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ARACNE

Piccolo glossariobonaventuriano

Prima introduzione al pensieroe al lessico di Bonaventura da Bagnoregio

Andrea Di Maio

Page 4: Lemmata Christianorum Bonaventuriana 1

Copyright © MMVIIIARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–1711–1

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: aprile 2008

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INDICE

PRESENTAZIONE................................................................................................... 7LEMMATA CHRISTIANORUM ...................................................................................... 9NOTA BIBLIOGRAFICA .............................................................................................. 10

INTRODUZIONE AL PENSIERO DI SAN BONAVENTURAATTRAVERSO UNA PANORAMICA SUI SUOI CONCETTI FONDAMENTALI........... 13

CONTESTO ESPERIENZIALE E RIFLESSIONE TEOLOGICA:LA VITA SECONDO IL VANGELO................................................................................. 15LA TEOLOGIA COME DISCORSO DI, A E SU DIO.......................................................... 23LA DESTINAZIONE DEL DISCORSO:LA RIEDIFICAZIONE ECCLESIALE SECONDO IL CARISMA FRANCESCANO.................... 27IL CENTRO DEL DISCORSO: IL TRIPLICE VERBO NEL TRIPLICE LIBRO ........................ 35L’ARTICOLAZIONE DEL DISCORSO:TEOLOGIA TRINITARIA ED ECONOMIA SALVIFICA...................................................... 45IL PERCORSO DELLA FILOSOFIA ................................................................................ 55IL PERCORSO DELLA TEOLOGIA ................................................................................ 57IL PERCORSO DELLA VITA SPIRITUALE...................................................................... 61IL COMPIMENTO DEL DISCORSO NELLA PACE............................................................ 67

INTRODUZIONE AL LESSICO DI SAN BONAVENTURAATTRAVERSO L’ANALISI DI ALCUNI SUOI LEMMI E SINTAGMI ......................... 69

‘COMMUNICATIO’ ................................................................................................... 71‘NATURA’ ............................................................................................................... 75‘LEX NATURAE’, ‘SCRIPTA’, ‘GRATIAE’.‘PHILOSOPHI’, ‘IUDAEI’, ‘CHRISTIANI’ ................................................................... 89‘SCIENTIA’ – ‘INTELLECTUS’ – ‘SAPIENTIA’COME ABITI, DONI, CARISMI E STADI SPIRITUALI ..................................................... 95‘SCIENTIA’: LA SCIENZA, O MEGLIO LE SCIENZEFILOSOFICHE, TEOLOGICA E SPIRITUALE ................................................................ 101‘INTELLECTUS’: L’INTELLIGENZA COME ABITO ..................................................... 109‘SAPIENTIA’: LA SAPIENZA FILOSOFICA, TEOLOGICA E SPIRITUALE ....................... 111‘PHILOSOPHIA’ – ‘PHILOSOPHUS’: LA RICERCA DELLA SAPIENZA .......................... 119‘POLITICUS’ – ‘POLITICA’ ..................................................................................... 125‘VITA SPIRITUALIS’ ............................................................................................... 137‘SYLLOGISMUS CHRISTI’ – ‘PARALOGISMUS DIABOLI’ .......................................... 149‘HUMILITAS’ – ‘NIHILITAS’ ................................................................................... 157

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PRESENTAZIONE 7

PRESENTAZIONE

Glossario è una raccolta di Glosse, nel senso di locuzioni difficiliopportunamente spiegate, e ipertesti esplicativi di un testo: nel caso diquesto volume, indica un repertorio essenziale di concetti e termini bo-naventuriani destinato agli studenti per introdurli nell’orizzonte del pen-siero e del lessico di Bonaventura da Bagnoregio, e – con ciò – avviarliallo studio della lessicografia filosofica e della filosofia cristiana.

Il volume nasce infatti dall’insegnamento e per l’insegnamento nella “Scuoladi Lessicografia ed Ermeneutica” e nel “Curriculum di Filosofia Cristiana” dellaPontificia Università Gregoriana. Inaugura la serie di studi lessicografici sui Lem-mata Christianorum e si collega ai volumi del Percorso di Filosofia Cristiana,che in Bonaventura ha uno degli autori di riferimento.

Sintesi di studi più specifici ed ampi e pre-testo ai testi dell’autoree sull’autore studiato, il volume si articola in due parti che si rispec-chiano: la prima immette in una visione panoramica dei concetti fonda-mentali del pensiero bonaventuriano, quasi a spiegar Bonaventura nellostile di Bonaventura; la seconda fornisce esempi di analisi lessicograficadi alcuni rilevanti lemmi e sintagmi del lessico bonaventuriano, a mo’ divoci di dizionario enciclopedico da consultare all’occorrenza: il che nespiega ripetizioni e rimandi.

*Nel volume si cerca di esercitare una peculiare ermeneutica specu-

lativa e performativa, descrivibile con le seguenti metafore.L’interprete guarda ai testi come il biologo alla lente del microsco-

pio: non per studiare la lente, ma la vita.L’interprete dice sui testi per ridire i testi, quasi a eseguirli, come

l’attore: nessun’opera letteraria, artistica o teatrale fu composta per es-sere studiata dai critici, ma per essere apprezzata dal pubblico; così ipensatori hanno scritto per essere discussi e capiti.

L’interprete deve saper narrare: chi narra una storiella deve far ri-dere; chi una storia deve far sognare; chi la Storia deve far capire e, nelcaso della Storia del Pensiero, deve soprattutto far pensare. Altrimentirischia di essere come chi raccontando barzellette si sforzasse di ricor-darne e spiegarne ogni particolare: col risultato che la barzelletta non fapiù ridere.

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INTRODUZIONE AL PENSIERO E AL LESSICO DI SAN BONAVENTURA8

A volte la filologia ha allontanato i testi dai lettori, senza avvicinare i lettoriai testi. Del resto, ben curioso è lo strabismo dei medievisti che del latino aboli-scono l’ortografia classica, conservandone l’ortoepia.

*Fin dall’inizio dei miei studi universitari mi ero interessato preva-

lentemente al pensiero e al lessico di Tommaso d’Aquino. L’interessa-mento per Bonaventura fu invece il risultato di un felice compromessonella scelta del tema della tesi di laurea all’Università di Roma “La Sa-pienza”. Da allora, gli studi bonaventuriani non mi hanno mai abbando-nato né tradito; e l’ambiente, ristretto e familiare, degli studiosi bona-venturiani si è rivelato molto accogliente.

Al professor Alfonso Maierù devo la spinta a iniziare; al padre Jacques-GuyBougerol l’accompagnamento a continuare, nonché l’avviamento all’opera di tra-duttore. Ringrazio Orlando Todisco e Letterio Mauro per l’incoraggiamento nonsolo iniziale; Barbara Faes, Alberto Bartola e Riccardo Quinto per il confronto e ilsostegno costante; Antonino Poppi, Luciano Bertazzo, Felice Accrocca e PaulSpilsbury per i chiarimenti su temi francescani e antoniani; Ireos Della Savia, perle suggestioni di mistica e la rilettura della prima parte del testo; Andrea Carroccioper la revisione dell’intero volume.

*Nella percezione si ricorre alla visione binoculare, per meglio co-

gliere la tridimensionalità del mondo, senza appiattirla: anzi, osservandoda due punti di vista (distinti, non distanti) un oggetto lontano se ne puòper parallasse calcolare trigonometricamente la distanza. Anche in filo-sofia attraverso l’opera di due autori come Tommaso e Bonaventura sipuò meglio sondare per parallasse ermeneutica la profondità dei pro-blemi e del Metaproblema.

* ‘Lèmmata’ è plurale di ‘lemma’, nel senso di titolo di una voce di

Lessico, e quindi della corrispondente unità lessicale (lessema, o piùcomunemente termine); o, per estensione, di titolo e contenuto di unatrattazione specialistica. Per “Lemmata Christianorum” si intendonodunque i “termini dei cristiani”, ossia in generale il Lessico del linguag-gio coniato o forgiato dal cristianesimo, ma in particolare quello espres-so nella lingua latina, soprattutto patristica e scolastica, insieme alle ri-spettive implicazioni concettuali e dottrinali.

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PRESENTAZIONE 9

NOTA PRELIMINARE SUI “LEMMATA CHRISTIANORUM”Per filosofia cristiana intendiamo progressivamente: [1] la storia e fenome-

nologia della filosofia dei cristiani (Philosophia Christianorum); [2] la filosofiadella religione cristiana (Philosophia Christianismi, col genitivo oggettivo);[3] l’ermeneutica e sistematica delle intra-strutture filosofiche del Cristianesimo(Philosophia Christianismi, col genitivo soggettivo); [4] il senso cristiano della fi-losofia (Philosophia Christiana in senso forte). Se fondativamente, secondo Hei-degger, la filosofia “parla greco”, analogamente la filosofia cristiana parla ebraico,greco e latino: il suo lessico di tradizione latina sono i “lemmata Christianorum”.

1. Per lessico del Cristianesimo intendiamo l’insieme dei lemmi morfotema-ticamente coniati o almeno semanticamente modificati dai cristiani, a motivo delnuovo orizzonte di senso costituito dalla loro fede.

2. Lo studio dell’uso di tali lemmi rientra nella filosofia del linguaggio cri-stiano, il cui impianto lessicale e concettuale è per un verso a-specifico (ossia inrapporto di continuità e comunanza rispetto al contesto non cristiano), ma perl’altro verso specifico (ossia in condizione di discontinuità e originalità).

3. Poiché in generale l’uso del lessico manifesta la philosophia exercita dellocutore, allora il sistema concettuale insito nell’uso dei lemmata Christianorumcostituisce una delle più rilevanti intra-strutture filosofiche del cristianesimo.

Nel linguaggio ordinario si trovano le nozioni comuni a tutte le scienze del libroDelta della Metafisica di Aristotele, le nozioni note e ignote (come il tempo) di Agostino,l’antiquissima sapientia di Vico, la filosofia spontanea di Gramsci, le certezze precatego-riali di Husserl, i giochi linguistici di Wittgenstein, la casa dell’essere di Heidegger. Nellinguaggio cristiano, la lex orandi è per la teologia lex credendi e cognoscendi; per la filo-sofia, invece, è lex cogitandi, in quanto (come la metafora di Ricoeur) “dà da pensare”.

I significati dei termini usati per esprimere e pensare l’essenza del cristiane-simo sono paragonabili agli otri evangelici da riempire fino all’orlo, per poi“esplodere” nell’analogicità; d’altro canto, i concetti rielaborati per pensare ilmessaggio cristiano possono essere svuotati del loro contenuto teologico, ed esse-re restituiti (affinati ed estesi) alla filosofia.

Così, secondo il primo movimento, categorie filosofiche e religiose non cristiane pos-sono essere riformulate per esprimere più adeguatamente il “nuovo” e possono perfino es-sere restituite “speculativamente più raffinate” alla filosofia: come ad esempio hanno fatto iPadri e gli Scolastici con le categorie di natura, persona, essere, e così via. Invece, secondol’altro movimento, categorie bibliche o in generale cristiane possono essere secolarizzate eutilizzate filosoficamente (come ad esempio la categoria di spogliazione, paradosso, scan-dalo, momento, mistero, fede, speranza, amore, ricerca e comunicazione, sapienza e affini.

4. Se si ammette (o almeno suppone) la verità della pretesa rivelativa cristia-na, la lessicografia speculativa di tali parole comuni alla filosofia e alla teologiaporta a scoprire che nei rispettivi lógoi la filosofia cerca il Lógos originario e ori-ginante (interpretando umanamente il parlare proprio di Dio che è l’essere da luicreato); la teologia invece lo fa coincidere con il Lógos generato e incarnato (in-terpretando il parlare umano della Scrittura, che si presenta come ispirato da Dio).

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INTRODUZIONE AL PENSIERO E AL LESSICO DI SAN BONAVENTURA10

NOTA BIBLIOGRAFICA BONAVENTURIANA

L’edizione critica dell’Opera omnia di San Bonaventura è stata intrapresanel 1877 da un’apposita commissione di frati minori detta di Quaracchi (“Ad Cla-ras Aquas”, presso Firenze), dove aveva sede, per poi trasferirsi nel 1971 a Grot-taferrata e nel 2008 a Roma: tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento fu-rono pubblicati i volumi dell’editio maior 1, a cui si aggiunsero quelli dell’editiominor del Commento alle Sentenze e dei principali opuscoli e sermoni teologici(con una più accurata partizione testuale) e il volume di opuscoli ascetici e misti-ci 2; di alcuni sermoni e di una diversa reportatio delle Collationes in Hexaëmeronsono state approntate nuove o rinnovate edizioni critiche 3. Tali testi sono stati ri-presi in varie edizioni bilingui: quelle parziali in spagnolo, francese e inglese; equella completa (latina e italiana) in corso di pubblicazione presso Città Nuova 4.

La concordanza elettronica di alcune opere bonaventuriane, inizialmentepubblicata come Thesaurus Bonaventurianus da Jacqueline Hamesse, è ora inse-rita nella banca dati annessa al Corpus Christianorum 5.

Per accostarsi allo studio di Bonaventura è bene iniziare dall’introduzionecritica di Bougerol e da buone presentazioni complessive 6, passare alla ricostru-

1 Sancti BONAVENTURAE Opera omnia, edita studio et cura pp. Collegii a s. Bonaventura,

ex typ. Collegii S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1882-1902, 11 vol. (vol. 1-4:Commentaria in quatuor libros sententiarum magistri Petri Lombardi; Indices in tomos I-IV;vol. 5: Opuscula varia; vol. 6: Commentarii in Sacram Scripturam; vol. 7: Commentarius inEvangelium S. Lucae; vol. 8: Opuscula varia ad theologiam mysticam et res Ordinis FratrumMinorum spectanta; vol. 9: Sermones de tempore; vol. 10: Operum omnium complementum).

2 Sancti BONAVENTURAE Opera theologica selecta. Editio minor, ex typ. Collegii S. Bona-venturae, Ad Claras Aquas 1934-1964, 5 vol. (vol. 1: Liber I Sententiarum; vol. 2: Liber II Sen-tentiarum; vol. 3: Liber III Sententiarum; vol. 4: Liber IV Sententiarum; vol. 5: Tria opuscula.Sermones theologici). Sancti BONAVENTURAE Decem opuscula ad theologiam mysticam spec-tantia, ex typ. Collegii S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas 1965.

3 Sancti BONAVENTURAE Collationes in Hexaëmeron et Bonaventuriana quaedam selectaad fidem codd. mss.; edidit Ferdinandus Delorme, ex typ. Collegii S. Bonaventurae, Ad ClarasAquas 1934. Sancti BONAVENTURAE Sermones dominicales ad fidem codicum nunc denuo editi,studio et cura Iacobi Guidi Bougerol, Collegio S. Bonaventura, Grottaferrata 1977. RenatoRUSSO, La metodologia del sapere nel sermone di san Bonaventura “Unus est Magister vesterChristus”. Con nuova edizione critica e traduzione italiana, Grottaferrata 1982. Saint BO-NAVENTURE, Sermons de tempore, nouvelle édition critique par Jacques Guy Bougerol, LesÉditions Franciscaines, Paris 1990. Saint BONAVENTURE, Sermons de diversis, nouvelle éditioncritique par Jacques Guy Bougerol, Les Éditions Franciscaines, Paris 1993.

4 Opere di San Bonaventura, edizione latino-italiana a cura di Jacques Guy Bougerol, Cor-nelio Del Zotto e Leonardo Sileo, Città Nuova, Roma 1990-, 14 vol., in corso di stampa.

5 CETEDOC Library of Christian Latin Texts - CLCLT-3, Lovanii Novi - Turnhout 1997 [e se-guenti edizioni]: contiene Breviloquium, Itinerarium, De reductione, De scientia Christi, Le-genda maior e minor, Sermones dominicales, De donis (altra reportatio), In Hexaëmeron(reportatio Delorme).

6 Jacques-Guy BOUGEROL, Introduction à l’étude de Saint Bonaventure, Desclée, Tournai1961; trad. it.: Introduzione a S. Bonaventura, LIEF, Vicenza 1988; versione aggiornata ma ri-

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PRESENTAZIONE 11

zione storiografica di Corvino (che supera la polemica tra Gilson e Van Steenber-ghen) 7, alla sintesi filosofica di Veuthey o alla rilettura teologica di Balthasar,Guardini e Ratzinger 8, per poi orientarsi negli studi specifici 9.

In questo volume vengono raccolti e ripresi i miei saggi riassuntivi su Bona-ventura 10, che rimandano ai contributi più specifici di lessicografia 11 e a quelli diermeneutica lessicografica, come pure di traduzione e sulla storiografia 12.

dotta: Introduzione generale, in Opere di San Bonaventura, Città Nuova, Roma 1990. LetterioMAURO, Introduzione a BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Itinerario dell’anima a Dio. Brevilo-quio. Riconduzione delle arti alla teologia, Rusconi, Milano 1985, p. 8-89. José AntonioMERINO, Historia de la Filosofía Franciscana, BAC, Madrid 1993; trad. it.: Storia della filoso-fia francescana, Biblioteca francescana, Milano 1993, cap. 2.

7 Francesco CORVINO, Bonaventura da Bagnoregio, francescano e pensatore, Dedalo, Bari1980; R Città Nuova, Roma 2006. La sua ricostruzione supera la quérelle sulla filosofia bona-venturiana: Étienne GILSON, La philosophie de St. Bonaventure, Vrin, Paris 1924; 31953; trad.it.: La filosofia di San Bonaventura, Jaca Book, Milano 1994; Fernand VAN STEENBERGHEN, Laphilosophie au XIII e siècle, Publications Universitaires, Louvain 1966; trad. it.: La filosofia nelXIII secolo, Vita e Pensiero, Milano 1972, cap. 5 (“San Bonaventura e la filosofia”).

8 Leone VEUTHEY, La filosofia cristiana di San Bonaventura, Agenzia del libro cattolico,Roma 1971; R Miscellanea Francescana, Roma 1996. Romano GUARDINI, Die Lehre des hlg.Bonaventura von der Erlösung, Düsseldorf 1923; Hans URS VON BALTHASAR, Herrlichkeit, vol.2, Johannes, Einsiedeln 1961; trad. it.: Gloria. Una estetica teologica, vol. 2 (Stili ecclesiastici),Jaca Book, Milano 1978, capitolo su San Bonaventura; Josef RATZINGER, Die Geschichtstheo-logie des heiligen Bonaventura, München, Schnell und Steiner 1959; trad. it. aggiornata: SanBonaventura. La teologia della storia, Nardini, Firenze 1991; R Porziuncola, Assisi 2008.

9 Cf Jacques-Guy BOUGEROL, Bibliographia bonaventuriana, quinto volume di S. Bona-ventura 1274-1974, Collegio San Bonaventura, Grottaferrata 1974. Per il repertorio degli studisuccessivi, cf “Bibliographia franciscana”, oltre al più generale “Medioevo Latino” (MEL). Diimmediato orientamento è l’enciclopedico Dizionario bonaventuriano, a cura di Ernesto Caroli,EFR - EMP, Padova 2008.

10 San Bonaventura e la teologia francescana, in Storia della Teologia. 2. Da Pietro Abe-lardo a Roberto Bellarmino, a cura di Giuseppe Occhipinti, Dehoniane, Roma - Bologna 1996,p. 59-104. Voci “Communicatio”, “Natura”, “Politica”, “Scientia”, “Spiritualitas” in Dizionariobonaventuriano, cit., p. 253-255, 559-569, 618-626, 701-717, 749-758.

11 Il vocabolario bonaventuriano per la Natura, in “Miscellanea Francescana” 1988 (88), p.301-356. La dottrina bonaventuriana sulla Natura, ibid. 1989 (89), p. 335-392. La concezionebonaventuriana della Natura quale potenziale oggetto di comunicazione, ibid. 1990 (90), p. 61-116. La metodologia è quella tematizzata in Il Concetto di Comunicazione, PUG, Roma 1998.

12 La logica della Croce in Bonaventura e Tommaso: il sillogismo di Cristo e il duplicemedio, in La Croce di Cristo, unica speranza, a cura di Tito Paolo Zecca, Eco - CIPI, San Ga-briele - Roma 1996, p. 373-398. La divisione bonaventuriana delle scienze. Un’applicazionedella lessicografia all’ermeneutica testuale. [I] In Sincronia, in “Gregorianum” 2000 (81), p.101-136; La divisione bonaventuriana delle scienze. Un’applicazione della lessicografia all’er-meneutica testuale. [II] In Diacronia – Confronto con Tommaso, ibid., p. 331-351; Lettura diBonaventura, “Collationes in Hexaëmeron” 3.2, in La divisione della filosofia e le sue ragioni.Lettura di testi medievali, (VI-XIII secolo), a cura di Giulio d’Onofrio, Avagliano, Cava de’ Tir-reni 2001, p. 157-184. L’Agnello di Dio “pastor et pastus” e la “specialissima effigies et simi-litudo”. L’eucaristia tra simbologia e mistagogia in Bonaventura, in “Doctor Seraphicus” 2006

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INTRODUZIONE AL PENSIERO E AL LESSICO DI SAN BONAVENTURA12

Nel volume queste sigle rimandano alle opere nel testo critico disponibile:

Brev BreviloquiumDon Collationes de septem donis Spiritus SanctiHex Collationes in HexaëmeronHexD Collationes in Hexaëmeron (reportatio edita da Delorme)Itin Itinerarium mentis in DeumLegMa Legenda maiorLegMi Legenda minorLignVi Lignum VitaeMyTrin Quaestiones disputatae de Mysterio TrinitatisPerfEv Quaestiones disputatae de perfectione evangelicaPerfVi De perfectione vitae ad sororesPraec Collationes de decem PraeceptisRed De reductione artium ad theologiamRegn De Regno Dei descripto in parabolisScienChr Quaestiones disputatae de scientia ChristiSent Commentaria in Sententiarum librosSolil SoliloquiumTriVia De triplici viaUnMag Sermo “Unus est magister vester Christus”

Le sequenza di numeri dopo la sigla indica le partizioni progressive del testo.Titoli o prologhi sono segnalati dallo zero; nel solo Commento alle Sentenze l’e-ventuale lettera che segue immediatamente il secondo numero della sequenza in-dica la parte in cui è suddivisa la distinzione; i codici «co», «ag», «sc», «db» e «adag», «ad sc», «ad db» segnalano rispettivamente il corpo, gli argomenti pro, quellicontro, i dubbi e le loro soluzioni. Le traduzioni italiane sono mie. I testi biblicisono citati dal testo della Vulgata con le abbreviazioni in latino.

(53), p. 7-42. Cristianesimo in dialogo con i non cristiani: l’approccio “testimoniale” di Fran-cesco e Bonaventura, in “Gregorianum” 2006 (87), p. 762-780. Espliciti richiami e taciti lega-mi: Antonio e Francesco; Bonaventura e Antonio, in “Il Santo” 2006 (46), p. 7-53. “Secundumdictamen legum politicarum…, sicut philosophus loquendo”. Ermeneutica dei testi e del lessicodi Bonaventura da Bagnoregio sulla comprensione della dimensione politica fra eredità classi-ca, innovazione cristiana e peculiarità francescana, in I Francescani e la politica, a cura diAlessandro Musco, Officina di Studi Medievali, Palermo 2007, vol. 1, p. 307-341. Vita spiri-tuale e riflessione filosofico-teologica: Bonaventura e il paradigma francescano e antonianodella riedificazione mediante le virtù, in “Revista Portuguesa de Filosofia” 2008, in stampa. Perquanto riguarda la traduzione e le note: San BONAVENTURA, Opuscoli teologici / 3. La perfezio-ne evangelica. Questioni disputate (Opere di San Bonaventura, edizione latino-italiana, vol.V/3), Città Nuova, Roma, 2005, p. 37-337. Per quanto riguarda un aspetto della storiografia:Sentieri inesplorati del francescanesimo. A proposito di un recente libro. Note di lettura, in “IlSanto” 2006 (46), p. 485-498.

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INTRODUZIONEAL PENSIERO DI SAN BONAVENTURA

ATTRAVERSO UNA PANORAMICASUI SUOI CONCETTI FONDAMENTALI

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CONTESTO ESPERIENZIALE E RIFLESSIONE TEOLOGICA 15

CONTESTO ESPERIENZIALE E RIFLESSIONE TEOLOGICA:LA VITA SECONDO IL VANGELO

FRANCESCO D’ASSISI E LA “VITA SECONDO IL VANGELO” 13

Nel 1205 Francesco d’Assisi, figlio di un ricco mercante e dotatodi ambizioni cavalleresche, si convertì dalla sua vita mondana e rice-vendo misticamente da Cristo stesso (secondo i biografi) il mandato diriparare la Chiesa, cominciò a ricostruire materialmente alcune chiese inrovina. Lasciata la casa paterna e tutti i suoi beni e riconosciuto pubbli-camente Dio come suo proprio Padre, iniziò una vita eremitica di peni-tenza, che lo portò vicino ai lebbrosi (i più emarginati della società diallora, e dei quali prima non sopportava neppure la vista), e ad «usar lo-ro misericordia»: la pietà filiale verso Dio lo aveva infatti riempito dipietà fraterna verso il suo prossimo.

Nel 1208, il giorno della festa di San Mattia, ascoltando il Vangelodella missione dei discepoli da parte di Gesù e sentendosi ispirato ametterlo in pratica «sine glossa», senza cioè interpretazioni accomo-danti, capì il senso della sua vocazione: vivere secondo la forma delsanto vangelo. Questo comportava innnanzitutto una vita dedita allapredicazione del vangelo in obbedienza a Cristo e sulla scorta dei primidiscepoli, andando cioè senza borsa né bisaccia, e dunque in assolutapovertà, itinerando e mendicando, per annunciare dovunque la pace(oggetto di ogni augurio e predica di Francesco). Ma ancor più (poichéCristo aveva chiamato i suoi non solo per mandarli a predicare, ma so-prattutto perché stessero con lui, e aveva chiesto loro di dare tutto ai po-veri solo perché meglio potessero poi personalmente seguirlo) compor-tava una vita in rapporto personale con Cristo nella Chiesa, mediante lasua Parola e il suo Corpo (cose per cui Francesco aveva la massima de-vozione) sotto la guida dei Pastori (per i quali Francesco aveva la mas-

13 Per gli scritti di FRANCESCO e le prime testimonianze sulla sua vita (con ampie introdu-

zioni e indicazioni bibliografiche) si vedano i Fontes Franciscani, a cura di Enrico Menestò ealtri, Porziuncola, Assisi 1995. Per l’interpretazione della figura di Francesco da parte della suaposterità (e dello stesso Bonaventura) si veda Stanislao da CAMPAGNOLA, L’angelo del sesto si-gillo e l’“Alter Christus”, Roma 1971.

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INTRODUZIONE AL PENSIERO DI SAN BONAVENTURA16

sima venerazione ed obbedienza), ed anche mediante il vincolo spiri-tuale e comunitario di una fraternità (o Religione). Ma soprattutto com-portava di conformarsi alla vita stessa di Gesù Cristo che, nell’incarna-zione (e ancor più nella passione), «da ricco che era si era fatto poveroper arricchire tutti». Pertanto, seguendo nudo Cristo nudo, Francescofondò sull’imitazione di Gesù la pratica delle virtù, e in particolare diquelle da lui più volte lodate: la sapienza insieme alla semplicità, la po-vertà insieme all’umiltà, la carità insieme all’obbedienza, perché

«chi una ne ha e le altre non offende, tutte le possiede; ma chi ne of-fende una, le offende tutte, e nessuna ne possiede».

Si aggregarono a lui i primi compagni, che Francesco inviò a due adue verso i quattro punti cardinali, con l’accordo di ritrovarsi annual-mente ad Assisi. Francesco sottopose subito al «signor papa» questanuova forma di vita, e Innocenzo III l’approvò oralmente. L’Ordine deiFrati Minori (così chiamato per umiltà) venne presto affiancato dal Se-condo Ordine femminile (di clausura) e dal Terz’Ordine secolare, di cuifanno parte i laici che condividono la spiritualità francescana. Per il suoOrdine scrisse nel 1221 una Regola di carattere prevalentemente spiri-tuale (detta «non bollata») e due anni dopo una Regola di valore legi-slativo (detta «bollata» perché approvata con bolla da Onorio III).

Francesco non era chierico (solo in un secondo momento accetteràdi essere ordinato diacono) né era perciò un “letterato”, e non volevafondare un ordine di chierici o letterati (come erano i Frati Predicatorifondati in quello stesso tempo da Domenico): tuttavia scrisse ad Anto-nio, frate e teologo, di

«aver piacere che insegnasse la teologia ai frati, purché non estin-guesse in questo lo spirito di orazione e devozione prescritto dalla Re-gola».

Da una parte, infatti,«occorre onorare e rispettare tutti i teologi e coloro che annunciano la

divina parola, in quanto ci danno spirito e vita»,ma dall’altra (secondo il carisma francescano) l’orazione e la testimo-nianza hanno il primato sulla speculazione e sull’argomentazione. Delresto, nel 1219 Francesco si era recato a Damiata, nel delta del Nilo,dove si stava combattendo la quinta crociata, e passando nel campo sa-raceno aveva predicato il Vangelo al Sultano; non aveva ottenuto risul-tati, ma nella Regola esortava i frati che ne avessero l’ispirazione (e ilpermesso del ministro) ad andare tra gli infedeli perché, senza fare di-

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CONTESTO ESPERIENZIALE E RIFLESSIONE TEOLOGICA 17

spute teologiche né tantomeno liti, testimoniassero con il loro compor-tamento di essere cristiani e, all’occorrenza, annunciassero la Parola diDio.

Nel 1224 sul monte della Verna, dopo un’apparizione del Crocifis-so nella forma di un serafino, ricevette le stimmate della passione, se-gno di suprema conformazione a Cristo. Portando così nel suo corpo ilsegno della croce, Francesco benediceva frate Leone col segno del Tau(la lettera a forma di croce, che simboleggia il sigillo di Dio impressosulla fronte degli eletti, a garanzia di salvezza), proprio come l’angelodel sesto sigillo di cui parla l’Apocalisse 14. Nel 1225 compose il Can-tico delle Creature, segno della sua contemplazione di Dio in ognicreatura, che «dell’Altissimo porta significazione». Nel 1226 dettò ilsuo Testamento ai frati e la sera del 3 ottobre morì ad Assisi.

Con tutta la sua vita Francesco aveva davvero ricostruito la Chiesa,rimanendone all’interno (a differenza dei tanti movimenti riformatoriereticali), ed anzi, cominciando dall’interno, ossia costruendo la Chiesacattolica nel cuore del singolo fedele: non a caso Francesco voleva che«tutti i frati fossero cattolici e vivessero e parlassero cattolicamente»; enon a caso Maria, la vera fedele, era da lui chiamata la «Vergine fattaChiesa».

Semplicissima e complessa allo stesso tempo, l’eredità di France-sco spesso si presterà purtroppo a interpretazioni unilaterali e riduttive.Così, l’Ordine, dilaniato al suo interno dalle diverse interpretazionidella Regola e del Testamento, diviso tra fedeltà all’istituzione e voca-zione alla profezia (che Francesco aveva saputo invece armonizzare insé), sarà a fatica tenuto unito dai primi Ministri Generali, che dovrannoperò adattare alle nuove situazioni l’intuizione originaria del Fondatore.

LA NASCITA DELLA TEOLOGIA FRANCESCANA

L’ingresso di chierici e teologi e la necessità di far studiare i fratidestinati al ministero presbiterale portò sempre più l’Ordine francescanoallo studio della teologia e all’apostolato universitario: ma lo spirito cheanimava i teologi francescani li portò ad elaborare una caratteristicateologia anch’essa «secondo la forma del santo Vangelo», ossia unateologia evangelica di ispirazione ed evangelizzatrice di intenti, cristo-centrica e sapienziale, affettiva prima che speculativa, attenta alla «si-

14 Cf Ap 6,12-7,17; cf anche Ez 9,4-6.

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gnificazione» di Dio nelle cose e alla sua presenza nell’uomo mediantele virtù: una teologia, insomma, tutta volta ad alimentare lo spirito diorazione e devozione, secondo il carisma di Francesco. Antonio rilessela pace francescana alla luce della requies agostiniana, inaugurando cosìun nuovo indirizzo teologico. Pur unitaria nell’ispirazione, la teologiafrancescana si sviluppò fin dall’inizio in forme assai diverse, come èmanifesto per le due prime scuole francescane di Parigi e di Oxford.

A Parigi i frati minori erano giunti nel 1219 per predicare al po-polo, ma ben presto si accorsero che per espletare la loro missione do-vevano inserirsi nell’Università, presso la quale stabilirono il proprioConvento. Nel 1236 Alessandro di Hales, uno dei più celebri maestri inTeologia, vestiva l’abito francescano. Intorno alla sua cattedra, trasferitapresso il Convento e rimasta anche dopo la sua morte (nel 1245) in ere-dità ai Minori, si formò la scuola teologica francescana di Parigi. AdAlessandro, autore di alcune questioni disputate e di un Commento alleSentenze di Pietro Lombardo (fra i primi del genere, scritto sotto formadi glossa letterale), fu attribuita anche la ponderosa Summa Halensis,che invece è una compilazione di più autori della scuola francescana:tale scritto era articolato come le Sentenze del Lombardo in quattro parti(Dio uno e trino e i suoi nomi; il creato e il male; Cristo, la legge divinae la grazia; i sacramenti e la resurrezione finale) e strutturato in questio-ni (ossia in domande, argomentazioni a favore e in contrario, e soluzio-ni) e sarà di capitale importanza per la formazione teologica di Bona-ventura e degli altri maestri parigini della seconda metà del secolo. Ladottrina della scuola francescana parigina era aperta alla filosofia ari-stotelica ma fondamentalmente agostiniana (secondo il detto «bisognacredere piuttosto ad Agostino che ad Aristotele»), ed era caratterizzatada alcune tesi tipiche: l’ilemorfismo universale (tutte le creature sonocomposte di forma e materia corporea o, nel caso delle creature spiri-tuali, incorporea); la dualità di sostanze nell’uomo; il duplice modo diconoscenza (quello scienziale e aristotelico delle cose inferiori, e quellosapienziale e agostiniano delle realtà superiori mediante l’illuminazionedivina); la pluralità delle forme sostanziali nello stesso soggetto.

Ad Oxford, invece, i frati minori erano arrivati nel 1224 e si eranosubito inseriti nell’Università, che rispetto a quella di Parigi aveva unaccentuato interesse per il platonismo e le scienze matematiche e speri-mentali. Qui fondarono un proprio studio teologico, affidandolo allaguida di Roberto Grossatesta, maestro secolare e già cancelliere del-l’Università, che vi rimase fino alla sua nomina a vescovo di Lincoln

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nel 1235. Pastore rigoroso e riformatore, commentatore e celebre tra-duttore di Aristotele, Dionigi e Damasceno, profondo conoscitore diAgostino, grande studioso di fenomeni naturali (in particolare nel cam-po dell’ottica), Grossatesta morì nel 1253, lasciando in eredità la sua bi-blioteca (e con essa il suo pensiero) ai francescani. La sua teoria dellaluce attraversa le scienze della natura e la metafisica (di ispirazioneneoplatonica) e la stessa teologia. Prima realtà creata da Dio («Fiatlux!») dopo il cielo spirituale e la terra (o materia) informe, la luce è laprima forma corporea, anzi è la corporeità stessa, nella sua tridimen-sionalità, che ne permette la propagazione: la luce dà così una strutturamatematica all’universo (riflesso dell’ordine di Dio, Luce spirituale),che la scienza umana può e deve scoprire ed esporre.

LA VITA E L’OPERA DI BONAVENTURA

Bonaventura (al secolo Giovanni Fidanza) nacque fra il 1217 e il1221 a Civita di Bagnoregio (fra Viterbo ed Orvieto); ancora bambinoguarì miracolosamente da un grave morbo dopo che i suoi avevano pre-gato per intercessione di San Francesco, morto da poco. Intorno al 1235Bonaventura andò a Parigi per compiervi gli studi universitari nella fa-coltà delle Arti prima, e in quella di Teologia poi. Entrato nell’Ordinedei frati minori, studiò sotto la guida di Alessandro di Hales, Odo Ri-galdi e Guglielmo di Melitona e iniziò la carriera universitaria comebaccelliere biblico (leggendo la Scrittura) e sentenziario (commentandoi quattro libri delle Sentenze del Lombardo e redigendone lo scriptum).Nel 1253 ottenne la licentia docendi e iniziò ad insegnare come maestroin teologia nello studio francescano di Parigi.

Tuttavia, i maestri del clero secolare dell’Università rifiutavano inquel tempo di riconoscere ufficialmente i maestri francescani e domeni-cani. I maestri secolari si opponevano infatti ai “mendicanti” sia perragioni di politica accademica (i mendicanti avevano sottratto al clerosecolare tre delle dodici cattedre della Facoltà di Teologia) sia per ra-gioni di visione ecclesiologica: la vita religiosa propugnata dagli ordinimendicanti esulava da tutti gli schemi del monachesimo e veniva ad in-terferire (a causa dell’esenzione dall’autorità diocesana) con la vita pa-storale delle parrocchie. Per di più, alcuni francescani (peraltro subitoisolati all’interno dell’Ordine) avevano accolto ed esasperato le ideedell’abate Gioacchino da Fiore, identificando l’avvento degli ordinimendicanti con la nuova era dello Spirito Santo, in cui la Chiesa sareb-be divenuta solamente spirituale e carismatica, senza più strutture.

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Sebbene in maniera non ufficiale, Bonaventura esercitò per quattroanni le sue tre funzioni di maestro, leggendo (ossia commentando) ilVangelo di Giovanni, il Vangelo di Luca e l’Ecclesiaste, disputando sulmistero della Trinità, sulla scienza di Cristo e sulla perfezione secondoil Vangelo, predicando sulla riconduzione delle arti (o scienze) allateologia (ed altro) e curando la redazione scritta di tutto questo lavoroaccademico. Scrisse anche il Breviloquium, o breve compendio di teo-logia sistematica.

Accolto ufficialmente nell’Università per intervento del papa assieme aTommaso d’Aquino nel 1256, Bonaventura dovette lasciare pochi mesi dopo lacattedra perché eletto Ministro Generale dell’Ordine. Con questo incarico viag-giò per tutta Europa, guidò con equilibrio l’Ordine in un momento non facile, nescrisse le Costituzioni (approvate dal Capitolo di Narbona), redasse la biografiaufficiale (l’unica autorizzata ad esistere) di Francesco (la Legenda Maior, e il suoriassunto, la Legenda Minor) e alcune lettere concernenti la vita dell’Ordine (tracui l’Epistola ad magistrum innominatum, in cui chiarisce in che misura i fratipotessero studiare le scienze profane) e la difesa dei Mendicanti dagli attacchi deiteologi secolari (come l’Apologia pauperum). Per divulgare la spiritualità france-scana compose alcuni fortunatissimi opuscoli spirituali, tra cui l’Itinerarium men-tis in Deum (scritto nel 1259 alla Verna), il De triplici via, il Soliloquium(antologia ragionata di testi patristici e monastici per la meditazione), il LignumVitae. Curò anche una raccolta di Sermoni (spesso di grande valore letterario eteologico) per tutte le domeniche e le principali feste dell’anno liturgico.

Bonaventura seguì con apprensione i nuovi fermenti culturalidell’aristotelismo eterodosso e condannò duramente il comportamentodi quei maestri parigini della facoltà delle Arti che esaltavano la filoso-fia pagana a scapito dell’ortodossia cristiana. Durante i periodi della suapermanenza a Parigi, pronunciò davanti a un folto pubblico di professorie studenti perlopiù francescani tre cicli di conferenze spirituali (leCollationes): nel 1267 sui dieci precetti, nel 1268 sui sette doni delloSpirito Santo e nel 1273 sui sei giorni della creazione (l’hexaëmeron),interpretati come le sei successive illuminazioni che portano alla pie-nezza della sapienza cristiana. Queste conferenze, riportate da alcuni“stenografi” e ricontrollate dall’autore, ne costituiscono il capolavoroletterario, teologico e spirituale. Bonaventura lasciò incompiuto il terzociclo di conferenze, perché nominato dal papa cardinale vescovo di Al-bano, con l’incarico di preparare il secondo concilio ecumenico di Lio-ne (a cui fu invitato come esperto anche Tommaso, che però morì inviaggio). Nel corso del Concilio (che doveva preparare la ricomposizio-ne dello scisma d’Oriente e avviare la riforma dei costumi nella Chiesa)Bonaventura si ammalò e morì il 15 luglio 1274.

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Dopo la sua morte Bonaventura, a differenza di Tommaso, nonispirò nessuna scuola teologica (i francescani gli preferirono infattiScoto e Ockham), ma la sua teologia spirituale godé di grande fortunanel corso dei secoli. Definito dai posteri «lucerna che splende e arde»,canonizzato nel 1482 e proclamato Dottore della Chiesa nel 1588, Bo-naventura rimane uno dei più fedeli (e originali) interpreti del france-scanesimo e, insieme a Tommaso, della Scolastica. Descritti dalla tradi-zione successiva, secondo una immagine biblica, come «due candelabrisplendenti nella casa di Dio», Bonaventura e Tommaso effettivamenteesprimono due diversi metodi e atteggiamenti teologici che nella lororeciproca complementarità continuano a rischiarare la Chiesa e ad eser-citarvi una grandissima influenza teologica e spirituale 15.

