life sharing, over sharing (l'uomo vogue, aprile 2012)

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smo o da una perdita di si - curezza. Il punto è conside- rare Facebook, Twitter e YouTube come strumenti neutri, contenitori che o- gnuno di noi è libero di ri - empire con il contenuto più opportuno. Se ben utilizza- ti, possono diventare effica- ci strumenti di espressione sia personale sia professio- nale. Il cosiddetto “personal branding” è un approccio maturo e consapevole alle diverse piattaforme, utile a farsi conoscere in rete e ampliare il proprio network di relazioni professionali. L’avere un profilo Linke- dIn, un account Twitter o un blog personale aggior - r r nati e interessanti può aiu- tare molto di più rispetto a un curriculum tradizionale. La ricetta è semplice: met- tere in evidenza le proprie competenze e le proprie passioni, definire uno stile di comuni - cazione originale, rilanciare i conte- nuti più interessanti scoperti in rete nelle aree di competenza, individua- re altri utenti accomunati dagli stes- si interessi e avviare con loro una conversazione duratura. Una buona strategia di personal branding impli - ca il sapersi esporre trovando una sorta di equilibrio costruttivo tra con- tenuti professionali e personali. Le medesime indicazioni valgono anche per le tante aziende che si stanno av- vicinando ai social media per intera- gire in modo diverso con i propri clienti: molte si limitano a vedere Fa- cebook o Twitter come canali pro- mozionali alternativi, dove l’unica cosa che conta è il numero di follo- wer, come si trattasse di una newslet - ter. Al contrario, aziende come Nike, Coca- Cola e Starbucks ne fanno un utilizzo più strategico puntando su un processo di coinvolgimento tale da creare una reale interazione con l’utente, slegata dalle banali attività promozionali. Anche il “corporate storytelling” trova quindi nel life sha- ring un esempio da seguire. Cosa ci aspetta nel prossimo futuro? L’era della condivisione è appena iniziata e certamente non ne sono state an- cora colte tutte le potenzialità. La crescente diffusione di piattaforme come Storify (dove creare aggregati tematici di storie raccontate sui so- cial media) e Pinterest segnano il consolidarsi della “content curation” come uno dei trend più significativi, sia per gli utenti sia per il business. Alla creazione di contenuti origi- nali si affiancano la selezione e l’ag- gregazione di risorse che possano essere interessanti per una determi - nata community. Questo approccio qualitativo e altamente selettivo sarà un ottimo deterrente nei confronti degli utenti interessati solo a condivi - dere il maggior numero di informa- zioni a scapito del valore generato. L’evoluzione dei social media rende- rà tutti veri e propri canali di comu- nicazione. Sarà la qualità dei conte- nuti e delle storie condivise a fare la differenza. (Dall’alto. Evan Williams, fondatore di Twitter, ph. Chloe Aftel, L’Uomo Vogue, gennaio 2011; Tim Cook, nuovo Ad di Apple, ph. Get- tyimages; David Karp, fondatore di Tumblr, ph. Lele Saveri, L’Uomo Vo- gue, gennaio 2011. In apertura. Ba- rack Obama a un dibattito sponsoriz- zato da LinkedIn e Mark Zuckerberg. Ph. Gettyimages) Stefano Mizzella* *Sociologo, strategist in H-Farm Ven- tures, dove si occupa della strategia di - gital e social delle startup del gruppo. Il suo blog è www.socialmediascape. org e su Twitter è @stefanomizzella. tà, appunto. E il rapporto tra libertà d’espressione e privacy è un altro aspetto critico della questione: se da un lato esistono piattaforme e appli - cazioni mobili per condividere prati - camente qualsiasi cosa, dall’altro ad aumentare è soprattutto la paura di una perdita di controllo nei confronti delle informazioni pubblicate in rete. Paradossalmente, questa preoccu- pazione spesso non trova riscontro in un utilizzo più critico delle piattafor - r r me stesse: quanti, infatti, possono af - fermare di aver letto scrupolosamen- te tutti i termini di servizio legati alle applicazioni più in voga del momen- to? Quelli di Pinterest, per esempio, mettono in guardia l’utente sull’im- portanza di condividere esclusiva- mente contenuti di cui si è titolari e che non ledano i diritti di proprietà intellettuale di terzi. In realtà, basta passare qualche minuto su Pinterest per accorgersi che la stragrande mag- gioranza delle “tavole” fa riferimento a immagini pescate in rete di cui solo in rare occasioni viene citata la fonte originale. Grandi player come Goo- gle, Aol e Microsoft si sono riuniti al - la “Digital advertising alliance” per consentire all’utente, attraverso una opzione del browser, di evitare la consueta raccolta di informazioni sulle abitudini di navigazione. Il buon senso e un utilizzo ragionato degli strumenti del web rappresentano il modo migliore per non sentirsi mi - nacciati da un eccesso di presenziali - gni 60 secondi vengono ni a- gi, 00 r- La gli ro di - ce di compulsività per altri. I social media trovano nell’atto dell’“online sharing” la propria ragione d’essere. Ma cos’è che amiamo maggiormen- te condividere? Link, informazioni, certo, anche se la vera moneta di scambio nell’economia della condi - visione è rappresentata da brandelli di vita vissuta, di esperienza quoti - diana. Tracce della nostra identità, insomma. “Life sharing”, come lo de- finiscono gli esperti. Qualsiasi infor - r r mazione, pensiero, aneddoto, imma- gine è in grado di raccontare una storia, comunicare chi siamo e, forse ancor più, come vorremmo apparire agli occhi di chi ci guarda. Una spin- ta così forte da condurre velocemen- te all’eccesso: lasciare il maggior nu- mero possibile di tracce digitali per manifestare la propria presenza e gratificare il proprio ego. I detrattori dell’essere social a tutti i costi liqui - dano il fenomeno parlando di ego- centrismo, voyeurismo e compulsivi - GOOGLE e Microsoft useranno nei loro browser una opzione “don’t track” a tutela della privacy Dilaga il LIFE SHARING su Twitter, F acebook,YouTube & Co. Per non annegare occorre diventare “curatori di contenuti” About L ’evoluzione dei social media ci renderà tutti canali di comunicazione. Può essere un vantaggio www.vogue.it/uomo-vogue/news O 19 Negli Sta- tes sempre più aziende all’atto dell’as- sunzione richiedono di visiona- re i profili virtuali dei candidati We are what we SHARE .

