbe diventata; soprattutto perché at-tribuisce al termine fiction (struttura verbale artefatta, quindi letteraria)un significato che non coincide con quello impostosi oggi (narrazioneche si sottrae a una verifica empirica di realtà). Di fatto, in Fils Doubrovskyinventa poco, o per meglio dire inventa cose che non si segnalano subitocome inventate (per esempio, il lungo capitolo sulla seduta analitica,Rêves, ha un’esattezza improbabile). Le definizioni correnti di questo ge-nere (perché tale lo considererei) sono molte, contrastanti e talora for-temente equivoche. Chiarisco allora da subito che per autofiction intendocon prudenza una narrazione in cui, come in un’autobiografia, autore,narratore e protagonista coincidono; ma in cui, come in un romanzo, ilprotagonista compie atti che l’autore non ha mai compiuto, e ai fatti ri-conosciuti come empiricamente accaduti si mescolano eventi riconoscibilicome non accaduti. Anzi, in molte autofiction la derivazione autobiografica

32 S. Doubrovsky, Fils [1977], Gallimard, Paris 2001, p. 10.

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collutta teatralmente con il romanzesco nelle sue forme più codificate eirrealistiche. In Lunar Park, Breat Easton Ellis si proietta in un horror pa-ranormale; nella Carta e il territorio Houellebecq si fa uccidere in un poli-ziesco truculento alla Silenzio degli innocenti; in Dies irae Genna interpolafantascienza e, di nuovo, paranormale; nella Vita oscena (sul cui statuto,però, occorre tornare), Nove attraversa un catalogo di perversioni da por-nografia sadiana; la pornografia è rifatta iperbolicamente anche in Ka-mikaze d’Occidente di Scarpa, dove si mescola al finto diario; in Sono l’ultimoa scendere Mozzi assume la maschera di un personaggio da gag comica, siapure senza abbandonare mai il verosimile. Autofiction e letteratura di ge-nere, insomma, non sono solo e necessariamente in opposizione:33 al con-trario, è appunto l’esibizione di elementi di genere a rivelare il caratterefinzionale di un testo.

Altrimenti, non è facile dire cosa sia autofiction e cosa autobiografia.Quanto più è forte l’illusione realistica, tanto più è difficile, in mancanzadi marche esterne, stabilire i confini tra i due generi. In effetti, cosa, senon le dichiarazioni preliminari dell’autore, ci permette di dire che Sitinon ha vissuto quello che racconta di Walter nella sua trilogia? Inseguirela strada della verifica dei fatti è fuorviante, oltreché impossibile: rivelal’insensatezza della distinzione tra fiction e non fiction proprio in uno deigeneri che più la convocano, predisponendo a volte una trappola com-piaciuta e perversa. E tuttavia, più che sull’ambiguità, mi pare che persinoSiti (un vero maestro, anche da questo punto di vista) giochi sull’ambiva-lenza: posto che l’autore sollecita a domandarsi quale episodio sia vero equale inventato, e posto che la ricerca è oziosa, il testo funziona sulla ten-sione fra verità e menzogna e non arriva a vanificarla neppure quando lemescola, le offusca e presta all’una i panni dell’altra. Ciò che conta è, inultima analisi, il patto di lettura stabilito spesso più nel paratesto che neltesto. Così, siamo tenuti a credere che le Lettere a nessuno di Moresco, anchenella loro edizione aumentata e nella loro seconda parte, non siano auto-fiction (un palese elemento di autofiction, invece, compare alla fine diCanti del caos, quando il Matto si attribuisce il nome di Antonio Moresco).Per converso, siamo tenuti a leggere come autofiction La vita oscena, anzichécome racconto in prima persona al modo di Superwoobinda (dove, del resto,un «Aldo Nove, lo scrittore che piace» compare, con i suoi tratti anagraficie la stessa idiozia dei suoi personaggi-narratori): sebbene non ci sia alcunaautonominazione, nelle interviste l’autore ha sempre presentato quelleesperienze come proprie, portando verso l’autobiografia quello che la de-riva allucinatoria del racconto trascinerebbe lontano da essa. L’effetto au-tofinzionale è costruito questa volta non dalle soglie del testo, ma dal mag-

33 Come vuole Giglioli, Senza trauma, cit., pp. 22-23. La distinzione, comunque, conserva un’indubbiaefficacia argomentativa e didattica.

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ma mediatico in cui è immerso, e che include interventi o interviste sullastampa, in rete, in televisione. Con questo, la narrativa degli ultimi anninon espunge completamente l’ambiguità: Stanza 411 di Simona Vinci èun’autobiografia in cui l’autrice tace il proprio nome e quello dell’uomocon cui ha avuto una relazione (le cui iniziali, T. V., però, sono le stesse diVitaliano Trevisan), un’autofiction, un racconto autobiografico, o un rac-conto in prima persona? A sciogliere il dubbio, manca la stipula chiara diun patto di lettura: la quarta di copertina parla di «romanzo», senza peròcancellare un sapore netto di “storia vera”.

Dunque, le distinzioni vanno fatte, sebbene talvolta si punti a inquinarle.Per comprendere la natura dell’autofiction, occorrerà pensarla, come di-cevamo, non solo nell’interazione tra fiction e non fiction, ma nell’espan-sione (o forse, addirittura, istituzionalizzazione) delle scritture dell’iopropria dell’ipermoderno. Leggere l’autofiction in questa costellazionenon è meno importante che trovarle un luogo specifico e inconfondibile.Per scritture dell’io intendo libri di natura molto diversa: e limitiamocialla narrativa, perché anche le varie forme di personal essay rientrerebberoa pieno titolo in questa categoria. Anzitutto, ci sono i romanzi in primapersona, che hanno una diffusione pandemica: qui, al di là delle distinzioninarratologiche, resta da spiegare perché si avverta il bisogno di narrarein prima persona, cedendo la parola al personaggio. Tutt’altra cosa sonoi romanzi autobiografici (cioè, la cui materia attinge al vissuto di chi li hascritti), genere anche questo per nulla nuovo, e con il quale alcuni con-fondono impropriamente l’autofiction: dove infatti i nomi di autore, nar-ratore e protagonista non coincidono il testo è stato costruito in tutt’altromodo, e invoca una lettura di tutt’altro tipo. Non si leggono la Rechercheo il Werther come Guerra e pace; ma neppure come le Confessions. Infine, cisono appunto le autobiografie e i memoirs (se ne sono pubblicati molti,in questi ultimi anni), la cui differenza non è di natura ma di taglio. Comesintetizza brillantemente Gore Vidal, «un libro di memorie è il modo incui si ricorda la propria vita; mentre un’autobiografia è storia, richiedericerca, date e fatti da controllare e ricontrollare»:34 dove la seconda tendeal resoconto ordinato, documentato e teleologico, il primo intreccia pre-sente e passato, riflette su alcuni temi generali (spesso, legati ad aspettidell’identità o della storia collettiva), enfatizza la testimonianza soggettiva.Ma entrambi pretendono a un grado di veridicità che nessuno chiede-rebbe a un romanzo, sebbene nessuno crede sia possibile garantirlo sinoin fondo. Così, anche quando allude a una mistione di verità e bugie, ilmemoir finisce con il far prevalere i diritti della verità. Vidal stesso, che co-mincia chiedendosi se quello che ci presenta è un «ordito di menzogne»,

