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1 LEZIONE DEL 4 MAGGIO 2014 ENZO MORRICO IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO Sommario: 1) Disciplina previgente; 2) Motivi della riforma; 3) Primi cenni del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; 4) Costituzionalità del nuovo art. 18 Stat. Lav; 5) Prima esegesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo 6) Fattispecie rientranti nell'ambito del giustificato motivo oggettivo; 7) Il licenziamento irrogato per giustificato motivo oggettivo ma che nasconde un licenziamento disciplinare. 1) Disciplina previgente. Prima della sostituzione effettuata ad opera dell'art. 1 commi 42 e segg.ti della L. 92/2012 dei primi sei commi (con i dieci attuali) dell'art. 18 l. 300/70, il legislatore ci aveva abituato -sia nella formulazione dell'art. 18 ad opera del legislatore del 1970 con la l. 20.5.1970 n.300, sia nella successiva formulazione dell'art. 18 prevista dalla l. 108/1990- a distinguerli, quanto agli effetti, in licenziamenti nulli, annullabili ed inefficaci. Dove per nulli -nella primissima formulazione- si intendevano solamente quelli posti in essere in violazione dei divieti contenuti nell'art. 4 l. 604/66 1 (e la limitazione 1 Ciò non voleva però dire che non vi fossero, o potessero esserci, altre ipotesi di licenziamenti dichiarati nulli (si pensi a quelli licenziamenti irrogati a causa di matrimonio -v. artt. 1,2, e 6 L. 9 gennaio 1960 n.63, ora art. 35 D.Lgs 11 aprile 2006 n. 198- o alla maternità -v. art. 1,2 e 5 L. 30 dicembre 1970 n. 1206, ora art . 54 D.lgs 26 marzo 2001 n. 151 ecc.-, ma comportavano delle conseguenze del tutto differenti, nel senso che avevano la tutela apprestata dal diritto comune in tema di nullità ai sensi degli artt. 1418 c.c. con l'effetto della rimozione dell'atto nullo in quanto tale ed il pagamento delle retribuzione maturate (v. Cass. 16.2.2007 n. 3620 in Foro It. 2007, I, col. 1453, Cass. 15.9.2004 n. 18537 in Mass. Giur. Lav. 2004 p. 951), però non dal licenziamento, ma da quando il lavoratore poneva a disposizione le proprie energie psico-fisiche con l'offerta formulata ai sensi dell'art. 1206 c.c. (v. Cass. civ., sez. lav., 17.05.2011, n. 10817 in Giur. it., 2012, 637, con nota di Del Conte, secondo la quale " la disposizione di cui all’art. 2 l. n. 7 del 1963 - che prevede, in caso di nullità del licenziamento della lavoratrice perché intimato a causa di matrimonio, l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere alla lavoratrice medesima la retribuzione globale di fatto fino al giorno della riassunzione in servizio, stante la dipendenza della mancata prestazione lavorativa dall’illegittimo rifiuto di quest’ultimo di riceverla - non si riferisce (sia per il suo tenore letterale, sia per la diversità della fattispecie) anche all’ipotesi della nullità delle dimissioni dalla lavoratrice rassegnate - senza conferma all’ufficio del lavoro - nel periodo di interdizione di cui all’art. 1 medesima legge (ossia dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio fino ad un anno dopo la celebrazione dello stesso); pertanto, l’obbligo della retribuzione con la mora credendi relativa del datore di lavoro sorge soltanto nel momento in cui la lavoratrice, facendo valere la nullità del proprio recesso e la perdurante validità del rapporto di lavoro, offra nuovamente la propria prestazione"). Da rilevare però

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1

LEZIONE DEL 4 MAGGIO 2014

ENZO MORRICO

IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO

Sommario: 1) Disciplina previgente; 2) Motivi della riforma; 3) Primi cenni del

licenziamento per giustificato motivo oggettivo; 4) Costituzionalità del nuovo art. 18 Stat.

Lav; 5) Prima esegesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo 6) Fattispecie

rientranti nell'ambito del giustificato motivo oggettivo; 7) Il licenziamento irrogato per

giustificato motivo oggettivo ma che nasconde un licenziamento disciplinare.

1) Disciplina previgente.

Prima della sostituzione effettuata ad opera dell'art. 1 commi 42 e segg.ti della L.

92/2012 dei primi sei commi (con i dieci attuali) dell'art. 18 l. 300/70, il legislatore ci

aveva abituato -sia nella formulazione dell'art. 18 ad opera del legislatore del 1970 con la

l. 20.5.1970 n.300, sia nella successiva formulazione dell'art. 18 prevista dalla l.

108/1990- a distinguerli, quanto agli effetti, in licenziamenti nulli, annullabili ed

inefficaci.

Dove per nulli -nella primissima formulazione- si intendevano solamente quelli

posti in essere in violazione dei divieti contenuti nell'art. 4 l. 604/661 (e la limitazione

1 Ciò non voleva però dire che non vi fossero, o potessero esserci, altre ipotesi di licenziamenti dichiarati

nulli (si pensi a quelli licenziamenti irrogati a causa di matrimonio -v. artt. 1,2, e 6 L. 9 gennaio 1960 n.63,

ora art. 35 D.Lgs 11 aprile 2006 n. 198- o alla maternità -v. art. 1,2 e 5 L. 30 dicembre 1970 n. 1206, ora art

. 54 D.lgs 26 marzo 2001 n. 151 ecc.-, ma comportavano delle conseguenze del tutto differenti, nel senso

che avevano la tutela apprestata dal diritto comune in tema di nullità ai sensi degli artt. 1418 c.c. con

l'effetto della rimozione dell'atto nullo in quanto tale ed il pagamento delle retribuzione maturate (v. Cass.

16.2.2007 n. 3620 in Foro It. 2007, I, col. 1453, Cass. 15.9.2004 n. 18537 in Mass. Giur. Lav. 2004 p.

951), però non dal licenziamento, ma da quando il lavoratore poneva a disposizione le proprie energie

psico-fisiche con l'offerta formulata ai sensi dell'art. 1206 c.c. (v. Cass. civ., sez. lav., 17.05.2011, n. 10817

in Giur. it., 2012, 637, con nota di Del Conte, secondo la quale "la disposizione di cui all’art. 2 l. n. 7 del

1963 - che prevede, in caso di nullità del licenziamento della lavoratrice perché intimato a causa di

matrimonio, l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere alla lavoratrice medesima la retribuzione

globale di fatto fino al giorno della riassunzione in servizio, stante la dipendenza della mancata

prestazione lavorativa dall’illegittimo rifiuto di quest’ultimo di riceverla - non si riferisce (sia per il suo

tenore letterale, sia per la diversità della fattispecie) anche all’ipotesi della nullità delle dimissioni dalla

lavoratrice rassegnate - senza conferma all’ufficio del lavoro - nel periodo di interdizione di cui all’art. 1

medesima legge (ossia dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio fino ad un anno dopo la

celebrazione dello stesso); pertanto, l’obbligo della retribuzione con la mora credendi relativa del datore

di lavoro sorge soltanto nel momento in cui la lavoratrice, facendo valere la nullità del proprio recesso e

la perdurante validità del rapporto di lavoro, offra nuovamente la propria prestazione"). Da rilevare però

2

posta faceva intendere -e così è sempre stata interpretata- che non venisse estesa anche

alle altre ipotesi di discriminazione e la applicabilità della norma era limitata a quella più

in generale prevista dal successivo art. 35 della l. 300/70), mentre nella seconda

formulazione (ad opera della L. 108/90) la nullità è stata estesa alle ipotesi di violazione

dei divieti contenuti nell'art. 3 l. 108/90, che a sua volta richiamava sempre l'art. 4 l.

604/66 e l'art. 15 L. 300/70, le cui casistiche previste e costituenti discriminazione,

secondo il legislatore del 1970, erano state in parte ampliate dall'art. 13 L. 9.12.1977 n.

903 ed in parte venivano da lì a poco ampliate dall'art. 4 del D.Lgs 9.7.2003 n. 216 (nel

senso che alla primigenia formulazione veniva all'ultimo comma aggiunta la seguente

frase ...... razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento

sessuale o sulle convinzioni personali).

Per quelli annullabili, si intendevano quelli non sorretti da giusta causa (2119 c.c.)

e/o giustificato motivo soggettivo od oggettivo (art. 3 l. 604/66).

Per quelli inefficaci, quelli intimati oralmente -cioè non in forma scritta- o

comunque in assenza dei motivi, solo se ritualmente richiesti ai sensi dell'art. 2 l. 604/66.

In questi tre casi2 l'unica sanzione prevista era quella della reintegrazione nel posto

di lavoro ed il pagamento, nella prima formulazione, (v. comma 2), di un risarcimento

danni dalla data del licenziamento sino alla sentenza in cui veniva dichiarata la

illegittimità del licenziamento e poi le retribuzioni da quella data sino a quella della

reintegrazione); nella seconda formulazione (v. comma 4) al solo risarcimento dei danni

dalla data del licenziamento sino alla effettiva3 reintegrazione. In tutti e due i casi il

risarcimento non poteva essere inferiore alle cinque mensilità e nella seconda

formulazione si iniziò a prevedere -visto i contrasti esistenti per la prima formulazione-

che per il licenziamento "ritorsivo" la giurisprudenza ha riconnesso l'applicabilità dell'art. 18 S.L. (v. Cass.

8.8.2011 n. 17087 in Riv. giur. lav., 2012, II, 326 con nota di Cannati).

2 sempre nell'ambito di applicabilità dell'art. 18 S.L. che, secondo la riforma del 1990 veniva riconnesso

esclusivamente alle dimensioni del datore di lavoro e non più -come in precedenza- alla sua qualità di

imprenditore; per cui si applica la tutela c.d. reale avendo riguardo un duplice requisito dimensionale: il

primo, che si riferisce all'unità produttiva, singolarmente considerata o congiuntamente considerate

nell'ambito comunale; il secondo alla circostanza che il datore di lavoro occupi più di sessanta dipendenti.

v. per tutti L. CORAZZA, Il campo di applicazione delle tutele, in Dir. Lav. Commentario, diretto da F.

Carinci, vol III Torino, 1998, 157. In termini critici sulla scelta del legislatore v. per tutti M. PERSIANI,

L'ambito di applicazione della nuova disciplina della reintegrazione nel posto di lavoro in Dir. Lav. 1991,

I, 4 e seg.ti, M.V. BALLESTRERO, Ambito di applicazione della disciplina dei licenziamenti: ragionevolezza

delle esclusioni in Lav. dir. 1990, 263. Per "unità produttiva" la migliore e più completa soluzione è quella

riferita da M. PERSIANI, L'ambito di applicazione cit. pag. 10. Secondo l'Autore deve intendersi unità

produttiva " qualsiasi articolazione non imprenditoriale che, sebbene non dotata di autonomia in snso

giuridico, tuttavia realizzi compiutamente -od in una delle fasi in cui si articoli- l'attuazione dello scopo

perseguito". In ordine all'onere della prova gravante per la dimostrazione del requisito dimensionale,

abbandonato il precedente orientamento della Cass. a Sez. Un: la prima ante riforma del 1990 (v. Cass.

SS.UU. 4.3.1988 n. 2249 in Giust. Civ. 1988,I, 897) e la seconda post riforma del 1990 (v. Cass. SS.UU.

26.4.1994 in Foro It. I, 1708), la recente giurisprudenza (v. Cass SS.UU. 10.1.2006 n. 141 in Arg. Dir.