IL PROGETTO TEOLOGICO BONAVENTURIANO

Lo spirito francescano della teologia di Bonaventura è stato dai po-steri bene espresso dalla metafora (applicata da Gesù al Battista) della«lucerna che splende e arde». Tale lucerna ardendo splende, in quantoinfiammando l’affetto illumina l’intelletto, giacché per Francesco

«“i frati possono studiare, purché prima di insegnare mettano in prati-ca”: a nulla infatti giova sapere molto e non gustare nulla» [Hex 22.21];

ma poi splendendo arde, in quanto non solo splende in sé, accogliendola luce divina, ma anche, comunicandola, infiamma gli altri 16, comeesprime bene il testo paolino che Bonaventura prende a programmadella propria missione di teologo:

«Piego le ginocchia al Padre del Signor nostro Gesù Cristo, dal qualeprende nome ogni paternità in cielo e in terra, perché secondo la ric-chezza della sua gloria vi dia virtù d’esser corroborati mediante il suoSpirito nell’uomo interiore e far che Cristo abiti per fede nei vostri cuo-ri, affinché, radicati e fondati nella carità, possiate comprendere con tuttii santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e

15 La caratterizzazione di Bonaventura come «lucerna» risale perlomeno a GERSON; quella

di Tommaso e Bonaventura come i «due candelabri» di Ap 11,4 risale a SISTO V (in Trium-phantis Hierusalem, 13) nel 1588, ma è stata ripresa da LEONE XIII nel 1885. Per l’attualità diBonaventura, si veda la nota bibliografica iniziale. Infine, al numero 53 della esortazione apo-stolica post-sinodale di GIOVANNI PAOLO II del 1992 Pastores dabo vobis, Bonaventura (unicoautore assieme a Tommaso ad essere esplicitamente nominato) è citato a sostegno di uno studiodella teologia in cui si compenetrino il rigore intellettuale e il sapore spirituale, la speculazionee la devozione, l’intelligenza e l’umiltà, la scienza e la sapienza.

16 Sermo de Sancto Dominico, 1.

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aver la sovreminente scienza della carità di Cristo, finché siate ripienid’ogni pienezza di Dio» 17.

Lo stesso programma è così tradotto da Bonaventura all’inizio delsuo Itinerario:

«In principio invoco il primo principio, il “Padre della luce” da cuidiscende ogni illuminazione […] come “ogni miglior regalo e ogni donoperfetto”, […] per mezzo di suo Figlio, affinché per intercessione dellasantissima vergine Maria […] e del beato Francesco, di noi guida e pa-dre, “illumini i nostri occhi” spirituali per “dirigere i nostri passi sullavia della sua pace”: quella pace che annunciò e diede il Signor nostroGesù Cristo, e di cui Francesco […] ripeté l’annuncio» 18.

Confrontando ed esaminando questi due testi vi scopriamo espressonon solo un programma di vita personale, ma il progetto stesso dellateologia bonaventuriana: cosa innanzitutto la teologia è, in base al suoduplice principio (il Padre, primo principio, e il fedele orante); e, diconseguenza, cosa la teologia del fedele fa, e in particolare come nasceper fede (mediante la missione dello Spirito Santo e di Cristo nel cuoredei fedeli e l’intercessione dei santi), come si sviluppa nell’intelligenzaspirituale (mediante l’illuminazione interiore e la comprensione parzialedei misteri) e come giunge a compimento nella pace (mediante la per-fetta contemplazione di Dio). In tutto questo il teologo è semplicementeun tramite che con la sua preghiera e il suo studio accoglie la luce divi-na in sé per permettere più facilmente agli altri di recepirla, come riba-disce Bonaventura all’inizio del suo terzo ciclo di conferenze:

«“Nel mezzo della Chiesa aprirà la sua bocca e il Signore lo colmeràdello Spirito di sapienza e intelligenza” [Eccli 15,5]. In queste parole loSpirito Santo insegna all’uomo saggio a chi deve rivolgere il discorso,da dove cominciarlo e dove terminarlo […]: deve parlare alla Chiesa,per non dare ciò che è santo ai cani né distribuire le perle ai porci […];deve cominciare dal mezzo, che è Cristo […]; deve terminare in pie-nezza, ossia ricolmo dello Spirito di sapienza e intelligenza» [Hex 1.1].

Di questo progetto teologico esaminiamo ora ad uno ad uno glielementi.

17 Eph 3,14-19 citato in Brev 0.0.1 e in Solil 0.1.18 Itin 0.1 (cf Iac 1,17; Eph 1,17-18; Lc 1,79).

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LA TEOLOGIA COME DISCORSO DI, A E SU DIO

LA TEOLOGIA COME DISCORSO DI, A E SU DIO

Il principio della teologia è molteplice (il Padre, primo principio;l’invocazione in principio; il mezzo da cui iniziare che è Cristo), perchémolteplice è la teologia, «discorso» divino.

Teologia è infatti innanzitutto il discorso di Dio, che potremmochiamare teologia discendente, perché scende come illuminazione dalPadre per il Figlio nel Santo Spirito: il parlare che il Padre fa medianteil Figlio (sua Parola vivente) nello Spirito (suo Dono perfetto) non soloin cielo (ossia nelle processioni eterne) ma anche, di riflesso, in terra(nelle opere divine, che lo rivelano). Questo dialogo tripersonale costi-tuisce una perfetta comunione, dionisianamente detta «gerarchia», ossiaordinamento sacro: il Padre, «principio non da principio», che ha in séla «pienezza fontale della divinità», la comunica per natura al Figlio e,col Figlio (che della gerarchia divina è perciò il «medio»), allo Spirito(che della gerarchia divina è il «fine» o «compimento»); ma il Padre,mediante il Figlio e nello Spirito Santo, comunica liberamente per parte-cipazione un raggio di questa divina luce alle creature, dando a tuttel’essere naturale e ad alcune anche quello di grazia: questa illuminazio-ne rivelatrice scende come «raggio tearchico», ossia divinizzatore, sullecreature spirituali, ordinandole, a somiglianza della gerarchia sovracele-ste (trinitaria), o nella gerarchia celeste (angelica) o in quella subceleste(ecclesiale, di cui fanno parte i cristiani): tali gerarchie devono tendere aconformarsi il più possibile alla comunione trinitaria mediante la vitaordinata dei loro membri; al contrario, erano andate in rovina per il di-sordine del peccato; ma furono riparate una volta per tutte dal supremoordinatore, il «gerarca» (o sommo sacerdote) Gesù Cristo [Hex 3.12].

Tutto questo discorso rivelativo e tearchico di Dio è stato messoper iscritto ad opera dello Spirito Santo in due modi: ispirando gli autoridella Scrittura, che quindi è dotata di «autorità» (ossia di autorevolezzae autenticità) e «facendo Scritture» anche nel cuore dei fedeli, mediantel’opera di «rivelazione» interiore. Anche la Scrittura, perciò, a buon di-

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ritto «è detta teologia», perché riporta il discorso del Padre mediante ilVerbo, come dice il Salmo:

«“Il mio cuore ha effuso il buon Verbo: […] la mia lingua è comepenna di scriba che scrive veloce”. Il cuore di cui si parla è quello diDio: la bocca, quella del Padre; la lingua, quella del Figlio; la penna,quella dello Spirito Santo». «E tutta la Scrittura è il cuore di Dio, la boc-ca di Dio, la lingua di Dio, la penna di Dio». «Il Padre infatti parla permezzo del Verbo […]: egli dall’eternità ha generato il Figlio […] di-cendo se stesso: […] dicendo quel che poteva fare e soprattutto quel chevoleva fare: tutto ha espresso in lui» 19.

In secondo luogo è teologia il nostro discorso a e con Dio, che po-tremmo chiamare teologia ascendente, che sale come preghiera fattanello Spirito mediante il Figlio al Padre, ripercorrendo all’inverso lateologia divina mediante un processo ordinato che Bonaventura chiamariconduzione o risoluzione. Mediante l’invocazione di un desiderio ar-dente, l’«uomo di grandi desideri» è in grado (come il profeta Daniele)di ricevere le grandi rivelazioni di Dio nella maniera adeguata: questa èappunto «la religione cristiana, che consiste nella pietà»: infatti

«naturalmente ogni cosa tende al suo luogo d’origine: il sasso cade, lafiamma sale e i fiumi scorrono verso il mare […]. La creatura ragione-vole è deiforme, e può tornare al suo luogo d’origine per memoria, intel-ligenza e volontà, e non è pia se non rifonda se stessa sul suo luogod’origine» [Don 3.5-6].

La Chiesa, destinataria del discorso teologico, è infatti gerarchia, cioè«ordine divino, scienza e azione, per quanto possibile deiforme, […]

ossia tendente a somigliare a Dio in proporzione alle divine illuminazio-ni da lui infuse» [Hex 21.17] 20:

essa è già costituita esteriormente come sacro ordinamento mediante isuoi diversi sacramenti e carismi, ma poiché

«ottimo sarebbe l’ordinamento < gerarchico > se a quello esteriorecorrispondesse quello interiore» [Hex 22.15] 21,

essa deve conformarsi il più possibile anche interiormente alla co-

19 Hex 12.17 (cf Psal 44,2); Hex 1.13. Cf Brev 0.0.1.20 Cita DIONIGI, De caelesti Hierarchia, 3.1.21 Sebbene questa idea sia espressa in termini dionisiani, nondimeno è profondamente fran-

cescana: Francesco infatti chiamava Maria la «Vergine fatta Chiesa» e ricostruiva la Chiesa in-teriormente.

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munione trinitaria mediante la vita ordinata dei suoi membri, realizzataper contemplazione dell’archetipo divino e per azione ad esso conforme,secondo quanto Dio aveva detto a Mosè [cf Ex 25,40]:

«Guarda e fa’ secondo l’esemplare che ti è stato mostrato sul monte»[Apologia pauperum, 2.12].

Così, la Gerusalemme interiore va realizzata contemplando e rea-lizzando il modello della «superna Gerusalemme», discendente dalCielo (da Dio, «Padre della luce»), e illuminata dalla lampada del-l’Agnello (da Cristo, reso presente in Spirito, ossia ispirato «nei nostricuori», «nel mezzo della Chiesa»); da Cristo infatti «si deve iniziare»per risalire a Dio; perciò

«l’altezza della perfezione cristiana consiste in due cose, ossia nellachiara comprensione della verità e nel valido esercizio della virtù, ri-spettivamente quanto alla vita contemplativa e a quella attiva, […] me-diante le virtù teologali e speculative e […] le virtù cardinali e opera-tive» [Sermo de sancto Dominico, 1].

Alla duplice teologia discendente e ascendente si sovrappone unaterza, che è la teologia in senso stretto e che potremmo dire teologiaministeriale perché realizzata mediante il «ministero del maestro»: os-sia il «discorso» che l’«uomo saggio» (il maestro in teologia) fa su Dioalla Chiesa, per chiarirle il senso della verità rivelata e guidarla a conse-guire «la pienezza» di Dio: tale teologia è una «manuduzione fatta ra-gionando» 22 alla luce della grazia, ossia il «condurre per mano» laChiesa e i singoli fedeli nella recezione della teologia discendente (op-portunamente spiegata e meditata) e nella elevazione della teologiaascendente (opportunamente introdotta e guidata per gradi) fino a farleconoscere appieno (ossia «sperimentalmente») i misteri di Dio.

LA TEOLOGIA MINISTERIALE COME DISCORSO SU DIO

Esaminiamo le caratteristiche di questa teologia ministeriale: il suoautore e principio è dunque il maestro, ossia uno di quelli che nellaChiesa hanno il ministero di «insegnare o la filosofia, o il diritto < cano-nico >, o la teologia, o qualunque arte buona per cui venga incrementatala Chiesa» [Hex 22.9]. Infatti, pure se l’unico vero Maestro è Cristo(come «mezzo» della creazione per la scienza naturale, e della riconci-

22 Sent 3.24.2.3 co.

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liazione per la scienza sovrannaturale), egli per istruire la Chiesa si ser-ve del maestro ministeriale [cf UnMag; Hex 12.5].

L’oggetto della teologia è principalmente Dio, ma concretamente èCristo (sia in quanto Dio sia in quanto uomo, e, in questo caso, sia inquanto capo sia in quanto membra) e in generale è la rivelazione (oteologia discendente) contenuta nella Scrittura e materia di fede, ossia il«credibile»; invece il metodo della teologia (che la differenzia dallaScrittura) è quello dell’indagine scientifica e razionale (per cui il credi-bile è considerato non più in quanto credibile, come nella Scrittura, ma,operando una «distrazione», in quanto intelligibile, ossia cercando di«rendere ragione della fede e della speranza» che è in noi).

Il fine della teologia è non soltanto speculativo e cioè «per confon-dere gli avversari […], confermare i deboli […], dilettare i perfetti», ma(francescanemente) soprattutto pratico, cioè «che diventiamo buoni»:nella teologia infatti l’affetto inclina e determina (mediante la fede) l’in-telletto e l’intelletto così determinato inclina e determina l’affetto adoperare il bene:

«sapere infatti che Cristo è morto per noi […], se non si è proprio in-duriti nel peccato, muove ad amore» [Sent 1.0.0.4 co. Cf 3.35.1.2].

Da tutto questo, poi, emergono anche le caratteristiche peculiaridella teologia bonaventuriana: una «teologia in ginocchio», nello «spi-rito di orazione e devozione» voluto da Francesco (giacché non è possi-bile parlar di Dio senza aver prima parlato con Dio); una teologia la cuiprima regola è «sentire altissimamente e piissimamente di Dio» [Hex9.24]; una teologia orante e pastorale insieme (in quanto «ardendosplende» e «splendendo arde»), ovvero (come diremmo oggi) mistica emistagogica; una teologia essenzialmente trinitaria, equilibratamentepatriversa, cristocentrica e spirituale: discendente dal Padre, mediante ilFiglio, nello Spirito, e ascendente nello Spirito mediante il Figlio al Pa-dre, realizzando come un cerchio intelligibile che dal Padre per mezzodi Cristo ritorna al Padre:

«essere illuminati dai raggi spirituali ed essere ricondotti al sommo»[Hex 1.17]

riconoscendosi figli di Dio (e perciò fratelli) mediante Cristo nel SantoSpirito, aiutati a tal fine anche dalla maternità di Maria e della Chiesa edalla paternità e guida di Francesco, che col suo carisma anima tutta lateologia bonaventuriana.

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LA DESTINAZIONE DEL DISCORSO: LA RIEDIFICAZIONE ECCLESIALE 27

LA DESTINAZIONE DEL DISCORSO:LA RIEDIFICAZIONE ECCLESIALE

SECONDO IL CARISMA FRANCESCANO

“MINORITAS”: LA PATERNITÀ E GUIDA DI FRANCESCO

La teologia ministeriale ha dunque una missione e destinazionespecifica, che nel caso di Bonaventura è primariamente rivolta allaChiesa e alla sua riedificazione interiore mediante le virtù, secondoquello che era tipicamente il carisma francescano e quindi l’esempio, laregola e la spiritualità di Francesco d’Assisi.

Se infatti ogni teologo nella propria speculazione teologica riflettela propria esperienza e il proprio carisma, questo vale a maggior ragioneper Bonaventura, che affidava la sua missione teologica all’interces-sione di Francesco «di noi guida e padre».

Il rapporto di Bonaventura con Francesco è un rapporto vitale ecomplesso: se infatti la spiritualità di Francesco ha permeato tutta lateologia bonaventuriana, d’altra parte proprio questa teologia ha note-volmente influenzato l’immagine che di Francesco ha dato Bonaventu-ra, suo settimo successore alla guida dell’Ordine e suo biografo ufficia-le. Francesco è «guida e padre» per tutti i frati, ma per Bonaventura lo èin particolare

«per la riconoscenza che debbo al padre santo: io che da bambino persua intercessione sono scampato alla morte»; «io che peccatore del tuttoindegno gli succedo come settimo ministro generale dei frati» 23.

Ma Bonaventura, oltre che francescano, è un teologo che intende«parlare alla Chiesa»: per lui Francesco è «guida e padre» per tutta laChiesa come dimostra una rilettura teologica della sua vita:

«La conversione avvenuta in modo ammirabile, l’efficacia nel pro-clamare la Parola di Dio, il privilegio delle virtù sublimi, lo spirito diprofezia unito alla penetrazione delle Scritture, la docilità delle creatureprive di ragione nei suoi confronti, l’impressione delle sacre stimmate eil celebre transito da questo mondo al cielo sono in Francesco come

23 LegMa 0.3 (cf LegMi 7.8); Itin 0.2.

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sette prove […] che egli, preclaro araldo di Cristo, porta in sé il segnodel Dio vivo»: «deputato al ministero angelico, tutto infiammato di ar-dore serafico e come uomo gerarchico trasportato in alto […], vennechiaramente con lo spirito e la forza di Elia». «Perciò nessuno che siaveramente devoto può respingere questa dimostrazione della sapienzacristiana […], poiché essa è veramente opera di Dio ed è degna di esse-re accettata da tutti». «Con sicurezza dunque seguano lui coloro cheescono dall’Egitto: le acque del mare verranno divise dal bastone dellacroce di Cristo, essi passeranno il deserto e attraversato il Giordanodella vita mortale […] entreranno nella terra promessa dei viventi» 24.

Francesco condusse la propria vita come un cammino di purifica-zione dal peccato, illuminazione mediante la Parola divina e perfezio-namento nell’imitazione di Cristo fino alla piena unione con lui; e af-frontò la morte come un vero transito da questo mondo al Padre: perciòegli è per il popolo di Dio valida guida nel transito spirituale (esodo opellegrinaggio) verso la terra promessa e il monte Sion: verso cioè labeatitudine eterna e la sua anticipazione che è la sapienza mistica (o mi-steriosa), nascosta ai dotti di questo mondo ma rivelata dallo Spirito aicristiani semplici e perfetti 25 e che dona al cuore la pace.

Nuovo Mosè e «altro Cristo», Francesco esercita questo suo ruolodi guida in due modi: «con lo spirito e la forza di Elia» (come già ilBattista), e «portando su di sé il segno del Dio vivo» (come l’angelo delsesto sigillo nell’Apocalisse).

Infatti, come Elia fu trasportato in cielo su un carro di fuoco, cosìFrancesco fu sursumattivo (costantemente portato ad agire verso l’altonell’estasi), e come il Battista fu contemporaneamente «araldo di Cri-sto» nella predicazione ed «amico dello Sposo» nella contemplazione,quale filosofo e «vero amatore della divina Sapienza»: e tutto questonella vita solitaria e austera del deserto, giacché

«non può esserci contemplazione se non nella somma semplicità, né[…] somma semplicità se non nella massima povertà» [Hex 20.30].

E come all’apertura del sesto sigillo dell’Apocalisse, «un altro an-gelo salì dall’Oriente con il segno del Dio vivente» 26 per segnare in

24 LegMa 13.9 (cf Gal 6,17); LegMa 1.1; LegMa 13.9; LegMi 7.9.25 Cf 1Cor 2,6-16; Lc 10,21.26 Ap 7,2. Bonaventura intende «angelus» nel senso di messaggero e «alter» nel senso di

secondo, numerandolo cioè non rispetto ai precedenti quattro angeli distruttori, ma a Cristo, chefu il vero divino messaggero.

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LA DESTINAZIONE DEL DISCORSO: LA RIEDIFICAZIONE ECCLESIALE 29

fronte i servi di Dio e preservarli dallo sterminio, allo stesso modoFrancesco, reso partecipe non solo del ministero angelico di contempla-re e rivelare Dio, ma della stessa missione di Cristo, tanto da portarne lestigmate della crocifissione, segna col segno del Tau (come nella suabenedizione autografa a frate Leone) la sua posterità spirituale.

Chiamato miracolosamente dal Crocifisso, nella chiesetta in rovinadi San Damiano presso Assisi, a «riparare la sua Casa che andava tuttain distruzione» [LegMa 2.1], Francesco è l’iniziatore di una ricostruzio-ne interiore della Chiesa: essa è infatti una gerarchia (ossia ordina-mento sacramentale, conoscenza dell’ordine e amore divino, e azione adesso conforme), disordinata e rovinata dal peccato, ma riordinata dalsommo ordinatore o gerarca Gesù Cristo, e continuamente ricostruitaad opera di «uomini gerarchici» (ossia interiormente ordinati, comeFrancesco), i quali, purificati, illuminati e perfezionati dalla divina ri-velazione, a loro volta purifichino, illuminino e perfezionino gli altri.Così, Francesco indica ai singoli cristiani un itinerario di vita contem-plativa: infatti

«fu detto all’angelo di Filadelfia, che è il sesto: “Questo dice il Santoe il Verace, colui che possiede la chiave di David, colui che quando aprenessuno chiude e quando chiude nessuno apre: Conosco le tue opere, edecco: ti ho messo davanti una porta aperta”. […] L’intelligenza dellaScrittura o rivelazione o chiave di David sarebbe stata data ancora a unapersona o alla moltitudine, ma più probabilmente alla moltitudine» 27.

Francesco è dunque l’iniziatore di una nuova epoca nella Chiesa, incui il dono dell’intelligenza, che apre alla conoscenza personale ed inte-riore di Cristo [cf Hex 3.32], sarà dato in abbondanza alla moltitudine.Bonaventura come teologo ricaverà dalla vita e dalla spiritualità diFrancesco un metodo spirituale valido per tutti i cristiani:

«La pietà lo elevava a Dio per mezzo della devozione, lo trasformavain Cristo mediante la compassione, lo ripiegava verso il prossimo permezzo della condiscendenza e riconciliandolo con tutte le creature lo ri-portava allo stato di innocenza primitiva». Egli perciò «contemplavanelle cose belle colui che è bellissimo e seguendo le sue vestigia, im-presse nelle creature, inseguiva dovunque il Diletto e di tutte le cose sifaceva una scala per salire ad afferrare colui che è tutto desiderabile»finché «il verace amore di Cristo trasformò l’amante nell’immagine

27 Hex 16.29 (cf Ap 3,7-13). Bonaventura identifica l’angelo del sesto sigillo con l’angelo

di Filadelfia, destinatario della sesta lettera dell’Apocalisse, e lo vede come figura di Francesco.

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INTRODUZIONE AL PENSIERO DI SAN BONAVENTURA30

stessa dell’amato». Per questo «il suo spirito era in perfetta comunionecon lo spirito dell’eterna sapienza […] che è più nobile di ogni moto epenetra dappertutto per la sua purezza, si comunica alle anime sante eforma amici di Dio e profeti» 28.

Francesco è dunque il modello di un itinerario di vita cristiana chepartendo dalla pietà giunga alla sapienza e alla pace attraverso il deside-rio: infatti, solo un «uomo di grandi desideri» come Daniele 29 può rice-vere grandi rivelazioni ed essere assimilato al sommamente Desiderato.

Ma Francesco opera anche una ricostruzione esteriore della Chiesa,fondando l’Ordine dei Frati Minori. La vita gerarchica mediante le virtùè infatti identica per ogni cristiano, ma l’esercizio specifico delle diver-se funzioni gerarchiche è differenziato secondo i carismi connessi con iparticolari ordini o stati di vita all’interno della Chiesa: così, la funzioneattiva è affidata specificamente ai laici, la funzione sacramentale (inparte attiva e in parte contemplativa) ai chierici, la funzione contempla-tiva ai religiosi. Ma la funzione contemplativa è complessa, ed è pertan-to esercitata da più ordini ecclesiali (associati ai corrispondenti ordiniangelici): a un primo livello troviamo perciò gli ordini monastici tradi-zionali, che mediante la preghiera liturgica supplicano Dio incessan-temente a somiglianza dei Troni; a un livello successivo troviamo gliordini mendicanti che a somiglianza dei Cherubini contemplano il Mi-stero per comunicarlo agli altri; a un livello supremo c’è infine

«l’ordine di chi si dedica a Dio in modo sursumattivo […]: l’ordineserafico, a cui in un certo senso apparteneva Francesco […]. E in questola Chiesa giungerà al suo compimento. Ma come quest’ordine sarà (ogià sia), non è facile saperlo» [Hex 22.22].

Francesco (di cui i francescani hanno ereditato la vita evangelicama non quella sursumattiva) è associato come fondatore a Domeniconella medesima missione evangelizzatrice: infatti

«non è possibile trainare il vomere della divina parola senza il giogo[…] dell’obbedienza, né è conveniente farlo fare a un solo bue, mapiuttosto a due buoi assieme. […]. E così dunque a trainare il giogo delSignore furono appaiati Pietro e Paolo, Benedetto e Bernardo, Domeni-co e Francesco» 30.

28 LegMa 8.1; 9.1; 13.5; 11.14 (cf Sap 7,24-27).29 Hex 20.1 (cf Dn 9,23 secondo la Vulgata). Cf anche il prologo dell’Itinerarium.30 Sermo de sancto Dominico, 2.

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LA DESTINAZIONE DEL DISCORSO: LA RIEDIFICAZIONE ECCLESIALE 31

La differenza fra loro sta in questo: Francesco ha fondato il suo Or-dine principalmente per l’unzione (ossia per la vita unitiva); Domenicoinvece per la speculazione (cioè per «contemplata aliis tradere»). Ma idomenicani, nati per studiare e comunicare la verità, per essere credibilidovettero farsi poveri come i francescani; i francescani, nati invece pervivere secondo la forma del santo vangelo e per annunciarlo agli altri,proprio per questo dovettero studiare come i domenicani (dato che nontutti i frati avevano la sapienza mistica di Francesco).

Questa trasformazione Bonaventura la gestì come Ministro Gene-rale (e quasi come secondo fondatore) dell’Ordine, integrando al fran-cescanesimo l’ascetica speculativa propria di Domenico (al quale non acaso dedicò uno dei suoi sermoni più belli e programmatici); ma primaancora la visse come maestro in teologia.

“CONCORDIA DISCORS”: IL CARISMA TEOLOGICO BONAVENTURIANOPARAGONATO A QUELLO TOMMASIANO

In questo contesto va visto il rapporto teologico quasi di «concor-dia discorde» fra Bonaventura e Tommaso: come infatti Francesco eDomenico furono due buoi appaiati allo stesso giogo, così Bonaventurae Tommaso (che dalla spiritualità dei loro fondatori seppero trarre unateologia valida per tutta la Chiesa) furono «due candelabri splendentinella casa di Dio», sicché la teologia dell’uno è meglio compresa in pa-ragone a quella dell’altro.

Accanto infatti ad una larga base comune (dovuta alla comune fedee alla comune cultura scolastica), queste due teologie rispondono spessoagli stessi problemi in modi diversi, ma complementari, se visti alla lucedell’autocomprensione bonaventuriana della propria spiritualità france-scana in rapporto a quella domenicana. Così, Tommaso darebbe conDomenico il primato all’intelletto e alla speculazione, e Bonaventuracon Francesco il primato all’affetto e all’unzione.

La sapienza è il senso della vocazione teologica sia di Tommasosia di Bonaventura. Tommaso ripete con Salomone: «la sapienza chesenza frode ho imparato, senza gelosia la comunico»: il compito del sa-piente infatti consiste per lui nel confutare l’errore e nel manifestare laverità, non solo per sé ma anche per gli altri; dato che compito del sa-piente è ordinare, il suo carisma domenicano consiste perciò nel «tra-smettere ad altri quanto contemplato». E all’inizio della Summa Tom-maso per l’appunto dice che il suo proposito è «di trasmettere quanto ri-

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INTRODUZIONE AL PENSIERO DI SAN BONAVENTURA32

guarda la religione cristiana in modo adatto a erudire i principianti». PerBonaventura, invece, la sapienza è innanzitutto pietà, devozione.

Perciò all’inizio delle sue conferenze Bonaventura diceva:«tutta la mia intenzione è che concepiate nell’anima il dono di pietà»

[Don 3.2]; «il mio proposito è di mostrare che in Cristo “sono nascostitutti i tesori della sapienza e della scienza di Dio” e che egli è il mezzodi tutte le scienze» [Hex 1.11 (cf Col 2,3)].

E alla fine della sua ultima conferenza (e di tutta la sua carrierateologica) Bonaventura disse:

«io ho voluto condurvi all’albero della vita» [Hex 23.21].Bonaventura è (per usare un termine non suo) un “mistagogo”, os-

sia una guida spirituale nell’itinerario verso la sapienza mistica. Tom-maso perciò indica la verità; Bonaventura guida a scoprirla.

Entrambi poi intesero elaborare sistematicamente la scienza teolo-gica, ma per Tommaso il sistema ha una funzione eminentemente peda-gogica (è l’«ordine» necessario «perché l’apprendimento sia più facili-tato»); mentre per Bonaventura (che è paradossalmente più sistematicoe “architettonico” di Tommaso ed ha un gusto perfino eccessivo per learticolazioni e per le numerazioni) il sistema ha una ragione profonda-mente teologica e metafisica: tutto è in ordine perché Cristo è la chiavedi tutto. A tale fine, pur desiderando entrambi restar fedeli all’ortodossiae alla tradizione, Tommaso attinse abbondantemente alle novità filoso-fiche del riscoperto aristotelismo; Bonaventura, come sappiamo, intese

«non inventare opinioni nuove, ma ritessere quelle comuni e appro-vate» 31.

Sia Tommaso sia Bonaventura hanno tratto buona parte delle lorospeculazioni dalla meditazione del mistero del Sabato, ma con diversiesiti. Infatti, il riposo sabbatico di Dio è per Tommaso simbolo del tem-po presente, in cui Dio, dopo aver dato l’essere ad ogni cosa, concedead essa anche d’esser causa e affida alle creature (e in particolareall’uomo) l’economia del creato: per questo c’è un accordo fondamen-tale fra creazione e ricreazione, essere divino ed essere creaturale; perquesto l’essere è la nozione fondamentale della filosofia e della teologia(Dio è innanzitutto Essere, e solo di conseguenza Bene), e la dignità

31 Sent 2 praelocutio. Si tenga però presente che Bonaventura, pur rimanendo più di Tom-maso legato al linguaggio biblico e al pensiero dei Padri, si fece molti meno scrupoli di lui nelcriticare energicamente alcune discutibili opinioni dell’autorevole Lombardo.

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delle cause seconde consente una giusta autonomia alle realtà create ealla stessa ragione. Il riposo sabbatico di Dio è invece per Bonaventurasimbolo del tempo futuro, in cui l’uomo creato da Dio tornerà a Dio eavrà pace in lui; è il simbolo del transito pasquale e mistico alla comu-nione della Gerusalemme celeste (in cui Dio è conosciuto come Bene,ossia come comunione trinitaria, in modo più alto che come Essere, os-sia che come unico creatore). Tommaso sviscera così le profondità delmistero della creazione; Bonaventura quelle del mistero della rivelazio-ne (con i suoi libri, i suoi verbi, le sue leggi). Quella di Tommaso è per-ciò la teologia di un filosofo (che vuole mostrare come la rivelazionesovrannaturale si accorda con quella naturale); quella di Bonaventura, lateologia di un mistico (che vuole mostrare come ogni realtà naturale esovrannaturale «porta significazione» di Dio, come notava Francesco).

Sia Tommaso sia Bonaventura hanno elaborato una teologia in fun-zione dell’evangelizzazione, ma con metodi molto diversi. Pur nonsentendosi chiamato a rivolgersi agli infedeli (ossia ai musulmani, maanche ai fedeli in errore «quanto alla dottrina» come gli averroisti, e«quanto al comportamento» come i teologi contrari alla povertà deimendicanti), Bonaventura prendeva da Francesco il modo di rapportarsia loro:

«quando il beato Francesco predicava al Sultano, questi gli chiese didiscutere con i suoi sacerdoti; ma Francesco rispose che non poteva di-scuter di fede secondo ragione, perché la fede è sopra la ragione, né permezzo della Scrittura, perché essi non l’avrebbero accettata, ma chie-deva che si accendesse un rogo e vi sarebbe entrato con loro. […] Da ciòè chiaro che per i credenti la fede può essere provata non per la ragionema per la Scrittura e i miracoli. Anche nella Chiesa primitiva bruciavanoi libri di filosofia» [Hex 19.14] 32.

Tommaso partiva dalla medesima constatazione, ma arrivava a unaconclusione di tutt’altro segno:

«Maomettani e pagani non convengono con noi nell’autorità di al-cuna Scrittura per cui possano essere convinti, come contro i Giudeipossiamo disputare per mezzo del Vecchio Testamento e con gli ereticiper mezzo del Nuovo. Essi invece non accettano nessuno dei due. Perciòè necessario ricorrere alla ragione naturale, a cui tutti sono costretti adassentire. La quale è tuttavia carente nelle realtà divine» [Contra Gen-tes, 1.2.4].

32 I libri bruciati nella Chiesa primitiva erano in realtà quelli di magia (cf Act 19,19).

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INTRODUZIONE AL PENSIERO DI SAN BONAVENTURA34

Pertanto, Tommaso, che si sentiva chiamato a parlare a «quelli difuori», scrisse per loro le sue opere filosofiche, mostrando come si pos-sa essere veramente filosofi aristotelici senza dover essere averroisti edeterodossi. Viceversa Bonaventura (con un’intenzione che però non de-ve essere intesa come esclusiva, ma espressiva della sua principalepreoccupazione, soprattutto alla fine del suo generalato) diceva esplici-tamente:

«Agli uomini della Chiesa bisogna rivolgere il discorso, e non a chine è rapito fuori […]. Bisogna parlare ai fratelli […] e agli uomini spiri-tuali, perché siano tratti dalla sapienza mondana alla sapienza cristiana»[Hex 1.5]. «Non bisogna tornare in Egitto per desiderio dei cibi vili,come agli, porri e rape, né bisogna rigettare il cibo celeste» [Hex 1.9].

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IL CENTRO DEL DISCORSO: IL TRIPLICE VERBO 35

IL CENTRO DEL DISCORSO:IL TRIPLICE VERBO NEL TRIPLICE LIBRO

IL TRIPLICE VERBO

La corroborazione interiore mediante lo Spirito non solo ci dà una«notizia previa di Gesù Cristo» (ossia una conoscenza preliminare nondel tutto chiara del Verbo increato e incarnato), senza la quale non èpossibile nessuna vita spirituale e nessuna teologia, ma addirittura «fache Cristo abiti per fede nei nostri cuori».

Il Cristo che è presente in Spirito nei cuori dei fedeli è chiamato daBonaventura Verbo ispirato. Il dono dell’intelligenza (chiave di ognicontemplazione) ci rende consapevoli di tutto questo e ci dà la tripliceconoscenza interiore esplicita del Verbo di Dio, increato, incarnato eispirato: infatti

«la chiave di Davide […] fa conoscere […] quel Verbo che, increato,è in seno al Padre; incarnato, in grembo alla Vergine; ispirato, è in cuortuo per fede: penetra le menti degli angeli e degli uomini; entrandovi, faloro intendere le visioni […] in diversi gradi, per quanto intimamente insé l’anima è condotta, […] come dice Dionigi, dal divin raggio. […] < Epoiché > “legge della divinità è ricondurre l’infimo al sommo attraversoil medio”, quel tearchico raggio illumina, scendendovi, la gerarchiaceleste e, per suo mezzo, la subceleste […]. Di poi, nell’ordine risoluti-vo < inverso > quel raggio ci riconduce a contemplar le celesti e poi lesovracelesti cose» 33.

Per capire meglio cosa sia questo Verbo ispirato, così importanteper l’opera di riconduzione, dobbiamo prima precisare meglio il signifi-cato del Verbo increato e incarnato. Infatti, anche se «una sola Parolaha detto Dio, due però ne ho udite»: sebbene cioè fin dall’eternità Dioabbia detto nel suo Verbo tutto quello che aveva da dire, nel tempo peròquest’unico Verbo è stato espresso in due modi diversi, ossia nella crea-zione e nell’incarnazione. Sulla scorta del prologo di Giovanni e dei Pa-dri, Bonaventura parla perciò di un duplice Verbo.

33 Hex 3.32. Cf Itin 4.4 e Hex 20-23.

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IL VERBO INCREATO

Innanzitutto c’è il Verbo increato, che fin da principio (nell’eter-nità) è nel seno del Padre e «per mezzo del quale» al principio dei tempi«tutto fu fatto» e «senza del quale fu fatto nulla, cioè il peccato» 34; inquanto «luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo»,

«questo […] Verbo è la Verità, ossia (secondo la definizione) “ade-guazione dell’intelletto e della realtà intesa”, dell’intelletto cioè che ècausa della realtà, e non del mio intelletto che della realtà non è cau-sa» 35.

Il Verbo increato insomma, pur essendo unico, è «onnìmodo», os-sia esprime il progetto esemplare di ogni creatura, che pertanto ne portail segno: la creatura corporea porta solo l’impronta (o vestigio) di Dio,la creatura spirituale (creata «a immagine di Dio») ne porta l’immaginee la creatura spirituale che vive gerarchicamente in grazia imitando Dione porta anche la somiglianza. L’immagine comporta infatti la necessitàdell’imitazione: «imago […] quasi imitago» [Don 3.11].

Insomma, le diverse creature sono come tante parole che significa-no l’unico Verbo increato, e tutto il creato (che le contiene) è come unlibro, il libro della natura, scritto in parte esteriormente (come librodel macrocosmo, o mondo corporeo esteriore, contenente le vestigia oimpronte di Dio), e in parte è scritto interiormente (come libro del mi-crocosmo, o anima, che di Dio è immagine).

Tale libro contiene la legge di natura (ossia la manifestazione na-turale di Dio e dell’uomo), da cui deriva il diritto naturale (ossia la mo-rale immutabile dell’uomo che è alla base del diritto positivo). La leggedi natura è nascosta interiormente nella coscienza dell’uomo, così chesiamo inescusabili se non la pratichiamo. Destinatari di tale rivelazionesono in generale «tutti gli uomini che vengono al mondo», ma in parti-colare essa è stata accolta dai patriarchi della Genesi e dai filosofi anti-chi, mentre i pagani l’hanno travisata giungendo alla perversione dell’i-dolatria.

Per consentire all’uomo di leggere il libro della natura e la leggenaturale, Dio lo ha provvisto del lume indito naturale (inserito per crea-zione nelle sue facoltà naturali), riflesso della luce vera del Verbo; comepure lo ha provvisto di un triplice occhio (come già aveva detto Ugo di

34 In Ioannem, 1.14; cf AGOSTINO, Omelie in Giovanni, 1.13.35 Hex 3.8; la definizione veniva fatta risalire al Liber definitionum di ISAAC ISRAELI.

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IL CENTRO DEL DISCORSO: IL TRIPLICE VERBO 37

San Vittore): l’occhio del corpo (costituito dai sensi corporali) per con-siderare le realtà esteriori e corporee, l’occhio dell’anima (costituitodalle facoltà intellettuali) per riflettere sulle realtà interiori e spirituali, el’occhio dello spirito per contemplare le realtà superiori e divine. Dopoil peccato, però, il primo occhio rimase vigente, il secondo venne offu-scato e il terzo fu accecato del tutto: pertanto l’uomo peccatore, comeun analfabeta, è incapace di comprendere il senso ultimo del libro cheha davanti, e perciò non può non può contemplare in alto per ottenernela sapienza, ma solo considerare verso il basso, dove è la scienza.

L’intelligenza del Verbo increato fonda la filosofia (che è la letturae meditazione del libro della natura in vista di una contemplazione sa-pienziale di Dio). Ma dopo il peccato l’uomo può arrivare a sapere checi dev’essere un Verbo increato, nel senso di un progetto creatore diDio, ma non arriva a conoscere il Verbo come seconda persona dellaTrinità: e pertanto l’intelligenza filosofica risulta monca e bisognosadella fede.

IL VERBO INCARNATO

Per salvare l’uomo da questa situazione «nella pienezza dei tempi»il Verbo «si è fatto carne» nel seno di Maria «ed abitò fra noi» e «permezzo di lui venne la grazia e la verità»: infatti non solo riportò l’uomoallo stato naturale d’origine, ma lo riempì di grazia. Questo Verbo in-carnato è quindi la Via che riconduce al Padre; questo però in tre fasi:innanzitutto come Verbo incarnato in senso stretto (ossia concepito diSpirito Santo, nato da Maria Vergine, vissuto come uomo-Dio e dotatodi somma eccellenza, sapienza e grazia); poi come Verbo crocifisso(sofferente sotto Ponzio Pilato, morto, sepolto e disceso agli inferi e perquesto vittorioso sul peccato e redentore); e infine come Verbo ispirato,da intendere qui però meglio come ispirante (ossia non solo «reso vivonello Spirito» per la resurrezione, ma «largifluente» di Spirito e «annun-ciato per Spirito Santo alle genti» e perciò sommamente giusto) 36.

Il Verbo incarnato stesso è un libro, scritto fuori e dentro (aperta-mente leggibile quanto alla sua umanità; misteriosissimo quanto alla suadivinità). A lui si riferisce tutto il libro della Scrittura: infatti,

36 Cf Don 1.5-8; Hex 3.10-21; In Lucam, 24.58.

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«come l’arca culminava in un cubito, così tutte le parole della Scrittu-ra in questo Verbo abbreviato, cioè nato, morto […] e risuscitato» 37.

Il Verbo increato di Dio, che è infinito, assumendo la natura umana nel tem-po viene come “abbreviato”: così può anche essere il senso concreto di tutta laScrittura e di tutta la teologia 38.

Anche il libro della Scrittura è scritto fuori (in quanto ha un sensoletterale o esteriore) e dentro (in quanto ha un senso mistico), ma è sigil-lato, così che l’interno è leggibile solo grazie all’Agnello immolato, cheè degno di «prendere il libro ed aprirne i sigilli»: infatti non si può com-prendere la Scrittura se non in riferimento a Cristo morto e risorto, comevedremo meglio in seguito.

Il libro della Scrittura, che si riferisce alla grazia, contiene però incompendio tutto il decorso dei tempi. Nel libro della Genesi infatti vi èuna riproposizione esplicita della legge di natura (i cui destinatari eranoi patriarchi); nel resto dell’Antico Testamento è contenuta la leggescritta esteriormente su tavole di pietra (i cui destinatari erano i giudei);e nel Nuovo Testamento è contenuta la legge di grazia evangelica, infu-sa interiormente (i cui destinatari sono i cristiani, ai quali è dato a talescopo il lume infuso della grazia).

