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2 La «Terra di Mezzo». Il recupero del celtismo padano Come si chiama questa Terra? Québec: una speranza anche per noi Padania-Italia: quale «questione nazionale»? Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana Anno 1 - N. 2 2 Autunno 1995

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2La «Terra di Mezzo».Il recuperodel celtismopadano

Come si chiamaquesta Terra?

Québec:una speranzaanche per noi

Padania-Italia:quale «questionenazionale»?

Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana Anno 1 - N. 22Autunno 1995

Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana Anno 1 - N. 2 - Autunno 1995

I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla“Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche acontributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista.Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana,C.P. 792, via Cordusio 4, 20123 MILANO

La «Terra di Mezzo». Il recuperodel celtismo padano - Maurizio G. Montagna 1Come si chiamaquesta Terra? - Gilberto Oneto 5Québec: una speranzaanche per noi - Corrado Galimberti 10Padania-Italia: quale «questionenazionale»? Considerazioni storiche,politiche ed economche - Michele Corti 15Biblioteca padana 35

Anno I, N. 2 - Autunno 1995 Quaderni Padani - 3

La «Terra di Mezzo»

dallo stato cosiddetto liberalee culminato tragicamente conil ventennio fascista, costrin-se per decenni i giovani stu-denti ad accettare, spesso in-consciamente, un patetico cul-to della romanità. Questa ten-denza, esasperata in modo cla-moroso dalla dittatura, si svi-luppò parallelamente ad untanto ridicolo quanto pericolo-so spirito di emulazione: nelmoderno Regno d’Italia si vol-le vedere la prosecuzione ide-ale della Roma dei Cesari e,conseguentemente, se ne vol-le imitare l’espansionismo. Aquesta perniciosa esigenza ob-bedirono le aggressioni italia-ne in Africa orientale: l’assun-zione da parte del Re d’Italiadel titolo di “Imperatore”, scip-pato al monarca locale, permi-se alle autorità italiane di pro-clamare grottescamente la ri-nascita dell’Impero a Roma.Contemporaneamente si mol-tiplicavano in tutto il Regnoscritte murali che incitavanola popolazione al raggiungi-mento di una “Italia romana”.

Dopo la guerra e il ritornodelle istituzioni democratiche,l’ostracismo nei confronti di ciòche risultava differente dalla sto-riografia “ufficiale” riuscì a so-pravvivere. Le odiose imposizio-ni autoritarie proprie della dit-tatura erano in buona parte pas-sate agli archivi; tuttavia, il cen-

tralismo culturale non fu so-stanzialmente smantellato. Cer-to è che l’interpretazione univo-ca e totalmente priva di spiritocritico di alcuni periodi o avve-nimenti storici rimase, nellamaggioranza dei casi, l’unicachiave di lettura permessa nellescuole della Repubblica. Crebbequindi, nelle popolazioni chenon potevano vantare chiareorigini latine una chiara volon-tà di assimilazione culturale,accompagnata da un senso dimalcelato disagio per tutto ciòche potesse essere ricondotto adun passato barbarico.

Quasi nulla si fece per cono-scere realmente le antiche cul-ture che erano preesistite allaromanità e che, nella stragran-de maggioranza dei casi, le era-no non difficilmente sopravvis-sute. Così, dal 1800 ad oggi ab-biamo visto prosperare societàdi cultura celtica in Irlanda,Galles, Bretagna, Scozia, Corno-vaglia, Man, Galizia e Asturie ela storia gallica ha suscitatograndi passioni in Vallonia e per-sino in Francia (seppure talvol-ta a fini strumentali), mentre inquella che fu ufficialmente de-finita Gallia Cisalpina il fenome-no si è spesso rivelato margina-le.

La timida inversione di ten-denza che è sembrata manife-starsi in questi ultimi anni nonpuò cambiare questo giudizio:

cittadini della Val Padanaoccidentale non hannomai mostrato eccessivoI

entusiasmo per le loro originiceltiche (1). Se eccettuiamo illavoro di un numero tuttosommato minoritario di stu-diosi o intellettuali, infatti,notiamo con facilità che trop-po poco si è scritto sulle radicigalliche dei popoli cisalpini. Ilibri didattici “ufficiali” desti-nati alle scuole elementari omedie (o superiori, purtrop-po), tendono a svalutare l’im-portanza degli antichi celti(spesso bollati con il razzisti-co epiteto di “barbari”) e, con-temporaneamente, ad esaltarele imprese di Roma. Non è fa-cile che un giovanissimo allie-vo venga a conoscenza deimassacri condotti dalle legio-ni dell’Urbe, mentre è frequen-te che la scuola si preoccupi disottolineare la presunta roz-zezza di tutte le antiche popo-lazioni europee non rientran-ti nell’area greco-romana.

Il centralismo “da operetta”adottato, dal 1861 in avanti,

(1) Si parla di Val Padana occidentale (oValle del Po occidentale) perché il Ve-neto non è considerato parte delle re-gioni di origine celtica, comunementeidentificate in Piemonte, Lombardia,Emilia e Romagna. Si suole includerein questo elenco anche la Liguria, le cuiradici non sono propriamente celtichema il cui idioma è di fatto assimilabilealle lingue celto-romanze.

di Maurizio G. Montagna

Il recupero del celtismo padano

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non è sufficiente organizzarequalche festa celtica, ascoltarecon maggiore interesse la mu-sica tradizionale locale o sceglie-re la Bretagna come meta di fe-rie per rovesciare la disastrosasituazione che ha privato gene-razioni e generazioni della pro-pria storia. Una storia che co-minciò in un’epoca compresapressappoco tra l’età del bronzoe l’età del ferro e che vide le pri-me migrazioni di celti a sud del-l’arco alpino. Le successive ca-late, che provocarono scontri trale popolazioni galliche e gli etru-schi per il controllo politico,militare e commerciale dellavasta pianura subalpina, fonda-rono la civiltà celto-padana cheresiste ancor oggi, pur tra mille

difficoltà. La fondazione ad ope-ra dei celti insubri di Mediolaa-non (l’odierna Milano, che as-surse presto a centro più impor-tante del territorio cisalpino) el’istituzione di floridi commer-ci stabilizzarono la presenza gal-lica a sud delle Alpi, proprio nelperiodo in cui i celti erano stan-ziati in una vasta parte d’Euro-pa; le istituzioni degli abitantidella pianura padana si svilup-parono rapidamente ed i contat-ti commerciali con le altre po-polazioni conobbero un buonsuccesso. Furono i primi scon-tri bellici con i romani, diven-tati quasi “vicini di casa” a se-gnare la progressiva perdita diautonomia e di libertà dei Gallicisalpini.

Il declino del popolo celticocisalpino iniziò nell’anno 390a.C., quando un plotone di mer-cenari galli, ingaggiati da unmagistrato del posto per “rego-lare” affari interni, si trovava adassediare Chiusi, importante cit-tà fortificata del regno etrusco.Quando i chiusini chiesero aiu-to a Roma, il Senato preferì aste-nersi da un impegno di tipo mi-litare ed inviò in Etruria alcunidiplomatici, incaricati di media-re imparzialmente tra le dueparti in conflitto.

Ciò non fu: gli inviati romani,trasgredendo gli ordini ricevu-ti, aggiunsero le loro forze aquelle dei chiusini e, per manodel legato Quinto Fabio, si rese-ro responsabili dell’omicidio diun comandante dell’esercitogallico. Gli assedianti, venuti aconoscenza dell’avvenimento,pretesero che lo stesso QuintoFabio fosse loro consegnato.Tuttavia, le istituzioni di Romarisposero in maniera altamenteprovocatoria: non solo negaro-no l’estradizione del legato ma,anzi, concessero a lui e ai suoifratelli l’incarico tribunizio mi-litare con potere consolare. L’af-fronto fece sì che i Galli, toltol’assedio a Chiusi, facessero ra-pido rientro ai loro villaggi perchiedere rinforzi in vista di unmassiccio intervento militarecontro Roma.

Il seguito è piuttosto noto: nel387 a.C. il re Brenno guidò i suoiGalli senoni (stanziati pressap-poco nell’attuale territorio ro-magnolo/pesarese) alla conqui-sta di dell’Urbe e, dopo aver pre-teso e ottenuto ingenti ripara-zioni di guerra, lasciò indistur-bato la città pronunciando bef-fardo la sua celebre sentenza:“Vae Victis!” (2).

(2) “Guai ai vinti!”. Tito Livio, op.cit.,libro V, cap. XLVIII.

Le spedizioni celtiche nella penisola italica

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una vasta colonizzazione delterritorio insubre da parte deicenomani, che, però, furonoposti in una chiara condizionedi vassallaggio e senza dirittodi cittadinanza romana. Nonfu, quindi, una grande sorpre-sa vedere i galli (cenomanicompresi) unirsi compatti adAnnibale quando, nel 218 a.C.,il condottiero africano valicò leAlpi con i suoi elefanti. In casodi vittoria cartaginese, si sa-rebbe prospettata l’alternativatra la restaurazione dell’indi-pendenza celtica o un’altra al-lettante prospettiva: l’istitu-zione di un legame federale trala Gallia e Cartagine (e la con-seguente acquisizione della

I Romani erano stati scon-fitti (3) ed umiliati su due fron-ti: da una parte la disfatta mi-litare, netta, inequivocabile, ilcui spiacevole ricordo nonavrebbero mai superato total-mente, neppure nei momentidi maggior fulgore dell’Impe-ro; dall’altra la più sorprenden-te resa sul piano di un pur ru-dimentale diritto internazio-nale a un popolo che era daloro considerato poco più cheprimitivo.

I Galli, appellandosi in modocosì naturale a quel “dirittodelle genti” (4) che i romani,ancor oggi definiti padri dellamoderna giurisprudenza,ignoravano o calpestavano co-scientemente, dimostravano diessere un popolo sufficiente-mente progredito. Ciò diedemolto fastidio ai futuri domi-natori del mondo, che ritenne-ro assai umiliante il fatto diavere preso lezioni di dirittodai Galli.

Il primo conflitto gallo-ro-mano fu, comunque, il primocapitolo di una lunghissimaserie. Gli equilibri erano desti-

nati a rovesciarsi irreversibil-mente: fu così che nel 285 a.C.,dopo aver vinto la terza guer-ra sannitica (5), i romani ope-rarono un genocidio scienti-ficamente condotto ai dannidella popolazione dei Galli se-noni.

Qualche decina di annidopo, le legioni, con il decisi-vo aiuto dei collaborazionisticelti cenomani, sfondaronoanche in Gallia Transpadana (6)riportando, nel 222 a.C., unacruenta vittoria sugli insubri,la cui prima conseguenza fu laconquista romana di Milano.

Dopo la battaglia, gli occu-panti decisero di permettere

(3) La sconfitta militare dei romani fuinequivocabile. La leggenda, riportatada Livio, secondo cui Marco Furio Ca-millo raggiunse e batté i Galli in ritira-ta, è priva di qualsiasi fondamento: Po-libio e Diodoro Siculo non ne fannoparola; anche due grandi storici moder-ni come Gerhard Herm e TheodorMommsen concordano nel non attri-buirvi alcun crisma di veridicità. Non èescludibile che la leggenda sia stata in-ventata da Livio per minimizzare la piùgrande sconfitta di Roma; più probabi-le è che sia sorta a livello popolare comeinconscio processo di rimozione neiconfronti di una disfatta militare.(4) “Ius gentium”. Tito Livio, op.cit., li-bro V, cap. XXXVI.(5) La terza guerra sannitica (298÷29Oa.C.) vide i romani contrapposti a unacoalizione di celti, etruschi ed italici (tracui sanniti, lucani ed umbri).(6) La parte della Gallia Cisalpina al dilà del fiume Po.

Guerrieri Celti (V secolo a.C.). (Disegno di Angus Mc Bride)

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cittadinanza punica da partedei cisalpini) (7).

Inizialmente, nonostantel’indisciplina dei Galli, Anniba-le inanellò vittoria su vittoria,liberò la Gallia occupata e sem-brò minacciare molto seria-mente la stessa città di Roma.

Ma quando, vittima dei suoistessi errori, il comandantecartaginese fu costretto a tor-nare in Africa, i Galli cisalpinirestarono soli, in balia di lorostessi.

Le legioni tornarono in Gal-lia per scatenare una tremendacaccia all’uomo; i cenomani ri-tornarono ‘nei ranghi’ per evi-tare, pur in modo non troppoonorevole, il massacro e si alle-arono nuovamente con i roma-ni; le altre tribù galliche, inve-ce, iniziarono a condurre un’in-solita guerra partigiana su va-stissima scala che li vide scon-fitti solo dopo il 70 a.C (8).

I Galli si erano, quindi, tra-sformati in ‘resistenti’; l’abilitànella conduzione di guerrillas edi imboscate divenne una loropeculiare caratteristica (9). Laconquista romana del paese cel-tico, comunque, era destinata adestendersi: prima fu annessa laGallia Narbonense (corrispon-dente a parte del sud dell’attua-le Francia); poi fu la volta deiceltiberi (situati nella parte nor-doccidentale della penisola ibe-

rica) fiaccati da Pompeo (77÷71a.C.) e stroncati da Cesare (61a.C.); infine vennero conquista-te la Gallia Transalpina (58 ÷ 50a.C.) e la Britannia (a più ripre-se, dal primo sbarco di Cesarenel 54 a. C. alla spedizione diAgricola, terminata nell’84d.C.).

L’occupazione romana dellaGallia, unita al seguente perio-do di germanizzazione, ha acco-munato Francia e Val Padanaoccidentale nella cultura comu-nemente chiamata celto-roman-za (o gallo-romanza), nata dallafusione tra il sostrato celtico ediversi superstrati (fondamenta-li quelli latino e germanico). Lelingue parlate in Piemonte e inLombardia, ad esempio, posso-no essere ricondotte alla gran-de famiglia “capitanata” dallalingua francese.

Esiste ancora, quindi - lingui-sticamente e culturalmente -una forte identità celto-roman-za. È dunque possibile una col-laborazione transfrontaliera trai vari popoli che si riconosconoin questa comune identità? Larisposta è, naturalmente positi-va. A patto che i cittadini delleGallie si impegnino (e l’impegnodeve essere soprattutto persona-le) a non perdere ciò che è re-stato loro della plurimillenariaeredità celtica. I più grossi pro-blemi vengono dalla Repubbli-ca Italiana, rimasta ancora ro-manocentrica, anche dal puntodi vista culturale; tuttavia, laprobabile evoluzione federaleverso cui questo stato sembrafinalmente essersi incammina-to potrebbe risolvere parecchieincognite in questo senso. Piùcomplicata la situazione dellaFrancia, che da un lato ricono-sce ed esalta le radici galliche delpaese e dall’altro nega il dirittodi autodeterminazione a ungran numero di nazioni incluse

nel proprio territorio (compre-sa la Bretagna, appartenente aipaesi di lingua e cultura celti-ca). Nel Belgio francofono, ilnazionalismo gallico è statospesso blandito per pura rivali-tà nei confronti della parte fiam-minga dello stato; si confida chela recente trasformazione fede-rale di Bruxelles riesca a inca-nalare le energie in un sensounicamente costruttivo. Infine,la Svizzera, per molti versi pae-se modello in campo mondiale.Nella Confederazione Elvetica,le quattro culture presenti sulterritorio rappresentano l’orgo-glio di un paese che vede nellapluralità una inesauribile ric-chezza. Berna, quindi, non cor-re il minimo rischio di omoge-neizzazione culturale; sta agliabitanti di Ticino e Romandiaripescare le radici celtiche delleproprie regioni rinunciando adabusare dell’imprecisa definizio-ne di “paesi latini” che troppospesso attribuiscono ai luoghi daessi stessi abitati. A parte que-sta considerazione, non è diffi-cile convenire che la Svizzera,oltre a rappresentare il modelloistituzionale per qualsiasi statoeuropeo, potrebbe in futuro gui-dare la rinascita culturale celto-romanza e la conseguente col-laborazione transfrontaliera trai vari popoli di origine gallica,seguendo, magari, l’esempiodella Celtic League (associazio-ne che raggruppa tutte le nazio-ni di lingua celtica: Irlanda, Gal-les, Scozia, Cornovaglia, Man eBretagna) o della associazioneche organizza il festival intercel-tico di Orient (a cui sono am-messe, oltre che i paesi prece-dentemente citati, anche la Ga-lizia e le Asturie).

Il tempo sarà il miglior giudi-ce di questo importante proces-so, ma la reale responsabilitàspetterà in gran parte ai singolicittadini.

(7) Ottenere la cittadinanza di uno sta-to prestigioso come Cartagine era con-siderato un onore dai Galli.(8) In pianura il grosso dei combatti-menti finì verso il 175 a.C.; nelle zoneappenniniche, invece, i celti, insieme aiLiguri, diedero battaglia fino a dopo il70 a.C.(9) È impressionante il modo in cui ilontanissimi discendenti degli antichicelti abbiano conservato, quasi fosseun’inconscia eredità, questa prerogati-va fino al secolo corrente: basta pensa-re alla conduzione della guerra d’Indi-pendenza irlandese o della Resistenzaitalofrancese durante la seconda guer-ra mondiale.

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Anno I, N. 2 - Autunno 1995 Quaderni Padani - 7

Secondo credenze diffuse soprattutto nell’an-tico Egitto, in Palestina e nel mondo primitivomediterraneo, il nome è infatti molto più che unsemplice segno di identificazione: esso è una di-mensione essenziale della identità che rappresen-ta. Pronunciando, scrivendo o conservando unnome si fa vivere o sopravvire l’entità che indica;la sua dimenticanza ne comporta la cancellazio-ne fra gli esseri viventi (1).