Lav., 2006, 594), prevede che sia il datore di lavoro a dare la prova della sussistenza o meno di detto

requisito dimensionale ai fini della applicabilità o meno delle tutele previste dall'art. 18 S.L.. In Dottrina v. 3 sul concetto di effettività v. infra paragrafo 9, in dottrina v. A. PIZZOFERRATO, Tutela penale ed effettività

del diritto alla reintegrazione, in Lav. Giur. 1995, 537 e segg.ti

3

anche il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal momento del

licenziamento sino a quello di effettiva reintegrazione.

Con la nuova formulazione dell'art. 18 ed in particolare quella prevista nei primi

dieci commi ad opera dell'art. 1 della L. 92/2012 sopra richiamata, da un lato si è

ampiamente dilatato -o, forse meglio, specificato- l'ambito in cui opera la invalidità del

licenziamento, dall'altro si sono individuate più sanzioni, in luogo dell'unica rappresentata

dalla reintegrazione nel posto di lavoro ed il conseguente risarcimento (prima, come

sopra indicato, previsto dal comma 4 del "vecchio" art. 18 S.L. introdotto dalla novella

del 1990, ed ora dai commi 2 e 4 nuova formulazione dell'art. 18 S.L.).

Con riguardo al primo aspetto il primo comma del "nuovo" testo dell'art. 18 S.L. ha

meglio specificato le ipotesi in cui il licenziamento dovrà considerarsi nullo, mentre in

questo scritto si dovranno affrontare le problematiche scaturenti dal licenziamento

annullabile la cui formulazione non ha subito alcuna modificazione ed in parte quello

inefficace che ha avuto un considerevole ampliamento ad opera della legge in commento.

2) Motivi della riforma.

Prima di passare all'esame specifico del licenziamento per giustificato motivo

oggettivo (ma il ragionamento che ci si appresta a fare vale per tutti i tipi di

licenziamento disciplinati dal novellato art. 18), si ritiene tuttavia opportuno -per meglio

comprendere la "nuova" formulazione della disposizione in esame- accennare brevemente

i motivi e le scelte del nostro legislatore nella riformulazione dell'art.18 S.L..

Si possono enucleare tre diverse interpretazioni: a) da un lato chi ritiene4 che sia un

modo di pareggiare il conto con la flessibilità in entrata -"spalmando" la flessibilità su

tutto il rapporto di lavoro- con anche la flessibilità in uscita e ritenendo peraltro, così

facendo, di esaltare o comunque favorire il contratto a tempo indeterminato e limitando

quindi il ricorso ai contratti c.d. flessibili sia di natura provvisoria a carattere subordinato

(contratti a tempo determinato) che autonomo (a progetto). In tale maniera il contratto

subordinato a tempo indeterminato sarebbe utilizzato molto di più rispetto a quello

determinato5; b) dall'altro

6 chi ritiene che sia servito per riequilibrare le due posizioni tra

loro in perenne conflitto (lavoratori e datori di lavoro) dove i primi non possono che

sostenere il vecchio art. 18 S.L. dove l'effettività dei diritti dei lavoratori viene garantita

4 A. MARESCA, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche all'art. 18 Statuto

dei Lavoratori, in Riv. It. Dir. Lav.,2012, I, 416. 5 si veda infatti quanto indicato sia all'art. 1 comma 1 lett a) L. 92/2012 dove il contratto a tempo

indeterminato viene considerato "contratto dominante", quale forma comune di rapporto di lavoro, frase

sostanzialmente ripetuta al comma 9 lett. a) dove viene definito "il contratto di lavoro subordinato a tempo

indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro" in luogo della precedente indicazione

contenuta nel d.lgs 368/01 -dove già era stato aggiunto il comma 01 ad opera dell'art 1 comma 558 della

L.23.12.2005 n. 266 dove veniva indicato "il contratto di lavoro subordinato è di regola a tempo

indeterminato"; 6 M. MARAZZA, L'art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei Lavoratori, in Arg. Dir. Lav., 2012, 3, 2.

4

solo con la reintegrazione in caso di licenziamento7; i secondi che considerano inadeguata

(perché troppo punitiva) la sanzione prevista tra l'altro perché priverebbe il datore di

lavoro del fondamentale diritto di libertà di selezionare i suoi collaboratori dopo la

scadenza del periodo di prova. Dal contemperamento delle due indicate esigenze

scaturisce -seppur nel vasto ambito della più complessa riforma del mercato del lavoro- la

riformulazione dell'art. 18; c) dall'altro ancora8 chi ritiene che la modifica dell'art. 18 sia

stata principalmente la esecuzione di quanto specificatamente indicato nella lettera

segreta, che segreta nei fatti non è stata, inviata in data 5.8.2011 dall'allora Presidente

della Banca Centrale Europea Trichet e controfirmata da Draghi (che da li a poco tempo

dopo avrebbe preso il posto del primo) nella quale venivano ritenute essenziali, nella

situazione di crisi e per ristabilire la fiducia degli investitori (anche esteri) le specificate

misure che -ricordo a tutti noi- prevedeva al punto 1)9 l'esigenza di riformare il sistema

7 Viene quindi indicata come una norma di civiltà giuridica necessaria per riequilibrare la disparità di forza

contrattuale esistente tra lavoratore e datore di lavoro ed attenuare la situazione di metus che il primo vive

nei confronti del secondo. 8 Mi permetto di richiamare quanto indicato in una mia relazione scritta divulgata in occasione di un

convegno promosso da AGI Lazio in data 9.7.2012 avente ad oggetto "La nuova legge di riforma del

mercato del lavoro" e pubblicata sul seguente sito: http://www.giuslavoristi.it/sezioni-regionali/lazio,

Osservatorio Legge 92/2012 - Dottrina "Primissime riflessioni sulla L. 28.6.2012 n.92". 9 Ritengo opportuno riportarla nell'integralità per la migliore comprensione di quanto dedotto: «Caro Primo

Ministro, Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei

mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da

parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori. Il vertice dei capi di Stato e di

governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i Paesi dell'euro riaffermano

solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e

tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». Il Consiglio direttivo

ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno

alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali. Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio

di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi

importanti, ma non sufficienti. Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:

1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni

recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti

sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed é cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide

principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei

servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività

delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro.

a) E' necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena

liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in

particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala. b) C'é anche l'esigenza

di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello

d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e

rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra

le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione. c) dovrebbe essere

adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti (il

sottolineato è mio), stabilendo un sistema di assicurazione della disoccupazione e un insieme di politiche

attive per il mercato del lavoro che sia in grado di facilitare la ricollocazione delle risorse verso aziende e

verso settori più competitivi

2.Il Governo ha l'esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle

finanze pubbliche.

a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane

di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del

luglio 2011. L'obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un

fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di

spesa. E' possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di

idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle donne nel settore privato

rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012.

5

della contrattazione collettiva -e da li a pochi giorni dopo è stata introdotta la

regolamentazione prevista dall'art. 8 l. 14.9.2011 n.148 (i c.d. contratti di prossimità)-,

nonché una accurata revisione delle norme che regolano la assunzione ed il licenziamento

dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione della disoccupazione ecc., e non è

affatto un caso che a meno di dieci mesi (il primo disegno di legge è di soli sei mesi10

) sia

stata approvato la legge sul mercato del lavoro11

.

Quale che siano i motivi per cui il legislatore si è determinato a modificare l'art. 18

S.L., come più avanti verrà meglio chiarito, si ritiene incontrovertibile che abbia voluto

dare una tutela minore al lavoratore in caso di licenziamento dichiarato illegittimo.

3) Primi cenni del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego,

rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi. b) Andrebbe

introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli

obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali. c)

Andrebbero messi sotto stretto controllo l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle

autorità regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari

livelli di governo. Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che

tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito

da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma

costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio.

3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione

dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di

assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di

indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). C'é l'esigenza di

un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province).

Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali.

Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate. Con la migliore considerazione, Mario

Draghi, Jean-Claude Trichet. 10

il d.d.l. S. 3249. 11

non può certo sfuggire la considerazione che il tentativo di modifica dell'art. 18 S.L. ha avuto diverse fasi

tutte naufragate, chi più chi meno, sul nascere. In primis si ricorda il referendum tendente alla abrogazione

dell'art. 18 S.L promosso da Forza Italia, Partito Radicale e PRI del 21 maggio 2000 che non venne

effettuato per mancanza del "quorum" richiesto; in seguito il governo Berlusconi, salito a Palazzo Chigi nel

2001 aveva nello stesso anno emanato un d.d.l. -l'848 del 15.11.2001- che all'art. 10 aveva previsto la

delega al governo per emanare uno o più decreti legislativi per "introdurre in via sperimentale, entro il

termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, misure volte a sostenere e

incentivare l’occupazione regolare a tempo indeterminato, prevedendo in particolare, in caso di

cessazione del rapporto di lavoro, quale alternativa alla reintegrazione nel posto di lavoro il risarcimento.

Si tratta di una sperimentazione che potrà prolungarsi non oltre quattro anni dalla emanazione dei decreti

legislativi di applicazione della presente legge, così da verificare l’opportunità o meno di ulteriori e più

durature modifiche dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, sostituendo al regime di stabilità

reale del posto di lavoro quello della tutela obbligatoria di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, e

successive modificazioni. La possibilità del risarcimento in luogo della reintegrazione è tuttavia ammessa

soltanto in relazione a misure di riemersione, stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di

trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato, politiche di incoraggiamento della crescita

dimensionale delle imprese minori, non computandosi nel numero dei dipendenti occupati le unità

lavorative assunte per il primo biennio.È appena il caso di affermare che il Governo riconferma i divieti

attualmente vigenti in materia di licenziamento discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20

maggio 1970, n. 300, nonché in relazione al licenziamento della lavoratrice in concomitanza con il suo

matrimonio a norma degli articoli 1 e 2 della legge 9 gennaio 1963, n. 7, oltre alle ipotesi di sospensione

del rapporto di lavoro di cui all’articolo 2110 codice civile".

6

Come è noto il licenziamento prima della introduzione della l. 604/66 poteva essere

irrogato unicamente ai sensi dell'art. 2118 c.c. (c.d. recesso "ad nutum12

") e 2119 c.c.

(recesso per giusta causa), intendendosi per quest'ultimo il recesso determinato da

qualsiasi "causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto"13

.

Successivamente, con l'introduzione della l. 604/66, la casistica legittimante il

licenziamento si è arricchita della figura del giustificato motivo (previsto dall'art. 3) che

può essere soggettivo (laddove sia determinato da un notevole inadempimento degli

obblighi contrattuali del prestatore di lavoro) ovvero oggettivo (laddove sia determinato

da ragioni inerenti l'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare

funzionamento di essa).

Merita innanzi tutto immediatamente rilevare che il legislatore in materia di

licenziamento per giustificato motivo oggettivo (come per quello disciplinare per giusta

causa e giustificato motivo soggettivo) avrebbe potuto intervenire nella maniera che

segue.

a) nel dare una definizione concreta di di giustificato motivo, sia esso soggettivo

che oggettivo (così come quello per giusta causa), vista la totale genericità della

formulazione contenuta segnatamente negli artt. 3 (prima e seconda parte) l. 604/66 e

2119 c.c., genericità che ha -nel corso della oltre quarantennale applicazione giudiziaria

delle suddette disposizioni- ingenerato la più totale incertezza sui motivi (rectius: causali)

legittimanti il recesso.

Le richiamate norme, che possiamo definirle "contenitori" infatti sono state

infatti "riempite" dalla Magistratura, nei vari gradi, nella maniera più disparata

alimentando quella incertezza di cui si è fatto cenno14

.

b) nel regolamentare il regime delle prove, ad esempio esaltando o meno le

presunzioni previste dagli artt.2727 e seg.ti c.c.15

c) nel modificare il regime sanzionatorio.