I Filosofi (coi Patriarchi), i Giudei e i Cristiani sono dunque i tredestinatari della progressiva rivelazione normativa di Dio (i Saraceni, omusulmani, non sono presi in considerazione da Bonaventura in manie-ra distinta dai filosofi pagani); ma come ogni legge successiva toglieforza alla precedente, così ora che è stata rivelata la legge di grazia, vo-ler continuare a osservare le altre è come «voler tornare indietro inEgitto»: come i primi cristiani chiamavano «giudaizzanti» i cristiani chepersistevano nelle osservanze giudaiche, così Bonaventura chiama«filosofanti» coloro che (come gli averroisti) antepongono Aristotelealla verità rivelata.

IL VERBO ISPIRATO

Ebbene: il Cristo, in quanto Verbo increato è dal principio dei tem-pi la Verità eterna, e in quanto Verbo incarnato nella pienezza dei tempi

37 In Lucam 24.33.38 ‘Verbum abbreviatum’ è citazione biblica [cf Rm 9,28, che cita a sua volta Is 10,23], ri-

ferita dalla tradizione medievale (in particolare da Bernardo; da Pietro Cantore, nell’omonimaopera; da Francesco nella Regula bullata, 9) al senso della Scrittura e della predicazione, o alcompendio delle verità di fede e delle regole morali.

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è la Via che fa tornare. Ma Cristo è anche la Vita, in quanto Verbo ispi-rato, e per tutto l’arco della storia della salvezza. Fin dalla creazione«in lui era la vita», e il peccato dell’uomo consisté «nell’abbandonare ilVerbo ispirato» [Brev 4.1.4]; le parole di Cristo sono spirito e vita, eSpirito e vita ha effuso Cristo risorto, e i credenti ne usufruiscono già inquesta vita terrena (ossia “in via”); ma soprattutto Cristo sarà Vita nellavita eterna, ossia nella gloria (che della grazia è il compimento) nellavita futura (ossia “in patria”).

Infatti al giudizio universale, secondo l’Apocalisse, sarà aperto illibro della Vita, che contiene l’eterna sapienza beatificante del Verboispirato e che sarà leggibile agli angeli e ai beati alla luce del lume se-gnato della gloria. E sarà aperto anche un altro libro, ossia il libro dellacoscienza personale di ogni uomo, e il giudizio consisterà nel confrontofra i due libri 39.

Ma, in un certo senso, questo libro della vita può già in via esserepian piano iscritto nel libro della coscienza personale: e questa è ap-punto l’opera del «Verbo ispirato», quando cioè lo «Spirito Santo faScritture nelle menti degli eletti e dà fermezza alla fede cristiana» [Hex9.7-8], ossia quando lo Spirito Santo rivela interiormente quanto è statorivelato nella Sacra Scrittura, trasformando la mente stessa dei fedeli inuna Scrittura e permettendo anche a noi oggi di ascoltare Cristo:

«certo, furono beati quelli che poterono udire il Verbo incarnato, maora tutti possiamo ascoltare il Verbo ispirato» [HexD 2.2.6-7].

Se dunque già da ora si può sbirciare il libro della vita e avere unriflesso del lume della gloria, ne possiamo ricavare una testimonianzaefficacissima, che non dice nulla di più della testimonianza del librodella natura e di quello della Scrittura, ma semplicemente ci dà l’espe-rienza interiore di quanto il lume naturale e quello infuso già ci inse-gnano 40: per questo l’intelligenza del Verbo ispirato consente all’animale sei visioni intellettuali che ripercorrono la filosofia e la teologia pri-ma di giungere alla mistica vera e propria.

Il Verbo ispirato è dunque il Cristo interiore che ogni cristiano cheprogredisce nella fede conosce: infatti chi ha la fede debole (ossia chicrede soltanto per la parola degli altri) ha bisogno del Verbo ispirato perpoter dire di credere «avendo visto e conosciuto».

39 Cf LignVi, 41 e 46; Hex 12.8.40 Cf MyTrin 1.2 co.

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INTRODUZIONE AL PENSIERO DI SAN BONAVENTURA40

LO STUDIO DEL LIBRO DELLA SCRITTURA

Sebbene il «Cristo abiti per fede nei nostri cuori», la sua rivela-zione è contenuta in maniera pienamente normativa solo nella SacraScrittura, che perciò il teologo deve leggere e interpretare.

La Scrittura non si divide in teorica e pratica (come la filosofia);ma essendo totalmente pratica si divide in Antico e Nuovo Testamento, aseconda che sia ispirata dal timore o dall’amore. I diversi libri dellaScrittura sono organizzati in quattro gruppi che si corrispondono nei dueTestamenti: i libri della Legge (il Pentateuco) e il Vangelo, che è lanuova legge; i libri storici e gli Atti degli Apostoli; i libri sapienziali ele lettere apostoliche, i libri profetici e il libro dell’Apocalisse. Partico-lare importanza hanno per Bonaventura i libri dell’Ecclesiaste (da luicommentato) e del Cantico dei Cantici (infatti non si può giungere allasapienza amorosa senza passare per la via della negazione e della spo-gliazione, affermando che tutto è vanità); come pure i vangeli (da luicommentati) di Giovanni e Luca (che ci rivelano il Verbo increato e in-carnato e il Verbo ispirato).

Accanto al senso letterale o storico (ossia ciò che intendeva l’au-tore umano), la Scrittura ha un multiforme senso mistico (ossia ciò cheintendeva lo Spirito Santo in riferimento a Cristo e al cristiano): per-tanto la Scrittura (anche quella ebraica) va interpretata in riferimento aCristo (poiché «riferite a lui e in vista di lui sono le Scritture, e perciòda lui sono spiegate») e nello Spirito Santo (poiché «non puoi capire leparole di Paolo se non hai lo Spirito di Paolo»): così «un passo dellaScrittura dipende da un altro, anzi mille passi riguardano uno solo»; lalettura della Scrittura deve essere prolungata dalla meditazione,dall’orazione e dalla contemplazione (infatti la Scrittura non solo è vera,ma è anche bella, così che «non solo capisco, […] ma il mio cuore siaccende») 41.

Perciò, come negli studi naturali dobbiamo considerare le nature, idiscorsi razionali, i costumi morali e i prodotti artificiali, così nello stu-dio della Scrittura dobbiamo considerarne il senso letterale o naturale ostorico (come fa l’odierna esegesi biblica), il senso allegorico (ossia ilsenso che ha per l’intelletto illuminato dalla fede, come fa l’odiernateologia dogmatica), il senso anagogico (ossia il senso che ha perl’affetto perfezionato dalla speranza, come fa l’odierna teologia spiri-

41 In Lucam, 24.58; HexD 4.3.21; Hex 2.18; cf Hex 13 (il cui contenuto è riassunto dopo).

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IL CENTRO DEL DISCORSO: IL TRIPLICE VERBO 41

tuale), e il senso tropologico (ossia il senso che ha per l’effetto purifi-cato dalla carità (come fa l’odierna teologia morale). Così ciò che dellaScrittura è necessario sapere e credere (e gustare mediante la meditazio-ne) è racchiuso nel Simbolo; ciò che è necessario desiderare e sperare (echiedere mediante l’orazione) è contenuto nel Padre Nostro; ciò che ènecessario fare (e praticare nell’azione) è indicato dal Decalogo (rilettoevangelicamente); ciò che è necessario amare sopra ogni cosa (arrivan-do all’unione con lui mediante la contemplazione) è indicato dal Co-mandamento dell’amore.

Ma la Scrittura va letta nella sua “tradizione”: infatti«a questa intelligenza < della Scrittura > non si può pervenire da sé,

ma solo per mezzo di coloro ai quali Dio l’ha rivelata […]. Occorre per-ciò ricorrere agli < scritti > originali dei Santi; ma questi sono difficili, eperciò sono necessarie le Somme dei Maestri, in cui quelle difficoltà so-no chiarite. […]. Ma poiché questi scritti citano i Filosofi, è necessarioche li si conosca» 42.

Solo il testo della Scrittura e, in misura minore, gli scritti originalidei santi (a cui vanno assimilati i decreti dei Concili) sono autentici, os-sia dotati di autorità, mentre non lo sono gli scritti dei teologi e dei fi-losofi, per quanto autorevoli; né lo sono le rivelazioni interiori ordinarieo straordinarie (come le apparizioni), che hanno valore solo in quantoconcordano con la Scrittura: non a caso Gesù volle apparire sul Tabor aisuoi discepoli insieme a Mosè ed Elia.

Insomma, per determinare e fondare le verità di fede i teologi de-vono ricorrere all’autorità piuttosto che alla ragione; devono cioè stabi-lire in base ai documenti della fede (intesi innanzitutto nel loro sensoletterale, per evitare interpretazioni troppo soggettive) qual è la dottrinaautenticamente rivelata da Dio: ed è per questo che Gesù, disputandonel deserto col diavolo, fece ricorso all’autorità della Scrittura piuttostoche alla ragione; similmente

«va notato che quando Cristo fece il miracolo della conversionedell’acqua in vino non disse subito: sia fatto il vino, ossia non lo fecedal nulla, ma volle che i servi riempissero prima di acqua le giare […]giacché lo Spirito Santo non dà l’intelligenza spirituale, se l’uomo nonriempie prima di acqua (e cioè della notizia del senso letterale) la giara(e cioè la sua capacità), e solo poi Dio converte l’acqua del senso lette-rale nel vino dell’intelligenza spirituale». «Non bisogna < poi > mescere

42 Hex 19.10. Cf 9.19-22.

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INTRODUZIONE AL PENSIERO DI SAN BONAVENTURA42

tanta acqua di filosofia nel vino della Sacra Scrittura, così da trasforma-re il vino in acqua: questo sarebbe un pessimo miracolo. Leggiamo in-fatti che Cristo trasformò l’acqua in vino e non viceversa! Da ciò è chia-ro che per i credenti la fede può essere provata non per la ragione maper la Scrittura e i miracoli» 43.

Certamente i teologi, dopo aver determinato per autorità quali sonole verità di fede, possono e devono ricorrere alla ragione illuminatadalla grazia per intenderle: infatti, accanto a verità di fede che sono inrealtà prima di tutto oggetto di intelligenza e solo dopo anche di fede(ossia i «preliminari alla fede», come l’esistenza di Dio, conoscibili an-che naturalmente) e a verità di fede che sono solo oggetto di fede e maidi intelligenza (ossia i fatti particolari della storia sacra), ci sono gli ar-ticoli di fede in senso stretto che sono prima oggetto di fede ma poi an-che di intelligenza 44.

Gli scritti originali dei santi non fanno altro che spiegare il sensodella Scrittura: ma poiché la Scrittura ha tre sensi mistici, quello allego-rico (che nutre la fede), quello tropologico (che nutre la carità) e quelloanagogico (che nutre la speranza), i maggiori santi dottori della Chiesahanno sviluppato ciascuno la teologia soprattutto secondo un senso par-ticolare. Bonaventura ne menziona sette (tre dottori antichi e quattro“moderni”): Agostino e Anselmo sono i dottori più significativi per lateologia allegorica (quella che noi chiameremmo oggi teologia dogma-tica); Gregorio Magno e Bernardo (e quindi tutta la tradizione teologicamonastica) quelli più significativi per la teologia tropologica (che corri-sponde approssimativamente alla nostra teologia morale o pastorale);Dionigi e Riccardo di San Vittore quelli più significativi per la teologiaanagogica (quella che noi diremmo teologia spirituale o mistica); Ugodi San Vittore, infine, con la sua competenza universale, ha lasciatoscritti in tutti e tre i sensi. Da non trascurare poi l’influsso della teologiaorientale (nonostante il suo agostinismo, Bonaventura è il più “greco”dei dottori latini). Accanto a questi autori c’è poi Francesco, che purnon essendo un maestro, con la sua sapienza si librava in alto nella teo-logia.

43 Hex 19.8 e 19.14.44 Cf Sent 3.24 ad db 3. Da notare che l’evento Cristo pur essendo storico è considerato in-

telligibile, quasi (come diremmo oggi) un universale concreto.

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IL CENTRO DEL DISCORSO: IL TRIPLICE VERBO 43

Gli scritti dei teologi dovrebbero servire a chiarire il senso dei pre-cedenti, rispetto ai quali sono funzionali e mai sostitutivi. Ma qui na-scono i problemi: infatti

«“le parole dei sapienti sono […] date da un solo pastore”, perché[…] ispirate dall’unico Verbo, che di tutti è pastore e pasto, […] per ununico fine […] < che è > il vincolo della carità: perciò i dottori dellalegge cristiana devono concordare nelle loro opinioni, secondo quantodice Giacomo: “Non fatevi maestri in molti, fratelli miei”, […] nel sensoche tutti dicano la stessa cosa» 45.

Per questo i documenti autentici (normativi della fede) della Scrit-tura, degli «scritti originali dei Santi» (cioè non quelli corrotti o non ri-conosciuti) e dei decreti dei Concili sono sempre (al di là di alcunecontraddizioni apparenti) «concordi». Ma di questi documenti a volte iteologi danno interpretazioni differenti: tale differenza può essere con-trasto polemico dettato dalla presunzione (senz’altro da evitare), oppurediscussione dovuta all’oscurità dei testi e alla difficoltà dei problemi (eperciò nei limiti del possibile da superare). Per questo il teologo nondeve mai allontanarsi troppo dalla Scrittura, così come il bambino nondeve mai allontanarsi dalla sua casa, e comunque deve attenersi semprealla «via più comune», senza però rinunciare alla propria originalità edautonomia critica: e difatti Bonaventura intese «non inventare opinioninuove, ma ritessere quelle comuni e approvate» 46, in devota continuitàideale con l’opera di Alessandro di Hales e la tradizione, ma senza farsiscrupolo di criticare le opinioni discutibili di dottori autorevoli come ilLombardo.

Secondo l’uso medievale, Bonaventura non cita quasi mai esplici-tamente i suoi contemporanei. Ma la sua teologia non è comprensibilese non riferita agli accesi dibattiti con la posterità di Gioacchino da Fio-re, con Ruggero Bacone, con i teologi simpatizzanti per l’aristotelismo,come Tommaso, con i maestri secolari contrari ai nuovi ordini mendi-canti come Guglielmo di Sant’Amore e Gerardo di Abbeville.

Per quanto riguarda infine gli scritti dei filosofi due sono gli autorifondamentali per Bonaventura: Platone (che però Bonaventura conosce-va indirettamente) e Aristotele: sebbene fossero pagani, al primo fu datoda Dio il discorso di sapienza e al secondo il discorso di scienza: perquesto Aristotele fu e rimane un maestro per le scienze ma non per la

45 UnMag 26; cf 18-19; 24; 27.46 Sent 2 praelocutio.

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INTRODUZIONE AL PENSIERO DI SAN BONAVENTURA44

sapienza (quella che diremmo metafisica), per la quale è maestro Pla-tone con i suoi discepoli platonici (soprattutto Plotino, conosciuto me-diante Macrobio), sebbene anche costoro, non avendo la fede, non sonoriusciti a dissipare le tenebre e ad evitare gli errori. Perciò «quel che nonapprendemmo dai filosofi lo apprendiamo dai santi». In effetti ad Ago-stino furono dati entrambi i carismi e nessuno è stato più penetrante dilui nell’affrontare e risolvere i grandi problemi metafisici, comel’analisi del tempo e così via.

Non si può certo dire che Bonaventura sia un pensatore aristotelicoin senso stretto (sebbene egli adotti l’impianto concettuale e me-todologico di Aristotele, pur con sostanziali apporti neoplatonici e conun originale ripensamento cristiano), ma è del tutto erroneo (benchéquesto sia stato detto e ripetuto spesso) ritenerlo un pensatore antia-ristotelico: Bonaventura critica duramente gli aristotelici del propriotempo, ma cerca continuamente di giustificare Aristotele, anche quandomanifestamente cade in errore.

La filosofia non è cattiva, anzi «è una delle arti buone che incre-mentano la Chiesa», e tuttavia è pericolosa, perché potrebbe indurre ilcredente (che già possiede la verità) a tornare indietro a cercarla a ten-toni, diventando così un filosofante.

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L’ARTICOLAZIONE DEL DISCORSO TEOLOGICO 45

L’ARTICOLAZIONE DEL DISCORSO:TEOLOGIA TRINITARIA ED ECONOMIA SALVIFICA

IL DUPLICE TRISAGIO E IL SETTEMPLICE CENTRO:LE DUE RADICI DELLA FEDE E LA SISTEMATICA TEOLOGICA

Attraverso il centro della teologia, ossia la «notizia previa di GesùCristo», veniamo «radicati e fondati nella carità»: infatti per mezzo delVerbo ispirato «per fede nei nostri cuori» possiamo giungere a com-prenderne il mistero e a conoscere la Trinità e l’Incarnazione, che sono«le due radici della fede, e chi le ignora nulla crede» [Hex 8.9]. Insom-ma, la fede ci introduce in una comprensione articolata e (per così dire)sistematica della realtà, la cui chiave è Cristo.

L’anima infiammata dalla carità di Cristo (come Francesco alla vi-sione del serafino crocifisso), resa certa da un triplice testimonio incielo e terra, canta (come i serafini della visione di Isaia) un duplicetrisagio, ossia (poiché la santità è la proprietà divina) attribuendo la di-vina natura alle tre persone trinitarie e attribuendo alla divina personadel Figlio le tre nature di Cristo:

«ci sono infatti due Serafini stabiliti in noi per fede, e ciascuno ac-clama con triplice esclamazione “Santo, Santo, Santo”, ma una voltasola “il Signore Dio”. Infatti, la notizia di Dio è notizia di tre persone inunità di essenza, onde “sono tre che dànno testimonianza in cielo: il Pa-dre, il Verbo e lo Spirito Santo, e questi tre son uno”. […]. L’altro Sera-fino risponde: “Santo, Santo, Santo”, perché come nel Dio eterno c’ètrinità di persone in unità di essenza, così anche nel Dio umanato ci sonotre nature in unità di persona, ossia corpo, anima e divinità: […] Cristoha santo il corpo, santa l’anima, santa la divinità: è santo fuori, santodentro, santo sopra», «essendo tre “che dànno testimonianza in terra: lospirito, l’acqua e il sangue”, […] ossia la divinità, il corpo e l’anima» 47.

Ogni serafino però ha sei ali: e queste simboleggiano gli articoli delSimbolo e i misteri fondamentali in cui si sviluppa il duplice trisagio:

47 Hex 8.9-11 (con qualche cambiamento nell’ordine). Bonaventura cita 1Io 5,7-8 nel testo

interpolato della Vulgata, che alle tre testimonianze citate da Io 19,30.34, ossia Spirito, acqua esangue, aggiunge quelle “in cielo” di “Padre, Verbo e Spirito”, che “sono uno”.

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INTRODUZIONE AL PENSIERO DI SAN BONAVENTURA46

per il primo serafino, ci sono a sinistra (ossia nell’eternità) le mutue re-lazioni di Padre, Figlio e Spirito Santo, e a destra (ossia nel tempo, main corrispondenza rivelatrice con l’eternità) le opere di creazione, santi-ficazione e remunerazione, ovvero di natura, grazia e gloria (che sebbe-ne opera di tutte e tre le persone sono attribuite per appropriazione unaad una); per il secondo serafino, ci sono a sinistra (ossia nell’abbassa-mento) l’incarnazione, la crocifissione, la discesa agli inferi, e a destra(ossia nell’innalzamento) la risurrezione, l’ascensione, il giudizio.

La strutturazione duale (corrispondenti alla teologia trinitaria ed all’eco-nomia salvifica cristologica) del contenuto di fede del cristianesimo vien fatta ri-salire alla professione di fede erroneamente ritenuta atanasiana (ossia al Simbolo“Quicumque”) e alla teologia dei padri post-calcedonesi (in particolare, per l’occi-dente latino, grazie alla mediazione del Commonitorium e degli Excerpta di Vin-cenzo di Lérins).

Di queste due radici della fede, però, la prima è quella principale,che rende non solo possibile, ma anche intelligibile la seconda: infatti,

«come il fulgore della stella condusse < i Magi > al luogo dove offri-rono l’oro, così il fulgore del Verbo increato li condusse alla conoscenzadell’umanità < assunta dal Verbo >. Impossibile è infatti che qualcunoconosca che “il Verbo si è fatto carne”, se prima non conosce che “Inprincipio era il Verbo”» 48.

Così,«la fede nella Trinità è il fondamento e la radice del culto divino e di

tutta la religione cristiana» [MyTrin 1.2],e conoscendo a partire dai suoi effetti di natura e di grazia la Trinità siconosce per necessità tutto il resto: questa è la contuizione di Dio, ossianon una vera e propria intuizione diretta di Dio (perché non abbiamoancora la visione a faccia a faccia), ma una specie di intuizione che Dioè Dio, mediata dalla conoscenza dei suoi effetti di natura e di grazia.

Il Verbo incarnato, che, riunendo nella sua persona (divina) trenature (divina, spirituale e corporea), è il rivelatore della Trinità, ossia il«gerarca» della gerarchia divina, di quella angelica e di quella ecclesia-le, è perciò non solo la «perfezione stessa dell’universo» [Red 20], maanche la via che permette all’uomo di risalire a Dio, ovvero quella scalache Giacobbe aveva visto in sogno e che Gesù aveva identificato con sestesso. «In Cristo sono infatti nascosti tutti i tesori della scienza e dellasapienza di Dio».

48 De modo inveniendi Christum, 1.3.

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L’ARTICOLAZIONE DEL DISCORSO TEOLOGICO 47

Dall’eternità Cristo è il centro di ogni cosa, e nel tempo, nei diversimisteri, questa centralità di Cristo è progressivamente realizzata fino alcompimento di Dio-tutto-in-tutti; difatti la Scrittura ci presenta spessoCristo come colui che sempre è «in medio», nel duplice senso di “inmezzo ai suoi” e “al centro della realtà” 49.

Nella Trinità, Cristo è medio delle persone: infatti il Padre è la per-sona che produce senza esser prodotta (e dunque è il principio fontaledella divinità); lo Spirito è la persona che è prodotta e non produce (edunque è il fine compiente la Trinità); quindi è necessario che il Figliosia la persona che è prodotta (dal Padre) e che produce (con il Padre loSpirito Santo) 50.

Nella Creazione, Cristo è medio di ogni realtà: infatti per mezzo dilui furono fatte tutte le cose: egli è il medio esemplante di ogni cosa.

Nell’Incarnazione, Cristo è medio dell’umanità che ha assunto,perché mediante l’unione ipostatica egli è divenuto il Capo del Corpoche è la Chiesa e il Sole dell’universo spirituale, ovvero il centro di ir-radiazione di tutte le grazie e di tutte le ispirazioni vitali, anche se nonsempre è riconosciuto (infatti «sta in mezzo a voi uno che voi non cono-scete»).

Nella Passione Cristo è medio di misurazione e di servizio (infatti è«in mezzo a noi come colui che serve»), o, con bellissima metafora,centro geometrico del mondo (non a caso fu crocifisso in mezzo ai dueladroni e discese agli inferi, al centro del mondo), infatti,

«quando si sia perso il centro di un cerchio, non lo si può ritrovare senon < circoscrivendovi un quadrato e > tracciandone le diagonali, che visi intersecano a croce» [Hex 1.24].

In effetti la vita umana ha perso il senso, ma la croce riesce a ridareuna misura e un significato a tutto.

Nella Resurrezione Cristo è medio dialettico fra Dio e uomo (comemeglio vedremo a proposito del «sillogismo di Cristo»).

Nell’Ascensione (che per Bonaventura comprende anche quellodella Pentecoste) il Cristo «in mezzo alle nubi» (ossia nello Spirito) èmedio di ogni virtù e fonda l’etica cristiana in quanto la virtù sta nel

49 Cf Hex 1.11-39.50 Bonaventura contro i greci difende la processione dello Spirito non solo dal Padre, ma

anche dal Figlio, e tuttavia la formula in modo da non sminuire la pienezza fontale del Padre: lateologia trinitaria di Bonaventura è infatti più “greca” (dionisiana) che “latina” (agostiniana).

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INTRODUZIONE AL PENSIERO DI SAN BONAVENTURA48

mezzo e il mezzo è determinato dalla retta ragione, ma la ragione è ret-tificata solo mediante la fede. Come Gesù è asceso al cielo,

«così il cristiano deve ascendere di virtù in virtù, non stabilendo untermine per la virtù, perché così facendo cesserebbe di essere virtuoso»[Hex 1.32].

Le virtù sovrannaturali sono infatti come un «effluvio della virtù diDio e una emanazione del suo splendore». Il fondamento dell’etica cri-stiana è perciò appunto la Signoria di Cristo esercitata tramitel’effusione dello Spirito.

Nel Giudizio, Cristo è medio di giustizia, in quanto giudice impar-ziale che premia la virtù e condanna il peccato. In questo modo Cristo«abbellisce il mondo intero, rendendo il brutto bello, il bello più bello, ilpiù bello bellissimo»: infatti (secondo la concezione medievale e a dif-ferenza di quella classica) la bellezza è l’armonia di cose belle e cosebrutte, e la punizione della colpa è la riarmonizzazione del male.

Nella Riconciliazione finale (in cui Dio sarà tutto in tutti e regneràla perfetta pace nella perfetta comunione gerarchica), Cristo è il mediodi pacificazione come Agnello che sta in mezzo al trono e in mezzo allaGerusalemme celeste.

«E di questo tratta il teologo, che considera come il mondo fatto daDio sia ricondotto in Dio. Il teologo, infatti, benché tratti < anche >delle opere della creazione, tratta però soprattutto delle opere della ri-conciliazione» [Hex 1.37].

LA CROCE E IL CERCHIO INTELLIGIBILI:LE QUATTRO DIMENSIONI DEL MISTERO E L’ONTOLOGIA TEOLOGICA

La teologia deve cercare di «comprendere […] quale sial’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità», cioè quali siano ledimensioni del Mistero. Bonaventura è estremamente sistematico e haelaborato un sistema concettuale per ordinare il sapere teologico.

L’ordine gerarchico archetipo (ossia l’ordine gerarchico che vigenell’essenza divina, ma che è riflesso poi in tutto il creato) è segnato datre categorie ontologiche fondamentali: il principio originante (da cui siè), il medio esemplante (secondo cui si è), il fine compiente (per cui siè). Noi pensiamo le tre persone divine in ragione di queste tre categorie[cf Hex 1.12].

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L’ARTICOLAZIONE DEL DISCORSO TEOLOGICO 49

Da questo ordinamento deriva la struttura ontologica di ogni co-sa: ogni realtà (cosa o persona) ha l’essere, l’esser-tale (ossia la natura oessenza), e il ben-essere (ossia l’agire).

Grazie a queste categorie noi possiamo pensare la vita divina (trepersone in una natura) e l’incarnazione (tre nature in una persona). Sullascorta di Riccardo di San Vittore, natura è definita come «ciò che puòessere comunicato», e persona come «ciò che non può essere comunica-to» ma che comunica. Nelle creature l’essere è distinto dall’esser-tale (eper questo l’essere di natura è limitato dalla nullità di natura, ossia daciò che la singola creatura non è, giacché fatta dal nulla), come pure èdistinto dal ben-essere (e questo rende possibile la nullità della colpa,ovvero la privazione del ben-essere delle creature libere, «fatte e fatti-ve», e la nullità della pena, ovvero la privazione del ben-essere dellecreature «fatte e basta») 51.

Come prolungamento della struttura ontologica abbiamo la strut-tura “psicologica” dell’agire: così accanto al “soggetto” naturale cisono l’intelletto razionale e l’affetto morale, a cui va aggiunto anchel’effetto artificiale: noi pensiamo il Padre in ragione di soggetto naturalee le processioni del Verbo e dello Spirito in ragione rispettivamente dicomunicazione intellettuale e volontaria, mentre pensiamo la divinaeconomia «ad extra» in ragione di operazione artificiale 52.

La disposizione “spaziale” è espressa da tre coordinate topologi-che fondamentali: l’esteriorità della natura corporale, l’interiorità dellanatura spirituale, la sommità della natura divina, a cui va aggiunta l’in-feriorità a Dio di tutta la natura naturata o creata e quella del mio corporispetto a me [cf Solil pr]. Queste categorie ci consentono di pensare inscala gerarchica la totalità della realtà oltre che le tre nature della perso-na di Cristo.

Il decorso temporale è espresso dalle coordinate cronologichefondamentali: la natura al principio dei tempi, la grazia nella pienezzadei tempi, la gloria alla fine dei tempi, a cui si aggiungono la colpa el’industria [Hex 12.7]. Queste categorie ci consentono di pensare tuttala storia della salvezza. Ebbene, senza queste dimensioni, ossia

«se si ignorano decorso del mondo e disposizione gerarchica, non sipuò comprendere la Scrittura» [Hex 2.17],

51 Cf Hex 2.25; PerfEv 1.1 co e ad 4-5; Regn 43.52 Cf Hex 4.4; 6.10; 12.3; cf anche 1.12-13, Red 11-14 e Itin 3.

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INTRODUZIONE AL PENSIERO DI SAN BONAVENTURA50

né fare teologia:«perciò ritornerò da fuori a dentro, e salirò da sotto a sopra, per poter

conoscere donde vengo e dove vado […] e cosa sono: e in tal modo, co-noscendo me, salirò a conoscer Dio» 53.

Considerando la mutabilità e la finitezza del mondo esteriore e in-feriore (dei beni di fortuna e della vita corporale), di cui l’ineluttabilitàdella morte è un segno, rientrerò in me stesso e nel mondo interiore, per

«esaminare cosa sono, cosa ero, cosa avrei dovuto essere, cosa potreiessere < ancora >» [PerfVit 1.5]:

cosa in origine ero per natura, cosa in passato avrei dovuto essereper mia industria e cosa invece sono stato per mia colpa, e cosa in futuroposso ancora diventare per grazia di Dio e mia industria: in questomodo mi posso aprire al mondo supremo e finale della gloria di Dio.

Infatti, se c’è qualcosa fuori e sotto e dentro, ci deve essere anchequalcosa sopra, e chiedendomi «da dove vengo, chi sono e dove vado»,scopro che

«l’essere infatti non è se non in due modi: o l’essere ch’è da-sé e con-forme-a-sé e per-sé, o l’essere ch’è da-altro e conforme-ad-altro e per-altro (è necessario che l’essere ch’è da-sé sia pure conforme-a-sé e per-sé); l’esser-da-sé è in ragion d’originante, l’esser-secondo-sé in ragiond’esemplante, l’esser-per-sé in ragion di finiente o compiente: cioè inragion di principio, medio e fine» [Hex 1.12].

Un terzo modo d’essere, intermedio fra i due, non è dato, giacché«l’esser-analogo […] men che mai ha d’atto, per ciò che men che maiè» [Itin 5.3]. Così l’esser di Dio è creare; l’esser nostro invece è «essercreati» [Sent 2.1a.3.2 sc 1], ossia «relazione essenziale della creatura alCreatore» [Hex 4.8].

IL SILLOGISMO DI CRISTO:LA SOVREMINENTE CONOSCENZA DELL’AMORE E LA LOGICA TEOLOGICA

Per quanto possiamo sforzarci di comprendere, tuttavia la «scienzadella carità di Cristo», resta «sovreminente», cioè sopravanza ogni altrascienza per la sua logica superiore, opposta alla limitante logica del-l’uomo e del diavolo [cf Hex 1.25-30].

53 Solil 1.2; citazione dalle Meditazioni piissime (attribuite a BERNARDO), 1.1.

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L’ARTICOLAZIONE DEL DISCORSO TEOLOGICO 51

La logica del diavolo, naturale ma sofistica, è quella sottostante adogni tentazione (anche a quella di una teologia che non rispetti l’infinitadistanza di natura e prossimità di grazia che Dio ha nei confrontidell’uomo): la tentazione diabolica consiste infatti in un finto sillogismo(ossia in un paralogismo), in cui il termine medio è preso in due signifi-cati equivoci nella maggiore e nella minore, così che vi risultano nontre, ma quattro termini, e sebbene le due premesse siano vere, la conclu-sione che ne deriva è falsa: «l’uomo deve diventare simile a Dio; ma se(mangiando dell’albero vietato, ossia peccando) conoscerà il bene e ilmale, diventerà simile a Dio; dunque l’uomo deve mangiare dell’alberovietato»: l’ambiguità sta nel significato di “diventar simile”, che è inte-so nella maggiore nel senso di imitare lodevolmente e virtuosamenteDio, e nella minore nel senso di sostituirsi velleitariamente e peccami-nosamente a lui. A causa del sofisma, dalle due premesse la conclusionenon consegue per necessità, ma per libera scelta, sebbene tratta in erro-re. Per questo paralogismo ogni peccatore pecca e porta in sé la pena delpeccato, ossia la dissomiglianza da Dio (con il suo carico di mortalitànel corpo e nello spirito), laddove invece veniva promessa la massimasomiglianza con lui.

Per rimediare a questo paralogismo, occorreva dunque il sillogismoriparatore di Cristo, che assumendo la massima dissomiglianza dallasua dignità divina, potesse restituire l’uomo alla somiglianza con Dio.

Bonaventura formula questo sillogismo in tre modi connessi. Laprima è: Cristo è immortale; ma Cristo è morto; dunque Cristo è risu-scitato: e questa è la logica della Pasqua di Cristo (in questo caso il ter-mine medio, che è Cristo, che nella maggiore è soggetto di un’attribu-zione affermativa e nella minore è soggetto di un’attribuzione privativa,entra nella conclusione come soggetto di un’attribuzione superlativa).La seconda formulazione è: Cristo è per essenza simile a Dio; Cristo si èfatto per misericordia simile all’uomo; dunque l’uomo è per misericor-dia reso simile a Dio (ossia: Dio si è fatto come noi per farci come lui):e questa è la logica della Pasqua del cristiano (in questo caso il terminemedio, che è Cristo, fa da mediatore fra Dio e uomo). La terza formula-zione è: Cristo entrando a porte chiuse dimostra di essere impassibile;mostrando a Tommaso le mani e il costato dimostra di aver patito; laconclusione di Tommaso è: “Mio Signore e mio Dio!”: e questa è la lo-gica paradossale della fede. In tutte queste formulazioni la maggiore èvera necessariamente per natura; la minore è invece assunta liberamenteper amore; la conclusione segue invece per necessità “logica”.

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INTRODUZIONE AL PENSIERO DI SAN BONAVENTURA52

Ma come funziona questa argomentazione? Essa sembra innanzi-tutto violare il principio di non contraddizione: in Cristo infatti c’è unacerta “coincidenza degli opposti”:

«il primo congiunto con l’ultimo, Dio con l’uomo […], l’eterno coltemporale […], l’atto puro con […] la passione e morte» 54.

In realtà, tale violazione è solo apparente: infatti gli opposti noncoesistono nello stesso modo allo stesso tempo: ma questa duplicità dimodi ci schiude quello che sarà chiamato il “paradosso cristiano”, ossial’unione di eternità e tempo, di natura naturante e natura naturata in Cri-sto. Ma, appurato che l’argomentazione non è contraddittoria, questonon significa ancora che essa sia concludente.

Il sillogismo di Cristo funziona secondo non la logica naturale(quella aristotelica), ma secondo quella che Bonaventura chiama la«nostra logica», ossia la logica cristiana, che è la logica dell’amore di-vino. Bonaventura sembra riferirsi implicitamente a quella che Paolochiama la stoltezza della croce, e che però è stoltezza solo per chi noncrede, ossia escludendo l’interpretazione di fede, mentre è sapienza diDio ammettendola (secondo un procedimento che oggi diremmo“abduttivo” per risolvere un “conflitto di interpretazioni”). Questa logi-ca è mirabilmente espressa nel Cantico della lettera ai Filippesi: «CristoGesù pur essendo di natura divina […] umiliò se stesso e divenne simileagli uomini; apparso in forma umana umiliò se stesso fino alla morte ealla morte di croce: per questo Dio lo ha esaltato». Pur non trattandosidi un vero sillogismo, ci troviamo indubbiamente di fronte ad una ar-gomentazione: abbiamo una premessa maggiore (necessariamente veradall’eternità): «Cristo è di natura divina» (e pertanto è gloriosamenteimmortale); poi abbiamo una premessa minore (assunta nel tempo): Cri-sto ha assunto la natura umana fino all’estrema conseguenza della morteignominiosa di croce; infine abbiamo una conclusione: «per questo Diolo ha resuscitato». La resurrezione non si trova rispetto alla morte incroce in un rapporto di semplice posteriorità, ma di necessaria conse-guenza logica. Infatti «non era possibile che la morte tenesse Cristo insuo potere». Non capire questa argomentazione doveva essere non solomancanza di fede, ma di logica, se Cristo poté rimproverare i due disce-poli di Emmaus: «Stolti e tardi di cuore nel credere […]: era necessarioche il Cristo patisse per entrare nella sua gloria». Tale logica non fu in-

54 Itin 6.5-7.

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L’ARTICOLAZIONE DEL DISCORSO TEOLOGICO 53

fatti compresa dal diavolo, che (forse non credendo alla possibilità di unamore tanto grande da accettare la croce) pensava di aver sconfitto Cri-sto (mentre in realtà fu Cristo a prendersi gioco del diavolo); e non fucompresa da quei giudei che insultavano Gesù; ma non è accettata nem-meno dai cristiani, che pur avendola capita non vogliono assumere la«minore», perché non vogliono soffrire, ma così si precludono la verafelicità e la comprensione dell’amore divino. Il Mistero pasquale è in-fatti la chiave di lettura di tutta la rivelazione e il nuovo organo della lo-gica teologica: «tutto è manifestato in croce» 55 anche se non ancorachiaramente; nella resurrezione invece la pietra dissigillata e i lini spie-gati sono il simbolo dei misteri dischiusi e spiegati: con la morte e laresurrezione Cristo è l’Agnello (eppure Pastore) immolato (eppure Leo-ne) che può prendere il Libro dei misteri di Dio ed aprirne i sigilli.

Il sillogismo di Cristo ci consente perciò di pensare meno inade-guatamente Dio opponendo a ogni attribuzione affermativa una attribu-zione negativa per dedurne una attribuzione superlativa, non soltantoperché (agostinianamente ed anselmianamente) di Dio non si può pensa-re il maggiore, ma soprattutto perché di lui «non si può pensare il mi-gliore», per via del suo infinito amore, nella cui logica c’è la disponibi-lità al sacrificio e alla spogliazione (in tal modo Bonaventura ripensacristianamente la dialettica neoplatonica). Alla sublime sapienzadell’amore si arriva dunque

«per affermazione e privazione: per affermazione, < scendendo > dalsommo all’infimo; per privazione, < salendo > dall’infimo al sommo: equest’ultimo è il modo più conveniente, dire cioè < di Dio >: “Non èquesto; non è quello”, senza però privarlo di ciò che è suo o che glicompete, ma attribuendoglielo in modo migliore e più alto di quel che iocapisco. L’amore segue sempre la privazione: per questo Mosè è primaseparato dagli anziani, poi sale al monte e infine entra nella nube; e an-cora, ad esempio, per scolpire una immagine non si aggiunge nulla, anzisi toglie fino a lasciare nella pietra una forma nobile e bella. […]. Que-sto è il significato della morte di Cristo, della sua sepoltura, del transitodel mar Rosso […] e nella terra promessa» 56.

La teologia affermativa (di ispirazione agostiniana e francescanainsieme) fu sviluppata da Bonaventura nel Commento alle Sentenze esoprattutto nel Breviloquium (che ripercorre la teologia divina discen-

55 TriVia 3.5.56 Hex 2.33-34; cf TriVia 3.11.

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dente partendo da Dio per arrivare alle sue opere), quella negativa (diispirazione dionisiana e francescana insieme) nell’Itinerario della mentea Dio (che accompagna e guida la teologia orante ascendente, come at-traverso una scala, dalle cose sensibili, attraverso le realtà spirituali finoa quelle divine).

LA SUBLIME SCIENZA DI CRISTO

Finalmente l’intelligenza dei misteri ci porta a conseguire la tripli-ce «scienza […] di Cristo» in quanto triplice Verbo, ovvero la filosofia,la teologia e quella che noi oggi chiamiamo la mistica. Dei contenutifondamentali di tali scienze abbiamo già diffusamente parlato: ci restasoltanto da considerare la loro struttura sistematica.

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IL PERCORSO DELLA FILOSOFIA 55

IL PERCORSO DELLA FILOSOFIA

La filosofia è la scienza naturale del Verbo increato che si ricavadalla lettura e dalla meditazione del libro della natura. La filosofia si di-vide in tre parti: la filosofia naturale (che considera le cose), la filosofiarazionale (che considera i discorsi) e la filosofia morale (che considera icostumi); a queste tre parti va aggiunta la tecnica (che considera le ope-razioni artificiali), secondo le diverse arti meccaniche, dette «adulteri-ne» perché non cercano solo la verità, ma anche l’utilità).

LE NOVE SCIENZE FILOSOFICHE

Ciascuna parte della filosofia si divide in tre scienze, sicché abbia-mo nove scienze filosofiche in tutto. La scienza, come sappiamo, è laconsiderazione di oggetti (come le cose corporee e anche i discorsi e icostumi). Per quanto riguarda la filosofia naturale, siccome le cose cor-poree esistono sì nel loro genere, ma in funzione delle menti spirituali esecondo la sapienza ed arte eterna di Dio, ecco che in esse possiamoravvisare tre tipi di ragioni o strutture: le ragioni seminali, le ragioniintellettuali e le ragioni eterne, oggetto di tre scienze distinte. Le ragioniseminali costituiscono le strutture della realtà corporea in se stessa e so-no studiate dalla fisica (ossia dalle odierne scienze naturali). Le ragioniintellettuali costituiscono la struttura intelligibile (che noi diremmo“trascendentale”) della realtà corporea e sono studiate dalla matematica(ossia dalla matematica e dalla fisica di oggi).