34 G. Vidal, Palinsesto. Una memoria [1995], trad. it. di M. Bartocci, Fazi, Roma 2000, p. 10.

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subito corregge il tiro rivendicando la propria attendibilità, poiché «nonsi riferisce tanto alle proprie menzogne quanto a quelle altrui».35 Più com-plesso, ma analogo nel risultato, è Il velo nero: Rick Moody tesse tutto ilracconto su un parallelo fra la propria storia e quella del pastore JosephMoody, ispiratore di un racconto di Hawthorne che la tradizione familiarevoleva come proprio avo, ma alla fine scopre di non avere con lui alcunaparentela. Il senso del memoir sta proprio in una doppia denuncia, e quindiin un doppio ristabilimento della verità: se la «stirpe» dell’autore «percentinaia d’anni o più aveva mentito sulle proprie origini», lui ne è il miglior«esempio» in quanto è «un narratore, un fornitore di adulazione, unesperto di fittizie liti e drammi»;36 insieme, però, scrivendo sbugiarda lefavole. Per questo, neppure Moody è un narratore inattendibile, e con-clude il libro senza conciliazioni, riconoscendo anzi che immaginazionee menzogna collaborano alla costruzione reale di sé. Il velo nero finiscedunque con il dimostrare quanto sia illegittimo ricondurre senza scartialla fiction qualunque scrittura: autobiografie e memoirs, insomma, nonsono autofiction.

Ma l’autofiction non è forse un genere postmoderno? Doubrovsky stesso,a partire dagli anni Novanta, si è pronunciato in questo senso; e non pochil’hanno seguito.37 Naturalmente, esistono autofiction postmoderne (anchese, forse, Fils non è l’esempio più calzante); ma questo genere segnalamolto meglio uno spostamento rispetto al postmoderno, da cui prendele mosse per muoversi in direzione ipermoderna.

Il caso più interessante, appunto perché percorre le diverse possibilitàdelle scritture dell’io, è offerto da Philip Roth, cioè da uno degli autoripiù grandi della nuova letteratura. I romanzi in cui Roth mette in scenai propri alter ego, come Portnoy o Zuckerman, non sono qui pertinenti;ci interessano invece Patrimony (1991), Operation Shylock (1993), The PlotAgainst America (2004). Partiamo dall’ultimo, un’ucronia in cui si immaginala vittoria dell’antisemita Lindbergh alle elezioni presidenziali americanedel 1940, un avvicinamento degli Stati Uniti alla Germania hitleriana elo scatenarsi di pogrom, sino alla scomparsa di Lindbergh e all’elezionedi Roosvelt, che ricondurrà la storia al suo corso registrato. Il narratoreè Philip Roth, che, bambino all’epoca dei fatti, mette in scena se stesso(attribuendosi, però, una parte defilata in quanto personaggio) e membridella propria famiglia, oltre, naturalmente, a personaggi storici noti e ri-conoscibili. La distanza tra realtà autobiografica e autofiction è qui massima:Roth narra una storia immaginaria, e presta a se stesso una vita che nep-

35 Ivi, p. 7. 36 R. Moody, Il velo nero [2002], trad. it. di L. Vighi, Bompiani, Milano 2005, pp. 353 e 344 (il c.vo su

«proprie» è mio). 37 Gasparini, Autofiction, cit., pp. 214-222.

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pure potrebbe aver vissuto. Tuttavia, la finzione deve la sua efficacia pro-prio all’interferenza con i dati di realtà, che nell’appendice sono richiamatinel loro corso effettivo, e soprattutto alla voce del narratore-personaggio,con il suo coinvolgimento emotivo38 e con la conseguente spinta all’iden-tificazione nel lettore. Simularsi testimone e partecipe di eventi evocaticon la precisione della cronaca, ma la cui natura fittizia è palese, significaaccreditare quei fatti non sul piano della realtà, ma della verità finzionale:è, insomma, la logica tradizionale della letteratura. Dunque, a rigore, nonsiamo di fronte a un’historical metafiction, come voleva giustamente LindaHutcheon per tanti romanzi postmoderni: non ci sono né gioco di riscrit-tura, né ambiguità, né il gusto di far smarrire la verità – e anzi, nel finaledel romanzo la verità storica viene ristabilita, riportando con Roosvelt gliUsa in guerra contro il Reich. Il paradosso del Complotto è che, nella suaangoscia da incubo a stento sedato, e per quanto finga e inventi, tendeperò a stabilire delle verità di ordine non meramente fattuale, prime fratutte quelle relative alla condizione ebraico-americana. La presenza diRoth come personaggio ha dunque una funzione di accreditamento: an-che se quello che leggiamo è falso, né lui, a differenza di uno scrittorepostmoderno, cerca di farci credere che non lo sia, tuttavia racconta qual-cosa di vero.

È insomma, ma come drogata, la logica stessa del romanzo realistico,la cui verità si impone sull’inesistenza di Emma Bovary o Raskolnikov.L’autofiction sarebbe dunque un modo per ridare forza ai meccanismidel romanzo, mentre l’universale finzionalizzazione e l’inflazione di storiesembrano usurarli. Più complicato, però, è il caso di Operazione Shylock.Qui, infatti, vero e falso si confrontano su un terreno che non è subitopalesemente antistorico. Mentre sta uscendo da una crisi depressiva econfusionale, Roth viene a sapere che un altro Philip Roth tiene alcuneconferenze sul diasporismo, un movimento che, all’opposto del sionismo,vorrebbe ricondurre gli ebrei nei paesi europei da cui emigrarono. Ab-bandonato il registro dell’incertezza fantastica o del dubbio allucinatorio,tradizionalmente legati al tema del doppio, Operazione Shylock sceglie ri-solutamente quello dell’intrigo romanzesco, parodiando la spy story eaprendosi alla comicità. Il secondo Philip Roth (perché così sostiene dichiamarsi) assomiglia in modo stupefacente allo scrittore americano, ene ha approfittato per diffondere la propria dottrina: l’autore lo incontrain Israele, dove scopre che il suo doppio sta per morire di cancro, e doveviene coinvolto dal Mossad in un aggrovigliato affare di spie. Un vecchio

38 «La paura domina questi ricordi, un’eterna paura. Certo, nessuna infanzia è priva di terrori,eppure mi domando se da ragazzo avrei avuto meno paura se Lindbergh non fosse diventato pre-sidente o se io stesso non fossi stato di origine ebraica» (Ph. Roth, Il complotto contro l’America[2004], trad. it. di V. Mantovani, Einaudi, Torino 2005, p. 3).

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agente dei servizi segreti israeliani gli consiglia di pubblicare il libro chevuole trarre dalla vicenda privandolo di un capitolo sulla sua missione adAtene; ed è appunto in questa forma che leggiamo Operazione Shylock.Mentre gioca visibilmente e sottilmente con le forme dell’immaginarioromanzesco più lontane dalla plausibilità realistica, Roth interpola nellibro riferimenti altrettanto riconoscibili alla sua vita vera o alla cronaca:per esempio, i colloqui con lo scrittore israeliano Aharon Apperfeld, og-getto di un’intervista già pubblicata anche sul «New York Times», oppureil processo a John Demjaniuk, accusato di crimini di guerra. Nella notaconclusiva al libro, che è sottotitolato «una confessione» e che qui vienedichiarato «opera di fantasia», Roth conclude ammettendo: «Questa con-fessione è falsa».39 Ma quale confessione? L’intero libro che leggiamo (co-me è indubitabile), o anche la nota che lo sconfessa? Il dubbio è predi-sposto ad arte e rivela che è impossibile liquidare semplicisticamente latensione tra vero e falso, leggendo tutto sotto la chiave della finzionaliz-zazione: Roth non è un discepolo di Borges o, peggio, di Mallarmé.40 Glieffetti di realtà non sono semplici eccipienti al gioco finzionale, ombreper far sbalzare la luce e la plastica dell’invenzione. Allo stesso modo,l’identità è sottoposta a una riflessione così acuta (e, del resto, il temasorregge la costruzione di tutta la prima parte, anche negli apparenti ex-cursus), da non poter essere liquidata come un piatto effetto di fiction.In Operazione Shylock vige un regime misto piuttosto che ambiguo, in cuiil falso non cancella il vero, allo stesso modo in cui le gag comiche noncancellano il tragico della Shoah o del conflitto israelo-palestinese. Così,agli stessi deliri fantapolitici del suo alter ego, Roth riconosce un senso:come nel Complotto, il paradosso e la parodia sono forme di un pensieropolitico che gioca sull’azzardo e che cerca in esso – secondo una logicache è la stessa dell’utopia – uno spazio di formulazione e di possibilità.