Orbene il legislatore del 2012 (così come quello attuale sol se si pensi

all'emendamento presentato in data 2.5.2014 in base al quale il superamento del limite

della percentuale del 20% dei contratti a tempo determinato non prevederebbe più la

conversione dei contratti da tempo determinati a tempo indeterminati, ma solamente un

indennizzo mutevole da un 20% al 50% della retribuzione a secondo del numero dei

12

la cui applicabilità è ancora in vigore, nonostante il regime limitativo successivamente introdotto, in tutte

quelle situazioni non assistite dalla l. 604/66 e 300/70. 13

applicabile sia alle dimissioni che al licenziamento nei contratti a tempo determinato, purché avvengano

prima della scadenza del termine, o a tempo indeterminato senza obbligo di preavviso. 14

gli esempi potrebbero essere innumerevoli, ritengo che uno su tutti dia l'esatto quadro della situazione

che vado illustrando: si pensi al furto in azienda effettuato dal dipendente infedele che a secondo di alcuni

magistrati e gradi di giudizio vengono delibati in maniera totalmente difforme intervenendo a dare

valutazioni del tutto personalissime sul concetto di proporzionalità previsto dall'art. 2106 c.c.. (V. Cass.

27.11.1999 n. 13299 in Riv. it. dir. lav. 2000 II, 380 con nota di CATTANI. 15

v. A. MARESCA Il Nuovo regime cit.,420.

7

lavoratori coinvolti16

) ha ritenuto di scegliere la terza soluzione superando la vecchia

impostazione contenuta nell'originario testo dell'art. 18 S.L. sia nella formulazione del

1970 sia in quella -resa ancor più rigorosa- prevista nella l. 108/90.

Infatti il sistema previgente prevedeva un regime unico previsto dal vecchio

testo dell'art. 18 che prevedeva -ovviamente nell'ambito di applicabilità dello stesso

previsto dal comma 1 - sempre e comunque la "reintegrazione del posto di lavoro"

(significativo infatti era il titolo dell'art. 18 che recitava proprio in tal senso) e dal

risarcimento dei danni conseguenti contenuto nel comma 2 della prima versione (quella

del 1970) e nel comma 4^ della seconda versione (quella novellata dalla L.108/90, che ha

sicuramente inasprito in maniera significativa gli effetti del licenziamento illegittimo -

cioè il risarcimento- non solo per la previsione normativa ivi contenuta ma sicuramente

anche per il dato fattuale consistente nelle lungaggini giudiziarie per la definizione della

domanda volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento17

).

La novella del 2012 ha previsto invece ben quattro sanzioni delle quali solo tre

verranno esaminate in questa parte18

come si specificherà tra breve.

4) Costituzionalità del nuovo art. 18 Stat. Lav..

Indipendentemente della opportunità o meno di tale opzione c'è per prima cosa da

chiedersi se una tale scelta sia costituzionalmente corretta o meno.

Ritengo che la scelta del legislatore possa definirsi costituzionalmente corretta.

Per sostenere tale tesi basterebbe evidenziare, da un lato, che non è rinvenibile nella

nostra Carta Costituzionale alcun vincolo a ripristinare il rapporto o comunque che sia

prescritta una tutela alla stabilità del rapporto di lavoro19

, con ciò evidenziando che non vi

sarebbe alcuna violazione di quanto previsto dall'art. 4 della Carta Costituzionale;

dall'altro che tutte le volte che la Corte Costituzionale è intervenuta in materia, ha

pacificamente escluso20

che sia incostituzionale la differenza delle tutele apprestate nei

16

Ritengo opportuno evidenziare che il presente scritto è stato elaborato domenica 4.5.2014 e quindi sconta

tutte le novità che verranno introdotte successivamente 17

Si pensi al caso limite -vera iattura per la parte convenuta che fosse risultata vincitrice in primo ed in

secondo grado per poi vedersi cassata la sentenza in cassazione (nel migliore dei casi non prima di 6,

talvolta fino a, 10 anni) in cui a distanza di parecchi anni dal licenziamento il datore di lavoro si vedrebbe

condannato a pagare somme iperboliche per effetto del richiamato 4 comma (vecchio testo). Lungaggini

giudiziarie che -per controbilanciare l'esempio suddetto- andavano sicuramente anche a danno del

lavoratore (situazione questa che si aggrava nel sistema attuale come si evidenzierà) che si vedeva privato

del posto di lavoro e della fonte di guadagno per il tempo sopra indicato. 18

poiché, replicasi quelle riguardanti la reintegrazione "piena" viene trattata in altra parte del presente

Commentario a cura di F. AIELLO. 19

V. Corte Cost. 7.2.2000 n. 46 in Foro it. 2000, I, 699 con nota di ROMBOLI ed in Mass. Giur. Lav. 2000,

376 con nota di RENDINA; in dottrina P. ICHINO, La Corte Costituzionale e la discrezionalità del legislatore

ordinario in materia di licenziamenti in Riv. it. dir. lav. 2006, I, 353-374; R. SCOGNAMIGLIO Diritto del

lavoro e Corte Costituzionale, Napoli 2006, 131. Per una asserita incostituzionalità del nuovo regime v.

M.T. CARINCI. 20

si vedano tutte le sentenze della Corte Costituzionale a cominciare da quella che ha dichiarato la piena

costituzionalità dell'art. 2118 c.c. (v. Corte Cost. n. 45/1965) a quelle che hanno deciso sulla manifesta

infondatezza della disparità prevista nei regimi sanzionatori indicati negli artt. 8 l. 604/66 e 18 l. 300/70

(per un'ampia disamina si rinvia a quanto indicato nella nota precedente).

8

confronti dei lavoratori a seconda del regime di stabilità (obbligatoria ex l. 604/66 o reale

ex art. 18 vecchio testo l. 300/70) loro riconnessa, con ciò evidenziando che non vi

sarebbe alcuna violazione di quanto previsto dall'art. 2 della Carta Costituzionale.

Ne è altrettanto rinvenibile nella Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea

sottoscritta nel 2000 a Nizza dove nell'art. 3021

si parla solamente di "tutela in caso di

licenziamento ingiustificato" e prevede esclusivamente che il lavoratore ha diritto alla

tutela conformemente al diritto comunitario (che anch'esso non prevede la reintegrazione)

e alle legislazioni e prassi nazionali.

Del resto, con riguardo a tale ultimo punto, non è certamente superfluo ricordare

che nell'ambito europeo la ingiustificatezza del licenziamento non è in alcun paese

sanzionata con la reintegrazione nel posto di lavoro, ma solamente con il riconoscimento

di una indennità che mediamente si aggira intorno alle dodici mensilità22

Tornando al regime sanzionatorio di cui sopra ed alle quattro individuate soluzioni,

è arrivato il momento di elencarle: reintegrazione piena conseguente alla nullità del

licenziamento prevista dal comma 1 del nuovo testo dell'art. 18 e sul punto rinvio alla

parte specifica23

; la reintegrazione «depotenziata»24

, la indennità risarcitoria

onnicomprensiva piena e quella limitata.

A differenza di quanto indicato al primo comma ed alle previsioni ivi indicate dove

la sanzione si applica indistintamente a tutti i datori di lavoro senza alcuna limitazione di

sorta, le ulteriori tre residuali previsioni si adottano esclusivamente nei confronti di quei

rapporti in cui è applicabile l'art. 18 S.L. e meglio indicati al comma 8 della nuova

formulazione della disposizione ovverosia: a) nei confronti di tutti i datori di lavoro -

imprenditori e non- che occupino alle proprie dipendenze più di quindici dipendenti

ovvero cinque se si tratti di imprenditore agricolo. In particolare il limite numerico

suddetto deve essere individuato non nel complesso aziendale, ma limitatamente a

ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo dove si è proceduto al

licenziamento; b) nei confronti altresì di tutti i datori di lavoro che nell'ambito dello

stesso comune occupino più di quindici lavoratori, o sempre cinque nel caso di

imprenditore agricolo, anche laddove ogni singola unità produttiva sia al di sotto di tale

21

Il cui testo è il seguente: «Tutela in caso di licenziamento ingiustificato. Ogni lavoratore ha il diritto alla

tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e

prassi nazionali». 22

con ciò facendo venire meno le critiche, pur fondate da approfondite argomentazioni, svolte da M.T.

CARINCI, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi, versione provvisoria, in

www.aidlass.it/convegni/archivio/2012,pp. 31-33 secondo la quale «al lavoratore deve essere assicurata

una ""tutela adeguata"". Essa può sostanziarsi sia in un rimedio reintegratorio che risarcitorio, ma in

quest'ultimo caso la somma corrisposta al lavoratore deve essere comprensiva di tutte le perdite

economiche subite dal lavoratore dalla data del licenziamento a quello della sentenza ed, inoltre, deve

essere idonea a costituire, allo stesso tempo, efficace deterrente per il datore di lavoro e proporzionato

risarcimento del danno sofferto dalla vittima» (p. 33). 23

v. l'elaborato al comma 1 dell'art. 18 S.L. ad opera di F. AIELLO in La Riforma del Mercato del Lavoro

Jovene 2013 p. 125 e seg.ti. 24

l'espressione è di A. MARESCA in Il nuovo regime cit. p. 429

9

dato numerico; c) infine nei confronti di tutti i datori di lavoro che occupino più di

sessanta dipendenti25

.

5) Primae esegesi del licenziamento per Giustificato Motivo Oggettivo

Al fine di poter meglio capire l'istituto, ritengo opportuno che si operi una

"scomposizione" tra quello che potremmo definire i "limiti legali del recesso per

giustificato motivo oggettivo" con l'altro, di non poco conto, problema che riguarda la

"sanzione applicabile" una volta determinato che il licenziamento per g.m.o. viene

ritenuto illegittimo.

Con riguardo al primo aspetto l'indagine si dovrà volgere esclusivamente su quanto

indicato dal legislatore del 1966 ed in particolare sulla formulazione contenuta nella

seconda parte dell'art. 3 secondo la quale il licenziamento per giustificato motivo

oggettivo è solamente quello determinato da "ragioni inerenti all'attività produttiva,

all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa" (tripartizione che

verrà più avanti analizzata).

Non v'é dubbio che quella che all'epoca venne definita la legislazione di sostegno

iniziata dall'immediato dopoguerra è servita per limitare, più o meno fortemente, il potere

direttivo previsto dall'art 2014 c.c. del datore di lavoro ed in particolare -per quel che qui

interessa- l'art. 2118 c.c..

Non v'é dubbio infatti che in mancanza di norme quali quelle previste in materia di

appalto di manodopera, di licenziamento, di mutamento di mansioni o del luogo di

lavoro, della tutela della lavoratrice madre ecc., era nella piena libertà del datore di lavoro

a suo insindacabile giudizio di poter operare nella maniera che avesse ritenuto più

conveniente.

Tutte le norma in materia di lavoro dell'epoca erano, per loro stessa ragione di

essere, definite inderogabili e generatrici di diritti indisponibili (si pensi quanto è

cambiato il legislatore odierno sol se si considerino le norme previste nel d.l. 34/2014 con

gli ultimissimi emendamenti) per tutelare quello che notoriamente e giustamente veniva

definito il contraente debole nel rapporto di lavoro e servivano -per l'appunto- per

arginare lo strapotere, e quindi erano limitative del potere organizzativo e direttivo, del

datore di lavoro.