In coerenza con questa credenza, la devastantee sistematica opera di annientamento cui è statasottoposta nell’ultimo secolo la nostra terra hatentato di toglierle anche il nome.

Di sicuro si tratta della comunità più grande almondo che rischia di non avere più un nomeuniversalmente riconosciuto.

Eppure la terra compresa fra le Alpi, i mari Li-gure e Adriatico e l’Appennino è stata nel tempoindicata con numerose diverse denominazioni.

Per i Greci ed i Romani essa era la Gallia Cisal-pina, la parte ad essi geograficamente più vicinadel grande mondo celtico che occupava gran par-te dell’Europa nord-occidentale e che guardava-no con paura e rispetto.

Il suo legame con il resto dell’Europa continen-tale era evidente e la si distingueva dalle altreGallie solo per la sua posizione rispetto alle Alpi,dette anche “monti celtici”. Essa era distinta inGallia Transpadana e Cispadana in relazione algrande fiume che l’attraversa.

Più tardi è stata anche chiamata Gallia Togatain contrapposizione alla Gallia Bracata, posta aldi là delle montagne. Questa denominazione chesuona oggi un po’ stravagante si deve forse allediverse consuetudini di abbigliamento dovute allepiù miti condizioni climatiche o può essere col-legata alle diverse fasi di occupazione e di roma-

di Gilberto Oneto

P rivare un essere vivente o un popolo del pro-prio nome significa distruggerne l’identitàed annullarne l’esistenza.

Come si chiama questa Terra?

nizzazione dei costumi degli abitanti.La naturale “celticità” dell’area è stata ricono-

sciuta anche nelle suddivisioni amministrative dietà Augustea con le denominazioni regionali di(Gallia) Transpadana, di Liguria e di Venetia (dalnome degli abitanti) e di Aemilia, un neologismocolonialista che testimonia l’acrimonia per le lottedi indipendenza delle tribù galliche locali (soprat-tutto Boi e Senoni) e che scomparirà con la do-minazione romana fino alla sua improvvida rie-sumazione postrisorgimentale.

A causa della mancanza di fonti scritte, non sisa con precisione come i Celti chiamassero sè stes-si e le terre che abitavano.

Da una serie di elementi si può però ipotizzareche chiamassero la valle padana semplicementeLanon o Lanum (“la pianura”). Il maggiore rife-rimento ci viene dalla denominazione originariadi Milano (Midlan, Mediolanum) che significavaluogo centrale (“luogo al centro della pianura”)sia in termini fisici che simbolici.

L’ipotesi avanzata da alcuni circa la denomina-zione di Medionemeton della città insubrica por-terebbe anche a Nemeton, termine celtico comu-nemente impiegato per indicare un’area sacra,una terra in qualche modo sacra. Tutte le leggen-de pervenuteci circa la discesa in valle padana ela fondazione di Milano confermano la marcatasacralità attribuita a questa terra (2).

Altre fonti indicano le denominazione celticadi Terra di Mezzo, con riferimenti geografici (terrafra le montagne, terra fra il mondo continentalee quello mediterraneo) ma anche simbolici chesi ricollegano in qualche modo all’idea di Neme-ton e di “Centro del Mondo”.

Strettamente legati alle popolazioni originariesono anche i nomi di Liguria, Venetia e Retia concui sono state indicate per tempi molto lunghirispettivamente le parti occidentale, orientale esettentrionale della Padania.

Soprattutto nell’ottocento ha goduto di specialesuccesso il termine Insubria per indicare la parteoccidentale della valle padana.

Importanti e diffuse denominazioni sono deri-

(1) Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dictionnaire des Sym-boles (Paris: Seghers, 1974), pp.278-80.(2) Marco Fulvio Barozzi, I Celti e Milano (Milano: Edizionidella Terra di Mezzo, 1994), p.152.

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vate dal nome del suo fiume più grande che necostituisce anche l’elemento geografico più qua-lificante nonchè la vera ragione di esistenza fisi-ca e di vita.

Nell’antichità il Po era indicato con tre nomi:due - Bodincus e Padus - di origine indigena eduno di attribuzione straniera, Eridanus.

Bodincus (o Bòdenkos) è nome di origine ligu-re caratterizzato dal radicale idronimico retoli-gure bod che starebbe per “fossato” cui si collegaanche l’identico termine celtico bod significante“alveo/profondità” (3). Bodincus starebbe perciòa significare “profondo corso d’acqua”, “fiumeprivo di fondo” (4).

Il radicale bod sarebbe una forma apofonica delceltico pad di analogo significato che è all’origi-ne del termine Padus. Ciò significherebbe unasostanziale identità fra le due denominazioni (pro-vata anche dal greco βαδυσ (badus), “profondo”)che avrebbero avuto un impiego sovrapposto e -secondo alcuni studiosi - sarebbero anche stateusate per indicare due parti del corso del grandefiume: Bodincus quello superiore e Padus quelloinferiore (5).

Per il termine Padus (o Paudus) è stata ancheipotizzata un’altra origine: secondo Metrodoro di

Scepsi il nome deriva dal fatto che la sorgentedel fiume era circondata da pini di un tipo che icelti chiamavano padi, dal termine gallico di pa-des che significava “resina” (6).

Da Padus, ripreso dal latino, sarebbe derivato ilmoderno Pò.

Gianni Brera indica invece per l’attuale nomedel fiume una più fantasiosa origine orientale:l’etimo po in cinese significa “palude” e sarebbe-ro stati gli Unni ad importarne il nome che haavuto successo per la sua assonanza con Padus.Lo stesso Brera propone una interpretazione an-cora più suggestiva per il nome del Numen Pa-dus: esso significherebbe “padre”, con relazioneagli idiomi indoeuropei e perchè il termine pàfigura in tutte le lingue padane “come venerabiled’anni e come padre del padre” (7).

L’origine probabilmente greca del termine Eri-danus (è anche il nome di un fiume dell’Attica)ricorda che i primi esploratori e descrittori del-l’area erano greci. La conoscenza approssimativache questi avevano dell’Europa occidentale ha ine-vitabilmente lasciato spazio ad interpretazionifantastiche e mitologiche: il mito di Fetonte dàal fiume un iter celeste ed infernale che ha favo-rito il colorito poetico che ha in seguito assuntoil nome di Eridano. Per lo stesso stato di indeter-minatezza geografica, il nome di Eridano è statoanche attribuito al Rodano ed al Reno (8). Dainomi del Po sono derivati i termini di Padania edEridania che si riferiscono ad una area geografi-ca assai più ampia del bacino idrografico del fiu-me (Tav.1).

Si ricollega in qualche modo all’oggi usatissi-mo Padania lo stravagante neologismo di Alpa-nia, proposto dal noto esponente dell’autonomi-

(3) Raymond Chevallier, Geografia Archeologia e Storia del-la Gallia Cisalpina, vol.1 (Torino: Antropologia Alpina, 1988),pp.135-136.(4) Giovan Battista Pellegrini, Toponomastica Italiana (Mi-lano: Hoepli, 1990), p.103.(5) Raymond Chevallier, op.cit., p.135.(6) Pierino Boselli, Toponimi Lombardi (MIlano: SugarCo,1977), p.217.(7) Gianni Brera, Storie dei Lombardi (Milano: Baldini & Ca-stoldi, 1993), p.15.(8) Raymond Chevallier, op.cit., pp.136-137.

Tavola 1. Il bacino idrografico del Po

Tavola 2. Langobardia Major (VI sec.)1) Neustria; 2) Austria; 3) Tuscia; 4) Esarcato.

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smo padano Antonio Bodrero (Barba Toni Bau-dré).

Per trovare un’altra denominazione carica divalore storico occorre attendere lo stanziamentodei Longobardi. Fin dal VI secolo si è infatti co-munemente chiamata Longobardia tutta la par-te di penisola strappata dai Longobardi al domi-nio bizantino (Tav.2).

La desinenza -ia non poteva che essere di ori-gine bizantina: una sorta di denominazione uffi-ciale usata per indicare le parti d’Italia sotto ildominio longobardo in contrapposizione allaRomania (da cui Romagna), porzione conservatadall’Impero d’Oriente (9).

Il primo documento che cita espressamente taletermine sono i Capitolari di Carlo Magno, dell'805,nei quali si dice che a re Pipino veniva assegnataquella parte d’Italia “quae et Longobardia dici-tur” (10).

Il termine si è modificato per rifacimento po-polare in Langobardia (dal tedesco Langobarden)e poi - in Italia settentrionale - in Lombardia.

I ducati meridionali hanno continuato invecead essere chiamati Langobardia Minor fino allaloro sparizione (11).

Diverse sono le versioni sull’origine del nomedei Longobardi. Una prima e più fantastica spie-gazione si riferisce alle “lunghe barbe” fatte con icapelli ed applicate ai visi delle donne longobar-de per aumentare l’apparente numero dei guer-rieri prima di un vittorioso scontro con i Vandali.

La seconda è collegata al termine hellebarde(da cui l’italiano “alabarda”) che indicava un’asciada combattimento dal lungo manico, in verità piùcomune fra i Vichinghi che non fra i Longobardi.

L’ultima interpretazione si riferisce alla specialedevozione di quel popolo ad Odino cui aveva affi-dato il suo destino. Questi era indicato nella mi-tologia nordica come “il Dio dalla lunga barba”(Langbardr) (12).

Il riferimento toponomastico ai Longobardi hacontinuato ad indicare l’intera Padania o granparte di essa per molti secoli. La forma Lombar-dia (così sincopata) ricorre per la prima volta nellaPauli Continuatio, poi (1049) nel Chronicon Ba-rense (13).

Essa costituisce il nome più ricorrente e dura-turo dell’area fino all’Ottocento, pur riferito aduna estensione territoriale parzialmente ridottarispetto a quella iniziale (Tav.3).

Giova notare come in quasi tutte le lingue eu-ropee i Longobardi siano detti Lombards e comeall’estero l’identificazione fra quel popolo e l’areageografica ad esso riferita non abbia mai avutosoluzioni di continuità.

Ancora oggi in Europa tale vocabolo è partico-larmente diffuso nella terminologia finanziaria aricordo dell’enorme influenza che i banchieri“lombardi” (milanesi, genovesi, veneziani maanche toscani) hanno avuto nello sviluppo dellaeconomia moderna (14).

A riprova della totale identità fra Lombardia e

Tavola 3. Regno d'Italia del Sacro Romano Im-pero (anno 1000)1) Lombardia; 2) Marca Veronese; 2a) Vescovato di Trento; 3)Friul (Patriarcato d'Aquileia); 4) Tuscia; 5a) Romagna; 5b)Marca Anconitana; 5c) Ducato di Spoleto; 5d) Patrimonio diSan Pietro.

(9) Dante Olivieri, Dizionario di Toponomastica Lombarda(Milano: Ceschina, 1961), p.306.(10) AA.VV., I Longobardi e la Lombardia (Milano: s.i.e., 1978),p.35.(11) Alessandra Melucco Vaccaro, I Longobardi in Italia (Mi-lano: Longanesi, 1988), p.12.(12) Jürgens Misch, Il Regno Longobardo d’Italia (Roma: Eu-rodes, 1979), pp.45-46.(13) Dante Olivieri, op.cit., p.307.(14) A partire dal 1200, sono stati i Lombardi a “inventare” eattuare le prime operazioni finanziarie (collegate soprattut-to al commercio della lana e dei tessuti). Probabilmente sonostati i piacentini i primi ad aprire filiali “bancarie” nelle grandicittà dell’epoca o nelle sedi delle principali fiere, ben prestoseguiti da senesi, lucchesi e fiorentini.Il termine “lombardo” è così diventato quasi sinonimo di“banchiere”. Traccia di ciò rimane non solo nelle varie “Viedei Lombardi” (Rue des Lombards, Lombard Street) che an-cora sopravvivono nella toponomastica di città come Parigie Londra, ma anche nel lessico tecnico delle operazioni ban-carie e finanziarie.In Germania, Gran Bretagna e Paesi Bassi, il “credito Lom-bard” designa un’operazione di anticipazione su titoli o mer-ci. Analogamente, negli stessi paesi, il “tasso Lombard” è untasso stabilito dalle Banche Centrali nei confronti delle ban-che ordinarie che ha funzione di guida, cioè che serve qualepunto di orientamento per la struttura generale dei tassi.

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Tavola 4. Città aderenti alla Lega Lombarda(1167 ÷ 1183)1) Vercelli; 2) Novara; 3) Asti; 4) Alessandria; 5) Cassine; 6)Tortona; 7) Gravedona; 8) Como; 9) Bergamo; 10) Brescia;11) Milano; 12) Lodi; 13) Cremona; 14) Pavia; 15) Mantova;16) Belluno; 17) Verona; 18) Vicenza; 19) Padova; 20) Trevi-so; 21) Venezia; 22) Piacenza; 23) Bobbio; 24) Parma; 25)Reggio; 26) Modena; 27) Ferrara; 28) Bologna; 29) Imola;30) San Cassiano; 31) Dozza; 32) Faenza; 33) Rimini; 34)Ravenna

Padania viene la denominazione della Lega Lom-barda che, nelle sue varie edizioni, ha unito cittàoggi lombarde, piemontesi, venete, emiliane e ro-magnole. La presenza di queste ultime dimostrache nel XII secolo la Lombardia aveva inglobatoanche le aree dell’esarcato che non erano mai sta-te longobarde (Tav.4). Ancora nel settecento lecarte lucchesi indicavano i territori ai propri con-fini settentrionali con lo Stato di Modena come“Parte della Lombardia” (15). Lo spazio denomi-nato Lombardia si è contratto col risorgimentocon la creazione di una regione Lombardia entroconfini che non avevano riscontro nella storia. IlDucato di Milano aveva infatti altri limiti e la re-gione moderna ha inglobato terre che erano sta-te piemontesi (Lomellina, Oltrepo) e veneziane(Bergamo, Brescia) per lunghi secoli.

Scompare nell’Ottocento l’uso quasi millena-rio del nome Lombardia per indicare la Padania.

Alla regione padana viene da allora attribuita

una serie di nuove denominazioni, tutte scrupo-losamente e inevitabilmente italo-centriche: Ita-lia Superiore (termine usato da geografi e stu-diosi come Costantino Nigra), Italia settentrio-nale, Settentrione, Italia del Nord, Nord o Nordi-talia (nomi impiegati normalmente sia nel lin-guaggio burocratico che in quello popolare).

Tutte queste denominazioni peccano di sem-plicismo e tendono a ridimensionare l’identitàpadana ad una appendice di un centro romano eitalico. L’intento riduttivo e di annientamento èevidente: a nessuno verrebbe in mente di chia-mare la Scozia Inghilterra del Nord o la BavieraGermania (o, peggio, Prussia) del Sud.

In questo equivoco gioco sono caduti anchemolti autonomisti padano-alpini che hanno ac-cettato di chiamarsi “nordisti” e che utilizzanotermini come “Altaitalia”, “Repubblica del Nord”e simili.

Occorre a questo punto ricordare l’origine deltermine Italia.

Esso deriverebbe dall’osco Vìteliù (“terra deivitelli”) che indicava un territorio ricco di bovinio la presenza del vitello come animale sacro.Ουιτουλια (Ouitoulia) sarebbe diventata Vita-

lia e Italia, forma assunta in Magna Grecia con lascomparsa del diagramma e con la caduta della Viniziale (16). Nella sua versione finale, il nomecompare nel VI secolo a.C. prevalendo su altredenominazioni di varia origine: Espéria, Ausònia,Enòtria, ecc. Esso designava all’inizio l’estremitàmeridionale della penisola calabrese a sud dei golfidi Sant’Eufemia e di Squillace. Secondo un’altrapossibile interpretazione delle fonti, avrebbe in-dicato la parte meridionale della Campania com-presa fra i fiumi Sele e Lao (17).

Esso è poi lentamente risalito lungo la peniso-la assieme alle conquiste romane fino a definiretutta l’area geografica compresa fra le Alpi ed ilMediterraneo (Tav. 5).

In seguito, il nome Italia è stato stranamenteimpiegato per indicare in prevalenza le parti cen-tro-settentrionali della penisola: il medievale Re-gno d’Italia terminava appena sotto Roma e l’omo-nimo stato napoleonico comprendeva solo la parteorientale della Padania e dell’Italia centrale. Ilmeridione sembra essere passato dall’antico nomedi Magna Grecia a Sicilia (o Sicilie) e Napoli (oNapoletano) con cui è stato chiamato fino all’Ot-tocento (18).

Come si è visto, le denominazioni date allaregione padana possono essere raggruppate in tretipi: quelle più antiche riferite ad altre regioni

(15) AA.VV., Terre di Confine. La cartografia della Val di Ser-chio tra Dominio Lucchese ed Estense nei Sec. XVI-XVIII(Lucca: CISCU, 1988), pp.26, 34, 127 e 131.(16) Giovan Battista Pellegrini, op.cit., p.69.(17) AA.VV., L’Italia Fisica (Milano: Toring Club Italiano, 1957)p.11.(18) È interessante notare come ancora oggi i meridionali ven-gano chiamati in Piemonte indistintamente napuli (“napo-letani”).