Nell’epilogo di Operazione Shylock, il vecchio Smilesburger (un agentedel Mossad il cui statuto è ancora più improbabile del suo cognome, ol-tretutto falso), dichiara di aver letto e apprezzato Patrimonio. Catturatonella rete finzionale, quel libro non perde però la sua natura. Patrimonionon è, infatti, autofiction: si presenta come un memoir «affettuoso, ma du-ro»41 (e davvero, di grandissima forza) sul padre di Roth, da poco mortodi cancro. Persino un tema di questa intensità emotiva ammetterebbel’autofiction. Se da un lato esso ispira memoir, come a Roth, a Paul Auster(Ritratto di un uomo invisibile, nell’Invenzione della solitudine, 1982) o ad

39 Ph. Roth, Operazione Shylock [1993], trad. it. di V. Mantovani, Einaudi, Torino 2006, p. 459. 40 È quanto sostiene Forest, Il romanzo, l’io, cit., p. 74, che pure tenta di correggersi, rivendicando il

valore politico della maschera e del doppio: questi «paradossalmente diventano portatori di verità»e «artefici del ritorno del reale nell’ambito della finzione» (pp. 78-79).

41 Roth, Operazione Shylock, cit., p. 436.

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Annie Ernaux (La Place, 1983), dall’altro la morte della figlia di quattroanni è al centro dei libri dichiaratamente autofinzionali di Philippe Forest– che pure, negli anni, si è spinto sempre più a ristabilire i fatti reali. Roth,che avrebbe potuto giocare da maestro sulle ambiguità dell’invenzioneletteraria, come si preparava a fare in Operazione Shylock, questa volta ri-costruisce le cose non come sono andate (che sarebbe un progetto risi-bile), ma come le ha vissute. Questo non toglie che, pure nell’assenza disegnali espliciti di finzionalizzazione, si possa aprire qualche dubbio. Lacostruzione narrativa è a volte così calcolata, così simbolicamente pre-gnante da far sospettare un intervento o una manipolazione della realtà.Proprio nel primo capitolo, prima di raggiungere il padre per annunciarglila malattia che gli è stata diagnosticata, Philip si ritrova senza volerlo alcimitero dove è sepolta la madre:

Ero stato al cimitero solo due volte, il giorno del funerale nel 1981 e l’annodopo, quando portai mio padre a vedere la sua lapide. In entrambe le oc-casioni eravamo partiti da Elizabeth, e non da Manhattan, perciò non sa-pevo che il cimitero potesse essere raggiunto con l’autostrada. […] Anchese non stavo cercando quel cimitero, né consciamente né inconsciamente,la mattina in cui dovevo dire a mio padre del tumore al cervello che l’avreb-be ucciso ero andato dal mio albergo di Manhattan alla tomba di mia ma-dre, e al posto di fianco alla sua tomba dove doveva essere sepolto lui,senza errori e per la strada più diretta.42

La riflessione non assume una forma metaletteraria: qui, è il personaggioRoth a interrogarsi su un evento della storia, piuttosto che il narratoresulla narrazione. I due piani interferiscono: la consapevolezza che il «tu-more al cervello» «avrebbe ucciso» il padre, in quanto successiva, va attri-buita infatti al venir dopo del narratore. Eppure, l’interferenza va fatta ri-suonare in tutte le sue armoniche: il Roth che sa già che il padre è mortoè sia colui che scrive, sia l’uomo che ripensa, a distanza, alle vicende cheha vissuto. La distinzione tra personaggio, narratore e autore sfuma. Suquesto piano di indistinzione, che cancella ciò che la prudenza narrato-logica vorrebbe tener separato, si gioca l’identità di questa scrittura, perla quale, tuttavia, sembra che la qualifica di autobiografia non calzi per-fettamente. Il sospetto di inverosimiglianza rischia di rompere il patto che,secondo Lejeune, regge quel genere; e il narratore ha introiettato il so-spetto. L’episodio del cimitero rivela così che ogni scrittura ipermodernadell’io, soprattutto se non è autofinzionale, lotta con il timore di essere ri-dotta a finzione, e che il suo orgoglio sta appunto in questa resistenza.

Le forme della resistenza sono, qui, quattro. La prima consiste nel-l’esplicitare il sospetto, senza però fugarlo del tutto. Il narratore esibisce

42 Ph. Roth, Patrimonio [1991], trad. it. di V. Mantovani, Einaudi, Torino 2007, p. 11.

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l’evento improbabile in un gesto duplice: da un lato, mostra che lenostre esistenze, secondo la logica dell’autofiction, sono comunque im-pastate di qualcosa che ha l’odore della fiction, e che si è ormai insediatonei fatti stessi, non solo nel loro racconto; dall’altro, protesta la propriaonestà, secondo la logica autobiografica, e rivendica la verità nella formadell’incredibile, o del difficilmente credibile. In secondo luogo, Rothdeve fare i conti con un sapere che ridurrebbe razionalisticamente l’in-credibile alla sua legge segreta. Questo sapere è la psicoanalisi che, pro-prio per il suo pandeterminismo o, se si può dire, per la sua tendenzapanermeneutica, va disattivata: perciò Roth non ha agito «inconscia-mente» (asserto che un freudiano invaliderebbe, classificandolo comedenegazione). Se confrontiamo questo episodio con quello del lapsusdi Zeno, possiamo misurare una distanza sensibile: Svevo ha bisogno dievocare un senso nascosto, ignoto al suo personaggio-narratore, perprenderlo in contropiede e far baluginare quell’orizzonte di verità po-sitiva sul quale si stagliano la sua malafede e le sue rimozioni (in partesvelate, poco dopo, da Ada); Roth invece sbaraglia il campo da quellapossibilità di chiusura e di significato, lasciando uno spazio aperto e in-spiegato, che è, questa volta davvero, il Reale come lo intende Lacan.Eppure (e sono la due mosse successive) un piano di senso va comunquericostituito, perché ogni scrittura dell’io è ossessionata dalla volontà diinterpretare il vissuto e di installare in esso, per quanto provvisorio eincerto, un significato. Così, il caso e la coincidenza romanzesca vengonoesibiti nella loro natura non solo di esca narrativa (la visita involontariaal cimitero preannuncia, come Roth dice a chiare lettere, il destino delpadre di cui lui personaggio, in quel momento, è ancora ignaro), maaddirittura di profezia. È questa la terza forma di resistenza alla finzio-nalizzazione, ed è una forma paradossale, poiché comporta un rincaro:quello che l’abolizione del sapere analitico mostrava come un anellodebole nella catena dei fatti, il rompersi del loro ordine verso l’incre-dibile e l’inspiegabile, appare ora come la pietra angolare della costru-zione narrativa. E infine, procedendo su questa strada, quello che potevaapparire un evento solo accidentale, una stranezza della vita, ora acquistanecessità e pienezza simbolica. Sono proprio queste ultime due le qualitàche chiediamo a un romanzo ben costruito, dove non ammettiamo zonedi opacità a meno che non siano provocazioni, come per gli atti gratuitidi Gide; e sono appunto queste le qualità per cui dubitiamo che ci sistia raccontando un fatto vero. La scelta di Roth è appunto enfatizzarel’attrito, promuovendo il caso a necessità e la bizzarria a emblema del-l’intera condizione umana:

A condurmi lì era stato il caso di una svolta sbagliata, e scendendo dallamacchina ed entrando nel cimitero per cercare la tomba di mia madre

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non feci altro che inchinarmi alla sua forza irresistibile. Mia madre e glialtri defunti erano stati portati là dalla forza irresistibile di quello che era,in fondo, un caso più improbabile: essere vissuti.43

Il caso è trasfigurato in destino: l’accidentalità della cosa vera si mettein tensione con quella sovradeterminazione simbolica coatta che è la let-teratura.

Ora, quali sono le funzioni dell’io in libri così diversi? È possibile ricon-durle a qualcosa di comune? Non potrebbe star qui uno tra i segnali piùsensibili del mutamento culturale rispetto al postmoderno? Le scritturedell’io celebrano molto meno la liturgia modernista della fine dell’espe-rienza, che lo sforzo di non farsene espropriare. Certo, alcuni scrittori(anche se molti meno dei critici) sono affezionati a quel tema: da noi, èil caso di Scurati – e, direi, il motivo della debolezza di alcuni suoi romanzi,come Una storia romantica. Eppure, quello che più sorprende è una riven-dicazione di vita vera anche in chi si impegna a mettere in scena e a pro-durre vita falsificata. L’esempio più clamante è forse dato da Siti. Troppiparadisi esordisce con una dichiarazione di poetica memorabile:

Anche in questo romanzo, il personaggio Walter Siti è da considerarsi unpersonaggio fittizio: la sua è una autobiografia di fatti non accaduti, unfacsimile di vita. Gli avvenimenti veri sono immersi in un flusso che li fal-sifica; la realtà è un progetto, e il realismo una tecnica di potere. […]Tutto l’impianto realistico, insomma, è un gigantesco soufflé pronto adafflosciarsi in una poltiglia di finzione; punta estrema, forse, del quesitoparadossale che regge la mia trilogia romanzesca: se l’autobiografia siaancora possibile, al tempo della fine dell’esperienza e dell’individualitàcome spot.44

Chi però leggesse quel romanzo-autofiction semplicemente come unadenuncia dell’inautentico, chi non vedesse che la forza di Siti sta nel mo-strare che ormai le condizioni del nostro dolore e della nostra felicità sidanno solo in quest’ambiente inquinato, si lascerebbe sfuggire il meglio.Siti non è Flaubert, che si accanisce a distruggere la vita falsa di Emma oFrédéric: semmai, sta dalla parte dell’ultimo Svevo, per il quale l’unicapossibilità di salute è nella malattia, le uniche verità nell’ignoranza di séo nella menzogna. L’io sta allora lì a protestare – a volte con un compia-cimento narcisistico, a volte in una contorsione isterica – i propri diritti.

Sono forse i libri meno felici, tuttavia, a mostrare nel modo più didatticola funzione dell’io. A leggere, per esempio, L’Inceste di Christine Angot,un’autofiction in cui la narratrice accumula un’inattesa esperienza omo-

43 Ivi, p. 12. 44 W. Siti, Troppi paradisi, Einaudi, Torino 2006, p. 2.

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sessuale, la scoperta di essere sieropositiva e il ricordo dell’incesto con ilpadre, alcuni elementi emergono nella loro elementarità.45 Anzitutto, laprima persona obbedisce a una strategia di intensificazione: il racconto “io,Christine Angot, ho consumato un incesto” è molto più d’effetto di un “leiconsumò un incesto” – e lo è anche se siamo in un regime autofinzionale.È la struttura vuota dell’io ad agire: in ultima analisi, il suo scopo è catturarebrutalmente il lettore, tendere, almeno per un istante, alla fusione e rea-lizzare un’identificazione empatica. In questo – e qui, in maniera smaccata– è la stessa retorica dei reality. La morsa si stringe dunque sia sulla cosa, acui è prestata l’aura (non importa se immaginaria) della vita vera, strappataall’irrilevanza e alla fantasmizzazione mediatica; sia sul destinatario, espostoa richiami che, al limite, possono suonare ricattatori. In secondo luogo,l’enfasi e il sovraccarico coincidono con una statutaria fragilità: ciò che lescritture dell’io raccontano (l’abbiamo visto anche con Roth) è quasi sempreun vacillamento identitario. Il racconto è insieme la teatralizzazione diquesta crisi, la sua produzione e la sua terapia. In questo senso, la categoriadi narcisismo appare insufficiente: non solo qui l’io è mosso da uno spasimodi autorappresentazione comunicativa del tutto estroflessa, ma esibiscesempre la propria insufficienza e le proprie ferite. Infine, tutte queste scrit-ture inscenano la costruzione dell’io (una costruzione che il lettore devecompiere anche su di sé): l’adozione di forme convenzionali, siano ancheprecarie o fittizie, è l’unico modo per consistere davvero. In quel “davvero”sta la qualità ipermoderna di queste narrazioni.

9. Realismi/iperrealismoLa questione del realismo è diventata, insomma, capitale: sia nella praticadella scrittura, sia nell’attenzione critica – anche se, spesso, viene deviatae sepolta sotto l’accigliata metafisica dell’interrogativo su cosa sia la realtà.Nella polemica che è seguita al n. 57 di «allegoria»46 si sono sprecate lecitazioni sulle virgolette di Nabokov, gli sprofondamenti filosofici, i mas-simalismi risolutori. Così, Angelo Guglielmi ci ricorda che, da che mondoè mondo, «il reale (la realtà) è stata sempre in campo, come obiettivo ob-bligato (e agognato) dello scrittore»: dunque, di che inquietarsi?47 Difatto, è riemersa l’estraneità di molta critica italiana, soprattutto militante,

45 Ch. Angot, L’Inceste, Stock, Paris 1999. 46 La ricostruisce, appunto polemicamente, M. Ganeri, Reazioni allergiche al concetto di realtà. Il dibattito

intorno al numero 57 di «allegoria», in Finzione, cronaca, realtà, cit., pp. 51-68. 47 A. Guglielmi, Il romanzo e la realtà. Cronaca degli ultimi sessant’anni di narrativa italiana, Bompiani,

Milano 2010, p. 20. Quindi: «il ron ron del ritorno alla realtà, oggi sempre più diffuso, è afferma-zione priva di senso». Guglielmi stesso, però, deve ammettere in questa tenebra che cancella secolie continenti un mutamento di temi e forme, sebbene lo metta sotto l’apriori di una «realtà dellacronaca» «irraccontabile» se non negli schemi dell’«inchiesta giornalistica», del «romanzo a su-spense» e del «romanzo di fatti» (ibidem).