Le ragioni eterne costituiscono la struttura ontologica della realtàcorporea e sono studiate dalla metafisica, che pertanto non coincide conla teologia o sapienza filosofica (infatti, la scienza metafisica considerale ragioni eterne come moventi, ossia in quanto cause delle realtà corpo-ree, e la sapienza filosofica come quietanti, ossia in se stesse).

La filosofia razionale, poi, si divide in grammatica, retorica e dia-lettica (o logica); la filosofia morale, infine, si divide in etica, economi-ca e politica (oppure in etica delle virtù morali, delle virtù intellettuali edelle virtù civili).

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LA SAPIENZA FILOSOFICA

Queste scienze sono filosofiche in quanto tendono naturalmentealla sapienza: i filosofi le elaborarono tratti dalla verità, ma ne promise-ro una decima, ossia la contemplazione (e cioè la sapienza, o conoscen-za di sé, delle intelligenze celesti e di Dio): ma non mantennero effetti-vamente la promessa. Ebbene, la sapienza filosofica arriva a conoscerel’esistenza di Dio e la creazione del mondo dal nulla (anzi, a differenzadi Tommaso, Bonaventura ritiene che il dogma della creazione nel tem-po sia dimostrabile anche filosoficamente), ma non arriva a conoscerepersonalmente Dio né riesce a far conoscere all’uomo il proprio peccatoe la via della salvezza.

Per questo le dieci scienze filosofiche sono paragonate da Bona-ventura alle dieci dracme della parabola evangelica: la donna (ossial’anima razionale) col peccato ha perduto la decima dracma, ossia lacontemplazione divina, e ora, lasciate le altre nove, la cerca nella sacraScrittura un po’ storicamente, un po’ allegoricamente, un po’ tropologi-camente e un po’ anagogicamente 57. Infatti il libro della natura è inmano al non credente come in mano a un analfabeta, che non si cura dicapirne il senso. Così «Cristo è centro di tutte le scienze» perché, seb-bene si possa fare scienza anche senza la fede, tuttavia il fondamentocomune del sapere e dell’essere è il Verbo increato, e per di più «in ogniscienza, se non c’è Cristo, vien meno lo scienziato». Questo è il sensodella riconduzione delle scienze alla teologia a cui Bonaventura ha de-dicato più di una riflessione.

57 Cf Sermo de modo inveniendi Christum, 8.

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IL PERCORSO DELLA TEOLOGIA 57

IL PERCORSO DELLA TEOLOGIA

La teologia è la scienza sovrannaturale del Verbo incarnato che siricava dalla lettura e dalla meditazione del libro della Scrittura edall’orazione e contemplazione che ne consegue. Tale teologia è, comesappiamo, duplice, discendente dal sommo all’infimo e ascendentedall’infimo al sommo.

LA TEOLOGIA POSITIVA E DISCENDENTE DEL BREVILOQUIO

La teologia discendente o positiva sviluppata nel Breviloquium (enel Commento alle Sentenze) è articolata armoniosamente in sette parti,che seguono fedelmente il decorso storico della storia della salvezza,ossia della rivelazione discendente di Dio, trattando i misteri teologici apartire dalla trinità (il sommo) per finire con l’inferno (l’infimo).

Dopo una parte preliminare dedicata alla rivelazione in generale,alla notizia previa di Cristo che se ne ricava, alla Scrittura e alla sua in-terpretazione, ossia in generale al senso e al metodo della teologia(analogamente a quanto fa oggi la teologia fondamentale), la primaparte della teologia è dedicata alla natura divina in tre persone al difuori del tempo.

Le successive sei parti trattano l’economia divina che dispiega neltempo la teologia trinitaria eterna: la natura tripersonale divina formainfatti la natura creata (quella corporea ma soprattutto quella spirituale),e dopo la deformazione del peccato la riforma per grazia e la deiformaper gloria, conseguendo il progetto della gerarchizzazione. La secondaparte della teologia è perciò dedicata alla formazione per naturaall’inizio dei tempi, mentre la terza parte è dedicata alla deformazioneper colpa e al rimedio costituito dalla legge veterotestamentaria.

La quarta e la quinta parte (ossia quelle centrali) della teologia so-no dedicate alla riformazione per grazia alla pienezza dei tempi, me-diante la missione rispettivamente di Cristo (incarnato) e dello Spirito(che porta con sé la grazia e la sua ramificazione in virtù, doni e beati-tudini).

La sesta parte della teologia è dedicata alla conformazione per gra-zia e industria nel nostro tempo, mediante i sacramenti della Chiesa, che

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sono la cura per guarire dal peccato. In questa parte è implicitamentecompresa l’ecclesiologia (dato che gli scolastici trattano la Chiesa con-cretamente, attraverso i suoi sacramenti). Per Bonaventura la Chiesa è il«tabernacolo» di Dio costruito conformemente all’esemplare che è ilVerbo incarnato; e come «l’arca culmina in un cubito», così la Chiesa(che è una gerarchia) culmina nel papa, al quale ogni cristiano deve ob-bedienza.

La settima parte della teologia è dedicata alla deiformazione pergloria alla fine dei tempi, ossia all’escatologia (che, come in generaleper i medievali, è la parte più debole della sua teologia, in quanto privadi una adeguata ermeneutica degli asserti escatologici, specie riguardoalla resurrezione finale).

Interessante è il posto di Maria nel sistema teologico: a chi gliobiettava che di Maria si parlava ben poco nella Scrittura, Bonaventurarispondeva che anzi, di Maria si parla sempre. In effetti, dovunque siparla di Cristo e del cristiano, si parla anche di Maria; così la figura diMaria viene trattata non a parte, ma diffusamente nelle diverse partidella teologia.

LA TEOLOGIA NEGATIVA E ASCENDENTE DELL’ITINERARIO

La teologia ascendente o negativa (sviluppata nell’Itinerarium)ascende invece come invocazione a Dio risalendo fedelmente la scaladella realtà dall’infimo (ossia dal mondo corporeo esteriore) mediante ilmedio (ossia il mondo spirituale interiore) fino a Dio, quasi “arram-picandosi” su Cristo, mediante le sue tre nature. In questa ascesa, Bona-ventura utilizza la metafora biblica dell’esodo e soprattutto del pellegri-naggio al Tempio di Gerusalemme (si chiamava infatti «itinerario» laguida di viaggio dei pellegrini, che descriveva le tappe geografiche espirituali da attraversare per giungere alla meta).

Nell’Itinerarium Bonaventura sviluppa perciò in chiave contem-plativa una sistematizzazione della conoscenza e della realtà (diversadalle precedenti e molto vicina alla nostra sensibilità), articolandola atre livelli: il mondo esteriore (globalmente preso come macrocosmo), ilmondo interiore dell’uomo (singolarmente preso come microcosmo,perché ogni uomo è un unico, sebbene destinato alla comunione gerar-chica) e infine il mondo esemplare di Dio, rivelatoci nei suoi nomi e inCristo. La contemplazione (a differenza della considerazione scienziale)guarda a queste realtà non per conoscerle in se stesse, ma per rico-

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noscere mediante esse o in esse la «significazione» di Dio: mediante es-se (per contemplazione indiretta, come quando vedendo il fumo si rico-nosce il fuoco), ma anche in esse (con una contemplazione più diretta,come quando si riconosce un volto nello specchio). In questo, il contem-plativo procede per negazione e invocazione: partendo dal mondo este-riore vi riconosce Dio, che però non è il mondo esteriore; infine, spintodal desiderio, risale al mondo interiore e vi riconosce in maniera piùchiara Dio, che però non è il mondo interiore; perciò, spinto da maggiordesiderio, risale alla rivelazione di Dio e così fino all’estasi mistica.

La conoscenza di Dio che si acquista nella prima tappa è la teologiasimbolica, che considera il macrocosmo corporeo esteriore come sim-bolo di Dio e perciò contempla Dio mediante le sue impronte(«vestigia») e in tali impronte: ogni cosa infatti ha in sé, ad esempio, unprincipio, un medio e un fine, che al contemplativo richiamano subito letre persone trinitarie. Tale stadio è metaforicamente rappresentatodall’ingresso nell’atrio del Tempio.

La conoscenza di Dio che si acquista nella seconda tappa potrebbeessere definita (dato che Bonaventura non la nomina esplicitamente)teologia iconica, che considera il microcosmo interiore spiritualedell’uomo come “icona” di Dio e perciò contempla Dio mediante la suaimmagine naturale (costituita dall’unica anima nelle tre potenze dellamemoria, dell’intelletto e della volontà) e nella sua similitudine gratuita(costituita dall’unica grazia nelle tre virtù di fede, speranza e carità).Tale stadio è metaforicamente rappresentato dall’ingresso nel Santo delTempio.

La conoscenza di Dio che si acquista nella terza tappa è la teologiapropria, che considera i nomi di Dio, e cioè lo contempla mediante lasua rivelazione naturale e veterotestamentaria come Essere (ossia comeDio-Uno), e nella sua rivelazione sovrannaturale e neotestamentariacome Bene (ossia come Dio-Trino) e soprattutto nella sua rivelazionepiù completa in Cristo. Tale stadio è metaforicamente rappresentatodall’ingresso nel Santo dei Santi del Tempio, dove ci sono i due Che-rubini (ossia i due nomi di Dio) e il propiziatorio (ossia il Cristo, vittimadi espiazione per i nostri peccati).

La teologia mistica è il superamento di tutte queste parziali cono-scenze di Dio e il transito con Cristo da questo mondo al Padre, me-diante l’esperienza del Serafino crocifisso che Francesco ricevette.

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IL PERCORSO DELLA VITA SPIRITUALE 61

IL PERCORSO DELLA VITA SPIRITUALE

La teologia deve ottenere da Dio «virtù d’esser corroborati me-diante il suo Spirito nell’uomo interiore». L’uomo interiore è quello ge-rarchizzato a somiglianza della Trinità; il progetto di tale gerarchizza-zione è contenuto nel decalogo (nel suo senso morale), ma la sua realiz-zazione è operata per la grazia dello Spirito, che produce in noi simulta-neamente le virtù della «vita spirituale»; tali virtù devono però esseregradualmente esercitate in una progressiva corroborazione interiore(detta da Bonaventura «esercitazione spirituale» e da noi ascesi) culmi-nante nella pienezza di vita, che è la pace e sapienza mistica.

Questo è il programma teologico perseguito da Bonaventura neisuoi tre cicli di conferenze sul decalogo della legge, la grazia dello Spi-rito (e in particolare i doni), e i sei giorni della ricreazione interiore, cheproviamo ora a tracciare integrandolo con le considerazioni sulla leggee sulla grazia che Bonaventura aveva svolto nelle opere di teologia si-stematica.

LA LEGGE: I DIECI PRECETTI

La legge del decalogo è dunque il progetto divino per la gerarchiz-zazione dell’uomo: i tre precetti della prima tavola del decalogo trinita-rizzano l’uomo con regole fondamentali e certe per cui (ma non su cui)si pone ogni giudizio: «Il sommamente primo va sommamente venerato,il sommamente vero va sommamente creduto, il sommamente buono vasommamente amato» 58, ovvero nel primo precetto si prescrive l’adora-zione della maestà di Dio; nel secondo la fedeltà, nel terzo la devozioneo pietà verso Dio. I precetti della seconda tavola gerarchizzano l’uomoverso i suoi simili e dentro se stesso: nel quarto si prescrive la compas-sione o pietà verso il prossimo, nel quinto la mitezza, nel sesto la pudi-cizia, nel settimo la generosità, nell’ottavo la veridicità, nel nono e de-cimo la purezza e in generale la carità, mentre si vieta ogni con-cupiscenza degli occhi e della carne e la superbia della vita: infatti

58 HexD 0.2.9.

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«nella rinuncia ad ogni cupidigia […] si ha il compimento dei diviniprecetti […], ragion per cui come il novenario è portato a compimento eperfezione mediante l’aggiunta dell’unità, così lo sono i nove precettimediante la rinuncia alla cupidigia, che è amore egoistico in contrastocon il bene comune. Perciò, come la carità è fine e perfezione di tutti iprecetti, così la rinuncia alla cupidigia, che alla carità si oppone, è laperfezione dei precetti» [Hex 21.10].

Ma l’uomo peccando contro i dieci comandamenti ha causato a sestesso dieci piaghe: mentre contro le prime due i «maghi del Faraone»(cioè le nostre facoltà umane) possono ancora qualche rimedio (infattianche umanamente si può arrivare all’adorazione di Dio e alla fedeltà),già dalla terza piaga «vengono meno», perché la devozione non puòdarsi senza la grazia di Dio. Solo Cristo ci libera con la sua Pasqua daqueste piaghe e ci dà il suo Spirito per consentirci di

«fare anche noi il transito e iniziare una nuova vita e non tornare inEgitto» [Praec 7.18].

LA GRAZIA, IN PARTICOLARE I SETTE DONI DELLO SPIRITO SANTO

Lo Spirito, Dono increato, produce infatti in noi la grazia, e la gra-zia si ramifica simultaneamente negli abiti spirituali (o virtù in sensolato), che sono però esercitati gradualmente nel cammino spirituale: ab-biamo infatti innanzitutto le sette virtù in senso stretto (cardinali e teo-logali), ad un livello successivo i sette doni dello Spirito Santo e infinele sette beatitudini.

Le virtù che ci abilitano alla vita morale sono le quattro cardinali(in parte umanamente acquisite e in parte infuse per grazia); quelle checi abilitano alla vita spirituale vera e propria sono le tre virtù teologalidi fede, che illumina l’intelletto, speranza, che ispira l’affetto, e carità,che partendo dall’affetto anima l’effetto (ossia l’azione concreta) perpoi disporre interiormente l’essere stesso dell’uomo alla comunione ge-rarchica: perciò

«radice, forma e fine delle virtù è […] la carità, che […] tutto lega re-ciprocamente, simultaneamente e ordinatamente […], in riferimento a< Dio >, unico fine ed unico principale oggetto d’amore, a motivo delquale amiamo tutti gli altri, destinati per natura ad esser congiunti per ilvincolo d’amore nell’unico Cristo < totale >, nel suo Capo e nel suoCorpo < che è la Chiesa >, che contiene in sé la totalità di coloro chedevono essere salvati. E questa unità ora è iniziata in via, ma si comple-terà nell’eterna gloria, secondo la preghiera del Signore: “Che siano una

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sola cosa, come noi siamo una cosa sola: e io in loro e tu in me, perchésian completi nell’unità”. E completata quest’unità mediante il vincolodella carità, Dio sarà tutto in tutti […] in pace perfetta e […] in comu-nione ordinata» [Brev 5.9.5].

I doni dello Spirito Santo (che il fedele deve con l’«esercitazione»rendere stabilmente operanti), abilitano a una vita spirituale più consa-pevole e approfondita. In generale, il dono del timore esprimel’atteggiamento spirituale dell’Antico Testamento (in parte ancora vali-do), che introduce alla sapienza, ossia alla consapevole recezione dellarivelazione divina; invece il dono di pietà esprime l’atteggiamento fon-damentale del Nuovo Testamento e l’essenza stessa della religione cri-stiana, che è già sapienza. Per quanto riguarda la vita attiva, il donodella fortezza dà la capacità di praticare i precetti senza debolezza e ildono del consiglio porta il fedele a non limitarsi a praticare il minimoindispensabile prescritto dai precetti, ma a tendere alla perfezione se-condo il Vangelo imitando Cristo povero, casto e obbediente. Poichéinfatti ogni peccato deriva dalla concupiscenza degli occhi, dalla concu-piscenza della carne e dalla superbia della vita (ossia dal desiderio inor-dinato di avere, di godere e di potere), la perfezione della carità (e ditutti i precetti) consiste nel reagirvi con i tre consigli evangelici rispetti-vamente della povertà, della castità e dell’obbedienza, la cui comune ra-dice è l’umiltà (e sebbene la castità verginale sia più perfetta di quellaconiugale, ad Abramo coniugato fu possibile conseguire la verginità dicuore).

Per quanto riguarda la vita contemplativa, il dono della scienza è laconsiderazione (ossia lo sguardo «in basso», verso le cose e gli eventi)dei misteri di Dio informata dalla carità; il dono dell’intelligenza è lachiave della contemplazione, in quanto è la conoscenza dei principidella scienza; il dono della sapienza consiste nella contemplazione(ossia lo sguardo «in alto» verso Dio stesso e le realtà spirituali), che èpreparata dal timore, è iniziata dalla fede e dalla pietà, progredisce nellascienza e insieme all’intelligenza e viene a coincidere con la pienezzadelle beatitudini. Scienza, intelligenza e sapienza sono i doni indispen-sabili per fare pienamente teologia, e pertanto bisogna trattarli più afondo.

La scienza è in generale la considerazione degli oggetti (cose oeventi), e quindi è rivolta in basso, a differenza della sapienza che è ri-flessione sui soggetti spirituali e contemplazione del principio fontaleche è Dio (anche se in senso lato si dice scienza anche quella gloriosa

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dei beati che contemplano Dio); in senso proprio la scienza è la cono-scenza delle conclusioni (e quindi una considerazione degli oggetti allaluce delle loro cause), e in tal senso abbiamo la filosofia o scienza natu-rale e la teologia, che se rimane semplice considerazione della grazia èdetta scienza sovrannaturale (che anche un peccatore potrebbe avere),ma se oltre a ciò è accompagnata dall’esperienza interiore della grazia èdetta scienza gratuita, che è dono dello Spirito Santo ed è la scienza nelsenso più proprio.

Sapienza si dice in senso lato (ma improprio) la generale cono-scenza delle realtà umane o divine e, in senso meno improprio si dicenon una conoscenza qualsiasi ma solo quella più alta, delle cause su-preme ed eterne; in senso più appropriato si dice sapienza la conoscenzadi Dio secondo pietà, ossia secondo il retto culto di Dio nella religionecristiana; nel senso più proprio si dice sapienza la contemplazione o«conoscenza sperimentale di Dio», e in quest’ultimo senso è l’ultimodei doni dello Spirito Santo, e consiste nel gustare la divina dolcezza:infatti «la sapienza è secondo il suo nome», e quindi è una scienza sapo-rosa, che sazia tanto l’intelletto quanto l’affetto. Questa sapienza è qua-driforme (secondo uno sviluppo progressivo): è innanzitutto uniforme inquanto coglie l’unitarietà del senso cristiano della vita; è poi multifor-me, in quanto riesce a cogliere nella Scrittura, dotata di molti sensi, lamultiforme sapienza di Dio; è ancora onniforme, in quanto riesce(francescanamente) a riconoscere Dio in ogni cosa, che di Dio portal’impronta, l’immagine o la somiglianza (e in questo senso si chiamacontemplazione in senso ordinario); è infine nulliforme, in quanto rico-nosce che Dio è al di là di ogni conoscenza e pertanto si dispone a en-trare nelle tenebre della dotta ignoranza per ricevere l’unione misticacon Dio: ed è questa la vera sapienza cristiana. Tale sapienza nulliformenon è di questo mondo, ma è la sapienza mistica (ossia misteriosa) dicui «si parla tra perfetti», come dice Paolo ai Corinzi, e che si ottienenon per impegno umano (anche se l’impegno è preliminare) ma tramiteil dono di una «notizia eccessiva» di Dio nel rapimento momentaneo onell’estasi abituale; più che sapienza dovrebbe (secondo Dionigi) esserchiamata «dotta ignoranza», perché la luce di Dio è talmente grande daabbagliare chi la contempla, che la percepisce perciò come tenebra enube, e il suo intelletto sarebbe costretto a distogliervi lo sguardo, senon vi rimanesse avvinto con «la colla dell’affetto» 59.

59 Cf Sent 1.2 ad db 2; 3.35.1.1 co; Hex 2.

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L’intelligenza è propriamente la conoscenza dei principi primidella scienza, e quindi è intermedia fra la scienza e la sapienza: per que-sto, l’intelligenza è la chiave della contemplazione, detta biblicamentechiave di Davide (quella che Cristo diede al sesto angelo e a Francescoe che sarà data alla moltitudine) [cf Hex 16.29].

Accanto ai doni ci sono i carismi, dati da Dio per la santificazionenon di chi li riceve (Caifa profetò infatti senza essere in grazia), ma de-gli altri, in vista dell’edificazione della Chiesa. Così ad esempio il di-scorso di scienza è il carisma di saper insegnare a considerare gli og-getti (esteriori e inferiori rispetto a noi), mentre il discorso di sapienza èil carisma di saper insegnare a contemplare le realtà spirituali (interiorie superiori): questi sono i carismi propri del teologo, che deve rivolgereil «discorso» alla Chiesa.

Le beatitudini sono l’anticipazione terrena della beatitudine cele-ste: la povertà spirituale è la condizione di chi inizia nel deserto il suopellegrinaggio verso Dio; l’afflizione e la fame spirituale costituisconoil «veemente desiderio di Dio»; la purezza di cuore è quella che per-mette di vedere Dio (mediante anche le visioni intellettuali e i sensi spi-rituali, ed eventualmente anche mediante le apparizioni); la pace coin-cide con la sapienza mistica (in quanto la contemplazione di Dio quietal’intelletto e stabilizza l’affetto) e consiste nella pienezza dei doni divinie dei frutti dello Spirito, ossia nella piena realizzazione della carità edella comunione gerarchica. Insomma, la pace è l’anticipazione piùperfetta della gloria futura.

Il progresso spirituale è legato allo sviluppo della vita contempla-tiva (da cui dipende quella attiva), a partire dalla virtù della fede(preparata dalla ragione in cerca) attraverso il dono di intelligenza finoalla beatitudine della purezza di cuore. Cercare, fidarsi, capire, vederesono quindi i gradi della conoscenza di Dio in via: si cerca con la solaragione nella filosofia previa alla rivelazione (arrivando a sapere chec’è Dio, ma non a conoscerlo personalmente); si ha fede quando ragio-nevolmente ci si fida dell’autorità di un testimone (ossia della sua auto-revolezza ed autenticità); si ha intelligenza quando si capisce interior-mente, con l’aiuto della ragione illuminata dallo Spirito Santo, la verità(e non solo la ragionevolezza) di quanto prima si credeva sulla fiducia;si ha la purezza di cuore quando si vede (e si sperimenta interiormente)per rivelazione quanto prima si era soltanto inteso: la fede porta così anon aver quasi più bisogno della fede.

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Possiamo dunque conoscere Dio per sola ragione (ma nella quasitotale oscurità), per sola fede (ma per fiducia sull’altrui parola), per in-telligenza, e perfino per contemplazione (riconoscendo Dio nelle creatu-re corporee, che ne portano l’impronta, e in quelle spirituali, che ne por-tano l’immagine e, per effetto della grazia, la somiglianza, e infine co-noscendolo nell’intima unione con lui, così da «aderire a Dio ed essereun solo spirito con lui»): anche «questo modo di conoscere […] va cer-cato da ogni uomo giusto in questa via; mentre sarebbe uno specialeprivilegio se Dio facesse qualcosa oltre a ciò», con apparizioni e apertevisioni 60.

La sapienza disseta come l’acqua o il vino, mentre l’intelligenzasazia come il pane: ma il pane è il risultato di molte operazioni (la se-mina del grano, la mietitura, la macina, la cottura...), e così anchel’intelligenza richiede diverse visioni intellettuali per la progressiva il-luminazione interiore (simboleggiata dai sei giorni della creazione). Seinfatti tutti i credenti credono e hanno quindi in sé la vita spirituale, nontutti però arrivano a rendersene conto e ad essere veri uomini spirituali:così a capire mediante la filosofia e la teologia quanto vivevano già me-diante le virtù cardinali e teologali arrivano in molti; a capire anche imisteri mediante la meditazione (ascoltando quanto Dio dice nellaScrittura), l’orazione (parlando a Dio con l’affetto) e la contemplazione(tacendo alla presenza di Dio) arrivano in pochi; infine a vedere le ve-rità di Dio mediante la profezia e l’estasi mistica arrivano in pochissimi.

60 Cf Sent 2.23.2.3 co; 3.24 ad db 4; 2.23.2.3 ad 6.

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IL COMPIMENTO DEL DISCORSO NELLA PACE 67

IL COMPIMENTO DEL DISCORSO NELLA PACE

Come si diceva all’inizio, il discorso del teologo (come la stessavita umana) deve compiersi nella «pienezza dello Spirito di sapienza eintelligenza», deve cioè farci «ripieni d’ogni pienezza di Dio».

Tale pienezza di beni è la pace«che annunciò e diede il Signor nostro Gesù Cristo, e di cui France-

sco […] ripeté l’annuncio» [Itin 0.1]. Questa pace biblica e francescana è stata riletta da Bonaventura

alla luce della quiete agostiniana e anselmiana: essa non è mai completain vita, ma costituisce l’aspirazione dell’itineranza, secondo la bella ci-tazione anselmiana che conclude il Breviloquium e il Soliloquium e che,con la sua carica di ottimismo realistico e di gusto per la bellezza dellavita, dà il succo di tutta la teologia bonaventuriana:

«Se così bella è infatti la vita creata, quanto bella sarà la creatrice vi-ta! […] E se così amabile è la sapienza che rende note le realtà create,quanto amabile sarà la sapienza che dal nulla creò ogni cosa! […] Tiprego, o Dio, ch’io ti conosca e t’ami, perché di te io goda; e se non m’èdato di goderti in pieno in questa vita, fa’ che almeno m’avvicini digiorno in giorno a che quel gaudio giunga al pieno: […] e nel frattempola mente mia lo mediti […] e tutto l’esser mio lo brami, finché io entri algaudio del mio Signore, l’uno e trino Iddio, che è benedetto nei secolidei secoli. Amen» 61.

61 Brev 7.7.6-9 (cf Solil 4.26); cita ANSELMO, Proslogion, 24-26.

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INTRODUZIONEAL LESSICO DI SAN BONAVENTURA

ATTRAVERSO L’ANALISIDI ALCUNI SUOI LEMMI E SINTAGMI

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‘COMMUNICATIO’ 71

‘COMMUNICATIO’ 62

Nella teologia di Bonaventura possiamo distinguere quattro comu-nicazioni fondamentali: [1] la duplice comunicazione, naturale e volon-taria, della natura divina nella Trinità; [2] la comunicazione volontaria emanifestativa di sé da parte di Dio alle creature; [3] all’interno delcreato, la comunicazione naturale per generazione; [4] la comunicazionevolontaria e amicale; e in particolare quella della grazia divina alle crea-ture spirituali. Queste comunicazioni fondano a loro volta la comunanzache si riscontra rispettivamente [1] fra persone trinitarie quanto alla na-tura divina, [2] fra enti quanto all’essere (analogicamente inteso), [3] framembri della stessa specie e [4] fra quanti condividono la stessa vita.Infatti si comunica qualcosa quando qualcosa viene dato a qualcunosenza cessare di essere posseduto dal datore [cf Sent 1.5.2.2 ag 3].

SIGNIFICATO DEI TERMINI

Da uno studio sistematico, sebbene non esaustivo, dei lemmi‘communico’, ‘communicatio’, ‘communicativus’, ‘communicabilis’ e‘incommunicabilis’, emerge che (come per Tommaso) per Bonaventura‘communico’ può significare tanto ‘avere qualcosa in comune’, quanto‘rendere qualcosa comune’. La prima comunicazione (intransitiva) èstatica e solo relazionale, la seconda (transitiva) è dinamica e, oltre cherelazionale, attiva e causale.

Chiaramente la comunicazione dinamica implica quella statica, ma non vice-versa: se un soggetto comunica qualcosa ad un altro, entrambi comunicano in es-so, ovvero lo hanno in comune. Così, ad esempio, la natura divina è detta comu-nicabile sia perché è comune (nel senso statico) alle tre persone, sia perché è co-municata (nel senso dinamico) dal Padre alle altre due persone.

Come anche per gli altri teologi del suo tempo, per Bonaventura ilconcetto di Comunicazione è connesso con quello di Natura; riprenden-do la definizione data nel De Trinitate [4.22] da Riccardo di San Vittore(per cui “una persona divina è un’esistenza incomunicabile della natura

62 Cf Andrea DI MAIO, Il concetto di Comunicazione. Saggio di lessicografia filosofica e

teologica sul tema di ‘communicare’ in Tommaso d’Aquino, Editrice Pontificia Università Gre-goriana, Roma 1998, § 106-110, p. 451-459.

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divina”), dice: «haec est communicabilis, scilicet natura, illa incommu-nicabilis, scilicet persona» [Sent 1.34.1.1 co]. Nel caso della Trinità (mail discorso può essere applicato con alcune limitazioni a tutte le nature),mentre la natura è ciò che è comune alle tre persone e che viene comu-nicata dal Padre al Figlio per generazione e dal Padre e dal Figlio alloSpirito per spirazione, al contrario ciascuna delle tre persone è qualcosadi insopprimibilmente proprio, che non può essere reso comune alle al-tre due.

La natura è ciò in cui più elementi concreti comunicano [cf Sent1.25.2.1 co]: questo vale sia per la natura divina che per la natura umanao le altre nature determinate. La natura è comune in potenza ai suoi ele-menti possibili, cioè è comunicabile (nel senso statico: “può esser co-mune”), anche quando non è ancora comune in atto [cf Sent 1.5.2.2 adsc 3]. Inoltre la natura è comunicabile anche in senso più forte (ossia nelsenso dinamico: “può essere resa comune”), per esempio attraverso lagenerazione: solo che per le creature questo modo di comunicare la na-tura è imperfetto, dal momento che la generazione comunica sì la stessanatura comune, ma distinguendo numericamente la natura del generantee quella del generato, mentre in Dio c’è comunicazione senza questa di-stinzione [cf Sent 1.5.2.2 ad sc 1-2]. Inoltre, delle due comunicazionipossibili, quella naturale e quella libera (interpersonale), solo all’internodella prima le creature possono comunicare la natura (tramite genera-zione), mentre in Dio entrambe la comunicano [cf Sent 1.6.1.2 co].

DOTTRINA

Se principio di tutto è Dio che comunica se stesso [cf Brev 1.3.2;Sent 2.1b.1.1 co], dal punto di vista teologico, le modalità fondamentalidi questa comunicazione sono due: la comunicazione ad modum na-turae, intra-trinitaria e immanente, e la comunicazione ad modum vo-luntatis, extra-trinitaria ed economica [cf Sent 1.6.1.2 co + ad sc 3; DeMysterio Trinitatis, 8 sc 7], fermo restando che in Dio la naturalità nonesclude la volontà e la volontarietà non comporta innovazione.

La prima modalità ci porta nell’ambito delle comunicazioni o ema-nazioni trinitarie, che sgorgano dalla fontalis plenitudo del principiumnon de principio secondo due modalità, isomorfe alle precedenti, cioèad modum naturae (ma senza escludere la volontà) e ad modum volun-tatis (ma senza escludere la naturalità), di modo che dal Padre ricevonola natura divina sia il Figlio sia lo Spirito Santo [cf Sent 1.6.1.2 co].

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‘COMMUNICATIO’ 73

La modalità della comunicazione extra-trinitaria ed economica ciporta innanzitutto alla creazione, che è concepita come comunicazioneliberale, cioè come manifestazione di tutta la Trinità e specialmente (perappropriazione) del Padre [cf Sent 2.1b.1.1 sc 1 + co; 2.1b.2.1 ad sc 3;1.6.1.2 ad sc 3]. Tale comunicazione non comunica la natura divina, mala manifesta a gloria di Dio: «non propter gloriam augendam, sed prop-ter gloriam manifestandam et propter gloriam suam communicandam»[Sent 2.1b.2.1 co].

Nel creato, le tre fondamentali nature determinate, ossia la corpo-rea, l’incorporea e la composta o umana, sono viste come tre gradi diquesta autocomunicazione manifestativa di Dio: la natura incorporeamanifesta la bontà di Dio, quanto al suo atto più nobile, che è la vitaintellettiva; la natura corporea manifesta indirettamente la bontà di Dio,in quanto è ciò che viene vivificato e perfezionato dall’intelletto; ma lanatura composta, in cui comunicano le due precedenti, manifesta lastessa comunicatività di Dio [cf Sent 2.1b.1.2 sc 3 e ad ag 2-5].

Sebbene la gloria di Dio sussista senza le cose create, tuttavia soloattraverso di esse viene comunicata e manifestata [cf Sent 2.1b.2.1 ad sc3]. D’altra parte la natura (intesa come modalità minimale dell’autoco-municazione economica di Dio), se lasciata a se stessa, si chiude in sé (omeglio, in se recurvatur) mentre invece la natura perfezionata dall’a-more (cioè dalla grazia) si apre alla gloria (o meglio, sursum elevatur),desiderandola senza misure [cf Sent 2.1b.2.1 ad sc 2].

Ritroviamo così lo schema concettuale di natura, grazia e gloria,interpretato in funzione dell’autocomunicazione di Dio. La gloria sa-rebbe così la pienezza di Dio, la natura la manifestazione riflessa di talegloria, la grazia la comunicazione non per manifestazione riflessa, maper la presenza stessa di Dio gratuitamente infusa. Certamente neanchela grazia comunica la natura divina, tuttavia sursum-eleva la naturaumana al punto di renderla compartecipe della vita divina; lo stato digloria non è altro che il perfezionamento definitivo di questo consorzio.La grazia crea non una seconda natura (il che sarebbe assurdo), ma unacomunità d’amore in cui comunicano tutti coloro che hanno la grazia oalmeno non sono impossibilitati definitivamente a riceverla [cf Sent3.28.1.2 ad ag 1].

Le missioni divine sono descritte come autocomunicazioni (rara-mente con il verbo ‘communico’; più frequentemente con i sinonimi‘manifesto’, ‘do’, ‘confero’, ‘dono’ e ‘infundo’) [cf Sent 1.15-16;

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1.15a.1.4 ad sc 1]. La grazia è l’effetto della missione invisibile del Fi-glio e dello Spirito e della conseguente inabitazione trinitaria nell’a-nima. Anzi, lo Spirito è il Dono increato che, donato all’uomo, produceil dono creato, cioè la grazia [cf Sent 1.14.2.1 co].

Se poi andiamo a considerare la missione visibile del Verbo incar-nato, che è una missione redentrice a motivo del peccato, troviamo chela riconciliazione è possibile proprio perché Cristo, tramite le sue duenature, comunica staticamente sia con Dio sia con gli uomini, e gli uo-mini peccatori, comunicando con lui, sono giustificati [cf Sent 3.19.2.2co]. Questa comunicazione statica è il risultato di un’azione (l’assum-ptio naturae humanae) che però modifica solo la natura assunta [cfMyTrin 6.1 ad sc 7-8].

Infine, le due nature unificate in Cristo si comunicano (o scambia-no) gli idiomi, ossia le proprietà caratteristiche, al punto che si può af-fermare che in Cristo l’uomo è Dio, non per identità formale dei duetermini, ma in forza dell’unione ipostatica, per cui si riferiscono allastessa persona. Poiché poi la natura umana di Cristo risulta dalla fusionedella natura corporea e di quella spirituale (le quali, pur rimanendosempre unite alla persona del Verbo si separarono l’una dall’altra in tri-duo, fra la morte e la resurrezione), Cristo è la perfezione dell’universoin quanto riunisce in sé le tre nature fondamentali [cf Red 20].

Perciò, mentre la natura divina che unifica le tre persone è sempreoggetto e mai soggetto di comunicazione, invece le tre nature unificatenella persona di Cristo sono soggetto di una singolare comunicazione,in cui il comune è paradossalmente la persona e non la natura. Questo èil segno che in cristologia il concetto di Natura è usato in maniera moltodiversa (potremmo dire rovesciata) rispetto alla teologia trinitaria [cf ilduplice Trisagio di Hex 8.9-13].

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‘NATURA’ 75

‘NATURA’ 63

I SIGNIFICATI DEL LEMMA ‘NATURA’Nell’opera bonaventuriana, ‘natura’ si dice in molti sensi, ma senza

confusione: semmai a rischiare di confonderli è il lettore moderno, per ilquale solitamente il termine designa la sola natura fisica o il mondo deiviventi.

Poiché ogni concetto si determina nell’uso linguistico concreto dei terminiche lo esprimono, in relazione e in opposizione ad altri, il lemma ‘natura’ (e ana-logamente l’aggettivo ‘naturalis’ che ne deriva) significherà cose diverse se la op-poniamo a ‘persona’, o a ‘voluntas’, o ad ‘ars’, o a ‘gratia’: nel primo caso (di-cendo ad esempio che in Dio c’è un’unica natura in tre persone), ‘natura’ signifi-cherà “comunanza ontologica” o “essenza”; nel secondo caso, ‘natura’ indicherà ilcampo di ciò che è condizionato ontologicamente o fisicamente, in opposizione alcampo della libertà; nel terzo caso, ‘natura’ indicherà (all’interno del campo ditutto ciò che è condizionato fisicamente) l’insieme degli esseri viventi e non vi-venti che si producono e riproducono da sé, in opposizione al campo della pro-duzione umana; infine, nel quarto caso, ‘natura’ indicherà il fondamento chel’uomo ha per creazione, ‘gratia’ invece ciò che gli è gratuitamente“superadditum”, e quindi “non dovuto” nell’ordine di creazione.

Attraverso la ricostruzione lessicografica esauriente dei diversi si-gnificati dei lemmi ‘natura’ e ‘naturalis’ nell’uso di Bonaventura (senza

63 Cf Joseph RATZINGER, Der Wortgenbrauch von «natura» und die beginnende Ver-selbständingung der Metaphysik bei Bonaventura, in «Die Metaphysik im Mittelater: ihr Ur-sprung und ihre Bedeutung, Vorträge des 2. Internationalen Krongresses für mitterlalterischePhilosophie, Köln, 31. August – 6. September 1961» (Miscellanea Mediaevalia 2), De Gruyter,Berlin 1963, p. 483-498. Feliciano RIVERA DE VENTOSA, Doble fuente historica del concepto denaturalizza en san Buenaventura, in «La filosofia della Natura nel Medioevo: Atti del terzoCongresso internazionale di Filosofia medievale, Passo della Mendola (Trento), 31 agosto – 5settembre 1964», Vita e Pensiero, Milano 1966, p. 447-454. Joaquim CERQUEIRA GONÇALVES,Noção e função da naturalezza na obra de São Boaventura, in «S. Bonaventura 1274-1974»,Collegio san Bonaventura, Grottaferrata 1972-1974, vol. 3, p. 155-159. Antonio M. DI MONDA,Natura e soprannatura in s. Bonaventura, in «San Bonaventura da Bagnoregio, Roma 19-26settembre 1974» (a cura di Alfonso Pompei), Roma, Pontificia Facoltà Teologica San Bona-ventura 1976, vol. 2, p. 257-289. Andrea DI MAIO, Il vocabolario bonaventuriano per la Natu-ra, in “Miscellanea Francescana” 88 (1988), p. 301-356; La dottrina bonaventuriana sulla Na-tura, ibid. 89 (1989), p. 335-392; La concezione bonaventuriana della Natura quale potenzialeoggetto di Comunicazione, ibid. 90 (1990), p. 61-116; La divisione bonaventuriana delle scien-ze. Un’applicazione della lessicografia all’ermeneutica testuale, in “Gregorianum” 2000 (81),p. 101-136 e p. 331-351.

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accontentarci delle riduttive definizioni esplicite che l’autore stesso nedà), è possibile risalire congetturalmente al vertice del cono semantico,da cui derivare tutti gli altri sensi secondari.

1. Ebbene, ‘natura’ ha come significato primo e più generale la no-zione di ontologicamente comunicabile (ogni caratteristica o “qualità i-dentificativa” che possa esser comune a più soggetti o che possa esserecomunicata da un soggetto a un altro). In questo senso, ‘natura’ è sem-pre opponibile a ‘res’ (intesa come soggetto ontologico incomunicabile,ossia irripetibile e compiuto) e in particolare a ‘persona’ (intesa comeres di natura spirituale): così è soprattutto in Dio, la cui natura è comunealle tre divine persone.

2. La natura così intesa è determinata almeno implicitamente da unaggettivo che ne esprime la “misura” ontologica; Bonaventura ne di-stingue fondamentalmente tre: la ‘natura divina’, la ‘natura spiritualis’,la ‘natura corporea’; menziona inoltre la ‘natura humana’ (in cui sonounite le due nature spirituale e corporea).

Qualunque sia la qualificazione che la determina e l’accompagna,‘natura’ può essere intesa come (per così dire) o costitutiva, o concreti-va, o collettiva, accentuando ora l’uno, ora l’altro senso, senza esclu-derne gli altri: ad esempio, ‘natura humana’ significa sia la “qualità” co-stitutiva che fa di un soggetto un essere umano, sia l’uomo concreto main generale (ossia non questo o quello), sia l’insieme collettivo di tuttigli uomini. Quindi, quando il termine ‘natura’ è usato in senso di naturadeterminata collettiva (ovvero in senso estensionale) è perlopiù sinoni-mo di ‘genus’ o ‘species’; quando invece è usato in senso di natura de-terminata costitutiva (ovvero in senso intenzionale) è quasi sinonimo di‘essentia’ [cf Sent 3.5.2.2 ad sc 4; Hex 8.9], pur con qualche sfumatura(la natura è l’essenza nel suo aspetto comunicabile dinamico; infatti allanatura umana si è unita la sola natura divina del Verbo e non tuttal’essenza divina).

3. A volte poi il termine ‘natura’ è usato assolutamente per intende-re l’insieme della creazione, ovvero come Natura globale (non più de-terminato a questa o quella natura, ma esteso a ogni natura creata glo-balmente presa); si riferisce così a tutto il reale finito; più raramente siriferisce proprio al mondo fisico. Il concetto di Natura si struttura quindiin modo tale da dividere esaustivamente l’universo semantico in tre di-mensioni, associate alla tassonimia metaforica (di origine biblica e so-prattutto agostiniana) di ‘supra’, ‘intra’, ‘infra’, per esprimere i tre fon-

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damentali gradi ontologici d’essere (ossia le tre nature divina, spiritualee corporale), in cui rispettivamente risiedono i tre livelli di rationes(ideali, intellettuali e seminali) delle cose contenute nella sola naturacorporea.