Tornando all'impostazione suggerita in apertura del presente punto, la

"scomposizione" dei limiti legali previsti dall'art. 3 II parte L. 604/66 che indicano i

presupposti della fattispecie del g.m.o., potremmo idealmente suddividere la norma in 4)

"sottocategorie":

1) le "motivazioni" del licenziamento; 2) le "ragioni" e/o "motivi" del

licenziamento; 3) il "nesso causale" tra ragione e licenziamento; 4) il "repechage".

25

modi di computo dei dati numerici riferiti, vengono esplicitati al successivo comma 9 del nuovo art. 18

S.L..

10

Con riguardo alle motivazioni occorre porre nella dovuta evidenza, e sul punto

credo che si aprirà un acceso dibattito con il collega Piccininni, che queste siano del tutto

ininfluenti prima ancora che insindacabili ai fini della legittimità del licenziamento.

Per meglio intendere il mio ragionamento occorre far presente la netta difefrenza

che intercorre tra motivazione e motivi (o ragioni) del licenziamento.

Con la prima espressione si intende la esposizione delle motivi e/o ragioni che

giustificano una decisione quando ovviamente concorre a determinare il comportamento

di un individuo (o collettività), mentre con la seconda si intende il presupposto del

determinarsi o dello svolgersi di una azione.

Un esempio forse riuscirà a chiarire meglio la differenza che non è di immediata

percezione: la mia (del datore di lavoro) volontà è la motivazione di .......ridurre un

posto di lavoro (che rappresenta -quest'ultimo- il motivo o ragione del licenziamento).

Se è chiara la differenza, cosa che non è stata mai chiara per la più parte della

giurisprudenza di merito e di legittimità, si comprende come le "motivazioni" del perché

si raggiunga la "ragione" o "motivi" del licenziamento, sia del tutto irrilevante o

ininfluente in quanto il legislatore sin dalla primogenia formulazione non se ne è mai

curato prima ancora di definirlo, come ha fatto la giurisprudenza prima e la legge poi,

incensurabile (v. art. 30 l. 183/2010 ed art. 1 comma 43 l. 92/201226

).

In ultima analisi si può affermare con ragionevole certezza che il legislatore del

1966 si sia preoccupato di disciplinare, ai fini della sussistenza delle ragioni, le scelte

organizzative o sul piano organizzativo che il datore di lavoro compie rimanendo del tutto

irrilevanti le "motivazioni" in base alle quali vengono raggiunte le surriferite scelte.

Naturalmente non sempre le decisioni giurisprudenziali hanno fatto buon governo

di tale -a mio sommesso avviso- pacifico principio, purtroppo entrando nel merito delle

motivazioni in base alle quali il datore di lavoro si è determinato a compiere determinate

scelte.

Tale inammissibile intrusione però è talvolta frutto e conseguenza di talune lettere

di licenziamento redatte in maniera fuorviante ed erronea. Si pensi a quanti, credendo di

fare meglio specificandone le motivazioni, si mettono in via del tutto autonoma nella "via

26

art 30 l. 183/2010 Clausole generali (e certificazione del contratto di lavoro).- In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nella materia di cui all'art. 409 del codice di procedura civile e all'art. 63, comma 1, del d.lgs 30.3.2001 n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di istaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali,trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente. L'inosservanza delle disposizioni di cui al precedente periodo, in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che comportano al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto (quest'ultimo periodo modificato dall'art. 1 lcomma 43 l. 92/2012 che ha come conseguenza -in caso di "inosservanza"- la ricorribilità in cassazione per violazione di norme di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c.)

11

senza uscita" rappresentata dalla prova che viene richiesta sulla sussistenza di dette

motivazioni.

Così ad es. se si scrive: "in conseguenza del ridotto fatturato avvenuto nel corrente

anno, la scrivente società ha ritenuto di ridimensionare il proprio organico di una unità

da individuare nel reparto amministrativo" .....ecc.

E' pacifico che i magistrati avranno facile gioco di verificare se effettivamente vi

sia stata la dedotta contrazione del fatturato quando questo non rileva affatto, rilevando

unicamente la scelta organizzativa del datore di lavoro di ridurre l'organico di una unità

(con tante altre conseguenze che affronterò tra breve).

Quindi solo le ragioni o motivi della scelta organizzativa, mi ripeto, devono essere

espressi nella procedura -di cui dirò tra breve- peculiare prevista dall'art. 7 l. 604/66, e

non anche le "motivazioni" in base alle quali tale scelte vengono raggiunte ( a meno che

non si voglia fare un preambolo in cui si evidenzia quanto indicato solo per una mera

conoscenza che non deve considerarsi vincolante per alcuno).

Del resto un esempio potrà meglio ed ulteriormente chiarire quanto appena

accennato.

A seguito della contrazione del fatturato è sicuramente insindacabile la scelta del

datore di lavoro se volere mantenere lo stesso numero di dipendenti o di voler operare

una scelta organizzativa nel senso di ridurre il personale.

Nessun giudice potrà, salve le ulteriori precisazioni che seguono, entrare nel merito

delle motivazioni, ma solo della scelta organizzativa per vedere se è reale (come dirò) e

non temporanea. Non potrà quindi verificare la contrazione o meno del fatturato

sempreché la lettera di licenziamento non sia formulata in maniera talmente ambigua da

permettere un simile accertamento.

In estrema sintesi quindi l'accertamento che dovrà condurre il Magistrato si limiterà

(rectius: si dovrà limitare) all'accertamento del fatto nel senso di verificare se

effettivamente vi è stata la soppressione o meno del posto di lavoro.

Naturalmente la prova dovrà riguardare non solo la verità e quindi sussistenza del

fatto, ma anche la sua non temporaneità (la cui sussistenza preluderebbe un ingegnoso

escamotage da parte del datore di lavoro per liberarsi del lavoratore scomodo).

Una volta verificata la sussistenza delle ragioni del licenziamento volendo

proseguire nella "scomposizione" sopra evidenziata, deve sussistere (perché il

licenziamento possa essere ritenuto legittimo) anche il c.d. "nesso causale"

Quindi, proseguendo nell'esempio di prima, l'accertamento dovrà poi estendersi

oltre che alla veridicità del fatto (il posto è stato effettivamente soppresso e tale

soppressione oltreché veritiera deve ritenersi -con ragionevole ragione e ragionevolezza-

definitiva) anche e sopratutto al nesso causale tra il licenziamento e la soppressione del

posto ( o meglio tra la soppressione del posto ed il licenziamento).

12

Se infatti insidacabilmente il datore di lavoro decide di operare una scelta

organizzativa basata sulla ristrutturazione dell'ufficio dei "venditori" della propria

azienda, non potrà certamente ridurre di una unità andandola a prendere nell'ufficio del

personale!

Discorso a parte riguarda la possibile scelta della persona da licenziare poiché -

proseguendo nell'esempio precedente- nell'ufficio dei venditori ci sono più persone tra

loro perfettamente fungibili.

In tale ultima ipotesi seppure la legge non prescriva alcun criterio da seguire,

ritengo sia prudente (quando proprio non ci possano essere delle specifiche ragioni che

potrebbero legittimare la scelta quale ad esempio evitare il licenziamento di un poliglotta

laddove i venditori siano anche impegnati in un mercato estero a discapito di un venditore

che parla solo l'Italiano), adottare in via analogica i criteri "sociali" previsti in via

residuale dall'art. 5 1^ comma l. 223/91 (anzianità e carichi di famiglia).

Naturalmente la scelta dovrà essere operata nell'ambito di tutta l'organizzazione

aziendale (non escluse eventuali filiali estere laddove esistenti) e non del singolo sito ove

voglio effettuare il ridimensionamento.

Discorso a parte deve farsi per l'ulteriore requisito attinente il c.d. "repechage".

Sicuramente tale requisito è al di fuori della dedotta "scomposizione" operata -a)

le ragioni o motivi del licenziamento come sopra identificate; b) il nesso tra la ragione ed

il provvedimento- poiché del tutto assente nella norma in esame, ma sicuramente e

correttamente la giurisprudenza prima ed il legislatore del 2012 non ha ritenuto di

inserirli tra gli effetti costituenti la legittimità del licenziamento, poiché tale principio

risiede nei principi generali del nostro diritto.

Infatti si verserebbe in un "abuso" del potere di recesso laddove l'organizzazione

aziendale sia in grado di "accogliere" il dipendente che potenzialmente potrebbe essere

interessato correttamente al licenziamento (perché il suo posto di lavoro è effettivamente

stato soppresso e la scelta è stata correttamente osservata), ma poiché l'organizzazione

avrebbe potuto riassorbire il recesso deve considerarsi illegittimo.

Naturalmente tutte queste premesse (salvo gli ulteriori approfondimenti che verrò

tra breve a fare per l'esegesi dell'art. 3 2^ parte della L. 604/66) sono necessarie ai fini

della eventuale sanzione applicabile in caso di illegittimità del licenziamento.

Come più sopra evidenziato il legislatore del 2012 ha voluto da un lato sicuramente

diversificare il regime sanzionatorio facendolo passare dall'unica sanzione prevista dal

vecchio testo dell'art. 18 S.L. (la reintegrazione) a ben quattro, dall'altro -altrettanto

sicuramente- "relegare" la reintegrazione (sia essa "piena" che "depontenziata" secondo

la classificazione sopra offerta) in poche marginali ipotesi.

A ben vedere il legislatore del 2012 ha previsto al comma 7 del "nuovo" art. 18 S.L.

la reintegrazione (peraltro non in maniera automatica avendo utilizzato il verbo "potere"

in luogo dell'altro più incisivo "dovere" -sul punto però v. infra) solo in caso di

13

"manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo

oggettivo".

Per gli effetti e/o conseguenze propri, in caso di declaratoria di illegittimità del

licenziamento, si spiega meglio la formulata "scomposizione" sopra effettuata. Per prima

cosa ci si dovrebbe chiedere cosa abbia voluto intendere il legislatore con l'aggettivo

"manifesta".

C'é chi ha ritenuto che il rafforzativo il legislatore l'abbia utilizzato per far si che

solo in caso di vistosa o inequivocabile insussistenza del fatto si possa procedere

all'eventuale ("può altesì applicare....."27

) reintegrazione.

Anche in questo caso, come del resto nella previsione contenuta nel 4^ comma

della disposizione in esame, tutto ruota intorno al concetto da attribuire all'espressione -

rappresentata dal sostantivo maschile- "fatto"28

.

Non pare possa revocarsi in dubbio, analogamente a quanto previsto per il

licenziamento ontologicamente disciplinare, che per fatto debba intendersi il "fatto che

produce effetti giuridici" (quindi non qualsiasi accadimento naturale29

) che nella specie

deve identificarsi nella sussistenza delle ragioni legittimanti il licenziamento (inerenti alla

attività produttiva alla organizzazione del lavoro al regolare funzionamento di essa) e non

già all'aspetto psicologico e quindi alle motivazioni che hanno condotto a raggiungere

quelle ragioni.