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ai problemi del racconto, cui si preferiscono le questioni della prosa edella lingua. Tra equivoci e malafede, si sono appiattite le nuove formedi realismo su un’idea deprecativa di neorealismo (o, più raramente, dinaturalismo) che non ha nulla a che fare con il romanzo contemporaneostraniero, e ben poco anche con i libri italiani cui è stato riferito. Se infattisi volesse trovare qualche contatto, occorrerebbe cercarlo, anziché in unneorealismo di scuola archiviato da mezzo secolo, nelle forme sperimentalidi mistione di racconto e saggio, di denuncia, di propensione testimonialee documentaria: occorrerebbe pensare cioè a libri come Se questo è unuomo o Cristo si è fermato a Eboli, non all’Agnese va a morire; e a film comequelli di Rossellini, De Sica, Visconti. Ma per il resto, l’orizzonte è radi-calmente mutato: se il neorealismo si muove su un terreno che è ancoraintegralmente letterario, e che neppure il cinema insidia, ora il realismoè sempre sull’orlo di essere vanificato dalla comunicazione mediatica, te-levisione in testa, e la letteratura respinta in una condizione marginale.

I rischi non sono però tragedie su cui è calato il sipario. La retorica chevuole la letteratura relegata alla registrazione di inesperienze mostra ormaila corda. I media non sono gli agenti di una derealizzazione compiuta, masemmai, come ha scritto con molta acutezza Walter Siti, di un «depotenzia-mento» della vita48 cui l’ipermoderno non cede, mentre il postmoderno lofomentava. In secondo luogo, l’effetto di straniamento che i media hannoprodotto sul mondo si è, in larga misura, attenuato: essi sono, soprattuttoper le generazioni nate con il televisore e il pc già accesi, una seconda natura.Esistono anzi forme di esperienza prodotte dagli stessi media: siamo abituatia fare i conti con regimi di verità ambivalenti, ed è possibile trarre esperienzada informazioni di realtà che sappiamo aver assunto forme codificate e,quindi, vediamo trascinate nell’immaginario. La «natura insieme fattuale espettacolare» dell’immagine televisiva chiede un di più di lavoro interpretativoe critico, che non sceglie univocamente nessuno dei due lati:

Il tratto elaborativo dell’immagine, ciò che ne riqualifica la prestazione re-ferenziale (la capacità di intercettare il mondo, di esplorarlo e di ridescri-verlo) e l’impegno testimoniale (il debito dell’immagine nei confronti delsuo altro), non dovrà vertere sul rapporto immagine-mondo, bensì sulrapporto tra i diversi dispositivi dell’immaginario tecnologico. Ma solo inquanto – e il punto è decisivo – in questa differenza e in questo confronto ne vaanche, ed essenzialmente, del riferimento all’irriducibile alterità del mondo reale.49

48 W. Siti, Il “recitar vivendo” del “talk-show” televisivo, in «Contemporanea», 3, 2005, pp. 73-79 (il saggioè stato ripreso, a tratti letteralmente, in Troppi paradisi).

49 Montani, L’immaginazione intermediale, cit., pp. 7 e XIV. Ho tenuto presente tutta la riflessione diquesto libro, ben al di là dei debiti dichiarati in nota. In particolare, ho seguito il percorso che,partendo dallo statuto derealizzante e dalla tonalità anestetica dell’immaginario mediale, giungead autenticare le immagini riattivando la differenza tra immagini e mondo nell’immaginazioneintermediale.

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È vero: «non c’è ritorno alla realtà» (se così vogliamo chiamarlo) «fuoridella mediazione dell’immagine. Fuori della realtà dell’immagine».50 Egli scrittori contemporanei che val la pena di prendere sul serio partonoappunto da questa consapevolezza. Una volta di più, richiamare nozionistente e scolastiche di neorealismo o di ingenuità mimetica è fuorviante.

Che tipo di realismo è dunque quello ipermoderno? Ha tratti unifi-canti? In primo luogo, e ancora una volta, occorre tornare a un confrontocon la letteratura postmoderna. È esistito un realismo postmoderno?L’ascesa di poetiche realistiche segnala una frattura nei confronti deglianni precedenti, è uno scivolamento rispetto ad essi o, al contrario, sipone in linea di continuità? L’anything goes non escludeva la ripresa el’omaggio a modi della tradizione realistica; ma citarla voleva dire già di-sconoscerla, riducendola a una delle tante maniere possibili da rifare alsecondo grado e negandone la pretesa di mordere su una realtà in cui,del resto, la cultura postmoderna non credeva affatto. Anche in quei nar-ratori che facevano i conti con la cronaca, la storia e i loro documenti,l’effetto conclusivo era derealizzante: Libra o L’arcobaleno della gravità, chepure traboccano di materiali presi dal vero o, per meglio dire, abusanodi un’enciclopedia di informazioni e racconti tratti dalle cronache, nonvogliono essere libri realistici: essi credono che le mediazioni della lette-ratura siano così spesse e opache da coprire ogni cosa, e che più radical-mente il mondo sia già testo. In questo senso, rivendicare un qualche ca-rattere di realismo a libri nati in quel clima culturale ne disconosce il ca-rattere perturbante, ne cancella la forza polemica, ne fa cadere il significatostorico.

Perciò, non è esistito un realismo postmoderno: il postmodernismoha trattato il realismo come un ferro vecchio cui rinunciare, una manierada rifare ironicamente e decostruire, o tutt’al più un oggetto di omaggiscettici, increduli e avvelenati. In Italia, anzi, il postmoderno nasce quandoil realismo è dato per finito, per duplice effetto di un esaurimento interno

50 A. Mazzarella, Poetiche dell’irrealtà. Scritture e visioni tra «Gomorra» e Abu Ghraib, Bollati Boringhieri,Torino 2011, p. 9. Proprio per questo, perché riconosco il carattere di «testimonianza personale»di queste scritture, e perché sono convinto che esista una «riconfigurazione mediale dell’espe-rienza» (ivi, pp. 55-56), non vedo come si possa credere che Saviano e compagni vogliano «raffi-gurare con la massima precisione possibile la realtà», che attuino una pura «riproposizione delnon-fiction novel», che si presentino «nei panni di un asettico testimone oculare» e che Gomorrasia un «romanzo» – che poi ostentino un «profondo svilimento» «nei confronti delle caratteristichefondamentali che connotano un testo letterario» è vero solo se si ha di letteratura un’idea pura-mente conservativa (ivi, pp. 7-14; mio il corsivo). Con piena coerenza postmoderna, Mazzarellaconfonde di continuo formalizzazione e finzionalizzazione. Non sono certo «i soliti pregiudizimoralistici» che inducono a pensare che «le immagini del Padrino, Scarface o di Quei bravi ragazzi»non siano affatto «gli stessi fantasmi che accerchiano chiunque guardi […] le foto scattate ad AbuGhraib o riveda sul web il filmato di una videoesecuzione» (ivi, p. 83). Neppure credo che le ca-tegorie di Derrida (ivi, pp. 29-30) siano le più adatte a interpretare la letteratura di oggi: a furiadi venerare i padri, si finisce per disconoscere i figli – e peggio.