Nel linguaggio bonaventuriano, a volte ‘natura’ è sinonimo di ‘mundus’ [cfHex 10.7]: ma altro è il «maior mundus» (il macrocosmo, ossia l’universo fisico),altro invece il «minor mundus» (il microcosmo, ossia l’uomo, sia quantoall’anima, sia quanto al corpo) [cf Hex 1.19; 3.24; Itin 2.2]. La natura corporeapresa globalmente coincide con il macrocosmo (a volte chiamato semplicemente«natura»); la natura spirituale corrisponde invece al microcosmo. A volte, la natu-ra corporea è indicata come semplicemente ‘natura’, mentre la natura spirituale èindicata come ‘substantia spiritualis’; similmente a volte ‘naturalis’ (in senso dicorporeo) si trova opposto a ‘spiritualis’. Si tenga presente che il significato cheBonaventura dà al termine ‘materia’ è diverso da quello tommasiano e moderno:essa indica non solo la materia in senso stretto (che Bonaventura chiama materiacorporea), ma ogni potenzialità anche spirituale, come nell’anima umana e nellecreature angeliche.

La natura corporea e quella spirituale prese globalmente insieme costituisco-no la natura creata (spesso chiamata semplicemente ‘natura’, in senso sinonimo di‘creatura’, ossia di Creato). In un testo celebre [Sent 3.8 db 2], Bonaventura chia-ma, utilizzando in senso non eriugeniano una terminologia eriugeniana, «naturanaturans» la natura divina e «natura naturata» la natura creata (con riferimento ri-spettivamente alla natura divina e a quella umana di Cristo).

Insomma, ‘natura’ senza altra determinazione, ma sottintendendo‘creata’, significherà o l’insieme di tutte le creature (in senso collettivo),o il creato stesso (in senso concretivo: come universo e come libro dellanatura) o la creaturalità (in senso costitutivo, opposto alla grazia e allagloria, e caratterizzato dalla legge di natura); invece ‘natura’ sempresenza altra determinazione, ma sottintendendo ‘corporea’, significherà ol’insieme degli enti sensibili (in senso collettivo) o il mondo fisico (insenso concretivo, come ‘machina mundialis’) o la dinamica stessa natu-rale o fisica (in senso costitutivo, come processo causale fisico).

4. A partire dal senso costitutivo di ‘natura’ riferita al creato in ge-nere, e a quello corporeo in specie, deriva un ulteriore uso del concettodi Natura, in senso che potremmo chiamare modale, in quanto riferitoad un particolare modo di essere: ad esempio, la necessità, in opposizio-ne alla libertà (come nel binomio ‘naturalis’ – ‘voluntarius’); oppure lacomunicazione per duplicazione come nella generazione, in opposizionealla comunicazione per unificazione come nell’amicizia (come nel bi-nomio ‘ad modum naturae’ – ‘ad modum voluntatis’); oppure la datitàinnata, in opposizione all’acquisizione di un risultato o alla recezione diun dono (come nel trinomio ‘naturalis’ o ‘innatus’ – ‘acquisitus’ –

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‘infusus’, e nel trinomio ‘natura’ – ‘industria’ o viceversa ‘culpa’ –‘gratia’); oppure l’esercizio di atti secondo la propria natura in opposi-zione ad una azione di livello superiore (come nel binomio ‘naturalis’ –‘supernaturalis’).

Infatti, poiché in generale ogni natura è comunicabile per un’azione(le processioni divine nella natura divina, la creazione tra la natura divi-na e la natura creata, la generazione all’interno delle diverse nature cor-poree, e in maniera imperfetta l’arte umana quale produzione di confi-gurazioni artificiali), si intende per naturale ogni perfezione che è innatae ontologicamente connaturata in una determinata natura, per natural-mente acquisita ogni perfezione che pur non essendo innata è il risultatodi un’azione propria della natura stessa, per sovrannaturalmente infusaogni perfezione impossibile a conseguirsi dalla natura creata, ma otte-nuta per dono gratuito dalla natura divina. E poiché la natura umana (aimmagine di quella divina) ha il potere di comunicare anche per intelli-genza e volontà, ecco che alla sua sfera naturale in senso stretto si af-fianca quella razionale e quella morale (che pure rientrano nella sferadel naturalmente acquisito).

Insomma, tutto ciò che esiste o è Dio o promana da Dio; e ciò chepromana da Dio «o è natura o è grazia o è gloria» [Hex 8.13, cf 10.7];per natura si intende tutto il mondo creato e ciò che in esso è prodotto;in questa prospettiva, «omne, quod est, aut est a natura, aut a ratione,aut a voluntate» [Hex 4.5]: ossia, tutto ciò che esiste nell’ordine natu-rale proviene o dalla natura stessa oppure dall’attività (intellettuale ovolontaria) dell’uomo, la quale da un lato rientra nella natura (in quantola natura umana è creata da Dio) e d’altro lato la trascende.

LE FONTI DEL CONCETTO DI NATURA

Il concetto di Natura, elaborato dagli antichi filosofi greci, è statoutilizzato e modificato dai teologi cristiani e dai Concili ecumenici deiprimi secoli per esprimere il dogma cristologico e trinitario e per strut-turare il discorso sull’economia salvifica. Al tempo di Bonaventura,dunque, la terminologia sottostante a tale concetto era ben fissata nelvocabolario filosofico e teologico latino scolastico.

Così, quando Bonaventura si preoccupa di definire il concetto diNatura [cf Sent 3.5.2.1 sc 4; MyTrin 2.2 co], cita le quattro definizioniclassiche con cui Boezio nel fortunato opuscolo De duabus naturis etuna persona Christi contra Eutychen et Nestorium (da cui è tratta la

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‘NATURA’ 79

celebre definizione: «persona est naturae rationalis individua substan-tia») sintetizzava gli apporti della filosofia greca classica e della specu-lazione dogmatica cristiana e li trasmetteva alla tradizione latina che di-ciamo medievale. La prima definizione si applica a qualunque cosa, daDio alla materia prima e dalla sostanza agli accidenti: «Natura est earumrerum quae, cum sint, quoquo modo intellectu capi possunt» («quoquomodo», perché la materia prima è concepita per astrazione e Dio peranalogia). La seconda definizione si applica esclusivamente alle sostan-ze, da Dio ai corpi inanimati: «Natura est quod facere, vel quod patipossit» (tenendo presente che Dio è solo attivo, mentre i corpi lo sonosolo in quanto passivi e la natura razionale è in qualche modo interme-dia). La terza definizione si applica esclusivamente alle sostanze corpo-ree: «natura est motus principium, secundum se, non per accidens». Aqueste tre definizioni, che considerano la natura in se stessa, se ne puòaggiungere una quarta, che cerca di mostrare le proprietà di qualcosa ri-spetto a qualcos’altro: «natura est unamquamque rem informans speci-fica differentia».

D’altra parte, Bonaventura (come gli altri maestri del suo tempo)ha inteso queste definizioni alla luce della ridefinizione in chiave trinita-ria di natura e persona, come rispettivamente comunicabile e incomuni-cabile [cf Sent 1.34.1.1 co], data da Riccardo di San Vittore. Inoltre, daAgostino (che aveva sviluppato in chiave anti-manichea il tema dellanatura creata da Dio e la tesi che il male non è natura, e che aveva svi-luppato in chiave antipelagiana il rapporto fra natura e grazia, e fra na-tura creata e natura decaduta), come pure dalla tradizione latina dioni-siana e vittorina Bonaventura ha desunto il trinomio di ‘natura’, ‘culpa’,‘gratia’ o più semplicemente il binomio di ‘naturalis’ e ‘supernaturalis’[cf Regn 43; Itin 1.6]. Nondimeno, il concetto di Natura è stato svilup-pato da Bonaventura in maniera originale e articolata, ben al di là degliapporti della tradizione.

IL LIBRO DELLA NATURA CREATA E QUELLO DELLA SCRITTURA

Dio che si era fin dall’inizio manifestato a tutti gli uomini mediantela lex naturae (su cui si fonda lo ius naturale) e che aveva posto un pri-mo rimedio alla colpa rendendola evidente mediante la lex scripta vete-rotestamentaria, ha finalmente rivelato se stesso mediante la lex gratiae,secondo tre stadi fondamentali dell’economia divina [cf Sent 4.33.1.1-2;Brev 0.2.1, 4.4.2 e 6.2.1; Hex 21.6-11, 4.1, 12.7, 15.20, 16.11-13]. Per

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Legge si intende innanzitutto la manifestazione e rivelazione di Dioall’uomo e di conseguenza è progetto normativo per l’uomo stesso.

La graduale automanifestazione divina è come contenuta in tre li-bri: il libro della natura (relativo allo stadio e alla legge di natura e di-stinto in libro della natura corporea – in quanto vestigio trinitario – e li-bro della creatura spirituale – in quanto immagine trinitaria), il librodella Scrittura (che contiene tanto la lex scripta dell’Antico Testamentoquanto la lex gratiae del Nuovo) e il libro della vita (corrispondente allostadio della gloria): ma il libro più completo è la persona stessa di Cri-sto [cf MyTrin 1.2 co, Brev 2.11.2; Hex 12.14-17].

La Natura è cristianamente e francescanamente intesa da Bona-ventura come libro (liber naturae o creaturae, scritto tanto esterior-mente, nella natura corporea, quanto interiormente nella creatura spiri-tuale): ma il libro della natura, pur scrutato dalla filosofia, è divenutoper l’uomo dopo il peccato come un manoscritto in mano ad un analfa-beta; pertanto è stato necessario un altro libro, quello della Scrittura, esoprattutto quel libro scritto dentro e fuori che è Cristo stesso [cfMyTrin 1.2; Brev pr 3; Brev 2.11-12; Hex 12.14-17].

Prima del peccato, invece, bastava il liber creaturae, leggendo ilquale l’uomo poteva naturalmente diventare sapiente vedendo le cose“nella loro stessa natura”, “in se stesso” (ossia nell’intelligenza creata) ein Dio (ossia nella sua arte eterna), che creando le cose del mondo le hadotate di un triplice livello di rationes (secondo la classica spiegazioneagostiniana dei tre verbi con cui la Genesi esprime la creazione: «fiat»,«fecit», «factum est», riferite rispettivamente all’eterna decisione di Diodi creare il mondo, alla creazione delle creature spirituali e alla creazio-ne temporale delle cose corporali). Le cose hanno quindi le proprie ra-gioni seminali (fisiche) nella loro stessa natura corporea, ragioni intel-lettuali (matematiche) nelle menti create e ragioni ideali (metafisiche)nella mente divina [cf Red 4 e 20].

Per quanto riguarda i sensi della Scrittura, Bonaventura distingue[cf Hex 13.11] il senso letterale, «quasi facies naturalis», dai tre sensimistici, allegorico, anagogico e topologico; e anche vari stadi dell’eco-nomia salvifica: fondamentalmente natura, grazia, gloria (e, quanto allarisposta umana industria e colpa); ma tutto si radica sulla natura: la gra-zia non distrugge la natura, ma la perfeziona, abilitandola, riformandolaed elevandola [cf MyTrin 1.2 ad sc 5-6].

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‘NATURA’ 81

IL CONCETTO DI NATURA NELLA FILOSOFIA (SCIENZA NATURALE)Dalle varie esposizioni bonaventuriane del sistema delle scienze

[Red, Itin 3.6, Don 4.2-25, Hex 1 e 4-7; e inoltre nel prologo alle Sen-tenze e nel sermone De modo inveniendi Christum, 8] si può compren-dere meglio il rapporto del concetto di Natura con la struttura dellarealtà e della conoscenza naturale che ne abbiamo. La realtà sperimen-tabile da noi è costituita da cose naturali, discorsi e costumi, ossia da unmondo naturale di oggetti, e da un mondo linguistico e morale di segni edi comportamenti e istituzioni (per cui si dà veritas rerum, veritas ser-monum e veritas morum a cui corrispondono, rispettivamente, la filoso-fia naturale, quella razionale e quella morale). Infatti, «omne, quod est,aut est a natura, aut a ratione, aut a voluntate» [Hex 4.5].

Inoltre, da un punto di vista ontologico ogni res ha un esse, unsic-esse e un bene-esse, coincidenti in Dio, il cui nome è appunto Esse-re, ma distinti nelle creature, così che ogni creatura ha un sic-esse de-terminato e non un altro e pertanto può non avere o addirittura perdere ilsuo bene-esse: il sic-esse non è altro che l’esse naturae (dal momentoche il sic esprime la determinazione e la misura ontologica propria diuna natura determinata costitutiva), che, essendo limitato nelle creature,si accompagna sempre a una certa nihilitas naturae (la creatura vieneinfatti ex nihilo ed è dunque fatta, impastata, de nihilo), mentre il be-ne-esse comprende l’esse moris et gratiae, la cui privazione è la nihili-tas della colpa [PerfEv 1.1 co].

Le tre parti (naturale, razionale e morale) della filosofia contengo-no ciascuna tre scienze, variamente enumerate nelle diverse esposizionibonaventuriane. La filosofia naturale è normalmente tripartita in fisica,matematica e metafisica. La prima studia la natura, la seconda la figurae la terza l’essenza delle cose. Ovvero, la prima considera le cose dalpunto di vista delle ragioni seminali, la seconda da quello delle ragioniintellettuali, la terza da quello delle ragioni ideali.

In questo modo, la struttura della filosofia naturale manifesta lastrutturazione verticale della Natura stessa in natura corporea, naturaspirituale e natura divina (nelle quali si trovano le ragioni seminali, in-tellettuali e ideali delle cose del mondo sensibile e rivela, alla luce dellafede, l’unione delle tre nature nella persona del Verbo incarnato).

Ma la sapienza promessa dai filosofi non fu mai conseguita da loro.Pertanto il processo naturale di ricerca di conoscenza e felicità, irrime-diabilmente interrotto dal peccato, entra in scacco (costituendo per così

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dire una impossibile necessità) e deve essere portato a compimento so-vrannaturalmente da Dio, appunto per grazia.

IL CONCETTO DI NATURA NELLA TEOLOGIA (SCIENZA SOVRANNATURALE)Dio può essere conosciuto in quanto tale o nelle sue opere. In

quanto tale, Dio può essere conosciuto nella sua natura propria o nellasua natura assunta in Cristo. Dio poi può essere conosciuto nelle opereproprie di tutta la Trinità o nelle azioni proprie del Verbo incarnato.

Dio in se stesso ha un’unica natura in tre persone distinte mediantedue emanazioni naturali (nel senso di connaturali e connaturanti ad in-tra, nella stessa natura divina), rispettivamente per modum naturae etvoluntatis, a partire dal Padre, che essendo innascibile ha la pienezzafontale della divinità da cui deriva tutto: la prima processione, a mo’ dinatura, è la generazione del Verbo dal Padre (si tratta infatti di una co-municazione analoga a quella che si riscontra in natura, in cui un sog-getto comunica la propria natura ad un altro); l’altra processione, a mo’di volontà, è la spirazione dello Spirito dal Padre e dal Figlio (si trattainfatti di una comunicazione analoga a quella amicale (in cui due sog-getti si uniscono); come prolungamento volontario e libero ad extra ditali processioni c’è tutta l’opera divina della creazione, redenzione esantificazione [cf MyTrin 7.1 co e 8.1 sc 7; Brev 1.3.7; Hex 12.3].

In Dio a motivo della comunicazione della natura divina, c’è trinitàdelle persone in unità di natura o essenza; la persona comunica perfet-tamente la natura divina, ma non la propria personalità; infatti la perso-na è riconducibile alla relazione (propria), la natura alla sostanza [cfMyTrin 2.2 e 3.2 co + ad ag 12; Brev 1.3-4; Itin 6.2].

L’unità della natura divina comporta l’unità dell’azione di Dio, no-nostante le singole opere divine possano essere appropriate alle singolepersone, ma non impedisce l’apparizione e inabitazione di ciascunadelle tre persone e la discesa e missione del Figlio e dello Spirito [cfBrev 1.5-6; Hex 8.13-14]. In ogni caso, il mutamento (implicato dalleoperazioni e dalle apparizioni o missioni) non è nella natura divina, manella natura creata, inabitata e assunta [cf MyTrin 6.1 co + ad sc 5-10 eBrev 1.4.2].

L’opera della creazione [cf Sent 2.1b.1.2 sc 2-3; Don 3.11] manife-sta la bontà divina nelle operazioni della natura, secondo tre gradi(corporea, spirituale e composita). La natura corporea fu creata da Dio(a partire dalle tre nature luminosa, perspicua e opaca, successivamente

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distinte e ornate) come natura celeste (la luce pura dell’empireo e i cielicristallino e del firmamento) e come natura elementare (fuoco, aria, ac-qua e terra), dal cui dinamismo attraverso l’inductio formarum (e dun-que il rapporto fra causa prima e cause seconde) e le rationes seminales,vengono tutti i corpi [cf Sent 2.7b.2.1 e 2.18.1.2-3; Brev 2.2-4; Itin 2.2-4; Hex 11.13-25]. La natura puramente spirituale degli angeli fu creatada Dio come unica e uguale per tutti e comunque composta di materia(sebbene spirituale) e forma, e in modo da accompagnarsi sempre alladiscretio personalis, ossia alla loro numerabilità come persone [cf Sent2.3a.2.1-3; Brev 2.6.3]. La natura umana infine fu creata da Dio come lafusione delle due nature spirituale e corporea fuse insieme [cf Brev2.10-11]: essa è, in quanto creatura, limitata e defectiva: perciò Dio leha conferito, nell’Eden, un duplice aiuto di natura (coscienza e sindere-si) e un duplice aiuto di grazia (scienza e carità); ma le ha anche impo-sto un duplice precetto, di natura (biologica) e di disciplina (morale).Angeli e uomini furono creati in puris naturalibus, ai quali dopo unabrevissima morula è stata aggiunta la grazia [cf Sent 2.4.1.2; 2.29.1-2],in cui però gli uomini e parte degli angeli non perseverarono.

Esistono pertanto [cf MyTrin 1.2 ad sc 5-7 e 7.1 ad sc 5; Brev7.5.5; Regn 43; Hex 16.11] tre tipi di ordinamenti causali: ci sono causenaturali fisiche, che sono del tutto causate (tantum factae) e non hannonessun potere di iniziativa (pertanto nel corso naturale delle cose nonaccade mai nulla di nuovo); ci sono poi cause spirituali e libere, che purcausate sono in grado (per dirla con termini moderni) di inizare a lorovolta una serie causale (sono cioè factae et factivae); ci sono infine cau-se tantum factivae da cui dipende non solo il corso naturale delle cose,ma anche quello sovrannaturale, mirabile e innovativo, perché esercitatodirettamente da Dio.

Il male (secondo la lezione agostiniana) non è natura, ma privazio-ne: nell’ordo naturae (fatto e non fattivo) tale privazione porta al malumpoenae, conseguenza del malum culpae, ossia della privazione di benerispetto all’ordo iustitiae (fatto e fattivo) nell’uomo peccatore [Regn 43;Brev 3.4.2. e 3.10].

Col peccato, la persona di Adamo corrompe la sua natura(costitutiva) mediante la concupiscenza della carne; e comunicando talenatura ai discendenti mediante la generazione (al cui atto si accompagnala concupiscenza a causa del peccato), corrompe anche le loro persone(in quanto la concupiscenza ereditata corrompe la volontà) e quindi cor-rompe tutta la natura (collettiva) umana, per cui tutti gli uomini nascono

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per natura figli dell’ira; la macchia del peccato originale si trasmettequindi a tutti gli uomini, ad eccezione di Maria (per grazia singolare) edi Gesù (per la sua natura e per il suo concepimento verginale) [cf Sent2.33.2.1 ad sc 1; Brev 3.3-7].

Quanto all’incarnazione del Verbo, si può notare la connessioneche c’è fra redenzione del genere umano (in senso collettivo) e assun-zione della natura umana (in senso costitutivo) da parte del Verbo [cfBrev 4.1.4 e 4.2.2-5], con la conseguente communicatio idiomatum, os-sia lo scambio delle proprietà della natura umana e di quella divina invirtù dell’unione ipostatica in Cristo [cf ScienChr 6 co; Brev 4.2.7].

Nel compimento escatologico la natura è trasformata. La confla-gratio finale avviene per forza sovrannaturale, in quanto ferma il motodella natura celeste, riduce all’inattività la natura elementare, lascia so-pravvivere ogni altra natura corporea solo (in principiis et in simili) neicorpi umani risorti; la resurrezione finale, poi, si addice al completa-mento della natura e al compimento della grazia; l’ordinamento dei cor-pi umani alla resurrezione è impresso da Dio nella natura stessa(economica e umana); ma la natura ha in appetitu e non in potestate direalizzare quest’ordinamento; perciò Dio stesso lo realizza secondo ilcursus supernaturalis [cf Brev 7.4-5].

IL CONCETTO DI NATURAALLA LUCE DELL’ONTOLOGIA TRINITARIA E CRISTOLOGICA

Per precisare le nozioni del dogma trinitario e cristologico, Bona-ventura elabora implicitamente nel primo e nel terzo libro del Com-mento alle Sentenze una raffinata ontologia della natura simpliciter:chiarisce i concetti di ipostasi, res, persona e i loro rapporti con i con-cetti di sostanza, essenza, forma, natura (ogni res ha una natura, ma –tranne che in Dio – non è natura) [cf Sent 1.4.1.4, 1.23.1.3, 1.23.2.2-3,1.23 ad db 1, 1.25.1.1-2 e 1.25 ad db 3]; inoltre, interpreta la natura co-me comunicabile e le emanazioni come comunicazioni [Sent 1.9.1.1;1.5.2.1-2; 1.6.1.2]. Bonaventura spiega perché la natura divina può as-sumere una natura creata, ma solo in una persona divina assumente, emostra la congruità dell’assunzione della natura umana in individuopiuttosto che l’assunzione di tutta la specie umana o di una qualsiasi al-tra natura creata o addirittura dell’intero universo [cf Sent 3.1.1.1-4;3.2.1.1-3].

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Tutta la quinta e la sesta distinzione del terzo libro delle Sentenze[cf soprattutto 3.5.2.1 e 4-5] sono dedicate al problema dell’assumptionaturae, tema molto dibattutto dai teologi del tempo [cf Sent 3.6]:l’assunzione dice azione, relazione e terminazione che riguardano in va-ri modi la persona e le nature di Cristo; la natura umana (in senso dinatura costitutiva) è assunta globalmente dal Verbo, pur non preesisten-do all’assunzione (in quanto la natura, di per sé, è qualcosa di potenzialeed esiste in atto solo nelle res); è per questo che «homo» (che in uncerto senso esprime il concetto di natura concretiva umana) si può pre-dicare del Verbo; ma se homo è inteso come predicato si può anche direche il Verbo ha in generale assunto l’uomo (ossia che assumendo lanatura umana si è fatto lui stesso uomo), ma se homo è inteso comesoggetto ontologico (ossia come res) assolutamente non si può dire cheil Verbo abbia assunto un uomo (quasi adottandone uno già esistente).

RILETTURA MISTICA:TRE PERSONE NELLA NATURA DIVINAE TRE NATURE NELLA PERSONA DI CRISTO

Come si è mostrato meglio nella prima parte, Bonaventura proponeuna splendida sintesi della fede mediante la reinterpretazione pittorescadell’apparizione a Isaia [6,2-3] dei serafini acclamanti a Dio tre voltesanto. Per Bonaventura, infatti, i due serafini simboleggiano i due miste-ri principali della fede e le loro ali, gli articoli del Simbolo: «secut inDeo aeterno est Trinitas personarum cum unitate essentiae, ita etiam inDeo humanato sunt tres naturae cum unitate personae» [Hex 8.9]. Infat-ti, tre volte santo è Dio quanto alle tre persone della sua essenza (ossianatura); e tre volte santo («exterius, interius, superius») è quanto alle trenature (corporea, spirituale e divina) della persona di Cristo.

La definizione cristologica del concilio di Calcedonia parlava didue nature (umana e divina) di Cristo e non di tre (sebbene la naturaumana sia composta di due nature, la corporea e l’incorporea, viventel’uomo esse sono fuse in una sola natura, l’umana, e solo con la morte siseparano; in effetti Cristo in triduo – fra la morte e la resurrezione – eb-be tre nature e non due, perché propriamente allora non fu uomo). Bo-naventura stesso comunemente si attiene al modo calcedonese di parla-re. Se egli parla di tre nature in questo contesto è per mostrare la con-nessione fondamentale di tutta la realtà.

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La realtà (disposta nei suoi gradi ontologici) è descritta da Bona-ventura secondo l’immagine della scala di Giacobbe, che in quanto di-scendente indica la fondazione ordinata, in varie tappe, di tutta la realtàmediante la creazione divina; e in quanto ascendente indica i tre livellidel suo riconoscimento da parte dell’uomo, come illustrato nell’Itine-rarium: possiamo infatti riconoscere nella natura corporea (a noi este-riore) il vestigium di Dio; possiamo poi riconoscere nella natura spiri-tuale (a noi interiore) l’imago di Dio e (con la grazia) la sua similitudo;possiamo infine riconoscere nella natura divina (a noi superiore) perfinoil nomen di Dio uno e trino (Essere e Bene, ossia Creatore e Amore); iltutto per passare dal semplice riconoscimento all’estasi della ricono-scenza.

«summa perfectio et nobilissima in universo esse non possit, nisi na-tura, in qua sunt rationes seminales et natura, in qua sunt rationes intel-lectuales, et natura, in qua sunt rationes ideales, simul concurrant inunitatem personae, quod factum est in Filii Dei incarnatione» [Red 20].

Cristo, dunque, non solo ripara la scala, ma è la scala stessa; nonsolo è il redentore, venuto per salvare l’uomo peccatore ma è anche ilperfezionatore dell’universo.

I gradi di tale scala, riflessi nelle facoltà umane, «sono stati formatiper natura, deformati per colpa, riformati per grazia» nella storia passatadella salvezza; e ora «vanno purificati […], esercitati […] e perfeziona-ti» [Itin 1.6].

Le strutture del concetto di Natura forniscono quindi le due viedella teologia [cf Hex 2.33]: quella discendente (ordinata secondo leopere di Dio e dell’uomo), sviluppata nel Breviloquium e quella ascen-dente sviluppata nell’Itinerarium.

Secondo una bella metafora bonaventuriana, il contemplativo è ingrado di orientarsi nella realtà attraverso uno zodiaco di dodici stelle, omeglio costellazioni: le nature corporee, le sostanze (o nature) spiritualicon le loro conoscenze e virtù, le ragioni eterne (della natura divina) dacui promanano gli eventi della storia della salvezza (leggi, grazie, giudi-zi sul peccato, misericordie, meriti, premi, decorsi) [cf Hex 22.40]. Poi-ché Dio è principio e fine della creazione, le dodici costellazioni forma-no come un circolo. I dodici oggetti da considerare sono espressi danomi al plurale (più che stelle sono costellazioni): la realtà consta quin-di di individui ed eventi concreti e irripetibili, ma non isolati: essi sonoraggruppabili in costellazioni.

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Nella prima Collatio in Hexaëmeron [1.17-20] Bonaventura, svi-luppando una affascinante rilettura cristocentrica delle scienze e dellarealtà, definisce Cristo come medio (o centro) metafisico di essenza emedio (o centro) fisico di natura (medium essentiae e medium naturae),in relazione (rispettivamente) ai misteri della generazione eterna, dellacreazione e dell’incarnazione.

Cristo è «medio di essenza, primario per la generazione eterna»:infatti all’interno dell’essenza divina, tra il Padre e lo Spirito «istud estmedium personarum necessario: quia, si persona est, quae producit etnon producitur, et persona, quae producitur et non producit, necessarioest media quae producitur et producit».

Ma Cristo è medio di essenza anche in rapporto alle creature, inquanto è l’esemplare eterno nel quale il Padre ha espresso tutto il suoprogetto creativo.

Sebbene nella creazione la Trinità agisca indivisibilmente, e quindil’esser da sé, secondo sé e per sé di Dio in quanto principio originante,medio esemplante e fine compiente non possano essere conosciuti (inbase alla sola creazione, senza la rivelazione) in ragione di Padre, Figlioe Spirito Santo, tuttavia il Verbo increato è colui per mezzo del qualetutto è creato da Dio e tutto ritorna a lui nell’unità.

Insomma, Cristo è centro di essenza in quanto a causa della gene-razione dal Padre è centro della natura divina e a causa della creazioneespressa dall’eternità in lui è al centro fra natura creatrice e naturacreata.

Cristo poi è medio di natura in quanto è Verbo incarnato, ossia inquanto ha assunto la natura corporea e spirituale.

Il medio di natura è diffusivo: infatti la natura fisica, tramite i varitipi di generazioni, è estremamente dinamica ma a partire sempre daqualche agente o centro di natura, come il cuore nel corpo umano e ilsole nell’universo.

Cristo, incarnandosi, ha assunto la natura (costitutiva) spirituale ecorporea, ma di conseguenza ha centrato in sé tutta la natura (collettiva)umana creando così il presupposto ontologico per poter formare il corpomistico della Chiesa e, come il capo e il cuore nel corpo umano e comeil sole nell’universo, esserne il centro diffusivo, diffondendo lo SpiritoSanto alle membra che restano unite al corpo e non se ne separano conil peccato: in questo modo, l’effusione dello Spirito porta a compimento(soprattutto dal punto di vista etico) l’unificazione mediata da Cristo

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(soprattutto dal punto di vista ontologico) del corpo mistico. Infatti ilVerbo è gerarca (nella Chiesa e nella gerarchia angelica) in quanto ha insé le tre nature e così può effondere lo Spirito nelle due gerarchie ange-lica ed ecclesiastica [cf Hex 3.10-19].

Ma Cristo si incarna per redimere l’uomo dal potere del diavolo.Incarnandosi, dunque, Cristo diventa mediatore fra Dio e l’uomo.

In questo medio si realizza l’umanazione di Dio e la divinizzazionedell’uomo, in un sillogismo tutto particolare così formulato:

«Christus […] habuit conformitatem naturae in quantum Deus cumPatre […]. Assumpsit […] passibilitatem naturae […]. Necesse ergofuit, ut homo transiret a mortalitate ad immortalitatem […]. Maior pro-positio fuit ab aeterno; sed assumptio (minoris) in cruce; conclusio veroin resurrectione» [Hex 1.27-28].

Il sillogismo di Cristo ci fa capire appieno la plasticità del concettobonaventuriano di Natura. Le nature non sono concepite da Bonaventu-ra come entità statiche, astratte, immutabili. Soltanto la natura divina èimmutabile, ma ciò non impedisce a Dio di creare o addirittura di incar-narsi, in quanto la mutazione avviene solo nella natura creata o assunta.La natura umana, poi, può essere transnaturata in un ordine sovrannatu-rale.

Concludendo, la persona del Verbo essendo ab aeterno al centrodella natura divina, tra il Padre e lo Spirito, e ab incarnatione al centrodella natura spirituale e corporea, costituisce come un Tau metafisico euna croce intelligibile, e può essere considerato pertanto come il centrodi Natura simpliciter.

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‘LEX NATURAE’, ‘SCRIPTA’, ‘GRATIAE’.‘PHILOSOPHI’, ‘IUDAEI’, ‘CHRISTIANI’ 64

LE TRE “LEGGI”, NATURALE, MOSAICA E CRISTIANA

Per Bonaventura tre sono i gruppi determinati dalla manifestazionedi Dio, come mostra l’opposizione tra “Philosophi - Iudaei - Christia-ni”, ossia tra legge di natura (religiosità monoteistica naturale), leggescritta o veterotestamentaria (ebraismo) e legge di grazia o neotesta-mentaria (cristianesimo), intese come tre fasi successive della manife-stazione divina. In tale tassonomia, manca un posto specifico per i mu-sulmani.

“Filosofi” e “giudei” hanno innanzitutto una connotazione tempo-rale dalla reminiscenza paolina: ‘philosophi’ sono quelli antichi, precri-stiani; di conseguenza, la filosofia è la ricerca della sapienza nella“legge di natura” che per i “gentili” svolse una funzione analoga aquella che per i “giudei” è stata la “legge scritta” mosaica, in prepara-zione della “legge di grazia” dei cristiani.

I filosofi sono accomunati a patriarchi e profeti nella percezione delvero nella legge di natura, ossia nell’ordine della creazione; anzi, i filo-sofi, “in ciò che di vero dicono”, sono accomunati addirittura ad angelie profeti; ma sono anche penalizzati: a loro è preclusa la porta del Ver-bo increato; questo può sembrare incongruente, ma dobbiamo tenerconto che il filosofo (in quanto metafisico a prescindere dalla fede) èguidato sì dalla cattedra interiore (il Verbo generato e increato, permezzo del quale tutto è creato), ma pur conoscendo l’essere divino co-me principio, medio e fine, “non lo conosce in ragione di Padre, Figlio eSpirito Santo”; invece i magi, guidati dalla luce del Verbo increato,

64 Cf Maurizio MALAGUTI, Ermeneutica biblica e testimonianza in San Francesco e SanBonaventura, in “Doctor seraphicus. Bollettino d’informazione del Centro di studi bonaventu-riani” 1996 (43), p. 85-93. Pietro MARANESI, «Littera et spiritus»: i due principi esegetici diBonaventura da Bagnoregio, in “Collectanea franciscana” 1996 (66), p. 97-125. Jan HOE-

BERICHTS, Franciscus en de Islam; trad. it.: Francesco e l’Islam, EMP, Padova 2002. AndreaDI MAIO, Cristianesimo in dialogo con i non cristiani: l’approccio “testimoniale” francescanoe bonaventuriano (“per la potenza della testimonianza e dei miracoli”), in “Gregorianum” 2006(87), p. 762-780.

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giunsero ad adorare il Verbo incarnato [cf Hex 4.1; 1.14; 3.4; 1.12-13;De modo inveniendi Christum, 3]. Invece, i filosofi (pagani) hanno rite-nuto impossibili alcune somme verità, come la creazione nel tempo;dunque senza la fede l’intelligenza è “come monca” [Hex 3.3-4 e 3.9].

Ebbene, la “filosofia” degli antichi gentili e l’esodo degli israelitisono ricerche di una legge divina (rispettivamente quella di natura equella scritta, mosaica) portate a compimento dai cristiani: per cui sonoi cristiani sia i veri filosofi (nel senso di ‘amatores sapientiae’) sia i veriisraeliti [Itin 1.9]. Perciò, quanti, pur essendo nella legge di grazia, vo-gliono tornare alla legge di natura sono detti ‘philosophantes’: infatti lafilosofia è una “via”, e “volersi fermare in essa è un cadere nel buio” eun “tornare indietro nella schiavitù d’Egitto” [cf HexD 0.1.15-16; Itin1.9; Hex 1.9, 17.25, 19.12].

I NON CRISTIANI

Lo schema della successiva sostituzione delle tre “leggi” se da unaparte consente a Bonaventura di integrare nel cristianesimo i valori delgiudaismo e della filosofia greca, gli impedisce però di confrontarsi se-riamente con le religioni non cristiane, ridotte a preparazioni o corru-zioni del cristianesimo.

Bonaventura nomina raramente i “Saraceni”: polemizzando con lo-ro, specifica che il banchetto escatologico è “non materiale”, come siaspettano; “ma sapienziale” [Sermones Dominicales, 29.7.]; ma ne trat-teggia un ruolo quasi teologico nella storia della Chiesa, mettendo in pa-rallelo il ruolo degli Assiri che avevano devastato il Regno scismaticodi Samaria nell’Antico Testamento, e quello dei Saraceni che avevanodevastato nell’era cristiana l’impero d’Oriente: tale devastazione peròprelude all’avvento del misterioso ordine serafico iniziato da Francesco[cf HexD 3.4.28].

Più accentuata è invece la polemica verso i giudei del tempo. Così,nella terza delle sue Collationes de decem praeceptis, Bonaventura notache il primo precetto, vietando il politeismo e l’idolatria, è occasione didisputa tra giudei e cristiani: i primi accusano i secondi per la dottrinatrinitaria e per il culto delle immagini e soprattutto per l’adorazione eu-caristica: “dicono che adoriamo un pezzo di pane, il che per loro è mas-simamente assurdo” e che se si dà a Dio un Figlio, gli si dovrebbe dareanche una moglie. Ebbene, costoro, per Bonaventura, «vilissime intelli-gunt» e «pedestri modo»; occorre invece intendere le realtà divine

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“piissime et altissime”, avendo «elevatissimas cogitationes, non pede-stres» [Praec 3.11-13; cf 3.9 e Don 3].

Quanto agli antichi gentili, Bonaventura ne distingue i filosofi, e traquesti i più nobili e antichi (ossia, con una significativa sovrappo-sizione, Socrate e i platonici). Ebbene, anche i filosofi più acuti avevanoerrato, come ad esempio Aristotele, ponendo il mondo eterno (ma, do-manda Bonaventura con stupore e quasi commiserazione, «quomodopotest hoc esse?»); e perfino i filosofi più nobili, come Plotino, che purepraticarono le virtù naturali e cercarono la sapienza nella contemplazio-ne, non la conseguirono e ignorarono la loro stessa malattia, la salute eil Medico [Praec 2.28; Hex 7.5-12].

Quanto infine ai cristiani fuori della Chiesa, citando il Siracide Bo-naventura dichiara di doversi rivolgere solo alla Chiesa, e non a quantise ne allontanano nella dottrina o nella prassi [cf Hex 1.1 e 1.5-9].

LA TESTIMONIANZA E I MIRACOLI COME APPROCCIO AI NON CRISTIANI

Francesco aveva espresso un approccio ai non cristiani (e in parti-colare ai musulmani) originale e alternativo, che riprende in parte e rin-nova quello paolino della “stoltezza della predicazione”. Fin dal 1212aveva deciso di recarsi ad evangelizzare i musulmani, e ne ebbe occa-sione nel 1219 a Damiata, sul delta del Nilo, ove si combatteva la quintacrociata tra le forze crociate e quelle del Sultano di Egitto: attraversatala linea e passato in campo avversario fu inizialmente maltrattato daisoldati saraceni, ma poi fu invece ben accolto dal Sultano, che lo ascoltòsenza però convertirsi. Entrambe le regole francescane rimasteci hannoun capitolo dedicato ai rapporti con i musulmani e in generale i non cri-stiani: il sedicesimo della Regula non bullata del 1221 e il dodicesimodi quella bullata del 1223, col titolo: «de euntibus inter saracenos etalios infideles». Nella prima, ai frati che col consenso dei superiori de-cidano di andar missionari tra i musulmani, Francesco prescrive di ordi-nare i rapporti spirituali in due modi: innanzitutto, che non facciano litiné contese e quindi neanche discussioni pubbliche, ma che piuttostosiano sottomessi a tutti e si limitino a professarsi cristiani («non faciantlites neque contentiones, sed sint subditi omni humanae creaturae prop-ter Deum [1Pt 2,13] et confiteantur se esse christianos»); e che solo inun secondo momento, se si verificasse l’occasione favorevole, annunci-no loro la Parola di Dio affinché credano, siano battezzati e divengano

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cristiani («cum viderint placere Domino, annuntient verbum Dei, utcredant […], baptizentur et efficiantur christiani»).

In base alla Regola da lui professata e all’esempio del suo fondato-re, è comprensibile che Bonaventura abbia privilegiato l’approccio dellapredicazione a quello della ragionevole discussione. D’altra parte,l’esempio di Francesco è riletto in maniera nuova da Bonaventura.

In effetti, narrando l’episodio di Damiata [cf LegMa 9.8] (in unmodo che sarà ripreso in uno degli affreschi attribuiti a Giotto nella ba-silica superiore ad Assisi) e commentandolo nel 1273 in qualità di mini-stro generale dell’Ordine ai frati minori studenti di teologia all’uni-versità di Parigi, Bonaventura diceva che Francesco avrebbe rifiutato dientrare in una disputa dottrinale richiestagli dal Sultano, ma gli avrebbeproposto di accendere un rogo per entrarvi con gli avversari (analo-gamente a quanto aveva fatto Elia nella disputa con i sacerdoti di Baal);ma stavolta sarebbe stato il Sultano a rifiutare [cf Hex 19.14].

Inoltre, Francesco «che predicava al Sultano» era da Bonaventuraadditato addirittura come modello per la formazione dei frati: infatti,alla proposta di una discussione con i sapienti musulmani, Francescoaveva risposto che non avrebbe potuto discutere di fede con loro in basealla ragione, poiché la fede è sopra la ragione, né avrebbe potuto farlomediante la Scrittura, perché essi non l’avrebbero accettata; si era ap-pellato dunque ai miracoli e (in senso generale) alla testimonianza divita [Hex 19.14].

Nella prima Collatio in Hexaëmeron [1.29-30] Bonaventura avevaricostruto dal punto di vista logico il procedimento (sillogismo di Cri-sto) con cui il Cristo risorto aveva portato l’incredulo Tommaso alla fe-de: mostrando la sua gloria divina (e questo corrisponderebbe alla pre-messa maggiore del sillogismo), e poi la sua passione e morte umana (equesto corrisponderebbe alla premessa minore), Cristo riesce a strappa-re a Tommaso la conclusione di fede “Mio Signore e mio Dio!”. Perquesto (aggiunge Bonaventura), i cristiani devono mettere ogni impegnonell’assumere la “minore” del sillogismo, cioè la Croce, perché solo co-sì riusciranno a ottenere la conclusione. Bonaventura non trae però leconseguenze di questo discorso: la conversione dei non credenti potràavvenire solo attraverso l’umiltà dell’amore.