Per modo che laddove le ragioni dovessero non essere provate -o non dovesse

essere provato il nesso causale tra licenziamento e ragioni che lo legittimano- si

"potrebbe" pensare che il giudice "possa" (ma forse riterrei più giusto, nonostante le

27

Sicuramente non può essere priva di senso, né può essere inteso quale errore lessicale, la differenza che il legislatore ha voluto fare nell'ambito dello stesso comma 7 del "nuovo" art. 18 S.L. sol se si pone lo sguardo all'incipit di detto comma dove si esprime in maniera inequivoca ....."il giudice applica la medesima disciplina....." ovvero nella seconda parte del secondo periodo "il giudice applica la disciplina del quinto comma....." quando viceversa in caso della "manifesta insussistenza" il legislatore -pur nell'ambito della stessa parte della disposizione- nell'incipit del secondo periodo usa un linguaggio (volutamente?) più "morbido" "può altresì applicare....." 28 Mi permetto per approfondimenti di rinviare ad un mio saggio sul "Licenziamento

Disciplinare" contenuto nel libro "La riforma del Mercato del Lavoro -Aspetti sostanziali e

processuali" Jovene 2013 p. 187 e seg.ti 29 Nel licenziamento disciplinare ho sostenuto -entrando in palese conflitto con la nota quanto

palesemente erronea ordinanza del Giudice di Bologna del 15.10.2012- che il "fatto" deve

intendersi identificabile con: a) la condotta del soggetto (il lavoratore); b) con la ovvia

imputabilità di detta condotta al predetto ed c) all'aspetto psicologico. Un esempio per tutti:

contesto al lavoratore che durante il trasporto ha danneggiato un bene aziendale (un computer) è

chiaro che deve il datore dimostrare: che effettivamente il computer sia stato danneggiato

(sussistenza del fatto) che sia stato buttato per terra dal lavoratore ( e non a seguito ad es. di uno

spintone di un collega o perché scivolato) e che tale atto sia stato volontario (non perché ad es.

colpito in quel momento da un giramento di testa o crisi epilettica ecc.)

14

considerazioni contenute nella nota 27, ritenere che "debba") applicare la sanzione della

reintegrazione depotenziata prevista nel 4^ comma, mentre se le ragioni dovessero essere

provate così come pure il nesso causale, ma violato il principio del repechage, l'unica

sanzione possibile sarebbe quella della indennità risarcitoria piena.

A questo punto ritengo sia doveroso tornare all'esame della norma che qualifica il

licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

6) Fattispecie rientranti nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo

oggettivo.

Mi preme premettere che quanto espresso nel paragrafo precedente rappresenta una

mia personale interpretazione della norma in esame, tuttavia ritengo necessario, ai fini

della presente lezione, approfondire l'argomento secondo le varie interpretazioni che sono

state nel tempo effettuate

Veniamo pertanto ad analizzare le fattispecie rientranti nel concetto di giustificato

motivo oggettivo.

Innanzitutto, bisogna suddividere l’area da analizzare in due grandi gruppi: da una

parte i licenziamenti dovuti a scelte economico-organizzative del datore di lavoro e,

dall’altra, i licenziamenti dovuti a vicende personali del lavoratore.

Nel primo gruppo si possono ricomprendere tutti quei licenziamenti che abbiano

come presupposti di legittimità la ricorrenza di effettive ragioni di ordine produttivo ed

organizzativo e la sussistenza -come sopra meglio specificato- di un nesso di causalità tra

tali ragioni e la soppressione di quel determinato posto di lavoro.

Sul punto giova rilevarsi che, in caso di ristrutturazioni o riconversioni produttive,

deve esprimersi con la massima ampiezza la libertà dell’imprenditore, tutelata dall’art 41

Cost., libertà che garantisce allo stesso un’autonoma scelta sia per quanto riguarda la

collocazione territoriale delle strutture produttive della propria impresa, sia per ciò che

concerne la distribuzione del personale tra dette strutture, scelte tutte che l’imprenditore

può liberamente effettuare senza subire alcun sindacato sulla “razionalità” e “adeguatezza

economica” delle stesse30

(sul punto l'argomento l'ho approfondito più sopra).

30 Cass. Civ., 18 aprile 2007, n. 9263: “In caso di ristrutturazioni o riconversioni produttive, si esprime

con la massima ampiezza la libertà dell'imprenditore, tutelata dall'art. 41 cost., che garantisce allo stesso,

tra l'altro, un'autonoma scelta sulla collocazione territoriale delle strutture produttive della sua impresa,

nonché sulla distribuzione del personale tra dette strutture, scelte che egli può liberamente effettuare senza

subire alcun sindacato sulla loro "razionalità" e "adeguatezza economica". (In applicazione di questo

principio la S.C. ha cassato la sentenza di merito relativa all' assegnazione definitiva delle mansioni

superiori, con inquadramento come quadro di secondo livello, a un dipendente postale con funzioni di

direzione di un ufficio classificato come unità di media rilevanza, che non aveva ultimato il periodo

necessario, a causa del declassamento dell'ufficio dopo il decorso di cinque dei sei mesi previsti dalla

contrattazione collettiva. La S.C. a tal fine ha rilevato l'insufficiente motivazione della sentenza, che aveva

sindacato l'irrazionalità del declassamento, limitando peraltro la sua valutazione all'aspetto quantitativo

del traffico postale, senza considerare l'aspetto qualitativo, mentre aveva omesso di verificare la piena

15

Secondo una prima opzione interpretativa, rientra nella previsione normativa di cui

all’art. 3 della legge n. 604/1966 ogni ragione economica sottesa alla riorganizzazione o

alla ristrutturazione, che rende necessaria la soppressione della posizione lavorativa, quali

che siano le motivazioni che la determinano e, quindi, comprese le modifiche

organizzative o gestionali, finalizzate alla introduzione di innovazioni industriali, al

risparmio dei costi o all’incremento dei profitti, non potendo sottoporsi a condizioni la

facoltà imprenditoriale di scegliere e/o di modificare gli assetti organizzati e produttivi.

Invero, in caso di riorganizzazione o ristrutturazione aziendale, è legittima ogni ragione,

in senso economico, che la abbia determinata, non potendosi escludere né le esigenze di

mercato né il perseguimento di un incremento dei profitti attraverso modifiche

organizzative31

.

In senso opposto, è stato evidenziato che le ragioni che integrano il giustificato

motivo oggettivo sono solo quelle dirette a fronteggiare situazioni aziendali sfavorevoli

che incidono negativamente sulla normale attività produttiva ed impongono la riduzione

dei costi al fine di salvaguardare gli equilibri economici dell’impresa, con esclusione dei

riassetti organizzativi non richiesti dalla crisi economica dell’azienda e/o aventi una

finalità meramente strumentale all’incremento del profitti32

(posizione questa criticabile

per le considerazioni sopra svolte). .

Secondo questo diverso orientamento, il principio di stabilità del rapporto di lavoro,

posto dalla legge n. 604/1966, esclude che il datore di lavoro possa procedere a riassetti

organizzativi come e quando voglia; il superamento della regola della stabilità postula la

ricorrenza di cause che, con il loro peso, si impongano sull’esigenza della stabilità e,

come tali, siano serie e non convenientemente eludibili.

In senso critico rispetto a questi due orientamenti si pone chi ritiene necessaria

invece, ai fini della sussistenza di un valido licenziamento per giustificato motivo

oggettivo, “l’attesa di una perdita”33

.

Per conservare un effetto limitativo della facoltà di recesso, infatti, l’art. 3 della

legge n. 604/1966 deve essere necessariamente letto nel senso che, il lavoratore, può

essere licenziato soltanto quando dalla prosecuzione del rapporto derivi

complessivamente per l’impresa, in termini di valore atteso, una perdita superiore a una

corrispondenza tra momenti di auto organizzazione resi vincolanti dalla contrattazione collettiva e la loro

effettiva attuazione con la ristrutturazione degli uffici e la collocazione del personale)”. 31 Cass. Civ., 2 febbraio 2012, n. 1461: “Nella nozione di licenziamento per giustificato motivo obiettivo

rientra anche l’ipotesi di riassetti organizzativi attuati per la più economica gestione dell’azienda purché

non pretestuosi e strumentali, bensì volti a fronteggiare situazioni sfavorevoli e non contingenti che

influiscano decisamente sulla normale attività produttiva, imponendo l’effettiva necessità di riduzione dei

costi”. 32 Cass. Civ., 7 aprile 2010, n. 8237: “In tema di giustificato motivo di licenziamento non è sindacabile,

nei suoi profili di congruità e opportunità, la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del

posto cui era adibito il dipendente licenziato, sempreché risulti l'oggettività e la non pretestuosità del

riassetto organizzativo operato e della scelta del dipendente de qua”. 33 P. ICHINO, Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2002,

vol. 1, p. 483.

16

determinata soglia. Deve, inoltre, escludersi che il giustificato motivo oggettivo possa

essere costituito da una perdita attesa di qualsiasi entità: se, infatti, per giustificare il

licenziamento fosse sufficiente anche una perdita attesa minima, la norma risulterebbe

svuotata di ogni effetto limitativo della facoltà di recesso del datore.

Con riguardo alla configurabilità del licenziamento per soppressione del posto di

lavoro, la giurisprudenza ha precisato come non sia necessario che vengano soppresse

tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse

essere quelle prevalentemente esercitate in precedenza e quindi tali da connotare la

posizione lavorativa del prestatore di lavoro34

. Invero, la distribuzione fra gli altri

lavoratori di altre e marginali mansioni già spettanti al lavoratore licenziato non basta ad

escludere l’oggettiva necessità di sopprimere il singolo posto di lavoro.

Con riguardo, poi, all’adibizione del prestatore di lavoro a mansioni inferiori, deve

ritenersi che quando il datore di lavoro proceda ad un licenziamento per giustificato

motivo oggettivo, in particolare per soppressione del reparto cui sono addetti i lavoratori

licenziati, la verifica della possibilità di “repêchage” vada fatta, in primis, con riferimento

a mansioni equivalenti; nell’ipotesi in cui, poi, i lavoratori abbiano accettato mansioni

inferiori al fine di evitare il licenziamento, la prova dell’impossibilità di “repêchage” va

fornita anche con riferimento a tali mansioni inferiori, ma occorre, in quest’ultimo caso,

che il patto di demansionamento sia anteriore o coevo al licenziamento, mentre esso non

può scaturire da una dichiarazione del lavoratore espressa in epoca successiva al

licenziamento e non accettata dal datore di lavoro, specie se il lavoratore abbia in

precedenza agito in giudizio deducendo l’illegittimità del licenziamento.

In ogni caso va, altresì, attentamente valutato il comportamento del datore di lavoro

prima del provvedimento espulsivo, per valutare se lo stesso non abbia precostituito, in

violazione dei principi di buona fede e correttezza, le condizioni per legittimare il

licenziamento, facendolo precedere da tutta una serie di provvedimenti diretti a svuotare

di contenuto le mansioni affidate al lavoratore35

.

La scelta organizzativa del datore di lavoro può, comunque, consistere, oltre che

nella soppressione delle mansioni svolte dal lavoratore licenziato, anche nella

distribuzione dei compiti tra altri dipendenti già in servizio, ivi compreso un

accorpamento delle mansioni in un’altra posizione lavorativa.

Il secondo sottogruppo di fattispecie rientranti nel giustificato motivo oggettivo,

come già detto, riguarda i licenziamenti dovuti a vicende personali del lavoratore.

In particolare, è ravvisabile un giustificato motivo di recesso del datore di lavoro

quando si tratti di inidoneità fisica o psichica del lavoratore ex art. 3, legge n. 604/1966 e

ex artt. 1463 e 1464 c.c..

34 Cass. 25 luglio 1998, n. 7312 in Foro.it. 35 Sul tema vedi infra, .

17

Indipendentemente dal superamento del periodo di comporto, si parla di motivo

oggettivo soltanto quando la sopravvenuta incapacità fisica del prestatore di lavoro abbia

carattere definitivo e manchi un apprezzabile interesse del datore di lavoro alle future

ridotte prestazioni lavorative del dipendente. Pertanto la sopravvenuta inidoneità fisica

del lavoratore a causa di malattia, anche nell’ipotesi in cui non sia stato superato il

periodo di comporto, giustifica la risoluzione del rapporto di lavoro.

Di particolare importanza, in tema, appare la sentenza della Corte di Cassazione del

7 agosto 1998, n. 7755, che rappresenta il mutamento di orientamento nella

giurisprudenza di legittimità.