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Anno I, N. 2 - Autunno 1995 Quaderni Padani - 11

VI secolo a.C.VI secolo a.C. (altra versione)V secolo a.C.III secolo a.C.81 a.C. (Silla)27 a.C. (Augusto)292 d.C. (Diocleziano)

Tavola 5. Il progressivo estendersi del nome“Italia”

europee (Gallia), quelle generate da elementi “in-terni” (Padania, Longobardia, ecc.) e infine quel-le che fanno riferimento all’Italia. E’ piuttostosconsolante constatare come, nel tempo, esse si-ano scivolate sempre di più verso denominazioniromano ed italico-centriche che tendono a priva-re la regione di una identità propria.

Anche per questo motivo, è importante che oggisi torni ad una denominazione “autoctona” ed èentusiasmante assistere alla forte riaffermazionedel nome Padania nel linguaggio comune.

Esso sostituisce l’antico e glorioso Lombardia(Longobardia) che non è oggi riproponibile sen-za un adeguato cammino di “riabitudine” cultu-rale all’interno del quale sono già state avanzatealcune interessanti proposte che prevedono la ri-duzione dell’attuale Regione in Insubria o nello“svizzero” Lombardia Interna.

Con il quasi avvenuto superamento del condi-zionamento derivato da alcune immagini ridut-tive (il marcato legame con la “pianura” che fa -ad esempio - ancora parere strano ad un valtelli-nese di chiamarsi padano), il nome Padania sipresta alla perfezione ad indicare la nostra terra:esso si riferisce al suo elemento fisicamente piùcospicuo (il “padre” Po) e trae origine dal più pro-fondo substrato storico e culturale (celto-ligure)della regione.

Questo lo collega strettamente a tutti gli altrielementi forti che delimitano la Padania: il nomedelle Alpi è celtico, quello degli Appennini celto-ligure, quello del mare Adriatico di origine vene-tica e per il mare Ligure vince l’evidenza. L’inte-ra regione geografica è così difesa da toponimiche affondano le loro radici nelle più lontane ori-gini dei popoli che la abitano.

Padania è perfetto è stà lentamente penetran-do nella cultura popolare e nel linguaggio quoti-diano: sui giornali Padania stà sostituendo i variItalia Settentrionale, le sigle PDN si vedono sem-pre più spesso sugli autoveicoli e l’idea di padani-tà stà raggiungendo e convincendo anche le piùremote vallate alpine o le porzioni di costa chenon hanno relazioni geografiche con il grandefiume.

Solo all’estero continueranno a chiamarci lom-bards.

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qualche dubbio ci è sorto. Puòdarsi si tratti di dietrologia insalsa padana, o di fissazioni da"sgagnabroed”, ma sentiamoodor di bruciato.

Sì, perché abbiamo l’impres-sione che gli italici “mass me-dia” si siano a lungo “dimen-ticati” di un avvenimento sto-rico, di un appuntamento distraordinaria importanza, de-stinato a mutare il panoramageopolitico mondiale e che ciriguarda, o meglio ci potreb-be riguardare da vicino. Ci ri-feriamo al referendum sullasecessione dalla Federazionecanadese a cui i cittadini delQuebec sono stati chiamati avotare lo scorso 30 ottobre.Non ci sembra infatti che - ec-cezion fatta per il trimestraleLimes dello scorso marzo -giornali e televisioni abbianocompiuto il proprio dovere e ciabbiano informato comeavrebbero dovuto.

Il tono di compatimento oquello di condanna espressodai tuttologi nostrani nei con-fronti degli indipendentisti delQuébec ci lascia del tutto in-differenti. Se, del resto, unquotidiano del calibro del Cor-riere della sera scrive (ci rife-riamo ad un articolo di crona-ca nera apparso lo scorso ot-tobre) che Oslo è in Danimar-ca, quali analisi politiche do-vremmo aspettarci su un av-venimento che terrorizza i di-fensori dello status quo?

Abbiamo ragione di ritene-

Québec: una speranza anche per noi

l Québec è un paese so-vrano?Beh, confessiamo cheI

di uomini ed avvenimenti checi permettano di sperare di ri-conquistare la dignità dei po-poli padano-alpini che le no-stre lingue, culture, tradizio-ni, e storia del passato testi-moniano, ci rallegriamo dellegioie degli altri. In questocaso, della concessione del-l’autodeterminazione ad unpaese che la invoca. Pertantopubblichiamo il testo integra-le della “Dichiarazione di so-vranità” spedita a tutti i citta-dini del Québec prima del votoe pubblicata anche dalla rivi-sta Internazionale.

Dovremmo, noi per primi,dedicare a questo avvenimen-to una seria ed approfonditaanalisi. Non ne abbiamo lospazio. Ma approfittiamo del-l’evento di cui il mondo è sta-to testimone, per ricordare aipopoli che abitano la Padania,che sono sotto “tutela” italia-na. “I caden, anca se hinnd’or, lighen istess”...

re che il motivo di tanto silen-zio da una parte, e di superbae acritica avversione ai pala-dini dell’indipendentismo dal-l’altra, sia uno solo: se un pa-ese civile e democratico - qua-le è il Canada - concede ad un”proprio territorio” - in questocaso il Québec - il diritto al-l’autodeterminazione, è me-glio che se ne parli il menopossibile. Perché, se anche inItalia, qualcuno dovesse recla-mare questo fondamentale di-ritto...

Ci farebbe piacere discuterein modo civile con chi non èd’accordo con noi su questi ar-gomenti, senza essere accusatidi egoismo, tribalismo e, dul-cis in fundo ... razzismo. Nonsono epiteti che si addicono achi - come chi scrive - rifiutaogni forma di colonialismo etendenze all’omogeneizzazio-ne, di chi ritiene un valore enon un handicap le diversità.Noi, per il momento, in attesa

La bandiera del Québec

di Corrado Galimberti

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Ecco giunto il tempo dellamietitura nei campi della Sto-ria. È arrivato finalmente il mo-mento di raccogliere quello chehanno seminato per noi quat-trocento anni di donne, di uo-mini, e di coraggio, che hannomesso radici in questo suolo elo hanno fecondato.

Ecco che nasce per noi, ante-nati di domani, il tempo di pre-parare per i nostri discendentimessi degne delle fatiche delpassato. Che le nostre fatiche glisomiglino e infine ci somiglino.All’alba del diciassettesimo se-colo i pionieri di quella che sa-rebbe diventata una nazione, poiun popolo, si sono stabiliti nel-la terra del Québec. Venuti dauna grande civiltà, arricchiti dal-la civiltà delle “Prime nazioni” (1),hanno stretto nuove alleanze emantenuto l'eredità francese.

La conquista del 1760 non haspezzato l’ostinata volontà deiloro discendenti di rimanere fe-deli ad un destino originale inAmerica. Fin dal 1774, con l’At-to del Québec, il conquistatorericonosceva la specificità delleloro istituzioni. Né i tentativi diassimilazione né l’Atto di unio-ne del 1840 sono riusciti ad averragione della loro esistenza.

Con la comunità inglese chesi è stabilita accanto a loro ha

contribuito a formare questopopolo che, nel 1867, è diventa-to uno dei due popoli fondatoridella Federazione canadese (2).

Noi, popolo di qui.Poiché abitiamo i territori de-

limitati dai nostri antenati, dal-l’Abitibi alle isole della Madda-lena, dall’Ungava alle frontiereamericane, poiché da quattro-cento anni abbiamo disboscato,arato, misurato, scavato, pesca-to, costruito, ricominciato, di-scusso, protetto e amato questaterra che il San Lorenzo attra-versa e bagna.

Poiché questa terra pulsa infrancese e questa pulsazione staa significare tanto le stagioniche la regolano quanto i venti

che la piegano e gli individui chela modellano.

Poiché abbiamo creato quiuna maniera di vivere, di crede-re e di lavorare originale.

Poiché fin dal 1791 vi abbia-mo instaurato una delle primedemocrazie parlamentari delmondo e non abbiamo maismesso di perfezionarla.

Poiché l’eredità delle lottepassate e del coraggio dimostra-to incombe su di noi e deve sfo-ciare nell’assunzione irrevocabi-le della responsabilità del nostrodestino.

Poiché il nostro paese è il no-stro orgoglio e la nostra risor-sa, la nostra unica possibilità diesprimerci nell’interezza delle

(1) Con il termine di “Prime nazioni”definiscono sé stesse le popolazioniindigine di amerindi (“pellerossa”) edi eschimesi che abitano i territori ca-nadesi da prima dell’arrivo degli eu-ropei.(2) Con la presa di Montréal, nel 1760,si è conclusa la conquista del Québecda parte delle forze inglesi nell’ambitodella guerra dei Sette anni. L’anno pre-cedente, il 13 settembre 1759, il gene-rale inglese Wolfe aveva sconfitto il fran-cese Montcalm sulle alture di Abraham

ed aveva occupato la città di Québec.Nel 1774 il Parlamento inglese avevavotato la prima legge organizzativa dellanuova colonia, il Quebec Act (Atto delQuébec); in base ad esso il governo eraaffidato ad un governatore assistito daun Consiglio di nomina regia. Venivaannullata la disposizione ancora vigen-te in Inghilterra che escludeva i catto-lici (e quindi i Québecois, dalle carichepubbliche.Nel 1840 il parlamento di Londra avevavotato il Reunion Act (Atto di riunione)

che riuniva l’intero Canada sotto ununico governatore, con un Consiglioesecutivo scelto dal governatore stesso,un Consiglio legislativo nominato a vitae un’Assemblea eletta ogni quattro anni.Il 1° luglio 1867 (tuttora festa naziona-le) è entrato in vigore il British NorthAmerica Act (votato dal Parlamento diLondra) che costituisce la carta costi-tuzionale della federazione Canadese.L’Atto era stato varato anche in seguitoa rivolte scoppiate soprattutto fra lapopolazione francofona.

Dichiarazionedi sovranità

Il terrritorio del Québec (fonte: National Geographic Society)

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nostre nature individuali e delnostro cuore collettivo.

Poiché questo paese sarà tut-ti coloro, uomini e donne, chelo abitano, lo difendono e lo de-finiscono, e quelli siamo noi.

Noi, popolo del Quebec, di-chiariamo che siamo liberi discegliere il nostro futuro.

Conosciamo l’inverno. Cono-sciamo le sue brine, le sue soli-tudini, la sua falsa eternità e lesue morti apparenti. Sappiamobene come sono i suoi morsi.Siamo entrati nella Federazio-ne credendo a una promessa diuguaglianza in un’impresa co-mune e di rispetto della nostraautorità in molti campi per noivitali.

Ma il seguito ha smentito lesperanze dell’inizio. Lo Statocanadese ha trasgredito il pattofederativo invadendo in millemodi il campo della nostra au-tonomia e facendoci capire che

la nostra fede secolare nel-l’uguaglianza degli alleati eraun’illusione.

Siamo stati ingannati nel1982, quando i governi del Ca-nada e delle province anglofonehanno profondamente modifica-to la Costituzione a nostro dan-no, superando l’opposizione ca-tegorica della nostra Assembleanazionale. Due volte, da allora,si è cercato di riparare a questotorto. Nel 1990, il fallimentodell’accordo del lago Meech (3)ha rivelato il rifiuto di ricono-scere persino la nostra specifi-cità. Nel 1992, il rigetto dell’ac-cordo di Charlottetown (4), siada parte dei canadesi che da par-te del governo del Québec, haconsacrato l’impossibilità diogni accomodamento.

Poiché noi abbiamo resistitoa dispetto dei maneggi e deimercanteggiamenti di cui siamostati oggetto.

Poiché il Canada lungi dall’es-sere orgoglioso dell’alleanza frai suoi due popoli e di proclamar-la di fronte al mondo, non hamai smesso di banalizzarla e disancire il principio di una fintauguaglianza fra province.

Poiché, dopo la “Rivoluzionetranquilla” (5), abbiamo decisodi non rifugiarci nella sopravvi-venza, ma di costruire, d’ora inavanti, sulla nostra differenza.

Poiché abbiamo l’intima con-vinzione che continuare a rima-nere all’interno del Canada si-gnificherebbe sparire e snatura-re la nostra stessa identità.

Poiché il rispetto che dobbia-mo a noi stessi deve guidare lenostre azioni.

Noi, popolo del Quebec, af-fermiamo la nostra volontà didetenere la pienezza dei poteridi uno Stato: riscuotere tuttele nostre imposte, votare tuttele nostre leggi, firmare tutti inostri trattati ed esercitare lamassima delle competenze ide-ando e controllando, da soli, lanostra legge fondamentale.

Per gli individui di questo pa-ese, che di esso rappresentanola trama e il filo, per quelli equelle di domani che vediamocrescere, l’essere precede l’ave-re. Noi facciamo di questo prin-cipio il nucleo centrale del no-stro progetto. La nostra linguascandisce i nostri amori, i no-stri ideali e i nostri sogni perquesta terra e per questo paese.

Affinché il profondo senso di

(3) L’Accordo del lago Meech (1990) sta-biliva il concetto di “Società distinta”fra i due gruppi culturali. E’ stato rati-ficato da tutti gli stati della federazionetranne che da due stati anglofoni ed èpertanto decaduto.(4) L’Accordo di Charlottetown (1992) èun documento molto tecnico che sta-bilisce le competenze del Québec auto-nomo.(5) Per “Rivoluzione tranquilla” si inten-de il lento e civile processo di progres-siva acquisizione di autonomia e liber-tà da parte del Québec.

La massima espansione francese in Nordamerica (1750)(fonte: National Geographic Society)

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La popolazione francofona in Canada (fonte: National Geographic Society)

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appartenenza a un popolo di-stinto rimanga per sempre ilbaluardo della nostra identità,proclamiamo la nostra volontàdi vivere in una società di lin-gua francese. La nostra culturacanta e scrive di noi e ci dà unnome di fronte al mondo. Essasi colora e si arricchisce di di-versi apporti. È importante pernoi accoglierli, affinché maiqueste differenze siano vistecome minacce o motivi di intol-leranza.

Insieme, celebreremo le gioiee proveremo i dolori che la vitametterà sul nostro cammino.Soprattutto, ci prenderemo laresponsabilità dei nostri succes-si e dei nostri fallimenti, perchénell’abbondanza come nellasfortuna avremo compiuto lenostre scelte. Sappiamo conquali eroismi sono stati costru-iti i successi di questo paese. Ledonne e gli uomini che hannodeterminato la vitalità del Qué-bec vogliono lasciare i loro sfor-zi in eredità agli eroismi di do-mani. La nostra capacità di aiu-to reciproco e il nostro spiritod’iniziativa sono una forza. Ciimpegnamo a riconoscere e a in-coraggiare questa “passione peril lavoro” che fa di noi dei co-struttori.

Condividiamo con altri paesila virtù particolare di far fronterapidamente e bene alle sfidederivanti dal lavoro e dagliscambi. La nostra attitudine alconsenso e all’invenzione ci per-metterà di avere un posto ono-revole al tavolo delle nazioni.

Intendiamo sostenere l’imma-ginazione e la capacità delle col-

lettività locali e regionali nellaloro volontà di sviluppo econo-mico, sociale e culturale. Custo-di della terra, dell’acqua e del-l’aria, agiremo cercando di sal-vaguardare il futuro del mondo.Cittadini di questo nuovo pae-se, riconosciamo come doverimorali il rispetto, la tolleranzae la solidarietà degli uni nei con-fronti degli altri. Contrari all’au-toritarismo e alla violenza, ri-spettosi della volontà popolare,ci impegnamo a garantire la de-mocrazia e il primato del dirit-to. Il rispetto della dignità delledonne, degli uomini e dei bam-bini ed il riconoscimento deiloro diritti e delle loro libertàcostituiscono il fondamento del-la nostra società. Ci impegnamoa garantire i diritti civili e poli-tici degli individui, in partico-lare il diritto alla giustizia, il di-ritto all’uguaglianza ed il dirit-to alla libertà. La lotta contro lamiseria e la povertà, il sostegnoai giovani e agli anziani sonoessenziali per il nostro proget-to. I più sfortunati tra noi pos-sono contare sulla nostra soli-darietà e sul nostro senso di re-sponsabilità.

Poiché il nostro obiettivo èl’equa ripartizione delle ricchez-ze, ci impegnamo a promuove-re il pieno impiego e a garantirei diritti sociali ed economici: inparticolare il diritto all’istruzio-ne, il diritto ai servizi sanitarinonché agli altri servizi sociali.

Il nostro avvenire comune ènelle mani di tutti coloro per iquali il Québec è una Patria.

Poiché abbiamo a cuore il raf-forzamento delle alleanze e del-

le amicizie del passato, tutele-remo i diritti delle “Prime na-zioni” e speriamo di definire conloro una nuova alleanza. Allostesso modo, la comunità anglo-fona insediata storicamente nelQuebec gode di diritti che saran-no mantenuti.

Indipendenti, quindi piena-mente presenti nel mondo, in-tendiamo operare per la coope-razione, l’azione umanitaria, latolleranza e la pace. Sottoscri-veremo la Dichiarazione univer-sale dei diritti dell’uomo e glialtri strumenti internazionali diprotezione dei diritti.

Senza mai rinunciare ai nostrivalori, ci adopereremo per strin-gere, attraverso intese e tratta-ti, legami reciprocamente van-taggiosi con i popoli della terra.Soprattutto, faremo il possibileper inventare con il popolo ca-nadese, nostro alleato storico,nuove relazioni che ci permet-tano di mantenere i nostri rap-porti economici e di ridefinire inostri scambi politici. Compire-mo anche uno sforzo particola-re per rendere più saldi i legamicon i popoli degli Stati Uniti edella Francia e con quelli deglialtri paesi delle Americhe e deipaesi francofoni. Per portare acompimento questo progetto emantenere il fervore che ci per-vade e ci anima, poiché e venu-to finalmente il tempo di dareinizio alla grande impresa dicostruire questo paese.