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Page 1: Life Sharing, Over Sharing (L'Uomo Vogue, Aprile 2012)

smo o da una perdita di si­curezza. Il punto è conside­rare Facebook, Twitter e YouTube come strumenti neutri, contenitori che o­gnuno di noi è libero di ri­empire con il contenuto più opportuno. Se ben utilizza­ti, possono diventare effica­ci strumenti di espressione sia personale sia professio­nale. Il cosiddetto “personal branding” è un approccio maturo e consapevole alle diverse piattaforme, utile a farsi conoscere in rete e ampliare il proprio network di relazioni professionali. L’avere un profilo Linke­dIn, un account Twitter o un blog personale aggior­un blog personale aggior­un blog personale aggiornati e interessanti può aiu­tare molto di più rispetto a un curriculum tradizionale. La ricetta è semplice: met­tere in evidenza le proprie competenze e le proprie passioni, definire uno stile di comuni­cazione originale, rilanciare i conte­nuti più interessanti scoperti in rete nelle aree di competenza, individua­re altri utenti accomunati dagli stes­si interessi e avviare con loro una conversazione duratura. Una buona strategia di personal branding impli­ca il sapersi esporre trovando una sorta di equilibrio costruttivo tra con­tenuti professionali e personali. Le medesime indicazioni valgono anche per le tante aziende che si stanno av­vicinando ai social media per intera­gire in modo diverso con i propri

clienti: molte si limitano a vedere Fa­cebook o Twitter come canali pro­mozionali alternativi, dove l’unica cosa che conta è il numero di follo­wer, come si trattasse di una newslet­ter. Al contrario, aziende come Nike, Coca­Cola e Starbucks ne fanno un utilizzo più strategico puntando su un processo di coinvolgimento tale da creare una reale interazione con l’utente, slegata dalle banali attività promozionali. Anche il “corporate storytelling” trova quindi nel life sha­ring un esempio da seguire. Cosa ci aspetta nel prossimo futuro? L’era

della condivisione è appena iniziata e certamente non ne sono state an­cora colte tutte le potenzialità. La crescente diffusione di piattaforme come Storify (dove creare aggregati tematici di storie raccontate sui so­cial media) e Pinterest segnano il consolidarsi della “content curation” come uno dei trend più significativi, sia per gli utenti sia per il business.