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e degli attacchi neoavanguardistici. Calvino, Manganelli o Arbasino, cheper primi, fra gli altri, si mettono su questa strada a metà anni Sessanta,ne sono ben consapevoli: così che se si considerassero realistiche Le cittàinvisibili, perché tengono aperta «la “sfida” rischiosissima ma ineludibiletra la letteratura e il mondo reale», si farebbe loro un torto.51 Allo stessomodo, un libro come il Nome della rosa, che parrebbe riprendere i modidel realismo più tradizionale, e addirittura retrocedere a quel romanzostorico che, come ha spiegato Lukács, ne è all’origine, non è realisticoper l’accanimento riscrittorio, i giochi citazionistici, l’omaggio esibito aigeneri che contamina, la sapienza malinconica che delle cose restanosolo nomina nuda. La frattura con i narratori che si impongono dagli anniNovanta è dunque evidente sia nel panorama internazionale, sia in Italia.Parlare di realismo documentario, di realismo testimoniale, di opposizionee permeabilità tra fiction e non fiction serve appunto a indagare sui trattipropri delle nuove forme narrative.

Eppure, sulla natura del realismo contemporaneo sono stati formulatidubbi seri. L’ipotesi, argomentata brillantemente da Giglioli a propositodi Gomorra, che nella narrativa recente non si possa parlare di vero realismopoiché vige ancora e di nuovo una separazione degli stili, che attribuiscea una materia vile un’espressione bassa, non mi pare persuasiva.52 Si puòrimproverare a Saviano una certa enfasi53 o, a essere neutri, registrareuna propensione all’intensità che non è certo il tragico o il sublime, mane fa le veci oggi; e se poi, in base allo stesso criterio e per una strana re-viviscenza lukacsiana, non è realistico davvero neppure il naturalismo, al-lora i dubbi diventano troppi. Del resto, la qualifica di realismo postmo-derno spesa appunto per Gomorra si fonda su un’idea di postmodernoche non condivido (Giglioli si dice convinto del «persistere della pregnanzadescrittiva della categoria di postmoderno» anche per l’attualità)54 – ealla quale, appunto, sostituirei quella di ipermoderno. Il problema cheGiglioli coglie è infatti quello del rinnovamento del realismo dopo il po-stmoderno, pur nel permanere di strutture del mondo della vita che sisono fissate in quell’età. Ora, se, come ha mostrato bene Bertoni, tutte

51 Il rischio, infatti, è scongiurato da F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi,Torino 2007, pp. 68-78 (la citazione è a p. 78). Il «realismo plurale» che Bertoni difende giusta-mente non può essere infatti un realismo onnivoro.

52 D. Giglioli, Come farebbe Auerbach? Realismo postmoderno e separazione degli stili, in «Moderna», 1-2,2009, pp. 189-203.

53 È quanto gli imputa Dal Lago, Eroi di carta, cit., pp. 17 e 29-65, che pure contrappone a Savianopoco più che un’idea normativa di “letteratura vera”. Molto più equilibrata e convincente la po-sizione di P. Pellini, Lo scrittore come intellettuale. Dall’affaire Dreyfus all’affaire Saviano: modelli estereotipi, in «allegoria», 63, 2011, pp. 135-163: oltre a leggere senza animosità certe incertezze distile, egli fa giustamente notare come Saviano tenda ad adottare un modello intellettuale regressivorispetto a quello moderno, inaugurato da Zola.

54 Giglioli, Senza trauma, cit., p. 110.

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le poetiche del realismo ottocentesco hanno elaborato per se stesse la fi-gura del vetro, dello specchio, della trasparenza, cioè della costruzioneartificiale che però si nasconde e riduce a strumento di visione,55 il realismoipermoderno non ha affatto questa aspirazione. La lente si è ispessita:esso non pretende di far vedere la cosa in sé, ma la cosa attraverso sé,come solo possibile accesso, cioè nella consapevolezza che una mediazione(quella, o un’altra) è consustanziale all’atto della rappresentazione. Te-stimonianza e documento parlano appunto di questa impossibilità di im-mediatezza (alla quale, in ogni caso, non ha mai creduto nessuno). Daun lato, infatti, il postmoderno ha lasciato i suoi segni: nessuna ingenuitàè più possibile, e il timore della riduzione del mondo a finzione agisceanzitutto in chi vi si oppone. Dall’altro, il recupero di elementi modernistiinstaura di nuovo quella dialettica fra parole e cose che il postmodernoaveva spezzato, risolvendola tutta e solo a favore del linguaggio.

Amore di simmetria, allora, vorrebbe che si parlasse per l’ipermodernitàdi iperrealismo. L’ipotesi contiene un elemento utile, ma nel suo com-plesso va scartata. In primo luogo, infatti, l’iperrealismo pittorico nascea metà degli anni Sessanta con l’affermarsi del postmoderno ed è, in uncerto senso, l’altra faccia della pop art.56 Tuttavia, poiché sotto questonome si ammassano ormai oggetti disparati,57 è bene ricondurlo alla suaproprietà, includendo solo artisti come Robert Bechtle, Ralph Goings,Don Eddy, Richard Estes, Malcolm Moreley, Chuck Close, Thomas Ruff.Ciò che l’iperrealismo introietta, nella sua volontà di resa fotografica, èappunto che l’immagine è già fotografia: sia nell’inquadratura, che spessoconserva i tratti evidenti di un’istantanea; sia nella riproduzione fedelee virtuosistica delle cose. Solo in apparenza, però, questa pittura si ver-gogna di se stessa e tende ad annullarsi: osservate da vicino, le tele tradi-scono subito la pennellata, che scompare solo quando lo spettatore simetta a distanza per osservare l’intero. L’effetto complessivo è di artificio,tanto più che spesso i soggetti giocano con riflessi, vetri specchianti, pro-iezioni, duplicando la natura illusionistica della rappresentazione. In que-sto senso, nell’iperrealismo il vero è un prodotto del finto, forse un effettogenerato dal falso. Siamo in una poetica, insomma, in cui il trompe-l’œil sispinge sino a rappresentare «un sotterfugio contro il reale»: quest’arte è«impegnata non solo a pacificarlo, ma a sigillare il reale dietro le superfici,a imbalsamarlo nelle apparenze».58 Il realismo letterario di cui parliamoora, invece, solo in una piccola parte può essere interpretato come l’iper-

55 Bertoni, Realismo e letteratura, cit. 56 Foster, Il ritorno del reale, cit., pp. 133-153. 57 Un esempio di questo ecumenismo è Hyper Real, herausgegeben von Museum Moderner Kunst

Stiftung Ludwig Wien, B. Franzen und S. Neuburger, König, Köln 2010. 58 Foster, Il ritorno del reale, cit., pp. 143.

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ralismo pittorico. Certo, e a ragione, si è parlato di iperrealismo per Un-derworld di DeLillo, per Bret Easton Ellis, per Nove o per Siti. L’elencodelle cose ridotte a merci, l’assenza di extralocalità e la vuotezza di unosguardo che registra senza capire (in Nove o Ellis, almeno), il gusto perun quotidiano degradato e già colonizzato e depotenziato dai media, l’ef-fetto di presa diretta dell’immagine, segnalato dall’uso del presente alposto dei tempi storici, l’accanimento nella ricerca di un effetto di realtàdove però la realtà è già subito riprodotta o prodotta in serie (anche quan-do si tratti di esseri umani, che appaiono nella veste di vip, cioè di simulacridi uomini) depongono proprio per un allineamento fra narrativa e artifigurative.59 E tuttavia, se da un lato questi fenomeni non coprono deltutto lo spettro della letteratura ipermoderna (l’iperrealismo talvolta at-tribuito a Saviano sarebbe infatti di qualità diversa, non giocando sullafalsificazione ma rivendicando al contrario una «parola diretta»), dall’altrosegnalano il passaggio cronologico e ideale dal postmoderno all’ipermo-derno. Inteso in questo senso, l’iperrealismo è il tono che il realismo as-sume attraversando il postmoderno, per uscirne.

