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8/8/2019 Lettura della Sentenza della Corte di Appello di Roma (1956) http://slidepdf.com/reader/full/lettura-della-sentenza-della-corte-di-appello-di-roma-1956 1/41 Lettura della Sentenza della Corte di Appello di Roma (1956) Posted on 22 luglio 2008 by casarrubea Introduzione alla lettura della sentenza della Corte di Appello di Roma (1956) per la strage di Portella della Ginestra GIUSEPPE CASARRUBEA (2000) Dignitatis memores Ad optima intenti (Iscrizione muraria,Piazza dellOrologio, Praga) 1. Un processo mai celebrato Nel leggere la Sentenza che la seconda Corte di Appello di Roma pronunciò il 10 agosto 1956 e che qui riportiamo nella sua stesura integrale, il lettore criticamente attento, non troverà risposta ai suoi legittimi interrogativi. Il verdetto, infatti, come anche quello pronunciato dai primi giudici di Viterbo nel 52, lascia un vuoto enorme nella mente e la convinzione che ben due processi si siano celebrati a onore e gloria di un copione scritto da tempo, anzi datato. La data esatta è il 2 maggio 1947, quando il ministro dellInterno Mario Scelba, rispondendo ai rappresentanti del popolo riuniti nellAssemblea Costituente che preoccupati di quello che stava accadendo in Sicilia lo interrogavano, ebbe a dire che quella strage era un fatto circoscritto, locale, senza connotati politici e quasi fuori dal mondo. Oggi una simile risposta, sulla quale si appiattirono per un decennio inquirenti e magistrati, appare abbastanza inadeguata a spiegare le profonde ragioni di un affaire che fondò la nascita dello Stato repubblicano segnandone lecaratteristiche per quasi cinquantanni. Intendiamoci. Non si tratta affatto di negare le precise responsabilità della banda Giuliano in tutta quelloperazione che la vide certamente in prima fila a concretizzare le scenografie che si stavano allestendo, e ad eseguire le azioni stesse della scena, ma di capire che a distanza di cinquantatre anni manca ancora un processo sui mandanti di quellefferato delitto, di quella strage che ha in sé il marchio dello stragismo degli anni futuri. Il lettore avrà modo di constatare i vuoti che si registrano, le gravi carenze nella costruzione dellatto di accusa, le omissioni e alcune di quelle principali circostanze che anche al di là dal riferirsi ai mandanti, avrebbero dovuto costituire in partenza piste fondamentali nella ricerca della verità. Un processo sui mandanti fu celebrato a Palermo in seguito alla denunzia del deputato regionale Giuseppe Montalbano presentata il 25 ottobre 1951 contro Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano, Giacomo Cusumano Geloso quali mandanti della strage di Portella della Ginestra, e contro lispettore generale di Ps Ettore Messana, quale correo nellorganizzazione della strage stessa. Ma il PG rilevando che le risultanze dellistruttoria [] non si palesavano tali da consentire lesperimento dellazione penale nei confronti di alcuni dei denunziati, concluse per larchiviazione degli atti ai sensi dellart.74 del cpp e la sezione istruttoria, con decreto motivato in data 9 dicembre 1953, decise in conformità. Ora un atto di accusa non poteva basarsi con qualche speranza di riuscita sulle dichiarazioni di Pisciotta, di Antonino Terranova o di Giovanni Genovese per quanto a loro risultava direttamente come testimoni, pur se di eccezionale livello. Non eravamo al tempo di Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, né poteva essere concepito ancora il fenomeno del pentitismo, per quanto il luogotenente di Giuliano lo avesse in qualche modo anticipato. Per di più la mafia non era neanche contemplata dal codice penale, e i giudici ritenevano che fosse solo unastratta realtà sociologica, come essi stessi dichiaravano. Sarebbe stato sufficiente, al

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Lettura della Sentenza della Corte di Appello di Roma (1956) 

Posted on 22 luglio 2008 by casarrubea 

Introduzione alla lettura della sentenza della Corte di Appello di Roma (1956) per la strage di Portella della

Ginestra 

GIUSEPPE CASARRUBEA 

(2000)

Dignitatis memores

Ad optima intenti

(Iscrizione muraria,Piazza dellOrologio, Praga) 

1. Un processo mai celebrato 

Nel leggere la Sentenza che la seconda Corte di Appello di Roma pronunciò il 10 agosto 1956 e che qui

riportiamo nella sua stesura integrale, il lettore criticamente attento, non troverà risposta ai suoi legittimi

interrogativi. Il verdetto, infatti, come anche quello pronunciato dai primi giudici di Viterbo nel 52, lascia

un vuoto enorme nella mente e la convinzione che ben due processi si siano celebrati a onore e gloria di un

copione scritto da tempo, anzi datato. La data esatta è il 2 maggio 1947, quando il ministro dellInterno

Mario Scelba, rispondendo ai rappresentanti del popolo riuniti nellAssemblea Costituente che preoccupati

di quello che stava accadendo in Sicilia lo interrogavano, ebbe a dire che quella strage era un fatto

circoscritto, locale, senza connotati politici e quasi fuori dal mondo. Oggi una simile risposta, sulla quale si

appiattirono per un decennio inquirenti e magistrati, appare abbastanza inadeguata a spiegare le profonde

ragioni di un affaire che fondò la nascita dello Stato repubblicano segnandone lecaratteristiche per quasi

cinquantanni. Intendiamoci. Non si tratta affatto di negare le precise responsabilità della banda Giuliano in

tutta quelloperazione che la vide certamente in prima fila a concretizzare le scenografie che si stavano

allestendo, e ad eseguire le azioni stesse della scena, ma di capire che a distanza di cinquantatre anni

manca ancora un processo sui mandanti di quellefferato delitto, di quella strage che ha in sé il marchio

dello stragismo degli anni futuri.

Il lettore avrà modo di constatare i vuoti che si registrano, le gravi carenze nella costruzione dellatto di

accusa, le omissioni e alcune di quelle principali circostanze che anche al di là dal riferirsi ai mandanti,

avrebbero dovuto costituire in partenza piste fondamentali nella ricerca della verità.

Un processo sui mandanti fu celebrato a Palermo in seguito alla denunzia del deputato regionale Giuseppe

Montalbano presentata il 25 ottobre 1951 contro Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano,

Giacomo Cusumano Geloso quali mandanti della strage di Portella della Ginestra, e contro lispettore

generale di Ps Ettore Messana, quale correo nellorganizzazione della strage stessa. Ma il PG rilevando che

le risultanze dellistruttoria [] non si palesavano tali da consentire lesperimento dellazione penale nei

confronti di alcuni dei denunziati, concluse per larchiviazione degli atti ai sensi dellart.74 del cpp e la

sezione istruttoria, con decreto motivato in data 9 dicembre 1953, decise in conformità. Ora un atto di

accusa non poteva basarsi con qualche speranza di riuscita sulle dichiarazioni di Pisciotta, di Antonino

Terranova o di Giovanni Genovese per quanto a loro risultava direttamente come testimoni, pur se di

eccezionale livello. Non eravamo al tempo di Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, né poteva essere

concepito ancora il fenomeno del pentitismo, per quanto il luogotenente di Giuliano lo avesse in qualche

modo anticipato. Per di più la mafia non era neanche contemplata dal codice penale, e i giudici ritenevano

che fosse solo unastratta realtà sociologica, come essi stessi dichiaravano. Sarebbe stato sufficiente, al

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contrario, che gli organi inquirenti avessero messo in risalto tutte le coordinate utili a spiegare

ragionevolmente come quei banditi, che già erano stati processati e avevano fatto ricorso in appello, erano

soltanto il livello più appariscente della cosiddetta lotta antibolscevica che si era scatenata con la strage del

1° maggio 1947 e che doveva proseguire poi con altre stragi fino alla conclusione del 22 giugno di

quellanno. Prima e dopo queste due date quella lotta si era dispiegata con una sorta di delega alla mafia

del compito di decapitazione sistematica delle insorgenze che potessero territorialmente arrecare qualche

squilibrio allassetto socio-politico costituito. Il controllo era stato semplice e abbastanza copertoistituzionalmente: dallassassinio di Nicolò Azoti, segretario della Camera del Lavoro di Baucina, a quello di

Accursio Miraglia, grande dirigente delle lotte contadine di Sciacca. Per il momento basti al lettore sapere

che un processo per questi delitti non fu mai regolarmente celebrato, come anche nel mistero rimase la

strage di Alia nella quale avevano perso la vita i dirigenti della Federterra (1946) di quel comune Giovanni

Castiglione e Girolamo Scaccia. Si trattava di gestione corrente del controllo politico-sociale che come ha

scritto Giuseppe Di Lello- vedeva muoversi in sintonia inquirenti e giudici, mafiosi coperti dallimpunità ed

esecutori di delitti che si prestavano allassassinio col compenso di un tumulo di terra. La situazione tornerà

a normalizzarsi anche dopo le stragi del 47 fino alla eliminazione di Epifanio Li Puma, Calogero Cangelosi e

Placido Rizzotto. E anche oltre. Ma in quel terribile bimestre maggio-giugno 1947 accadde qualcosa di

eccezionale, come se qualcuno che pure fingeva di giocare secondo le regole, avesse buttato le carte in

aria e avesse detto: adesso ci penso io.

- Lordine di cattura contro Giuliano, fu emesso, su conforme richiesta del PM il 16 luglio 1947. A quella

data lispettore di polizia Ettore Messana, nonostante destituito a seguito delle continue accuse di Girolamo

Li Causi, era nel pieno delle sue attività. Con tutta probabilità influì in modo determinante nella stesura del

Rapporto giudiziario, anche se questo porta la data del 4 settembre e la triplice firma di Lo Bianco, Santucci

e Calandra e cioè tre subalterni che di fronte a una strage di quelle proporzioni non potevano certamente

avere agito di testa propria. E Messana non era uno qualunque, ma la persona che Li Causi aveva accusato

di essere il capo del banditismo politico in Sicilia. Dopo Messana, nessun ispettore generale, si occupò più

delle stragi. Su queste premesse listruttoria formale fu conclusa con sentenza del 17 ottobre 1948 della

Corte di Appello di Palermo che ordinò il rinvio a giudizio di 39 imputati tutti associati alla banda Giuliano.

2.Imputati e testimoni scomodi  

La Sentenza che prendiamo in esame riguarda la causa di secondo grado contro Francesco Gaglio inteso

Reversino e altri 32 individui già condannati per le stragi di Portella della Ginestra e di Partinico (assalti

contro le Camere del Lavoro della provincia di Palermo: 1° maggio-22 giugno 1947). Spiccavano tra gli altri

Antonino Terranova, inteso Cacaova, i fratelli Giovanni e Giuseppe Genovese, Frank Mannino, (Ciccio

Lampo), Francesco Pisciotta (Mpompò), Pasquale Pino Sciortino, Nunzio Badalamenti. A quella data i

principali imputati, poco più che ventenni, erano tutti morti: uccisi in circostanze misteriose, nel sonno,

avvelenati, massacrati in conflitti con i carabinieri dei quali poco o nulla si è saputo. Ferreri fu il primo a

sparire assieme ad altri testimoni chiave che ci rimisero le penne con lui la notte tra il 26 e il 27 giugno

1947, nello stesso frangente in cui altri membri della banda saltavano in aria su un ordigno (Angelo

Taormina, Federico Mazzola, Francesco Passatempo). Giuseppe Passatempo campò poco più di un anno

dalla morte di suo fratello Francesco fino a quando non cadde in conflitto il 24 novembre 1948; Rosario

Candela fu eliminato il 12 marzo 1950 anche lui in un conflitto con i carabinieri; Salvatore Passatempo ci

rimise le penne in contrada Sparacia di Camporeale il 7 agosto 1952; Giuliano ebbe appena il tempo di

fare pervenire ai giudici di Viterbo un memoriale da tutti ritenuto scritto sotto dettatura, una settimana

prima della sua uccisione, avvenuta come è noto la notte dal 4 al 5 luglio 1950. Seguì poi la messinscena del

capitano Antonio Perenze, col morto sistemato nel cortile della casa dell avvocaticchio Gregorio Di Maria,

e col beneplacito di tutti, a cominciare da tre generali di Corpo dArmata.

- Pisciotta dopo e Salvatore Ferreri prima, entrambi usati dalle massime autorità delle forze dellordine in

Sicilia, possono essere paragonati - per riferirci a tempi più recenti a ciò che rappresentò Prospero

Gallinari nella vicenda Moro. Come si sa Gallinari era stato fatto evadere dai carabinieri dal carcere di

Treviso, un anno prima della strage di via Fani, il 2 gennaio 1977. Essi speravano, seguendolo, di arrivare a

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Moretti (il capo delle Brigate Rosse e killer di Moro). I risultati di questa operazione ormai si conoscono.

Gallinari non fece catturare proprio nessuno perché i carabinieri scrive Giovanni Pellegrino, presidente

della Commissione Stragi persero il controllo della situazione. Nel caso di Ferreri, alias Fra Diavolo, e di

Pisciotta essi non portarono alla cattura di Giuliano e fecero una fine quanto mai tragica. Il primo, già

confidente dellispettore generale Ettore Messana, non arrivò neanche al momento della consegna del

Rapporto giudiziario col quale, il 4 settembre 1947, furono denunciati per strage i componenti della banda

Giuliano; il secondo, credendo fino alla fine di essere superprotetto dal generale dei carabinieri Ugo Luca,morì di stricnina nel carcere dellUcciardone di Palermo (9 febbraio 1954). Non lo seguì solo Angelo Russo

(Ancilinazzu, uno dei principali testimoni della vita interna di quella strana banda monteleprina), ucciso

nello stesso carcere tre settimane dopo, ma qualche altro come Nitto Minasola, uno dei tramiti tra la mafia

di Monreale e i banditi, lispettore Ciro Verdiani che aveva avuto amichevoli rapporti con Giuliano, Giacomo

Cusumano Geloso che era stato, secondo Pisciotta, il mediatore tra i banditi e Roma. Per non contare le

innumerevoli altre morti misteriose di personaggi che con quei banditi, e con certi mediatori istituzionali

avevano avuto a che fare.

- 3.Un processo in regime di guerra fredda

La Corte di Roma si trovò davanti un drappello di banditi dimezzato, e in questo senso ebbe compiti più

facili perché fu ripercorso un campo già arato e venne a mancare sia il clima dellistruttoria palermitana, siaanche lattenzione che invece cera stata sul piano nazionale attorno al processo di Viterbo. Gli esiti furono

in qualche modo prevedibili: influì forse lacuirsi del clima della guerra fredda che aveva prodotto nel 56

loccupazione sovietica dellUngheria, e forse influirono anche le scelte di campo ideologico e politico

manifestate da taluno dei ricorrenti. Giovanni Genovese, condannato allergastolo nel 52, fu

clamorosamente assolto; altri, come Pasquale Sciortino e Nunzio Badalamenti passarono dallergastolo a

pene meno severe. Non se ne spiega la ragione perché il primo era stato il beniamino di Giuliano e gli altri

due erano stati tra i suoi più fedeli collaboratori. Di fatto il Genovese si era professato dichiaratamente

democristiano, Sciortino avevano dimostrato i primi giudici era stato il capo organizzatore degli assalti

contro le Camere del lavoro, il Badalamenti aveva forse assolto a qualche compito di particolare rilievo a tal

punto da essere trattato nei confronti degli altri, con un occhio di riguardo. Tutti avevano partecipato alle

riunioni organizzative della strage del 1° maggio e tutti, chi più chi meno, erano stati visti nella marcia di

avvicinamento a Portella. Queste motivazioni (partecipazione alla riunione di Cippi, e alla marcia notturna)erano state sufficienti per la Corte romana per confermare laccusa e mandare allergastolo molti imputati,

ma non tutti quelli che erano stati condannati a Viterbo. Giovanni Genovese faceva parte, con Vito Mazzola

e Tommaso Di Maggio, del consiglio degli anziani della banda e la sua assoluzione avrebbe dovuto portarsi

dietro valutazioni analoghe concernenti altri imputati. In realtà le cose andarono diversamente. Inchiodati

dai picciotti, elementi racimolaticci che Giuliano aveva assoldato allultimo minuto, subiranno un giudizio

diversificato. In sostanza i giudici furono per un verso severi, per un altro palesemente influenzati da una

clemenza incomprensibile, tanto più quando questa non veniva indirizzata verso taluni che, come Giuseppe

Di Lorenzo, avevano avuto il merito di disvelare le modalità degli assalti del 22 giugno contro le sedi della

sinistra, consentendo di colpirne gli esecutori. La Sentenza presenta dunque aspetti di novità pur

rimanendo nella sostanza perfettamente aderente allimpostazione politico-giudiziaria precedente.

4. Linsorgenza terroristica: 

il Fronte antibolscevico e le coperture politiche del covo 

Anche se assente, per morte sopravvenuta, Giuliano restò il soggetto principale della scena. Le molteplici

connessioni che egli aveva avuto nel suo reticolo sociale e politico, causa principale della sua condotta,

restarono su uno sfondo molto sfumato: la mafia e il Fronte antibolscevico, costituitosi a Palermo in via

dellOrologio e col quale Giuliano aveva avuto un sicuro rapporto, non furono neanche presi in

considerazione. I giudici respinsero ogni interferenza esterna, e si mantennero ligi alla linea dettata da

Scelba, già allindomani della strage del primo maggio. Lo scelbismo fu il denominatore che legò assieme in

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un comune atteggiamento, forze dellordine e inquirenti, tribunali e governo. Parlando allAssemblea

Costituente il 2 maggio di quellanno il ministro aveva dettato gli indirizzi fondamentali per polizia

giudiziaria e giudici. Aveva detto che quei fatti dovevano essere attribuiti a situazioni e responsabilità locali;

che essi non avevano nessuna connotazione politica e dovevano essere circoscritti allarea territoriale nella

quale si erano manifestati.

Non è una manifestazione politica questo delitto: nessun partito politico oserebbe organizzaremanifestazioni del genere, non fosse altro perché è facile immaginare che i risultati sarebbero nettamente

opposti a quelli sperati. Si spara sulla folla dei lavoratori non perché tali, ma perché rei di reclamare un

nuovo diritto. Si vendica loffesa così come si sparerebbe su un singolo per un qualsivoglia torto ricevuto

individuale o familiare. La zona in cui si è maturato il delitto tende ogni giorno più a restringersi e non [è]

lontano il giorno in cui potrà scomparire del tutto quando le strade e le comunicazioni in genere, le scuole e

le trasformazioni fondiarie avranno fatto scomparire le condizioni sociali arretrate che perpetuano

lesistenza di mentalità anchesse arretrate (Z/40, 483).

Le indagini giudiziarie non tennero così in nessun conto il fatto che quelle stragi potessero essere state

effettuate su commissione, e che pertanto andavano rintracciate tutte le piste possibili. Quella strage

doveva rimanere come una sorta di vendetta personale, la risposta di un bandito a un torto ricevuto. Da

quella data a oggi nessun tribunale ha mai posto le questioni in modo diverso. Questa è la vera tragediastorica conseguente alla strage. Una tragedia alla cui copertura valsero di più le trame delle complicità e dei

silenzi intessute ad alto livello (ministero dellInterno, apparati investigativi, tribunali, ecc.) che gli appelli

alla Giustizia e alla chiarezza che uno Stato moderno e democratico avrebbe dovuto ascoltare.

In realtà si sparava sulla folla per incutere terrore, ricacciare indietro il movimento democratico, evitare che

si superasse la soglia di tolleranza, già oltrepassata in Sicilia con la vittoria del Blocco del popolo nelle

elezioni regionali del 20 aprile 1947, e perché il superamento già in atto del limite consentito, non servisse

da esempio per un Paese in bilico sulle decisioni di Yalta. Molte circostanze che prenderemo in

considerazione depongono in questo senso.

Nelle due sentenze ci sono dunque dei vuoti incolmabili. In realtà se si mettono assieme i tasselli che

traspaiono qua e là anche nella sentenza che riportiamo, una pista che conduceva attraverso le forzedellordine negli USA non solo doveva essere formulata per dovere dufficio, ma era anche quella che

doveva apparire come la più conseguente e logica, soprattutto rispetto alla natura dei fatti che si erano

verificati e al clima generale nel quale gli stessi si erano manifestati.

Giuliano fu il grande schermo protettivo dellaffaire che gli apparati di forza non vollero smantellare. La

conduzione delloperazione non fu difficile. Il bandito infatti fu sempre facile preda di eventi molto più

grandi di lui. Fu illuso prima dai separatisti e poi dal blocco eversivo. Commise lerrore di non tenere conto

che la fallimentare esperienza separatista che lo aveva visto investito della carica di colonnello di un

esercito inesistente e improponibile, non era servita a tirarlo fuori dal vicolo cieco nel quale quella stessa

esperienza lo aveva collocato. Ritenne opportuno al contrario accettare la nuova investitura di capo di un

esercito questa volta anticomunista perfettamente compatibile col clima generale della guerra fredda e col

consenso ampio diffuso tra i ceti reazionari e conservatori verso una politica di contenimento dellavanzatadelle sinistre in Italia. In questa scelta lavevano convinto quelle stesse persone che nella mandria dei

Genovese a Saraceno (Montelepre) avevano dato il via libera alla strage promettendogli limpunità per sé e

i suoi affiliati. Erano come vedremo- gli anelli occulti di una catena più lunga di quella che poteva dedursi

dalla semplice dichiarazione di Giovanni Genovese.

La sentenza che riportiamo ha perciò un duplice valore storico: 1) conferma la perfetta identità tra la

posizione governativa scelbiana, la fase delle investigazioni e quella successiva dei processi; 2) rispecchia le

implicite scelte dei giudici rispetto alla temperie storica del momento: ignoramento del clima nel quale le

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stragi si erano verificate nonché delle funzioni assolte dalla mafia, dalle forze eversive e dal blocco agrario

interessati a giocare una partita determinante per le sorti della democrazia nel nostro Paese.

Il banco di prova della Sicilia fu la provocazione generale, il segnale che queste forze non erano più disposte

a tollerare che si superassero i limiti di guardia fissati. La sentenza riveste perciò un significato storicamente

dato: la rimozione istituzionale delle piste obbligatorie che ogni indagine serena e obiettiva avrebbe dovuto

assumere già in partenza per accertare i responsabili del collaudo di una matrice stragista che si sarebbe poiriprodotta nei decenni successivi col risultato di una serie di processi senza colpevoli, senza verità e senza

giustizia per i familiari delle vittime. Indubbiamente è anche una sentenza peggiorativa rispetto a quella dei

primi giudici (Viterbo) e ha come unico oggetto dattenzione il ricorso in appello di imputati, rei semmai di

essere esecutori, in qualche caso anelli di congiunzione tra mondo criminale e mondo politico-mafioso, non

già mandanti. Nuoce alla sua imparzialità il carattere asettico, lassenza di autonomia critica rispetto allatto

di accusa o di approfondimento delle cause di un episodio cruciale che ebbe notevoli ripercussioni

nellopinione pubblica e nella stessa Assemblea Costituente. Questultima sospese i suoi lavori dopo avere

approvato allunanimità un ordine del giorno nel quale si faceva appello alle autorità preposte di

individuare i mandanti di quel barbaro eccidio.

Ma lauspicio non è mai stato raccolto. Il nuovo Stato repubblicano si è così portato dentro di sé, già dal suo

primo nascere, un grido di giustizia mai ascoltato, le voci delle vittime innocenti, umili e indifese che hannoreclamato verità, il marchio di uninfamia che è durata per troppo lungo tempo, il disinteresse colpevole

delle istituzioni, la torsione della verità, la beffa aggiunta al danno.