Per Bonaventura (come per tutti i suoi contemporanei) il fine diogni conversazione con i non credenti in Cristo è solo la loro conversio-ne; egli sottolinea che questo è funzionale al ristabilimento dell’armonia

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della verità, ma riconosce che tale risultato è escatologico; così, Bona-ventura individua nel Cristo della parusia definitiva il “medio di con-cordia” che porterà pace al mondo, con una universale conciliazione[Hex 1.37].

Questa prospettiva escatologica però si traduce in una tensione sto-rica (analoga ad un’istanza del gioachimismo minoritico); ai suoi fratiparigini, secondo il reportator, Bonaventura avrebbe confidato:“Credetemi, verrà il tempo in cui non varranno nulla gli argumenta, enon vi sarà più difesa della fede mediante la ratio, ma solo mediantel’auctoritas” [Hex 17.28].

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‘SCIENTIA’, ‘INTELLECTUS’, ‘SAPIENTIA’ 95

‘SCIENTIA’ – ‘INTELLECTUS’ – ‘SAPIENTIA’COME ABITI, DONI, CARISMI E STADI SPIRITUALI 65

‘Scientia’, ‘intellectus’ e ‘sapientia’ sono termini polisemici ancheper il fatto che concetti diversi (filosofici greci da una parte, e biblici epatristici dall’altra) sono stati espressi a motivo delle traduzioni con unmedesimo termine latino, in virtù di una certa affinità semantica perce-pita dai traduttori, che poi ha indotto i locutori (e in particolare filosofi eteologi) ad armonizzare intorno ad un nucleo significativo tutti i signifi-cati ereditati dalla tradizione. Occorre dunque innanzitutto chiarire i di-versi giochi linguistici e ambiti dottrinali in cui questi termini compaio-no.

SCIENZA, INTELLIGENZA E SAPIENZA COME ABITI DIANOETICI

Alla luce di Aristotele, anche Bonaventura distingue cinque abitidianoetici o intellettuali. Innanzitutto ci sono tre abiti che riguardano lerealtà necessarie (circa necessaria): la sapienza (circa causas altissi-mas: ossia riguardo ai princìpi dell’essere), l’intelligenza (circa princi-pia: ossia riguardo ai princìpi del sapere) e la scienza (circa conclusio-nes: ossia riguardo ai contenuti del sapere). Ci sono poi due abiti che ri-guardano le realtà contingenti (circa contingentia): la prudenza (per gliagibilia: ossia le azioni morali) e l’arte (per i factibilia: ossia le produ-zioni artificiali) [HexD 1.2.12]. Tali abiti sono naturali; pertanto la pru-denza di cui si parla non va confusa con la virtù cardinale sovrannatu-ralmente infusa; similmente la sapienza, l’intelligenza, la scienza non

65 Jean-François BONNEFOY, Le Saint Esprit et ses dons selon Saint Bonaventure, Vrin, Pa-

ris 1929. Letterio MAURO, Bonaventura da Bagnoregio: dalla “Philosophia” alla “Contempla-tio”, Accademia ligure di scienze e lettere, Genova 1976. Renato RUSSO, La metodologia delsapere nel sermone di san Bonaventura “Unus est Magister vester Christus”. Con nuova edi-zione critica e traduzione italiana, (“Spicilegium Bonaventurianum” 22), Grottaferrata 1982.Pietro MARANESI, Formazione e sviluppo del concetto di “Verbum Inspiratum” in San Bona-ventura, in “Collectanea Franciscana” 1994, p. 5-87. Andrea DI MAIO, San Bonaventura e lateologia francescana, in: Giuseppe Occhipinti (Ed.), Storia della Teologia. 2. Da Pietro Abelar-do a Roberto Bellarmino, Dehoniane, Roma - Bologna 1996, p. 59-104. Barbara FAES DEMOTTONI, Figure e motivi della contemplazione nelle teologie medievali, SISMEL – Galluzzo, Fi-renze 2007.

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INTRODUZIONE AL LESSICO DI SAN BONAVENTURA96

vanno confuse con gli omonimi doni sovrannaturali dello Spirito Santo,sebbene ci sia una analogia tra gli uni e gli altri.

Così ‘sapientia’ si dice in senso lato (ma improprio) la generale co-noscenza delle realtà umane o divine e, in senso meno improprio si dicenon una conoscenza qualsiasi ma solo quella più alta, delle cause su-preme ed eterne (in questo senso, si dice sapienza la filosofia, e in parti-colare il suo compimento); in senso più appropriato si dice sapienza laconoscenza di Dio secondo pietà, ossia secondo il retto culto di Dionella religione cristiana (in questo senso sono sapienza la fede e la teo-logia cristiana); nel senso più proprio si dice sapienza la contemplazioneo «conoscenza sperimentale di Dio», e in quest’ultimo senso è l’ultimodei doni dello Spirito Santo, e consiste nel gustare la divina dolcezza:infatti «la sapienza è secondo il suo nome», e quindi è una scienza sapo-rosa, che sazia tanto l’intelletto quanto l’affetto [cf Sent 1.2 ad db 2;3.35.1.1].

Similmente, sia la filosofia sia la teologia rientrano per Bonaventu-ra nell’ambito aristotelico della ‘scientia’, pur senza esaurirsi in esso.

La filosofia è infatti una conoscenza naturale basata su rationes(argomenti dimostrativi o probabili per la ratio umana); ma alla scienzadell’essere (la metafisica aristotelica, intesa però nel senso odierno di“ontologia”), che è la considerazione scienziale delle cose, o oggetti,dal punto di vista delle rationes eterne [cf Don 4; Red 4; Hex 4.1-3 e5.22], Bonaventura contrappone la “sapienza filosofica” [cf Hex 5.23-33] (quale meta-fisica e teologia filosofica) che è invece la contempla-zione sapienziale di sé (ossia del soggetto, còlto per riflessione), e, at-traverso il lume delle intelligenze, di Dio, ossia del supremo principio,esemplare e fine: cogliamo Dio progressivamente per ragionamentoanalogico (se c’è il seguente c’è il precedente), per esperienza indirettadelle privazioni (se c’è il male ci deve essere il Bene) e per contuizione.

Invece la teologia è «scientia supernaturalis» basata sulle auc-toritates (date per rivelazione e recepite per la fides), ma è sviluppatacome scienza del credibile sì, ma in quanto intelligibile, e cioè secondouna determinatio distrahens (un cambio di prospettiva che guarda la ri-velazione come un obiectum per la ragione), e dunque come una vera epropria scienza, sebbene pratica e dai princìpi assunti per fede [cf Sentpr 2 ad 4; 3 co].

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‘SCIENTIA’, ‘INTELLECTUS’, ‘SAPIENTIA’ 97

SCIENZA, INTELLIGENZA E SAPIENZA COME DONI DELLO SPIRITO

Ad un ambito diverso (dovuto alla rilettura patristica e monastica diun celebre testo isaiano) appartiene la distinzione di scienza, intelligen-za e sapienza come doni dello Spirito Santo.

Tali doni sono infusi simultaneamente nell’uomo giustificato, ilquale però deve imparare progressivamente ad esercitarli e a stabiliz-zarli, cominciando dal più “basso” (cioè il timore) e arrivando progres-sivamente (attraverso l’esercizio di pietà, scienza, fortezza, consiglio)ad esercitare i doni di intelligenza e sapienza.

Nel 1267 Bonaventura, risiedendo a Parigi come generale dell’Or-dine dei Frati Minori, predicava ai frati dell’università di Parigi un ciclodi collationes sul Decalogo, riletto come il progetto generale (appuntola lex) di Dio sull’umanità. Nel 1268 predicava poi un secondo ciclo dicollationes sulla Grazia: e in particolare sui Doni dello Spirito Santo,che sono le ispirazioni divine esercitando le quali l’uomo progrediscenel cammino di attuazione della Legge. Ne viene fuori una summa diteologia ascetica e dinamica forniscono un concreto itinerario asceticoche va percorso tappa dopo tappa. Infatti, i sette “doni” dello Spirito,infusi simultaneamente nell’anima giustificata, vengono esercitati (estabilizzati) dall’uomo spirituale uno dopo l’altro.

Iniziando ad esercitare il timore di Dio (e quindi la contrizione),l’uomo spirituale pian piano attraverso la pietà (e la preghiera) ottienedi crescere in scienza interiore dei misteri di Dio, forza di testimoniare,consiglio per adeguarsi alla volontà particolare di Dio su di lui, e infineattraverso l’intelligenza (o intuizione) spirituale di Cristo nel propriocuore, può accogliere sempre di più la sapienza o conoscenza speri-mentale di Dio. In questo itinerario, non si poteva non affrontare il deli-cato rapporto tra i doni di scienza, intelligenza e sapienza (della tradi-zione biblica e spirituale) e gli omonimi abiti dianoetici trattati da Ari-stotele.

Bonaventura distingue la scienza filosofica (conoscenza certa, dascrutare razionalmente) e la scienza cristiana, ovvero la scienza teologi-ca (conoscenza “pia”, da credere), la scienza gratuita (conoscenza santa,da amare) e la scienza gloriosa (conoscenza eterna, da sperare): «lascienza filosofica è via alle altre scienze; pertanto chi si vuol fermare adessa cade nelle tenebre» [Don 4.3-6 e 4.12].

Tutte queste scienze sono a diverso titolo dono di Dio, ma solo lascienza gratuita rientra fra i doni dello Spirito Santo. Le altre due scien-

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ze, naturale (filosofica) e sovrannaturale (teologica), sono invece virtùdianoetiche, o abiti intellettuali: solo che la scienza teologica parte daarticuli assunti per fede (attraverso l’intellectus fidei), mentre la scienzafilosofica parte dai primi principi colti attraverso l’abito dell’intellectusprincipiorum. La differenza teologica tra scienza teologica e scienzagratuita (dono) è che la prima si può acquisire con lo studio applicatoalla fede anche solo informe (ossia non necessariamente formata dallagrazia), e quindi non si perde con il peccato; viceversa la scienza gra-tuita è data dallo Spirito Santo a tutti e soli i fedeli in grazia, anchequelli non dotti.

Nelle Collationes in Hexaëmeron, predicate a Parigi (davanti aifrati minori dell’Università) tra Pasqua e Pentecoste del 1273, e inter-rotte dalla sua nomina a Cardinale Vescovo di Albano, Bonaventura in-tendeva guidare gli ascoltatori ad esercitare gli ultimi doni, e in parti-colare a sviluppare il dono dell’intelligenza (intellectus, nel senso diintuizione) del Verbo ispirato, attraverso sei stadi, per sviluppare in pie-nezza il dono della sapienza cristiana: vi è infatti una triplice intelligen-za: «quella del Verbo increato, per mezzo del quale tutto è creato;quella del Verbo incarnato, per mezzo del quale tutto è riparato; e quelladel Verbo ispirato, per mezzo del quale tutto è rivelato» [Hex 3.2].

La prima intellezione l’hanno tutti gli uomini atematicamente inogni loro conoscenza vera; la seconda l’hanno tutti i credenti in Cristo;la terza l’hanno solo i giusti. E solo quest’ultima è l’intelletto donodello Spirito Santo. Effetto straordinario di tale intellezione è la triplicevisione (corporale, immaginaria, intellettuale) concessa ai “veggenti”,secondo una distinzione classica a partire da Agostino. Ma effetto ordi-nario di tale intellezione è la visione intellettuale concessa già in via aigiusti in sei fasi diacronicamente successive (e sei livelli di crescenteperfezione e difficoltà): la ricerca innata, l’ascolto per fede, la medita-zione biblica, la contemplazione, la profezia, l’unione mistica (le ultimedue di fatto raggiunte solo da pochissimi, ma in linea di principio acces-sibili a tutti i credenti).

Bonaventura distingue due conoscenze contemplative: la prima è quelladell’estasi (excessus), che deve essere ricercata da ogni uomo giusto in via(affermazione decisiva, questa, che sarà condivisa dalla grande tradizione misticamoderna); la seconda è quella (ben più rara, e frutto di un privilegio) del rapi-mento; la prima è di natura affettiva, e conosce Dio non nella chiarezza della suaessenza, ma nell’effetto della sua grazia che è l’esperienza unitiva della sua soa-vità; la seconda è conoscenza solo momentanea di Dio in sé nella sua essenza, cheper privilegio forse è stata concessa ai rapiti come Paolo [Sent 2.23.2.3 co + ad 6].

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‘SCIENTIA’, ‘INTELLECTUS’, ‘SAPIENTIA’ 99

In tal modo Bonaventura risolve la dialettica tra le affermazioni: “Dio nessuno loha mai visto”; il Verbo incarnato “ce lo ha rivelato”; e infine “lo vedremo cosìcome egli è” [Gv 1,18; 1Gv 3,2].

LINGUAGGIO DI SCIENZA E LINGUAGGIO DI SAPIENZA COME CARISMI

Un ulteriore ambito è costituito dai carismi, che a differenza deidoni dello Spirito Santo, non santificano chi li riceve, ma lo abilitano aedificare gli altri. Ecco perché possono essere dati anche a chi non è ingrazia.

Bonaventura riprendendo la lista paolina dei carismi (che però luinon chiama così) distingue in particolare il sermo sapientiae e il sermoscientiae, arrivando a dire che il primo fu dato a Platone, che perl’appunto guardava in alto, alle ragioni eterne, e il secondo ad Aristote-le, che per l’appunto guardava in basso, alle ragioni create, mentre adAgostino furono dati entrambi i carismi [UnMag 18-19].

Il discorso di scienza è il carisma di saper insegnare a consideraregli oggetti (esteriori e inferiori rispetto a noi), mentre il discorso di sa-pienza è il carisma di saper insegnare a contemplare le realtà spirituali(interiori e superiori): questi sono i carismi propri del teologo, che deverivolgere il suo discorso alla Chiesa [cf Hex 1.1].

SCIENZA E SAPIENZACOME ORIENTAMENTI E STADI DEL PERCORSO SPIRITUALE

Reinterpretando infine una suggestione agostiniana, Bonaventuracolloca genericamente la sapienza verso l’alto (come contemplazionedel Principio fontale e riflessione sul soggetto), e la scienza verso il bas-so (come considerazione di oggetti): di volta in volta il sensodell’opposizione muta però a seconda dei significati specifici che i dueabiti assumono: infatti la filosofia è sia scienza (divisa in nove scienze),sia sapienza (cioè riflessione, speculazione e contemplazione) [cf Hex5.22]; anche la teologia è sia scienza (in quanto considerazione dellaScrittura e dei misteri), sia sapienza [cf Sent pr 3 e 3.35.1.1-2; Hex 2 e19.6-27]; e anche la “spiritualità” sviluppa i doni sia di scienza che sa-pienza.

Ebbene, la sapienza non si può acquisire senza crescita nelle virtù[Hex 5.33; 19.24]; la “spiritualità” intesa come concreta esperienza diascesi delle virtù è quindi il medio che consente alla scienza sia filosofi-ca che teologica di diventare sapienza. Infatti «avere molto sapere e po-

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co sapore a che giova?» («multa enim scire et nihil gustare quid valet?»)[Hex 22.21].

In Filosofia, “la mente perviene alla contuizione divina, e dice dipossedere l’intellectus adeptus che i filosofi promisero: a questo li traela verità” [Hex 5.22]: la contuizione non è una intuizione diretta di Dio,ma (per dirla con termini più moderni) il “sentire il mondo come untutto” insufficiente, e tuttavia esistente, e quindi dipendente intrinseca-mente da Dio; l’intelletto compiuto per la conoscenza della Causa Primaera, per i cosiddetti averroisti parigini, l’ideale di felicità. Contro di lo-ro, Bonaventura aggiunge che “è però necessario giungervi mediante levirtù, come fecero i filosofi” [Hex 5.33], e in particolare i più nobili eantichi, come Socrate, ingiustamente sottovalutato, per aver ragionatosolo intorno alle virtù. Ma neanche tali virtù saranno sufficienti, senzala fede [cf Hex 7.5-15].

A maggior ragione in Teologia, che ha un intento pratico (essa in-fatti è finalizzata a che diventiamo buoni: «ut boni fiamus») [Sent pr 3co], “per passare dalla scienza alla sapienza, occorre porre il terminemedio, ossia la santità” [Hex 19.3]; vi occorre una “duplice disciplina,scolastica e monastica” [Hex 2.3], ossia razionale e morale: si noti chenel senso dell’aggettivo ‘monasticus’ confluiscono sia l’ascetica mona-stica vera e propria, sia l’etica aristotelica “del singolo” [cf Itin 3.6; Red4; Don 4]. Bonaventura cita Aristotele: “Mai malato fu guarito per aversemplicemente compreso le prescrizioni del medico, ma semmai peraverle messe in pratica” [Hex 2.3; cf Eth. Nic. 2.4].

In un secolo che aveva trasformato la concezione epistemologicadella stessa teologia, Bonaventura ha una posizione molto equilibratadel rapporto tra la teologia come scienza argomentativa e interpretativae la teologia che diremmo “vissuta” (la “teologia dei santi”) e che coin-cide con la “spiritualità”: da una parte, riprendendo Guglielmo di SaintThierry, Bonaventura diceva che per bene interpretare la Scrittura nonla si deve ridurre a proposizioni aride o argomentazioni [cf Hex 2.18;17.28], ma la si deve leggere nello stesso Spirito in cui fu scritta: «Nonpotest enim scire verba Pauli, nisi habeas spiritum Pauli» [HexD 4.3.21;cf Don 7.12]; d’altra parte, metteva in guardia da una contemplazionedisancorata dalla lettura oggettiva della Bibbia [cf Hex 22.42].

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‘SCIENTIAE’ 101

‘SCIENTIA’:LA SCIENZA, O MEGLIO LE SCIENZE FILOSOFICHE,

TEOLOGICA E SPIRITUALE 66

Il termine ‘scientia’ si presenta perlopiù al plurale, perché, riguar-dando i contenuti e i modi del sapere, è molteplice. Dobbiamo dunqueesaminare progressivamente i significati prima della scienza filosofica,poi della scienza teologica, e infine di quella gratuita e gloriosa.

LA DIVISIONE DELLE NOVE SCIENZE FILOSOFICHE

Ogni epoca, in ogni contesto, ha cercato di sistematizzare in qual-che modo il sapere, in maniera funzionale al proprio modo di vedere larealtà. Fra le varie sistematizzazioni succedutesi nella storia, quella ela-

66 Christian WENIN, Les classifications bonaventuriennes des sciences philosophiques, in:

Scritti in onore di Carlo Giacon, Padova 1972, p. 189-216. Bonaventure HINWOOD, The Princi-ples underlying St. Bonaventure’s Division of Human Knowledge, in: Jacques-Guy BOUGEROL(ed.), S. Bonaventura 1274-1974, Grottaferrata 1973, v. 3, p. 463-504. Camille BÉRUBÉ, De laPhilosophie à la Sagesse chez Saint Bonaventure et Roger Bacon, Istituto Storico dei Cappucci-ni, Roma 1976. John Francis QUINN, The Scientia Sermocinalis of St. Bonaventure and His Useof Language regarding the Mystery of the Trinity, in Sprache und Erkenntnis im Mittelalter(Miscellanea Mediaevalia 13/1), de Gruyter, Berlin-New York 1981, p. 413-423. H. M.STIEBING, Bonaventuras Einteilung der Wissenschaften als Beleg für universalkategoriales Vor-gehen in der Wissenschaftstheorie des Mittelalters. Eine semiotische Analyse, in: Sprache undErkenntnis im Mittelalter, (“Miscellanea Mediaevalia” 13), Berlin 1982, v. 2, p. 602-608. An-dreas SPEER, Triplex Veritas. Wahrheitsverständis und philosophische Denkform Bonaventuras,Dietrich Cölde, Werl 1987. Elisa CUTTINI, Scienza e teologia nel “De reductione artium ad the-ologiam” di Bonaventura da Bagnoregio, in “Miscellanea francescana” 1995, p. 395-466. Cor-nelio DEL ZOTTO, La sistematizzazione della filosofia e teologia del cuore di S. Bonaventura, inG. BESCHIN (a c. di), Antonio Rosmini, filosofo del cuore? Philosophia e theologia cordis nellacultura occidentale (Atti del Convegno tenuto a Rovereto il 6-7 ottobre 1993), Trento - Brescia1995, p. 113-146. Klaus OBENAUER, Summa actualitas. Zum Verhältnis von Einheit und Ver-schiedenheit in der Dreieinigkeitslehre des heiligen Bonaventura, (Europäische Hochschul-schriften. XXIII. Theologie 559), Frankfurt a. M. 1996. Andrea DI MAIO, La divisione bona-venturiana delle scienze. Un’applicazione della lessicografia all’ermeneutica testuale. [I] InSincronia, in “Gregorianum” 2000 (81), p. 101-136, [II] In Diacronia, ibid., p. 331-351. AndreaDI MAIO, Lettura di Bonaventura, “Collationes in Hexaëmeron” 3.2, in La divisione della filo-sofia e le sue ragioni. Lettura di testi medievali, (VI-XIII secolo), Atti del Settimo Convegnodella Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale: Assisi, 14-15 Novembre 1997, a cu-ra di Giulio d’Onofrio, Avagliano (“Schola Salernitana”. Studi e testi, 5), Cava de’ Tirreni2001, p. 157-184.

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borata nella seconda metà del tredicesimo secolo da Bonaventura di Ba-gnoregio riveste un interesse tutto particolare, sia perché sintetizza ledivisioni ereditate dal passato, sia perché sottintende una visione abba-stanza originale del sapere e della realtà, enfatizzando e reinterpretandoil principio aristotelico che «le scienze si dividono secondo le differenzedelle cose»: «scientiae secantur quemadmodum et res» [Sent 3.35 addb 1]. In realtà, Bonaventura dividerà le scienze perlopiù in base alprincipio neoplatonico dei gradi delle facoltà umane coinvolte nella co-noscenza.

Bonaventura è uno degli autori medievali che più si è interessatoalla divisione del sapere in generale. Le principali sistematizzazioni delsapere da lui ereditate sono: la divisione accademica, stoica ed agosti-niana della filosofia in Fisica (o, per i latini, filosofia naturale), Logica(o filosofia razionale), Etica (o filosofia morale); la divisione aristoteli-ca del sapere in “logica” e in filosofia teoretica (Fisica, Matematica eFilosofia prima – detta anche Teologia o Sapienza, o dai posteri Metafi-sica), pratica (Etica, Economia, Politica) e poietica (Poetica e Retori-ca); l’articolazione didattica tardo-antica e altomedievale delle arti libe-rali (in opposizione a quelle meccaniche o servili) del Trivio (Gramma-tica, Retorica e Dialettica – o Logica), e del Quadrivio (Aritmetica,Geometria, Musica e Astronomia); la distinzione ebraica ma soprattuttocristiana tra conoscenza naturale e conoscenza rivelata, come pure la di-stinzione patristica e medievale di una teologia affermativa e negativa, edi una teologia che istruisce la fede, la speranza e la carità.

Una precisazione terminologica preliminare va fatta. Quando inuna lingua vengono importati nomi da un’altra, rispetto al loro equiva-lente lessicale nella lingua stessa, il nome importato tende ad acquisireun significato ristretto e tecnico, e non più quello generale. Ad esempioentrambi i termini delle coppie ‘naturalis’ e ‘physicus’, ‘rationalis’ e‘logicus’, ‘moralis’ ed ‘ethicus’ esprimerebbero dal punto di vista me-ramente morfolessicale lo stesso concetto: ma per un fenomeno di spe-cializzazione linguistica, finiscono non solo per differenziarsi, ma percollocarsi su due livelli diversi.

Infatti, i suddetti lemmi di origine greca erano stati importati dallinguaggio tecnico della filosofia, che li adoperava inizialmente comeaggettivi femminili singolari (‘physiké’, ‘loghiké’, ‘ethiké’) del lemmasostantivo ‘philosophía’ (espresso o perlopiù sottinteso), oppure al neu-tro plurale (‘tà physiká’, ‘tà metà tà physiká’, ‘tà ethiká’, e così via), perindicarne i trattati, specialmente aristotelici. Importati nel latino, in cui

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la terminazione del nominativo femminile singolare e del nominativoneutro plurale degli aggettivi di prima classe è omonima, i lemmi‘logicus’, ‘physicus’, ‘ethicus’, il neologismo ‘metaphysicus’ (ed altrisimili) si sono trasformati da semplici lemmi aggettivali in plessi di tresublemmi sostantivi ciascuno: i sostantivi maschili ‘logicus’, ‘phy-sicus’, ‘ethicus’, ‘metaphysicus’ (eccetera), per indicare gli studiosidelle rispettive discipline; i sostantivi femminili ‘logica’, ‘physica’ (ec-cetera) per indicare le discipline stesse; i neutri plurali sostantivati(come ‘physica’ - ‘physicorum’) per indicare i corrispettivi trattati ari-stotelici (quest’ultimo fenomeno linguistico è certamente connesso conl’attitudine scolastica di studiare una disciplina studiandone i testi diriferimento). Quindi, non comportandosi più da aggettivi, e caratteriz-zandosi immediatamente come vocaboli di un linguaggio tecnico e nonpiù di quello comune, e riferendosi ad ambiti disciplinari molto precisi, itermini greci ‘logica’, ‘physica’, ‘ethica’ non sono più semanticamenteequivalenti a (rispettivamente) ‘rationalis’, ‘naturalis’ e ‘moralis’, mafiniscono per costituirne gli iponimi (come analogamente ‘grammatica’,‘rhetorica’, ‘metaphysica’, ‘politica’…).

Bonaventura ha trattato diverse volte il tema della divisione dellescienze (soprattutto filosofiche).

Il De reductione artium (frutto di predicazione universitaria e com-posta intorno al 1255) contiene sia una divisione di tutte le modalità diacquisizione d’informazioni dal mondo (dalla percezione sensibile, allamanipolazione tecnica, alla conoscenza vera e propria, filosofica e teo-logica), sia una articolata divisione interna della filosofia in nove scien-ze (ripartite nella filosofia naturale, razionale e morale); nella secondaparte dell’opuscolo si “riconducono” alla teologia (con procedimentianalogici e metaforici) le diverse altre modalità di acquisizione.

La premessa alla divisione delle scienze sfuma il concetto di“naturale”: si dice che tutta la filosofia rientra nella sfera della veritànaturale, ma si specifica che questo avviene in quanto essa opera perprincipi naturalmente inseriti nell’uomo (insomma: la filosofia è natu-rale, ma non innata, bensì acquisita sebbene naturalmente).

La filosofia naturale è detta occuparsi non di tre classi di oggettidiversi, ma dei tre livelli di rationes (seminali, intellettuali, ideali) dellostesso oggetto (ossia, le cose del mondo): in altre parole, ogni cosa sen-sibile ha in sé ragioni seminali che la rendono oggetto della fisica, ra-gioni intellettuali che la rendono oggetto della matematica e ragioni

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ideali che la rendono oggetto della metafisica. La conseguenza di taleimpostazione è (come vedremo) che la metafisica non studia propria-mente la realtà soprasensibile, ma il suo riflesso, tramite la causalitàesemplare, nelle cose sensibili. L’ordine della filosofia naturale è quiascensivo, dalla fisica alla matematica alla metafisica.

Per quanto riguarda la filosofia morale, la divisione in monastica (oetica del singolo, con allusione anche alla disciplina ascetica elaboratadai monaci) [cf Hex 2.3], economica (o etica della famiglia) e politica(o etica della comunità civile) lascia debolmente intravvedere la distin-zione delle tre opere di Aristotele per la filosofia pratica (ossia l’Eticanicomachea, l’Economia – a lui attribuita dai medievali –, la Politica).

Un breve e quasi fuggevole paragrafo dell’Itinerarium (concepitoalla fine del 1259) [cf Itin 3.6] distingue meglio le tre scienze della filo-sofia naturale: tutte infatti studiano le cose naturali, ma secondo treaspetti diversi: la metafisica ne considera le strutture – per così dire –trascendenti o ontologiche, che le costituiscono a priori; la matematicane considera le strutture – per così dire – trascendentali o intellettive,che pure le condizionano a priori; la fisica ne considera infine le struttu-re – per così dire – immanenti cogliendole a posteriori.

In un celebre sermone (il terzo per l’Epifania), predicato a chiericidell’università di Parigi in data imprecisata, Bonaventura ripropone lostesso schema tassonimico delle nove scienze adottato nell’Itinerarium,ma con alcune varianti (ad esempio la tecnica, o mechanica, comescienza naturale) e la trasformazione della metafisica in una “scienzadivina” o “contemplazione”, che, secondo un procedimento tipicodell’ultima speculazione bonaventuriana, è oggetto di una ricerca natu-ralmente tanto necessaria quanto impossibile: tutte le scienze sono in-trinsecamente filosofiche, senza peraltro arrivare a conseguire la sapien-za. Occorre dunque cambiare il modo della ricerca, passando dal modoinvestigativo della filosofia al modo investigativo della Scrittura: il pri-mo modo è quello che oggi diremmo esegetico; il secondo modo è inve-ce quello che diremmo ermeneutico, in quanto indaga in profondità apartire dal senso letterale i sensi progressivi del testo sacro, secondoulteriori omologie strutturali: il senso allegorico (quanto alla fede neimisteri fatti conoscere nel passato), il senso tropologico (quanto allacarità da fare nel presente), il senso anagogico (quanto alla speranza dadesiderare per il futuro) [cf Hex 2.12-19, 13.11].

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Nelle collationes in Hexaëmeron, viene infine presentata una rigo-rosa e completa divisione delle scienze filosofiche in nove più una:«Philosophi dederunt novem scientias et polliciti sunt dare decimam,scilicet contemplationem» [Hex 4.1]. Paragonata alla luce creata il pri-mo giorno nel senario della Genesi, la verità s’irradia in tre raggi: la ve-rità delle cose, oggetto della filosofia naturale, la verità dei segni, og-getto della filosofia razionale, e la verità delle azioni (veritas morum),oggetto della filosofia morale. Alle nove scienze farà seguito una deci-ma scienza, che non sarà propriamente una scienza (ossia “considera-zione di oggetti”), ma vera e propria sapienza (per riflessione su sé, spe-culazione nelle intelligenze, contuizione del Principio fontale).

La divisione in nove scienze è così giustificata. Tutto ciò che esisteè o una res o è un segno o è un comportamento. La filosofia naturalestudia le cose. Inoltre, la filosofia razionale e quella morale studianoquelle particolari “cose” o eventi che sono il linguaggio (si noti la quasisinonimia fra ‘signa’, ‘voces’ e ‘sermones’) e il comportamento dotatidi senso.

Bonaventura ritratta la divisione della filosofia morale: non più intre scienze etiche, ossia monastica, economica e politica, ma in tre gene-ri di virtù, ossia consuetudinali (morali), intellettuali e giustiziali. Ilsintagma ‘virtus consuetudinalis’ traduce la ‘aretè ethiké’ di Aristotele,ossia l’insieme (e l’iperonimo) di tutte quelle virtù morali – come latemperanza, la fortezza, la liberalità eccetera – che si acquisiscono perbuona consuetudine e che regolano secondo il giusto mezzo le diversepassioni; la loro trattazione copre i libri terzo e quarto dell’Etica Nico-machea. Il sintagma ‘virtus intellectualis’ traduce a sua volta la ‘aretèdianoetiké’, ossia l’insieme (e l’iperonimo) delle virtù dianoetiche (oabiti di pensiero: prudenza, scienza, arte, intelligenza, sapienza); la lorotrattazione occupa il libro sesto dell’Etica. Il sintagma ‘virtus iustitialis’corrisponde alla ‘dikaiosýne’ aristotelica (ma comprende anche la‘philía’), la cui trattazione copre non solo i libri quinto, ottavo e nonodell’Etica, ma in un certo senso anche tutta la Politica.

Nella sua ultima sistematizzazione della filosofia morale, dunque,Bonaventura da una parte elimina l’economia e riduce la politica allaparte dell’etica che studia la giustizia e le virtù relazionali (comel’amicizia), e dall’altra rilegge l’etica, cogliendone tre parti: l’etica dellepassioni (ossia dell’affetto), l’etica del pensiero (ossia dell’intelletto),l’etica delle azioni (ossia dell’effetto)

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Bonaventura distingue infine la sapienza filosofica dalla metafisica(intesa come ontologia) [cf Hex 5.22-23]: la sapienza, secondo un cano-ne che unisce tradizione greca e cristiana (biblica e monastica) e chepuò essere definito socratismo cristiano, è conoscenza di sé, delle intel-ligenze e di Dio.

L’uomo conosce le cose (e il mondo artificiale del linguaggio edelle istituzioni) come oggetti, per scienza, che va verso il basso; men-tre conosce se stesso come soggetto per riflessione, le intelligenze perspeculazione, Dio quale fonte per ragionamento, esperienza e contui-zione.

LA RIPARTIZIONE DEL SAPERE TEOLOGICO

Quanto all’articolazione del sapere teologico, Bonaventura presup-pone che di Dio si può parlare «vel per positionem, vel per ablationem»:«per affirmationem, a summo usque ad infimum; per ablationem, ab in-fimo usque ad summum; et iste modus est conveniens magis» [De Tri-plici Via, 3.11; Hex 2.33]; ma questo duplice dinamismo corrispondeperfettamente all’articolazione della teologia proposta rispettivamentenel Breviloquium e nell’Itinerarium: il primo tratta in sette parti tutta lamateria teologia «a summo, quod est Deus altissimus […] ad infimum,quod est infernale supplicium» (ossia, per così dire, dall’alto in basso),ma anche «a primo, quod est primum principium […] ad ultimum, quodest praemium aeternum» (ossia dal prima al poi, secondo l’economiasalvifica); il secondo ripercorre in sette gradi (tre tappe sdoppiate, più lameta) tutto il compito della teologia come “ascensus non corporalis, sedcordialis ab imo ad summum” [Itin 1.1]; invece una terza divisione dellateologia secondo la triplice lettura allegorica, tropologica e anagogicadella Scrittura (come l’odierna teologia dogmatica, morale e spirituale)è solo accennata [Brev 1.1.2 (cf 0.6.5 e capitula); cf Itin capitula e 1.1-9; Red 5].

Pertanto, rileggendo la struttura del Breviloquium e dell’Iti-nerarium alla luce di altri testi bonaventuriani [cf MyTrin 1.2 co;LignVi 41 e 46; Solil 0.2, Itin 1.6 e 4.5, Hex 3, 12 e 21.18] si può di-stinguere una teologia affermativa e discendente, strutturata secondo unprocesso cronologico (Dio nell’eternità; la formazione per natura alprincipio dei tempi; la deformazione per colpa; la riformazione per gra-zia nella pienezza dei tempi mediante la missione di Cristo e quelladello Spirito; la conformazione sacramentale a Cristo nella Chiesa; la

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deiformazione per gloria alla fine dei tempi); e una teologia negativa eascendente: il riconoscimento delle vestigia di Dio nel macrocosmoesteriore, il riconoscimento dell’immagine e della somiglianza di Dionel microcosmo interiore), il riconoscimento delle manifestazioni diDio (dei suoi nomi) nella propria natura superiore e infine il riconosci-mento mistico di Dio nell’estasi.

LA SCIENZA GRATUITA E QUELLA GLORIOSA

La scienza gratuita dei santi (già qui in terra, ma che poi si compirànella scienza gloriosa dei beati in paradiso), è quella conoscenza dei mi-steri di Dio che non viene per studio, ma per «unzione» spirituale [cfItin 1.6-8 e 7], ossia per il corrispondente dono dello Spirito Santo; essacostituisce il sottofondo di tutta la riflessione spirituale di Bonaventura,ma è meno trattata esplicitamente, a parte alcune trattazioni specifiche[cf Sent 3.35.1.2; Don 4.19-25]. Tale scienza non è dettata da curiosità,né è astratta: essa infatti, a differenza della scienza umana, comportache chi la possiede «si esponga alla morte per dimostrarne la conclusio-ne» [Don 4.22].

LA SCIENZA IN RELAZIONE ALLE FACOLTÀ DI INTELLETTO E VOLONTÀ

La facoltà dell’intelletto si può esercitare in quattro modi rispettoalla facoltà della volontà: o a monte di essa (con esercizio meramentespeculativo), oppure (con esercizio progressivamente più pratico) su in-clinazione della volontà, o viceversa inclinando la volontà, o, infine, siaseguendo l’inclinazione della volontà, sia inclinandola; in corrisponden-za a questi quattro modi di esercizio, Bonaventura distingue quattrosensi di scienza: l’umana filosofia, acquisita a partire da princìpi dellaragione naturale; la scienza della Sacra Scrittura, ossia la teologia, ac-quisita sì, ma a partire da princìpi (gli articoli del credo) assunti per fe-de; la scienza pratica insita nella virtù della prudenza, secondo i princìpidel diritto naturale; e infine la scienza, frutto di fede e orientata al buoncomportamento, che è dono dello Spirito [cf Sent 3.35.1.2 co].

Ma anche la scienza umana, quando non si limita a considerare la verità de-gli oggetti, ma vuol contemplare la verità del soggetto e del Principio [cf Hex 4.3-5 e 5.23], abbisogna di purezza morale [cf Hex 5.32], e quindi (per l’insufficienzaumana) di purificazione gratuita mediante la fede formata dalla carità [cf Hex7.13-15].

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‘INTELLECTUS’ (COME ABITO) 109

‘INTELLECTUS’:L’INTELLIGENZA COME ABITO 67

Il termine ‘intellectus’ può indicare sia la facoltà conoscitiva inquanto tale (l’intelletto), sia il risultato di una delle sue operazioni, ossiail concetto, sia l’abito che inerisce alla facoltà, in quanto o naturale einnato, oppure naturalmente acquisito, oppure gratuitamente infuso.

Tutto il sistema del sapere e del reale va ricondotto all’intelligenzadei suoi princìpi conoscitivi e quindi collocato all’interno della tripliceopera del Verbo.

Riprendendo una metafora biblica, l’intelligenza è come il pane dacui trarre il primo nutrimento per poi passare alla bevanda (acqua o vi-no, a seconda dei casi) della sapienza.

L’intelligenza (intellectus) come abito dianoetico naturale (chepermette di conoscere i primi princìpi speculativi e pratici) è la chiavedi accesso ad ogni conoscenza ed azione morale; ad essa si aggiungel’intelligenza (intellectus) che oggi diremmo spirituale in quanto donodello Spirito Santo che è chiave di accesso alla contemplazione vera epropria [Don 8.6]. Tale dono è il mezzo (o chiave) che fa riconoscere alcredente la luce che illumina ogni uomo come quella del Verbo increa-to, e il Cristo delle Scritture come il Verbo incarnato [cf Hex 3.2-10];ma è soprattutto il mezzo che fa conoscere («innotescit») personalmenteal credente in grazia il Verbo ispirato [Hex 3.32].

Dio si manifesta infatti naturalmente mediante il Verbo increato (eper cui tutto è creato) nel libro della natura, conoscibile con la ragionenaturale mediante la scienza naturale, che è la filosofia; e si rivela so-vrannaturalmente mediante il Verbo incarnato nel libro della Scrittura (esoprattutto nel libro che è la persona stessa di Gesù Cristo), ed è cono-scibile con la ragione illuminata dalla fede mediante la scienza sovran-naturale, che è la teologia; ma si comunica personalmente e concreta-mente mediante il Verbo ispirato, ossia il Cristo reso presente per Spi-rito Santo nel cuore dei credenti, ed è conoscibile per esperienza di gra-

67 Jean-François BONNEFOY, Le Saint Esprit et ses dons selon Saint Bonaventure, Vrin, Pa-ris 1929. Pietro MARANESI, Formazione e sviluppo del concetto di “Verbum Inspiratum” in SanBonaventura, in “Collectanea Franciscana” 1994, p. 5-87.

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zia mediante la “vita spirituale” (fino al vertice della sapienza mistica) elo sarà nel “libro della vita” alla fine dei tempi [cf Hex 3 e 12].

Qui Bonaventura riprende e sviluppa uno schema fondamentale perla filosofia ebraica e cristiana: quello del duplice Verbo (ossia della du-plice manifestazione divina) e del doppio sapere e vivere dell’uomo.Tale “schema del doppio” si fonda sulla nozione già ebraica del dupliceVerbo: “una sola Parola ha detto Dio, due però ne ho udite”: nella natu-ra cioè e nella grazia; per la prima, “i Cieli narrano la gloria di Dio”; perla seconda, “la Legge del Signore è perfetta”; sulla scorta del prologo diGiovanni e della tradizione teologica, si parla perciò di un duplice Ver-bo, per cui tutto fu fatto e che si è fatto carne. Lo schema del dupliceverbo e quindi del doppio sapere è articolato secondo il modello agosti-niano: creazione e rivelazione, ragione e fede, filosofia e teologia sonoarmonicamente corrispettive.

Ebbene, a questo schema Bonaventura, citando il libro della Sa-pienza [7,22] e la lettera agli Efesini [3,17], e probabilmente rielaboran-do alcune suggestioni bernardiane, aggiunge un terzo elemento, il Verboispirato; sia pur gradualmente e con iniziali oscillazioni, Bonaventuraarriva alla fine a caratterizzarlo con chiarezza: il Verbo ispirato è il Cri-sto (Sapienza di Dio), reso presente per fede nei cuori dei credenti tra-mite lo Spirito Santo [cf Hex 3.32; 9.7-8]; non è quindi né la Scrittura(come hanno inteso alcuni), né lo Spirito Santo (come hanno inteso al-tri), sebbene sia il senso della prima e l’effetto del secondo. Infatti, ilVerbo ispirato è detto «spirito puro» [HexD 0.3.32] in riferimento allospirito senza macchia che è la Sapienza divina [cf Sap 7,22] identificatacol Verbo; similmente, è detto «legge divina» che conferma la fede[Hex 9.7], in quanto effetto dell’opera dello Spirito Santo che «facitScripturas» nelle menti dei fedeli [Hex 9.8]; lo Spirito Santo infattiiscrive e conferma nei cuori dei fedeli i contenuti della Scrittura e lastessa presenza di Cristo [cf 2Pt 1,19].