Noi popolo del Quebec, pervoce della nostra Assembleanazionale, proclamiamo quan-to segue: il Quebec è un paesesovrano.

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Introduzione«Sopravviverà l’Italia fino al

2010?» (1) si chiede AntonioMartelli un autorevole politolo-go parafrasando un famoso sag-gio di uno storico dissidenterusso che negli anni ’70 avevaprevisto (azzeccandoci) il crol-lo dell’Unione Sovietica. Anchela «profezia» sul crollo dell’Im-pero Sovietico appariva utopisti-ca e provocatoria agli occhi de-gli occidentali «cremlinologi» oprofani che fossero.

Quasi nessuno si sarebbeaspettato che la «profezia» deldissidente russo si sarebbe pun-

tualmente verificata e che l’Ursssarebbe crollata nel 1991 dopoche già si erano affrancati dalgiogo comunista diversi paesi«fratelli» e che era caduto il«muro» di Berlino. Il quesitoche si pone Martelli non rappre-senta comunque solo una pro-vocazione. La «primavera deipopoli» dell’Est europeo hacomportato profonde implica-zioni anche all’Ovest ed in par-ticolare in una situazione comequella italiana caratterizzata dauna radicale crisi dello Stato.Tale crisi deriva sia dalla sem-pre più problematica «coesionenazionale» che dalla natura delsistema politico, non a caso ilpiù «sovietico» tra quelli dell’oc-cidente capitalistico.

Il significato delle frontieredegli stati nazionali è stato dra-sticamente ridimensionato inseguito alla sparizione del «bloc-co comunista» ed al superamen-to della situazione di «congela-mento» degli assetti statuali edello status quo. Il rapido rimo-dellamento della carta politicadell’Europa, ha dimostrato lapossibilità, alla fine del XX se-colo, di ridefinire i confini delleentità politiche statuali sullabase di vecchie e nuove «fron-tiere culturali». Esso si è som-mato alle conseguenze dell’in-debolimento della funzione re-golatrice degli stati nazionalicome risultato del processo diintegrazione economica e poli-tica europea e della tendenza di

Padania-Italia:quale «questione nazionale»?Considerazioni storiche, politiche ed economiche

di Michele Corti

Una comunità territoriale si fonda su numerosi e diversi elementi. Nel passato hannoavuto maggiore rilievo l'ascendenza etnica, la comunanza linguistica, religiosa e cultu-rale. Oggi assumono crescente importanza gli elementi sociali ed economici che appaio-no però a loro volta influenzati da aspetti storici, geografici, etnici e culturali tali checonferiscono alle comunità i loro specifici caratteri. I fattori economici e sociali, speciein rapporto all'integrazione europea e ai processi di internazionalizzazione, giocanooggi un ruolo determinante nel processso di presa di coscienza nazionale dei popolipadano-alpini fino al punto di diventarne elemento qualificante e trainante.

Nella contrapposizione tra “italianità” e “padanità” emergono tutte le contraddizionie le storture di una costruzione statuale messa in piedi con artifici vari per soddisfarenon già le esigenze di una comunità nazionale ma quelle di ristretti ceti economici epolitici.

Centotrenta anni di cappa centralistica e di retorica nazionalista non sono però servitia costruire un'identità ed una unitarietà per la quale non vi erano presupposti; sono almassimo riusciti a nascondere parte delle diversità culturali sotto un velo di conformi-stico appiattimento. Oggi il velo viene stracciato proprio dalle differenze socio-economi-che che crescono con grande rapidità e stanno diventando l'elemento più deflagrante dimessa in discussione di una unità fittizia e di palesamento di una entità organica «laPadania» fino a qui tenuta nascosta e negata.

(1) A. Martelli , Will a United Italy Sur-vive until 2010?, Future Research Quar-terly (1), 1995, pp. 61-72.

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intere regioni europee alla gra-vitazione verso poli economicie finanziari esterni alle frontie-re «nazionali».

Questi fenomeni su scala con-tinentale si intersecano con latendenza planetaria allo svuota-mento dello Stato-nazionale aseguito della crescente mobili-tà della ricchezza causata a suavolta dallo sviluppo dei mezzi ditrasporto e delle comunicazio-ni e dal passaggio da forme diricchezza materiali a forme im-materiali. «L’economia erode loStato perché gli ruba il territo-rio, la mobilità della ricchezzaerode lo Stato perché attribui-sce al territorio una autonomafunzione economica e politica.È la rete dei servizi, la mobilitàdelle persone e delle merci, laforza rivoluzionaria che ha spez-zato la catena Stato-territorio-ricchezza, che ha rivoluzionatola geografia politica, che sta ri-ducendo gli stati nazionali aquella che nell’Ottocento sichiamava une notion gèo-graphique» (2).

L’accelerazione dei processi dicrisi degli stati nazionali non haperaltro lo stesso impatto suidiversi sistemi statali. È indub-bio che le tendenze generali diindebolimento dello Stato na-zionale e l’emergere di distinteidentità territoriali agiscano inmaniera più forte laddove, comein Italia, la crisi dello stato na-zionale è determinata da irrisoltiproblemi di natura storica e po-litica, tali da determinare un'in-trinseca fragilità delle strutturepolitiche e della stessa identitànazionali.

La divaricazione tra Padania eItalia mediterranea è destinataad accentuarsi

Al di là di ogni dibattito sulle«riforme» e sul grado di «fede-ralismo possibile» la divarica-zione tra la Padania e l’Italia

mediterranea è destinata co-munque ad accentuarsi sotto laspinta di fattori economici e so-ciali del tutto al di fuori dellasfera di controllo del sistemapolitico «nazionale».

In un’economia sempre piùinternazionalizzata, in un’Euro-pa non più divisa e congelata dai«blocchi», dove pesano sempredi più le istituzioni sovranazio-nali e le polarizzazioni economi-che a livello continentale, le di-verse componenti territoriali al-l’interno dei vecchi stati nazio-nali devono scegliere come col-locarsi nei confronti della nuo-va Europa. Le regioni storiche,fin qui apparentemente dissoltesul piano politico nella dimen-sione dello stato nazionale, de-vono misurarsi con le proprie ri-sorse, le proprie vocazioni, lapropria collocazione geograficarispetto agli assi ed ai poli dellosviluppo del continente. Essedevono valutare l’adeguatezza ela corrispondenza delle istitu-zioni, degli assetti politici, dellestrutture amministrative con leesigenze del futuro e con le pro-prie caratteristiche «nazionali»(in senso culturale-sociale-ter-ritoriale, non già politico-stata-lico).

Nel caso della Padania la so-luzione di questi nodi ha unaposta molto alta. Si tratta di sta-bilire se il futuro comporterà in-tegrazione con il nucleo fortedell’Europa o un destino di mar-ginalizzazione, metaforicamen-te identificato con l’immaginedella Padania che scivola (o af-fonda) nel Mediterraneo trasci-nata dal peso dello Stivale.

Le tappe dell’Unione moneta-ria ed i requisiti posti per l’en-trata (requisiti sui quali da par-te tedesca non si intende tran-sigere) hanno fatto uscire dalcampo delle disquisizioni teori-che l’eventualità dello sgancia-mento dell'attuale Italia (o

quantomeno di alcune sue com-ponenti territoriali) dal nucleoeconomicamente e socialmenteavanzato dell’Europa. A questoproposito c’è da osservare che illivello del debito pubblico con-tinua a crescere (3) smentendole previsioni ottimistiche circail suo rientro a dimensioni com-patibili con l’Europa monetaria.

La fragilità dell’integrazionepolitica «nazionale» realizzatadal sistema politico italianoemerge oggi in tutta evidenza difronte al dispiegarsi della crisidello «stato sociale» e del diver-so grado di risposta dei sistemieconomici e sociali padano edell’Italia mediterranea ai pro-cessi di internazionalizzazione.Entrambi questi fattori spingo-no verso l’allargamento dellafrattura economico-sociale trala Padania e l’Italia mediterra-nea.

Nella Padania il grado di in-ternazionalizzazione dell’econo-mia è molto più profondo che alSud e progredisce rapidamente(4). Questo processo è in Pada-nia il risultato non solo del-l’espressione di una ritrovata di-namicità nel nuovo clima eco-nomico europeo e mondiale maanche di condizioni legateall'identità, alla posizione geo-grafica, al tessuto economico esociale caratterizzato da una di-mensione densa ma flessibile(associazionismo, istituzioni ci-viche, municipalismo, rete ur-bana policentrica). Tutto ciò raf-forza l’appartenenza a pieno ti-tolo alla «fascia forte» dell’Eu-ropa costituita dalle regioni di-sposte sull’asse renano proietta-to a nord nell’Inghilterra meri-

(3) Nel 1995 si attesterà secondo fontiattendibili sul 124% del P.I.L.(4) Alla sola economia lombarda si deveil 30% dell’interscambio complessivodello stato italiano con l’estero.(2) G. Tremonti e G. Vitaletti, Il federa-lismo fiscale , Laterza, 1994, p. 38.

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dionale e, a Sud, verso Lione,Grenoble e la Padania stessa.

L’integrazione della Padanianei circuiti economici e finan-ziari europei rende meno inte-ressante e vitale agli effetti com-petitivi il sovvenzionamento delmercato interno del Sud pur coni suoi 20 milioni di consumato-ri. D’altra parte, per le impresepiù orientate all’esportazione,diventa sempre più vitale dispor-re di servizi e di conoscenze ingrado di consentire una parte-cipazione competitiva all’inte-grazione dei mercati. Il sistemadelle imprese padane oltre checon la carenza di infrastruttu-re, l’inefficienza e l'arretratezzadelle istituzioni pubbliche, lerigidità imposte al mercato dal-le norme interventiste, si scon-tra oggi con un fattore ancorapiù politico: l’assenza di una po-litica estera attiva, caratterizza-ta da impegno e indirizzi coe-renti e continuativi. Le poten-zialità di penetrazione nei mer-cati dell’Europa danubiana pos-sono risultare compromessi dal-

l’assenza di una incisiva politi-ca per quest’area strategica perlo sviluppo dell’interscambiodella Padania. Tutto ciò incidesempre di più sui rapporti tra ilsistema delle imprese e lo Statodal momento che le forze più di-namiche dell’imprenditoria pri-vata hanno recuperato e accre-sciuto il loro ruolo nell’ambitodel sistema produttivo. Ciò èavvenuto sia per motivi legatialla contingenza (svalutazionedella lira, ripresa economica neipaesi «locomotiva»), sia permotivi strutturali (declino disettori tradizionali della grandeindustria, potenziamento dei«distretti industriali»). Nel frat-tempo il restringersi della do-manda pubblica, delle commes-se, delle sovvenzioni per gli in-sediamenti al Sud determinanouna diminuzione del peso poli-tico dell’imprenditoria protettache si è avvantaggiata degli«ammortizzatori sociali» e del-l'«intervento straordinario nelmezzogiorno». Mano a manoche si accentua l’internaziona-lizzazione dell’economia pada-na le forze economiche e socialipiù dinamiche, che meno sisono avvantaggiate o adattate aicompromessi del sistema poli-tico italiano, avvertono sempredi più il peso negativo delle con-seguenze di un sistema degene-rato verso livelli di statalismo,assistenzialismo e di oppressio-ne fiscale senza uguale all’inter-no del mondo occidentale.

I caratteri del sistema statua-le e politico si sono infatti tra-dotti: in una dimensione iper-trofica (5) del sistema delle im-prese pubbliche (6), nelle rigidi-tà introdotte nel mercato del la-voro (caratterizzato da una verae propria indissolubilità del rap-porto di lavoro dipendente atempo indeterminato), in un si-stema fiscale iniquo, complica-to, inefficiente. Tale sistema

penalizza sia le microimprese(minimum tax, trasposizione allavoro autonomo di forme diaccertamento fiscale tipiche dellavoro dipendente) che quelle digrandi dimensioni (peso eleva-to dell’imposta sulle società, pe-nalizzazione del mercato azio-nario a favore del debito pubbli-co).

L’attività economica «alla lucedel sole» è stata disincentivatadal peso della tassazione dei red-diti accertabili. Questa è carat-terizzata dalla fortissima pro-gressività dell’IRPEF a fronte delbasso introito dell’IVA (risulta-to di un'evasione pressoché ge-nerale nell'Italia mediterranea).L’accentramento dell’imposizio-ne, introdotto dalla «riforma fi-scale» del 1972, ha segnato ilraggiungimento di un grado pa-rossistico di centralizzazione deitrasferimenti finanziari alleamministrazioni «periferiche»con le note e perverse conse-guenze della deresponsabilizza-zione delle amministrazioni re-gionali e locali, dell’incentivo aldisavanzo e di un trasferimentomassiccio di risorse dalla Pada-nia all’Italia mediterranea.

I meccanismi fiscali e del fi-nanziamento delle amministra-zioni locali si sono sommati aquelli dell’«intervento straordi-nario» e alle leve dell’economiapubblica e parapubblica nel de-terminare un colossale drenag-gio di risorse dalla Padania al-l'Italia mediterranea alla cuibase si devono rintracciare mo-tivazioni eminentemente politi-che (7). Se il prelievo fiscale perle sue modalità e il suo livello(8) ha raggiunto limiti insoppor-tabili sul fronte della spesa ilpeso dei privilegi immotivati sulfronte previdenziale (9) e le pres-sioni della spesa corrente penaliz-zano il sistema economico per viadel carattere sempre più impro-duttivo della spesa pubblica.

(5) «Alla fine degli anni ’80 attraversoqueste aziende [aziende statali, a par-tecipazione statale, municipalizzate] ilsettore pubblico controllava quasi l’11%della produzione nazionale, effettuavail 16,5% degli investimenti e occupava1,5 milioni di persone» F. Reviglio,Meno stato più mercato , Mondadori ,1994, pag. 128.(6) Il processo di privatizzazioni in attorisulta contradditorio dal punto di vi-sta del controllo pubblico sulle impre-se «privatizzate». I vincoli di nominapubblica di membri dei CdA, di sceltadegli azionisti, i limiti alla sfera di de-cisioni delle imprese qualificano le nor-me sulle privatizzazioni recentementeentrate in vigore come pesantementeantiliberiste.(7) Il «Sud» ha ricevuto una «ricompen-sa» per il sostegno ad un sistema poli-tico di cui in Padania ha tratto vantag-gio il «capitale protetto».(8) la pressione fiscale è passata dal 26%del PIL nel 1970 al 44% nel 1993%(9) la spesa per la protezione sociale èpassata dal 12,5% del PIL al 22,9% nel1993

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A tutto ciò si deve aggiungereche la macchina pubblica, oltrea produrre pochi investimenti (eper di più secondo la logica del-le influenze politiche e non divalutazioni economiche), nonsolo consuma grandi risorse perautomantenersi ma è assoluta-mente inefficiente anche sul pia-no della gestione amministrati-va. Essa intralcia le attività eco-nomiche con vincolismi e for-malismi di ogni tipo legati allamoltiplicazione, in assenza diuna capacità di controllo di so-stanza, su una serie di verificheformali motivate solo dall'inca-pacità di coordinamento e dallanecessità di autogiustificarel’esistenza di organi ed uffici deltutto inutili. La somma di tuttiquesti effetti negativi del siste-ma (unita alla pesante interfe-renza del sistema politico neimeccanismi economici e nel di-storcimento sistematico delleregole della concorrenza) spin-ge sempre di più le forze econo-miche e sociali padane, che de-vono confrontarsi con un mer-cato sempre più internazionale,ad assumere posizioni liberisti-che. Tali posizioni al di là diaspetti superficialmente moder-nistici e cosmopoliti non posso-no eludere il problema del rag-giungimento di un grado di au-togoverno della Padania che leconsenta di affrontare in manie-ra flessibile ed efficace i proble-mi del suo sviluppo nel conte-sto europeo.

La «gabbia» centralistica puòsolo comprimere, ma non ri-muovere il duplice problemacostituito per un verso da unaPadania che intende recuperarespazi di autonomia sociale e ter-ritoriale nei confronti dello Sta-to e del sistema politico e dal-l'altro da un’Italia mediterraneache non è a tutt’oggi in grado difare a meno di un ampio inter-vento pubblico e di un sistema

generalizzato di mediazioneclientelare. Il ritardo della solu-zione di questo nodo non puòche accentuare gli aspetti con-flittuali della relazione Padania-Italia determinandone una pro-gressiva radicalizzazione e con-tribuendo, paradossalmente, alrafforzamento del processo diautodefinizione in termini na-zionali della Padania stessa (10).

Natura della «questione nazio-nale»

In modo più articolato e menotraumatico che nei paesi dell’Estex-comunista, anche nel casoitaliano gli sconvolgimenti po-litici a cavallo tra la fine deglianni ’80 e l’inizio di quelli ’90,hanno determinato il riemerge-re di una «questione nazionale»nel senso più drammatico e ra-dicale del termine. Si constatacioè che, dopo 140 anni di cen-tralismo, l’assenza dei presup-posti stessi di coesione «dal bas-so» tra le componenti territoria-li del «paese» nessuna delle qua-li, per motivi diversi, si è mai re-almente identificata (e men chemai si identifica oggi) con loStato unitario o, meglio, conquel modello di Stato unitarioche si è storicamente affermatoin Italia.

Tale modello, basato sulla piùrigida centralizzazione ha cerca-to di sostituire l’assenza di coe-sione territoriale con una coe-sione «dall’alto» realizzata edimposta direttamente attraver-so gli apparati statali o, comun-que, attraverso i canali istituzio-nali «nazionali» di mediazionepolitica e di socializzazione (par-titi, sindacati, organizzazionisociali legate al sistema politi-co).