Per quanto la sentenza segni un procedimento a senso unico tuttavia traspaiono qua e là elementi di

riflessione che i giudici ebbero pure a manifestare su fenomeni esterni alla banda. La mafia è uno di questi

elementi. Gli altri sono costituiti dai comportamenti anomali di certi rappresentanti dello Stato. Lasciati ai

margini del processo di appello essi risultano significativamente irrilevanti, aspetti di una coreografica

sociale utile solo a dare un tocco di colore allassunto giudiziario. Un tocco quale avrebbe potuto essere

quello di chi li contemplava affidandoli più alla sociologia che alla valutazione della magistratura. Così,

assecondando questa lettura, la mafia appare come una necessità di ricorrere ad una privata tutela

dellincolumità personale e patrimoniale(p. 13); per quanto essa riprenda vigore e potenza dopo la

caduta del fascismo appare agli occhi dei giudici un fenomeno inspiegabilmente incapace di controllare ilbanditismo e di tenerlo sotto la sua diretta influenza. La contraddittorietà dei giudici si evince dal ruolo che

essi attribuiscono in particolare a Calogero Vizzini rispetto alla vicenda separatista e dalla funzione

assegnata a Giuliano quale paladino di interessi politici che questi avrebbe accolto egoisticamente per

la sua impunità (p. 26). Non altrettanto esplicita appare questa attribuzione a un blocco politico eversivo

del tutto assente nellanalisi dei giudici e di cui la mafia era uno degli elementi di forza. Eppure essi

ripercorrono lesame dei primi giudici a proposito della temperie elettorale del 20 aprile 1947:

A S. Cipirello la propaganda non fu meno intensa che altrove e non mancarono le intimidazioni; a dire di

quel sindaco, il capo mafia locale, tal Celeste Salvatore, parlando in un pubblico comizio, avvertì che in caso

di vittoria del Blocco del Popolo molto sangue sarebbe stato sparso e tante fosse si sarebbero scavate per i

comunisti: i figli non avrebbero ritrovato il padre e la madre; e, secondo il teste Schirò Giacomo, sulle porte

delle case dei comunisti si trovarono scritte le parole morte ai comunisti, seguite da segni di croce.

Questi e analoghi fatti non furono oggetto di nessuna indagine, come inesistenti furono le attenzioni sui

motivi per cui, dopo la strage del 1°maggio, mancò un coordinato piano volto ad identificare tutte le

postazioni di tiro da cui si era sparato sulla folla:

Lispezione del costone della Pizzuta, da cui si presumeva fossero partiti i colpi, venne compiuta dalla

polizia giudiziaria fin dal pomeriggio del 1° maggio; può dirsi anzi che le ispezioni siano state molteplici, in

quanto accedettero sul luogo in momenti diversi il ten. col. Paolantonio, il m.llo Lo Bianco ed altri elementi

dellIspettorato generale di PS, appartenenti ai Nuclei dei Carabinieri di S. Giuseppe Jato e di S. Cipirrello, il

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Mag. Angrisani, i Commissari di PS Guarino e Frascolla, il s. ten. Ragusa, il m.llo Parrino ed il carabiniere

Salerno, e furono ripetute anche nei giorni successivi; ma ognuno vi andò per farsi una propria idea e

mancò un coordinato piano di azione per la conservazione delle tracce del reato o quanto meno per

lesatto accertamento di esse ai fini dellidentificazione topografica di tutte le postazioni da cui i malfattori

avevano sparato; taluni degli investigatori, non ritenendolo compito proprio, non riferirono nulla

allAutorità giudiziaria, altri, distratti da più pressanti incombenze, omisero di esporre in modo completo ed

organico i risultati delle loro osservazioni, di tal che il Questore, a sei giorni dal delitto, ritenne opportunorimandare sul luogo il Commissario Frascolla per compiere unindagine supplementare e riferirne con

relazione scritta (V/3°, 421); tuttavia le lacune dei vari rapporti non furono per il momento colmate ed

occorrerà attendere il dibattimento per acquisire maggiori elementi di indagine e di valutazione.

Invero con relazione 7 maggio 1947 il S. Ten Ragusa, premesso che nel punto da cui si sparò quota 940

circa il Pelavet presenta un crinale costituito da roccioni a picco, informò i suoi superiori di aver

identificato, mediante il rinvenimento di: n. 4 caricatori per fucile mitragliatore Breda mod. 30; n. 13

caricatori da sei completi di bossoli esplosi mod. 91; n. 51 bossoli esplosi mod. 91; n. 27 bossoli esplosi per

moschetto automatico americano; n.1 cartuccia a pallottola mod. 91; n.1 cartuccia per moschetto

automatico americano; n. 2 ginocchiere di pelle di pecora; le seguenti postazioni: 1. una difucile o

moschetto mod. 91 sul primo roccione, in cima, e in posizione dominante; 2. unaltra di fucile o moschetto

mod. 91 ai piedi della postazione predetta, in un piccolo avvallamento; 3. una di fucile mitragliatore Bredamod. 30 ed altra di moschetto automatico americano, subito dopo, verso lalto, a ridosso di un grosso

roccione, in una piccola insenatura; 4. una di fucile o moschetto mod. 91 ancora più in alto e sempre più a

destra; 5. due di moschetto o fucile mod. 91 dietro le prime rocce basse (D, 66)

A sua volta, con relazione 8 maggio 1947, il Commissario di PS Frascolla riferendo sulla ispezione compiuta

la mattina del giorno precedente, espose gli stessi dati indicati dal s. ten. Ragusa, dal quale, come poi

risulterà in dibattimento (V/3°, 408 r), si fece accompagnare sul luogo. Egli non si arrampicò fin su i roccioni,

ma chiarì, tuttavia, nel suo rapporto, che le postazioni sopra indicate sotto i numeri 1 e 3 erano site rispetti-

vamente sul primo roccione partendo da sinistra e nella piccola insenatura verso la destra di chi guarda

la Pizzuta; confermò che lubicazione della postazione sopra indicata al numero 4 era sempre a destra

dellosservatore ed aggiunse che in tale insenatura furono trovati due mozziconi spenti di sigarette

americane e della paglia messa là probabilmente per maggiore comodità del tiratore (A, 78).

Dal verbale di rinvenimento e di sequestro delle cose suddette, sottoscritto dal magg. Angrisani e recante la

data del 14 maggio 1947 (A, 33), risultano repertati e consegnati allAutorità giudiziaria bossoli in numero

maggiore di quello desumibile dalle predette relazioni, precisamente: n. 78 bossoli esplosi cal. 6,05 in 13

caricatori mod. 91; n. 128 bossoli esplosi cal. 6,05; n. 1 cartuccia a pallottola inesplosa cal. 6,05; n. 52

bossoli esplosi per moschetto automatico americano; n. 1 cartuccia inesplosa a pallottola per la stessa

arma; n. 81 bossoli esplosi per mitra Beretta; n. 1 bossolo per fucile inglese (come poi mise in evidenza la

perizia G, 383 non tedesco, come fu erroneamente indicato nel verbale); cioè una differenza in più di n.

24 bossoli esplosi per moschetto automatico americano e tutti i bossoli per mitra Beretta che nelle citate

relazioni Ragusa e Frascolla non sono menzionati.

Ma è da notare che neanche questi reperti rispecchiano la realtà dei rinvenimenti, che furono di gran lungamaggiori.

Fin dalla sua deposizione istruttoria del 12 maggio 1947 il s. ten. Ragusa chiarì che il numero dei colpi

sparati doveva essere ben più alto di quanto non risultasse dalla sua relazione avendo altri prima di lui

raccolto dei bossoli nella parte bassa del Pelavet (D, 64); ed in seguito, cioè nel dibattimento, preciserà: che 

i dati esposti da lui si riferivano ai rilievi del 2 maggio (V/3, 358 r); che nella relazione scritta aveva omesso

di menzionare altre sei postazioni rinvenute più in basso (V/3429); che le postazioni, intendendo per

postazioni lesistenza di un certo numero di bossoli raccolti in un breve spazio, erano undici e si

succedevano ad una distanza di circa cinque metri luna dallaltra, onde lo spiegamento dei malfattori si era

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esteso per una lunghezza di circa cinquantacinque metri (V/3, 409); che, a suo avviso, il numero dei bossoli

rinvenuti era di ottocento e più (V/3, 357 r).

Invero di circa ottocento bossoli, raccolti con il suo concorso durante il pomeriggio del 1° maggio sul

costone della Pizzuta, o, comunque, di un numero rilevante di essi, dirà poi anche il carabiniere Salerno

(V/6, 775); e secondo il m.llo Parrino tutti i bossoli rinvenuti dovrebbero ascendere a circa un migliaio senza

per altro esaurire tutti quelli esplosi, ché alcuni, essendo caduti nei crepacci della montagna, probabilmentenon furono trovati (V/3, 382).

Adunque è manifesto che, purtroppo, da parte di coloro cui incombeva lonere della conservazione di tali

reperti non si ebbe la percezione della importanza di essi, come appare anche dalla data di formazione del

verbale di sequestro, e non si pose la dovuta cautela nella loro custodia; molti, moltissimi bossoli rimasero

presso i vari Nuclei e Stazioni dellArma e andarono indubbiamente dispersi; onde quelli in giudiziale

sequestro, lungi dallo indicare il numero dei colpi esplosi, valgono insieme con i caricatori a stabilire

soltanto che nella consumazione del reato furono impiegate armi ad essi corrispondenti.

Al reperto dei bossoli esplosi e delle cartucce inesplose deve aggiungersi, per completezza di indagine,

quello di quattro proiettili, uno cal. 6,05, gli altri cal. 9, dei quali tre furono estratti dai feriti ed uno fu

rinvenuto intriso di sangue per terra sul luogo delleccidio (A, 77; G, 383).

A quanto osservato dai giudici occorre aggiungere per completezza di analisi che nulla si è mai saputo sulle

postazioni di tiro dislocate in altri punti circostanti il pianoro di Portella, dai quali non pochi testimoni

ebbero a dichiarare di avere sentito provenire gli spari. In questo caso furono completamente omesse le

ricognizioni. Fatto assolutamente inspiegabile a fronte della constatazione che solo con gli interrogatori dei

quattro cacciatori del 27-29 maggio di quellanno, gli organi inquirenti ebbero la certezza della

partecipazione della banda Giuliano alla strage. Tanto più che questa si era svolta in un territorio che non

era mai stato di abituale dimora dei banditi e che le loro tecniche di assalto in epoca separatista avrebbero

potuto essere modulate da soggetti che ben conoscevano alcune tecniche operative degli attentati

terroristici. Va altresì sottolineato che non risultano effettuate le autopsie sui corpi dei caduti a Portella

come attestato oggi anche dai familiari delle vittime- e che le sole perizie necroscopiche disposte, non

erano di per sé sufficienti a dare esaurienti risposte né sullinclinazione dei tiri né sui punti dai quali fuaperto il fuoco, né tanto meno sullintera dinamica della strage. Se cè dunque da chiedersi il motivo di

certe omissioni da parte del fronte istituzionale è anche facile argomentare che allinterno di questo

operavano forze complementari ai gruppi eversivi e che lintera vicenda trovava agevole soluzione formale

grazie allinsostituibile presenza della banda Giuliano. Se questa non ci fosse stata se ne sarebbe dovuta

inventare unaltra disponibile, per vie più o meno indotte, ad essere presente quella mattina di festa e di

tragedia, sui roccioni del Pelavet.

- Sul carattere eversivo della strage non ci sono dubbi. Lazione fu infatti immediatamente rivendicata con

una lettera anonima dattiloscritta attribuibile al Fronte antibolscevico, ma sottoscritta con la frase Chi

ripudia la dittatura e lotta per la libertà. Lo stile non è affatto quello di Giuliano, e del resto non cè traccia

alcuna di tale riferimento.

AllAlto Commissario per la Sicilia

Ai Comandanti: La Legione dei CC.RR. e la Questura

e perché lo pubblichino nei loro quotidiani:

Giornale di Sicilia, Sicilia del Popolo, La Voce della Sicilia, La Regione, LOra-

Palermo

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In tutti i quotidiani dellIsola variamente commentato è stato il cosidetto eccidio di Portella della

Ginestra. Hanno voluto in ogni modo naturalmente per fare cosa gradita ai compagni drammatizzare su

ciò che credevano avesse dovuto essere scritto nei Brevi di nera di ogni giornale esclusivamente come un

episodio semplice. Invece è stata data grande importanza a questo avvenimento. Ed è quello che noi

speravamo. Intendiamo mettere in evidenza un fatto di capitale interesse.

E cioè che: in ogni periodo elettorale la Sicilia ha mostrato una grande maturità politica tale da permettereche tutto si svolgesse con la calma più assoluta e lordine più perfetto. A fede di ciò parla chiaro lultimo

periodo pre-elettorale.

Non si poteva però restare indifferenti davanti allavanzare diabolico della canea rossa la quale allettando

con insostenibili e stolte promesse i falsi lavoratori, poiché non sono lavoratori i venditori di fumo, i

vagabondi, canea rossa che ha sfruttato e si è servita del suffragio dato da questo tipo di lavoratori per fare

della Sicilia un piccolo congegno da servire al funzionamento della grande macchina sovietica.

La nostra protesta dunque suoni monito a coloro che oggi tanto si stanno interessando della questione

dei compagni caduti poiché se la nostra prima azione si è limitata a così poco, continuando questi

rastrellamenti e queste misure restrittive si potrebbe degenerare in cose peggiori a danno evidentemente

di coloro, che prese alcune posizioni, non vogliono ravvedersi.

Ci hanno segnalato già i nomi coi rispettivi domicili, di tutte le autorità che stanno attivamente

conducendo questa inchiesta sicuri come siamo che non approderanno a nessun risultato positivo e che

povera gente gemerà stoltamente, come sempre, in carcere.

Trattandosi di una questione a sfondo prettamente politico consigliamo alla polizia di restare apatica e

assente da questa lotta, poiché diversamente, con nostro grande dolore, saremo costretti ad usare le armi

anche contro di essa polizia.

Se hanno da vendicarsi vengano i compagni comunisti, con il loro sangue si tingerà di rosso lazzurro del

mare, non mai le candide coscienze del popolo siciliano.

CHI RIPUDIA LA DITTATURA E LOTTA PER LA LIBERTA!!!!!

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Giuliano disse: 'I picciotti' non sanno nulla. Aveva ragione

La lettera non fu tenuta in alcun conto dai giudici romani, pur essendosi riferiti ad essa per una sorta di

doverosa citazione di cronaca (pp. 38-39). Tuttavia si tratta di un documento nodale. Per tre ragioni. La

prima: rappresenta lenunciazione teorica esatta del ricorso alla strage come espediente di lotta politica; la

seconda: traspare chiaramente la dottrina del Fronte antibolscevico. Si trattava nei fatti di bloccare la

rottura degli argini imposti dal trattato di Yalta (1945) e di evitare che nellEuropa consegnata allegemoniastatunitense insorgessero tendenze di segno opposto. La vittoria del Blocco del popolo del 20 aprile 47 in

Sicilia si muoveva in questo senso, ed era abbastanza evidente che se una regione tutto sommato

abbastanza conservatrice andava a sinistra a maggior ragione in questa direzione si sarebbe spostato

lintero Paese. E questo era un dato che nella prospettiva delle elezioni politiche del 48 doveva essere

tenuto presente. Il risultato di quelle elezioni segnò il punto invalicabile, il limite massimo di sopportazione,

lungo il processo riformistico che aveva visto imponenti manifestazioni contadine allattacco del feudo. I

gruppi eversivi si resero interpreti delle ansie provocate dalla paura di un imminente pericolo di

sovietizzazione delleconomia e della politica, e mostrarono i muscoli.

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La terza ragione sta nel fatto che i materiali estensori del documento, presi forse dalleuforia del notevole

successo riscosso dalla loro azione (ne parlarono i giornali di tutto il mondo), sottovalutarono lerrore di

non attribuire direttamente a Giuliano la strage, lasciando trasparire chiaramente la presenza di una

componente eversiva che non poteva essere lasciata allo scoperto. Gli apparati di forza e di sistema, al

contrario, erano interessati a rintracciare immediatamente una copertura ragionevole, quanto meno nella

direzione indicata già allindomani della strage, dallo stesso ministro dellInterno. E legittima, pertanto,

lipotesi che le stragi del successivo 22 giugno, siano servite oltre che a proseguire la manovra eversiva arimediare allinconveniente. A Carini e Partinico, infatti, subito dopo gli attentati furono rinvenuti a terra

dei volantini con i quali Giuliano si attribuiva la responsabilità dei fatti. Ma anche questa volta non pochi

dubbi dovevano essere nutriti sullautenticità del documento. Il volantino, riportato nella prima pagina del

Giornale di Sicilia del 24 giugno fu composto in qualche tipografia, ma la firma di S. Giuliano è

dattilografata, come pure il luogo dove egli dava convegno ai volontari che volevano intraprendere la lotta

armata contro i comunisti. Ora non si capiscono le ragioni di segretezza che impedivano di svelare, prima

ancora che gli assalti del 22 giugno fossero messi in opera, il luogo delladunata e il nome del firmatario

dellappello che chiaramente furono aggiunti dopo che il volantino di rivendicazione fu ultimato in

tipografia. Perché non si fa riferimento agli attentati di quel giorno ma a una chiamata alle armi, a una sorta

di reclutamento di massa, per dare a quella lotta sviluppo e organizzazione. Ma era possibile che si

indicasse pubblicamente il luogo dove quelle intenzioni si dovevano realizzare? E immaginabile che lintera

opinione pubblica non si chiedesse cosa ci stessero a fare le forze dellordine? E ancora dobbligo chiedersi:  se il nome di Giuliano e il luogo del reclutamento vennero aggiunti a stampatello prima delleccidio, e

forse nella stessa giornata del 22 giugno, quale motivo aveva impedito che questo fosse fatto prima? Si

temevano forse le delazioni del tipografo? Ma queste non avrebbero comunque potuto verificarsi quando il

documento sarebbe diventato di dominio pubblico? Si temeva che la nuova strage fosse sventata in tempo

o si dovette fare non poca fatica a far accettare a Giuliano che solo come nuovo capo militare poteva

farsela franca? Il volantino certamente non fu scritto da Giuliano. Esso in realtà concilia la mai tramontata

velleità di Giuliano di essere un capo militare, con linteresse che aveva il F.A. a diffondere il terrorismo

anticomunista al quale il banditismo ben si prestava. A tal punto che non era stato difficile persuadere

Giuliano a recarsi il 1° maggio a Portella, con la nuova investitura di capo di un esercito. E quello che il

bandito intima ai cacciatori presi sotto sequestro: andate e dite che a sparare eravamo in cinquecento -.

Non stranizza affatto dunque che il volantino di cui abbiamo parlato, e che qui sotto riportiamo, sia stato

scritto dalle stesse persone che erano intervenute per rivendicare la strage del 1° maggio (se la nostra

prima azione si è limitata a così poco). Ma da questa data al 22 giugno esse avevano trovato il modo di

persuadere Giuliano a farsi carico non solo degli aspetti militari dellaffaire (trattati e definiti certamente

già dal mese di aprile), ma anche della visibilità sociale e ufficiale che essi dovevano avere. Era abbastanza

evidente che Giuliano non agiva motu proprio. Il ritrovamento, allinterno dei locali del Fronte

antibolscevico di Palermo perquisiti allindomani del 22 giugno, del volantino di rivendicazione degli assalti

è pertanto unulteriore prova a sostegno della pista eversiva:

Siciliani

Lora decisiva è già scoccata!

Chi non vuole essere facile preda di quella canea di rossi che, dopo di averci infangato tradito e

turlupinato facendoci perdere ogni prestigio negli ambienti internazionali, cercano ora di distruggere

quanto di meglio ancora abbiamo e che ad ogni costo difenderemo, cioè lonore delle nostre famiglie e

quel nobile sentimento che ci lega alla nostra cara terra, che essi ipocritamente camuffati da

internazionalisti respingono e detestano, è necessario che oggi si decida.

Quegli uomini che vogliono ad ogni costo buttarci in grembo a quella terribile Russia dove la libertà è

una chimera e la democrazia una leggenda, e per i quali, noi che amiamo la nostra Sicilia, dobbiamo

sentire sdegno e ribrezzo, debbono essere senzaltro lottati.

Ed io ho assunto questo impegno.

Ma perché ciò riesca è indispensabile che tutti i cari fratelli Siciliani mi seguano per aprire un nuovo

ciclo di storia veramente fulgida e gloriosa che dovrà redimerci, rendendoci degni di questa nobile Sicula

terra che in ogni tempo ha dato prova di grande maturità democratica e di refrattarietà ad ogni forma di

dittatura.

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E tra tutte le dittature quella Russa è la più opprimente e schiacciante e perché questa non attecchisca

nella nostra isola dora innanzi inizierò una lotta senza quartiere contro i comunisti perché possa

scomparire dalla vita politica Siciliana questa canea che infanga il nostro nobile suolo dalle tradizioni

tanto gloriose, e perché non intendo, e di questo ne piglio formalmente impegno, che la nostra amata

terra diventi un misero ordigno della mastodontica [il corsivo nelloriginale è riportato in grassetto] 

macchina sovietica.

Di quella terribile macchina che ha annientato i nostri sessantamila fratelli prigionieri frantumandoli inquegli ingranaggi che si chiamano squallide ghiacciaie della Siberia, lebbra, e tifo, negando così a

sessantamila famiglie limmensa gioia di riabbracciare i propri cari che in terra straniera, come da vivi,

non avranno mai pace né una lacrima che inumidirà le loro tombe.

Ai superficiali annotatori della cronaca potrà sembrare strano che sia io a dare il via a questa grande

Crociata contro coloro che negano Dio e la famiglia annientando così lo stesso uomo rendendolo senza

vita e senza sensibilità.

Volutamente hanno voluto falsare la mia posizione descrivendomi in tutti i modi e tralasciando quello

che effettivamente dimostra la ragione per cui io lotto. Da circa quattro anni mi batto senza tregua per

la realizzazione di questo grande nobile e generoso sogno; e per rendere la Sicilia ricca fiorente e

prospera e farla tornare come prima il migliore Giardino dEuropa.

Per questo ho lottato e lotterò e non mi fermerò se non quando questo sogno non sarà realtà! Chi si

sente veramente Siciliano, degno di questo nome e vuole cooperarsi in questa grande battagliaantibolscevica, sappi che cè un feudo chiamato SAGANA dove ho posto il quartier generale.

Ad un secondo mio avviso che farò pervenire alla stessa maniera del presente sono certo che

accorrerete numerosi nel suddetto feudo.

Vi prego di venire forniti di documenti di riconoscimento e di stato di famiglia perché possano essere

sussidiate le vostre famiglie.

S.GIULIANO

Per la verità non risulta che nei quattro anni precedenti Giuliano avesse mai attaccato un esponente

della sinistra, o che egli avesse paventato il fantasma sovietico. Il suo occidentalismo, per quanto

rudimentale nella sua concezione, nasce nel 48. Prima egli era stato un separatista, attratto dalle

simpatie dimostrategli da qualche ufficiale delle truppe di occupazione, da esponenti di destra

(monarchici) e dellaristocrazia decaduta. Gli avevano fatto credere che si poteva fare della Sicilia la 49^

stella americana. Aveva così creduto ai separatisti che con Canepa avevano dimostrato che questo

movimento aveva una sua trasversalità. E Giuliano, pur professandosi monarchico, non laveva tradita.