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‘SAPIENTIA’ 111

‘SAPIENTIA’:LA SAPIENZA FILOSOFICA, TEOLOGICA E SPIRITUALE 68

L’INCONSEGUIBILE DECIMA SCIENZA FILOSOFICA O SAPIENZA

Bonaventura, dopo aver detto che “erano stati gli antichi filosofi afornire le nove scienze filosofiche”, e che in questo “erano stati rischia-rati” (in base alla citazione paolina per cui “proprio Dio lo avrebbe lororivelato”), aggiunge che dopo “vollero giungere alla sapienza stessa,tratti dalla verità, e la promisero ai loro discepoli” [Hex 5.22]: ma dalprosieguo del ragionamento comprendiamo che tale legittima promessae pretesa di passare dalla filo-sofia alla sofia non possa essere mante-nuta.

La distinzione, qui formalmente compiuta da Bonaventura, dellasapienza dalla metafisica (intesa come ontologia) è un fatto filosofica-mente rilevantissimo: se già tutta la tradizione neoplatonica distinguevahenologia e ontologia, tuttavia qui abbiamo una impostazione diversa:la sapienza, secondo un canone che unisce tradizione greca e cristiana(biblica e monastica) e che può essere definito “socratismo cristiano”, èconoscenza di sé, delle intelligenze, di Dio. L’uomo conosce le cose (eil mondo artificiale del linguaggio e delle istituzioni) come oggetti, perscienza, che va verso il basso; mentre conosce se stesso come soggettoper riflessione, le intelligenze per speculazione, Dio, quale fonte di tut-to, per ragionamento, esperienza e contuizione [cf Hex 6].

Per Bonaventura [cf Hex 6.6], gli errori verificatisi di fatto nellescienze sono evitabili, e in particolare sono stati evitati da quanti, comei “nobili filosofi antichi” (categoria in cui Bonaventura include Socrate,Platone e Plotino, o meglio i loro simulacri cristianizzati divulgati dalla

68 Alessandro MUSCO (ED.), Il concetto di «Sapientia» in San Bonaventura e San Tomma-so. Testi della prima settimana residenziale di studi medievali (Carini, 1981), Officina di studimedievali, Palermo 1983. Elisa CUTTINI, Ritorno a Dio. Filosofia, teologia, etica della «mens»nel pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002. Andrea DIMAIO, L’Agnello di Dio “pastor et pastus” e la “specialissima effigies et similitudo”. L’euca-ristia tra simbologia e mistagogia in Bonaventura, in “Doctor Seraphicus” 2006 (53), p. 7-42.Barbara FAES DE MOTTONI, Figure e motivi della contemplazione nelle teologie medievali,SISMEL – Galluzzo, Firenze 2007.

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tradizione patristica), hanno impostato la loro ricerca filosofica sui duecapisaldi delle cause esemplari e delle virtù, o – più precisamente – sul-la tesi fondamentale della esemplarità della virtù (sostenendo cioè cheDio stesso possiede in massimo grado le virtù, e ne è quindi la fonte).

Dopo aver sviluppato in chiave teoretica la sapienza come cono-scenza di sé per riflessione, delle altre intelligenze per speculazione e diDio per ragione, esperienza negativa e contuizione, Bonaventura af-fronta la necessità delle virtù in questo progresso e in particolare dellevirtù dette cardinali, che furono già platoniche e che il libro deuteroca-nonico della Sapienza aveva assimilato nella Bibbia [cf Sap 8,7; Hex6.23-27; HexD 1.3.8; Sermones dominicales, 25.12] e che il Medioevo,tramite Macrobio aveva riletto cristianamente anche alla luce del neo-platonismo.

D’altra parte, neanche i filosofi nobili poterono conseguire la verasapienza, perché non conobbero l’origine del male, né il medico (Cristo)né la cura; così, pur arrivando a riconoscere Dio come principio, medioe fine, non lo conobbero come Padre, Figlio e Spirito Santo, e pur con-seguendo le singole virtù le ebbero divise e informi [cf Hex 1.13 e7.5-15]. Lo stesso Platone si limitò a raccomandare l’anima sua al su-premo Fattore, e non arrivò come Pietro a raccomandarla al Creatore[Hex 9.24; cf Sent 2.1a.1.1]: dal che si deduce che per Bonaventuraneppure i nobili filosofi antichi pervennero al senso teologico dellacreazione.

LA TEOLOGIAE LA “REDUCTIO” TRINITARIA E CRISTOLOGICA DI TUTTE LE SCIENZE

Nel De reductione e poi in un breve e quasi fuggevole paragrafodell’Itinerarium [3.6] Bonaventura teorizza la divisio delle scienze filo-sofiche e la loro reductio teologica.

L’Itinerarium suggerisce due operazioni (di matrice neoplatonica,ma anche biblica) dall’uno ai molti (divisio) e dai molti all’uno(reductio). La reductio non è una riduzione (nel senso moderno del ter-mine), ma una riconduzione per allusione per isomorfismo (in questocaso, tra la struttura delle scienze e la struttura del dogma trinitario).Proprio in funzione della reductio alla Trinità (secondo le appropriazio-ni agostiniane di potenza, sapienza, amore alle tre persone), l’ordinetradizionale delle tre parti della filosofia è mutato: così, la filosofia na-turale, e al suo interno la metafisica, sono poste per prime (anziché ri-

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spettivamente per seconda e per ultima), per meglio corrispondere allapotenza del Padre; e la filosofia razionale, e al suo interno la logica, so-no poste per seconde (anziché rispettivamente per seconda e per ultima),per meglio corrispondere alla sapienza del Figlio.

Invece nel De reductione, le tre scienze della filosofia naturale, omeglio, le nature che ne contengono le rispettive rationes, vengono ri-condotte alle tre nature di Cristo [cf Red 20].

La reductio bonaventuriana è speculativamente molto interessante per duemotivi. Innanzitutto è una originale forma di pensiero che accetta l’istanza (neo-platonica e non solo) dell’unificazione suprema senza però sacrificarvi l’istanza(aristotelica e non solo) della pluralità: per la dottrina della trinità e della incarna-zione, infatti, la reductio bonaventuriana non è ad unum ma ad plura in unum.Inoltre essa imposta una teoria della mereologia e dell’isomorfismo, particolar-mente interessante per ripensare oggi il dibattito fra “olismo” e “riduzionismo” intermini di “riconduzionismo” non riduttivo (senza contare la rilevanza della dot-trina della triplice esistenza – categoriale, trascendentale e trascendente – delle co-se per la fondazione della fisica, della matematica e della metafisica); la sistema-zione del reale e dei fenomeni in terne, prima ancora di avere rilevanza teologica,precorre le strutture trascendentali del soggetto di Kant e la distinzione di Peircetra primità, secondità e terzità dei fenomeni; anche la corrispondenza bonaventu-riana fra universo reale e universo testuale è una idea particolarmente feconda einteressante.

Mettendo insieme i vari apporti bonaventuriani, emerge che la suadivisione del sapere è riconducibile ad una struttura “a croce” dellarealtà. La Croce è per Bonaventura la ricapitolazione simbolica di tuttal’opera divina di manifestazione e rivelazione («omnia in cruce manife-stantur»); la misura universale che misura anche il misurante stesso, in-dicandogli il centro della realtà (così come in geometria l’incrocio delledue diagonali del quadrato circoscritto ad un cerchio dato serve a ritro-vare il centro del cerchio che s’era perduto); è l’intersezione delle diver-se dimensioni del reale («crux beata, quatuor finibus terminata»: ossiadentro, fuori, sotto e sopra), all’interno del circolo intelligibile della re-ductio [cf TriVia (3)5; Solil 0.2; Red 7, Hex 1.17, 1.24 e 3.32].

Più precisamente, nel prologo del Breviloquium (citando molto li-beramente la lettera di Paolo agli Efesini), Bonaventura elabora la teoriadella “croce intelligibile”, risultante dall’incrocio di alcuni assi(ampiezza, lunghezza, altezza e profondità), di cui le prime due (am-piezza e profondità) sono riferite alla Scrittura; e le altre due (lun-ghezza, ossia il decorso temporale, e altezza, o disposizione gerarchica)sono riferite alla realtà [cf Brev 0.6.4, 0.0.6 e Hex 2.17]. Infatti,all’universo reale (che è di per sé impercorribile all’uomo sia nel

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“tempo” sia nello “spazio”) corrisponde l’universo testuale della Bibbia,che ne è come l’immagine compatibile, il cui asse orizzontale èl’insieme dei libri sacri (o, per così dire, il piano estensivo dei signifi-canti), e quello verticale è l’insieme dei quattro sensi scritturali (ossia ilpiano intensivo dei significati): il senso letterale e, a livello più profon-do, i tre sensi ulteriori o mistici per la fede, la carità, la speranza [cfBrev 0.2.4 e 0.3.2; Brev 0.1 e 0.4; Red 5; Hex 2.12-19].

Al “quaternario” appena illustrato (lunghezza, larghezza, altezza eprofondità), Bonaventura aggiunge il “ternario”, ovvero la «ratio causaetriformis» (originante, esemplante, finiente), così che il settenario chene risulta “trae ragione e origine dal mondo increato archetipo”, ma siriflette nel mondo creato [cf Hex 16.9; HexD 3.4.8-9]. Il ternario arche-tipo permette di pensare e distinguere in Dio le tre persone divine perappropriazione; la triade si riflette nel mondo creato sia nelle tre cause(efficiente, esemplare e finale) delle cose, sia nelle tre facoltà chel’anima (soggetto) ha di conoscere (intelletto), desiderare (affetto) e fare(effetto) [cf Hex 1.12-13, 4.2-5, 16.9; Brev 0.4.5].

Nella ricostruzione visiva della Croce intelligibile, il ternario ar-chetipo funge da asse orizzontale, che potremmo chiamare asse cosmo-logico, perché scandisce l’ordine universale, a partire da quello delle trepersone nell’unica natura divina; invece l’altro ternario della altitudo odispositio hierarchica funge da asse verticale, che corrisponde alla tri-plice determinazione di sopra, dentro e sotto, ovvero ai tre gradi onto-logici delle tre nature fondamentali (corporale, spirituale, divina) riuniteper l’incarnazione nell’unica persona di Cristo [cf Red 20; Hex 8.9].

Invece l’asse del “decorso temporale” consiste nei successivi mo-menti della formazione per natura, deformatio per colpa, reformatio pergrazia, conformazione nei sacramenti, deiformatio per gloria.

In questo modo il circolo neoplatonico di exitus e reditus è sottrattoalle necessità di un processo atemporale senza inizio né fine ed è salda-mente articolato nei tempi ben delimitati della storia, a manifestazionedel circolo eterno dell’amore immanente di Dio.

In questa prospettiva teologica va inteso il cristocentrismo di tuttele scienze: non tanto perché le singole scienze (sebbene atematicamen-te) studino Cristo, ma perché «in omni ergo scientia sine Christo evane-scit sciens» [HexD 0.1.39].

Nella celebre collatio [Hex 1] in cui sviluppa il cristocentrismodelle scienze e della realtà, Bonaventura distingue sette scienze: quelle,

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‘SAPIENTIA’ 115

rispettivamente, del metafisico, del fisico, del matematico, del logico,dell’etico, del politico (o giurista) e del teologo, di cui Cristo divienemedio rispettivamente con la generazione e creazione, l’incarnazione, lapassione, la resurrezione, l’ascensione, il giudizio e la gloria finale. Co-sì, grammatica e retorica sono assorbite nella logica, e la filosofia mo-rale è distinta in due anziché tre scienze. La settima scienza, la Teolo-gia, è del tutto autonoma rispetto alla filosofia e corona la successionedelle scienze, con una notazione interessante: «il teologo […] consideracome il mondo fatto da Dio sia ricondotto in Dio. Il teologo, infatti,benché tratti < anche > delle opere della creazione, tratta però soprat-tutto delle opere della riconciliazione».

Bonaventura parla di ‘verus metaphysicus’, ‘nostra metaphysica’,‘nostra logica’, ‘iudicium nostrum’ rimandando esplicitamente all’ideadi filosofia cristiana, quale contributo originale del cristianesimo al pen-siero filosofico.

LA QUADRUPLICE SAPIENZA SPIRITUALE

La sapienza che è dono dello Spirito è quadriforme (secondo unosviluppo progressivo): è innanzitutto uniforme in quanto coglie l’unita-rietà del senso cristiano della vita; è poi multiforme, in quanto riesce acogliere nella Scrittura, dotata di molti sensi, la multiforme sapienza diDio; è ancora onniforme, in quanto riesce (francescanamente) a ricono-scere Dio in ogni cosa, che di Dio porta l’impronta, l’immagine o la so-miglianza (e in questo senso si chiama contemplazione in senso ordina-rio); è infine nulliforme, in quanto riconosce che Dio è al di là di ogniconoscenza e pertanto si dispone a entrare nelle tenebre della dottaignoranza per ricevere l’unione mistica con Dio: ed è questa la vera sa-pienza cristiana [cf Hex 2.7-29]. Tale sapienza nulliforme non è di que-sto mondo, ma è la sapienza mistica (ossia misteriosa) di cui «si parlatra perfetti», come dice Paolo ai Corinzi, e che si ottiene non per impe-gno umano (anche se l’impegno è preliminare) ma tramite il dono di una«notizia eccessiva» di Dio nel rapimento momentaneo o nell’estasi abi-tuale; più che sapienza dovrebbe (secondo Dionigi) esser chiamata«dotta ignoranza», perché la luce di Dio è talmente grande da abbagliarechi la contempla, che la percepisce perciò come tenebra e nube, e il suointelletto sarebbe costretto a distogliervi lo sguardo, se non vi rimanesseavvinto per un ardentissimo amore [cf Hex 2.28-34].

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IL BANCHETTO SAPIENZIALE E QUELLO EUCARISTICO

Sviluppando la metafora biblica del banchetto (che nel libro deiProverbi era applicato alla Sapienza stessa di Dio) Bonaventura teorizzauna originale connessione tra Dono della Sapienza ed Eucaristia.

C’è infatti un triplice banchetto: quello sacramentale è imbanditodal Verbo in quanto incarnato; quello sapienziale è imbandito dal Verboin quanto ispirato, che ammaestra interiormente completando quel ban-chetto essenziale che consiste nell’ammaestramento atematico interioreoperato dal Verbo in quanto increato e luce che illumina ogni uomo.

Commentando il celebre discorso eucaristico [In Ioannem, 6.43-81], Bonaventura identifica il cibo spirituale con il Verbo stesso di Dio,che come buon pastore si fa mangiare. Così, Cristo è contemporanea-mente il “Pane” o “Cibo spirituale” (ossia il pasto) e il “Buon Pastore”designato da Dio in triplice modo: egli infatti è “Verbo fatto carne”, èdatore di spirito, ed è “Agnello di Dio” [In Ioannem, 6.43]. Insomma, inquesto intreccio di metafore e simboli, il Verbo di Dio è simultanea-mente Pastore e pasto, ed è Pastore proprio perchè Agnello; il dono eu-caristico non è un dono qualunque: è il Dono supremo di sé, attraversol’accettazione del sacrificio; proprio per questo la sua totale gratuità pa-radossalmente ci vincola alla riconoscenza (non perché a Dio serva, maperché serve a noi).

Inoltre, in opposizione al frutto della scienza, che uccide,l’eucaristia è il frutto dell’albero della vita prima promesso e poi preclu-so (a causa del peccato) ad Adamo, e offerto ancora nella nuova Geru-salemme [cf In Ioannem, 6.76]. Cristo è “pane” che ristora secondo lasua natura divina e umana: nel primo caso, tale cibo, inteso spiritual-mente, è la Sapienza; nel secondo caso, tale cibo, inteso sacramental-mente è l’eucaristia vera e propria [cf In Ioannem, 6.56 e 6.81].

Nel sermone per la seconda domenica dopo Pasqua [23.4] Bona-ventura propone all’attenzione della Chiesa il Buon Pastore, che si facibo per i fedeli, come Verbo increato, incarnato e ispirato.

Scrittura ed Eucaristia costituiscono insomma due orizzonti teolo-gici coestensivi e mutuamente implicantisi, e rinvianti entrambi al ban-chetto mistico della Sapienza, che compie la ricerca umana.

Questa visione bonaventuriana sarà bene espressa (non è certo seper influenza diretta o solo indiretta) dai due principali affreschi diRaffaello nella Stanza della Segnatura in Vaticano (impropriamentedetti Scuola di Atene e Disputa del Santissimo Sacramento): vi si nota-

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‘SAPIENTIA’ 117

no infatti la distinzione della conoscenza della verità nella filosofia enella teologia; la costruzione della filosofia a partire dalla illuminazionemisteriosa (corrispondente alla luce del Verbo increato) e la disposizio-ne della teologia intorno all’asse del Verbo incarnato e presente nel-l’Eucaristia; la necessità di due modalità complementari (quelle di Pla-tone e Aristotele, l’uno indicante il cielo e l’altro la terra) per esprimerel’unità della verità; la crescente dispersione dei filosofi quanto più siallontanano dal centro; l’inconsapevole cammino dei filosofi verso lateologia (quasi come desiderio implicito e come necessità impossibilesenza la grazia); nella rappresentazione poi della teologia, la distinzionedi una triplice gerarchia, ecclesiastica (distinta in militante e trionfante),celeste e sovraceleste (trinitaria), intorno a Cristo; l’armonia della plu-ralità ecclesiale, pur organizzata in coppie complementari (come quelladi Pietro e Paolo).

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‘PHILOSOPHIA’ – ‘PHILOSOPHUS’:LA RICERCA DELLA SAPIENZA 69

SENSI

‘Philosophus’ e di conseguenza ‘philosophia’ (come l’aggettivo‘philosophicus’) in Bonaventura si dicono in molti sensi, accomunatiperò dal senso primo di “ricerca della sapienza”.

1. Il primo gruppo di significati presuppone l’opposizione tra“Philosophi - Iudaei - Christiani”, ossia tra legge di natura (religiositàmonoteistica naturale), legge scritta o veterotestamentaria (ebraismo) elegge di grazia o neotestamentaria (cristianesimo), intese come tre fasisuccessive della manifestazione divina.

1.1 In un primo senso, ‘philosophia’ ha una connotazione tempo-rale dalla reminiscenza paolina [cf Rom 1-2]: ‘philosophi’ sono quelliantichi, precristiani; di conseguenza, la filosofia è la ricerca della sa-pienza nella “legge di natura” che per i “gentili” svolse una funzioneanaloga a quella che per i giudei è stata la “legge scritta” mosaica, inpreparazione della “legge di grazia” dei cristiani.

Tra i filosofi antichi si distinguono quelli “nobili” (ossia Socrate e i“platonici”), e il “Filosofo” per antonomasia che è Aristotele [cf Hex5.33; 7.2-3]; quest’ultimo ha il carisma del “sermo scientiae”, mentrePlatone ha quello del “sermo sapientiae” [UnMag 18]. I filosofi sonoaccomunati a patriarchi e profeti nella percezione del vero nella legge dinatura, ossia nell’ordine della creazione [Hex 4.1]; anzi, i filosofi, “inciò che di vero dicono”, sono accomunati addirittura ad angeli e profeti[Hex 1.14]. Ma sono anche penalizzati: a loro è preclusa la porta delVerbo increato [cf Hex 3.4]; questo può sembrare incongruente, madobbiamo tener conto che il filosofo (in quanto metafisico a prescindere

69 Cf Letterio MAURO, Bonaventura da Bagnoregio: dalla “Philosophia” alla “Contempla-

tio”, Accademia ligure di scienze e lettere, Genova 1976. Francesco CORVINO, Bonaventura daBagnoregio francescano e pensatore, Dedalo, Bari 1980; Città Nuova, Roma 22006. Andrea DIMAIO, Vita spirituale e riflessione filosofico-teologica: Bonaventura e il paradigma francesca-no e antoniano della riedificazione mediante le virtù, in “Revista Portuguesa de Filosofia” 2008(64).

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dalla fede) è guidato sì dalla cattedra interiore (il Verbo generato e in-creato, per mezzo del quale tutto è creato) [cf Hex 1.12-13], ma pur co-noscendo l’essere divino come principio, medio e fine, “non lo conoscein ragione di Padre, Figlio e Spirito Santo” [Hex 1.13]; invece i magi,guidati dalla luce del Verbo increato, giunsero ad adorare il Verbo in-carnato [cf De modo inveniendi Christum, 3]. L’intelligenza del Verboincreato è quella che la lettera ai Romani attribuisce anche agli etnici [cfHex 3.3], affermando la possibilità naturale di conoscere Dio, possibi-lità che però i pagani hanno fallito; per questo i “filosofi” (pagani) han-no ritenuto impossibili alcune somme verità [Hex 3.4], come la creazio-ne nel tempo; dunque senza la fede l’intelligenza è “come monca” [Hex3.9]. Il libro della natura è scritto esteriormente (il macrocosmo, ossia ilmondo corporale) e interiormente (il microcosmo, ossia il mondo spiri-tuale), e questo duplice libro lo hanno anche i filosofi pagani (i “maghidel faraone”) [Hex 12.16], ma “come in mano a un analfabeta” [Hex2.20].

1.2 In un secondo senso, traslato del primo, ‘philosophia’ è l’at-tività che, iniziata dagli antichi, è portata a compimento dai cristiani:questo è il senso di ‘vera philosophia’, elaborato dai Padri (e Agostino),per cui i veri filosofi sono i cristiani [cf Itin 1.9]; all’interno di questasignificazione a volte ‘philosophari’ viene inteso come “condurre vitamonastica” [cf Hex 16.29].

1.3 In un terzo senso, ‘philosophia’ è l’atteggiamento di quanti, puressendo nella legge di grazia, vogliono tornare alla legge di natura: sonoi ‘philosophantes’, ossia gli aristotelici radicali latini al tempo di Bona-ventura, che sono ciechi [HexD 1.1.15], perché vogliono fare l’esodo alcontrario e tornare in Egitto, ossia tornare indietro nel tempo, recedendodalla legge di grazia alla sola legge di natura. Contro questo atteggia-mento, Bonaventura mette a fuoco il tema delle “difficultates philoso-phiae” [Hex 4.1], ossia riflette ante litteram sui limiti della ragione esullo scacco della ricerca con le sole proprie forze [cf Hex 7]: poiché lafilosofia è una “via”, “volersi fermare in essa è un cadere nel buio”;nelle scienze vi è un grandissimo pericolo (e la polemica qui è sia congli artistae eterodossi sia, come vedremo, con i confratelli troppo deditialle scienze sperimentali), il pericolo appunto di “tornare indietro nellaschiavitù d’Egitto” [Hex 1.9; cf Itin 1.9; De Tribus Quaestionibus 12;Don 4.12; Hex 17.25, 19.12 e HexD 0.1.15-16].

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2. Il secondo gruppo di significati di “filosofia” è caratterizzatodall’opposizione di “Philosophia - Theologia”, come scienze rispetti-vamente naturale e sovrannaturale, basate sui libri della Natura e dellaScrittura, che parlano rispettivamente del Verbo per cui tutto fu fatto eche si è fatto uomo. Si tratta di una semplificazione e di un approfondi-mento dello schema triadico precedente, in quanto la grazia presupponela natura e la creazione continua ad operare anche nel tempo della gra-zia.

2.1 Così, in tal senso “filosofia” è la struttura razionale implicitanella teologia. La teologia prende dalla filosofia quanto basta a costruir-si uno specchio e poi sale la scala che è Cristo [cf Brev 0.3.2]; il teologodeve studiare gli “scritti dei filosofi”, ma senza fermarcisi o appropriar-sene [cf Hex 19.6 e 9.10-15 e 19.22]. In riferimento alla fede, la filoso-fia è del tutto inutile: “per i credenti la fede può essere provata non perla ragione, ma per la Scrittura e i miracoli”; in questo senso nella Chiesaprimitiva avrebbero bruciato i libri di filosofia [Hex 19.14; cf Act 19,19:ma si trattava in realtà di libri di magia]. E Bonaventura preconizza untempo prossimo in cui la difesa della fede non sarà più fatta per operadella ratio, ma solo dell’auctoritas [Hex 17.28].

2.2 In un altro senso, “filosofia” è un’“arte buona che edifica laChiesa” [Hex 22.9]. In questo senso la filosofia coesiste con la fede, masenza identificarsi con essa. Così ad esempio è trattata come scienzanaturale parallela alla teologia, scienza sovrannaturale [cf Red 4], edanche alla scienza gratuita dei santi e alla scienza gloriosa dei beati [cfDon 4]. Così, ai libri della Natura e della Scrittura è affiancato il libroescatologico della Vita e il libro onnicomprensivo che è la persona stes-sa del Cristo [cf MyTrin 1-2; Hex 12].

All’interno di questa significazione, possiamo collocare il contri-buto anche filosofico dei cristiani: Bonaventura stesso dice di volerparlare “da filosofo” [in Hex 5.14; cf Praec 2.28 e Hex 6.1-5] e citaAgostino come modello di sapere filosofico [cf De tribus quaestionibus,12]. In fondo, pur biasimando gli “averroisti” cristiani e pur criticandoanche filosoficamente l’averroismo, Bonaventura riconosceva la legit-timità del progetto filosofico di Averroè.

3. In un senso ulteriore, ‘philosophia’ sembra rompere gli schemifinora delineati: indica uno stadio ulteriore nello sviluppo della fede,che appunto va dal semplice credere, ossia dalla credulitas della fides,alla ratiocinatio del dono di intellectus (che è duplice: filosofica, per

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communem illuminationem, ossia per illustrazione naturale, defettibilese non ci fosse la grazia a confermarla; e teologica, per illustrazione spi-rituale e profetica) e alla contemplatio della beatitudine della purezza dicuore, che consente una qualche visio Dei [cf UnMag 1; de Sancto Do-minico, 1]. In questo senso, la filosofia è la visione dell’intelligenza in-dita per natura, ovvero la prima delle sei visioni date dal dono di intelli-genza che coglie il Verbo ispirato [cf Hex 4-7].

Riassumendo e completando quanto dice Bonaventura, possiamodistinguere innanzitutto una filosofia antecedente alla fede, in quantoespressione della lex naturae, che ormai è stata superata dalla lex grati-ae; poi una filosofia concomitante alla fede, che è implicita nel ragio-namento teologico, ma che è destinata a scomparire; e infine una filoso-fia conseguente alla fede, che è implicita nell’esercizio del dono di in-telligenza e può essere intesa oggi come una sorta di filosofia della spi-ritualità e di una spiritualità della filosofia.

CONTENUTI

La filosofia è la scienza naturale del Verbo increato che si ricavadalla lettura e dalla meditazione del libro della natura. La filosofia si di-vide in tre parti: la filosofia naturale (che considera le cose), la filosofiarazionale (che considera i discorsi) e la filosofia morale (che considera icostumi); a queste tre parti va aggiunta la tecnica (che considera le ope-razioni artificiali), secondo le diverse arti meccaniche, dette «adulteri-ne» perché non cercano solo la verità, ma anche l’utilità).

Ciascuna parte della filosofia si divide in tre scienze, sicché abbia-mo nove scienze filosofiche in tutto. La scienza, come sappiamo, è laconsiderazione di oggetti (come le cose corporee e anche i discorsi e icostumi). Per quanto riguarda la filosofia naturale, siccome le cose cor-poree esistono sì nel loro genere, ma in funzione delle menti spirituali esecondo la sapienza ed arte eterna di Dio, ecco che in esse possiamoravvisare tre tipi di ragioni o strutture: le ragioni seminali, le ragioniintellettuali e le ragioni eterne, oggetto di tre scienze distinte. Le ragioniseminali costituiscono le strutture della realtà corporea in se stessa e so-no studiate dalla fisica (ossia dalle odierne scienze naturali). Le ragioniintellettuali costituiscono la struttura intelligibile (che noi diremmo“trascendentale”) della realtà corporea e sono studiate dalla matematica(ossia dalla matematica e dalla fisica di oggi).

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Le ragioni eterne costituiscono la struttura ontologica della realtàcorporea e sono studiate dalla metafisica, che pertanto non coincide conla teologia o sapienza filosofica (infatti, la scienza metafisica considerale ragioni eterne come moventi, ossia in quanto cause delle realtà corpo-ree, e la sapienza filosofica come quietanti, ossia in se stesse).

La filosofia razionale, poi, si divide in grammatica, retorica e dia-lettica (o logica); la filosofia morale, infine, si divide in etica, economi-ca e politica (oppure in etica delle virtù morali, delle virtù intellettuali edelle virtù civili).

Queste scienze sono filosofiche in quanto tendono naturalmentealla sapienza: i filosofi le elaborarono tratti dalla verità, ma ne promise-ro una decima, ossia la contemplazione (e cioè la sapienza, o conoscen-za di sé, delle intelligenze celesti e di Dio): ma non mantennero effetti-vamente la promessa. Ebbene, la sapienza filosofica arriva a conoscerel’esistenza di Dio e la creazione del mondo dal nulla (anzi, a differenzadi Tommaso, Bonaventura ritiene che il dogma della creazione nel tem-po sia dimostrabile anche filosoficamente), ma non arriva a conoscerepersonalmente Dio né riesce a far conoscere all’uomo il proprio peccatoe la via della salvezza.

Per questo le dieci scienze filosofiche sono paragonate da Bona-ventura alle dieci dracme della parabola evangelica: la donna (ossial’anima razionale) col peccato ha perduto la decima dracma, ossia lacontemplazione divina, e ora, lasciate le altre nove, la cerca nella sacraScrittura un po’ storicamente, un po’ allegoricamente, un po’ tropologi-camente e un po’ anagogicamente [De modo inveniendi Christum, 8].Infatti il libro della natura è in mano al non credente come in mano a unanalfabeta, che non si cura di capirne il senso. Così «Cristo è centro ditutte le scienze» perché, sebbene si possa fare scienza anche senza lafede, tuttavia il fondamento comune del sapere e dell’essere è il Verboincreato, e per di più «in ogni scienza, se non c’è Cristo, vien meno loscienziato». Questo è il senso della riconduzione delle scienze alla teo-logia a cui Bonaventura ha dedicato più di una riflessione.

LO STATUTO DELLA FILOSOFIA

A lungo si è parlato in passato della cosiddetta “questione bonaven-turiana”, ovvero della discussione del valore della filosofia bonaventu-riana (essa è una filosofia nel senso aristotelico? è una filosofia di ispi-razione cristiana ma rivolta a tutti? è una filosofia cristiana che presup-

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pone la fede?): la questione viene in realtà ridimensionata se si tengonoben distinte la filosofia previa alla fede (quella dei filosofi pagani primadi Cristo, che è legittima e veritiera ma parzialmente), la filosofia deifilosofanti che trascurano la fede (ma tale filosofia è illegittima per ilcredente e comunque erronea filosoficamente), la filosofia legittima-mente indipendente dalla fede (quella che Bonaventura stesso legitti-mamente fa quando dice di non voler «parlare da teologo o canonista,ma da filosofo») e la filosofia fatta all’interno della fede (mediante ildono dell’intelligenza e il discorso di scienza e sapienza).

Se nell’ordine della ricerca la ratio precede la fides (e del resto [cfHex 3.24-26] la visione dell’intelligenza naturale precede logicamentequella dell’intelligenza sollevata per fede), in realtà, in base al principioagostiniano per cui “senza aver creduto, non si può intendere” [cf Is 7,9secondo i Settanta], «l’ordine è che si cominci dalla stabilità della fidese si proceda attraverso la serenitas della ratio, per giungere alla dolcez-za della contemplatio»; «ma ignorarono tale ordine quei filosofi che,trascurando la fides e fondandosi solo sulla ratio, in nessun modo pote-rono pervenire alla contemplatio» [UnMag 15; cf Sent 3.35.1.3 co]. Ciònon esclude che filosofi pagani come Platone e Aristotele abbiano rice-vuto il carisma rispettivamente del sermo sapientiae e del sermo scien-tiae [cf UnMag 18], ma, come in casi analoghi previsti dai teologi (adesempio il carisma profetico per Balaam e Caifa), fu dato loro per l’uti-lità della Chiesa, sicché loro non se ne poterono giovare in vista dellavera contemplazione, ma se ne possono giovare i credenti.

La serenitas attribuita all’opera della ratio può essere intesa comechiarificazione rasserenante: applicata (come riflessione non solo in-tellettuale ma vitale) all’esperienza di fede va a coincidere con l’eser-cizio del dono dello Spirito chiamato intelletto [UnMag 1].

Al di là del contesto teologico e spirituale in cui Bonaventura la elabora, èestremamente attuale questa idea: una filosofia che voglia davvero tendere a di-ventare sapienza (che, in quanto saporosa, è precipuamente affettiva [cf Sent3.35.1.1], e non semplicemente intellettiva) si deve fondare su una conoscenzanon solo teoretica, ma derivante dall’inclinazione della nostra parte affettiva [cfSent 3.35.1.2]. Tale inclinazione, prima ancora di essere (in senso attivo) una no-stra scelta fondamentale di vita, come l’accettazione per fede dell’auctoritasscritturale ed ecclesiale, è soprattutto (in senso “passivo” o recettivo), a causadella nostra insufficienza a riconoscere ed eliminare da soli pregiudizi conoscitivie distorsioni morali, una gratuita ri-formazione nella carità [cf Hex 7.13-15]. In-somma, la filosofia è chiarificazione dell’esperienza, e quindi la filosofia dei cre-denti non potrà prescindere dalla chiarificazione della loro esperienza di fede.

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Quella politica per Bonaventura è una dimensione fondamentaledella vita: è oggetto dell’ultima scienza filosofica e costituisce il primogrado delle virtù cardinali richieste dalla sapienza filosofica. La struttu-ra della dimensione politica risulta paradossale: è necessario fondareuna città dell’uomo armoniosa e felice, ma questo è in ultima analisiimpossibile per il difetto intrinseco alle virtù filosofiche (a cui manca ladimensione della gratuità del dono).

IL PROBLEMA: LA SORPRENDENTE PROPOSTA POLITICA BONAVENTURIANA

Nella sua trattazione delle nove scienze filosofiche all’interno delleCollationes in Hexaëmeron del 1273, Bonaventura in un passaggio bre-ve ma significativo [Hex 5.14; HexD 1.2.14] introduceva la “politica”con una serie di affermazioni abbastanza sorprendenti: tale scienza (cheè la terza diramazione della filosofia morale, che a sua volta è la terzadiramazione della luce della verità naturale) sarebbe infatti finalizzataalla realizzazione delle “giustizie morali” (al plurale) e consisterebbenella comprensione del retto dettame delle leggi politiche dal punto divista non teologico o canonistico, ma filosofico; tuttavia tale scienzanon sarebbe stata esaurientemente trattata da alcuno dei filosofi prece-denti, e pertanto solo sintetizzando in maniera nuova gli apportidell’eredità del passato si sarebbe potuto fondare filosoficamente la vitapolitica su quattro “funzioni” progressivamente implicantisi, ossia ilculto monoteistico, la derivazione delle leggi politiche (positive) dalla

70 Cf Josef RATZINGER, Die Geschichtstheologie des heiligen Bonaventura, Schnell & Stei-

ner, München - Zürich, 1959; trad. it.: San Bonaventura. La teologia della Storia, Nardini, Fi-renze 1991; R Porziuncola, Assisi 2008. Stanislao DA CAMPAGNOLA, L’angelo del sesto sigillo el’“Alter Christus”, Roma 1971. Francesco CORVINO, Bonaventura da Bagnoregio francescanoe pensatore, Dedalo, Bari 1980; Città Nuova, Roma R2006. Andrea DI MAIO, “Secundum dic-tamen legum politicarum…, sicut philosophus loquendo”. Ermeneutica dei testi e del lessico diBonaventura da Bagnoregio sulla comprensione della dimensione politica fra eredità classica,innovazione cristiana e peculiarità francescana, in I Francescani e la politica (Atti del Con-gresso internazionale. Palermo - Monreale - Sciacca, dicembre 2002), a cura di Alessandro Mu-sco, Officina di Studi Medievali, Palermo 2007, t. 1, p. 307-341.

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legge naturale, la delimitazione dell’esercizio del potere di governare, ela misura dell’attuazione di quello di giudicare.

Il carattere prettamente filosofico (nel senso di “laico”) di tale im-postazione già a suo tempo era stato messo in luce da Francesco Corvi-no e può ulteriormente essere indagato: nell’intenzione di Bonaventuradi “parlar della politica da filosofo, oltre gli antichi filosofi” si può ri-trovare l’interazione tra eredità classica, innovazione cristiana e peculia-rità francescana.

IL CONCETTO: USI E SIGNIFICATI DEL LEMMA ‘POLITICUS’Il lemma ‘politicus’ non compare né negli indici dell’edizione di

Quaracchi, né nel Lexicon bonaventurianum (pubblicato nel 1880) o nelpiù recente Lexique Saint Bonaventure (pubblicato nel 1969 a cura delpadre Bougerol); tuttavia, nella concordanza elettronica degli opuscolibonaventuriani all’interno della terza edizione del CETEDOC Library ofChristian Latin Texts, su un totale di 66 in tutto il corpus di testi medie-vali censiti dalla concordanza ricorre ben 19 volte (ossia, molto per unautore che non si è mai occupato ex professo di scienza politica). Allaluce del suo uso ‘politicus’ significa in generale “relativo alla conviven-za civile” (ossia alla “civitas” terrena e naturale; ma indirettamente an-che a quella “ecclesiale”, in quanto operante nella respublica Christia-na); di conseguenza, denota le leggi o le virtù ad essa connesse; in unuso specialistico e con riferimento a Macrobio, indica la prima fase(quella cioè dell’esercizio attivo, “nel mondo”) delle virtù cardinali; pertraslato (e perlopiù come aggettivo sostantivato) indica la scienza politi-ca (perlopiù sottintendendo ‘scientia’) e lo scienziato (o filosofo) politi-co (sempre sottintendendo ‘philosophus’); non indica però il “politico”(ossia l’uomo politico) nel senso odierno, anche se a volte può com-prendere il princeps, in quanto egli deve possedere almeno l’arte, se nonproprio la scienza, politica.

Il lemma ‘politicus’ compare in De reductione [4], Itinerarium [3.6] e Dedonis [4.10] per indicare la scienza politica in opposizione a quella economica edetica del singolo (o “monastica”); in Hex 1.11 e 1.39 in riferimento alla scienza eallo scienziato politico, visto in connessione con il giurista; in Hex 5.1 e 5.14, inriferimento alle leggi e alle virtù di quella che potremmo chiamare la comunità ci-vile; in Hex 1.33; 6.24; 6.26; 7.3-4 in riferimento al grado iniziale delle virtù car-dinali; in Sermones dominicales, 44.5, in riferimento alle virtù cardinali in gene-rale. In alcuni dei testi citati ‘politicus’ ricorre più volte, per un totale di 19 occor-renze.

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Non sembra invece attestato in Bonaventura il senso di ‘politicus’che Agostino aveva tramandato in riferimento alla “teologia civile” (o“politica”) di Varrone.

Il vocabolario politico è comunque più ampio ed è ricavabile da tutti i sino-nimi e tassonimi di ‘politicus’: in Bonaventura tale vocabolario comprende adesempio ‘lex’ (ma al plurale; perché al singolare indica più la manifestazione diDio in una religione), ‘ius’, ‘dictamen’, ‘norma’: e tutti questi o da soli o in com-binazione con ‘naturale’ o ‘naturae’; inoltre, ‘forma vivendi’ (o ‘convivendi’),‘censura’, ‘iudicium’, ‘iurista’, e così via.

LA POLITICA COME ULTIMA SCIENZA FILOSOFICA

Nella sua più ampia trattazione delle diverse branche della filoso-fia, Bonaventura esamina la politica come ultima delle nove scienze fi-losofiche [Hex 5.14-21], o meglio come la considerazione della virtù digiustizia quanto alle leggi politiche.

Per Bonaventura la vita politica si esplica in quattro funzioni,espresse dai seguenti sintagmi: ‘ritus colendi’, ‘forma’ (o ‘norma’) ‘vi-vendi’ (o ‘convivendi’), ‘norma praesidendi’ e ‘censura iudicandi’ [cfDon 4.12 e Hex 16.14-20]. Si tratta di quattro sfere della convivenza ci-vile: quella dei valori di coscienza, quella delle leggi (con la conse-guente funzione legislativa), quella di governo, quella di giudicare. Adifferenza che per i moderni, non si tratta di poteri distinti, ma di fun-zioni sequenzialmente connesse (ossia, non si dà la successiva senza laprecedente).

La prima funzione dovrebbe fondare in una sorta di monoteismocreazionista naturale la fraternità universale (sebbene alla fine l’ipotesidi un retto “rito del culto” puramente filosofico sia considerata da Bo-naventura fittizia). La pietas (in cui la virtù romana, nota a Bonaventuratramite Cicerone e probabilmente Virgilio, è riletta alla luce della virtùcristiana, tratteggiata nelle lettere “paoline” a Timoteo) è per Bonaven-tura l’atteggiamento filiale verso Dio [cf Don 3], da cui sgorga di con-seguenza verso gli altri l’atteggiamento di innocentia (“non far male anessuno”) e di benevolentia (“far bene a qualcuno”, secondo l’ordine digiustizia) [cf Praec 5 e 7.8]: in termini moderni la “pietas” è la frater-nità universale che si fonda sul sentimento di comune figliolanza degliuomini nei confronti di Dio creatore e Padre.