Iperrealista è dunque quello scrittore che si muove fra copie di copie eabita un mondo già tutto duplicato dalle sue immagini – e che, però, nonsi è vaporizzato in esse, come voleva l’ideologia postmoderna. Ma per altriscrittori, la qualifica di iperrealisti non sembra stringente, proprio perchéper loro il problema o è strappare le cose al regno dei fantasmi, o scavalcarel’incubo della riduzione del mondo a favola. Se l’iperrealismo è sempre di-sumanizzato e, nella sua ossessione di esattezza, piatto, il realismo docu-mentario e testimoniale al contrario chiama in causa l’occhio, il giudizio,l’esperienza di chi narra (a differenza di Nove, Siti, che incrocia raccontoe saggio, accoglie anche questa istanza). Esso compie la restituzione di quelmondo che l’iperrealismo estrania. Ciò che resta in comune, tuttavia, è laconsapevolezza che la rappresentazione non è mai una rappresentazionedi primo grado, trasparente o innocente: ma se da una parte il filtro è un’im-magine riprodotta, dall’altra è la voce che dichiara di raccontare.

10. L’ombra del romanzoGli anni dell’ipermoderno hanno visto e stanno vedendo, non solo in Eu-ropa e negli Stati Uniti, una produzione romanzesca di qualità a tratti ec-cezionale. Il postmoderno ha avuto nei confronti del romanzo lo stessoatteggiamento nutrito nei confronti del realismo: scetticismo, citazionismoironico, o, nelle punte più avanzate, come Pynchon o il primo DeLillo,destrutturazione spinta. Dalla metà degli anni Novanta, invece, si impon-

59 Non solo qui, la mia analisi si appoggia a quella molto più ampia e ragionata di G. Simonetti, Inuovi assetti della narrativa italiana (1996-2006), in «allegoria», 57, 2008, pp. 95-136.

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gono narratori che trovano nel romanzo la forma adeguata all’esperienzadi vita contemporanea e che, perciò, conciliano la tradizione ottocentescacon quella modernista. Il riaffermarsi del romanzo non copre però, so-prattutto in Italia, tutto lo spazio del narrabile; al contrario, alcune tra leforme nuove più interessanti si pongono fuori del suo dominio, sia puresenza uscire mai del tutto dalla sua ombra. L’abbiamo visto: l’autofictionibrida autobiografia e romanzo, senza rifuggire da sottogeneri codificatie commerciali, che talvolta giustappone (come nel già citato Dies irae oin A nome tuo, dove Covacich alterna racconto autobiografico e romanzo).Le narrazioni documentarie, invece, quanto più si avvicinano al reportage,tanto più si emancipano dal romanzo: se abbiamo già ricordato i casi diFranchini o Saviano, possiamo aggiungere i libri di Bettin, come Eredi,già del 1992, o Gorgo, che, senza pagare pegno al giallo o al noir, rinnovanol’impegno di Stajano in chiave sociologica piuttosto che politica.

Emanciparsi dal romanzo non significa però rinunciare al racconto: alcontrario, lo storytelling sembra essere diventato d’obbligo anche dove la tra-dizione lo voleva assente. La saggistica classica, se spesso si è costruita intornoalla fisionomia di un io riconoscibile, si svincolava però dalla narrazione.Ora, invece, una forma di successo sempre maggiore come il personal essay(etichetta che mi pare meno equivoca di lyric essay) raggiunge i risultati mi-gliori puntando sulla mescolanza di argomentazione e racconto, la cui fusioneè garantita dalla pronuncia soggettiva e dal richiamo alla concretezza diun’occasione. Negli Stati Uniti, Foster Wallace ha inventato una scritturache recalcitra alle classificazioni e che trasforma reportage, diario di viaggio,conferenza, recensione in tappe di un’accidentata autobiografia anche in-tellettuale. In Europa, i risultati più alti restano quelli di Sebald: pur nellavarietà dei modi narrativi e saggistici, i suoi libri sono l’esempio migliore diuna volontà di narrare e ragionare in modi che esulano dalle codificazioniconvenzionali, poiché puntano su un intreccio fitto dei due modi. Anchein Italia, questa possibilità è sempre più frequentata: nel 2004 Laterza hadedicato alla pluralità di queste scritture (che conguaglio sotto una sola eti-chetta per pura comodità, ma di cui vorrei sottolineare il carattere eteroge-neo) un’intera collana, Contromano. Così, Trevi si è mosso tra narrazione sag-gistica in prima persona (I cani del nulla è sottotitolato Una storia vera) esaggio narrativizzato (Senza verso. Un’estate a Roma è insieme memoir, guidadella capitale, ricordo dell’amico poeta Pietro Tripodo), sorretto da una si-curezza stilistica e da un gusto affabulatorio fuori del comune. Pascale haprovato sia la strada di una riflessione più impersonale, per esempio inScienza e sentimento, sia il bisogno di appoggiare l’argomentazione al racconto,come in Questo è il paese che non amo, dove il discorso si dispone lungo la lineadi un’autobiografia generazionale scandita per momenti esemplari.

Il personal essay, in queste forme, è una delle invenzioni migliori dellaletteratura ipermoderna. Testimonianza e documento sembrano qui aver

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trovato la libertà di costruirsi un loro spazio liberandosi dell’ossessionemercantile della letteratura di genere, e senza cadere in quello che Morescoha definito il “genere letteratura”. Esiste però ancora un campo di scritture,anch’esse di orientamento autobiografico o in cui, comunque, alla voceche dice io è attribuito un ruolo di perno; qui, l’irriducibilità al romanzoe alla narrazione protratta è più reattiva. Penso soprattutto a scrittori comeFranco Arminio e Francesco Pecoraro (o, per altri versi, Beppe Sebaste eDario Voltolini): prediligono forme brevi, dove il contenuto narrativo sistempera, talvolta trasformandosi in apologo o in poemetto in prosa (eper fortuna, senza velleità bellettristiche); tendono alla riflessione, che co-munque parte da un qui e ora precisi, e raggiunge una qualche generalitàper salti e cortocircuiti anziché nella progressione argomentativa; dannospesso ai loro libri una struttura rapsodica o composita, da raccolta, conl’impressione che l’unità, se viene, viene a posteriori. Mentre il personalessay costruisce un discorso che integra racconto e riflessione, in questicasi l’integrazione, forse, non è nemmeno perseguita: accostare non è fon-dere. La stessa forma breve è il lasciapassare per uno sperimentalismo ri-vendicato a voce alta, ma locale o da collage; e può derivarne il dubbioche, alla fine, al “genere letteratura” non si sfugga davvero, sia pure dan-dogli panni sporchi e dimessi anziché curiali e patinati.