Del resto tra i separatisti cerano persone di sinistra, ad esempio, Antonino Varvaro, lavvocato

partinicese che aveva fondato il Movimento separatista democratico repubblicano, che certamente non

era filoamericano. Varvaro lo aveva difeso nella causa per lassassinio del carabiniere Mancino, e i

Giuliano avevano ricambiato lattenzione sostenendolo nelle elezioni del 20 aprile 47. La lettura dei

risultati di queste consultazioni a Partinico non lascia spazio a dubbi e conferma il carattere eversivo non

solo della strage del 22 giugno, ma anche del 1° maggio precedente. Se il bandito avesse agito per una

qualche forma di ritorsione contro un patto non mantenuto da parte della sinistra (e cioè, secondo

quanto sostenuto da Pasquale Sciortino, perché la sinistra non fece confluire i voti sui separatisti) non si

spiegherebbe il motivo per cui in quel paese, dove il blocco del popolo aveva ottenuto qualche centinaio

di voti, mentre i liberali e gli indipendentisti di Varvaro avevano fatto il pieno, si sarebbe dovuto sparare

contro il PCI che praticamente rappresentava una presenza assai contenuta.

5. La testa di morto delle squadre dazione 

Il carattere eversivo e squadristico delle stragi fu ampiamente sottolineato dalla stampa nazionale, e

non solo da quella di sinistra. Dopo le stragi, i giornali parlarono di aggressioni fasciste. E in questo senso

si tennero in tutta Italia imponenti manifestazioni di massa contro il neofascismo. Del connubio

eversione/banditismo era una prova evidente il rinvenimento di quel volantino nei locali del covo di via

dellOrologio.

Per quanto la notizia fosse stata data da diversi organi di stampa, né la polizia giudiziaria prima, né la

magistratura dopo si presero la briga di accertare i nessi che legavano il nome del bandito allattività del

famigerato Jack Cipolla, capo del Fronte antibolscevico, nonché i finanziamenti ai quali questi attingeva.

La notizia del rinvenimento fu presentata nella prima pagina dell Avanti! (27 giugno 1947) come un

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colpo di scena e fu commentata in questi termini: Il nome del bandito serve a nascondere

lorganizzazione terroristica con la quale gli agrari sperano di ostacolare lascesa democratica del

socialismo tra le masse popolari. Il 26 giugno lUnità, con un articolo di prima pagina di Maurizio

Ferrara, riportava la notizia dello scioglimento del Fronte antibolscevico e dellarresto del Cipolla,

commentando che la polizia aveva trovato nella sede di quel covo uno scarso numero di armi in quanto

i frontisti erano stati messi sullavviso da qualcuno che aveva interesse a farlo. Del resto i gruppi

eversivi del Fronte non avevano perso tempo e avevano già assunto la denominazione di Fronte dAzioneItaliana. Cera da chiedersi: chi teneva le fila di tutta loperazione? Chi pilotava le indagini? E quanto

giovò nelle scelte giudiziarie successive lorientamento ad attribuire le stragi di maggio-giugno ad una

iniziativa legata tutto sommato solo alla reazione siciliana e al blocco agrario che la fomentava? Lucida

e premonitrice fu invece la lettura che dei fatti ebbe a fare Pietro Ingrao:

Nella notte degli attentati ebbe a scrivere- le vie di Palermo sono state tappezzate di manifestini che

portavano la firma di Giuliano e che dichiaravano la guerra al comunismo [] La manovra di

mascheratura è così maldestra da fissare senza equivoci il carattere della strage e le responsabilità dei

complici e favoreggiatori. Chi ha lanciato 20 ore prima la cortina fumogena intitolata a Giuliano

evidentemente doveva sapere qualcosa dei fatti che ci sarebbero stati quella notte. Chi ha organizzato la

puerile messa in scena dei manifestini a firma Giuliano ha fornito unaltra prova che i fatti siciliani di

domenica avevano dietro una organizzazione ampia e ramificata.

E concludeva:Attraverso la breccia siciliana si tenta di portare il colpo alla democrazia nel suo complesso: dietro le

salme dei lavoratori siciliani assassinati cè una minaccia per tutti gli italiani amanti della libertà,

comunisti e repubblicani, socialisti e democratici cristiani. Linteresse della nazione e della democrazia

vuole che loffensiva fascista in Sicilia sia stroncata in modo esemplare e decisivo.

Li Causi ebbe più direttamente a riferirsi alle responsabilità dellispettore generale di polizia Ettore

Messana e alla volontà delle istituzioni di non andare a fondo nella vicenda:

Si dovrebbe concludere scriveva- che lesistenza del bandito Giuliano è preziosa per il

commendator Messana e per le forze politiche a cui egli obbedisce, forze che hanno esponenti altissimi

in certi ambienti politici e basi nelle correnti più decisamente retrive del blocco agrario. [...] Intanto -

continuava- è per lo meno strano notare come, dopo lo scioglimento del Fronte antibolscevico,

nessuna concreta azione sia stata intrapresa per identificare lorganizzazione neofascista, per stabilire i

vincoli di cui siamo assolutamente certi- che legano neofascismo e banditismo sotto la direzione di una

unica guida, quella appunto del blocco agrario.

Probabilmente la guida era diversa e quel blocco agrario era una delle componenti essenziali di un

fronte più vasto, nel clima favorevole che aveva consentito che le stragi fossero attuate e restassero

impunite. Cè un ulteriore dato che riguarda Portella.

- Alberto Borruso, contadino, 19 anni, il primo maggio ha lincarico di trasportare sul suo carro 200

razioni di pane, vino e carciofi per i suoi compagni poveri che avrebbero partecipato alla festa. Giunto

sul pianoro, spinge il suo carro un po più al di sopra del podio, stacca il mulo e, attaccando alle aste del

mezzo spaiato una bandiera rossa da un lato e la bandiera italiana dallaltro, per segnalare a tutti il

punto di spaccio delle cibarie, in attesa del comizio se ne va a mietere un po derba, verso il costone

della Pizzuta. Sente i primi colpi, avverte il pericolo, vede un individuo che spara sulla folla e come

questi si sposta da un masso allaltro, lo riconosce per Benedetto Grigoli, inteso Troia perché parente

della famiglia Troia, da San Giuseppe Jato. Abita dice Alberto- nella via Anime Sante, nei pressi della

caserma dei carabinieri. Egli è un giovane di circa trentacinque anni, alto di statura quasi quanto me, che

sono piuttosto lungo, snello, di colorito bruno, capelli scuri. Fa il mestiere di firaru, come diciamo noi in

siciliano, cioè il mestiere di colui che compra e rivende animali nelle fiere. Indossava un vestito comune e

distava circa cento metri da me. Il Borruso sottolinea il vicequestore- precisa di averlo riconosciuto

nettamente, in modo inequivocabile, armato di un fucile mitra col quale sparava continue raffiche. Una

lo prende di striscio. Fa appena in tempo a raggiungere lo zio, Pietro Tresca:  Zio Pietro  gli dice- morto

sono, mi hanno sparato. E così mostra la punta di una scarpa scalfita da un proiettile. E un testimone

chiave. Nota che gli assassini hanno una bandiera nera che tengono sollevata su una pietra, come un

segnale di morte per la popolazione, nonchè un uomo a cavallo di una giumenta che guarda la

popolazione; forse di vedetta. Nei giorni successivi alla strage, lo portano a Palermo in automobile

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dietro invito di unautorità. E di lui non si hanno più notizie. E la madre, Giuseppa Bono, che denuncia

il fatto, il 3 giugno di quello stesso anno davanti al giudice istruttore. E in assenza del figlio è lei a

parlare. Si era recata a Portella con la sua numerosa famiglia; un suo figlio aveva preferito andare nel

vicino lago a giocare in compagnia di vicini di casa; lei, col marito e Alberto, era andata sui campi, a

monte del podio. Seguiva con lo sguardo il figlio che era andato ancora più in alto. Alle prime raffiche lo

vede gettarsi per terra e nascondersi dietro un sasso, poi, cessati gli spari, lo cerca disperatamente, lo

incontra e sente pronunciare il nome di un assassino. Di fronte al giudice non ha reticenze. Anzi loavverte che tutti i testi che si presentano spontaneamente per deporre a favore degli imputati sono

tutti falsi. Aveva torto. Per i giudici furono dichiarate false tutte le testimonianze che deponevano

contro i mafiosi locali.

6.Le delusioni di Giuliano, loccidentalismo e il Patto atlantico 

A legittimare lipotesi che anche in Sicilia, terra di confine strategicamente significativa, potessero

esistere diramazioni di organizzazioni occulte analoghe a quella che si definiva Osoppo, depongono

alcune necessità logiche. Se i gruppi che costituivano questa brigata erano formati da partigiani

democristiani rimasti organizzati per combattere il comunismo dopo la caduta del fascismo con lintento

dichiarato della guerra non ortodossa, non minore era la paura del vento del nord che si avvertiva in

Sicilia e per una serie di ragioni. Nellimmediato dopoguerra, si erano sviluppate in Italia diverse

organizzazioni parallele, come lAssociazione partigiani cristiani diretta da Pietro Cattaneo, altrimenti

definita Movimento avanguardia cattolica italiana (Maci) attivo fino alla fine degli anni 40. E del 27febbraio 1948 una lettera rinvenuta tra gli incartamenti del Cattaneo, nella quale si fa riferimento a

contatti molto stretti che i gruppi cattolici mantenevano con i servizi segreti e lArma dei Carabinieri.

Qui importa rilevare non solo la presenza di alcuni ex partigiani nella banda Giuliano (Sciortino e

Pisciotta), o nellarea che in qualche modo la controllava (anche Cusumano Geloso aveva fatto la

resistenza) ma che sullintera realtà eversiva della Sicilia, di cui il separatismo era stato il grande

denominatore comune, poterono agire strutture parallele a vario titolo connesse con lesperienza della

guerra partigiana. Del resto poco chiarita risulta ancora oggi la funzione assolta da alcuni giovani

settentrionali (Celestini, Forniz, Trucco) che prima di raggiungere le montagne monteleprine, trovano

uno snodo, sembra occasionale, nella sezione dellANPI di Partinico. Si scoprirà poi che erano degli

infiltrati che riferiranno tutto ai carabinieri.

Scrive De Lutiis a proposito dellArmata italiana della libertà (Ail), diretta dal colonnello Musco:

Sullattività del Musco non esistono notizie certe; si sa solo che nellottobre del 1947 egli deposita

presso lambasciata statunitense a Roma un promemoria riservato contenente lelenco dei membri

principali del comitato centrale dellAil: sono 35 nomi, fra i quali figurano dieci generali e quattro

ammiragli. Alcuni mesi prima, il reverendo Frank Gigliotti, alto dignitario della massoneria californiana e

fiduciario dei servizi di controspionaggio statunitensi, aveva detto a Walter Dowling, membro della

divisione affari europei del dipartimento di Stato: Ci sono in Italia 50 generali che si stanno

organizzando per un colpo di Stato. Sono tutti anticomunisti e sono pronti a tutto [...] Siamo continua

De Lutiis- nel periodo tra il 1947 e il 1948. Vedremo successivamente che in quegli stessi mesi, al

ministero dellInterno, Mario Scelba e il generale Pièche avevano predisposto una rete di prefetti

ombra regionali che, in caso di necessità, avrebbero destituito i prefetti legali assumendo tutti i poteri

nelle rispettive regioni di competenza.

Frank Gigliotti era stato agente della sezione italiana dellOss (Office of Strategic Service) dal 1941 al

1945 e poi agente della Cia. Egli fu nel 1947 lartefice del primo riconoscimento del Grande Oriente

dItalia di Palazzo Giustiniani, la casa-madre della loggia P2, da parte della prestigiosa circoscrizione del

Nord della massoneria degli Stati Uniti. In quellanno, durante un incontro avuto con Giuseppe Saragat,

in visita a Washington, gli disse di avere incontrato il bandito Giuliano e di condividere luso

dellillegalità e della violenza impiegate da Giuliano contro i comunisti.

Giuseppe Pièche, generale dei carabinieri, ex capo del controspionaggio del Sim, e già collaboratore

dellOvra, ebbe assegnata la carica di direttore generale della Protezione civile e dei servizi antincendio

del ministero dellInterno, col primo governo De Gasperi, nel 1946. Egli ebbe una parte non secondaria

nella costruzione di uffici di intelligence al ministero dellInterno dopo lo scioglimento della polizia

segreta fascista e il trapasso di regime. E dobbligo chiedersi: quale fu sotto legemonia dei governi

democristiani la principale preoccupazione del ministero dellInterno? Quali furono gli effetti

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dellanticomunismo, assunto dal terzo al quarto governo De Gasperi, come elemento di fondo

dellazione dello Stato? Quali furono i presupposti della futura Gladio? Quanto e come agirono le forze

dellordine come elementi di un blocco antidemocratico? Dalla strage di Palermo del 19 ottobre 44 a

quella di Portella del primo maggio sembra snodarsi un unico filo conduttore; luso cioè della forza

militare, più o meno direttamente impiegata, o del piombo della mafia per mantenere lordine

costituito, o per impedire che fossero varcate certe soglie di sicurezza al di là delle quali non era

consentito andare. Non lo consentiva il NSC già nel 47. A tale proposito scrive il Perrone:Quando si parla di mezzi per combattere il Pci, la direttiva del National Security Council (NSC) del

1947, riprodotta nella raccolta a stampa dei documenti diplomatici americani, reca una censura

segnalata da alcuni puntini. Tuttavia una ricerca in un archivio periferico, mi ha consentito di reperire

loriginale, integro, del documento fondamentale che tratta questo problema.

Nella raccolta a stampa si legge che, per combattere la propaganda comunista, non solo occorre

attuare un programma dinformazione, ma bisogna servirsi anche di tutti gli altri mezzi praticabili.

Mezzi praticabili, nello spirito del documento, deve significare concretamente realizzabili, e non

necessariamente legali.

Non sembri questa chiarisce lo studioso- una mia conclusione arbitraria. Essa deriva invece, dal

leggere che, fra i mezzi praticabili sinclude persino è questa la parte omessa nella raccolta a stampa

dei documenti diplomatici americani, e da me reperita negli archivi di Independence, Missouri- luso di

fondi non registrati (unvouchered funds), quelli che nel linguaggio corrente vengono indicati comefondi neri o sottobanco.

Qui occorre precisare che se il NSC viene istituito il 26 luglio 1947 come organo di coordinamento della

politica militare americana e dei servizi di intelligence (si tratta di un organismo direttamente presieduto

dal presidente degli Usa) non per questo in epoca precedente gli interessi di questo paese a frapporre

una barriera allinvadenza sovietica o a controllare lo sviluppo delle politiche degli Stati potevano

essere non sufficientemente presenti. Al contrario. Orientamenti e scelte erano assunti, per conto dei

rispettivi governi, dalle armate di occupazione o dai responsabili dellOffice of European Affairs di cui era

direttore H. Freeman Matthews. A coglierne la funzione basti pensare che lo stesso De Gasperi stando

a una conversazione tenuta il 16 maggio 1947 tra lambasciatore Tarchiani e Marshall- temeva il ritiro

delle truppe alleate prima delle elezioni del 48, in quanto a suo giudizio ciò non avrebbe giovato allo

sviluppo dellItalia:

unaporia, in un ragionamento che asseriva di impernearsi sulla democrazia, mentre negava agli

italiani la capacità di determinare i propri affari in assenza della tutela di eserciti stranieri. Nello stesso

tempo, un avvilente implorare e confidarsi con la potenza straniera, persino nelle più delicate questioni

concernenti la formazione del governo e lorientamento politico di carabinieri e polizia [...]

Nelleventualità di uninsurrezione comunista [...] soltanto i carabinieri venivano ritenuti una forza

affidabile sebbene dislocati per lo più in piccole località.

Guarda caso era la stessa posizione del NSC secondo il quale il Pci non avrebbe tentato di assumere il

controllo dellItalia finché le truppe americane e inglesi non fossero state ritirate alla data stabilita dal

trattato di pace (15 dicembre 1947). Ma a parte gli interessi Usa in Italia a trasformare alcuni gruppi

dellantifascismo in attiva organizzazione anticomunista dopo il 25 aprile del 45, resta il dato di una

azione autogena in questo senso. I soggetti che la promossero utilizzarono inizialmente il separatismo

come semplice espediente riuscendo a penetrare allinterno della stessa Arma dei carabinieri. A tale

proposito Giuseppe Calandra, nei suoi memoriali, riporta una lettera pervenutagli quando operava come

maresciallo presso la stazione di Montelepre:

Caro collega,

poggiati su gruppi di azione clandestina potentemente armati, sorretti ed alimentati dallazione del SS.

ufficiali del capoluogo e dello stesso Colonnello Comandante che ha preso contatti con i capi

dellorganizzazione clandestina è sorta a Palermo la nostra associazione che ha lo scopo di difendersi e

difendere la nazione dal pericolo rosso, il comunismo, le cui squadre di azione cominciano a farsi sentire

attraverso i recenti assalti alle nostre caserme. E necessario perché lazione risulti legale e non

sporadica che tutti si sia coalizzati e che nei grandi come nei piccoli centri si lavori intensamente per

sventare il pericolo ricorrendo in casi estremi anche ad azioni violente contro cose e persone.

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Da parte tua puoi stare pure tranquillo poiché seppure non ufficialmente per ovvie ragioni il nostro

comandante è con noi ed è pronto a darci tutto il suo appoggio se dovesse essere necessario.

Di questo appoggio tu non abuserai pensando che [se] dovessero privarci del nostro colonnello tutta

lorganizzazione andrebbe a monte con le reazioni che ti è facile immaginare da parte di chi gli

succederà.

Pertanto fai propaganda fra i tuoi dipendenti e fra giorni verrà costà il nostro incaricato che ti porrà a

contatto con il capo dellorganizzazione clandestina che opera nella tua giurisdizione daccordo col qualedovrai lavorare secondo le direttive che ti verranno date.

Fidiamo nella tua riservatezza e nellazione che saprai svolgere che non mancheremo di segnalare a chi

di competenza.

Il documento non datato ma che si può far risalire ai tempi dellEvis porta la sigla di una strana

Formazione Organica Reali Carabinieri Anticomunista (Forca) che il Calandra interpretò come un

tentativo degli amici di Giuliano di farlo cadere in disgrazia presso i suoi superiori. Ma gli autori e le

intenzioni della lettera erano ben diversi. Lo dimostrano parecchie circostanze: lo stile linguistico, ancora

una volta, non è quello di Giuliano; viene indicato un garante nella persona del colonnello comandante

dellArma; ci si riferisce a un contatto imminente che si sarebbe potuto facilmente riscontrare; si

lasciano intravedere collegamenti nazionali (difendere la nazione dal pericolo rosso); nel 45 si era

costituito il Fronte antibolscevico a Palermo; in quellepoca Giuliano non ebbe mai ad esprimere alcun

proposito di lotta contro il comunismo, ma da una dichiarazione di Antonino Terranova nel dibattimentodi Viterbo, si evince che Giuliano poteva essere in contatto col Fronte antibolscevico di Palermo già dal

febbraio del 47. Lo specialista dei sequestri di persona dichiarava: So che Giuliano qualche volta si

recava a Palermo ma non ricordo se nel febbraio 1947 andò nella sede del partito anticomunista. E più

avanti aggiungeva, a proposito dei manifestini antibolscevichi lanciati a Carini e Partinico, durante le

stragi del 22 giugno: Giuliano stesso mi disse che i manifestini gli erano stati portati pronti per essere

lanciati. Cacaova, come meglio era conosciuto il bandito, in sostanza ammetteva di non ricordare se in

quel mese il suo capo fosse andato nella sede di quel partito. Con ciò ammetteva che vi si era recato

prima o dopo, testimoniando un legame che certamente si era definito nel frangente delle stragi. Ma

che relazione cera tra il Fronte antibolscevico e quelli che lo stesso Terranova, seguendo laccusa fatta

da Pisciotta, indicava come mandanti delle stragi di maggio-giugno? Sul loro conto (il principe

Gianfranco Alliata di Montereale, lon.Tommaso Leone Marchesano, il deputato monarchico Giacomo

Cusumano Geloso e il democristiano Bernardo Mattarella) non si avviò mai a un percorso giudiziario che

portasse a qualche conclusione. Eppure lAlliata che aveva avuto nel 1945 unesperienza di prigionia in

Egitto e che troveremo poi iscritto in uno degli elenchi della P2- era stato pienamente smentito circa la

presunta infondatezza del memoriale datato 9 dicembre 1951 col quale Antonio Ramirez riferiva quanto

confidatogli dal deputato monarchico Gioacchino Barbera. Nello studio dellon. Ramirez si era tenuta

una riunione tra Li Causi, Barbera, Ramirez e Montalbano nella quale il deputato monarchico si

dichiarava minacciato di morte da parte di Luigi Marchesano. Questi gli avrebbe detto che se fosse

uscito qualcosa, per quel che concerneva i rapporti fra esponenti monarchici e la banda Giuliano, non

avrebbe potuto che essere [lui] a propagarla e quindi che stesse in guardia. E il Barbera, che lAlliata dà

come aderente alla Massoneria, aveva motivo di temere anche in ragione della recente rottura

operatasi, proprio nel 51, in seno al partito monarchico. Cera poi da chiedersi, rispetto a certe eredità

della lotta partigiana in senso anticomunista, quanto avesse pesato lesperienza dello Sciortino, o quella

poco conosciuta dello stesso Cusumano Geloso. Questi, stando sempre alle affermazioni dellAlliata,

aveva combattuto nella guerra di liberazione a Monte Marrone ed era stato un valoroso ufficiale dei

bersaglieri. Si sarebbe potuto partire anche da un nome fornito dallo stesso Cacaova quando aveva

affermato: Giovanni Provenzano conosce i nomi dei mandanti. Neanche il processo contro

Provenzano, Licari e Italiano approdò a nulla. Il procuratore generale presso la corte di appello di

Palermo il 22 gennaio 1954 avviò unistruttoria. Ma a distanza di sette anni i cacciatori che si riteneva

fossero stati posti sotto custodia del Licari durante la strage di Portella esposero la grave difficoltà e la

scarsa probabilità di potere identificare il bandito. Fu ordinato lo stralcio degli atti circa il reato di

partecipazione a banda armata del Licari, e gli altri furono assolti per insufficienza di prove.

Giuseppe Montalbano sperimentò per primo lesistenza di un muro di gomma. Nel luglio del 1947,

dopo la tragica fine di Ferreri e dei suoi uomini, aveva presentato una denunzia contro lispettore

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Messana per concorso con Ferreri Salvatore in tutti i delitti da costui commessi a far data dal 1946,

dallanno cioè in cui come presumeva laveva fatto suo confidente; e chiarì che la denunzia

contemplava anche la correità nella strage di Portella della Ginestra dato che il Ferreri aveva partecipato

allorganizzazione, preparazione ed esecuzione materiale di essa. La denunzia non fu trovata e si

adombrò il sospetto della soppressione del documento. Fu pertanto chiesta laudizione del Montalbano

e, cosa singolare, la corte di Viterbo alla quale era stata richiesta lunione agli atti della denunzia, ne

respinse listanza il 5 settembre 1951. Non migliore fortuna ebbe la successiva denunzia del 25 ottobredi quello stesso anno contro il Messana e i monarchici Alliata, Marchesano e Cusumano Geloso. Leffetto

fu solo una querela per calunnia degli interessati.