La questione «nazionale» nelcaso italiano è tanto più grave eprofonda quanto più appare de-terminata dall’emergere, al di làdi una generale e generica in-

sofferenza per l’ordinamentocentralistico, di una «questionenazionale nella questione nazio-nale». Essa riguarda una distin-ta e definita componente terri-toriale: la Padania (e non già un«Nord» dai contorni nebulosi earbitrari!) tutt’altro che margi-nale ma anzi economicamentepreponderante e socialmenteavanzata.

Come abbiamo visto questacomponente tende inevitabil-mente ad assumere i connotatidella vera e propria entità di tiponazionale. Gli elementi del-l'emergenza nazionale della Pa-dania appaiono evidenti. Le ten-sioni legate al problema del-l'identità padana possono infat-ti trovare sbocco solo attraver-so la consapevolezza di costitu-ire un sistema territoriale edeconomico, risultato non solodella geografia ma anche di ele-menti comuni di storia e cultu-ra. Su questa base risulteràquindi naturale per la Padaniaaspirare ad assumere i connotatidi una entità politica in gradodi partecipare processo di inte-grazione europea e di affronta-re e risolvere i propri problemidi fine XX secolo.

Per la Padania non può essereulteriormente dilazionata unasoluzione al deficit di efficacia,di capacità progettuale, di legit-timità, di credibilità delle attualiistituzioni «unitarie» impronta-te all'eliminazione di ogni spa-zio di autonomia reale per i li-velli locali e regionali di gover-

(10) Le «omelie» unitariste di Oscar Lui-gi Scalfaro «in Europa o tutti o nessu-no!» non possono certo destare entu-siasmi «nazionali» nei lombardi e ne-gli altri padani che, nella prospettiva delmantenimento dello stato centralista,dovrebbero sacrificarsi fino all’assurdodi aspettare ad entrare in Europa quan-do ...... anche la Calabria sarà pronta perfarlo (ossia mai considerato che è il si-stema centralista che alimenta la‘ndrangheta!) .

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no nella logica del mero decen-tramento amministrativo (difatto coincidente con la gestio-ne della spesa pubblica).

La Padania deve però affron-tare anche i propri problemi in-terni di sviluppo e farlo secon-do una logica di sistema. La cre-scita del sistema padano, avve-nuta anche grazie all’assenza diregole e in presenza di deficitdell’esercizio delle funzioni digoverno (l’eccesso di regolazio-ne e l’inefficacia dell’applicazio-ne delle regole equivalgono allaloro assenza), non può procede-re oltre se non si sviluppa la con-sapevolezza dell’essere «siste-ma» e della necessità di affron-tare con strumenti adeguati iproblemi interni e della concor-renza con gli altri sistemi terri-toriali europei in termini delladisponibilità di servizi, infra-strutture, conoscenze adeguate.

Un altro aspetto del problemariguarda l’urgenza di eliminareil costo ormai insostenibile delfarsi (mal)gestire. In assenza diuna tensione volta a superare la

to inadeguata alle esigenze del-la sua economia e della sua so-cietà.

L’emergere di un' entità Pada-na non è solo e principalmenteil frutto dei processi recenti dimodernizzazione, industrializ-zazione, urbanizzazione dal do-poguerra in poi che hanno con-dotto ad un annullamento sen-za precedenti della frattura tracittà e campagna (12)(13). Tantomeno la Padania è il frutto deiprocessi di ristrutturazione in-dustriale degli anni ’80 che han-no comunque decretato l’inco-sistenza delle tesi in voga neglianni '70 sulla divisione della Pa-dania in un «triangolo indu-striale», la «prima Italia» carat-terizzata dall’industria pesantee dell’area veneto-adriatica, ca-ratterizzata dallo sviluppo dellaPMI (Piccola Media Impresa)alla «terza Italia» (14).

Alla base degli attuali proces-si economici e sociali e delle mo-dalità di modernizzazione, urba-nizzazione, alla base del sistemapolicentrico e diffuso («a rete»)della Padania vi è una fonda-mentale unità e omogeneità cul-turale che fa sì che un federali-sta europeo come Guy Heraud,nella sua opera sulle etnie eu-ropee, la collochi a pieno titolonella categoria delle «nazionisenza stato» (15). La dinamicitàeconomica e produttiva, lo spi-rito imprenditoriale, la capaci-tà di innovazione, di divisionedel lavoro, di cooperazione, l'at-titudine al mercato come stru-mento di mediazione sociale, sispiegano non solo con la labo-riosità delle genti padane, conil loro spirito di iniziativa, maanche con caratteri che vannoben oltre il «gretto mercantili-smo individuale» rimproveratoai lombardi dagli intellettualiitaliani. Tali caratteri si identi-ficano con modelli di associazio-nismo e di cooperazione radicati

situazione e gli assetti attuali, lapartecipazione della Padania aiprocessi di internazionalizzazio-ne (dai quali sinora la Padaniaha tratto stimoli in positivo) ri-schia di rimanere totalmentepassiva e subalterna. In partico-lare risulta vitale per la Padanial’esigenza di dotarsi di ordina-menti e istituzioni modellatesulla propria peculiare realtàsociale, territoriale ed economi-ca caratterizzata dalla condizio-ne di sistema territoriale «den-so», risultato di intensi proces-si di industrializzazione e urba-nizzazione favoriti dalla confor-mazione geografica e dalla pre-senza di strutture urbane risa-lenti all’età medioevale.

La Padania deve dotarsi diquelle infrastrutture di sistemache ne valorizzino al massimole caratteristiche di omogenei-tà e di reticolo a maglie strette,basato su una pluralità di «cen-tri» tra i quali si sono stabiliterelazioni prevalentemente nongerarchiche (11). Oltre a sfrutta-re i suoi punti di forza, la Pada-nia non può non dilazionare unapproccio efficace al problemadei costi indivisibili dello svilup-po, specie per quanto riguardal’impatto territoriale e ambien-tale. È questa esigenza di gestio-ne consapevole del sistema, al dilà del dispiego delle forze eco-nomiche molecolari, che rendeindispensabile un ruolo in po-sitivo del livello di governo eamministrativo e quindi non èpiù proponibile il «lasciarsi ge-stire». Non è più tollerabile chela pubblica amministrazione siaimprontata a regole uniformi«nazionali» e condizionata daun reclutamento territorialesquilibrato del personale; non èpiù tollerabile che essa risultiimprontata ad una cultura arre-trata, fondamentalmente diver-sa da quella tradizionalmenteespressa dalla Padania e del tut-

(11) Basti pensare che all’interno dellastessa area metropolitana milanese losviluppo delle relazioni economiche edelle comunicazioni non è organizzatosulla base di una gerarchia al cui verti-ce si situa Milano, ma sul ruolo auto-propulsivo dei centri «minori» a co-minciare da Monza e dall’area Alto-mi-lanese(12) La «città padana» si incunea anchenei fondovalle alpini lasciando alla cam-pagna solo le aree appenniniche, quellealpine interne e, forse, quelle della «bas-sa» a maggiore vocazione per l’agricolaintensiva.(13) Per queste tesi cfr. G.Gario -IRERSocietà, economia, istituzioni in Lom-bardia , Franco Angeli, 1994.(14) Si veda l'opera di A.Bagnasco: Le Treitalie. La problematica dello sviluppoterritoriale italiano, Il Mulino, 1977.(15) G. Heraud, L’Europe des Ethnies ,1963, Presses d’Europe. Heraud utiliz-za la denominazione di Mediolandia perindicare, sulla base di una delimitazio-ne linguistica basata sulle parlate gal-lo-romanze. l’insieme di Piemonte,Lombardia, Liguria, Emilia e Romagna.

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e diffusi, con uno spirito civicoed un municipalismo senza pa-ragoni.

Lo spirito della Padania èquello della particolarità, del lo-calismo, ma al tempo stesso del-la cooperazione secondo regoleflessibili. Questo spirito, agli al-bori dell’età moderna, può averimpedito la formazione di aggre-gazioni politiche sovraregiona-li e, in un passato più recente,ha contribuito a determinare lapassività sostanziale rispetto allacostruzione del sistema politicoitaliano. Oggi, però, nell’epocapost-moderna rappresenta unfattore di successo competitivoe si scontra irrimediabilmentecon lo Stato-Nazione retaggio diun’epoca moderna ormai allespalle. Pertanto appare risibilela critica alle tesi padaniste con-dotta sulla base di una suppostamancanza di l’unità, omogenei-tà, culturale e storica della Pa-dania.

Tale critica che non coglie lospirito padano, risultato di pre-cise ascendenze etniche, carat-teri culturali, esperienze stori-che è paradossalmente sostenu-ta proprio da chi vorrebbe difen-dere ad oltranza «l’unicità dellanazione italiana»: impresa di-sperata dopo l’esperienza stori-ca di un sistema politico e sta-tale che, per tenere insieme inuna forma di integrazione poli-tica componenti territoriali deltutto diverse, ha adottato unmodello di centralismo burocra-tico e clientelare che ha portatoal fallimento dello Stato e cheha accentuato le differenze cheavrebbe voluto colmare.

In realtà la «questione nazio-nale» è nata con lo Stato unita-rio stesso. Essa ha assunto i con-notati ricorrenti ed insistiti della«questione meridionale» maanche quelli di una «questionesettentrionale» (quest’ultimanon meno acuta e non meno

e linguistica» utilizzate per cir-coscrivere le spinte autonomi-ste «classiche» in ambiti più«periferici».

L’emergere della questione pa-dana costringe lo stato centra-lista a mettersi in discussionedalle fondamenta. Essa non puòessere risolta con «concessioni»né tanto meno con i piccoli espesso assurdi privilegi attribu-iti alle province e alle regioni au-tonome.

Si deve peraltro notare cheanche nei rapporti con le mino-ranze «periferiche» i margini dimanovra della politica centrali-stica si stanno scontrando conle contraddizioni insanabili del-lo stato italiano.

Quando dalle concessione ditrasferimenti esorbitanti rispet-to alla contribuzione finanziariadelle province e regioni autono-me e dai privilegi fiscali ci si spo-sta sul terreno culturale scattauna molla difensiva che cancel-la il volto «magnanimo» delloStato nei confronti delle mino-ranze. Eccettuato il Sudtirolo ein parte gli sloveni (considerati«corpi estranei» dal punto divista culturale) l’estensione del-la tutela in quanto minoranzalinguistica ai sardi, ai friulani,agli occitani incontra fortissime

recente ma che solo da pochianni, rompendo una sorta ditabù imposto dall’establishmentstatalista, è divenuta oggetto dianalisi e di riferimenti esplici-ti). Tali questioni però, vuoi percircostanze storiche ed ideolo-giche, vuoi per l'incompleto di-spiegarsi degli effetti perversidel centralismo, non sono riu-scite a giungere ad una messain discussione esplicita dellastruttura statale. Gli effetti delcentralismo, infatti, hanno ini-ziato ad incidere in maniera in-tollerabile con l’innesto sul pre-esistente ordinamento e sullastruttura burocratica centrali-stici della politica consociativaassistenzialistica degli anni ’70,con il conseguente dilagare dellaspesa pubblica e della coloniz-zazione della società civile daparte del sistema politico.

Di fatto la «questione nazio-nale» è stata «congelata» in Ita-lia per oltre un secolo. Ciò nonè contraddetto dalle tensioni au-tonomistiche che hanno inte-ressato la Valle d’Aosta, il Tren-tino-Sudtirolo, la Sardegna, laSicilia, il Friuli e altre aree conpresenza di «minoranze lingui-stiche».

Queste situazioni non hannoattinenza con il problema cen-trale degli assetti politico-terri-toriali-costituzionali dello statoitaliano tanto e vero che, puressendo state originate dalla na-tura centralistica dello stato,hanno potuto trovare soluzionipiù o meno parziali senza unamodifica degli assetti comples-sivi dell’ordinamento (16).

Il tentativo di rimuovere la«questione dell’identità dellaPadania» cercando di depoten-ziarne i connotati di vera e pro-pria questione nazionale (17) na-sconde la preoccupazione di unsistema che non può applicarealla Padania le più rassicuranticategorie di «minoranza etnica

(16) Di fatto solo il «pacchetto» per ilSud-tirolo rappresenta una soluzionesoddisfaciente dal punto di vista auto-nomistico, mentre la concessione dellostatuto autonomo alle isole maggioririentra almeno in larga parte in una piùgenerale politica «meridionalistica».(17) Significativa a questo proposito laposizione dell’IRER, Istituto di Ricercadella Lombardia, che esprimendo tuttala subalternità possibile alla cultura eal sistema politico «nazionale» cerca dinegare l’identità padana (pur non na-scondendosi l’esistenza di una questio-ne di identità padana) si sente in obbli-go di ribadire che «né la storia, né lalingua, né i costumi concorrono a defi-nire una identità della Padania prodot-to dei processi di urbanizzazione e diindustrializzazione». G. Gario, cit.p.104.

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resistenze poiché delinea una si-tuazione dai confini sfumati eincerti che definirebbe nell’am-bito dello «stato unitario» co-munità di serie A, B e C.

Tale situazione nella contin-genza storica attuale non puòche innescare la discussione sul-la distinzione (a questo puntosempre più palesemente artifi-ciosa) tra realtà linguistiche di-stinte e «dialetti italiani», tra«minoranze DOC» e «egoisti».Perché il friulano sì e il piemon-tese no?

Quale popolo di stato?La caratteristica della questio-

ne nazionale in Italia è pertantorappresentata dalla contraddi-zione non già tra un «nucleo»economicamente forte e compo-nenti territoriali periferiche, matra un centro politico perifericorispetto all’Europa ed una com-ponente territoriale economica-mente avanzata, inserita a pie-no titolo nei processi di inter-nazionalizzazione. Per inqua-drare la natura della questionenazionale resta da chiarire se laposizione nei confronti del siste-ma politico e statuale delle di-verse componenti territorialidello stato definisca una dialet-tica tra maggioranze e minoran-ze etniche con una componen-te nel ruolo di «popolo di sta-to».

Le genti dell’Italia mediterra-nea rappresentano un «popolodi stato» non certo nel modoinequivocabile con il quale i Ser-bi ricoprivano questo ruolo nellaex-Jugoslavia. Anche se la buro-crazia, l’esercito, la magistratu-ra sono ampiamente meridiona-lizzate (18) gli italiani mediter-ranei rappresentano un «popo-

lo di stato» solo in quanto baseclientelare per il sistema politi-co e di reclutamento del perso-nale del sistema burocratico epolitico.

Essi non sono portatori, rap-presentanti, diffusori di una cul-tura e di valori «nazionali» or-ganici, ma semmai di una cul-tura prodotta dall’impatto dellostatalismo su una realtà socialedisgregata che il sistema politi-co «nazionale» contribuisce afar rimanere tale. Tale cultura siriallaccia alle tradizionale cul-tura individualistica e fatalista,basata sulla personalizzazionedei rapporti sociali e sul forma-lismo.

La cultura dell’Italia mediter-ranea è stata influenzata da unrapporto ambivalente con loStato. La sua presenza pur in-fluenzando la vita e l'economia,pur contribuendo in modo de-terminante alla capacità di con-sumo, rappresenta un'entitàestranea: con esso non esiste al-cuna identificazione.

Esso rappresenta un’entitàtanto impersonale quantoastratta e lontana, deve provve-dere ai posti di lavoro e al finan-ziamento delle amministrazio-ni locali, ad esso nulla è dovutoe le regole da esso stabilite sonoosservate solo sulla base dellaconvenienza e non certo sullabase di principi di civismo e di«etica dello stato». Di fatto lefunzioni dello Stato al Sud sonoesercitate in modo del tuttosquilibrato.

Al forte ruolo di trasferimen-to di ricchezza, di datore di la-voro, dispensatore di servizi pre-videnziali corrisponde un ruolodebolissimo sul piano dell’appli-cazione di un quadro di regola-zione legale delle attività socia-li. Tanto più lo Stato ha eroga-to, tanto più si è indebolito poi-ché ha alimentato (a comincia-re dagli appalti) i meccanismi

dell’anti-stato.Sulla base dell’esperienza di

uno Stato che si presenta con ilvolto dei mediatori clientelari,con il quale si contrattano be-nefici al di fuori di ogni legitti-mità o priorità (e che per il re-sto lascia la società civile espo-sta ad ogni forma di sopraffazio-ne e di violenza) non è certo in-credibile che sia rimasta estra-nea alla cultura meridionalel’idea che lo Stato rappresentiun’entità collettiva che deriva lasua legittimazione dalla società.

Anche nella Padania non si ècerto sviluppata un’identifica-zione con lo Stato e con il siste-ma politico. Qui gli elementi dicivismo sono legati ad una pre-cedente esperienza di autono-mia municipale che lo statali-smo italiano ha contribuito adindebolire introducendo ele-menti di sfiducia nelle istituzio-ni collettive, individualismo, ri-corso a forme di regolazione so-ciale extralegali e disgregazionedei rapporti comunitari

Il risultato è che lo Stato nonè dei meridionali e tanto menodei padani: non è di nessuno!

La profonda mancanza diidentificazione con lo stato econ la cultura ufficiale (ed il fat-to che essa tenda semmai ad ac-centuarsi dopo 140 anni di «uni-tà nazionale») accomuna tuttele genti della Padania, dell’Etru-ria e dell’Italia mediterranea,costituendo uno degli aspetti pe-culiari della «questione nazio-nale» in Italia. Questo forse evi-ta il rischio di guerre civili, manon quello di una disgregazio-ne civile e di uno scivolamentoad una condizione terzomondia-le.