Il fenomeno, credo, è molto italiano, e sta all’apice di un’antipatia peril romanzo più diffusa, soprattutto fra alcuni critici. Contro di esso, con-giurano voci discordi, persino opposte: la predilezione tradizionalista perla prosa, spesso coonestata dalla difesa di una ricerca linguistica o, se vabene, stilistica; la vecchia guerra neoavanguardista contro il supergenerereo più di tutti di aver falsificato l’esperienza e di essersi venduto al mercatoe ai filistei; una recente avversione per l’invadenza di sottogeneri forti e“popolari”, noir in testa; ma anche la delusione di fronte al grosso della pro-duzione nazionale di oggi, misurata sui risultati stranieri contemporanei osulla tradizione otto-novecentesca. È anche in nome di quest’ultima cheAlfonso Berardinelli ha scongiurato di «non incoraggiare il romanzo»: edè un invito rivolto soprattutto agli italiani. Per lui, «l’attuale sovrapproduzionedi narrativa» è «un segno di patologia piuttosto che di salute». «La demo-crazia uccide il romanzo incoraggiandolo», trasformandolo in «genere edi-toriale» onnivoro, e in etichetta promozionale da applicare un po’ a tutto,svuotandolo di forza intellettuale.60 Berardinelli ha ragione: è vero sia che

60 A. Berardinelli, Non incoraggiate il romanzo. Sulla narrativa italiana, Marsilio, Venezia 2011, pp. 9-11 e 32-37. Lo sgomento per l’eccesso di libri e, in particolare, di romanzi, è già un topos, peraltro fondato: A. Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, il Mulino, Bologna2007, a p. 13 ricorda che «tra il 1980 e il 2006 sono usciti circa 5.000 testi narrativi italiani che do-vrebbero essere esaminati» nella sua ricerca. Posizioni analoghe a quella di Berardinelli esprimonoG. Ferroni, Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero, Laterza, Roma-Bari 2010, e F. La Porta,Meno letteratura per favore!, Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 7-10.

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Ipermodernità:ipotesi per uncongedo dalpostmoderno

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ormai, con una confusione che talvolta si riproduce anche tra gli accademici,romanzo vale a designare qualunque libro di narrativa; ed è vero ancheche i romanzi-romanzi, riconoscibili come tali, sono sempre di più. Il ro-manzo conferma la sua egemonia ovunque, insinuandosi anche su generiestranei e quindi predisponendosi alle mutazioni. Ma nonostante tutto, ilromanzo italiano è spesso immaturo, come dimostrano sia progetti roman-zeschi tanto ambiziosi e totalizzanti quanto fallimentari, sia lo spazio e ilcredito spropositati dati appunto alla letteratura di genere, noir in testa,che avrà sì avvicinato la storia contemporanea, ma per lo più in modi piatti,schematici, poveri, e sempre nella posa dell’eccesso e del romanzesco dimaniera. Questo romanzo, in effetti, non merita incoraggiamenti: ci pensagià l’industria editoriale. Non so però se meriti un’apertura di credito aprio-ristica la letteratura che si sottrae al romanzo per partito preso, e ricade oin forme incerte e disperse, o nel vizio della bella prosa (bella anche a ro-vescio, cioè un po’ pasticciata: ma siamo sempre al faire des phrases deprecatoda Flaubert). Se la mania del pensare in grande e del costruire il Romanzoè perniciosa, quella del frammento rischia di essere avvilente.

Resta il fatto che i migliori tra i narratori italiani di oggi non sono ro-manzieri come i loro contemporanei americani o europei. Sinora, il nostronon è stato paese da Roth, da Yehoshua o da Littell: converrà farsene unaragione. Penso ai due casi più dibattuti degli ultimi anni, Siti e Moresco.Siti, che ha saputo sfruttare le ambivalenze dell’autofiction ancora primache, in Italia, le si riconoscesse questo nome, continua a costeggiarlaanche nei progetti più dichiaratamente romanzeschi, come Il contagio eAutopsia dell’ossessione: non si sottrae mai alla tirannia dell’io, che è la suafortuna perché, eccezionalmente, regge il peso di ambizioni universali-stiche («Io sono l’Occidente», recita Troppi paradisi). Moresco, invece, haseguito una progressiva e sempre più risoluta emancipazione dai modelliotto-novecenteschi: Lettere a nessuno non può essere letto dentro alcun ge-nere né vecchio né nuovo, visto che il mosaico di racconto, lettere, rifles-sione non si dispone né nei modi del romanzo epistolare, né dell’auto-fiction (saremmo, semmai, in campo autobiografico); mentre Canti delcaos accoglie elementi di romanzesco puro per scioglierli in una speciedi epica visionaria (ma già Gli incendiati torna a confrontarsi con strutturenarrative che, all’inizio, appaiono più riconoscibili). Naturalmente, nonnego affatto che ci siano romanzieri-romanzieri che sappiano fare il loromestiere: semmai, fa riflettere che persino chi sa costruire le storie conpiù rigore (per esempio, Covacich) mostri da un libro all’altro una certafatica e qualche incertezza. Anche gli scrittori più giovani riescono megliodove meno si fa sentire l’assillo del romanzo vero. Scelgo due esempi ilpiù possibile diversi: a partire dalla Città distratta, Pascale fa le sue provepiù convincenti, come abbiamo visto, quando mescola racconto, saggio,reportage, oppure nei racconti; Lagioia è più bravo in Occidente per prin-

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Il tema:La letteratura degli anni Zero

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cipianti (che è una parodia di romanzo e a tratti una sotie) piuttosto chein Riportando tutto a casa, dove invece si fa intimidire dallo spauracchiodell’affresco generazionale ed epocale. Bisogna pur riconoscerlo: sonole storie private quelle che funzionano meglio; altrimenti, il salto verso idestini generali e il grande affresco suona troppo spesso forzoso e dida-scalico.

11. Ipermodernità italianaEsiste allora, anche nell’ipermoderno, un’eccezionalità italiana? Anchein tempi di globalizzazione spinta il nostro paese conserva una sua irri-ducibilità? Come e se le tradizioni nazionali mantengano una loro identitàanche quando gli stati-nazioni, ben lontano dal cadere, sono sottopostia cambiamenti profondi, è un tema che resta da approfondire. Ma se l’Ita-lia è stata uno dei paesi in cui il postmoderno ha preso piede prima e conpiù decisione, anche in ragione della sua modernità incompiuta, alloranon ci si stupirà che esprima una cultura letteraria particolarmente sen-sibile alla mutazione cui stiamo partecipando. Le date, del resto, parle-rebbero sia di una concomitanza con la cultura internazionale, sia di untono specificamente italiano: il 1994 è l’anno dell’ascesa politica di Ber-lusconi e in larga misura – ma bisognerà tornarci – l’ipermoderno è statoin Italia l’età del berlusconismo e dell’anti-berlusconismo. In quello stessoanno, Siti pubblica Scuola di nudo; poco dopo, nel 1997, esce la prima edi-zione di Lettere a nessuno di Moresco: due libri, come si è visto sopra, lacui importanza è difficile sottovalutare e che ciascuno a suo modo segna-lano il cambio di rotta rispetto ai decenni precedenti. E se la cosiddettanon fiction si impone con Gomorra nel 2006, Antonio Franchini avevaaperto quella strada già nel 1996, con Quando vi ucciderete maestro?

Soprattutto in Italia, la narrativa del presente sembra correre un pe-ricolo doppio: da un lato, un certo moralismo, che cerca di restituire allaletteratura una funzione dopo che il postmoderno, per anni, gliel’ha sot-tratta, ma che finisce per smorzarne la stessa funzione radicalmente criticae non ideologica; dall’altra, un’esibizione oltranzistica di immoralismo(come mostra, per esempio, il successo di una maniera pornografica negliscrittori di ricerca) che irrigidisce lo scandalo della letteratura in scandaloper i benpensanti e ne limita il pubblico. Troppo desiderio di educare daun lato; troppo desiderio di sottrarsi a quell’obbligo dall’altro. Eppure,deposti i tentativi postmoderni di legittimarsi in maniera autoreferenziale,nell’ipermoderno la letteratura sembra riguadagnare terreno. Che essasusciti tante aspettative è quanto la espone al rischio, e le apre una pos-sibilità di salvezza contro le pigre profezie sulla sua fine.

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