- Allinizio degli anni 70, dopo le insistenti accuse dello stesso Montalbano assunte agli atti della

Commissione antimafia si riuscì a smuovere qualcosa. Quanto meno ad avere la consapevolezza che

risultava impossibile andare al di sotto della superficie delle cose. Evidentemente, sotto il piano ufficiale

ve ne era un altro molto sommerso difficile da raggiungere proprio per il carattere sublegale che lo

connotava. Il pericolo rosso aveva cementato assieme gli interessi e le paure di molti: dai neofascisti ai

monarchici difensori del latifondo, dai democristiani collusi con la mafia agli apparati istituzionali

sostanzialmente ancora orientati al vecchio regime e pertanto fibrillanti sotto lincubo di una possibile

era socialista. Ecco perché è importante la testimonianza del Calandra.

Lautenticità del documento che egli ci fornisce e che potrebbe essere letto come atto interno

parallelo dellArma viene confermata da quanto succede in seguito. Ne parla lo stesso maresciallo.Questi -racconta- consegnò la lettera al tenente colonnello Lentini, un filoseparatista, che a sua volta

informò la brigata. Trascorso qualche tempo il maresciallo ricevette unaltra lettera con la stessa

intestazione. Era la prova evidente che il documento non poteva essere stato scritto da Giuliano. Il testo

recitava in questo modo:

Caro collega,

uno di noi tradendo la riservatezza ha inviato al nostro colonnello comandante la nostra precedente

circolare.

Il colonnello ha dovuto fare buon viso a cattivo giuoco e rispondere con una circolare che presto

riceverai sconfessando il nostro movimento.

Non impressionarti perché è una pura formalità e ve lo dimostra il fatto che prima della smentita

ufficiale vi perviene la presente.

Ripetiamo è una formalità a cui il nostro colonnello non poteva sottrarsi. Uniamoci compatti e

partiamo alla riscossa contro il comunismo oppressore. Viva i carabinieri. (Forca).

Questa volta il maresciallo distrusse la lettera e a distanza di tempo interrogandosi su quella

misteriosa organizzazione annotò: Ancora oggi non ho potuto chiarire a me stesso il significato di

quella lettera anonima.

- Che sullo sfondo delle spinte centriste si fosse venuta a determinare una convergenza di interessi tra

neofascismo e famiglie mafiose che in ogni caso sinergicamente pressavano da destra, è un fatto

storicamente documentabile. Sappiamo anche che le scelte della mafia furono poi definitivamente

orientate per la Dc. Ma la geografia politica del centro-destra non avrebbe trovato un motore collettivo

comune, una propria road holding senza il denominatore delloccidentalismo. Su questo si incontravano

o entravano in conflitto diversi soggetti politici, interessati in vario modo a sottrarre spazio alla sinistra e

a bloccarne il processo di sviluppo. La partita fu impostata sul piano visibile del gioco democratico e su

quello invisibile dei poteri occulti, per altro compatibili al loro interno per le logiche criminali che li

accomunavano. Criminali: giacché non potrà mai darsi per giustificato un delitto, né tanto meno una

strage, se si danno delle attenuanti alle motivazioni politiche che li determinano.

Che Giuliano fosse attraversato da quel denominatore è dimostrato dal suo atlantismo abbastanza

scoperto in una lettera autografa, scritta al suo amico giornalista del Corriere lombardo, Jacopo Rizza.

Siamo a oltre due anni dalle stragi del 47 e il bandito, imprendibile solo per le forze dellordine, è

convinto di essere un capo di governo. Così lo troviamo alle prese con Stalin e con Truman nonché con i

Paesi che gli aveva detto qualcuno - erano i più esposti in Europa al pericolo dellinfezione comunista:

la Francia e lItalia [nda: si noti che il periodare e lo stile sono ben diversi dai documenti sopra riportati].

Non immaginava però che i destinatari delle sue valutazioni non sapevano neanche che esistesse come

persona. Ma si sentiva ugualmente al centro del mondo, tradito da Scelba che non aveva voluto capirlo

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e dagli Usa che sbagliavano a suo avviso politica internazionale. Forse il bandito sperava ancora che

lanticomunismo lo salvasse. Almeno così gli avevano promesso.

In precedenza si era sentito un capo militare, ma adesso, dopo il fallimento del separatismo e della

lotta armata contro il comunismo egli si sente investito di un potere politico di altissimo livello. Viveva

fuori dal mondo. I giudici romani lo definirono un delinquente a orientamento paranoico e certamente

bastava una personalità forte, qualcuno che avesse potere, per dargli le illusioni di cui aveva bisogno [la

lettera è riportata con tutti gli errori del testo originale]: Caro Rizza,

Hai avuto un buon viaggio?

Stai bene? Lo augurio. Il poco tempo trascorso a sieme, non mi diede possibilità di concentrarmi bene

sul giudizio di alcune cose che desideravo esprimerti e pertanto riconoscendo che il mio dire ti fa

piacere, ti ho scritto per pregarti di parlare a lungo di quanto segue. Desidererei che tu scrivessi il

giudizio che io ho dato sulla politica generale e particolarmente su quella dellItalia, in questa maniera.

Cioè che una nuova guerra sarà inevitabile, sulla parte della russia perché cè la megalomania di partito

e di comando, sulla parte dellamerica, per la megalomania distocratica a causa che è una nazione ricca,

e preferisce la libertà democratica e quindi ne sarà la difentrice.

Critico Stalin che crede pienamente che il mondo ha bisogno della sua ideologia mentre ignora o fa

finta di ignorare che non tutti la possono pensare come lui, e che in effetto non tutti i paesi hanno

bisogno della sua ideologia, e non in tutti i popoli si potrebbe adottare. Lo odio che per raggiungere lasua meta addopera metodi ingannatrici verso il popolo facendorgli credere il paradiso, mentre in effetto

rimarranno sempre schiavi come sempre lo sono stati, asserviti al suo idealismo.

Dalla parte della america critico fortemente il presidente Truman perché con la sua politica ha reso

ridicolo lui e il suo popolo mentre questultimo non lo merita, in quanto Truman ha fatto la parte del

leone solo quando sapeva che il suo rivale non era in grado di poterlo affrontare.

Cioè quando sapeva che la russia non possedeva la bomba atomica faceva la voce grossa, e non volle

acconsentire nel modo assoluto alla richiesta che gli fece Molotof del controllo atomico, quando seppe

che anche la russia possedeva latomica.

Io naturalmente non so i segreti degli ambienti politici; ma quanto appare, e chiaro che Truman con

queste dichiarazione, ha voluto inviare il suo popolo nella via della rassegnazione scaricandosi così una

certa responsabilità di fronte al suo popolo, in caso di una guerra, e con il lanciare subito la nota del

controllo atomico a voluto fare credere che lui cerca la pace. A suo parere la sua politica non è male, ma

è certo pero che molti hanno finito per criticarlo, in quanto per chi lo comprende, il controllo atomico è

una cosa molto ridicolo, perché per quanto si atua non è altro che un controllo di carta, a causa che sia

la russia che lamerica non sono una casa o un palazzo che facilmente si può controllare, ma sono dei

vastissimi territori che se si vuole si possono nascondere altro che bombe atomiche. Chi lo afferma che

sia di una parte che dellaltra, non si riservano un certo numero di bombe per qualsiasi eventualità? e

ben chiaro che basterebero 10 o 20 bombe per distrugere parte dellamerica che della russia.

Per me Truman ha perduto la corsa perché sono certo che buon parte del popolo americano lo ha già

definito ridicolo come lho definito io. Il patto atlantico e la politica italiana. Sulla parte dellamerica il patto

atlantico è stata, secondo il mio giudizio, una ottima idea, però gli americani non hanno saputo qualificare

la situazione dei loro allieati e questa è la causa di qualche colpo di pugnale che loro stessi si preparano

nelleventualità di una guerra. Secondo il mio modo di vedere sia lItalia che la Francia, non li avrei

abandonati, ma neanche li avrei acluso in patto così importante, a causa che la posizione Italiana che

Francese è molto critica a causa che metà del popolo è comunista e questo è una cosa molto grave per gli

americani, perché se guerra succederà di sicuro questi due ne diverranno un campo di tradimento o un

campo di lotta fratricida. Gli uomini del governo Italiano daltra parte sono ubriachi o megalomatici di

grandezza di intelligenza, credono pienamente che con la loro alleanza possano portare lItalia alla salvezza,

non per quanto sono i miei nemici, lo augurio di ragiungere la meta, ma sono certo però che con questa sua

qualità di clericalismo presto o tardi porteranno lItalia alla rovina e lor finiranno assieme con quel chiamato

santo del Vaticano, tutti impiccati o fucilati alla schiena, e pensino bene questi signori se la caveranno a fin

quanto le cose trascinano così, ma se guerra succede il mio sogno diventa di sicuro realtà.

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LItalia non può sperare nellavvenire, perché non è un manganello di un Scelba che può spegnere

tutte le fiamelli che oggi stanno sempre pronti e si preparano sempre più per accendere il fuoco, solo

con la concordia e la comprensione di tutti si potrebbe ragiungere alla meta, meta che di sicuro non si

giungerà mai a fino a quando gli Italiani non abandonano queste sporche ideologie più degli altri di

questi falsi profeti sporchi pretacchi, che avidi di comando assoluto si hanno venduto Dio facendone

della fede, una vera dittatura materialistica, quale ragione vi era formare un partito chiamato

democrazia cristiana se tutto il mondo europeo e latino abbiamo tutti una fede? Poveri preti speravatedi più ma fra non molto non avranno neanche quello che possedono ora che hanno svelato il segreto

della turlupinazione di tutte le credenze divine, potranno cercare di rassegnarsi perché il tramonto del

suo partito di politica divina gia è imminente, io credo ad una divinità che non so chi sia, ma oggi pur

quelli che pienamente credevano in Dio non credono neanche questi, è il nemico suo non stato ed è il

comunismo come loro decantano ma sono stati loro stessi che si sono corrotti nella più spietata

concubinazione materiale e morale.

Non lo augurio, ma oggi non credo che una Italia si possa risolvere dallo schiavismo, e da un sfacelo

completo, lo crederei solamente se dalla faccia dellItalia scomparirebbe il comunismo e il clericalismo e

si costituisse un governo misto di liberali e social democratici ma che sia un governo o uomini autonomi

da ogni ideologia e che addopererebbero una legge nel vero senso sociale. Solo così mi potrei

convincere di una pace e prosperità duratura.

Caro Rizza come vede non ho usato tanta polizia nello scrivere perché tu di quanto ho scritto non haiche trarni la sostanza del pensiero, pertanto di prego di cercare di interpretarlo proprio con quel senso

con cui è scritto, credo che non mancherà a te. Caramente assieme ai tuoi amici ti saluto.

Giuliano

Come il lettore può constatare traspaiono chiaramente due atteggiamenti, essendo scontato quello

contro lUrss: lanticlericalismo e la critica contro Truman. I motivi del rancore contro Scelba si possono

intuire: molti si erano rivolti al bandito promettendogli di intervenire presso il ministro per la soluzione

dei suoi problemi. Tranne le promesse non aveva cavato un ragno dal buco. Ma perché il bandito ce

laveva anche contro certi ambienti curiali, gli sporchi pretacchi, e contro gli Stati Uniti? Che gli

avevano fatto credere? E quale ruolo aveva svolto quel frate Giuseppe Cornelio Biondi di cui doveva poi

parlare Pisciotta prima di essere ammazzato? Chi è costui? La curiosità spinse larcivescovo di MonrealeErnesto Filippi, che certamente non nutriva antipatie per il regime fascista, a chiedere informazioni

riservate al patriarca di Venezia Carlo Agostini. Questi si limitò a fornire un succinto curriculum:

Durante la guerra (cioè per alcuni mesi nel periodo dellinvasione tedesca) a Padova, dove io ero

Vescovo, rese servigi preziosi. Portato dallentusiasmo di fare del bene, passò le linee, ma quando stava

per rientrare, fu posto dagli Inglesi in campo di concentramento. Dopo guerra fu implicato in una grossa

questione di mercato nero e fu per parecchi mesi in carcere.

I suoi superiori lo sospesero, credo perché invitato a rientrare in monastero, non lo fece.

Per quanto riguarda il celibato non credo si possa rimproverargli nulla. Lanimo è buono, generoso. Si

tratta di uno spostato.

Più dettagliate erano invece le informazioni che il Filippi raccoglieva dallabate del monastero di S.

Giustino di Padova, Timoteo Campi:

In riscontro alla preg.ma di V.E. posso dire in via assolutamente riservata - che il P. Cornelio Biondi,

da circa due anni ha lasciato questo monastero e [è stato] rimandato al suo di Parma.

Quando circa sei anni or sono, fui eletto abate di S. Giustino, lo trovai qui come economo della casa.

Durante il periodo di cospirazione lavorò molto specialmente a Padova, liberando dalla fucilazione e

dalla fame migliaia di famiglie. E devo dire che, tranne quel brutto spirito di strafare, lavorò bene ed

ebbe molti attestati di riconoscenza.

Son circa due anni: i Superiori gli hanno intimato di tralasciare qualsiasi attività e di rientrare nel

proprio monastero di Parma. Di fatto non è mai rientrato perché così ha detto ai Superiori ha dei

grossi impegni e debiti da pagare. Dopo ripetuti inviti e minacce da circa un anno e mezzo è sotto le

Censure.

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Avendo continuato a trafficare dicono i Superiori o a far del bene come egli dice nei primi di

questo mese [ottobre 1949], la spada di Damocle a lungo pendente gli è caduta sul capo troncandogli la

vita. E stato espulso dallordine benedettino con lobbligo di deporre labito, col permesso benevolo di

potersi cercare un Vescovo che potrà scioglierlo dalle Censure quando egli avrà abbandonato il traffico.

So che ha accettato e firmato il Decreto di espulsione. Da quanto sopra, V.E. vede chiaro se egli

appartiene ora alla nostra Badia. Da due anni in qua lavrò visto un paio di volte e solo per dirgli di non

mettere più piede a S. Giustino e di troncare ogni relazione diretta o indiretta con i miei monaci.Se V.E. crederà bene di aiutarlo, mettendolo a prova con attenta vigilanza, mentre farà unopera

squisita di carità, avrà a propria disposizione un uomo generoso, di sacrificio fino alleroismo, abilissimo

nel trattare con le Autorità e nel disbrigare le pratiche.

La prego vivamente del massimo segreto di quanto ho detto, di voler leggere nel fondo della verità i

miei sensi di gratitudine verso un monaco al quale voglio sempre bene per quello che ha fatto per noi

con gravi sacrifici.

Di fronte a quel personaggio oscuro e multiforme, Filippi dovette avere qualche intuizione particolare.

Volle acquisire informazioni a tutti i livelli e si rivolse anche alle alte sfere politiche e persino al

segretario particolare di Alcide De Gasperi. Da questi non si poteva certo aspettare una rivelazione sui

misteriosi uffici che aveva intrapreso o ai quali poteva essere stato destinato quel monaco spostato. Il

segretario della Presidenza del Consiglio dei ministri, Francesco Bartolotta, gli rispose con un

telegramma del 31 ottobre di quellanno:Presidente on. De Gasperi ignora completamente persona di cui a Sua lettera 27 corrente et non habet

affidato ad alcuno mandato personale alt

Devoti ossequi.

Può darsi che il capo del governo ignorasse persino lesistenza del Biondi, ma non si possono escludere

facilmente due dati di fatto: il primo che Gaspare Pisciotta conosceva perfettamente il monaco

benedettino, e il secondo che Giuliano, negli ultimi mesi del 49, era fortemente ostile allarcivescovo di

Monreale, tanto, che come ebbe a scrivere lavrebbe voluto appendere a un albero. Il rancore del

capobanda derivava dalle promesse non mantenute e che allunisono potevano essere state avanzate

sia da esponenti democristiani sia anche da personaggi del mondo della Chiesa, o gravitanti attorno ad

essa, come il Biondi. Ma sui rapporti Biondi-Pisciotta la questione non poteva certo porsi solo nei termini

di una qualche speculazione illegale alla quale entrambi i personaggi avrebbero aderito per naturale

tendenza. Stando allindice di un libro-intervista scritto da Gian Vittorio Mastari, un compagno di cella di

Pisciotta, di cui non si ha però traccia, ma che è riportato negli atti desecretati sulla strage di Portella

dalla Commissione Antimafia, linteresse di Pisciotta era esplicitamente di carattere politico. Cosa

poteva accomunarli? Quale storia e quali fini potevano unirli? La risposta a queste domande potrebbe

derivare da alcuni semplici indizi, che costituiscono, però, dati di fatto obiettivi. Padova, ambiente

frequentato dal monaco benedettino, era un centro di eversione anticomunista. Qui, il 21 marzo del

1945, in attuazione del piano Graziani, si era costituito il coordinamento della rete clandestina destinata

ad operare dopo la sconfitta, ed è tuttaltro che da escludere lipotesi che il Biondi, personaggio attivo

durante la cospirazione, abbia rappresentato una diramazione in Sicilia di quel gruppo eversivo.

Secondo lideologia di tali gruppi, abbattuto il fascismo restava un secondo nemico da combattere: il

comunismo. Nellisola Pisciotta rappresentava un elemento di spicco in quanto, come egli stesso

scriveva alla sua cara Maria, era stato tre anni nei campi di concentramento in Germania e aveva

dedicato allidea di Patria la sua stessa vita dal giorno in cui aveva vestito per la prima volta il

grigioverde. Quale patria e quale Stato avesse in mente sta scritto nella storia del separatismo, un

fenomeno che subì gli effetti delle componenti eversive a livello nazionale e siciliano. Sul filo di tale

ipotesi, dunque, occorre legittimamente supporre che come i sequestri di persona erano finalizzati in

gran parte allacquisto di armi e munizioni alla vigilia degli attacchi terroristici, allo stesso modo lattività

affaristica e truffaldina del Biondi poteva essere finalizzata ad azioni analoghe e parallele. Quanto il

governo ne fosse escluso non è facilmente dimostrabile. Tuttavia è certo che Scelba fu direttamente

coinvolto nella vicenda Biondi. I particolari noti solo oggi vedrebbero il ministro responsabile

dellassegnazione dei cinquanta milioni destinati alla cattura del Giuliano al monaco benedettino, il

quale li avrebbe utilizzati per una colossale truffa a danno di un commerciante siciliano. Il fatto sarebbe

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stato presto bloccato sul nascere dallo stesso Scelba. Evidentemente il ministro capì che non poteva

rischiare troppo.

Per il resto resta solo da segnalare che quando venne ucciso Accursio Miraglia, grande dirigente

sindacale di Sciacca, uno dei delinquenti incriminati per quellassassinio, si era recato proprio in quei

giorni a Padova, e che nel memoriale Ramirez questo delitto era collegato alla strage di Portella.

- Nella lettera di Giuliano a Rizza è, inoltre, molto sorprendente la consapevolezza e la grandepreveggenza che Italia e Francia rappresentassero due seri pericoli per lavanzata comunista in Europa,

tanto più che questa era una delle principali preoccupazioni degli Usa. A tal punto che esse dovevano

costituire, al tempo di De Lorenzo, uno dei principali scopi del piano cosiddetto Demagnetize destinato

a bloccare lavanzata comunista in Francia e in Italia da parte della Cia.

Leggiamo nella breve storia dei servizi segreti redatta dalla Commissione stragi:

I servizi segreti dellItalia democratica nascono ufficialmente il 1 settembre 1949, sulle ceneri ma

mantenendo in pieno uomini e strutture del vecchio SIM, il servizio dinformazione militare, nato

durante il regime fascista: il suo nome è SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate).

Già nella costituzione del SIFAR cè qualcosa di anomalo: nessun dibattito parlamentare, ma solo unacircolare interna, firmata dallallora ministro della Difesa Randolfo Pacciardi, repubblicano.

Dalla nascita della Repubblica, lItalia ha atteso più di tre anni, quindi, per dar vita allorganismo che

dovrebbe tutelarne la sicurezza, il tempo necessario a scaricare le sinistre dal governo e ad aderire

al Patto Atlantico.

Il primo direttore del SIFAR è il generale di brigata Giovanni Carlo Del Re che opera sotto lesplicita

supervisione dallemissario della CIA in Italia, Carmel Offie.

In carica per tre anni, Del Re viene sostituito nel 1951 dal gen. Umberto Broccoli luomo che almeno

sulla carta darà lavvio a Gladio, sostituito, neppure un anno e mezzo dopo, dal gen. Ettore Musco.

Anche Musco, che nel 1947 aveva formato lAIL (Armata Italiana per la Libertà) una formazione direttada militari, sostenuta economicamente e militarmente dai servizi segreti americani, incaricata di vigilare

su uneventuale insurrezione comunista fu uomo di stretta osservanza CIA e proprio sotto il controllo

americano portò a termine lacquisto dei terreni di Capo Marrargiu, in Sardegna, dove sarebbe sorta la

base di Gladio.

Ma è con lavvento ai vertici del Sifar del gen. Giovanni De Lorenzo che i servizi segreti italiani si

trasformano e cominciano a giocare un ruolo preponderante sulla scena politica italiana. La nomina di

De Lorenzo non è casuale: a caldeggiarla, con insistenza, è lambasciatrice degli USA Claire Booth Luce,

ma il generale è uomo molto gradito anche alle sinistre che per anni equivocheranno sui suoi meriti

resistenziali.

De Lorenzo assume le redini del SIFAR nel gennaio del 1956. Resterà in carica fino allottobre del 1962:quasi sette anni filati, fatto mai accaduto, neppure in seguito, nella storia dei servizi segreti italiani. E

sotto la gestione De Lorenzo che lItalia sottoscriverà il piano, redatto dalla CIA, denominato

Demagnetize il cui assunto è:

<<La limitazione del potere dei comunisti in Italia e in Francia è un obiettivo prioritario: esso deve essere

raggiunto con qualsiasi mezzo>>.

Qui occorre rilevare: 1) che Pacciardi era un amico di Carmel Offie; 2) che al momento della nascita del

Sifar, personaggi che si muovevano ad alto livello attorno a Giuliano, come lispettore Ciro Verdiani,

vengono destituiti con la motivazione che frattanto era nata una nuova organizzazione che avrebbe

risolto il problema rappresentato da Giuliano; 3) che questultimo, come abbiamo visto, scriveva:

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Secondo il mio modo di vedere sia lItalia che la Francia, non li avrei abandonati, ma neanche li avrei

acluso in patto così importante, a causa che la posizione Italiana che Francese è molto critica a causa che

metà del popolo è comunista e questo è una cosa molto grave per gli americani, perché se guerra

succederà di sicuro questi due ne diverranno un campo di tradimento o un campo di lotta fratricida.

Se si tiene conto del fatto che la lettera al Rizza è degli ultimi mesi del 49 ci si può rendere conto dei

legami diretti che il bandito teneva con ambienti bene informati e tanto rassicuranti da non indurlo nel

sospetto che egli era in realtà un manovrato, almeno dallanno delle stragi. Se ne era reso ben contoGirolamo Li Causi il quale nella seduta antimeridiana del Senato del 23 giugno 1949 espresse le seguenti

preoccupazioni:

Immediatamente dopo Portella della Ginestra, onorevole Scelba, noi troviamo presso Giuliano il capitano

americano Stern, precisamente l8 maggio, almeno dalle notizie che egli stesso ci dà, data del proclama che

Giuliano affida a Stern perché il capitano americano lo trasmetta a Truman.