Per giudicare il grado di as-senza della «coscienza naziona-le» basterebbe riflettere sul-l’«europeismo» entusiasta, masuperficiale e inconsapevole,con il quale il 90% dei cittadini

(18) Si vedano C. Guarnieri, Geopoliti-ca della magistratura, Limes (4) 1994,pp. 101-112 e, nello stesso fascicolo ,G. Stachi e J. Turri Due eserciti per duerepubbliche?, pp. 113-122.

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dello stato italiano sostienel’adesione all'Unione Europea.Più che un sentimento sovrana-zionale e federalista in positivoquesto «europeismo» rappre-senta in negativo l’assenza diqualsiasi radicato sentimento diattaccamento nazionale ed ilmalcelato desiderio di scrollar-si di dosso una «identità nazio-nale» che, nell’immagine del-l’Italia fuori d’Italia, non coin-cide certo con le glorie di Romao con il popolo di santi, artisti enavigatori ma con la Mafia, o almeglio, con la pizza.

E che dire della facilità con cuida parte di molti si vorrebbeconcedere diritto di voto e di cit-tadinanza agli immigrati?

Tale «apertura» non è forseanche il sintomo di una scarsaconsiderazione del valore dellacittadinanza, il riflesso di unacoscienza debolisssima di appar-tenenza alla «comunità nazio-nale»?

Gli intellettuali unitaristi chelamentano l’assenza di «sensodello stato» si limitano ad esor-cizzare i demoni dell’«ar-retratezza» (categoria applicataall’Italia mediterranea e buonaper ogni spiegazione sociologi-ca) e del «particolarismo», del«campanilismo» dell'«econo-micismo privatistico» (applica-te alla società padana). Per tuttivi è poi pronta l'(auto)accusa di«adattamento a secoli di domi-nazione straniera» come spiega-zione per un’attitudine servile eindividualista e per la scarsaidentificazione con lo Stato.

Per smontare quest’ultima tesibasterebbe considerare come po-poli assurti anche più tardi dellacostituzione dello Stato italianoall’indipendenza, da sempre sot-tomessi a potenti vicini, abbianosviluppato un patriottismo edun’identificazione con il «loro»stato ben più profondo (Irlanda,Norvegia, nazioni slave).

Piuttosto che rinfacciare aipopoli dello stato italiano e aisingoli cittadini il «vizio» di unascarsa «coscienza nazionale»,gli intellettuali unitaristi fareb-bero bene a ricercare nella di-somogeneità delle componentidello stato e nelle caratteristicheassunte storicamente dalla for-ma stato in Italia le ragioni delperché in Italia nessuno senta loStato come «proprio».

È sicuro che i popoli della Pa-dania e dell'Italia mediterraneanon sono certo stati scalfiti dal-le concezioni politiche della cit-tadinanza né nelle versioni «li-berali», né in quelle giacobineo «sociali» dello «Stato-demo-cratico-fondato-sulla-Resisten-za». Il carattere astratto di que-ste teorizzazioni ed il loro con-trasto con la realtà di uno statopermeato dall’arbitrio, dalla cor-ruzione, dalle confusioni di ruo-li istituzionali ha forse contri-buito ad alimentare piuttostoche colmare la distanza tra loStato ed i cittadini-sudditi?).

I fondamenti storico-politicidella questione nazionale

Chi per conformismo intellet-tuale si ostina a non mettere indiscussione il «dogma» della«nazione italiana una ed indivi-sibile» (19), si rifiuta di prendereatto della crisi universale dellaconcezione statalica della nazio-ne e dei limiti storici del proces-so di Nation-building realizza-to con la formazione dello statounitario non fornisce un buonservizio alla stessa causa «uni-taria».

Una discussione sulla «que-stione nazionale» è possibileanche sulla base di presuppostidiversi, ma solo se si sgomberail campo dalla concezioni ana-cronistiche circa la «missione»del «Risorgimento», ai concettidei «sacri confini», dalla persi-stente (quanto superficiale e ver-

bosa) retorica italianista e si hal’onestà di ammettere che l’Ita-lia avrebbe potuto essere il ri-sultato di un processo di inte-grazione politica basato sulla le-gittimazione del sistema politi-co stesso e sull’efficacia degli ap-parati statali nel quadro di unanazione moderna. Nella realtà inItalia ci si trova di fronte al fal-limento storico dei processi diNation-building e di State-bui-lding. Dov’è la legittimazionedel sistema politico, dov’è l’effi-cacia dell’apparato statale? Alloro posto ci sono corruzione si-stematica e clientelismo. Il si-stema politico in cerca di con-senso e non di legittimazione hacolonizzato la società ed è statoa sua volta colonizzato dalleclientele: politica e società sisono scambiate i ruoli così comepolitica e amministrazione, po-litica e burocrazia.

La lotta politica (tra partitidella stessa coalizione o tra cor-renti dello stesso partito per lopiù) è stata sinora condotta me-diante il controllo dell’ammini-strazione pubblica (attraverso lapoliticizzazione della burocraziae i condizionamenti politici opolitico-sindacali nelle assun-zioni e nelle carriere), degli entieconomici, previdenziali pubbli-ci, delle banche degli ospedali edi altre istituzioni della societàcivile dove sono state introdot-te nomine politiche. Il nodo del-la crisi dell’assetto politico e sta-tale «unitario» è rappresentatodall’impossibilità di sostenereulteriormente i costi di un siste-ma che non ha mai cercato dilegittimarsi sulla base della fun-

(19) La formula ripresa nella Costituzio-ne della prima Repubblica e riferita alla«Repubblica italiana» per la quale è po-stulata l’identità tout court con la «na-zione» è derivato dalla rivoluzione gia-cobina che, a sua volta, non aveva fattoaltro che sostituire il termine «Repub-blica» alla formula assolutistica del «Re-gno francese uno ed indivisibile»

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zionalità, dell’imparzialità e del-l’efficienza degli apparati stata-li. Esso non è in grado nemme-no di svolgere le funzioni essen-ziali di contenimento della cri-minalità e di garanzia di un li-vello accettabile di sicurezza edi convivenza civile. Fin dal-l’inizio della storia unitaria ilsistema politico italiano ha pun-tato sull’acquisizione del con-senso attraverso un mercato po-litico basato sull’acquisizione divantaggi immediati per i grup-pi più disparati, al di fuori diqualsiasi valutazione di vantag-gi complessivi e di lungo perio-do per la società nel suo insie-me.

La politica tipicamente «ita-liana» basata sul trasformismo,sull’impossibilità di alternanza,sul «centrismo», sulle coalizio-ni, sulla cooptazione ed il con-sociativismo ha generato «fisio-

logicamente» corruzione e inca-pacità di assumere decisioni ra-zionali e trasparenti tra diverseopzioni (20). In questo quadrocome osserva Putnam (21) «ac-cordi possono essere raggiuntima i problemi rimangono inso-luti» «Convinti che questi [pro-getti a più ampio respiro] com-portino irriconciliabili conflittid’interessi, gli uomini politici siaccontentano di spartirsi tortepiù piccole. La collaborazionenel dividere .... le spoglie è rela-tivamente facile, perché è piùchiara la possibilità di vantaggireciproci». I limiti dell’orizzon-te temporale dei circuiti politi-ci (scanditi dalle scadenze elet-torali) non sono l’unico aspettodel deficit di governo (che è piùin generale deficit di politicacome capacità di assunzione diresponsabilità ed espressione discelte e decisioni coerenti); nonrappresentano l’unico elemen-to negativo di un sistema politi-co come quello italiano.

I campi dell’azione di gover-no che non sono in grado di ali-mentare vasti circuiti clientela-ri hanno sempre ricevuto scar-sa attenzione (politica di sicu-rezza esterna ed interna, politi-ca estera, giustizia, ricercascientifica ecc.). Le politiche set-toriali anche in questi campisono state influenzate da consi-derazioni circa il ruolo «occu-pazionale» degli apparati deltutto marginali rispetto alle fun-zioni strategiche cui essi sareb-bero chiamati ad assolvere. InItalia vi è un addetto alla sicu-rezza pubblica ogni 191 cittadi-ni (Germania uno ogni 407,Francia uno ogni 231, Gran Bre-tagna uno ogni 388) ma, dato losquilibrio nella distribuzioneterritoriale delle forze dell'ordi-ne nella Padania si registranopunte di scarsa presenza (22) cheevidenziano un insufficientepresidio del territorio e di tute-

la del cittadino (il primo moti-vo per cui si dovrebbero pagarele tasse!). Il risultato del disin-teresse per la sicurezza (moti-vato anche dal permessivismoperdonista e giustificazionistadella cultura catto-comunista) èil record di impunità del crimi-ne che spetta allo Stato italia-no. Rimane impunito il 94% deifurti, il 97% dei borseggi, il 96%dei furti d’auto ecc. Anche perreati di maggiore gravità socia-le come le rapine e gli omicidile percentuali di impunità sonoallucinanti (rispettivamente80% e 61%).

L’incapacità dello Stato italia-no a svolgere funzioni che co-stituiscono gli attributi stessidella sovranità emerge clamoro-samente quando esso deve mi-surarsi con altri sistemi statali.Al di là delle vicende belliche chehanno guadagnato all’Italia unafama non proprio invidiabile (23)appare macroscopica la costan-te assenza di una politica esteraattiva ed in grado di fornire unsupporto efficace al sistema eco-nomico (nonostante le speseesorbitanti per il mantenimen-to del corpo diplomatico, delleambasciate e dei consolati).

Il fallimento dello Stato e lasua degenerazione non sonoimputabili ad un difetto di mo-ralità, ad una generica arretra-tezza e miopia delle «classi diri-genti», e nemmeno per una«propensione innata» al clien-telismo e alla corruzione di ma-trice mediterranea, ma esitoinevitabile del processo storicodi costruzione dello stato uni-tario.

(20) La presenza di un forte partito co-munista così come di un forte partitocattolico, di natura ambiguamente «so-lidaristica», sono ritenute la causa del-l’«anomalia» italiana e cioè della man-canza di una dialettica politica basatasull’alternanza, dell’eccesso di statali-smo e burocratismo. A questi partiti le-gati a tradizioni cosmopolite ed a cul-ture totalizzanti si ascrive anche lamancanza di «senso della nazione». Inrealtà tutto ciò appare come la conse-guenza dell’assenza di un partito bor-ghese «nazionale», moderno e di mas-sa per la cui affermazione mancava:1) la presenza di una classe dirigente«nazionale» omogenea in grado diesprimere un proprio personale politi-co; 2) un minimo di continuità tra la cul-tura «nazionale» e le tradizioni cultu-rali etnico-popolari. Il solidarismo am-biguo, lo statalismo senza senso dellostato, un (finto) «confronto» con i co-munisti aperto alle «istanze sociali emeridionalistiche» hanno rappresenta-to la forma ideologica più consona acoprire la realtà della gestione cliente-lare del potere della Prima Repubblica.(21) R.D. Putnam, The Beliefs of Politi-cians, Yale University Press, 1973 cit.da L. Graziano , Clientelismo e sistemapolitico - Il caso dell’Italia , Franco An-geli 1984. p. 108.

(22) A Bergamo vi è un tutore dell’ordi-ne ogni 2079 abitanti, a Treviso unoogni 2030.(23) Esemplificata da battute feroci «lanazione che finisce le guerre con unalleato diverso dal quello con il quale leaveva cominciate» , «i carri armati ita-liani hanno solo marce indietro» (pro-nunciata da un cancelliere tedesco!).

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Agli albori del nuovo stato iceti dominanti, ben lontani dalcostituire una borghesia omoge-nea, forte, ma bensì arretrati, ri-stretti e ben lontani dal ruolo diclasse dirigente moderna e «na-zionale», si sono trovati di fron-te ad una nuova realtà prodottaindipendentemente da loro aspi-razioni e interessi. Essa è statadeterminata dalla concomitan-za di circostanze internazionali(interessi britannici), dall’esi-genza dello stato e della dinastiasabauda di scaricare i propri de-biti su un’entità politica piùampia, dall’agitazione di èlitesculturali del tutto isolate rispet-to ai processi sociali ed econo-mici degli stati preunitari emosse da suggestioni naziona-liste di importazione.

Di fronte all'inevitabile ten-denza alla centralizzazione i cetidominanti, (rappresentanti diinteressi industriali e finanziarinella Padania, possidenti terrierinell’Italia mediterranea), inca-paci di rappresentare non sologli interessi generali delle pro-prie società civili e dei propriterritori, ma neppure quelli diclasse si sono adattati al nuovoStato finendo per utilizzarlo aproprio vantaggio.

Nelle prime fasi unitarie aiceti dominanti dell’Italia medi-terranea interessava l’appoggiodell’apparato statale contro l’ari-stocrazia ed i contadini e il con-trollo degli affari locali. Succes-sivamente, con lo sviluppo deimetodi trasformistici di gover-no il peso del ceto politico cheassicurava la mediazione tra ilpotere centrale e quello localesi è rafforzato ed in qualchemodo emancipato dagli interessieconomici. Il clientelismo a li-vello di potere locale e naziona-le (e come raccordo tra i due) siè generalizzato permeando tut-to il sistema politico «naziona-le» non solo per la contagiosità

del modello da esso rappresen-tato (i gruppi e gli insiemi ter-ritoriali che restano esclusi dalcircuito politico clientelare ri-sultano penalizzati), ma perchéanche in Padania i ceti domi-nanti hanno trovato più agevo-le la via dell’accesso diretto alloStato, la sua privatizzazione.

Essi hanno rinunciato a darevita a moderni partiti borghesie di massa come elemento diintegrazione in grado di favori-re lo sviluppo di identità e di par-tecipazione di emancipare lemasse nel ruolo di cittadini,contribuenti, produttori, mem-bri di una comunità politica eculturale. Solo oggi appare perla prima volta nella storia uni-taria una chiara tensione anti-statale nella Padania da parte diun blocco di interessi abbastan-za ampi e potenzialmente ingrado di operare la creazione diun sistema di rappresentanza aldi fuori degli schemi clientelaritradizionali (24).

È bene chiarire che ciò cherende patologico il caso italia-no rispetto alle altre situazionidi capitalismo avanzato e di de-mocrazia «liberale» è il fatto chela «permeabilità» rispetto agliinteressi diversi da quelli coin-cidenti con il «bene comune»non rappresenta solo una formadi «privatizzazione dello stato»o di «democrazia lobbystica» (ilclientelismo caratterizza ancheun sistema politico come quel-lo statunitense). Esso è infatticaratterizzato dal sistematicosovrapporsi e sostituzione allostato delle strutture organizza-te degli apparati clientelari par-titici e persino di quelli (comun-que contigui ai primi) dell’ille-galità e della criminalità orga-nizzate.

Un nazionalismo di facciataI processi politici che hanno,

inevitabilmente portato, alla cri-

si dello stato unitario trovano laloro motivazione in fatti di na-tura storica, etnica e culturale.La «questione nazionale,» che siimpone con tutto il peso dei pro-blemi irrisolti dai regimi del-l’Italia unita e dei nuovi proble-mi emergenti, è legata alle fra-gili basi unitarie di una realtàstatuale che non poteva conta-re sugli elementi che storica-mente hanno decretato il suc-cesso degli stati-nazione.

Lo stato-nazione in Italia nonpoteva contare su un radicatosenso di appartenenza ad unacomune cultura e storia comenel caso del nazionalismo dipopoli piccoli caratterizzati dauna vera omogeneità etnica eculturale e profondamente co-scienti e gelosi della propriaidentità (come gli irlandesi e al-tre «giovani» nazioni del domi-nio slavo).

La mancanza di omogeneitàetnica e culturale (che, al di làdelle trasfigurazioni ideologichestato-nazionaliste, non esistevae non esiste neppure nell’esem-pio paradigmatico di stato-na-zionale: la Francia!) non ha po-tuto essere controbilanciata daprocessi politici secolari comequelli che condussero alla for-mazione dei grandi stati nazio-nali europei tra il XVII e il XVIIIsecolo.

La frattura non solo sociale edeconomica, ma culturale tra le«Italie» era talmente profondache non consentiva soluzioni fe-derali come quelle adottate dal-la Germania che ha così potutocostruire uno stato vero anchese in ritardo di secoli rispetto adaltre nazioni.

L’operazione di «nazionalizza-zione» delle masse popolari daparte delle élites nazionaliste ha

(24) Per un’analisi approfondita del ruo-lo del clientelismo nel sistema politicoitaliano in relazione al processo di uni-ficazione politica si veda L.Graziano cit.

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avuto altrove successo dove lamitologia e la simbologia nazio-naliste hanno in qualche modorispecchiato e rispettato la na-zionalità popolare, etnica, spon-tanea preesistente.

Questi presupposti mancava-no del tutto in Italia dove l’in-tellighenzia -peraltro priva dilegami organici con gli stessiceti dominanti- ha trovato unterreno comune solo in una cul-tura retorica, letteraria, astrat-ta, nel distacco e nel disprezzodella dimensione etnica, rurale,popolare, incarnata dai filoni piùsanguigni ed espressivi dellacultura tradizionale. Del resto, aldi là delle esigenze di un nazio-nalismo di facciata, non era certointeresse delle ristrette, arretra-te, corrotte e incapaci élites do-minanti che si erano adattate allostato unitario promuoverel'emancipazione delle masse.