Ed invero le Sezioni Unite hanno, con la decisione in questione, ritenuto che il

datore di lavoro, per poter legittimamente esercitare il suo potere di licenziamento per

giustificato motivo, a fronte di una infermità permanente del lavoratore, deve dimostrare

anche l'impossibilità di destinare il lavoratore infermo ad altre mansioni all'interno

dell'azienda.

Tale soluzione costituisce un mutamento rispetto alla tesi sino ad allora

predominante36

, secondo la quale l'incapacità del lavoratore permanentemente e

parzialmente infermo a svolgere le mansioni sino ad allora svolte rappresentava, già di

per sé, un giustificato motivo di licenziamento.

Il mutamento interpretativo, che ovviamente soddisfa un'istanza di protezione del

lavoratore in quanto contraente debole, non è, però, per questo motivo privo di appoggio

sistematico.

Come osservato nella motivazione della sentenza n. 7755/1998, la disciplina del

giustificato motivo di licenziamento costituisce infatti una specificazione dei principi

generali posti dal codice per tutti i contratti sinallagmatici nei diversi casi

d’inadempimento ed impossibilità di singole prestazioni. Con particolare riferimento al

caso di specie (incapacità conseguente ad infermità parziale permanente), il giustificato

motivo appare la specificazione della regola in tema di impossibilità sopravvenuta dettata

dall'art. 1464 c.c., secondo cui l'altra parte può recedere “se non abbia un interesse

apprezzabile all'adempimento parziale”.

Facendo leva su queste premesse, la precedente giurisprudenza di legittimità aveva

affermato che, dovendosi lasciare alla libera scelta della parte l'apprezzamento circa la

persistenza di un interesse alla prestazione parziale, il giudizio dell'imprenditore doveva

essere rispettato ed il licenziamento considerarsi rientrante nella categoria del giustificato

36 Per quanto riguarda la giurisprudenza contraria si veda Cass. 6 novembre 1996, n. 9684, in Riv.

it. dir. lav., 1997, vol. 2, p. 612; Cass. 13 marzo 1996, n. 2067, in Dir. lav., 1996, vol. 2, p. 453; Cass.

18 marzo 1995, n. 3174, in Giur. it., 1995, vol. 1, p. 1635.

18

motivo anche se non veniva fornita la prova dell'impossibilità di offrire al lavoratore

infermo mansioni alternative37

.

La più accorta giurisprudenza (poi ripresa e perfezionata da questa decisione, in

particolare: Cass. 23 agosto 1997, n. 7908, in Gius. civ. Mass., 1997, p. 1488 e Cass. 8

gennaio 1983, n. 140, in Mass. giur. lav., 1983, p. 47), però, già aveva osservato che una

valutazione puramente soggettiva della permanenza dell'interesse non poteva considerarsi

compatibile con il sistema “protettivo” della legge n. 604 del 1966, dovendosi invece

richiedere una valutazione oggettiva dell'impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni

equivalenti e compatibili con la residua capacità lavorativa, senza che ciò comporti una

modifica dell'intero assetto aziendale.

Questa soluzione, del resto, è anche l’unica raggiungibile secondo un logico e

coerente ragionamento sistematico che si incentri sulla definizione della prestazione della

quale si vuole predicare l’impossibilità. La prestazione lavorativa dovuta dal lavoratore,

nota infatti la Corte, è sempre difficilmente determinabile a priori, specificandosi in

concreto in ragione al contesto ed alle direttive del datore di lavoro.

In ogni singolo caso, pertanto, l’individuazione della concreta prestazione dovuta

sarà il risultato dell’interpretazione secondo buona fede del contratto, dell’evoluzione del

rapporto e del contesto aziendale in cui si inserisce. Da ciò ne deriva quindi che, nel

determinare la prestazione dovuta nei casi d’infermità parziale permanente del lavoratore,

non sarà possibile prescindere da una valutazione circa l’opportunità che il lavoratore sia

adibito, nell'ambito di quell'azienda, ad altre mansioni, rientrando nel concetto di buona

fede oggettiva anche l'imposizione sul creditore della prestazione di doveri di

collaborazione a tutela dell'interesse all'adempimento del debitore (poi nel caso di specie

addirittura qualificato da specifica tutela costituzionale).

L’impossibilità della prestazione del lavoratore può, altresì, derivare da situazioni

estranee all’organizzazione dell’impresa e alle condizioni di salute del prestatore e

dipendere da un provvedimento dell’autorità che precluda a quest’ultimo, in concreto, la

possibilità di continuare a svolgere regolarmente la propria attività lavorativa38

.

I casi d’impossibilità sopravvenuta della prestazione, derivanti da un

provvedimento amministrativo, assumono rilievo in quanto configurano un giustificato

motivo di recesso e quindi il loro verificarsi non produce l’automatica risoluzione del

rapporto di lavoro stesso, ma può giustificare il licenziamento, che occorre sia

espressamente intimato dal datore di lavoro. Nelle ipotesi in cui l’impossibilità della

prestazione sia totale e definitiva (si pensi, per esempio, ad una condanna del lavoratore

alla pena dell’ergastolo) è pacifica la sussistenza di un giustificato motivo che rendono

37 Cfr. Cass. 20 maggio 1991, n. 5685; Cass. 26 giugno 1991, n. 7196; Cass. 21 maggio 1992, n. 6106;

Cass. 18 marzo 1995, n. 3174; Cass. 12 giugno 1995, n. 6601; Cass. 27 giugno 1996, n. 5927; Cass. 13

marzo 1996, n. 2067; Cass. 6 novembre 1996, n. 9684 in Foro.it.. 38 Si può fare l’esempio di un lavoratore sottoposto a carcerazione e, per tale motivo, impossibilitato a

recarsi presso la sede di lavoro ovvero di tutte quelle attività lavorative il cui espletamento

presupponga un’autorizzazione amministrativa che venga successivamente revocata

dall’autorità.

19

superflue ulteriori valutazioni da parte del datore di lavoro. Al contrario, l’attenzione

della dottrina e della giurisprudenza si è incentrata sulle ipotesi temporanee di

impossibilità sopravvenuta, cioè quando la prestazione lavorativa sia preclusa ma non in

via definitiva, nel senso che l’ostacolo allo svolgimento della stessa può essere in futuro

rimosso.

In tali ipotesi, la giurisprudenza ha precisato che la sopravvenuta impossibilità

temporanea della prestazione lavorativa dovuta ad un evento estraneo al rapporto di

lavoro e non imputabile al dipendente, autorizza il datore di lavoro a recedere dal

rapporto stesso, ai sensi dell’art. 1464 c.c., in mancanza di un suo interesse apprezzabile

alle future prestazioni lavorative, la sussistenza o meno del quale deve essere accertata,

con valutazione ex ante, in riferimento alla prevedibilità o meno del protrarsi della causa

dell’impossibilità di esecuzione della prestazione e del tempo occorrente per il suo venir

meno, nonché dei pregiudizi derivanti all’organizzazione del datore di lavoro e al

regolare funzionamento di essa; l’impossibilità parziale, infatti, non giustifica il recesso

solo quando, sulla base di tutte le circostanze del caso concreto, si può prevedere la

ripresa della attualità del rapporto senza significativi pregiudizi per l’organizzazione del

datore di lavoro in relazione alla prevedibile durata dell’assenza39

.

Caso particolare è quello dell’assenza dal lavoro dovuta a carcerazione preventiva

del prestatore, sia essa preventiva o esecutiva di una pena, mancando un inadempimento

colpevole del lavoratore agli obblighi contrattuali, integra un fatto oggettivo

determinante, una sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa,

che giustifica il recesso del datore di lavoro solo quando risponda a ragioni inerenti

all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento della

stessa40

.

Ipotesi peculiare, che rende legittimo il licenziamento, è poi rappresentata

dall’inidoneità all’insegnamento della religione cattolica. Infatti, il punto 5 del protocollo

39 Cass. 28 gennaio 2004, n. 1591: “La sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione

lavorativa dovuta ad un evento estraneo al rapporto di lavoro e non imputabile al dipendente autorizza il

datore di lavoro a recedere dal rapporto stesso, ai sensi dell'art. 1464 c.c., in mancanza di un suo interesse

apprezzabile alle future prestazioni lavorative, la sussistenza o meno del quale deve essere accertata, con

valutazione "ex ante", in riferimento alla prevedibilità o meno del protrarsi della causa dell'impossibilità

di esecuzione della prestazione e del tempo occorrente per il suo venir meno, nonché dei pregiudizi

derivanti all'organizzazione del datore di lavoro; l'impossibilità parziale della prestazione, infatti, non

giustifica il recesso solo quando, sulla base di tutte le circostanze del caso concreto, si può prevedere

(dunque necessariamente a livello di prognosi) la ripresa della attualità del rapporto senza significativi

pregiudizi per l'organizzazione del datore di lavoro in relazione alla prevedibile durata dell'assenza. (In

applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, giudicando in sede di rinvio e

discostandosi dal principio di diritto stabilito ex art. 384 c.p.c., aveva ritenuto ingiustificato il recesso del

datore di lavoro per impossibilità parziale della prestazione dovuta al ritiro del tesserino di accesso alle

aree aeroportuali ad un dipendente aeroportuale sottoposto a procedimento penale, in quanto, con

valutazione "ex post", l'assenza del dipendente era risultata "sostenibile" per il datore di lavoro in

considerazione del fatto che non era stato assunto alcun lavoratore e non erano stati modificati in modo

significativo i moduli organizzativi)”. 40 Cass. 1 giugno 2009, n. 12721 in Foro.it..

20

addizionale annesso alla legge 25 marzo 1985, n. 121 e l’art. 309, d. lgs. 16 aprile 1994,

n. 297, prevede che l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali sia

impartito, in conformità alla dottrina della Chiesa e nel rispetto della libertà di coscienza

degli alunni, da insegnanti che siano riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica,

nominati, d’intesa con essa, dall’autorità scolastica. L’incarico è annuale e si intende

confermato qualora permangano le condizioni ed i requisiti prescritti. La sopravvenuta

revoca dell’idoneità all’insegnamento da parte dell’autorità ecclesiastica determina

l’impossibilità giuridica della prestazione lavorativa e la conseguente risoluzione del

rapporto di lavoro ex art. 1463 c.c., in quanto, ai lavoratori interessati non possono essere

attribuiti compiti diversi da quello dell’insegnamento41

.

Ulteriore ipotesi di impossibilità temporanea e sopravvenuta alla prestazione

lavorativa è costituita anche dalla scadenza del permesso di soggiorno per il lavoratore

straniero42

.