Come io ho denunziato in comizi e in diverse occasioni, ora qui in modo formale chiedo a lei, onorevole

Ministro dellInterno: è vero o non è vero che, arrestato un bandito, nella sua tasca è stata trovata una

lettera autentica di Giuliano diretta al capitano Stern a Roma, via della Mercede 53 (è la sede della

stampa estera) nella quale lettera Giuliano chiede due cose: primo, armi pesanti; secondo dà dei consigli

circa il modo di mantenere il legame con lufficiale americano? Io le rivolgo questa domanda in modoformale perché desidero che lei ci dica se è a conoscenza di questa lettera oppure no. Quale interesse ha

il saperlo? Certamente non per prendersela con Stern! Stern faceva il suo giuoco. Ma perché

allindomani di Portella era da Giuliano il capitano Stern? E come mai Giuliano si permette chiedere a un

capitano americano armi pesanti? Quali discorsi sono stati fatti fra loro? E logico pensare che il capitano

abbia illuso il bandito e questi gli scrive poi una lettera riservata, lettera autentica che è in possesso del

Ministro dellInterno. Allora abbiamo il dovere di chiedere al Ministro Scelba quali passi ha fatto presso

lambasciatore americano per avere spiegazioni sullattività di questo filibustiere che collude col bandito

al quale promette armi e la continuazione dei rapporti.

La pista indicata da Li Causi si muoveva lungo una direttrice internazionale. Stern è un filibustiere, ma da

chi è manovrato a sua volta? E cosa vuole appurare da Giuliano una settimana dopo la strage? Neanche

ai giudici romani sfuggì il carattere enigmatico di questa:

La questura notava nel suo rapporto che i connotati del malfattore dallimpermeabile corrispondevanoa quelli del capo bandito Giuliano, onde era da ritenere che autori delleccidio fossero stati Giuliano e

taluni componenti della sua banda; e ad avvalorare lipotesi osservava, sulla base di quanto si è innanzi

esposto circa lattività del Giuliano, che questi è un bandito politicante, il quale, come già prima aveva

affiancato e sostenuto il movimento separatista nelle sue violente manifestazioni, così aveva intrapreso

ora, con lintento medesimo di farsi luce e di redimersi dei tristi suoi trascorsi, la lotta antibolscevica.

Poteva avere agito tanto di sua iniziativa, come per mandato allo stato, non era che unipotesi, poiché

lomertà che lo circondava non aveva consentito lacquisizione di elementi concreti (A,132).

Il ricorso ad una inesistente omertà rappresentò un alibi sufficiente per non approfondire. Non erano

stati omertosi i contadini di Piana degli Albanesi, di San Giuseppe e San Cipirello quando avevano detto

ai giudici quello che sapevano. Rischiarono anzi di essere incriminati per falsa testimonianza, anche se

poi una certa ragionevolezza dei magistrati consigliò di affermare che essi avevano parlato sotto la

spinta di una suggestione collettiva; non erano stati omertosi i giornalisti che sulla stampa avevano

denunciato pubblicamente le responsabilità dei neofascisti e del Fronte antibolscevico. E più facile

desumere che ci fu un processo di torsione istituzionale che ebbe a monte unimpostazione dellaccusa

che escludeva alcuni elementi chiave delloperazione stragista (persone e circostanze che dovevano

essere sottaciute) ed ebbe come effetto lingessatura di una verità parziale e insoddisfacente, fuori dalla

logica e dalla storia.

7. Da Viterbo a Roma 

E il caso, ad esempio, della totale rimozione, dal Rapporto giudiziario del 4 settembre 1947 di ogni

riferimento alla funzione assolta da Salvatore Ferreri, confidente della massima autorità delle forze

dellordine in Sicilia, nonostante pluricondannato allergastolo. La mettono in evidenza i giudici di

Viterbo:

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Certamente il rapporto con cui il nucleo dei carabinieri presso lispettorato generale di pubblica

sicurezza per la Sicilia denunciò gli autori del delitto di Portella della Ginestra e degli assalti alle sedi del

partito comunista in più paesi della provincia di Palermo, non può davvero dirsi sia completo.

Attraverso la deposizione del tenente colonnello Paolantonio, resa in dibattimento soltanto, è risultato

in maniera più che certa, che egli apprese dal confidente Ferreri Salvatore che a lui potevano essere

fornite notizie intorno ai fatti verificatisi a Portella della Ginestra, dai fratelli Pianello. Costoro non

furono, invero, larghi di notizie, indicarono però le persone che avrebbero potuto parlare: GaglioFrancesco, Bambineddu, Badalamenti Francesco.

Dai fratelli Pianello ebbe il Paolantonio la confidenza della loro partecipazione al delitto consumato a

Portella della Ginestra, confidenza che egli comunicò agli ufficiali di polizia giudiziaria incaricati delle

indagini.

Ora, se i fratelli Pianello furono dal teste Paolantonio indicati come coloro che avevano partecipato

allazione delittuosa (fol.724 verbale dibtt.) dovevano essere essi stessi denunciati allautorità giudiziaria

o, quanto meno, indicati come partecipanti al delitto stesso. Tanto più che di essi fratelli Pianello si parlò

dal Di Lorenzo quali partecipi alla riunione in cui si parlò degli assalti alle sedi del partito comunista.

Ed alla manchevolezza del verbale a tale proposito fa riscontro una deficienza nelle dichiarazioni rese

dai picciotti e da Gaglio Reversino ai carabinieri del nucleo centrale presso lispettorato di pubblica

sicurezza per la Sicilia.

Così, ad esempio, con esattezza fu rilevato che gli ufficiali di polizia giudiziaria, che si occupavano delleindagini intorno al delitto consumato a Portella della Ginestra, pur essendo venuti a conoscenza che a

fornire gli elementi di prova che permisero ad essi di pervenire alla identificazione di coloro che

operarono stando fra i roccioni della Pizzuta, erano stati i fratelli Pianello, che avevano preso parte al

delitto, omisero di comprendere costoro fra coloro che erano gli autori del fatto delittuoso. Risponde a

verità che in tutto il lungo rapporto che si occupa del delitto di Portella della Ginestra e degli assalti

contro le sedi del partito comunista non si trova una sola parola relativa ai fratelli Pianello. E la

omissione dei fratelli Pianello fra gli autori del delitto di Portella della Ginestra fu elevata da alcuno dei

difensori ad argomento talmente rilevante da far dubitare della veridicità del rapporto. Ora, vera la

omissione rilevata e lamentata, non è accoglibile neppure la spiegazione che della omissione fu data: la

morte dei fratelli Pianello al momento in cui il rapporto fu redatto e trasmesso alla autorità giudiziaria;

lufficiale di polizia giudiziaria ha un compito soltanto, quello di riferire allautorità giudiziaria il risultato

delle indagini compiute relativamente ad un fatto delittuoso, di riferire le generalità, quando siano

accertate, di tutti coloro che alla consumazione del delitto abbiano preso parte, senza ometterne

alcuno, anche se questo qualcuno possa essere deceduto. Ma da una siffatta omissione alla

affermazione che ciò costituisce argomento per far dubitare della veridicità del rapporto, è una grande

distanza.

Altro rilievo fattosi fu questo: risulta che Gaglio Reversino e Di Lorenzo Giuseppe furono fermati nel

giorno 9 del mese di luglio; che Pretti fu fermato il 3 agosto, Tinervia Giuseppe il 10 agosto, Terranova

Antonino di Salvatore e Sapienza Vincenzo pure il 10 agosto e che furono, invece, presentati al giudice,

perché fossero interrogati, rispettivamente il 13 agosto i primi due, il 15 agosto il terzo, il quarto il 21

agosto ed il quinto il 21 ed il sesto, pure il 15 agosto. Ora manca fra i numerosi atti del processo

qualunque partecipazione alla autorità giudiziaria di avere proceduto al fermo avanti indicato, come

manca, per tutti gli altri, anche qualunque richiesta allautorità giudiziaria per ottenere lautorizzazione a

che fossero mantenute le stesse in stato di fermo. Ed a quel tempo era in vigore la disposizione

contenuta nellart. 2, legge 20 gennaio 1944, per cui lo stato di fermo non poteva protrarsi al di là di

giorni sette.

Vi fu, quindi, inosservanza da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria di una disposizione di legge posta

a garanzia della libertà individuale dei cittadini, la quale, se può subire delle limitazioni rese necessarie

dallo svolgimento delle indagini di polizia giudiziaria, non può subirne al di là del tempo stabilito da una

norma giuridica che deve essere osservata anche dagli ufficiali di polizia giudiziaria, ma ciò non è

sufficiente per fare affermare che il rapporto non risponde a verità.

Manchevolezza fu riscontrata nella mancata indicazione da parte di tutti i picciotti e di Gaglio

Reversino della presenza alla riunione di contrada Cippi dei fratelli Filippo e Fedele Pianello della cui

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partecipazione al delitto consumato a Portella della Ginestra non è possibile dubitare dopo quanto

espose, in dibattimento, il tenente colonnello Paolantonio.

Questi riferì di avere avuto la confidenza da parte dei fratelli Pianello della loro partecipazione al

delitto consumato dai roccioni della Pizzuta contro la folla che era riunita nella vallata formata dalle

montagne Pelavet e Kumeta, ed è rispondente al vero che nè nelle dichiarazioni dei picciotti, né in quella

di Gaglio Reversino si trova fatta la loro menzione, mentre tutti, o quasi, i picciotti dichiararono, in

dibattimento, che erano da essi conosciuti. Può bene spiegarsi la mancanza della loro indicazione. Puòbene darsi che i fratelli Pianello non si siano trovati presenti alla riunione di Cippi e quindi i picciotti e

Gaglio reversino non potevano accorgersi della loro presenza; ma dalla mancata indicazione dei fratelli

Pianello non può farsi derivare che non rispondano al vero le altre affermazioni fatte dai picciotti e da

Gaglio Reversino. Non può essere trascurata unosservazione fatta da un teste della cui attendibilità

non è lecito dubitare e che, per di più, fu il primo a visitare i luoghi da cui si sparò: il capitano Ragusa, in

quel tempo sottotenente, comandante del plotone di ordine pubblico di Piana degli Albanesi. Egli disse

di aver rilevato, avendo fatto lascensione della montagna Pelavet fino al punto da cui fu fatto

funzionare il fucile mitragliatore, che ivi si trovava della paglia e delle tracce di sigarette, segno evidente

che alcuno aveva giaciuto in quel luogo; possono ivi avere trascorso la notte i fratelli Pianello, da soli o in

compagnia di altri, che poteva essere anche il Ferreri, accanto a cui Giuliano aveva posto i fratelli

Pianello per sorvegliarne lattività, quando egli incominciò a sospettare di lui.

Ma è ancora da dire altro: i picciotti possono bene non aver notato la presenza a Cippi dei fratelliPianello. Va detto, a questo proposito, che la riunione di tutti in contrada Cippi, si ebbe verso

limbrunire, poco prima che avessero luogo la distribuzione delle armi, il discorso di Giuliano ai

convenuti in quella contrada e la formazione dei gruppi per iniziare la marcia che doveva portare tutti a

Portella della Ginestra. In quella contrada vi fu, in quel giorno, un continuo andare e venire di persone

quindi, può darsi, che i fratelli Pianello si siano trovati presenti in un momento in cui nessuno dei

picciotti si trovò presente nella contrada stessa.

E la stessa osservazione va fatta per quanto si riferisce a Ferreri Salvatore, conosciuto con il

soprannome di Fra Diavolo o di Totò il palermitano. Della presenza di costui fra i roccioni della Pizzuta

al momento della consumazione del delitto, non può davvero dubitarsi. Ne parlò prima Terranova

Antonino fu Giuseppe, quando riferendo, nellinterrogatorio reso al magistrato intorno agli autori del

delitto consumato a Portella della Ginestra, disse che, per debito di coscienza, doveva riferire che al

delitto aveva partecipato anche Salvatore Ferreri, oltre a quelli altri che pure indicò. E dello stesso

Ferreri, quale autore del delitto di Portella della Ginestra, parlarono, in dibattimento, Gaspare Pisciotta e

Mannino Frank. Eppure neppure di costui si trova menzione né nelle dichiarazioni dei picciotti, né in

quella di Gaglio Reversino. Ed anche della mancata indicazione del Ferreri può essere data piena

spiegazione: i picciotti dissero tutti, o quasi tutti, di avere notato presenti alla riunione di Cippi, oltre

coloro di cui fecero la individuazione, anche delle facce estranee, perché non di Montelepre, ed il

Ferreri era nativo di Palermo ed ivi residente, come affermò la madre. 

I giudici romani non si pongono tutti questi problemi e anzi, riassumendo in poco più di mezza cartella

la cronistoria delleliminazione del gruppo dei confidenti Ferreri/Pianello, che avevano partecipato alla

strage di Portella, attribuiscono a Fra Diavolo unarma che questi non aveva. Il mitra corto cal. 9,

matricola Z3296, fu infatti trovato addosso a Vito Ferreri e non a suo figlio, al momento della

ricognizione dei quattro uomini uccisi in conflitto dal Giallombardo (Vito Ferreri, padre di Salvatore,

Antonio Coraci, suo cognato e i fratelli Giuseppe e Fedele Pianello, confidenti questi ultimi del colonnello

Paolantonio). Il dato, con tutta la storia che ci sta dietro è interessante, ma non può essere affrontato in

questa sede. Per il momento ci basti prendere atto del fatto che quando i giudici romani, riferendosi

allistruttoria penale sulla strage del primo maggio, dicono che essa fu sollecita e serrata, omettono di

rilevare quanto grave e determinante sia stata, ai fini dellaccertamento della verità, lomissione dei

nominativi di quei confidenti dal rapporto giudiziario come anche lomissione delle autopsie sui corpi dei

caduti. Tuttavia essi non poterono fare a meno di confermare la presenza di Ferreri e dei Pianello

allazione di Portella:

Vera o non la partecipazione di Ferreri Salvatore, detto Fra diavolo, alla impresa di Portella la Corte

ritiene che vi abbia preso parte congiuntamente ai fratelli Pianello sta in fatto che il primo a farne il

nome fu proprio Terranova Antonino Cacaova (v. n. 46) per confessione stragiudiziale a suo dire, avuta

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dallo stesso. Giova ricordare che egli fece contemporaneamente i nomi di Giuliano Salvatore, di Pisciotta

Gaspare e dei fratelli Passatempo; e nella udienza del 10 maggio 1951 precisò di aver saputo

delluccisione del campiere Busellini direttamente dal Ferreri (V/2, 99 r).

Ora, se quanto a Pisciotta Gaspare ed a Passatempo Salvatore poté dire di averli indicati per obbligarli

alla solidarietà nel processo, nulla precisò quanto al Ferreri, già morto; e, poiché è ben difficile

ammettere che questi gli abbia confessato di essere lautore dellomicidio, resta valida lipotesi che egli

ne abbia presenziato lesecuzione, il che depone per la partecipazione sua e della sua squadra alla stragedi Portella della Ginestra.

Daltra parte, mentre nulla esclude, se pure non sia rimasto sufficientemente provato, che Licari Pietro,

uno dei più attivi affiliati alla banda, sia proprio colui che custodì i quattro cacciatori ed abbia così

partecipato alleccidio, lindicazione di Pasquale Sciortino fra i partecipanti risponde a verità, come sarà

stabilito in appresso.

Infine, la pretesa falsità dellaccusa fatta da Pisciotta Gaspare nei confronti del Rimi non interessa il

processo e dopo quanto or, ora si è osservato, non può venire in considerazione ai fini per i quali è stata

allegata.

II. Ciò premesso, la Corte osserva che le prove costituite dalle chiamate in correità acquistano nei

confronti dei suddetti imputati risalto e valore decisivi.

Tutti e tre intervennero alla riunione preliminare di Pizzo Saraceno, come Mazzola Vito dichiarò alla

polizia giudiziaria, e furono presenti alladunata di Cippi dove vennero notati, oltre che dal Mazzola e daGaglio Reversino, da tutti i picciotti che resero confessioni stragiudiziali e da quelli che le confessioni

stesse reiterarono al Giudice istruttore. Solo il Pretti ed il Gaglio non fecero più menzione del Terranova

negli interrogatori giudiziali, resi rispettivamente il 15 ed il 29 agosto 1947, ma per mera dimenticanza

poiché indicarono Mannino Frank e Pisciotta Francesco ed è pacifico che il Terranova si trovasse con

loro.

Del resto, escluso che si siano allontanati da Montelepre la sera del 28 aprile e lo si deve escludere

anche perché una sera di fine aprile (v. n. 33), che Pisciotta Vincenzo e Buffa Antonino hanno

concordemente indicato nel 29 aprile, Terranova Antonino Cacaova e Pisciotta Francesco furono con

Candela Rosario nella casa della sorella di costui, Candela Vita è di tutta evidenza che alladunata di

Cippi non avrebbero potuto mancare. Fu lo stesso Terranova a riconoscerlo quando, alludienza del 21

giugno 1950, per negare la realtà di detta adunata, disse che se avesse avuto luogo egli sarebbe stato

uno dei primi ad esserne informato e ad intervenire (R, 88 e segg.).Essi inoltre si riferiscono alle perizie sui feriti che non si sa quando e come furono effettuate se è

vero che interpellati oggi i superstiti, a distanza di cinquantanni, negano di essere mai stati sottoposti a

particolari accertamenti. Del resto da indagini di medicina legale condotte nel 97 per conto

dellAssociazione dei familiari delle vittime Non solo Portella si trova riscontro ad alcune ipotesi

inquietanti: la prima, lasciata trapelare dai giudici di Viterbo, è che quel primo maggio a Portella furono

esplosi anche colpi di granata, la seconda è che a fare i morti furono soprattutto i mitra cal. 9, armi in

dotazione ai Ferreri. Con ciò non resta assolutamente esclusa la responsabilità di Giuliano e degli uomini

della sua banda, accusati dai picciotti racimolati allultimo minuto. Essi funzionarono come una gabbia

di sicurezza, servirono allaccusa e furono quasi tutti assolti, pur avendo partecipato alla strage. Per i

giudici romani avevano agito sotto la spinta della paura e di un grave danno alla loro incolumità; per la

Corte di Viterbo il motivo era stato ben diverso: avevano accettato di sparare per fare carriera e per

denaro.8. Depistaggio 

Eppure sarebbe bastato che qualcuno si fosse presa la briga di mettere assieme tutti gli indizi obiettivi

per capire le imperdonabili pecche che essi facevano risaltare. I giudici non sarebbero stati così sbrigativi

e non avrebbero galoppato solo il cavallo del banditismo. E vero che fu tentata anche la pista mafiosa, e

che questa non portò ad esito alcuno. Ma quanta fatica dovettero fare mafiosi locali e giudici perché le

dichiarazioni dei testimoni fossero, ad un certo punto, prive di effetto? Se ci fosse stato qualche dubbio

ne avrebbero avuto la riprova con gli atti concernenti la crociata antibolscevica che era stata oggetto

di separati rapporti allautorità giudiziaria dei comandi delle singole stazioni dei carabinieri, del comando

del gruppo interno dei CC di Palermo e dellautorità di Ps di Partinico. I fatti vengono descritti con una

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sorprendente superficialità, ai paragrafi 23-24 della sentenza che riportiamo. Ci sono due individui

vestiti da carabinieri che sparano contro la sezione del PCI di Borgetto. Chi sono? I giudici romani non si

pongono linterrogativo, si limitano a scrivere che nessuno dei banditi partecipanti a quellassalto era

vestito da carabiniere (p.57). Il primo maggio del 47 nei pressi del pianoro di Portella cè un gruppo di

ragazzi che vanno a modo loro a divertirsi. Cè con loro Calogero Caiola, che vede dopo la sparatoria un

gruppo di persone che rientrano dal Pelavet. Avverte la forza pubblica, si dà da fare per individuare i

colpevoli. Non arriverà alla fine di quellanno perché qualcuno gli spara. Cè un mafioso di rango,Gaspare Ofria, quando un gruppo di quattro sconosciuti, in mezzo ai quali questi si trova, prende

dassalto la sezione comunista di Partinico. Tra gli aggrediti cè Leonardo Addamo che colpito tira fuori la

sua rivoltella e spara per legittima difesa. Il commissario di Ps locale non si chiede minimamente che ci

sta a fare un personaggio come quello dalla parte del gruppo di fuoco e per salvargli la faccia lo elenca

tra i feriti nellassalto. Non si chiede chi sia, finge di sconoscere la sua fedina penale e che egli è braccio

destro di Ignazio Soresi, un iscritto alla Massoneria, proprietario di alcune centinaia di salme di terra a

Costamanna che i contadini di Piana rivendicavano in attuazione delle leggi di riforma agraria. Gli

inquirenti ignorano pure che il comandante dei carabinieri Tranquillo Avenoso, aveva avuto riferito che

quel gruppo di criminali provenivano dalla parte di Alcamo e certamente sapevano chi era Ferreri, da chi

prendeva ordini e dove abitualmente teneva la sua dimora. Così i giudici romani fecero ricadere tutta la

responsabilità di questa nuova strage su Salvatore Passatempo, tolto di mezzo allindomani della

sentenza dei primi giudici, nel 1952. Tanto il morto non poteva più parlare.Ciò che è grave e ripugna alla coscienza è che essi neghino la corresponsabilità di quanti, mandanti ed

esecutori, avevano ordito le stragi del 22 giugno, la cui organizzazione meticolosa risultava a loro stessi

dallattivismo di Pasquale Sciortino, e di quanti, con la complicità delle forze dellordine, dovevano

rimanere ignoti per sempre. Ma i giudici fecero di più e senza per nulla documentare le loro asserzioni

scrissero che nel passaggio dalla strage del 1° maggio ai fatti del 22 giugno i banditi avevano cambiato

tattica:

il reato commesso a Partinico trova la sua causa esclusivamente nella criminalità sanguinaria del

Passatempo, il quale andò oltre e contro la volontà del Giuliano e degli altri partecipanti: nella riunione

di Belvedere o Testa di Corsa fu annunziato un metodo di lotta sostanzialmente diverso da quello

attuato a Portella della Ginestra, che così penosa e controproducente impressione aveva suscitato al

punto da indurre lo stesso Giuliano a vergognarsi e disconoscere lazione. Inoltre che dallattività

delittuosa concordata fosse esclusa ogni previsione di danno alle persone, trova conferma particolare

nella condotta del gruppo che agì a S. Giuseppe Jato nel quale era lo Sciortino.

Conseguentemente, in accoglimento del relativo mezzo di gravame e in riforma della impugnata

sentenza, la Corte stima conforme a giustizia assolvere il Terranova Antonino fu Giuseppe, Mannino

Frank, Pisciotta Francesco, Di Lorenzo Giuseppe, Cucinella Antonino e Sciortino Pasquale dalla

imputazione di concorso morale nella strage consumata da Passatempo Salvatore a Partinico per non

aver commesso il fatto.

Da quali elementi avessero tratto la convinzione che le stragi del 22 giugno non erano in programma

non è dato sapere. Certo è che la minuta descrizione delle volontà dei banditi riuniti fatta dal picciotto

Giuseppe Di Lorenzo depone per lesatto contrario:

Quindi prese la parola lo Sciortino Pasquale il quale ci spiegò che lo scopo di quella riunione era quello di

invitarci a continuare la lotta contro il comunismo, già intrapresa dal cognato Giuliano, in modo da farlo

scomparire dalla Sicilia perché, a suo dire, se tale partito avesse preso il sopravvento, saremmo stati

tutti rovinati, specie i monteleprini, ricordandoci che erano stati appunto i comunisti a lacerare a

Palermo la nostra bandiera separatista. Fece perciò presente che bisognava andare a distruggere tutte

le sedi del partito comunista nella zona dinfluenza della banda capeggiata dal cognato, in modo da

indurre gli avversari di tale partito a fare altrettanto nelle altre province.

A conferma di quanto osservato per Portella, la strage di Partinico è la prova del nove delle complicità

nel depistaggio delle ricerche, e non solo come dicono i giudici romani- la dimostrazione dellesistenza

di un intimo legame tra le due stragi (p. 50).