Alla creazione di contenuti origi­nali si affiancano la selezione e l’ag­gregazione di risorse che possano essere interessanti per una determi­nata community. Questo approccio qualitativo e altamente selettivo sarà un ottimo deterrente nei confronti degli utenti interessati solo a condivi­dere il maggior numero di informa­zioni a scapito del valore generato. L’evoluzione dei social media rende­rà tutti veri e propri canali di comu­nicazione. Sarà la qualità dei conte­nuti e delle storie condivise a fare la differenza. (Dall’alto. Evan Williams, fondatore di Twitter, ph. Chloe Aftel, L’Uomo Vogue, gennaio 2011; Tim Cook, nuovo Ad di Apple, ph. Get-tyimages; David Karp, fondatore di Tumblr, ph. Lele Saveri, L’Uomo Vo-gue, gennaio 2011. In apertura. Ba-rack Obama a un dibattito sponsoriz-zato da LinkedIn e Mark Zuckerberg. Ph. Gettyimages) Stefano Mizzella*

*Sociologo, strategist in H-Farm Ven-tures, dove si occupa della strategia di-gital e social delle startup del gruppo. Il suo blog è www.socialmediascape.org e su Twitter è @stefanomizzella.

tà, appunto. E il rapporto tra libertà d’espressione e privacy è un altro aspetto critico della questione: se da un lato esistono piattaforme e appli­cazioni mobili per condividere prati­camente qualsiasi cosa, dall’altro ad aumentare è soprattutto la paura di una perdita di controllo nei confronti delle informazioni pubblicate in rete.

Paradossalmente, questa preoccu­pazione spesso non trova riscontro in un utilizzo più critico delle piattafor­un utilizzo più critico delle piattafor­un utilizzo più critico delle piattaforme stesse: quanti, infatti, possono af­me stesse: quanti, infatti, possono af­me stesse: quanti, infatti, possono affermare di aver letto scrupolosamen­te tutti i termini di servizio legati alle applicazioni più in voga del momen­to? Quelli di Pinterest, per esempio, mettono in guardia l’utente sull’im­portanza di condividere esclusiva­mente contenuti di cui si è titolari e che non ledano i diritti di proprietà intellettuale di terzi. In realtà, basta passare qualche minuto su Pinterest per accorgersi che la stragrande mag­gioranza delle “tavole” fa riferimento a immagini pescate in rete di cui solo in rare occasioni viene citata la fonte originale. Grandi player come Goo­gle, Aol e Microsoft si sono riuniti al­la “Digital advertising alliance” per consentire all’utente, attraverso una opzione del browser, di evitare la consueta raccolta di informazioni sulle abitudini di navigazione. Il buon senso e un utilizzo ragionato degli strumenti del web rappresentano il modo migliore per non sentirsi mi­nacciati da un eccesso di presenziali­

gni 60 secondi vengono visti su YouTube 2 milioni di video, pubblicati su Fa­cebook 700.000 messaggi, postati su Twitter 175.000 tweet e registrati su Four­

in. La condivisione è uno degli

aspetti più significativi del nostro tempo: un piacere per alcuni, un indi­ce di compulsività per altri. I social media trovano nell’atto dell’“online sharing” la propria ragione d’essere. Ma cos’è che amiamo maggiormen­te condividere? Link, informazioni, certo, anche se la vera moneta di scambio nell’economia della condi­visione è rappresentata da brandelli di vita vissuta, di esperienza quoti­diana. Tracce della nostra identità, insomma. “Life sharing”, come lo de­finiscono gli esperti. Qualsiasi infor­finiscono gli esperti. Qualsiasi infor­finiscono gli esperti. Qualsiasi informazione, pensiero, aneddoto, imma­gine è in grado di raccontare una storia, comunicare chi siamo e, forse ancor più, come vorremmo apparire agli occhi di chi ci guarda. Una spin­ta così forte da condurre velocemen­

te all’eccesso: lasciare il maggior nu­mero possibile di tracce digitali per manifestare la propria presenza e gratificare il proprio ego. I detrattori dell’essere social a tutti i costi liqui­dano il fenomeno parlando di ego­centrismo, voyeurismo e compulsivi­

googlee Microsoft userannonei loro browser una opzione “don’t track” a tutela della privacy

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Dilaga il life sharing su Twitter, facebook, YouTube & Co. Per non annegare occorre diventare “curatori di contenuti”

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l’evoluzione dei social media ci renderà tutti canali di comunicazione. Può essere un vantaggio

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gni 60 secondi vengono visti su YouTube 2 milioni di video, pubblicati su Facebook 700.000 messaggi, postati su Twitter 175.000 tweet e registrati su Four­square 2.000 check­in. La condivisione è uno degli

aspetti più significativi del nostro tempo: un piacere per alcuni, un indi

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Negli Sta-tes sempre più aziende all’atto dell’as-sunzione richiedono di visiona-re i profili virtuali dei candidati

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