Altresì, il provvedimento di ritiro del porto d’armi per la guardia giurata da parte

del prefetto e il mancato rinnovo del decreto di nomina da parte del questore, possono

autorizzare il datore di lavoro al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove

questi dimostri che la prestazione sia divenuta totalmente impossibile e che il suo

interesse alla prosecuzione del rapporto in mansioni diverse non sia apprezzabile ai sensi

dell’art. 3, legge n. 604/1966. Come anche la revoca del tesserino di accesso alle strutture

aeroportuali per un dipendente di un’azienda che operi all’interno delle stesse può

costituire un’ipotesi tale da giustificare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

ai sensi dell’art. 1464 c.c.. In questa ipotesi, non essendo il lavoratore in grado di eseguire

la propria prestazione di lavoro, in quanto non abilitato ad accedere alle strutture

aeroportuali, si configura una sopravvenuta impossibilità per evento estraneo al rapporto

di lavoro non imputabile al dipendente, che autorizza il recesso del datore nell’ipotesi in

41 Cass. 4 febbraio 2005, n. 2243: “In tema di rapporto lavorativo dei docenti di religione cattolica presso

la scuola pubblica - alla stregua degli art. 5, comma 1, l. 5 giugno 1930 n. 824, 5 l. 25 marzo 1985 n. 121,

protocollo addizionale, d.P.R. 16 dicembre 1985 n. 751, dell'art. 309, comma 2, d.lg. 16 aprile 1994 n. 297 -

sono di esclusiva competenza dell'ordinario diocesano, non solo il riconoscimento dell'idoneità

all'insegnamento (presupposto condizionante l'instaurazione del suddetto rapporto con il Ministero

dell'istruzione) ed il potere di una sua revoca, ma anche la scelta delle concrete modalità dell'espletamento

dell'attività didattica che, senza incidere sull'organizzazione della scuola pubblica, risultino volte alla

migliore funzionalità dell'insegnamento stesso. Ne consegue che, a fronte dell'esercizio di tali poteri

discrezionali da parte dell'autorità ecclesiastica, quella scolastica è tenuta ad aderire alle indicazioni

dell'ordinario diocesano dirette a privilegiare esigenze di "continuità didattica" o ad agevolare una

opportuna mobilità del personale in relazione ad "una flessibilità degli organici", in connessione con la

particolarità di un insegnamento caratterizzato da un regime di "facoltatività soggettiva" (stante il

cosiddetto "stato di non obbligo", in ragione della possibilità di rifiuto da parte dell'allievo

dell'insegnamento cattolico), prospettandosi, quindi, spazi di tutelabilità della posizione del docente a

seguito di intervento del g.o. solo in presenza di condotte che vengano a ledere valori e principi di natura

costituzionale, arrecando ingiusti danni al docente”. 42 Cass. civ., 13 luglio 2004, n. 12944 in Guida lavoro.

21

cui lo stesso sia privo di apprezzabile interesse all’adempimento delle future, residue,

prestazioni lavorative43

44

.

Si possono infine ricordare anche i casi d’impossibilità sopravvenuta della

prestazione lavorativa previsti dal codice della navigazione e dalla contrattazione

collettiva e, tra essi, la revoca e la sospensione di un’autorizzazione amministrativa che

renda impossibile la prestazione lavorativa, e che, non producono l’automatica

risoluzione del rapporto stesso, ma possono giustificare il licenziamento che deve essere

espressamente intimato dal datore di lavoro45

.

Per tornare alla riforma del lavoro attuata con legge n. 92/2012 (c.d. legge Fornero),

v'é da porre nella dovuta evidenza che questa introduce una serie di importanti novità in

materia di licenziamento.

43 Cfr. Cass. civ., 18 luglio 2006, n. 16370, in motivazione: “Secondo il costante insegnamento di questa

Suprema Corte (cfr., in particolare, Cass. 28 gennaio 2004 n. 1591; Cass. 13 marzo 1999 n. 2267; Cass. 28

ottobre 1997 n. 10616) ove si verifichi l'ipotesi di ritiro (alla quale è perfettamente equiparabile quella della

sospensione) del tesserino che consente ai dipendenti di società di gestione di impianti aeroportuali l'accesso

alle strutture aeroportuali nelle quali presta attività lavorativa, si verifica un'ipotesi di impossibilità

temporanea della prestazione per evento estraneo al rapporto di lavoro e non imputabile al dipendente; in

tale ipotesi il datore di lavoro può recedere dal rapporto, ai sensi dell'art. 1464 cod. civ., in mancanza di un

suo interesse apprezzabile alle future prestazioni lavorative; la valutazione della sussistenza, o meno, del

suddetto interesse deve essere fatta, dato il coordinamento tra detta norma e la L. n. 604 del 1966, art. 3,

con riguardo alle ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare

svolgimento di essa. E' stato altresì precisato (Cass. 16 maggio 2000 n. 6363), con riferimento alla

fattispecie in esame, che la valutazione della sussistenza del giustificato motivo di licenziamento deve essere

fatta sulla base di un giudizio ex ante, riferito cioè al momento stesso dell'intimazione del recesso”. 44 In proposito, è opportuno dar conto di un principio enunciato dalla Suprema Corte, con

riferimento ad un caso di sospensione della tessera di accesso alle zone aeroportuali. I giudici di

legittimità sottolineano che i contenuti precettivi dell’art. 3 legge n. 604/1966 devono essere

impiegati quali principi generali dell’ordinamento del lavoro, in grado di fornire criteri guida di

valutazione dell’interesse del datore di lavoro a ricevere le prestazioni residue. Ai fini del recesso

ex art. 1464 c.c. è, dunque, necessario, in primo luogo, stabilire di volta in volta la sussistenza di

elementi che consentano di desumere la prevedibilità della cessazione dell’impedimento e,

successivamente, verificare se, ai sensi dei principi desunti dalla legge sui licenziamenti

individuali, l’interesse alla risoluzione appare giustificato, anche in caso di assenza di durata

prevedibilmente breve, dalle ragioni organizzative prese in considerazione. Pertanto, secondo la

Suprema Corte, l’impossibilità parziale non giustifica il recesso solo quando, sulla base di tutte le

circostanze del caso concreto, “si può prevedere, e dunque, necessariamente a livello di prognosi, la

ripresa della fattualità del rapporto senza significativi pregiudizi per l’organizzazione del datore di lavoro

in relazione alla durata dell’assenza” (cfr. Cass. 28 gennaio 2004, n. 1591). 45 Cass. 6 novembre 2002, n. 15593: “A seguito dell'estensione al rapporto di lavoro del personale

marittimo della disciplina propria del lavoro comune, i casi di impossibilità sopravvenuta della prestazione

previsti dal codice della navigazione e dalla contrattazione collettiva come causa di risoluzione del rapporto

di lavoro subordinato - tra essi, la revoca e la sospensione di un'autorizzazione amministrativa che rendano

impossibile la prestazione lavorativa - assumono rilievo in quanto configurino una giusta causa o un

giustificato motivo di risoluzione del rapporto, e quindi il loro verificarsi non produce l'automatica

risoluzione del rapporto stesso, ma può giustificare il licenziamento, che occorre sia espressamente intimato

dal datore di lavoro”.

22

Va, in primo luogo, osservato che le recenti modifiche introdotte dal legislatore,

non hanno apportato, come sopra evidenziato, cambiamenti al testo dell’art. 3 della legge

n. 604/1966, con la conseguenza che la nozione di giustificato motivo oggettivo è ancora

oggi quella che si è consolidata nell’interpretazione giurisprudenziale e che costituisce

diritto vivente.

Con particolare riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la

novella legislativa, come già detto, non ha inciso sulla definizione della causale ( che

rimane, pertanto, incardinata sui tre elementi essenziali: ragione strutturale, nesso di

causalità con l’allontanamento del dipendente, obbligo di repêchage) ma ha introdotto

una obbligatoria procedura amministrativa finalizzata all’esame di soluzioni alternative al

licenziamento ed al raggiungimento di un accordo conciliativo. Inoltre, il legislatore ha

basato il tipo di tutela fornita al dipendente licenziato sul grado d’insussistenza del

giustificato motivo oggettivo, consentendo al giudice di applicare una sanzione più

rigorosa e incisiva (la reintegra nel posto di lavoro) ove il fatto sia “manifestamente”

insussistente ovvero una sanzione meramente risarcitoria negli altri casi residuali.

In particolare, la legge in esame ha modificato gli artt. 6 e 7 della legge n. 604 del

1966 e l’art. 18 legge n. 300 del 1970, in materia di licenziamenti individuali. Ha inoltre

introdotto, poi, importanti novità anche rispetto ai frequenti vizi, non solo formali, delle

procedure di licenziamento collettivo ai sensi della legge n. 223 del 199146

.

46L’art. 1, commi 44, 45 e 46, della legge n. 92 del 2012 apporta alcune modifiche alla disciplina dei

licenziamenti collettivi contenuta nella legge n. 223 del 1991. Nella disciplina previgente, l’art. 4,

comma 9, della legge n. 223 del 1991, prevedeva che, collocati in mobilità i lavoratori eccedenti e

comunicato loro il recesso nel rispetto dei termini di preavviso, il datore di lavoro doveva,

contestualmente, comunicare agli uffici pubblici competenti e alle associazioni sindacali l’elenco

dei lavoratori collocati in mobilità, con la puntuale indicazione delle modalità con le quali erano

stati applicati i criteri di scelta. La nuova disposizione (art. 1, comma 44, legge 92/2012) introdotta

dalla riforma prevede che quest’ultima comunicazione debba avvenire non più contestualmente,

ma entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi. Nel regime precedente alla riforma, come

affermato anche dalla giurisprudenza più recente, i vizi della comunicazione di apertura della

procedura di mobilità non potevano essere sanati da successivi accordi sindacali, determinando

l’inefficacia dei licenziamenti per riduzione di personale intimati a conclusione della suddetta

procedura (cfr., in questo senso, Cass. Civ. sez. lav., 6 aprile 2012, n. 5582).

La nuova disposizione all’art. 1, comma 45, prevede che eventuali vizi della comunicazione di

avvio della procedura di mobilità possano essere sanati, ad ogni effetto di legge (e, quindi, anche

ai fini della dichiarazione di inefficacia del licenziamento),nell’ambito di un accordo sindacale

concluso nel corso della stessa procedura. La disposizione dell’art. 1, comma 46, invece, modifica

il regime sanzionatorio del licenziamento collettivo, distinguendo tre diverse ipotesi:

1) licenziamento intimato senza forma scritta. Come in precedenza, è prevista la tutela

della reintegrazione nel posto di lavoro, più il risarcimento del danno, commisurato a tutte le

retribuzione non percepite dal giorno del licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, oltre al

versamento dei contributi previdenziali;

2) licenziamento intimato in violazione delle procedure previste dalla legge. Non è più

prevista la tutela della reintegrazione nel posto di lavoro (come in precedenza), ma soltanto una

indennità risarcitoria omnicomprensiva tra un minino di 12 e un massimo 24 mensilità

(determinata, con obbligo di specifica motivazione da parte del giudice, tenendo conto

23

Molte e rilevanti anche le modifiche in tema di processo del lavoro, atteso che il

legislatore della riforma ha introdotto un rito “rapido” che trova applicazione

relativamente alle controversie aventi ad oggetto licenziamenti, limitatamente alle ipotesi

regolate dall’art. 18 legge 300/1970, anche quando devono essere risolte questioni

relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, ovvero quando il rapporto di lavoro

subordinato è, per così dire, “deformalizzato” o celato sotto altre mentite spoglie.

Per cominciare, la legge di riforma modifica i termini di decadenza introdotti dal

Collegato lavoro47

, in vigore dal 24 ottobre 2010.

Fermo restando il termine di 60 giorni previsto dall’art. 6 legge n. 604 del 1966 per

l’impugnativa stragiudiziale del licenziamento, decorrente dalla data di comunicazione

del licenziamento o dei motivi dello stesso, se non contestuale (possibilità quest’ultima

che non è più prevista dalla Riforma Fornero perché la motivazione deve essere

contestuale, a pena d’inefficacia del recesso), la legge Fornero ha ridotto il termine per il

deposito del ricorso giudiziale da 270 a 180 giorni. Il termine decorre dalla data

d’impugnazione del licenziamento (per il quale, si rammenta, è sufficiente la mera

comunicazione del lavoratore al datore di lavoro di impugnare il licenziamento, senza

necessariamente indicare i motivi di impugnazione).

Tale nuovo termine di decadenza si applica esclusivamente ai licenziamenti intimati

successivamente all’entrata in vigore della legge (ossia al 18 luglio 2012).