9. Otto morti in un giorno 

In ogni caso lanalisi dei giudici romani segue un percorso tutto interno alla banda. Essi appaiono,

rispetto ai primi giudici, meno critici, più appiattiti sul rapporto giudiziario del 4 settembre. Se si

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volessero trovare elementi di approfondimento o di novità rispetto a quellatto fondamentale, o a

quanto i giudici di Viterbo avevano in alcuni punti forse con qualche acutezza di giudizio espresso, si

farebbe fatica vana. Stupisce tuttavia la sottovalutazione di certe circostanze che avrebbero dovuto in

qualche modo destare sospetti. Il 26 giugno 1947 muoiono di morte violenta otto persone, tutte della

banda Giuliano, o a questa legate da situazioni particolari. Sono Salvatore Ferreri, suo padre Vito, suo zio

Antonino Coraci, i fratelli Pianello che avrebbero affrontato un conflitto a fuoco con i carabinieri di

Alcamo; Federico Mazzola, Francesco Passatempo e Angelo Taormina che saltano in aria dicono igiudici fondandosi non si sa bene su quali prove certe del fatto a causa di un ordigno bellico che

stavano smontando. Ora quei banditi scaltriti non erano dei ragazzini e otto persone morte dun colpo

in circostanze di cui si conoscono solo le versioni ufficiali sono francamente troppe per non cogliere la

strana e anomala coincidenza dei fatti. Tanto più che troviamo: tre confidenti delle massime autorità

delle forze dellordine in Sicilia; due garanti degli accordi che Messana e lalto commissario Salvatore

Aldisio avevano stretto con Vito Ferreri; tre testimoni diretti delle fasi organizzative delle stragi di

Portella e di Partinico. In particolare Francesco Passatempo era fratello dei più noti Giuseppe (il boia) e

Salvatore, che secondo linterrogatorio reso da Giuseppe Di Lorenzo era la persona che avrebbe avuto il

compito di eseguire lassalto contro la sezione del PCI di Partinico (allora sede anche della Camera del

Lavoro), in quanto poteva contare su certi amici in questo comune. Di Lorenzo non fa i nomi di questi

amici, ma nel paese di don Santo Fleres, mediatore tra i gruppi politici emergenti locali e la criminalità

organizzata, essi non potevano che rispondere alle indicazioni o alle volontà di questo capomafia che adire di Pisciotta era il confidente numero uno di Ettore Messana. E Francesco Passatempo sapeva

direttamente come stavano le cose grazie ai suoi fratelli che uno dopo laltro faranno una fine non meno

gloriosa della sua.

Lipotesi che ci fosse un piano prestabilito per eliminare lintera banda Giuliano in quel frangente, e

cioè a conclusione della manovra terroristica che si era ampiamente dispiegata dal primo maggio al 22

giugno, è una possibile risposta agli interrogativi che si impongono. Può anche darsi che il piano sembrò,

a qualcuno che poteva bloccarlo in tempo, troppo azzardato e che quindi esso sia stato corretto e

sostituito da unaltra soluzione. Certo è che a quella data furono eliminati alcuni elementi la cui

esistenza in vita costituiva un pericolo, riservandosi per gli altri o lattesa di qualche salutare conflitto

o la strada del percorso giudiziario.

10. Consiglio degli anziani ed emissari mafiosi  

Allinterno della banda, come si può evincere anche dalla Sentenza, di particolare interesse è la

struttura organizzativa. Vi è un consiglio degli anziani che la sovrasta e vi sono degli individui, come

Remo Corrao, che fanno da intermediari tra la cosca mafiosa dei Miceli e Salvatore Giuliano. Nel

consiglio degli anziani spiccano Giovanni Genovese, Tommaso Di Maggio e Vito Mazzola, questultimo

cassiere della banda e dei proventi dei sequestri di persona. Erano ancora freschi nella memoria quelli

perpetrati a danno di Lorenzo Di Giovanni e Giuseppe Spatafora (15 e 28 marzo 1947) chiaramente

messi in opera per il finanziamento della lotta antibolscevica. Il dato è confermato dagli stessi giudici

romani che non possono fare a meno di registrare quanto dichiarato da Vito Mazzola ai carabinieri:

che il giorno precedente a tale riunione [nda: Saraceno, 27 aprile 1947], stando col greggein contrada

Fontanazze, aveva veduto Sciortino Pasquale e Cucinella Giuseppe seduti insieme su di una pietra nei

pressi di un casale diroccato; lo Sciortino aveva seco un voluminoso fascio di carte e gli aveva detto che

erano dei manifesti per la propaganda contro i comunisti; due giorni dopo Sciortino Pasquale e

Badalamenti Giuseppe si erano presentati da lui a ritirare sei milioni di lire circa, che il Giuliano gli aveva

dato in consegna con il consueto incarico di custodirli, dichiarando che occorrevano per acquisto di armi

e per dare un premio ai nuovi arruolati nella banda (p. 101).

Significativi la partecipazione al sequestro Spatafora di Salvatore Ferreri, e il fatto che i due malcapitati

furono tenuti in ostaggio nella famigerata villa Carolina, nei pressi del cimitero di Monreale, luogo di

abituali incontri tra mafiosi, trafficanti darmi, banditi e mezzadri troppo scomodi per essere tenuti in

vita, come i fratelli Pecoraro. Certamente altri personaggi la frequentavano non senza le dovute cautele,

dato che il luogo di proprietà dellarcidiocesi di Monreale, una specie di porto franco, non poteva essere

dato in pasto impunemente alla pubblica opinione. Era tuttavia un luogo che rassicurava i banditi a tal

punto che Nitto Minasola trovò il sistema di condurvi Frank Mannino e Nunzio Badalamenti facendoli

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arrestare. Monreale è uno snodo strategico del controllo di Giuliano, col quale i contatti sono assicurati

da Remo Corrao. Scrivono i giudici:

Il 15 settembre 1947 il Nucleo Mobile dei Carabinieri di Palermo dopo un movimentato inseguimento

nellabitato di quella città, trasse in arresto tal Corrao Remo fu Pietro, da Palermo, residente a

Monreale, uno dei più fedeli gregari del capo bandito Giuliano.

Nella primavera del 1946, esercitando il mestiere di vaccaro nella contrada Giacalone di Monreale, il

Corrao aveva avuto occasione di conoscere e di frequentare i banditi Passatempo Salvatore, PisciottaGaspare e Ferreri Salvatore, che costituivano, se così può dirsi, lo stato maggiore del Giuliano. Questi si

soffermava spesso in quel tempo a Fontana Fredda, dove trovava pronta assistenza da parte di

mezzadri e di campieri, ed in breve il Corrao, avido di danaro e desideroso di mutare posizione, era

diventato amico fidato dei componenti della banda, in modo particolare del Giuliano che spesso gli

affidava incarichi di fiducia. Sta in fatto che lattività criminosa gli consentì di venire in possesso di un

autocarro Fiat 626 e di una jeep che egli stesso conduceva.

Sulla figura e sulla posizione processuale di Corrao Remo la Corte avrà più volte motivo di soffermarsi,

ma è opportuno fin dora notare che egli, sposato dal 1945 a Margherita Miceli di Calcedonio, era, per

tal vincolo, diventato nipote di Ignazio Miceli e cognato di Antonino Miceli, capo luno, componente

laltro della mafia di Monreale, e poté esplicare un importante ruolo di collegamento tra il capo bandito

e costoro i quali, come apparirà chiaro più avanti, tennero in pugno le sorti della banda e del suo capo

ne furono i protettori fino a quando, mutando programma, non parve loro di scorgere una via disalvezza nel secondare il compito delle forze di repressione del banditismo.

Il Corrao rese ai carabinieri, in data 30 settembre 1947, una lunga e dettagliata dichiarazione nella quale,

fra laltro, negando la propria partecipazione ai fatti di Portella della Ginestra ed agli attentati alle sedi

delle sezioni dei partiti di estrema sinistra, affermò di essere venuto a conoscenza, per mezzo di

Madonia Castrense, inteso Titiddu, che gli uni e gli altri si dovevano al Giuliano e ad elementi della sua

banda; il Madonia gli aveva confidato di aver preso parte anche lui alleccidio del 1° maggio, nonché

allaggressione alla sede del Partito socialista di Monreale ( Z/1, 101).

Conseguentemente, con rapporto 24 marzo 1948, i carabinieri del Nucleo Mobile di Palermo

denunziarono Madonia Castrense per concorso nei reati suddetti ( M, 1).

Osservi il lettore il particolare ruolo del Corrao. Egli è in rapporti stretti con Ferreri, confidente

dellispettore, e con Salvatore Passatempo che i giudici di Viterbo avevano individuato come uno dei

quattro aggressori alla sezione del Pci di Partinico. In quanto entrato a far parte della famiglia mafiosa

dei Miceli, è un elemento cardine. Lo troviamo in contatto con i confidenti delle forze dellordine in

momenti cruciali. Alla vigilia della strage del 1° maggio, si reca con la sua jeep in contrada

Balletto/Pernice con uno dei fratelli Pianello (confidenti del colonnello Paolantonio) per avvisare

Antonino Terranova che lindomani allalba deve farsi trovare a Giacalone, dove suo suocero tiene una

casa di campagna, frequentata da Pisciotta. Gli stessi giudici di Viterbo non escludono che suo poteva

essere lautomezzo visto nei pressi del pianoro di Portella nel frangente della strage. Per i giudici romani

invece la sua non è una collaborazione alla realizzazione di una strage, e pertanto lo assolvono per non

avere commesso il fatto:

Al Corrao si è accennato più volte nel corso della motivazione che precede (v. n. 41; n. 47; n. 53, II, 6, a)

e la Corte non dubita che egli esplicasse in seno alla banda una funzione di primo piano, soprattutto una

funzione di collegamento fra il Giuliano e la onorata società che era alle sue spalle e che lo sosteneva

quale strumento di conservazione di strutture sociali e di mentalità arretrate, che la evoluzione dei

tempi andava lentamente trasformando.

Siffatta funzione del Corrao condurrebbe a sospettare che egli avesse avuto una parte rilevante nel

delitto di Portella della Ginestra, ma si deve riconoscere che non vi è nulla nel processo che consenta di

tradurre il sospetto in una concreta realtà ove si eccettui lordine di radunata portato al Terranova nella

contrada Pernice quando la strage fu decisa; della quale attività è cenno, soltanto nei motivi della

sentenza di rinvio a giudizio, ma non nella contestazione dellaccusa contenuta nel dispositivo,

contestazione ormai cristallizzata, dopo la sentenza di primo grado per difetto di impugnazione da parte

del pubblico ministero.

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Lesame, adunque, è circoscritto al fatto di concorso materiale nella esecuzione della strage per avere, al

fine di uccidere, esploso vari colpi di arma da fuoco sulla folla convenuta il 1° maggio 1947 a Portella

della Ginestra, ponendo in pericolo la pubblica incolumità e cagionando la morte, nonché il ferimento di

varie persone; ed è duopo ammettere che nessuna prova a tal fine si è raccolta, né della presenza di

Corrao Remo a Cippi, né tra i gruppi in marcia, o tra i roccioni della Pizzuta, o lungo la via del ritorno, e

che le presunzioni sulle quali i primi giudici hanno basato la formula dubitativa non valgono a costituire

neanche un indizio univoco e preciso.Lastratta possibilità che, possedendo una jeep il Corrao aveva di restituirsi rapidamente a Monreale

dopo la strage e di dedicarsi alla corsa dei cavalli, non consente invero di dedurne la probabilità che ciò

sia avvenuto, tanto più che due automezzi cui hanno fatto riferimento i testi del gruppo Rumore

(unautovettura ed un autocarro) transitarono in direzione di S. Giuseppe Jato (v. n. 13), non di

Monreale, e non risulta affatto che uno di essi fosse una jeep.

Neanche latteggiamento avuto dal Corrao di fronte al giudice istruttore, dopo la contestazione del reato

di concorso nella strage, può assumersi a indizio di colpevolezza: egli negò tutto e, poiché, detenuto per,

altri fatti, già aveva preso a simulare la pazzia, continuò nella finzione e si sottoscrisse: Beniamino

raggio del sole.

Si deve concludere che manca del tutto la prova che lappellante abbia commesso il fatto attribuito e,

conseguentemente, in riforma della sentenza impugnata, va pronunziata lassoluzione del medesimo per

non aver commesso il fatto. In tal senso ha concluso anche il pubblico ministero.

Figuriamoci se potevano essere toccati i Miceli che erano i più diretti gestori della vicenda Giuliano!

- Tutto interno, poi, al versante confidenti/ mafia/ potere politico è linterrogatorio reso ai carabinieri da

Giovanni Genovese, arrestato col fratello Giuseppe a Carini, il 19 gennaio 1949. Le sue dichiarazioni sono

esplosive, sconvolgenti. Parla di un preciso mandato pervenuto nella sua mandria di Saraceno durante la

riunione del livello più sommerso della banda, essendo presenti i Pianello e Ferreri. Il latore della missiva

è Pasquale Sciortino, uno dei personaggi più anticomunisti e politicizzati della banda. E visto in molte

circostanze nodali dellorganizzazione delle stragi e persino nella marcia di avvicinamento a Portella.

Inoltre è un attivo propagandista, e certamente tiene dei contatti col Fronte antibolscevico di Palermo:

Lo Sciortino, acceso separatista, rimase accanito anticomunista; e tutto conduce a ritenere che, già

animatore e propagandista dellEVIS, non sia stato estraneo a quella propaganda, concepita in funzione diuna così detta crociata antibolscevica con cui stranamente si pensò di accendere gli animi e suscitare

consensi a crimini sanguinosi e nefandi (v. n. 17 e n. 24).

Il giorno che precedette la riunione di Pizzo Saraceno probabilmente il 27 aprile, dopo la consegna

della lettera al cognato egli fu veduto in contrada Fontanazze da Mazzola Vito in possesso di un

voluminoso fascio di carte cherano, a suo dire, stampati di propaganda anticomunista (v. n. 41, II, A, c); e

la circostanza è credibile sia perché, pur con qualche modifica, fu ripetuta nel primo interrogatorio

giudiziale (v. n. 41, II, B), sia perché realmente manifestini a stampa furono poi diffusi in occasione degli

attentati del 22 23 giugno 1947; mentre non è attendibile la ritrattazione, che si palesa un mezzo di

ripiego, (v. n. 48, B, VIII) dappoichè è ovvio che, parlando dei fatti di Portella, il Mazzola non aveva motivo

di richiamare un episodio dei fatti dellEVIS.

Inoltre è lui il latore della lettera con la quale si dava il via libera alla strage. Giuliano la lesse ai presenti e

disse: E venuta lora della nostra liberazione, dobbiamo andare a sparare ai comunisti, il 1° maggio, a

Portella. Anche Terranova sapeva di questa storia e aveva preferito allontanarsi da Montelepre per non

ubbidire al capo. Ma questi, come abbiamo visto, lo fa rintracciare tramite Remo Corrao e uno dei

Pianello. Anche Genovese si dice contrario; è un membro del consiglio degli anziani e mette in risalto

che sparare su donne e bambini, gente inerme, è unazione indegna. Suggerisce: meglio prendersela con

i capi.

Lo stato maggiore della banda al 27-28 aprile è diviso. I Pianello e Ferreri lo sanno e non possono non

riferire nulla ai loro referenti dellIspettorato. La posta in gioco é troppo alta e questi ultimi non

avrebbero loro perdonato un silenzio decisivo. E del tutto pacifico dunque che i confidenti riferirono.

Sta di fatto che in quella situazione di rottura il piano stragista sarebbe stato destinato al fallimento.

Occorreva inventare un espediente per portare tutta la banda sui roccioni del Pelavet e metterla in bella

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mostra. Lidea venne a Messana che prendendo spunto da quanto dichiarato da Genovese

candidamente dichiarerà ai giudici di Viterbo:

DR: Certamente i rapporti con Ferreri iniziarono prima della strage di Portella. Ricordo di avere saputo,

attraverso la fonte Ferreri, che Giuliano voleva attentare alla vita dei dirigenti del Partito comunista di

Palermo, fra i quali Li Causi. Informai per opportuna vigilanza il questore e fu il colonnello Paolantonio che

avvisò direttamente Li Causi.

Ora se si tiene conto del fatto che laggancio col confidente Ferreri fu definito a marzo è logico pensare

che tale informativa il Messana labbia avuto proprio dopo il 27-28 aprile perché fino allarrivo della

missiva dello Sciortino né Genovese né nessun altro avevano mai espresso lidea di prendersela con i

capi comunisti. Anzi le intenzioni di Giuliano erano perfettamente collimanti con quanti volevano

loperazione stragista. Fu bloccato dal consiglio di un anziano e dalla posizione assunta dal Terranova.

Al giudice istruttore che lo interrogò il 29 gennaio 49, il Genovese ebbe ad esprimere dettagliate

circostanze:

Dichiarò: a) che la mattina del 27 o del 28 aprile 1947 Giuliano Salvatore, Pianello Giuseppe, Pianello

Fedele e Ferreri Salvatore erano andati a visitarlo in contrada Saraceno, si erano trattenuti in sua

compagnia ed avevano mangiato con lui nella mandria; verso le 15 era sopraggiunto Sciortino Pasquale,

latore di una lettera, il quale aveva chiamato in disparte il cognato, postisi a sedere a ridosso di unapietra, avevano letto la lettera e confabulato fra loro; egli non sapeva né la provenienza né il contenuto

di quello scritto, ma pensava che fosse un documento molto importante perché dopo averlo letto il

Giuliano e lo Sciortino lavevano bruciato con un cerino; fatto questo lo Sciortino era andato via; b) che

allora il Giuliano gli aveva chiesto dove fosse il fratello ed, appreso che si trovava in paese affetto da un

foruncolo, aveva soggiunto: è venuta la nostra ora della liberazione, bisogna fare unazione contro i

comunisti, bisogna andare a sparare contro di loro il 1° maggio a Portella della Ginestra; egli aveva

subito osservato chera unazione indegna: si trattava di una festa popolare, cui avrebbero preso parte

donne e bambini, e non doveva prendersela con le donne e i bambini, ma con Li Causi e gli altri capoccia

e, così dicendo, aveva respinto la proposta; c) che presenti alla discussione erano stati il Ferreri ed il

Pianello; il Giuliano era molto riservato, onde egli non chiese, né quello gli avrebbe detto: chi aveva

spronato lui ed il cognato ad organizzare la strage; pensava, ma la sua era unopinione personale non

sorretta da alcuna prova, che vi fosse stato spinto da qualche partito politico; ignorava lorientamentopolitico del Giuliano a quel tempo; poteva dire soltanto che in occasione delle elezioni del 18 aprile l948,

avendogli chiesto consiglio circa il partito per cui dovesse votare, il Giuliano aveva risposto: per la

monarchia; aveva saputo poi che le donne di casa Giuliano facevano propaganda per la monarchia;

quelle di casa sua votarono invece per la Democrazia cristiana; d) che nulla sapeva della riunione

avvenuta a Cippi essendosi disinteressato di quanto il Giuliano aveva animo di compiere; il 1° maggio si

era recato in contrada Saraceno presso la mandria allo scopo di crearsi un alibi poiché sapeva della

strage che in quel giorno si doveva commettere.

Quindi ripetuto, in relazione allalibi, il colloquio col Caruso, così come lo aveva narrato ai carabinieri, e

precisato nel modo che segue lappello rivolto ai presenti: siatene testimoni che io sin da stamattina

sono qui insieme a mio fratello nel caso che ci vogliono caricare questa situazione, concluse asserendo

di aver saputo successivamente che con il Giuliano erano andati a Portella della Ginestra il Ferreri, i

fratelli Pianello, i fratelli Passatempo e di aver sentito dire che Terranova Antonino Cacaova e

Mannino Frank Lampo non avevano voluto parteciparvi, ma nulla di certo poteva affermare al

riguardo (P, 23, 25).

Pochi giorni dopo però, pur senza ritrattare lepisodio dello Sciortino e della lettera del quale non fece

menzione, si espresse ancor diversamente: il 14 febbraio 1949, interrogato in merito alla sua

partecipazione alla banda Giuliano, tra laltro, dichiarò: in ordine a questultimo delitto (strage di

Portella della Ginestra) fui invitato a parteciparvi verso il giorno 26 27 aprile 1947 da Giuliano

Salvatore. Venne a trovarmi in contrada Saraceno di Montelepre assieme a Ferreri Salvatore e ai

fratelli Pianello e mi disse (ero solo, mio fratello era andato in paese) che ormai voleva farla finita col

comunismo e voleva cogliere loccasione della tradizionale festa popolare di Portella della Ginestra, a cui

ogni anno partecipano numerosi gli elementi dei partiti di sinistra, per sparare su quella folla. Io feci

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rilevare che il gesto era inumano perché a quella festa accorrevano tra laltro donne e bambini; il

Giuliano contrariato si allontanò e da quel giorno si fece vedere più di rado. Quando in seguito ritornò

non mi fece più accenno alla cosa che io avevo appreso con disgusto lo stesso giorno, né io ritenni

opportuno parlargliene (Vol. E, proc. pen. per banda armata, fol. 125, 126).

Come membro del consiglio degli anziani Giovanni Genovese sa in anticipo il piano di Saraceno, ed

analoga cosa dichiarerà Terranova Cacaova che ebbe ad anticipare addirittura alla metà di aprile quello

che Manfré saprà dieci giorni dopo. Ed entrambi hanno degli alibi forti dalla loro parte. Terranova si eradato disperso e Corrao alla vigilia della strage era andato a rintracciarlo con la sua jeep per esporgli

come abbiamo visto- lordine di Giuliano. Qui non interessa tanto sottolineare che anche la mafia di

Monreale conosceva in anticipo che si sarebbe compiuta una strage, quanto il fatto che la presenza di

Fifiddu Pianello in quel fallito incontro a Balletto, come di entrambi i fratelli monteleprini e di Fra

Diavolo allincontro di Saraceno, deponeva per una preventiva conoscenza di quanto si stava tramando,

anche da parte delle massime autorità dellIspettorato regionale di Ps, trattandosi di soggetti che erano

al contempo confidenti di primordine e associati alla banda Giuliano. E che i Pianello, subalterni di

Ferreri, fossero presenti a Portella, è una certezza anche per i giudici romani:

Nessuno dei picciotti ha fatto il nome dei Pianello nonostante che i due banditi fossero noti a molti di

loro: Buffa Antonino, Tinervia Francesco, Musso Gioacchino, Sapienza Vincenzo, Pretti Domenico,

Terranova Antonino di Salvatore, Pisciotta Vincenzo sicuramente li conoscevano (V/4, 478 479) e non

ne hanno parlato. Non è possibile che a tutti fossero sfuggiti, oppure che tutti li avessero dimenticati; epoiché è certo che i fratelli Pianello parteciparono alla strage, il silenzio dei picciotti su di loro dimostra

soltanto che né Giuseppe, né Fedele Pianello furono presenti alladunata preparatoria dei partecipanti a

quella impresa criminosa. Il che è avvalorato dal fatto che i Pianello vivevano abitualmente in Alcamo,

avendo ricevuto dal Giuliano lincarico di sorvegliare il Ferreri del quale più non si fidava, e non

avrebbero avuto motivo di risalire fino a Cippi od anche fino a Cozzo Busino per accedere a Portella della

Ginestra: è presumibile che il Giuliano avesse dato loro convegno direttamente ai roccioni della

Pizzuta.

Essi passarono invece per Cozzo Busino al ritorno: dovettero far parte di quel gruppo di undici banditi

che procedette al sequestro ed alluccisione del campiere Busellini e che Acquaviva Domenico vide

transitare per la contrada Presto dopo lazione di Portella della Ginestra (v. n. 18), altrimenti non

avrebbero potuto indicare, con tanta precisione da farne uno schizzo, la foiba dentro la quale giaceva il

cadavere del campiere.