In uno stato clientelare il ci-vismo e la partecipazione dan-no solo fastidio al manovratore!L’alfabetizzazione di massa etutti gli strumenti di accultura-zione dall’alto non bastano aimporre una «cultura naziona-le» quando non c’è un minimodi sintonia tra la cultura ufficialee i valori, la sensibilità, la sim-bologia, la memoria storica, icodici di comunicazione dei po-poli. Dante e Manzoni (ed ingenerale la letteratura «nazio-nale») avrebbero potuto «risve-

più astratte e stataliste, traspo-nendolo in un contesto cultura-le del tutto diverso e ha signifi-cativamente ignorato il «nazio-nalismo popolare» di improntacentro-europea che presupponeuna comune etnicità.

Che cosa dire poi del «patriot-tismo» legato ai grevi funereionnipresenti monumenti mar-morei, alle targhe commemora-tive (dove non è stato Garibal-di?), ai nomi delle vie dedicatiai «padri della patria», alle «ter-re irredente», ai luoghi delle car-neficine della I guerra mondia-le ossessivamente ripetuti finnella più piccola contrada dimontagna eliminando denomi-nazioni precedenti cariche di si-gnificati per il mantenimentodella memoria della comunitàlocale?

Il caso delle denominazionidelle vie rappresenta una meta-fora di un tragico processo sulquale, per gli aspetti culturali,torneremo con successivi con-tributi: si è tolta un'anima allecittà e alle contrade sostituen-do la finzione di una cultura«nazionale».

La vicenda dell’inno naziona-le testimonia che in realtà nes-suno è realmente interessatoalle finzioni del nazionalismodel patriottismo italico. Dopovarie proposte di «riforma» l’in-no continua ad essere quello ro-boante dell’«elmo di Scipio» e del-la «vittoria schiava di Roma», deltutto indicato per uno stato na-zionale che ha collezionato Lissa,Adua, Caporetto, la campagna diGrecia ecc (26).

gliare» e rafforzare uno spiritonazionale se questo avesse pog-giato su fattori comuni preesi-stenti radicati nello spirito delpopolo e se fossero risultati le-gati ad un coinvolgimento poli-tico (e culturale) non meramen-te istituzionalizzato.

Al contrario, costituendo unelemento di quella cultura «uf-ficiale» veicolata dalla scuola distato, quei personaggi sono ri-masti estranei alla tradizione ealla cultura popolare.

La Nazione «una, d’armi, dilingua, d’altari, di memorie, disangue, di cor» (25) esiste solonei versi dei poeti dove l’enfasisottolinea solo la vuota retoricae lo stridente contrasto con larealtà. La scuola con i suoi pro-grammi incentrati su una «sto-ria italiana» anacronisticamen-te estesa dalla preistoria ai gior-ni nostri, pesantemente edulco-rata e falsificata, con la mistifi-cazione dei «confini naturali»,con la presentazione di perso-naggi del passato anche remotocome «glorie italiane» ha ope-rato una manipolazione dellarealtà tanto forzata da non riu-scire a penetrare più di tanto lecoscienze.

Il nazionalismo italico, basa-to su modelli presi a prestito al-trove è rimasto artificioso,astratto, altisonante, retorico,ma disperatamente vuoto. Essonon è penetrato nell’anima del-la gente, del resto come potevaessere altrimenti? Si è infattiispirato al modello del naziona-lismo politico «occidentale»,soprattutto nelle sue versioni

(25) A. Manzoni, Marzo 1821, vv 31-32.(26) C’è da meravigliarsi se all’ultimocampionato del mondo di calcio la squa-dra italiana sia stata l’unica a non can-tare l’inno?

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Gerhard HermIl mistero dei CeltiGarzanti Editore: Milano, 1988pp. 368. L. 18.000

Alle soglie del terzo millennio,superata la contraddizione in-terna al mondo occidentale co-munismo-anticomunismo, citroviamo in una particolare fasestorica in cui due fattori stannocreando profondi mutamentinelle coscienze: la società deiconsumi e la spinta telematica.La massificante cultura dellasocietà dei consumi, omologan-do come consumatori tutti gliindividui di qualsiasi razza ocolore e presentando il mondocome un gigantesco mercato daconquistare, sta portando al su-peramento degli stati naziona-li. La spinta telematica, se dauna parte tende a massificarcifacendoci sentire tutti cittadinidel mondo (il “villaggio globa-le”), dall’altra, mettendo a dispo-sizione degli individui una gran-de quantità di dati ed informa-zioni, sta invece creando i pre-supposti per la riscoperta delleidentità perdute. La totale man-canza di valori, tipica della so-cietà dei consumi, sta acceleran-do questa ricerca di identità.Lo sbocco concreto di questaricerca di valori è, a livello mon-diale, la riscoperta delle “picco-le patrie”, cioè di una societàmeno massificante, in cui i re-taggi storici ed etno-culturalidiano all’individuo una nuovacompletezza e coscienza di séanche in relazione alla realtà incui egli vive.Questo processo vede coinvoltianche i popoli padano-alpini

che, proprio in questo periodo,stanchi dello sfruttamento or-mai più che centenario di unoStato che da sabaudo è divenu-to romano-borbonico, oltre aduna mera rivendicazione econo-mica, stanno rimettendo in di-scussione il proprio ruolo all’in-terno di questo Stato. Questonuovo modo di rapportarsi conlo Stato implica, a mio avviso,un’analisi che non può esserecompleta senza una verifica eduna riscoperta di quelle chesono le nostre “radici”.La storia, così come ci è statainsegnata nelle scuole, tende adomologare tutti i cittadini delloStato come italiani. Ma se ciò èvero per i popoli della penisolae delle isole, diviene meno vero,o palesemente falso, per i popo-li padano-alpini. Conscio di que-sta verità suggerisco perciò lalettura di questo best-seller diGerhard Herm, un giornalistaspecializzato in archeologia edautore di numerosi documenta-ri sulle civiltà del Mediterraneo.Celti, Veneti e Liguri, prima,Longobardi, poi, sono i più veried autentici avi dei popoli pada-no-alpini.Ma chi erano i Celti? Vediamo-ne con Herm la storia.

Mentre Romolo trucidava ilfratello perché si divertiva a sal-tellare di quà e di là dal traccia-to di quelle che sarebbero poi di-venute le mura dell’«Urbe», po-poli fieri e bellicosi, dal cuoredell’Europa, si spostavano ver-so sud valicando le Alpi. I Celti(dal greco keltoi) o Galli, comeli chiamavano i romani, vengo-no segnalati nella valle Padanagià nel 700 ÷ 600 a.C. Ne com-pletano la conquista, sbaraglian-do gli etruschi e sancendo di fat-to la scomparsa di quella civil-tà, nel 400 a.C.«Il loro aspetto, - scrive Diodo-

ro detto il Siculo - era terribi-le... Sono alti di statura con unamuscolatura guizzante sotto lapelle chiara. Di capelli sonobiondi (può anche intendersicastano, rosso o semplicemen-te chiaro in contrasto con il nerodei popoli mediterranei - ndr):e non solo di natura perché se lischiariscono anche artificial-mente lavandoli in acqua di ges-so, pettinandoli poi all’indietrosulla fronte o verso l’alto. ... Ve-stono - è stupefacente - camiciericamate in tinte sgargianti eportano inoltre dei calzoni, chechiamano bracae, e mantelli fis-sati alla spalla da un fermaglio,pesanti d’inverno, leggeri d’esta-te. Questi mantelli sono a stri-sce o a quadri, e i singoli quadristanno fitti gli uni accanto aglialtri e presentano colori diver-si». «Portano elmi di bronzo congrosse figure a sbalzo o anchecorna che li fanno apparire an-cora più alti di quanto già nonsiano».I Galli, suddivisi in vari popoli,occupano tutta la parte centro-occidentale e meridionale dellaPadania. Tra essi troviamo: nel-l’attuale Piemonte i Lai, i Lebe-ci e i Taurisci che fondano Tori-no (che deriva quindi da Taur,divinità celtica, e non dal latinotaurus); in Lombardia gli Insu-bri, i più numerosi, che fonda-no Milano (da Midland) ed i Ce-nomani; in Emilia gli Ana-mari e i Boi, che fondano Bolo-gna (da Boiland) e quindi versol’Adriatico i Lingoni e ultimi, sulmare, i Senoni.I rapporti di questi popoli con iromani sono subito difficili edinizia un lungo periodo di guer-re, costellato di sanguinose bat-taglie, epiche vittorie e terribilimassacri perpetrati dalle legio-ni di Roma. Nel 387 a.C. i Gallial comando di Brenno conqui-stano Roma, l’incendiano e as-

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sediano il Campidoglio. È allafine di questo assedio che vienepronunciata la storica frase“Vaevictis!”.Nel 283 a.C., dopo lo sterminiodei Galli Senoni (un autenticogenodicio in cui vennero mas-sacrati vecchi, donne e bambi-ni), i romani costruiscono leloro prime fortificazioni ai con-fini con la valle Padana, in cuinon riescono comunque anco-ra a penetrare. Nel 225 a.C.,dopo una fortuita vittoria pres-so Capo Telamonio su un eser-cito di Galli in marcia versoRoma, le legioni romane riesco-no finalmente ad entrare nellaValle Padana e conquistano Me-diolanum.Nel 218 a.C. scoppia la secondaguerra punica ed Annibale calain Italia per conquistrare Roma.Insubri e contingenti di guerrie-ri di diverse tribù galliche glisono al fianco e Roma, per laseconda volta, rischia di venirspazzata via dalla storia e dallafaccia del pianeta; solo l’esitazio-ne dell’africano valse a salvarla.Le guerre coi romani comunquecontinuarono, spezzettate inuna miriade di episodi di guer-ra partigiana. Solo nel 175 a.C.la Gallia Cisalpina viene consi-derata pacificata anche se nellezone montuose, alpine e preal-pine la pace non fu mai vera-mente raggiunta.È significativo rilevare come siastato difficile per i romani sot-tomettere questi popoli. Infatti,dalla fondazione di Roma, tra-scorrono ben 600 anni primache i romani riescano ad averragione dei Galli Padani, e solodopo aver sottomesso la mag-

Nicomede assegna loro dei ter-ritori nei pressi di Ankara: na-sce la Galatia. Nel 189 a.C. i ro-mani organizzano una spedizio-ne punitiva contro i Galati chevengono poi pesantementesconfitti nel 165 a.C. da Eume-ne II. Nel 47 a.C. Cesare conqui-sta il Ponto e sottomette tuttal’Asia Minore inclusa la Galatia.A Occidente Cesare completa laconquista della Gallia battendoin successione tutti i vari popo-li, dagli Elvezi fino ai Britanni.È di questo periodo la mitica fi-gura di Vercingetorige che sibatte strenuamente contro lelegioni romane fino a che nonne viene sconfitto.Viene da chiedersi come abbia-no potuto i romani battere deiguerrieri così forti e sprezzantidella morte. Ritengo che le ra-gioni vadano ricercate proprionella fierezza di questi popoli.Forti ognuno della propria iden-

tità e gelosi della propria auto-nomia non hanno saputo coaliz-zarsi per combattere un nemi-co che, abile sul piano diploma-tico, strisciava fra le loro con-traddizione riuscendo troppospesso a mettere gli uni controgli altri (“divide et impera”). Masaranno i Germani (germano inlatino significava fratello di san-gue, cioè i fratelli che avevanolo stesso padre e la stessa ma-dre. I romani chiamarono Ger-mani questi popoli proprio perla forte rassomiglianza che essiavevano coi Galli), nei secolisuccessivi, a far giustizia diRoma e della sua sete di potere.L’analisi storica effettuata daHerm continua anche per i se-coli successivi giungendo finoalla cristianizzazione dell’Euro-pa.

Accanto a questa cronologia dieventi, molto ricca di particola-

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gior parte dei po-poli mediterra-nei.Mentre i Celti Pa-dani combatteva-no contro Roma,altri popoli dellastessa stirpe com-battevano a suddei Balcani e nel-l’Asia minore. Nel335 a.C. si scon-trano con Ales-sandro Magno.Nel 279 a.C. duecomandanti Cel-ti, Bolgio e Bren-no (Brenno sem-bra non fosse unnome proprio maindicasse la figu-ra del comandan-te), irrompononel Peloponneso.Nel 275 a.C. An-tioco batte i Celtiin Asia Minore e

Galata morente. Copia di un originale bron-zeo del 220 ÷ 210 a.C. Il suo volto è così co-mune che si può affermare “I Celti sono anco-ra tra di noi”.

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ri e situazioni che l’autore de-scrive sempre in maniera bril-lante e discorsiva, vengono ana-lizzati i probabili motivi chemossero questi popoli senza tra-lasciare un’analisi linguistica edetimologica passando poi a co-stumi, etica e religione.Verso il 5000 a.C. inizia un pe-riodo di lunghe estati e invernimiti, probabilmente in tutto ilmondo. In tale periodo l’Euro-pa Occidentale vede la fiorituradell’età del bronzo. I popoli, for-se originari del bacino del bassoVolga, si spingono a ovest versol’Europa e ad est verso l’Indiacreando di fatto lo zoccolo dellarazza indoeuropea. Verso il 1300a.C. la temperatura sale in ma-miera impressionante accele-rando la migrazione di questipopoli verso climi più freddi.Ma, verso il 1250 a.C., si ha unosconvolgimento del pianeta, for-se una contrazione della crostaterrestre, con eruzioni di vulca-ni, maremoti e altre catastrofi.È in questo periodo che il fug-giasco Mosè, con il suo popolo,attraversa il mar Rosso. La mi-tica Atlandide, posta - secondoSpanuth - sui terreni alluviona-li che collegavano l’odierna Hel-goland con la costa, scomparenel mare. Nel 1197 a.C. il farao-ne Ramses III respinge l’assaltodi misteriosi “Popoli del mare”:gli atlantidi sopravvissuti in cer-ca di nuove terre?Verso il 1200 a.C. termina il pe-riodo di siccità e si và verso unaprogressiva recrudescenza delclima che provoca nuove migra-zioni da Nord verso Sud.Nel 1150 i Dori calano nel Pelo-

ponneso. Erano anch’essi celti?È significativo notare come siail greco che il latino siano lin-gue minori derivanti da un’uni-ca, antica lingua che ha poi ge-nerato tutte le lingue europee.La parola che identifica la ma-dre “mamma” si pronuncia in-fatti con impressionante rasso-miglianza e continuità dal Por-togallo fino all’India. Così valeper la parola re (rix presso Gallie Germani, rex presso i latini eraja in India). Anche il concettodi democrazia compare per la pri-ma volta con i greci ed ancoraoggi rimane un concetto tipica-mente europeo con poco riscon-tro nel resto del mondo.

In questi millenni si sviluppa-no diversi tipi di civiltà: la“Nord-pontica” (cultura conta-dina della tarda età della pietra),dei “Kurgàn” (tombe a tumulo),la cultura di “Únetice”, dei

citati erano: Teutates, Esus eTaranis. Teutates era indubbia-mente il più potente. Non man-cavano comunque una serie didivinità minori, o locali, che ri-troviamo poi nel cristianesimosotto forma di santi. Non possonon segnalare Lug, il grandesciamano, che per i Nord-Ger-mani diviene Odino, assunto nelWalhalla. Lug, a cui sono dedi-cate numerose città (Lione, Lie-gnitz, Leida, Lugano eccetera),è forse la figura che più si avvi-cina a quella dei druidi.

I druidi rappresentavano la fi-gura più rispettata nella societàceltica. Essi erano una specie dibramini a cui venivano deman-date molte funzioni che andava-no dalla religione, alla medici-na fino alla mediazione dellecontroversie. Immediatamentedopo venivano i condottieri ed iguerrieri. I Celti erano abili sianel commercio che nelle attivi-tà artiginali e, incredibile a dir-si, avevano già inventato le fab-briche fin dal periodo hallstat-tiano. Tra i Celti c’era una fortecultura del fare e gli artigianigodevano di grande rispetto. Trai popoli pelasgici e mediterraneila figura più diffusa era invecequella del commerciante: il la-voro era per gli schiavi.Diviene qui evidente il ruolodegli antichi retaggi che i Celtici hanno lasciato. Alla base del-l’attuale sviluppo industrialedell’Europa, troviamo le radiciculturali di quei “barbari” i cuifigli hanno industrializzato ilmondo. E, se questo è vero perl’Europa, lo è ancor di più perla Padania che si trova però innetta contraddizione con i po-poli dello Stato in cui è rimastainvischiata. Presso i romani il la-voro era per gli schiavi: nonsembra che la cosa sia cambia-ta.

“Campi di urne”, la cultura di“Hallstatt” (700 ÷ 450 a.C.) e perfinire quella di “La Tène” (450a.C. ÷ 50 d.C.). I Celti inizianoad essere definiti tali durante ilperiodo di Hallstatt e caratteriz-zano la cultura di La Tène.I Celti avevano uno spiccato sen-so della religione ed avevano nu-merosi Dei, i luminosi “Asi”.Come elemento dominante ab-biamo una triade di potenti Dei(questa idea del 3 come nume-ro dominate è poi puntualmen-te passata al cristianesimo conla Trinità). Presso i Celti i più

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Il calderone argenteo di Gun-destrup (I secolo a.C.)