Il legislatore della riforma prevede inoltre espressamente che la comunicazione del

licenziamento ne indichi specificamente le motivazioni (art. 1, comma 37, della legge in

esame che modifica il comma 2 dell’art. 2 della legge 604/1966).

Viene meno, pertanto, la possibilità per il datore di lavoro di comunicare i motivi di

licenziamento entro 8 giorni dalla richiesta del lavoratore licenziato (che doveva essere

avanzata entro 15 giorni dalla comunicazione del licenziamento).

La motivazione da indicare nella comunicazione del recesso deve consistere nelle

concrete ragioni di carattere organizzativo che hanno determinato il licenziamento, non

potendo ritenersi sufficiente la generica indicazione di dover far fronte ad esigenze di

carattere aziendale o alla mera enunciazione della formula indicata dal legislatore (ragioni

dell’anzianità del lavoratore, del numero di dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività

economica, del comportamento e delle condizioni delle parti);

3) licenziamento per violazione dei criteri di scelta. Come in precedenza, è prevista la

tutela della reintegrazione nel posto di lavoro, più il risarcimento del danno e il versamento dei

contributi previdenziali. Il risarcimento del danno, però, non può superare, in ogni caso, 12

mensilità di retribuzione. Infine, la nuova disposizione dispone espressamente l’applicabilità

anche ai licenziamenti collettivi del nuovo regime di impugnazione giudiziale del licenziamento

dettato dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010. Pertanto, anche nell’ipotesi di licenziamento

collettivo, il lavoratore deve depositare il ricorso giudiziale entro il termine di decadenza di 180

giorni (non più 270, come in precedenza) dall’impugnazione stragiudiziale (che deve sempre

avvenire, anch’essa a pena di decadenza, entro il termine di 60 giorni dalla comunicazione del

licenziamento). 47 Legge 4 novembre 2010, n. 183, in G.U. 9 novembre 2010.

24

di carattere tecnico, organizzativo o produttivo) ed alla mancata possibilità di ricollocare

utilmente il lavoratore in altre mansioni.

Altra norma che si ritiene debba essere evidenziate, è quella contenuta nell'art.1,

comma 40, legge 28 giugno 2012, n. 92, che andando a sostituire il testo dell’art. 7, legge

604/1966, introduce un complesso meccanismo che il datore di lavoro deve rispettare

nelle ipotesi in cui intenda procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

In tale ipotesi è obbligatorio (a pena d’inefficacia del licenziamento) il previo

“passaggio” innanzi alla Direzione territoriale del lavoro.

Il datore di lavoro, infatti, è tenuto ad inviare, prima di procedere al licenziamento,

una comunicazione alla Direzione territoriale del lavoro e, per conoscenza, al lavoratore,

contenente sia i motivi in base ai quali intende procedere al licenziamento, sia le

eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato. La Direzione

del lavoro è tenuta a convocare le parti nel termine perentorio di sette giorni dal

ricevimento della comunicazione. All’incontro, il lavoratore può farsi assistere da un

rappresentante sindacale, ovvero da un avvocato o da un consulente del lavoro.

L’incontro è finalizzato all’esame della possibilità di misure alternative al licenziamento.

La procedura deve concludersi nei venti giorni, prorogabili qualora le parti, di

comune accordo, decidano di proseguire la discussione. Decorso infruttuosamente tale

termine, ovvero nel caso di mancato accordo, il datore di lavoro può procedere al

licenziamento. La procedura può essere sospesa per un periodo di quindici giorni nel caso

di documentato impedimento del lavoratore. Decorso tale termine, il datore di lavoro può

procedere al licenziamento, anche nel caso in cui perduri l’impedimento ed a prescindere

dalla natura dello stesso.

Inoltre il legislatore, al punto 848

dell’articolo in esame (art.1, comma 40, legge n.

92/2012), ha previsto che il comportamento delle parti desumibile anche dal verbale

redatto in sede di commissione provinciale del lavoro e dalla proposta di conciliazione

avanzata dalla stessa, è valutato dal giudice per la determinazione dell’indennità

risarcitoria di cui all’art. 18 legge n. 300/1970.

Venendo a trattare più da vicino la tutela improntata dal legislatore in caso di

licenziamento per giustificato motivo oggettivo, si rileva che la tutela reintegratoria spetti

al lavoratore nelle ipotesi in cui il licenziamento, sprovvisto dei suoi presupposti

fondanti, sia intimato a fronte della pretesa inidoneità fisica o psichica del lavoratore,

ovvero quando lo stesso sia stato dettato dal preteso superamento del periodo di

comporto, del periodo, cioè, di conservazione del posto di lavoro in costanza di malattia.

Ancora, la medesima tutela spetta nelle ipotesi in cui il fatto posto a base del

licenziamento si palesi manifestamente insussistente.

48Art. 1, comma, 40, punto 8), legge n. 92/2012: “8. Il comportamento complessivo delle parti, desumibile

anche dal verbale redatto in sede di commissione provinciale di conciliazione e dalla proposta conciliativa

avanzata dalla stessa, è valutato dal giudice per la determinazione dell’indennità risarcitoria di cui all'articolo

18, settimo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, e per l'applicazione degli

articoli 91 e 92 del codice di procedura civile”.

25

Inoltre, ma è stato diffusamente trattato più sopra, nel caso di manifesta

insussistenza del fatto.

Il legislatore ha poi differenziato il regime di tutela nell’ipotesi di giustificato

motivo oggettivo, a seconda che il licenziamento sia determinato da motivi prettamente

economici, in quanto riferito alle scelte organizzative e produttive dell’imprenditore (per

le quali si applica la tutela risarcitoria menzionata nel paragrafo che precede), dalle

ipotesi in cui il licenziamento riguardi motivi prettamente riferibili alla persona del

lavoratore licenziato.

Da quest’ultimo punto di vista, infatti, il nuovo art. 18 della legge n. 300/1970,

nell’attuale formulazione, individua il caso specifico del lavoratore licenziato in relazione

(o in conseguenza) del suo stato d’inidoneità psichica o fisica all’espletamento delle

mansioni ed il licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto.

In queste ipotesi tipizzate dal legislatore della riforma e limitatamente alle imprese

di maggiori dimensioni, continua ad applicarsi la tutela reale (reintegra e risarcimento)

ma l’ammontare del risarcimento non potrà superare le dodici mensilità.

Analogo discorso e medesima sanzione per le ipotesi di licenziamento nullo (tra i

quali figura anche il licenziamento orale) o discriminatorio (e quelle ad esso parificate, ad

esempio il licenziamento intimato in concomitanza del matrimonio). Solo in questi casi

non rileverà il numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro.

7) Il licenziamento irrogato per giustificato motivo oggettivo ma che nasconde un

licenziamento disciplinare.

Il nuovo articolo 18 S.L. prevede anche l'ipotesi di quello che è stato definito il

licenziamento "occulto", ovverosia quello che è stato adottato per un giustificato motivo

oggettivo, ma che in realtà cela un licenziamento disciplinare.

Nel qual caso la previsione contenuta nell'ultima parte del comma 7 della L. 300/70

è quella di apprestate le "relative tutele", quelle cioè previste laddove il lavoratore "nel

corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento

risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari".

E' pacifico che la preoccupazione del legislatore sia stata quella di non dare rilevo

alle ragioni formalmente addotte dal datore di lavoro, ma alle reali ragioni che hanno

condotto all'adozione dell'atto risolutivo49

, subordinando tuttavia tale esercizio ad una

49

v. E. PASQUALETTO I licenziamenti nulli secondo la l. 92/2012 in Il lavoro nella giurisprudenza 10/2012

pag. 894

26

specifica domanda che il lavoratore deve rivolgere nel corso del giudizio volto alla

declaratoria di illegittimità del licenziamento stesso.50

Naturalmente si potrebbe verificare il caso che nel corso del giudizio si riesca a

dare la dimostrazione sia della esistenza del giustificato motivo oggettivo che l'eventuale

discriminazione del licenziamento o che il licenziamento era anche disciplinare.

A questo punto ci si chiede quale decisione dovrà essere raggiunta, nel senso se

legittimare il comportamento del datore di lavoro che ha correttamente operato

nell'ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (perché in effetti le

ragioni giustificatrici del licenziamento sono state tutte correttamente provare anche con

riguardo all'obbligo di "repechage") oppure dichiararlo illegittimo sol perché vi era un

altro motivo "occulto" e quindi dando la prevalenza a quest'ultimo aspetto rispetto al

primo.

La prospettazione è di non facile soluzione. C'è chi ha sostenuto che una volta

risultato giustificato il licenziamento così come irrogato, l'eventuale motivo

discriminatorio non potrebbe assumere rilievo secondo una prevalente giurisprudenza, ma

mi sentirei di non aderire pedissequamente a tale impostazione, ma limitarla solamente

nei casi in cui non dovesse la discriminazione essere il motivo prevalente del

licenziamento.

Discorso a parte viceversa per quanto riguarda il licenziamento disciplinare

"occulto".

In tale ipotesi mi sentirei di escludere la rilevanza delle ragioni disciplinari, e quindi

di conseguenza quelle sanzionatorie, laddove sia stata accertata l'esistenza del giustificato

motivo oggettivo.

A questo punto occorre affrontare un altro spinoso problema riguardante il regime

delle prove e su chi incomba l'onere di provare la sussistenza del licenziamento

disciplinare "occulto".

Con riguardo all'onere della prova vi sono state diverse soluzioni51

; prima però di

raggiungerne una occorre porre nella dovuta evidenza che bisogna tenere ben distinto il

motivo disciplinare dalla giustificazione del licenziamento disciplinare.

Una volta chiarita la differenza, si ritiene che sia corretto ritenere che al lavoratore

incomba l'onere di provare tutti i fatti addotti a sostegno del preteso licenziamento

50

ci si interroga quando (quindi con quali limiti ed eventuali decadenze) la specifica domanda debba essere

svolta e cioè se al momento della proposizione dell'atto introduttivo del giudizio, ovvero anche nel corso

dello stesso, visto sul punto il silenzio della norma. Propende per la prima soluzione M. TATARELLI Il

licenziamento individuale e collettivo. Lavoro privato e pubblico, Padova 2012 pag. 450. 51

secondo V. SPEZIALE La riforma cit. pag. 25-26 il lavoratore dovrebbe solamente formulare la domanda e

niente altro valendo anche in tale caso il regime previsto dall'art. 5 l. 604/66; contra A. MARESCA Il nuovo

regime cit. pag. 442, secondo l'Autore "la prova che il lavoratore deve fornire non si deve limitare alla sola

sussistenza di una diversa motivazione del licenziamento, eventualmente concorrente con quella

formalmente adottata, ma anche che tale motivazione costituisce l'unica ragione del provvedimento

espulsivo e che quindi è stato deciso esclusivaemnte per finalità disciplinari o discriminatorie".

27

disciplinare "occulto", mentre al datore di lavoro l'onere di provare la giustificatezza del

recesso di cui sia eventualmente stata accertata la natura disciplinare "occulta" del

recesso.

Quanto sopra facendo buon governo di quanto indicato dall'art. 2697 c.c. in ordine

all'onere della prova incombente su chi deve provare i fatti costitutivi del proprio diritto,

in alcun modo modificato dalla previsione di cui all'art. 5 l. 604/66.

Per quanto viceversa riguarda il licenziamento discriminatorio "occulto", ritengo

che il regime delle prove vada sempre ripartito nella maniera sopra indicata, ma che il

lavoratore si possa avvalere del regime specificatamente previsto dall'art. 28 D.lgs

150/2011.