Il cadavere di Busellini, fatto trovare dai Pianello lo stesso giorno degli assalti alle Camere del Lavoro,

era un altro indizio inquietante. Non solo per la coincidenza delle date, ma perché il ritrovamento di

quel corpo, secondo Terranova freddato da Ferreri nella marcia di ritorno dopo la strage del 1° maggio,

stava a indicare che da lì era passata la banda monteleprina, e dimostrava la partecipazione del gruppo

Ferreri alla strage attribuendone al contempo la responsabilità a Giuliano. Non è da escludere che non

tutti gli uomini della sua banda vi parteciparono. Cerano state delle divisioni e fino a quel momento

ognuno sapeva che cera un ordine di mobilitazione generale. Ma pochi ebbero la consapevolezza della

frattura che lordine di strage provocò. Certamente non fu accettato supinamente, tranne che da

Giuliano, Ferreri e i Pianello che non risulta abbiano manifestato dissensi. Del resto si notano delle

discondanze tra i partecipanti alla riunione di Cippi, i sette gruppi che sostengono la marcia notturna, e

i presenti sui due versanti del crinale del Pelavet. Mancano tra gli altri i Genovese e Pisciotta, stando alla

ricostruzione degli stessi giudici. Ma mancano anche gli accertamenti topografici su tutte le postazioni di

tiro attorno al pianoro di Portella, che certamente i giudici romani sconoscevano, avendo letto

malamente le carte, e non essendosi mai recati sul posto, come avevano fatto i primi giudici. Se fossero

stati più attenti non avrebbero affermato limpossibilità di colpire dalla Kumeta, con armi militari, il

podio dove parlavano gli oratori. Avrebbero considerato che i tiri potevano provenire anche dal cozzo

Rahji i Dxuhait situato ai piedi di questa montagna e ben fornito di una via di fuga verso la masseria

Kaggio, dove, in coincidenza con la riunione di Saraceno si erano riuniti i mafiosi di Piana e San Giuseppe

Jato. Dunque non furono accertate tutte le postazioni di tiro, ma si ebbe modo di verificare che i conti

non tornavano ugualmente:

Nel suo primo memoriale il Giuliano precisò di aver impartito a ciascuno lordine di non sparare più di

tre caricatori; e benché come risulta dai reperti egli ne abbia sparati quattro col fucile mitragliatore,

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deve ritenersi che la prescrizione risponda a verità e sia stata in via di massima osservata, in quanto è

provato per testimonianze di Fortuna Ettore (R, 199), di Marino Salvatore (V/279), e Cuccia Vito

(V/5°,638) che lazione a fuoco si sviluppò sostanzialmente attraverso tre raffiche di armi automatiche

oltre a numerosi colpi isolati. Ora, ciò essendo, è agevole osservare che ove a Portella della Ginestra

avessero sparato soltanto undici individui dalle undici postazioni ivi rilevate (il dodicesimo custodiva i

sequestrati ed usò di un fucile da caccia) impiegando nellazione un fucile mitragliatore Breda mod. 30

un moschetto automatico americano, quattro mitra Beretta e cinque moschetti mod. 91, poichéciascun caricatore conteneva rispettivamente 30, 20, 6 proiettili, si sarebbe avuta nei bossoli di risulta la

seguente situazione:  fucile mitragliatorecal. 6,05 (30 x 4) n. 120; moschetti mod. 91 cal. 6,05 (6 x 3 x 5)

n. 90; moschetto automatico americano (20 x 3) n. 60; mitra Beretta cal. 9 (20 x 3 x 4) n. 240; cioè un

totale di n. 510 bossoli in luogo degli 800 e più che furono rinvenuti (v. n.15). E qualora si volesse

limitare lindagine ai 341 bossoli sequestrati il conto del pari non tornerebbe: potrebbero considerarsi

vicini alle cifre suddette e trovare conforme spiegazione i 206 bossoli cal. 6,05 ma non così gli 81 bossoli

cal. 9 per mitra Beretta, posto che tre furono le raffiche, senza dire del bossolo per fucile inglese che

indica la presenza di un altro partecipante provvisto dellarma relativa.

Inoltre è interessante notare che, stante larmamento degli effettivi della banda, una percentuale cosi

elevata di moschetti 91 non sarebbe giustificabile se non nel presupposto di un concorso ben maggiore

di malfattori armati di mitra e nella ipotesi di partecipanti estranei alla banda.

Si apprende dagli imputati, così detti grandi, che gli effettivi della banda disponevano di mitra: io equelli della mia squadra ha detto Terranova Cacaova (W/1,75) eravamo armati di mitra lunghi; e,

se si deve credere a Mazzola Vito, nella imminenza dellazione di Portella della Ginestra, il Giuliano

somministrò agli affiliati alla sua banda nuovi mitra, procurati a mezzo di Pantuso Gaetano, in

sostituzione di quelli di vecchio tipo di cui erano provvisti (Z/1, 131). Per le dichiarazioni rese da Corrao

Remo ai CC. (Z/1, 82) risulta che Russo Angelo era munito di un moschetto semiautomatico di marca

inglese; e il fatto che tutti i componenti della banda fossero forniti di mitra trova conferma nella depo-

sizione del ten. col. Paolantonio (V/6, 711).

Onde è lecito concludere che lesistenza accertata delle postazioni di moschetto mod. 91, alle quali, per

la posizione di uomini e per la situazione dei luoghi, potettero convergere bossoli provenienti da più

armi della stessa specie, denunzia sicuramente la presenza tra i roccioni della Pizzuta anche di persone

che alla banda non appartenevano.

Gli accertamenti generici non vi contraddicono: non vi è certezza che tutti i punti da cui fu aperto il

fuoco siano stati identificati, anzi può dirsi che il processo offra la prova del contrario; nulla si conosce

intorno alla ubicazione degli 81 bossoli per mitra Beretta sequestrati; e nessuna indicazione esiste dei

rimanenti (800 341) 459 bossoli che pure furono rintracciati, dappoiché e lo si è visto da più fonti si

apprese nel dibattimento che i bossoli esplosi erano oltre ottocento.

In altre parti della sentenza i bossoli vengono fatti ammontare a oltre mille, non contando tutti quelli

che erano andati a conficcarsi nella terra o che erano andati a finire negli anfratti, tra le rocce. Si ha

pertanto la percezione esatta del grande fuoco dartificio, dellimponenza della massa di fuoco che si

scaricò sul pianoro, senza gli effetti tuttavia di un bilancio di morti e di feriti ancora più pauroso di quello

che si registrò in quella mattina di fuoco e di tragedia. A fronte di tale enorme divario la spiegazione che

non ci fu un maggior numero di morti perché dopo i primi colpi i banditi dovetteroaggiustare il tiro, o

perché il dislivello tra punti di fuoco e bersagli era tale da non consentire che i colpi avessero il loro

effetto mortale, è una trovata priva di ogni e qualsiasi credibilità. E più onesto e ragionevole affermare

che tutti sentirono fischiare le pallottole al di sopra delle loro teste (come affermarono di fronte ai

giudici i carabinieri presenti quella mattina e numerosi altri testimoni) e che, ad un certo punto,

qualcuno si inserì nel fuoco dartificio e, sicuro delle protezioni che aveva, eseguì degli ordini ai quali non

poteva sottrarsi.

11. I capisquadra sapevano 

La struttura piramidale della banda non consentiva a tutti di venire a conoscenza delle verità più

nascoste, anche se tutti la sera della vigilia della strage (come in modo analogo succederà il 22 giugno)

vennero informati dellobiettivo immediato da raggiungere. Ferreri e Pisciotta certamente conoscevano

alcune cose sui mandanti; potevano essersene fatta unidea; ma questidea non poteva che arrivare fino

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ad un certo punto. Essi però erano soggetti il cui grado di rassicurazione dipendeva anche da loro a tal

punto che non potevano permettersi di compromettere inutilmente i benefici di cui i loro protettori,

anche a costo di rischiare, erano stati elargitori e garanti. Tutto dipendeva da come si comportavano.

Anche Terranova Cacaova sapeva molte cose. Scrivono i giudici di Roma:

I. Il primo a far cenno della esistenza di mandanti fu Terranova Antonino, inteso Cacaova:

diversamente da quanto aveva dichiarato prima (v. n. 48, II), nelle udienze del 10 e dell11 maggio 1951 eglidisse che il Giuliano, nel parlargli tra il 18 ed il 20 aprile 1947 dellazione divisata contro i comunisti, aveva

fatto anche i nomi dei mandanti, nomi che ora più non ricordava, ma che avrebbe cercato di ricordare se

altri non fosse stato in grado dindicarli; ed aggiunse di aver saputo in seguito dallo stesso Giuliano che a

disporre gli assalti alle sedi comuniste erano stati i medesimi mandanti che avevano voluto la strage di

Portella; inoltre il Giuliano gli aveva detto pure che, se nelle elezioni politiche del 1948 la Democrazia

cristiana avesse riportato vittoria, sarebbero stati tutti liberi, quale che fosse il numero dei reati sino allora

commessi e, nel caso contrario, con laiuto degli stessi mandanti si sarebbero rifugiati in Brasile.

II. Ma, dopo coteste prime caute avvisaglie del Terranova. nelle udienze dal 14 al 17 maggio 1951 e

successive Pisciotta Gaspare sviluppò con audacia senza pari la sua difesa pur tra incoerenze e

contraddizioni.

Disse che ad ordinare la strage di Portella della Ginestra erano stati lon. Bernardo Mattarella, lon.Tommaso Leone Marchesano e il principe Gianfranco Alliata: dopo lavventura separatista il Giuliano gli

aveva detto che la Democrazia cristiana ed il Partito monarchico, in caso di vittoria alle elezioni (e mantiene

lequivoco sulla data e natura di esse) avevano promesso loro limpunità, ed, in caso contrario,

lemigrazione in Brasile, nelle terre del principe Alliata; aveva tentato di dissuadere il Giuliano dal mettersi

con costoro perché lavrebbero tradito al pari dei separatisti, ma non gli aveva dato retta. Personalmente

non aveva mai visto né il Mattarella, né il Marchesano, né lAlliata, conosceva soltanto lon. Giacomo

Cusumano Geloso che fungeva da ambasciatore tra la banda e Roma; tuttavia aveva assistito a quattro

riunioni tra i predetti e il Giuliano avanti il 1° maggio 1947: precisamente ad Alcamo presso le case nuove, a

Bocca di Falco in casa del mafioso Ernesto Mirasole [nda: leggi Minasola], a Passo di Rigano ed in contrada

Parrino, ma or dicendo di avervi preso parte (V/2, 216 r), or di non esservi intervenuto, essendo rimasto,

unitamente ad altri della banda, a circa 500 metri dallabitato, dove lincontro avveniva, per guardare le

spalle al capo bandito (V/2, 222), ed or di essere stato presente soltanto ai convegni avuti dal Giuliano con ilCusumano Geloso e non pure a quelli avuti con lAlliata, Marchesano ed il Mattarella, cui non era

intervenuto poiché ad essi non si interessava (V/7°, 870 r). Un colloquio aveva avuto il Giuliano col

Mattarella e col Cusumano Geloso, a Parrino, anche dopo le elezioni del 1948, per chiedere losservanza dei

patti, al quale colloquio avevano partecipato il mafioso Albano Domenico di Borgetto, Provenzano Giovanni

da Montelepre Costanzo Rosario da Terrasini, nonché vari componenti della banda tra cui lui, Terranova

Antonino, Mannino Frank, Pisciotta Francesco, i fratelli Passatempo, Licari Pietro e Sciortino Giuseppe; e

sapeva che il Mattarella ed il Cusumano Geloso eransi recati a Roma per provocare la concessione

dellamnistia, senza alcun risultato positivo, per lopposizione del ministro on. Scelba che aveva detto di

non voler trattare più con i banditi. Dopo di allora lon. Mattarella non si era più visto ed il Giuliano,

risentito, aveva ordinato il sequestro della famiglia di lui residente a Castellammare del Golfo.

Sostenne che la lettera menzionata da Giovanni Genovese era stata consegnata allo Sciortino dalCusumano Geloso e che, secondo questi gli aveva detto, proveniva ed era sottoscritta dal ministro Scelba;

non rispondeva a verità che fosse stata bruciata: si trovava presso Sciortino Pasquale, in America, ed egli,

avendogliela il Giuliano fatta vedere, era in grado di ripeterne il contenuto che poteva riassumere presso a

poco così: caro Giuliano, noi siamo sullorlo della disfatta del comunismo, col vostro e col nostro aiuto

possiamo distruggere il comunismo, qualora la vittoria sarà nostra, voi avrete limpunità su tutto.

Ed asserì che il Cusumano Geloso, cui, dopo la morte del Giuliano, si era rivolto perché intervenisse a suo

favore presso il principe Alliata, gli aveva promesso 50 milioni di lire ed il passaporto per emigrare in

Brasile, nelle terre del suddetto principe, dove avrebbe fatto il gran signore, ma egli ne aveva condizionato

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laccettazione alla celebrazione del processo per i fatti di Portella della Ginestra, nel quale, ai fini di

giustizia, si sarebbe dovuta dire tutta la verità.

Affermò che banditismo, mafia e polizia costituivano in Sicilia una trinità e che il banditismo avrebbe

potuto essere distrutto fin dal 1947 se lIspettorato generale di PS lavesse voluto: egli stesso era stato in

rapporti con lispettore generale Messana che, tramite il Ferreri inteso Fra Diavolo, gli aveva fatto avere

nel maggio 1947 un tesserino di libera circolazione, con facoltà di portare armi, intestato al nome di FaraciGiuseppe; egli ed il Ferreri avevano il compito di sopprimere il Giuliano ove fosse passato al comunismo.

Anche lispettore generale Ciro Verdiani aveva avuto rapporti con lui e con il Giuliano. Più volte il Verdiani si

era incontrato, con loro: una volta a Giacalone quattro o cinque giorni prima delleccidio di Bellolampo;

unaltra a Castelvetrano la sera del 24 dicembre 1949 nella casa campestre di Marotta Giuseppe, dove,

rilevato allo scalo ferroviario di Marsala, il Verdiani era giunto in compagnia di Ignazio ed Antonio Miceli, di

Domenico Albano e del Marotta stesso portando un panettone e del vino marsala che erano stati

consumati da tutti insieme, prima che lispettore si appartasse a discutere col Giuliano; ed infine a Catania

dove sera incontrato con lui e con lAlbano.

Rivelò che di due tesserini di riconoscimento per libera circolazione, con facoltà di portare armi, (in

sostituzione di quello avuto dal Messana) lo aveva munito pure il col. Luca, al cui servizio si era posto, per

cooperare con lui alla cattura od alla uccisione del Giuliano, quando si avvide che era uomo capace disopprimere il banditismo; tesserini rilasciati ambedue sotto il falso nome di Faraci Giuseppe luno con

fotografia a firma del predetto col. Luca, laltro senza fotografia a firma congiunta del medesimo e del

Questore Marzano.

Palesò che Verdiani soleva comunicare con il Giuliano tramite Ignazio Miceli, cui appoggiava le sue lettere,

ed il Giuliano, dopo averle lette, usava il sistema di passarle a lui affinché le riconsegnasse al Miceli per la

custodia; ed aggiunse che sapeva, per avere intercettato lo scritto, che il Verdiani, cui egli aveva rifiutato

ogni collaborazione per la cattura e per la eliminazione del capo bandito, aveva tentato dinformare il

Giuliano dei suoi contatti con il col. Luca.

Le circostanze che emergono dalle affermazioni di Pisciotta e Terranova non sono del tutto campate in aria.

Andavano solo vagliate e riscontrate attentamente. Anche le reticenze del secondo si sarebbero dovutespiegare, così come avevano fatto i giudici di Viterbo. A questo proposito essi tennero in considerazione il

fatto che nella struttura gerarchica della banda, Cacaova era sì un caposquadra, ma era anche un

subalterno di Pisciotta che rappresentava il capocordata del gruppo del quale facevano anche parte Frank

Mannino, Francesco Pisciotta, Rosario Candela ed Angelo Taormina. Osservarono che Terranova non parlò

prima che il suo diretto superiore gerarchico dicesse le cose come stavano, dal suo punto di vista; non

sapeva fino a che punto poteva esporsi e così aspettò che fosse Gasparino a fare il primo passo. E questi

afferma e nega, lascia trasparire delle mezze verità e fa delle affermazioni che anche i carabinieri

confermano. Egli, ad esempio, aveva ricevuto, una settimana prima che Giuliano fosse ucciso

un attestato di benemerenza datato 28 giugno 1950, rilasciato al Pisciotta in apparenza dal Ministro

dellInterno on. Scelba per lattiva cooperazione dallo stesso prestata per restituire alla zona di

Montelepre e comuni vicini la tranquillità e la concordia e per il totale ripristino della legge; attestatoche il gen. Luca dichiarò di aver lui stesso, ad insaputa del Ministro, creato e consegnato al Pisciotta, che

laveva preteso, quale prezzo della sua cooperazione, in luogo della taglia posta sul Giuliano e dellofferta di

espatrio, spiegando di averlo fatto per giungere allo stanamento del bandito dappoiché, dopo dieci mesi

di lavoro, non era ancora riuscito a sapere dove si trovasse (V/6, 684, 687, 689).

Pisciotta, dunque, parla come superiore gerarchico, dice le cose finché può dirle, suggerisce agli altri di

seguirlo nella strada intrapresa. Ma gli altri non ne potevano sapere più di lui. Ad esempio del vero

memoriale di Giuliano. I giudici ne ebbero due, con i quali il capobanda si autoaccusava delle stragi; ma il

memoriale autentico dichiara Pisciotta- fu consegnato da lui in persona al capitano dei carabinieri Antonio

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Perenze. Questi smentì laffermazione, e anche i giudici romani dovendo scegliere tra la parola di un

graduato dei Cc e quella di un bandito scelsero quella del graduato. Ma questa volta non ne avevano tutte

le ragioni. Anzi. Perché il solerte capitano era lautore dei falsi sulla morte di Giuliano, e quindi la persona

meno indicata a dire che Pisciotta mentiva. Del resto lo scenario che proprio i carabinieri gli avevano

preparato non favoriva per nulla la scoperta della verità. Tutto sembrava essere stato congegnato per

nasconderla, a partire da quella casa di Gregorio De Maria, al cui interno il capobanda sarebbe stato ucciso,

senza che egli fosse per nulla insospettito dal gran traffico che attorno e dentro la sua casa cera statoquella notte dal 4 al 5 luglio del 50.

Dunque, solo quando Pisciotta parla autorizza gli altri suoi uomini a imitarlo:

E, come il Pisciotta ebbe fatto coteste affermazioni circa i mandanti, Terranova Antonino Cacaova, con

latteggiamento di chi finalmente possa liberarsi di un segreto, dichiarò: ora che ha parlato Pisciotta

Gaspare posso dire di aver saputo personalmente dal Giuliano che a mandarlo a sparare a Portella furono

Alliata, Marchesano, Cusumano e Mattarella; si faceva anche il nome di Scelba proseguì ma non son

sicuro.

E nellintento di sostenere lassunto del Pisciotta, mal ricordando le parole di costui, aggiunse che nel

settembre ottobre 1948 il Giuliano gli aveva proposto di sequestrare lon. Mattarella perché non aveva

mantenuto la promessa ed egli si era rifiutato di farlo.

Grandi se pur fallaci speranze venivano riposte, adunque, su cotesto primo espediente di difesa e non si

mancò di fare, come sarà dimostrato in seguito, altri non leciti tentativi per accreditarlo.

Il lettore potrà meglio vedere da sé dette valutazioni anche per le correlazioni che esse hanno nel

contesto sistematico dellapproccio unidirezionale alla lettura dellaccusa.

Pisciotta fu superprotetto dai carabinieri durante il processo di Viterbo. Luca e Perenze lo difesero come

meglio poterono, ma le loro testimonianze non valsero ad evitargli lergastolo. Il loro atteggiamento è

tuttavia abbastanza spiegabile. Gasparino era stato già dai tempi di Messana un fattivo collaboratore

delle forze dellordine che gli avevano fatto avere carte di libera circolazione e documenti falsi. Perenze

se lo portava a spasso, e Luca si dimostrava magnanime. E Gasparino si fidava e sperava. Cosa gli era

stato chiesto in cambio? Non certo lo stanamento o luccisione di Giuliano. Questi era già stato mollato

dalla mafia; i Miceli lo avevano scaricato e sapevano benissimo dove si trovava. Dunque il luogotenentedi Giuliano aveva un compito preciso: venire in possesso del memoriale del suo capo, di cui conosceva il

contenuto, avendolo visto e tenuto con sé per lunghi mesi, come egli stesso dichiarava.

Si noti la concentricità delle funzioni, come in un sistema di scatole cinesi, o di matriosche: Ferreri arriva

alla conclusione della fase eversiva, poi muore; Pisciotta ha in sé le funzioni di Ferreri, ma le spinge più in

avanti finché non si arriva alleliminazione di Giuliano; questi ha in sé le funzioni di Ferreri e Pisciotta

finché questi non si dimostra disponibile a prendere in carico luccisione del suo capo. Pisciotta è lultimo

a morire perché contiene tutti. Tre anelli concentrici, cronologicamente significativi. Si può affermare che

il primo rappresenta la consapevolezza sul bimestre delle stragi; Pisciotta ha questa consapevolezza ma

non fino al punto di essere a conoscenza diretta dellanima segreta di Fra Diavolo: poteva solo

sospettarla, altrimenti avrebbe fatto la stessa fine di Ferreri. Muore perché sa qualcosa che gli altri due

non potevano da defunti sapere, e cioè in quale gioco era entrato per far sì che gli ultimi segreti sul

fronte del banditismo fossero definitivamente seppelliti. Poi doveva anche lui scomparire. Nella speranzache i carabinieri lo aiutassero fino in fondo, non contento della sconfitta di Viterbo, pensò di potersi

rifare a Roma. Ma non arrivò alla conclusione della sentenza di quei giudici. La differenza tra Giuliano e

lui è questa: il primo tratta con le armi in pugno, come dimostrava la strage di Bellolampo, battesimo di

fuoco dellarrivo del colonnello Luca in Sicilia; il secondo tratta mettendosi a totale disposizione dei

carabinieri. Si fida, spera di redimersi, di tornare libero dopo un condono, unamnistia, un trattamento

speciale tutto per lui. Rifiuta il denaro per la taglia imposta per la cattura del capobanda; gli promettono

di mandarlo in America, ma lui rifiuta. Vuole un attestato di benemerenza, vuole tornare al consorzio

civile, riabbracciare la sua fidanzata, conforto e tormento al tempo stesso, nel calvario che lo

accompagna dalle carceri giudiziarie di Viterbo allUcciardone. Si autoaccusa dellassassinio del suo capo

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e continua a sperare. Nella vicenda della sua morte, come del resto in quella di Ferreri e Giuliano, è

questo che sgomenta: si eliminano dei banditi pluricondannati allergastolo, con i quali i rappresentanti

dello Stato avevano ampiamente trattato, fino a fornire aiuti e protezione; è luso spregiudicato dei

confidenti; è il ricorso alla criminalità per finalità politiche e di parte. Anche i giudici romani non

poterono fare a meno di rilevare alcune anomalie:

Le affermazioni dellimputato Gaspare Pisciotta circa le sue relazioni con la polizia (v. n. 51, A, II) furonosmentite dal teste Messana che escluse nel modo più reciso di aver avuto rapporti con lui e di avergli

rilasciato un tesserino di riconoscimento, come pure negò di aver avuto proprio confidente il Ferreri (V/5,

624); ma, in contrasto con tale testimonianza, il gen. Luca depose che, nellatto di rilasciare al Pisciotta i

due tesserini di cui si è fatto cenno, questi gliene mostrò un altro, molto logoro per luso, dalla fotografia

sbiadita, rilasciato al nome di Faraci Giuseppe, in data 20 maggio 1947, dallIspettorato generale di PS per la

Sicilia, nel quale tesserino la firma del funzionario, costituita da un segno indecifrabile, somigliava a quella

consueta dellispettore Messana (V/5, 674 r); e i testi, ten. col. Paolantonio e m.llo Calandra, fecero

affermazioni che non consentono di avere dubbio sulla predetta qualità di confidente del Ferreri.