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Romano BracaliniCattaneo. Un federalista per gliitalianiArnoldo Mondadori EditoreMilano, 1995pagg. 237, £ 30.000

“... secondo noi Cattaneo fuuna delle figure più belle e ni-tide del nostro Ottocento. Mala sua assunzione nel Panthe-on dei Padri della Patria fuun’operazione truffaldina (...)Se oggi tornasse tra noi e lochiamassero tra i futuri Costi-tuenti, alla domanda se l’Italiasia un Paese da rifare o da di-sfare, risponderebbe senza esi-tare che è da disfare. E non perrifarla”.Con queste parole si conclude-va un fondo di Indro Montanel-li apparso sulla prima paginadel Corriere della Sera il 24 lu-glio di quest’anno. SecondoMontanelli la figura di Catta-neo andrebbe completamenterivista da parte della storiogra-fia. Sarebbe sbagliato conside-rarlo alla stessa stregua deipolitici risorgimentali che siposero sempre come metal’unità e l’indipendenza italia-ne. Cattaneo non guardava al-l’Italia, ma alla Lombardia ealla Padania. Non pensava aduno stato forte italiano, ma aduna confederazione delle libe-re nazioni peninsulari da inte-grare quanto prima in unagrande federazione delle gentieuropee.

Queste considerazioni ci per-mettono di introdurre meglio larecentissima biografia di CarloCattaneo scritta da Romano Bra-

calini. Una attenta lettura delvolume permette di ritrovare lestesse linee di fondo della tesimontanelliana. Sotto questoprofilo l’opera di Bracalini va adoccupare una posizione di pre-minenza nell’ambito della rilet-tura storica del pensiero politi-co di Cattaneo. Fin dalla pre-messa lo scrittore toscano ci ri-corda che Cattaneo non fu maiamato dalla critica e dai politiciitaliani; rappresentava una evi-dente anomalia nel panoramarisorgimentale, una pericolosadiversità che la storiografia sco-lastica si è ben guardata dal-l’esaltare. Cattaneo è stato ridot-to a oleografica figura protago-nista esclusivamente delle 5Giornate di Milano. La sua co-struzione federalista non solo èstata calpestata dai contempora-nei e volutamente dimenticatadagli intellettuali postunitari,ma è addirittura stata stravoltae fatta apparire come puro vez-zo subordinato sempre e co-munque al desiderio di una Ita-lia unita.

Questa è una falsità. Carlo Cat-taneo non lottò per l’indipen-denza italiana, ma per quelladella sua terra, la Lombardia.Come ci mostrano bene i capi-toli della biografia dedicati al-l’epopea dell’insurrezione mila-nese del ’48, egli si trovò su unpiano politico radicalmente op-posto a quello dei moderati lom-bardi, favorevoli alla fusione conil regno sabaudo. Non volle ac-cettare la “protezione” militaredi Carlo Alberto, né acconsentìmai di fare da padrino alla suc-cessiva e definitiva annessionedel 1859. E vide giusto. Comepoteva la terra dei liberi comu-ni sopportare con dignità un’an-nessione comprata da parte delPiemonte, anzi, meglio, unavera e propria occupazione mi-

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litare risoltasi con l’istituzionesu tutto il territorio lombardodella figura dei prefetti, nomi-nati direttamente dal potere pie-montese?Bracalini ci racconta degli annidell’esilio a Castagnola e di tut-te le amarezze sofferte dal No-stro a causa della miopia politi-ca dei moderati lombardi. E cirestituisce la figura di un uomoforte di fronte alle avversità, fie-ro nelle sue idee, tanto da rinun-ciare di andare al parlamentotorinese, al quale era stato elet-to, pur di non dover giurare fe-deltà al Re.

Oltre alla rilettura del pensie-ro politico di Cattaneo la biogra-fia di Bracalini ha un indubbiopregio: non ci consegna soltan-to l’originale pensatore, il teo-rico del federalismo integraledemocratico, ma anche e soprat-tutto l’uomo Cattaneo, con lasua vita sentimentale, le sue re-lazioni sociali e le fatiche di unaesistenza non certo agiata.Nato da una famiglia piccoloborghese nel 1801, Cattaneo silaureò nel 1824 in Giurispru-denza a pieni voti; era già inse-gnante, attività che svolse anco-ra per molti anni, e da cui si ri-tirò per le precarie condizioni disalute.

Carlo Cattaneo

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Allevato alla scuola del grandeGian Domenico Romagnosi,Cattaneo maturò uno spiccatointeresse per tutti i campi delsapere; in pochi anni si imposecome studioso enciclopedico,esperto nelle più avanzate disci-pline tecnico-scientifiche, daitrasporti - celebre è lo studio chegli fu commissionato dalla Con-federazione elvetica - alle nuo-ve pratiche agricole. In questosenso, come è stato detto beneda Daniele Vimercati nella an-tologia “Stati Uniti d’Italia”, Cat-taneo rappresentò un unicumnel mondo intellettuale dell’ot-tocento. Non era un romanticocome tutti in quegli anni, ma unrazionalista che trovava le pro-prie radici culturali nell’illumi-nismo. Fu uomo integerrimosenza cadere negli eccessi del-l’integralismo. E per questo nonsi può dire che Cattaneo sia sta-to un ottimista: era un realista,e soprattutto un uomo delusodalla vanità dei suoi simili, dal-la cecità della classe politica,dalla condanna che il suo pen-siero dovette scontare per il fat-to di non essere semplice dema-gogia.

Bracalini però non dimenticadi parlarci anche di quel circolodi amici che accompagnaronoper tutta la vita Cattaneo, e aiquali va il nostro ringraziamen-to per aver permesso che unabuona parte dell’opera del pen-satore milanese non andassecompletamente perduta. Spicca-no le figure dei generosi Cernu-schi, Bertani, Cavallotti, Marioe la moglie Jessie White; ma so-prattutto una persona, nella sua

Roberto GremmoStreghe e Magia. Episodi di op-posizione religiosa popolaresulle Alpi del SeicentoBiella: Edizioni ELF, 1994

L’autore conferma e consolidala sua fama di esperto di storiadella magia e delle supertizionidell’area alpina: di Gremmo siricordano infatti altri due volu-mi (Le donne del diavolo, Gru-gliasco: Editrice Il Punto, 1978- Magia e superstizione fra Biel-lese e Val d’Aosta nel Seicento,Ivrea: Editrice BS, 1982) e nu-merosi articoli sullo stesso ar-gomento.In quest’ultimo volume riappa-iono informazioni ed episodi giàdescritti in alcuni dei suoi pre-cedenti lavori che qui vengonoapprofonditi, ampliati e detta-gliati - e soprattutto - contestua-lizzati in un più generale ed or-ganico discorso esteso a tuttal’atrea culturale alpina occiden-tale.L’opera è ricca di riferimenti

dotti e di notizie curiose ed in-teressanti e dà una visione piut-tosto omogenea sul fenomenodella magia popolare più in ge-nerale - e delle streghe più inparticolare - analizzandolocome una sorta di forma di resi-stenza al culto religioso “ufficia-le” rappresentato dalla ChiesaCattolica.Si tratta di una tesi già sostenu-ta da numerosi altri studiosi cheil Gremmo riprende e raziona-lizza e che sostiene che le stre-ghe (e gli altri fenomeni di ma-gia popolare) altro non fosseroche espressioni di sopravviven-za di antichi culti e di tradizio-ni precristiane che la Chiesa habollato come manifestazioni disatanismo e criminalizzato.L’autore indica anche un’altraimportante implicazione riferi-ta a tali fenomeni - e ad altricome la nota vicenda fra Dolci-no - che interpreta come mani-festazioni di intolleranza neiconfronti di un potere politicoin qualche modo legato ad istan-ze “romane” e, quindi, comevere e proprie esplosioni di ri-volta autonomista costruite suantiche espressioni socio-reli-giose.Dice infatti il Gremmo(pagg.304-306):“Ma, allora, cos’è stata veramen-te questa inquietante figura distrega, masca, faa che si aggiraper le montagne dell’Europagaralditana, fra il XIV ed il XVIIsecolo?La prevalenza dell’elementofemminile (senza dimenticaregli stregoni) è evidente. Perquanto si debba tener presenteche questo elemento è stato di-latato dalla misoginia dei “cac-ciatori” di streghe, esso trovauna sua ragion d’essere nel ruo-lo della donna in una societànella quale nè la struttura lai-cale (la famiglia basata sul po-

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discrezione e riservatezza, appa-re decisiva nella vita di Cattaneo:stiamo parlando della moglieAnn Woodcock, di nascita anglo-irlandese, che fedelmente e conamore seguì il suo Carlo nei mo-menti felici così come nei tem-pi più difficili del volontario esi-lio svizzero.

Carlo Cattaneo non è un Pa-dre della Patria italiana - e suquesta espressione ci sarebbemolto da dire -. Ma è certo chese la nazione lombarda e la con-federazione padana cercheran-no un simbolo che le rappresen-ti, questo non potrà che essereCattaneo: un uomo onesto, uncittadino libero, un intellettua-le europeo.

Alessandro Storti

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tere del pater familias) nè quel-la ecclesiale (esclusione delledonne dal sacerdozio) le lascia-vano spazio.Questa emarginazione è, peral-tro, il dato più evidente del-l’avanzata della dominazione ro-mana e della sua integrazionecon il Cristianesimo.Nella vecchia società “Garaldi-tana” (ma anche celtica e ger-manica) le cose si svolgevano intutt’altro modo: dalle selve, dallebrughiere, dagli anfratti monta-ni s’alzavano fumi, formule ma-giche, incantesimi di profetes-se, medichesse, sacerdotesse,guaritrici che spargevano a pie-ne mani medicamenti, unguen-ti, consigli. Esse erano le domi-natrici, loro era il “bastone delcomando”.È vero che il secolo delle stre-ghe è il Trecento e che la forsen-nata caccia dell’ufficialità a que-ste donne contestatrici prose-guirà nei secoli seguenti.Ma quello che, comunemente,viene indicato come punto dipartenza è solo momento ditransizione.Le streghe non sono “spuntate”allora: sulle Alpi, fra i Pireneic’erano sempre state, ma fino aquel momento nessuno s’erapreoccupato di sloggiarle dai se-dimentati strati di consenso po-polare che si erano create attor-no.Fu solo dal Trecento in poi chevenne presa la decisione di “cri-stianizzare” completamentel’Europa mettendo al rogo stre-ghe ed eretici, accumunati inuna inappellabile condanna.Ebbero allora inizio le Crociate(in Occitania contro i Catari, nel

gna di profonda evangelizzazio-ne, attraverso lo sradicamentodelle superstizioni e di tutto ilcontesto di riti e di credenzesulle quali esse poggiavano.La Chiesa non si accontentò piùdi una adesione formale al cri-stianesimo da parte di pastori,alpigiani, boscaioli, contadini.Essi restavano ben convinti, nelfondo dei meandri della loro psi-che, della validità dei soli cultidelle sacerdotesse dei boschi edegli stregoni; erano legati allavenerazione dei loro antichi deifamigliari e personali.Tutto il resto era solo forma, nonsostanza.Gli inquisitori puntarono dirit-to nella direzione della distru-zione del “vecchio” sapere e del“vecchio” potere spirituale.Insinuandosi fra i meandri del-l’Europa marginale e subalter-na, credettero di scoprire la “no-vità” della stregoneria, ma siscontrarono con qualcosa che,invece, era ben più antico e for-se perfino più forte di loro.Credettero di imbattersi nelleneofite adoratrici di Satana enon capirono di essere di frontealle custodi di un antico sapere

e di pratiche terapeutiche e psi-chiche che corrispondevano adun sistema etnico-culturale dif-ferente da quello orientale Cri-stiano”.Le streghe possono quindi (al-meno in taluni casi) essere in-dicate come una sorta di drui-desse, come esponenti di un vec-chio sistema di relazioni socio-culturali e di costruzioni religio-se che è sopravissuto alla occu-pazione e colonizzazione roma-na ed alla cristianizzazione.Estremamente interessante è ilrichiamo ai valori matriarcalidelle antiche società autoctone.Le protagoniste di gran partedelle manifestazioni di magiapopolare (o “diabolica”, secon-do i persecutori) sono donne;quasi tutte le maggiori persona-lità carismatiche delle setteacattoliche sono di sesso femmi-nile, le donne sono al centroanche di quasi tutte le esplosio-ni di religiosità “anomala” chesi manifestano fino a tutto l’Ot-tocento (e oltre...) con regolarefrequenza.

In particolare, Gremmo analiz-za la linea diretta che vede col-

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Biellese controDolcino e Marghe-rita).Molti Perfetti, per-seguitati e fuggia-schi, finirono qua-si naturalmenteper unire alle lorocredenze delle pra-tiche magiche e“stregonesche”.Fra i dolciniani eb-bero ascolto le pre-dicazioni dualisti-che della Gugliel-mina boema.Parallelamente, vifu il “lavaggio deicervelli” degli umi-li, con una campa-

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legare la civiltà matriarcale al-pina e la Guglielmina, una mo-naca operante a Milano alla finedel XIII secolo che diceva di “es-sere vero Dio e vero uomo nelsesso femminile come Cristo nelmaschile. Come Cristo anch’es-sa sarebbe morta secondo la na-tura umana, non secondo quel-la divina, sarebbe poi salita alcielo per elevare l’umanità fem-minile”. (Le donne del diavolo,pag.6) L’accanimento manifesta-to dalle autorità costituite neiconfronti di tutte le espressionidi magia (e di cultura) popolaresono però dettate anche dallapaura nei confronti del sorgeredi eccessive libertà locali, delmanifestarsi del riaffiorare pe-riodico del mai sopito principioceltico dell’autonomia dei vil-laggi.“Del resto, le streghe - secondole parole del Gremmo (pag.307)- sono ribelli soprattutto perchèsono “reazionarie”, cioè conser-vatrici profonde di patrimonio ecultura tradizionali.I “progressisti”, gli “innovatori”,sono i persecutori, con la lorofrenesia fanatica di affermare unordine sociale, oltre che politi-co, differente da quello che le so-cietà antiche avevano alla lorobase, incentrato su larghe auto-nomie di villaggi e “cantoni”;basato su schemi che liberava-no energie più che rinchiuder-le; responsabilizzava largamen-te i singoli, più che ingabbiarliin rigidità gerarchiche”.Quella contro la magia popola-re e contro le cosiddette stregheè - nel suo complesso - una lot-ta intrapresa fin dalla prima oc-cupazione romana da strani al-

leati ciascuno per i propri inte-ressi che in questo specifico casocoincidevano: la Chiesa per sop-primere ogni residuo di celti-smo e i poteri autocratici (laicie religiosi) per affermare la pro-pria potestà gerarchica e persopprimere le autonomie loca-li. Il lavoro di Gremmo è peròinteressante anche per un altromotivo: la narrazione dei fatti sisvolge attraverso una selva fit-tissima di informazioni che toc-cano molta parte del patrimonioculturale delle Alpi occidentali.Vi si fanno affascinanti riferi-menti ad Urupa (Oropa), capi-tale delle libere genti della Ga-raldea (la preistorica patria de-gli uomini che vivevano nel-l’area compresa fra la Galizia,l’Occitania e la Padania), il cuinome deriva da Uru, Ur (= capi-tale) come le vicine Vi-v-irun ePi-v-irun e come la basca Iru-na.Attraverso la comune apparte-nenza alla Garaldea, l’autoreesplora i collegamenti con laapparentemente lontana cultu-ra basca: Ganabe in basco vuoldire Piemonte, “regione sotto lemontagne”, da cui deriverebbeGanab-èis, l’odierno Canavese.Il libro tratta poi di alcune vi-cende che potrebbero rientrarenel patrimonio “patriottico” del-la Padania: dal mito di Berta chetestimonierebbe della “resisten-za” dei popoli più antichi alleinvasioni barbariche della vallePadana (cfr: Giovanni Antonuc-ci, “Adversus Lombardos”, inAthenaeum, Pavia, 1927) allastoria di Dolcino che - secondola “Rivendicazione dolciniana”di cui è principale protagonistaEmanuele Sella - sarebbe statoun “guerrigliero della “NazionePadana” schiacciato dalla cro-ciata di Roma”. La grande per-sistenza delle rappresentazionidella vicenda dolciniana nel te-

atro popolare (soprattutto otto-centesco) è interpretata dal Sellacome manifestazione di coscien-za di un popolo colonizzato cheha in qualche modo compresoche con la sconfitta di Dolcinoè stata “proibita” la creazione diuna libera nazione alpina. Ana-loga interpretazione il Gremmodà alle vicende del carnevale diPont (Valle d’Aosta), nel quale latradizionale rappresentazionedella lotta contro il diavolo hasubìto nel 1976 una divertentevariazione di copione assumen-do un connotato etnico di lottafra i Salassi e i Romani invasorie dove alla fine “tra urla di giu-bilo i Romani vennero fatti pri-gionieri e trascinati via”. La va-riante è evidentemente piaciutaed è diventata consuetudine:nell’81 la rappresentazione haaddirittura fatto contusi e feri-ti.Nel libro si trovano inoltre lestorie della “Druida di Malciaus-sia”, della “Mummia di Agrano”,delle Bassure dell’Appennino li-gure e di altri fatti e personaggipiù o meno noti del folkloremagico di casa nostra.Il maggiore merito del lavoro diGremmo è però costituito dal-l’essere riuscito ad eliminare ilsenso di disagio che solitamen-te si prova nell’affrontare que-sto genere di argomenti, cosìlontani dalla comoda e rassicu-rante banalità della “cultura uf-ficiale”, e a farli diventare posi-tivi e famigliari. E’ un coraggio-so passo nella direzione giusta,è l’inizio di un processo di risco-perta di autentiche radici cultu-rali, inverso a quello comincia-to un sacco di tempo fa e che hacercato di gabbare certe nostretradizioni di cultura e di libertàcome manifestazioni demonia-che.Demoniaci sono loro.

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