Il teste Verdiani invece ammise lincontro con il Giuliano, avvenuto a sera inoltrata, in una località tra

Corleone e Castelvetrano, la vigilia o lantivigilia del Natale 1949: lo scopo che si proponeva egli disse

era di ottenere intanto la cessazione di ogni attività criminosa contro le forze di polizia e di giungere poi allacostituzione, o alla cattura, o alla eliminazione del Giuliano con qualunque mezzo; ed al capo bandito aveva

fatto credere che si sarebbe adoperato affinché alla madre, Lombardo Maria, chera detenuta, fosse

concessa la libertà provvisoria. Chiarì di aver avuto col Giuliano, tramite Ignazio Miceli, rapporti epistolari

ed esibì una lettera ricevuta il 18 febbraio 1950 con la quale il capo bandito si offriva di inviargli un

memoriale intorno ai fatti di Portella: si era trattato di un errore gli scriveva tra laltro il Giuliano

perché lobbiettivo non era quello di colpire quelli che disgraziatamente capitarono, ma bene altro, tutto

ciò sempre per colpa dei comunisti stessi perché sono stati loro che ci hanno costretti a ciò; ed, alludendo

a quanto avrebbe scritto nel memoriale, proseguiva: se lei riconosce che sia necessario anche farlo sentire

a sua Eccellenza Pili può dirglielo e se chi sa vuole parlarmi personalmente sono disposto ad incontrarci di

nuovo, mi farebbe piacere perché sarebbe di grande conforto e concludeva raccomandando la sorte delle

sorelle Marianna e Giuseppina allora detenute (V/5, 661).

Rivelò ancora il Verdiani di aver ricevuto, circa due mesi dopo, dal Giuliano un memoriale scritto e

sottoscritto di suo pugno, che egli si era affrettato a rimettere in data 18 maggio 1950 a SE Pili, procuratore

generale della Repubblica in Palermo, per luso di giustizia; e di aver avuto con Pisciotta Gaspare un solo

rapporto epistolare allorché questi con lettera 14 giugno 1950, inviatagli tramite lo stesso intermediario, si

offrì di eliminare il Giuliano. Esibì la lettera, che per altro la Corte non acquisì al processo, ed il Pisciotta

riconobbe di averla scritta lui (V/5, 655, 659).

Messana mentiva sapendo di mentire, ma anche Verdiani non era da meno e la sapeva più lunga del

diavolo.

12- Lo sfondo del terrorismo 

Ad esempio in merito a quellautoaccusa che Pisciotta avrebbe comunicato al vecchio ispettore, il 14 giugno

1950, prima ancora di dichiarare in piena aula di tribunale nella primavera del 51, quasi con un anno di

anticipo, di essere stato lui luccisore di Giuliano. Perché può essere messa in discussione lautenticità di

questa lettera che Gasparino avrebbe confermato, davanti ai giudici, come scritta di suo pugno? Per

diverse ragioni:

1) non fu acquisita come abbiamo visto- dai giudici e pertanto di essa non si ha traccia alcuna;

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2) perché al momento in cui fu fatta vedere a Pisciotta, essa non faceva altro che confermare una versione

dei fatti che esonerava totalmente i carabinieri dalla responsabilità di avere ucciso Giuliano. E Pisciotta,

per un tornaconto personale non aveva interesse a mettersi contro di loro. Ce laveva contro la Ps che

laveva fatto arrestare, ma non contro i carabinieri dai quali sperava gli aiuti che in dibattimento

realmente ci furono;

3) quella è lunica lettera che Pisciotta avrebbe scritto a Verdiani, e cioè a una persona verso la quale eglinutriva la più totale diffidenza.

In sostanza i banditi sono inghiottiti nelle sabbie mobili di un sistema istituzionale con vaste fratture di

deviazione che mentre sembra tendere loro una mano per salvarli, li fa sprofondare e scomparire. Il fatto è

che lazione esercitata non si sviluppa nel gioco democratico, ma in quello sotterraneo delle complicità, di

vaste trame che per la loro natura e gravità non potevano non avere coperture alte. Perché altissime erano

le partite in gioco. Anche i giudici della Corte di Assise avevano notato lapparente stranezza di alcune

circostanze:

a)che, di tante bande armate costituite in Sicilia durante loccupazione dellisola da parte delle truppe

straniere, solo la banda comandata dal Giuliano aveva potuto sopravvivere per tanti anni; b) che, mentre

era stato possibile a tre ex partigiani continentali, Celestini Forniz, Trucco, di giungere fino al Giuliano erimanere per qualche tempo presso di lui; ad una giornalista straniera, Maria Cilyacus, di intervistarlo e di

ritornare in Sicilia per raggiungerlo nuovamente nel suo nascondiglio, intento nel quale forse sarebbe

riuscita se non fosse stata arrestata, tempestivamente; al giornalista Rizza, al fotografo Meldolesi,

alloperatore cinematografico DAmbrosio di incontrarsi con lui, alla presenza del suo luogotenente, nella

stalla di Salemi, e di intervistarlo, ritrarre fotografie e fare un cortometraggio solo le forze di polizia,

malgrado non avessero rallentato mai la lotta contro la banda, non erano riuscite a scovarlo, al punto che lo

stesso comandante del CFRB, dopo dieci mesi di permanenza in Sicilia, non aveva potuto ancora sapere

dove il Giuliano si celasse; c) che pochi giorni prima della strage era pervenuta al capo bandito, a mezzo del

cognato Sciortino Pasquale, una lettera misteriosa la cui relazione col delitto appariva, in base alle

dichiarazioni rese da Genovese Giovanni, chiara ed indubitabile; d) che il Giuliano era stato ucciso appena

dopo che col secondo memoriale aveva escluso lesistenza del supposto mandato e di mandanti; potesse

far pensare al concorso nei delitti di che trattasi di compartecipi estranei alla banda, non ancora accertati iquali alla banda ed al suo capo fossero stati larghi di protezione e di aiuti.

E avevano colto labnormità di alcuni fatti:

quali appunto: a) il visibile contrasto per emulazione secondo la spiegazione data dal teste Luca ,

manifestatosi tra la Pubblica Sicurezza e lArma dei Carabinieri dopo leccidio di Bellolampo (v. n. 44, IV),

per effetto del quale lispettore generale di PS Ciro Verdiani, non soltanto omise di consegnare al

comandante del CFRB ogni atto dellufficio fino allora diretto e nulla gli fece conoscere della organizzazione

confidenziale della quale si era servito cosicché il nuovo organo dovette incominciare a costruire ex novo

quelledificio che era stato già costruito a spese dello Stato e nellinteresse esclusivo della generalità dei

cittadini , ma continuò ad occuparsi, nonostante che più non lo dovesse, del bandito Giuliano, sia

ponendo in essere quellattività di cui si è detto (v. n. 52), sia trascurando di dare esecuzione ad unoqualsiasi tra i tanti mandati di cattura emessi dallAutorità giudiziaria contro Giuliano Salvatore e Pisciotta

Gaspare; e non a questo limitandosi, poiché, qualche giorno prima che il Giuliano fosse soppresso,

attraverso il quasi mafioso Marotta pervenne o doveva pervenire al Giuliano una lettera con cui lo si

metteva in guardia facendogli intendere che Gaspare Pisciotta era entrato nellorbita del colonnello Luca ed

operava per costui; b) lavere lispettore generale di PS  Messana prescelto a suo confidente Ferreri

Salvatore, condannato con sentenza passata in giudicato alla pena dellergastolo e latitante, contro il quale

invece avrebbe dovuto far eseguire la condanna; c) latteggiamento in contrasto con la funzione che è

propria degli appartenenti allArma dei carabinieri ed alle forze destinate alla repressione del banditismo

avuto dallallora col. Luca e dal cap. Perenze, anche in epoca posteriore alla morte del Giuliano, nei

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confronti del fuorilegge Gaspare Pisciotta, che oltre tutto fu lasciato in stato di libertà fino a quando gli

agenti della Questura di Palermo non riuscirono a catturarlo, atteggiamento culminato nelle ricordate

affermazioni sullalibi fatte nel dibattimento; d) lavere avuto il Giuliano rapporti, oltre che con funzionari di

PS, anche con un magistrato, col Procuratore generale presso la Corte di Appello di Palermo, Emanuele Pili,

come era lecito desumere dalla lettera esibita dal teste Verdiani.

Ma quei giudici avevano anche dichiarato di non aver motivo di occuparsi né della mafia, né delbanditismo, né dei rapporti tra mafia e banditismo, sebbene alcuno dei difensori ed anche il PM vi si

fossero soffermati, trattandosi di problemi che, se pure attraenti e degni di esame, interessavano la

sociologia ed esulavano dal tema di una sentenza penale. Neanche i giudici romani se ne occuparono, pur

avendo sollevato il problema dei forti condizionamenti della mafia nellambiente sociale. Le loro

affermazioni sono semplicemente sbalorditive, perché non ebbero nessun effetto:

[] non è possibile assolvere un compito siffatto, in una causa in cui i protagonisti vivono in un mondo di

mafia e di banditismo, senza tenere conto delle regole che lo governano. Esattamente i primi giudici hanno

affermato che una sentenza penale non può occuparsi di problemi che riguardano la sociologia e tali

certamente sono quelli che riguardano i fenomeni della mafia e del banditismo sotto il profilo delle cause

che li hanno determinati e che tuttora ne condizionano lesistenza, sotto il profilo, cioè, storico e sociale.

Ma non sono cotesti gli aspetti che preme considerare e non si esauriscono in essi i problemi inerenti allarealtà della mafia e del banditismo: altri ve ne sono che interessano così il sociologo, come il giudice, per i

riflessi di psicologia giudiziaria, quali appunto il contenuto essenziale che i due fenomeni caratterizza, la

legge che li governa e in un certo senso li accomuna, lestensione della mafia nellambiente sociale,

lincidenza sulla personalità morale dei soggetti che vivono ed operano in un ambiente siffattamente

influenzato. []

Esaminando lattività svolta dal Giuliano e dalla sua banda durante i moti dellEVIS si è osservato che il

movimento separatista trovò i suoi principali sostenitori nel ceto agrario e nella mafia; che lEVIS agitò i

medesimi interessi politici e rappresentò le stesse correnti politicosociali; che il Giuliano elevato a

paladino di cotesti interessi fu strumento di coloro che li sostenevano. Ed accennando ad Ignazio Miceli,

capo della mafia di Monreale che pare fosse una delle famiglie più importanti della Sicilia al nipote

Antonino Miceli e ad altri mafiosi (Domenico Albano, capo della mafia di Borgetto), si è rilevato comecostoro avessero tenuto in pugno le sorti della banda e del suo capo e ne fossero stati i protettori fino a

quando non era parso loro di scorgere una via di salvezza nel secondare il compito delle forze di

repressione del banditismo. Si può, adunque, sicuramente affermare anche se, in ossequio allomertà,

Terranova Antonino Cacaova ha detto dignorare tutto sulla mafia (W/1, 712) che tra la mafia e il

Giuliano vi fu un legame costante determinato da una convergenza dinteressi di cui il capo bandito fu

portatore.

Su questa linea, arrivata incontaminata fino ad oggi, si spiegano le ragioni degli atteggiamenti della

magistratura rispetto ai tragici fatti di cui ci siamo occupati e rispetto ai quali, agli stessi giudici risultava

evidente la matrice terroristica:

una distinzione era pure da farsi tra delitto comune, delitto politico e delitto terroristico e, se mai, le azionicriminose volute ed attuate dal Giuliano e dalla sua banda, sia a Portella della Ginestra, sia contro le

menzionate sedi dei partiti di sinistra, dovevano ricondursi nellambito del delitto terroristico del quale

avevano tutti i caratteri, dalla preordinazione dei mezzi di esecuzione alla potenzialità diffusiva degli stessi,

dalla vasta estensione degli effetti immediati alla volontà degli agenti di terrorizzare le popolazioni. []la

disamina degli antecedenti del fatto conduce a ritenere che il Giuliano non era solo in quella lotta perché

vera attorno a lui lo si è visto un mondo legato, interessato alla conservazione del tradizionale regime

della terra, e perché il delitto segnò il passaggio ad un programma di violenza terroristica per arginare il

movimento sindacale nelle campagne dopo il fallimento della propaganda e della intimidazione culminata

nei risultati delle elezioni regionali.

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Anche secondo il ten. col. Paolantonio mafia e banditismo erano collegati (V/6, 723); e se, del tutto

coerentemente alla sua inclinazione ed alla sua mentalità, il Giuliano concepì il disegno di debellare i

comunisti locali col terrore e di ristabilire in tal modo la sua autorità in quelle zone dove pareva

compromessa, nonché di suscitare con la violenza una crociata antibolscevica in Sicilia, è certo che, come

nei moti dellEVIS, così in questa lotta, egli si elevò a tutore degli interessi di coloro che lo sostenevano,

interessi nei quali era necessariamente accomunato, pur mirando alla realizzazione di fini particolari tra cui

la liberazione sua e di quelli della sua banda.

Ciò traspare dallappello alla difesa del nobile sentimento che ci lega alla nostra cara terra vale a dire

alla difesa della tradizionale organizzazione economico-sociale della terra che i comunisti cercavano di

smantellare appello contenuto nei manifestini a stampa diffusi in occasione degli attentati alle sedi

comuniste (v. n. 24); più chiaramente risulta dal breve discorso tenuto a Cippi prima di muovere verso

Portella della Ginestra col quale il Giuliano spiegò che occorreva combattere e distruggere i comunisti

perché cominciavano a costituire un pericolo non solo per lui e per la banda, che non vedevano la possi-

bilità di una riabilitazione, ma per i proprietari che venivano privati delle loro terre (v. n. 26); trova riscontro

nel pensiero manifestato ai quattro cacciatori dal bandito che li custodiva ed espresso con la frase: i

comunisti vogliono togliere la terra e la mafia, ora gliela diamo noi sulle corna la terra (v. n. 20) [] è

chiaro che la spinta fondamentale al delitto va pur sempre ricercata nellinteresse a fermare la

penetrazione comunista nelle campagne per conservare le vecchie strutture agrarie, interesse che eraproprio anche di altri.

Ebbero il torto storico di non agire di conseguenza, o forse fu tale scelta la motivazione che ne spiega la

ragione storica. I banditi pagarono le spese per tutti.

(GIUSEPPE CASARRUBEA) 

Cfr., infra, pp. 185-187.

Cfr. Claudia Fusani, Moro, un Br fu fatto evadere, in La Repubblica, 17 dicembre 2000, p. 23 e Giovanni

Pellegrino, Segreto di Stato (intervista a), Torino, Einaudi, 2000. 

Cfr. Sentenza, p. 29.

Cfr. infra, pp. 35-37.

Cfr. Provincia regionale di Palermo- Comune di Piana degli Albanesi- Biblioteca G. Schirò, Portella della

Ginestra 50 anni dopo (1947-1997), documenti raccolti, scelti, introdotti e annotati da Giuseppe

Casarrubea, Caltanissetta- Roma, Sciascia, 1999, pp. 29-57 e passim.

Documento acquisito agli atti del processo di Viterbo tramite la Legione dei carabinieri di Palermo, sta in

Archivio generale della Corte di Appello di Roma (Agca), processo 13/50, cartella,1 vol. D, riportato in G.

Casarrubea, Fra Diavolo e il governo nero. Doppio Stato e stragi nella Sicilia del dopoguerra, Milano, Franco

Angeli, 1998, appendice di documenti.

Doc. in Agca, cit, allegato a Legione territoriale dei Carabinieri di Carini, Rapporto circa lattentato alla

sede del Partito Comunista di Carini avvenuto la sera del 22 giugno ad opera di elementi ritenuti 

appartenenti alla banda Giuliano, rimasti sconosciuti, n. 181, 25 giugno 1947. Uguale appello fu

rinvenuto dopo la strage di Partinico. Si notino due espressioni di Giuliano, che fece proprio il testo,

anche se da lui non scritto: 1) ho assunto questo impegno; 2) dora innanzi inizierò una lotta senza

quartiere .

Cfr. Pietro Ingrao, Le forze del disordine, LUnità, 24 giugno 1947, prima pagina.

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Cfr. Girolamo Li Causi, La situazione in Sicilia, in LUnità, 28 giugno 1947, prima pagina.

Troia Giuseppe era figlio di Benedetto e Rosalia Costanzo; era nato il 19/1/1884 a San Giuseppe Jato,

dove era residente in Via Nuova, 52. Era imparentato con Pietro Benedetto Gricoli, figlio di Giacomo e

della fu Carmela Costanzo (San Giuseppe Jato, 14/8/1916).

Cfr. Procura della Repubblica di Palermo (PRP), Verbale di sommarie informazioni, 5 maggio 1947, in

AGCA cit., cartella 1, vol. D, ff.53 e sgg.

Cfr. Tribunale di Palermo, Ufficio Istruzione (TPUI), Verbale di esame testimoniale senza giuramento,11giugno 1947, ivi, cartella 1, vol. D, ff. 336 3 segg.

Cfr. ibidem, TPUI, Esame di testimonio senza giuramento, ff.247-248.

Cfr. Giuseppe De Lutiis, Il lato oscuro del potere. Associazioni politiche e strutture paramilitari segrete

dal 1946 ad oggi, Roma, Editori Riuniti, 1996, pp. 16-18.

Cfr. ibidem, p. 25

Cfr. Associazioni di familiari vittime di stragi, Il terrorismo e le sue maschere. Luso politico delle stragi,

Bologna, Pendragon, 1966, p. 19 e Roberto Faenza , Marco Fini, Gli americani in Italia, Milano, 1976, p.

138 (documento del Dipartimento di Stato Usa 86500/7-742, ivi cit.).  

Cfr. G. De Lutiis, Il lato oscuro del potere, cit., p. 27

Cfr. Nico Perrone, De Gasperi e lAmerica, cit., p. 74.

Cfr. ibidem, pp.79-80.

Cfr. ibidem, p. 89.

Cfr. Giuseppe Calandra, Memoriale dattiloscritto, fasc. II, p. 121.

Cfr. AGCA, cit., Corte di Assise di Viterbo (Cav), Dichiarazione di Antonino Terranova, dibattimento del 1°

maggio 1951; cartella 8, f.5 e 11. 

Cfr. ibidem, p. 16.Cfr. Gli uomini della P2 in Sicilia: chi e dove, in I Siciliani, marzo-aprile 1985, nn. 26-27.

Cfr. CPIM,   Atti interni, cit., Testo delle dichiarazioni dellonorevole Giovanni Francesco Alliata rese al 

comitato dindagine nella seduta del 16 aprile 1970, allegato 14, p.512.Nel dicembre del 51 il Barbera

capeggiava a Palermo il Partito nazionale monarchico, mentre, Leone Marchesano, Alliata e Cusumano

Geloso avevano fondato il Fronte nazionale monarchico. Cfr. anche il memoriale Ramirez in appendice.

Cfr., AGCA , Cav. cit., Dichiarazione di Antonino Terranova, cit., p. 21.

Cfr AGCA, II corte di appello di Roma, Sentenza 10 agosto 1956, vol. II, pp.282-283, 333, 339.

Cfr. AGCA, Cav, cit., p.123.

Si trova in AGCA, cartella 6 vol.Z, n.5. E trascritta con tutti gli errori secondo loriginale. Si può fare

risalire al nov-dic. 1949.Cfr. Archivio Arcidiocesi di Monreale, lettera del patriarca di Venezia a mons. Filippi, 25 ottobre 1949.

Cfr. ibidem, lettera dellabate Timoteo Campi del monastero di S. Giustino di Padova a mons. Filippi, 27

ottobre 1949.

Cfr. ibidem, telegramma del segretario particolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri

allarcivescovo di Monreale, 31 ottobre 1949.

Cfr. Commissione Parlamentare dInchiesta sul fenomeno della Mafia in Sicilia, Atti relativi alla strage

di Portella della Ginestra (CPIM-PG),  parte prima, doc. 607, Documenti consegnati dal senatore

Girolamo Li Causi, in data 5 maggio 1970, riguardanti lattività della banda Giuliano , p. 355 e sgg.

Cfr. CPIM-PG, Lettera di Pisciotta a Maria Locullo, Viterbo, 2 marzo 1952, parte terza, pag. 921.

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Cfr. G. Lo Bianco, Il carabiniere e il bandito, Milano, Mursia, 1999, pp. 236-237.

Cfr. Commissione Stragi  , Breve storia dei servizi segreti italiani, in www.misteriditalia.com 

/servizisegreti/

Cfr. CPIM-PG, parte prima, p. 87.

Cfr. Sentenza, infra, p. 43.

Lo  stralcio della sentenza della corte di assise di Viterbo, ci fa cogliere il grave rilievo dei giudici circa

lomessa denuncia allautorità giudiziaria di Salvatore Ferreri e dei fratelli Pianello che avevano

 partecipato alla strage di Portella della Ginestra e con molta probabilità anche a quella di Partinico. Vi si 

  fa riferimento anche allomessa comunicazione allautorità giudiziaria, da parte dei carabinieri 

inquirenti, del fermo dei primi arrestati. Fatto ancora più grave se si pensa che non fu richiesta la

  prescritta autorizzazione. Il documento è ancora importante perché vi si afferma con certezza la

 presenza di Fra Diavolo tra i gruppi di fuoco. In CPIM, Atti interni, allegato 4, p.147-149.  

Cfr. infra, pp. 298-299.

Cfr., infra, p. 362.Cfr. AGCA, CAV, Rapporto giudiziario circa le ulteriori indagini in merito alla strage di contrada Portella

Ginestra ed alle aggressioni, seguite pure da strage, alle sedi dei partiti socialcomunisti in Provincia di 

Palermo,4 settembre 1947, n.37, allegato 29, processo 13/50, cart. n. 3, vol. L; ora in CPIM-PG, doc.

XXIII, n. 6, Pubblicazione degli Atti riferibili alla strage di Portella della Ginestra, parte quarta, doc. 649,

pp. 441 e sgg.

Cfr. infra, p. 105.

Cfr. infra, pp. 311-312.

Cfr. ibidem, p.322.

Cfr. verbale di continuazione di dibattimento,20 luglio 1951, cartella 4, vol. V, n.5 ora in Provincia

regionale di Palermo Comune di Piana degli Albanesi- Biblioteca G.Schirò, Portella della Ginestra 50

anni dopo (1947-1997), Caltanissetta- Roma, 1999, vol. II, p. 172.

Cfr., infra, pp. 117-119.

Cfr., infra, p. 228-229.

Cfr. infra, p. 246.

Cfr. infra, pp. 249-250.

Cfr. infra, pp.143 e sgg.

Cfr. infra, p.148-149.

Cfr, infra, pp. 162-163

Cfr. infra, pp. 167-168. 

Cfr. infra, p. 203.

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Cfr. infra, p. 205

Cfr. infra, p. 176, e pp. 345-347.