La seconda funzione politica (la forma del convivere) fa derivare leleggi positive dalla regola aurea (citata anche da Gesù): “Non fare adaltri ciò che non vuoi sia fatto a te”. Tale regola però porta ad una apo-

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ria fondamentale della vita politica: nessuno vuol essere punito, eppurela legge deve punire i rei. L’aporia è risolta così: la valutazione va fatta«pro statu rei publicae», ossia (diremmo oggi) del nostro “io” collettivo(così come Giona [cf Ion 1,12] aveva giudicato da sé di dover esseregettato a mare); d’altra parte la crudezza dell’affermazione di Bona-ventura (“il ladro dev’essere impiccato prima che la cosa pubblica ven-ga lesa”) ci fa pensare che lui stesso abbia trascurato la più autentica le-zione agostiniana (che aveva criticato la tortura e la pena di morte pro-prio a motivo del fine espiatorio e rieducativo della pena), ma soprat-tutto abbia più o meno inconsapevolmente rimosso l’esempio di France-sco.

La terza funzione politica (la “norma del presiedere”, ossia la funzione digoverno) lega governanti e governati (in una visione ancora medievale, il popolonon è il tutto della vita politica, ma l’insieme dei soli governati). Il fatto che lafunzione di governo sia posposta non solo al rito del culto, ma anche alla formadel convivere costituisce una germinale affermazione del principio di delimitazio-ne della sovranità: il potere scende sì dall’alto, “dalla verità prima”, ovvero daDio: «manat exemplariter a primo Praesidente» [HexD 1.2.19]: ma appunto esem-plarmente, e non direttamente da Dio al sovrano (magari con l’intermediazione delpapa), ma da Dio tramite i valori etici fondanti e la forma del convivere. Dire poiche la sovranità emana esemplarmente da Dio, per partecipazione metafisica e nonper diretta investitura comporta che sia il sovrano a dover imitare la sovranità diDio; in un certo senso Bonaventura opera così una desacralizzazione del potere,che si manifesterà anche nella teorizzazione dell’elettività di tutti i governanti.

Insomma, la funzione di governo viene definita (e delimitata) infunzione alla nozione (accennata in maniera peraltro vaga) di “utilitàcomune”, intesa non come vantaggio di tutti o della maggior parte, madella “res publica” in quanto tale, intesa alla luce della forma del convi-vere precedentemente menzionata. Pertanto, tale “utilità comune” offreil discrimine tra autorità legittimamente costituita e autorità di fatto.

Inoltre, in una trattazione più estesa sulla “potestas praesidendi” esulla “necessitas subiacendi” ad essa [cf Sent 2.44.1.2-3], Bonaventuradistingue una triplice “presidenza”: una insita nella natura, una propriadi quella istituita in statu viae e quella relativa alla natura corrotta dallacolpa. Le auctoritates addotte enfatizzano la naturale eguaglianza fra gliuomini. I sudditi devono obbedienza, ma entro certi limiti, e mai controla legge di Dio. L’ideale francescano [cf Regula non bullata, 5] è pro-posto anche in politica nelle questioni sulla perfezione evangelica [3.1]:la potestas dominativa (come pure la proprietà privata) nella costruzio-ne della comunità civile è non costitutiva, ma sopravvenuta come par-ziale rimedio al peccato nello stato di natura corrotta; «infatti, se l’uomo

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non avesse peccato, non vi sarebbe stata alcuna divisione di campi, matutte le cose sarebbero state comuni» [Hex 18.7].

Quanto poi al criterio di selezione dei governanti, Bonaventurachiarisce che devono essere i migliori quanto alla “scientia regendi”: trale vie di selezione legittima, ossia l’elezione e la successione ereditaria,Bonaventura mostra la pericolosità della seconda e la preferibilità dellamodalità elettiva, che Bonaventura aveva probabilmente apprezzatonell’esperienza dei comuni italiani, ma soprattutto in quella dei capitolidell’Ordine, a cui proprio Bonaventura in qualità di ministro generaleaveva dedicato tanta attenzione nella stesura nel 1260 delle Costituzionidette Narbonensi, introducendo il sistema elettivo a tutti i livellidell’Ordine. È possibile che tale orientamento di Bonaventura abbia an-che influito sulle disposizioni emanate dal Concilio secondo di Lione,da lui preparato: più della metà delle disposizioni conciliari riguardainfatti le elezioni ecclesiastiche, dal cui retto svolgimento si fa dipende-re tutto il buon esito della riforma della Chiesa e il benessere del popolodi Dio.

L’ultima funzione politica (la “censura del giudicare”), consiste nelpotere giudiziario (in senso ampio, comprendendo tutti i giurisperiti enon solo i giudici), che giudica riguardo alle persone, ai beni materiali(“res”), e alle procedure ed azioni. Poiché tale potere (pur derivando daiprecedenti) emana dalla Verità prima, cioè da Dio, ne deriva che il giu-dice deve essere vincolato solo alla verità. Nella successiva analisi dellacorruzione delle scienze, Bonaventura se la prenderà proprio con laprofessione del “giurista”, che nelle “cause” giudiziarie tradisce spessola verità per il lucro.

LA POLITICA COME PRIMA FASE DI SVILUPPO DELLE VIRTÙ CARDINALI

Passando poi a trattare la sapienza filosofica [cf Hex 6], Bonaven-tura affronta le quattro virtù cardinali, che però (secondo la distinzionedi origine plotiniana resa nota ai medievali da Macrobio) esistono inquattro gradi diversi: politiche (ossia vissute nella vita attiva), purifica-torie (ossia vissute nella vita contemplativa), dell’animo purificato edesemplari (così come al grado massimo sono in Dio). In Porfirio lequattro modalità delle virtù appartengono rispettivamente alle varie ipo-stasi plotiniane che seguono l’Uno: le virtù paradigmatiche o esemplarisono proprie dell’Intelligenza; quelle teoretiche o contemplative sonoproprie dell’Anima universale; quelle catartiche o purificatrici e quelle

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politiche o civili sono proprie delle anime umane, rispettivamente nel-l’esercizio della vita contemplativa e attiva. Bonaventura, ignorando lacomplessità del sistema neoplatonico, pone le virtù esemplari in Dio, ele altre in tre gradi di sviluppo dell’anima umana.

Macrobio trattava le virtù politiche con più dovizia di particolari rispetto allestesse virtù dei gradi superiori; distingueva così una prudenza politica (che fa vo-lere e fare solo ciò che è retto), una temperanza e fortezza politica (non desiderarenulla di disdicevole, ma temerlo e sopportare ogni cosa); una giustizia politica(dare a ciascuno il suo), da cui derivano non solo l’innocenza (non far male ad al-cuno), ma anche l’amicizia, la concordia, la pietà, la religione, l’affetto, l’umanità[6.29].

Le quadruplici quattro virtù sono le cosiddette cardinali, di origineplatonica ma fatte proprie dal libro deuterocanonico della Sapienza[8,7], come esplicitato da Bonaventura [Hex 5.8-10; cf Platone, Repub-blica; tramite da Cicerone, Rhetorica, 2.54-55]: i loro gradi (ossia le fasidella loro acquisizione) sono quelle della vita di azione, di contempla-zione, di visione, secondo una commistione tra impostazione platonica,aristotelica e monastica.

L’uomo è considerato come “animal sociale” più che “rationale”(Tommaso nel De regimine principum era riuscito a fondere i dueaspetti nella celebre definizione di “animal communicativum”): ma lasua societas si sviluppa da quella provvisoria terrena (civile o politica) aquella definitiva e celeste nelle tre fasi successive della vita attiva, dellavita contemplativa e di quella che possiamo chiamare vita unitiva: e lasocietas si costruisce interiormente tramite le virtù cardinali, su cui gi-rano tutte le altre: la prudenza insegna all’intelletto (o capacità di inten-dere) come intendere per sapere, la temperanza e la fortezza insegnanoall’affetto (o capacità di desiderare) come desiderare, la giustizia inse-gna all’effetto (o capacità di fare) come fare [cf Hex 6.10-24]. Di fronteallo scacco, tali virtù risulteranno insufficienti e bisognose di altre, ossiala fede, la speranza e la carità teologali, che insegnino cosa è rispetti-vamente necessario sapere, desiderare e fare [cf Hex 6.13-22].

L’idea che l’uomo è sociale in quanto fatto per la comunione e che la socie-tas si debba costruire interioremente tramite le virtù è sì alla lontana un’idea pla-tonica, ma qui è soprattutto un’idea cristiana: l’uomo, creato ad immagine di Dio,deve tendere alla somiglianza con lui; ma è anche un’idea specificamente france-scana: Francesco aveva intrapreso una ricostruzione della Chiesa tramite le virtù(a cui aveva dedicato alcune famose “laudi”); aveva addirittura definito Mariacome la “Vergine fatta Chiesa”; da qui probabilmente, oltre che dallo Pseu-do-Dionigi, Bonaventura aveva attinto la sua dottrina dell’uomo gerarchizzato, os-sia messo in comunione con Dio e con gli altri.

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In questa luce, la dimensione politica è svincolata dalle istituzionicivili, ma è la socialità interpersonale (e per così dire cosmopolitica) amonte di ogni istituzione e coincide con l’actio umana in quanto tale.Rispetto alla scienza politica (intesa come nona scienza filosofica), cheè solo di alcuni e si riferisce ad oggetti (i mores, e in particolare le isti-tuzioni), il grado politico delle virtù deve essere assimilato da tutti gliuomini e si riferisce al loro stesso modo di essere.

La recensione edita da Delorme della medesima collatio abbina i tre gradidelle virtù cardinali ai tre libri sapienziali di Salomone: Proverbi, Ecclesiaste,Cantico, senza nominare Origene, ma associandoli alla triplice vita animale, in-tellettuale e divina, ossia ad una tripartizione antropologica in parte platonizzante,in parte paolina [cf 1Ts 5,23].

LA POLITICA IN PROSPETTIVA TEOLOGICA

In ogni caso, però, alla fine della sua riflessione [Hex 7.1-12] sulla“visione dell’intelligenza inserita per natura”, Bonaventura concludeche nella creazione “Dio ci fece vedere che la < sua > luce < intellet-tuale > era buona” attraverso la “considerazione scienziale” (secondo latriplice verità di cose, parole e azioni, e cioè nelle nove scienze), e at-traverso la “contemplazione sapienziale” di tale luce nella propria ani-ma, nelle Intelligenze, e nella sua Sorgente divina; ma mentre la consi-derazione scienziale, pur insidiata da molti errori, è sempre possibileall’uomo, invece la contemplazione sapienziale è de iure impossibile daraggiungere pienamente senza la fede: neanche i “filosofi nobili” posso-no infatti arrivare a conoscere da soli il reale stato dell’uomo (ossia lasua non corrispondenza al progetto originario di Dio).

Ma nonostante ciò furono nelle tenebre, perché non ebbero la gra-zia: si trovarono alle prese con lo scacco di un dovere e di un desiderioimpossibile (come l’Ulisse dantesco, che intraprese un volo che non era“empio”, bensì “folle”: ma lui non poteva saperlo). Il deflusso dellevirtù umane da quelle divine o esemplari avviene infatti non per infu-sione sovrannaturale, ma per naturale partecipazione.

Nella predicazione universitaria tenuta sempre a Parigi nel 1268,Bonaventura aveva, a proposito della “scientia”, trattato un tema simileal nostro, ma evidenziandone l’esito nello scacco:

«Certum est etiam, quod secundum scientiam moralem non potesthomo scire, quid utile, quid damnosum, nisi ex additione ultra scientiammoralem secundum quod scientia moralis est ritus colendi, norma vi-vendi et censura iudicandi. Quis potest scire ritum colendi per philoso-

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phiam naturalem? […]. Est impossibile, quin cadat in errorem, nisi sitadiutus lumine fidei. […]. Ultra scientiam philosophicam dedit nobisDeus scientiam theologicam, quae est veritatis credibilis notitia pia» [Deseptem donis, 4.12].

Insomma, il “rito del culto” non è sufficiente naturalmente; di con-seguenza la “censura iudicandi” civile si limita a giudicare gli altri manon se stessi; è necessaria una riparazione interiore della “casa” e dellacittà, analoga a quella intrapresa da Francesco; probabilmente a questotopos del francescanesimo Bonaventura ispira la sua dottrina della ge-rarchizzazione interiore, che sarà oggetto della quarta visione delle col-lazioni sui sei giorni.

Per compiere il rito del culto ci vuole (e questo è un caposaldodella teologia bonaventuriana) l’atteggiamento della pietas, intesa pao-linamente come accoglimento del mistero dell’amore di Dio e come spi-rito di orazione che fa scoprire la figliolanza verso Dio [cf 1Tm 4,8; ci-tato in De septem donis, 3.1; poi in 7.17], ma anche francescanamentecome come filialità e fraternità [cf Legenda Maior, 8.1 e 6 e 11]. Nonstupisce quindi che Bonaventura di Francesco citi proprio il detto sullavera generosità che è possibile solo al povero [Hex 5.5] (in palese con-trasto con la tesi aristotelica per cui solo il ricco può essere munifico), el’esempio del libro del Nuovo Testamento che Francesco, perché tutti ifrati potessero leggerlo, aveva diviso in fascicoli [De tribus quaestioni-bus, 8], exemplum di una soluzione solidaristica geniale.

Ma senza la pietas, sembra dire Bonaventura, anche il progetto po-litico rimane a metà: l’egualitarismo e la condivisione dei beni che era-no nel progetto della natura istituita, in una realtà segnata dalla corru-zione del peccato rimangono un ideale che tutt’al più si può realizzarenella vita evangelica (come quella francescana), ma non si può tradurrea livello politico [cf De perfectione evangelica, 1; 2.1; 4.1]. Questospiega la costante tensione tra utopia e realismo della teoria politica nonsolo bonaventuriana, ma anche dei pensatori francescani successivi.

LO SVILUPPO DELLA DIMENSIONE POLITICA NELLA STORIA SACRA

Un ultimo schema di collocazione della sfera politica lo possiamoritrovare solo grazie all’indagine lessicografica su tutte le occorrenze di‘politicus’ nella concordanza elettronica bonaventuriana: ebbene, nellacollatio sedicesima, dove meno ce l’aspetteremmo, ossia nella trattazio-ne della terza visione (la meditazione della Scrittura): Bonaventura fa

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una divagazione sul settenario come simbolo del “decorso del tempo”,quasi come algoritmo della storia.

Accanto a un triplice settenario che potremmo definire ontologico (quello ar-chetipico in Dio, quello microcosmico e quello macrocosmico), Bonaventura in-troduce il settenario storico, in cui sette età si ripetono in ciascuno dei tre trattidella storia sacra che sono la genesi del mondo (i sette giorni della creazione),l’Antico Testamento (le sette età della storia di Israele) e il Nuovo Testamento (lesette età della storia della Chiesa). Con un gusto delle corrispondenze che ci lasciaoggi un po’ freddi, Bonaventura istituisce accostamenti tra le tre storie. Fermia-moci a considerare lo sviluppo della Chiesa: età evangelica, età dei martiri, etàdella “norma cattolica” (post-costantiniana), età della legge di giustizia (ossiadella “Respublica Christiana”, corrispondente all’età veterotestamentaria dellaLegge), età della cattedra sublime (ossia dell’affermazione del primato romano,corrispondente all’età veterotestamentaria dei Re), età della chiara dottrina (ossia,come si dirà, da papa Adriano I, che chiamò i Franchi, e corrispondente all’etàveterotestamentaria dei Profeti), età della pace ultima [Hex 16.14-20].

Tutta la collatio risente indirettamente dell’influsso gioachimitadegli spirituali, ai quali il Generale Bonaventura tenta di offrire una al-ternativa istituzionale. Si annuncia una nuova era nella vita della Chiesache corrisponda al giorno in cui fu creato l’uomo e all’età della profe-zia: in tale tempo deve venire un ordine religioso profetico simileall’ordine di Gesù Cristo, il cui capo fosse l’angelo che saliva da orientecol sigillo del Dio altissimo. E secondo il recensore Bonaventura avreb-be detto che era già venuto: chiaro riferimento a Francesco e all’ordineminoritico [16.16]; inoltre si invoca la venuta di un principe pieno dizelo per la Chiesa: di lui invece non si sa se sia già sorto o se debba an-cora sorgere [16.29].

Ma nel mettere in parallelo l’età della Legge mosaica e quella dellalegge cristiana, si dice che è una legge “canonica, politica, monastica”[Hex 16.15 e 16.28] e che la legge fu distinta secondo il rito del culto, lacensura del giudicare e la forma del vivere, ovvero secondo norme mo-rali, giudiziali e cerimoniali, ossia i canoni, le leggi del corpus giusti-nianeo (in cui le leggi dei pagani divennero leggi anche dei cristiani), einfine le regole monastiche a partire da Benedetto. Ritroviamo così ilrito del culto, la censura del giudicare, la forma del vivere (la norma delpresiedere è omessa perché sarà oggetto del tempo seguente: dei re perIsraele e dei papi per la Chiesa; la censura del giudicare è anteposta allaforma del vivere probabilmente per far “tornare i conti” con la storiadella Chiesa). A differenza che nella quinta collatio, in cui le funzionipolitiche erano considerate in chiave filosofica, qui sono viste comemomenti di sviluppo della storia sacra, che si concretizzano nei precetti

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morali, giudiziali e cerimoniali dell’Antico Testamento e nei canoni,nelle leggi politiche e nelle regole monastiche del Nuovo (ossia dellastoria della Chiesa).

La corrispondenza tra gli elementi dello schema non è chiarissima; la recen-sione Delorme [cf 3.4.15] associa “moralia” e “canonica” (questi quanto al rito delculto, che quindi si conferma essere di natura morale), “iudicialia” e “politica”(questi quanto alla censura del giudicare) e “caerimonialia” e “monastica” (questiquanto alla forma del vivere, anche se l’associazione è un po’ forzata).

IL COMPIMENTO ESCATOLOGICO DELLA POLITICACOME “ARTE DEL BELLO”

La ricapitolazione finale della politica, come di ogni altra scienzaumana, in Cristo, centro bellissimo («perpulcrum») di giustizia, consi-derato “dal giurista e dal politico”, è trattata da Bonaventura all’iniziodelle Collationes sui sei giorni [Hex 1.34]: dando a ciascuno la retribu-zione secondo i meriti, tale centro “abbellisce tutto il mondo” (in quanto“fa bello il brutto e più bello il bello”). Il legame tra giustizia giudiziariae politica e bellezza era già dottrina platonica (si pensi alla chiusa deldiscorso di Diotima nel Simposio), ma qui si tratta di qualcosa di nuovo,come acutamente nella sua monumentale ricostruzione dell’esteticateologica aveva notato Balthasar, pur criticando l’assunzione, da partedi Bonaventura, della tesi agostiniana sulla bellezza della punizione deidannati.

La giustizia non è solo “dare a ciascuno il suo”, ma è “giustezza”,perfezione e “bellezza”, ovvero armonia e comunione interpersonalepienamente rettificata, che però non si potrà realizzare se non in Cristo,quando verrà a giudicare vivi e morti alla fine dei tempi. In questo tro-viamo un misto di ottimismo e pessimismo: da una parte, la giustiziaumana non potrà mai rettificare del tutto le ingiustizie per realizzare unapolitica “bella”; dall’altra, tale “pulcrificatio” avverrà alla fine per in-tervento divino, così che “di là”, mediante l’ultimo medio, quello diconcordia, ci sia francescanamente la “pace” [Hex 1.37].

LE FONTI E LA NOVITÀ DELLA TEORIA POLITICA BONAVENTURIANA

Bonaventura non è stato solo filosofo, teologo e mistico: è stato luia curare, da “giurista”, la compilazione nel 1260 delle Costituzioni dettedi Narbona per l’Ordine dei Frati Minori; e alla fine della sua vita

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(come cardinale) avrebbe contribuito a stendere almeno in parte le co-stituzioni del secondo Concilio di Lione.

Tuttavia, nella sua esplicita trattazione della dimensione politica,Bonaventura dichiara di volerne parlare «non da teologo, né da giurista(o da canonista), ma da filosofo»; d’altra parte riconosce che «nessunodei filosofi» ne aveva ancora dato una trattazione esauriente, sebbenedai loro spunti si possa ricavar qualcosa [Hex 5.14]. Il fatto che degliautori “politici” (in base allo spoglio delle fonti fatta da Bougerol) Bo-naventura abbia citato poco Cicerone e forse mai la Politica di Aristo-tele, e che qui neppure menzioni Agostino (ispiratore con il De civitateDei dell’idea di respublica Christiana medievale, e di cui egli avevadetto nel De tribus quaestionibus [12] che “nulla o quasi è stato inse-gnato dai maestri che non si trovi già nelle sue opere”) mostra che Bo-naventura intenda la politica in maniera diversa, probabilmente rinno-vata dall’ideale evangelico e francescano, e tuttavia pienamente filoso-fica.

Insomma, nella visione politica di Bonaventura molto è dovuto allaeredità classica, genericamente aristotelica, ma soprattutto “platonica”(mediata da Macrobio), con qualche elemento di romanità ciceroniana;un po’ ha influito la conoscenza indiretta degli elementi più vistosi deldiritto romano giustinianeo; ma questa eredità non basta, in quanto laprospettiva adottata da Bonaventura, che pure vuole essere pienamentefilosofica, è “nuova” rispetto al passato; in essa gioca molto l’inno-vazione cristiana, quanto alla formazione del concetto di sapienza e dipietas, ossia di fraternità universale in dipendenza al Primo Presidente ePadre di tutti; troviamo inoltre una sintesi di agostinismo e francescane-simo nell’idea della comunità (anche civile) come bellezza; quanto poialla peculiarità francescana, Bonaventura ne assume la “forma vivendi”,ma anche alcuni elementi caratteristici, come il senso della solidarietà(esemplificata dall’episodio francescano del libro fatto a pezzi perchétutti possano leggerlo); c’è una assunzione parziale, come per l’egualita-rismo e la povertà, che rimangono ideali; c’è però anche una certa rimo-zione della radicalità francescana, ad esempio nel caso della pena dimorte, ammessa senza alcun problema da Bonaventura.

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Il concetto di “spiritualità” ha ricevuto da Bonaventura una si-stemazione esemplare, in rapporto con la filosofia e con la teologia, euna originale rielaborazione a partire dalla spiritualità minoritica diFrancesco d’Assisi, riletta probabilmente anche attraverso Antonio diLisbona-Padova.

Secondo Bonaventura, Dio si manifesta naturalmente nel libro dellanatura mediante il Verbo increato, conoscibile con la ragione naturalenella scienza naturale, che è la filosofia; e si rivela sovrannaturalmentenel libro della Scrittura mediante il Verbo incarnato, conoscibile con laragione illuminata dalla fede nella scienza sovrannaturale, che è la teo-logia; ma si comunica personalmente e concretamente nel cuore deicredenti mediante il Verbo ispirato, ossia il Cristo reso presente per Spi-rito Santo nella “vita spirituale” [cf Hex 3; e HexD, epilogo], in un pro-cesso ascetico-mistico cristocentrico [cf Hex 1], di cui il primo stadio èparadossalmente la filosofia stessa, da intendere però come la ricercadella sapienza tramite le virtù cardinali; il secondo stadio è la teologia,da intendere come l’esercizio delle virtù teologali; e lo sviluppo succes-sivo comporta la meditazione della Scrittura, la contemplazione, laprofezia e l’esperienza mistica.

71 Cf Jean-François BONNEFOY, Le Saint Esprit et ses dons selon Saint Bonaventure, Vrin,

Paris 1929. Karl RAHNER, La doctrine des “sens spirituels” au Moyen-Age. En particulier chezsaint Bonaventure, in “Revue d’Ascètique et de Mystique” 1933, p. 263-299. Leone VEUTHEY,La filosofia cristiana di San Bonaventura [1971], riedizione a cura di Alfonso Pompei, Miscel-lanea Francescana, Roma 1996, intr. e cap. 1; e Scuola francescana: Filosofia, teologia, spi-ritualità, a cura di Lorenzo Di Fonzo, Miscellanea Francescana, Roma 1996. FrancescoCORVINO, Bonaventura da Bagnoregio francescano e pensatore, Dedalo, Bari 1980; Città Nuo-va, Roma R2006. Carla CASAGRANDE - Silvana VECCHIO, La classificazione dei peccati tra set-tenario e decalogo, in “Documenti e Studi sulla tradizione filosofica medievale”, 1994, p. 331-395. Fabio M. TEDOLDI, La dottrina dei cinque sensi spirituali in San Bonaventura, Antonia-num, Roma 1999. Andrea DI MAIO, Espliciti richiami e taciti legami: Antonio e Francesco; Bo-naventura e Antonio, in “Il Santo” 2006 (46), p. 7-53. ID., L’Agnello di Dio “pastor et pastus” ela “specialissima effigies et similitudo”. L’eucaristia tra simbologia e mistagogia in Bonaven-tura, in “Doctor Seraphicus” 2006 (53), p. 7-42. ID., Vita spirituale e riflessione filosofi-co-teologica: Bonaventura e il paradigma francescano e antoniano della riedificazione me-diante le virtù, in “Revista Portuguesa de Filosofia” 2008 (64).

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Questa triplice manifestazione del Verbo di Dio increato, incarnatoe ispirato è conoscibile riflessamente dall’uomo attraverso tre tipi di co-noscenza [cf Don 4]: la «scientia naturalis», che è la filosofia, divisa innove scienze particolari; la «scientia supernaturalis», che è la teologia; ela «scientia gratuita», che consiste nel dono dello Spirito Santo detto discienza e che corrisponde e quella che noi chiamiamo “spiritualità” insenso ampio.

L’intero progetto della crescita spirituale consiste dunque nella rie-dificazione interiore tramite le virtù, il che rivela il debito esplicito diBonaventura nei confronti di Francesco ed un altro implicito nei con-fronti di Antonio.

IL CONCETTO E LA TERMINOLOGIA DI “SPIRITUALITÀ”Nel tredicesimo secolo non esisteva ancora un termine tecnico uni-

co per il concetto che denominiamo “spiritualità”, ma si adoperavanosintagmi o perifrasi perlopiù con l’aggettivo ‘spiritualis’. In Bonaventu-ra, in base allo spoglio integrale delle opere concordate e a quello si-stematico delle altre, il termine che meglio esprime tale concetto sembrail sintagma ‘vita spiritualis’.

Bonaventura descrive lo Spirito Santo come medico, maestro e re:«medicus totius experientiae propter collationem spiritualis et corpora-lis vitae»; «magister totius sapientiae», in quanto «fontale principiumomnis scientiae et spiritualis doctrinae christianae» (di entrambi i Te-stamenti, ma in forma esperienziale: «si Scriptura silet, experientia do-cet»); «rex totius opulentiae», che infonde le virtù (cardinali), ciò chepiù vale «ad consummationem vitae spiritualis» [Sermo 25.2-5 e 12];inoltre la Scrittura nel suo senso tropologico, relativo al “da farsi” pre-sente [Hex 13.21 e 13.30-33], indica la “spiritualis gratia” (le virtù), la“spiritualis vita” (attiva e contemplativa), la “spiritualis cathedra” (lanostra “direzione spirituale”) e la “spiritualis pugna” (o lotta ascetica).

Insomma, pur non frequente, il sintagma ‘vita spiritualis’ è signifi-cativo tanto da essere adoperato da uno dei reportatores delle splendideconferenze bonaventuriane del 1273 per riassumerne il contenuto: rein-terpretando il testo nel contesto, la “vita spirituale” si articola tassoni-micamente in sei fasi: due iniziali, le virtù cardinali e teologali, cui ar-rivano in molti; due intermedie, meditazione e contemplazione, cui arri-vano in pochi; due finali, profezia ed estasi, cui arrivano in pochissimi[cf Hex 3.24; 6.6-22; 7.13.22; 8.3; 13].

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Nell’epilogo delle Collationes in Hexaëmeron (nella reportatioedita da Delorme) la profezia è detta «non minima pars […] vitae spiri-tualis» e l’estasi “ultima pars vitae spiritualis in via” (sviluppo massimoprima della gloria).

Bonaventura ha elaborato una suggestiva teoria dei ‘sensus spiri-tuales’ [cf Brev 5.6; Red 10; Itin 4.6] (da intendere non come percezionisovrasensibili o del sovrasensibile, ma come percezioni interne prodottedal sovrasensibile e metaforicamente associate ai cinque sensi esterni);inoltre aveva abbozzato l’idea di una crescita interiore legata alla rela-zione personale a Cristo “Pastore e Pasto”, il quale «pascit essentialiter»(nell’illuminazione), «spiritualiter» (nella giustificazione) e «sacramen-taliter» (nell’eucaristia) [Sermo 23.4]; inoltre Bonaventura aveva di-stinto tre livelli di intensità della vita cristiana, i cui abiti di grazia, puressendo infusi simultaneamente, vengono però messi in pieno eserciziosolo sequenzialmente: dalle sette Virtù, attraverso i Doni dello Spirito(dal timore alla sapienza), fino alle Beatitudini (dalla povertà spiritualealla pace); il tutto, con una sempre maggior consapevolezza della pro-pria esperienza del mistero: prima lo si crede solo “per fede”, poi los’intende per il dono d’intelligenza; infine, sebbene in modo speculareed enigmatico in via, lo si “vede” per la beatitudine della purezza dicuore [cf Christus unus omnium magister, 1 (e passim); de sancto Do-minico, I; Brev 5.4-6].

LA DEFINIZIONE DI SPIRITUALITÀ

Sviluppando un ardito progetto teologico, Bonaventura aveva te-nuto come Ministro generale dell’ordine tre cicli di collationes (confe-renze serali) ai frati minori dell’università di Parigi nel 1267 sui diecicomandamenti, nel 1268 sui sette doni dello Spirito Santo e nel 1273(tra Pasqua e Pentecoste, interrotte dalla nomina cardinalizia) sui sei“giorni” o fasi dell’illuminazione interiore (in Hexaëmeron, di cui pos-sediamo due recensioni, una nella editio maior di Quaracchi e l’altraedita da Delorme): dopo aver esposto l’ideale di umanità trinitarizzataespresso dai precetti e il dono di timore, Bonaventura introducendo conenfasi l’esercizio spirituale (‘exercitatio spiritualis’, nel senso di ascesi)del dono di pietà, già raccomandata da Paolo [cf 1Tm 4,7-8], illustravail suo programma: «non possiamo spiegarlo a parole, né porlo in atto senon grazie all’aiuto dello Spirito Santo»; anzi, con una esplicita dichia-razione personale confidava agli uditori: «Vedete, tutta la mia intenzio-

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ne è che concepiate nell’anima il dono della pietà [«tota intentio meaest, quod concipiatis donum pietatis in anima »] e impariate cosa sia“essere pio”» [Don 3.1-2].

In effetti, con l’esercizio del dono di pietà (la preghiera),l’esperienza spirituale si sviluppa con consapevolezza nel dono discienza (‘scientia gratuita’) [cf Don 4], ossia nella conoscenza esperien-ziale delle opere divine (gratuitamente infusa e “gratum faciens”), e, at-traverso le suddette sei fasi della visione intellettuale data dal donod’intelligenza, si compie nel dono della ‘sapientia’, detta ‘spiritualis sa-pientia’ o ‘sapientia christiana’, che finalmente è quella ‘mystica’, perdistinguerla da altri legittimi sensi del termine [cf Don 9; Hex 1.9; 2;13.22; 19.23-27; cf anche Sermones dominicales, 36.5; Sent 1 pr 1-4 e3.35.1.1]. Bonaventura concludeva questo percorso con questa confi-denza agli ascoltatori, tutti cristiani “impegnati”: “Ho voluto condurviall’albero della vita”, ossia alla “sapienza contemplativa” mediante lacarità [Hex 23.31].

Il contributo maggiore di Bonaventura alla storia della “spiritua-lità” è consistito sia in questa descrizione del concreto e dinamico cam-mino personale e comunitario di vita spirituale sotto la guida di un pre-dicatore (in senso quasi mistagogico), sia nella connessione di tale spi-ritualità con la filosofia e la teologia.

Invece, la teologia sviluppata nei cosiddetti opuscoli spirituali (Detriplici via, Soliloquium, De perfectione vitae, Lignum Vitae) e nell’Iti-nerarium, più che come “spiritualità” va intesa, secondo lo stesso Bo-naventura, come “teologia negativa” d’impronta dionisiana (topologicae “ascendente dall’infimo al sommo”), accanto e dopo quella “afferma-tiva” d’impronta scolastica (cronologica e “discendente” dal principioalla fine dei tempi), sviluppata nel Commento alle Sentenze e nel Bre-viloquium. Parlare di Dio per negazione, dopo però averlo fatto per af-fermazione, “è il modo più conveniente, dire cioè di Dio: Non è questo;non è quello”, senza privarlo di ciò che è suo; “l’amore segue sempre laprivazione”, secondo l’esempio dionisiano dello scultore, che “non ag-giunge nulla, anzi toglie” [Hex 2.33-34; cf TriVia 3.11]. Nella sua teo-logia negativa, Bonaventura ha fuso la tradizione agostiniana, bernar-diana e vittorina da una parte e quella dionisiana dall’altra: così, nel Detriplici via applica ad incipienti, progredienti e perficienti la triplice viapurgativa, illuminativa e perfettiva, come pure l’esercizio monasticodella lectio, meditatio, oratio e contemplatio; nel Soliloquium, rielaboramateriale tradizionale per offrire quasi un’antologia per la meditazione.

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L’Itinerarium è infine un’opera di “teologia della mistica” piuttosto cheun’opera “mistica”, e non indica un itinerario praticamente percorribileper sviluppare la vita spirituale: nessuno infatti impara a pregare con-templando le vestigia Dei nel mondo…

Concludendo, quella che noi chiamiamo “spiritualità” potrebbe es-sere facilmente identificata in Bonaventura con quel dinamismo di espe-rienza che parte dalla fede (e in generale dalle virtù teologali), e si svi-luppa progressivamente nella “exercitatio spiritualis” dei doni dello Spi-rito Santo, manifestandosi nella “scientia gratuita” (conoscenza espe-rienziale e scienza dei santi per grazia): mentre chiunque con la sola fe-de informe (e perfino in peccato mortale) può fare teologia, viceversasolo i fedeli in grazia possono avere la scienza gratuita; anzi, per passa-re dalla “scienza” (qui intesa come scienza argomentativa, tanto natu-rale quanto sovrannaturale) alla “sapienza” (qui intesa come dono delloSpirito Santo, assieme alla scienza gratuita), occorre porre il terminemedio, che è la “santità” [Hex 19.3; cf 2.5]. Infatti, “aver molto sapere epoco sapore, a che giova?” («multa enim scire et nihil gustare quid va-let?») [Hex 22.21].

LA SPIRITUALITÀ CRISTIANA E QUELLA FRANCESCANA

Mentre l’antichità pagana aveva concentrato la vita morale sullevirtù secondo un paradigma principalmente ottativo (ossia l’eudemo-nismo), l’esperienza ebraica aveva concentrato la vita morale sul temadella Legge (la Torah), secondo un paradigma principalmente imperati-vo (cioè i Comandamenti): ma “Legge” nella tradizione biblica significarivelazione del progetto di Dio, e quindi dell’uomo all’uomo; di conse-guenza la giustizia sarà la corrispondenza, ontologica prima ancora cheetica, dell’uomo alla sua misura stabilita da Dio. I libri intertestamentarie la riflessione alessandrina unirono l’approccio greco e quello ebraicoantico, introducendo la nozione di virtù infuse da Dio: esse sono la“cosa più utile all’uomo nella vita” [cf Sap 8,7]. Il cristianesimo tema-tizza lo scacco dei “doveri impossibili” [cf Rm 7] e la differenza travirtù acquisite per la ripetizione di comportamenti e virtù infuse (atteg-giamenti dell’essere) che rendano possibili i comportamenti stessi: adesempio, il circolo della fede vivificata dalla carità [cf Gal 5,6; Rm3,28; Gc 2,17], il circolo della carità e delle sue opere [cf 1Cor 13], ilpercorso delle virtù [cf 2Pt 1]. L’ordinamento delle virtù, ossia la lorodenominazione secondo un’articolazione sistematica mnemonica (soli-

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tamente il settenario), rispecchia e in qualche modo favorisce l’ordina-mento sacro (“gerarchico”) della persona nella comunità.

Comune in qualche modo a tutta la tradizione cristiana, ma parti-colarmente accentuato nella spiritualità francescana è il progetto di rie-dificazione interiore mediante le virtù (prefigurato dall’esperienza ini-ziale di Francesco come ricostruttore di chiese, ed esemplificato daibiografi nell’invito del Crocifisso a ricostruire la sua casa in rovina). Aquesto progetto è infatti finalizzata la predicazione ai fedeli secondo laRegola. Nel 1221, nella Regula non bullata [16-17], Francesco distin-gueva i missionari (“euntes inter infideles”) dai predicatori (indirizzatiai soli fedeli). La sua missione infruttuosa al Sultano d’Egitto a Damiatanel 1219 e il martirio dei primi missionari francescani in Marocco nel1220 suggerivano di evitare le dispute ma anche l’ostentazione della fe-de nella missione agli infedeli. In ogni caso, i frati potevano e dovevanopredicare con le opere, ossia con la testimonianza. Due anni dopo, nellaRegula bullata, fu generalizzato il divieto ai frati di fare non solo litesma anche discussioni vane (dissensiones).

In questo orizzonte esperienziale si colloca la riflessione bonaven-turiana sulla spiritualità. Il rapporto di Bonaventura con Francesco è unrapporto vitale e complesso: se infatti la spiritualità di Francesco hapermeato tutta la teologia bonaventuriana, d’altra parte proprio questateologia ha notevolmente influenzato la definizione dell’immagine diFrancesco nella biografia ufficiale (la Legenda, maior e minor), desti-nata a sostituire tutte le precedenti, in cui Francesco è presentato da Bo-naventura come modello di virtù, “guida e padre” per i suoi frati, ma an-che per tutta la Chiesa [cf LegMa 0.3, 1.1, 13.9; LegMi 7.8-9; Itin 0.2].

Reinterpretandone tutta la figura e l’opera, Bonaventura presentaFrancesco come nuovo Mosè, nuovo Elia (come già il Battista), ma so-prattutto come l’angelo del sesto sigillo nell’Apocalisse, che “porta sudi sé il segno del Dio vivo” [Ap 7,2], e quindi come “altro Cristo”: co-me il Battista fu contemporaneamente “araldo di Cristo” nella predica-zione ed “amico dello Sposo” nella contemplazione, quale “vero amato-re della divina Sapienza” (ossia vero filosofo) [cf Itin 0 e 1; Hex 20.30].Così come all’apertura del sesto sigillo [cf Ap 7,2], “un altro angelo salìdall’Oriente con il segno del Dio vivente”, allo stesso modo Francescosegnò col Tau. Identificando poi l’angelo del sesto sigillo con l’angelodella sesta Chiesa menzionata dall’Apocalisse (quella di Filadelfia), acui viene aperta la porta mediante la “chiave di David”, intesa come“l’intelligenza della Scrittura o rivelazione”, Bonaventura presenta

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Francesco come vera “guida spirituale” e preconizza che tale chiavevenga ancora data “a una persona o alla moltitudine, ma più probabil-mente alla moltitudine” [Hex 16.29].

Francesco è per Bonaventura l’iniziatore di una nuova epoca nellaChiesa, in cui il dono dell’intelligenza, con cui si conosce personal-mente ed interiormente Cristo [cf Hex 3.32], sarà diffusa: Bonaventuracome teologo si preoccuperà per questo di ricavare dalla vita e dalla spi-ritualità di Francesco un itinerario di vita cristiana e un metodo di con-templazione che valga per tutti i cristiani e che, partendo dalla pietàgiunga alla sapienza e alla pace attraverso il desiderio (solo un “uomo digrandi desideri” come il profeta Daniele può infatti ricevere grandi ri-velazioni) [cf LegMa 8.1; 9.1; 13.5; 11.14, Hex 20.1; Itin pr].

Ma a parte questa immagine idealizzata, esistono alcuni esplicitiriferimenti di Bonaventura all’insegnamento di Francesco. Sebbene neciti forse una sola volta esplicitamente ma approssimativamente un testo(ossia il biglietto ad Antonio) [in Hex 22.21], altre volte ne riferisce afo-rismi o apoftegmi, spesso non altrimenti noti [come in Hex 3.1, 5.5 e19.14; De tribus quaestionibus, 8] o testimonianze indirette, comequella di frate Egidio [cf Hex 23.26]. Infine, nella dottrina della contem-plabilità delle vestigia Dei nel mondo è esplicito il riferimento a France-sco ed è probabile l’eco del Cantico delle creature [cf Itin 1-2; Hex2.20-21; LegMa 8.1; 9.1]; la sua idea della “mente ordinata come laChiesa” [Hex 22.38] è molto simile alla persona “fatta Chiesa” di Fran-cesco; e forse tutta la dottrina delle virtù è lo sviluppo di una intuizionefrancescana; soprattutto la concezione di Dio come Bene [cf Itin 6]sembra la rilettura dionisiana di un tema fondamentalmente francescano[cf Laudes Dei Altissimi]. Infine, forse in ottemperanza all’esortazionefrancescana alla brevità di discorso [Regula bullata, 9], Bonaventura haintitolato il suo compendio di teologia breviloquium, in cui fosserotrattati «non omnia», ma «aliqua magis opportuna» da tenere per fede[Brev 0.6.5].

Il progetto francescano della riedificazione interiore mediante levirtù sembra trovare accoglienza in Bonaventura soprattutto quanto alla“spiritualità” sviluppata nelle Collationes [Don 3.2; Hex 1.9 e 23.31],rivolte “agli uomini della Chiesa”, e in particolare “ai fratelli” (da in-tendere probabilmente come “ai frati minori”) e in generale “agli uo-mini spirituali”, per condurli “dalla sapienza mondana alla sapienza cri-stiana” [Hex 1.5 e 1.9]. Inoltre l’attenzione all’edificio delle virtù ca-ratterizza in Bonaventura anche la teologia, programmaticamente intesa

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come invocazione a Dio della “virtù d’esser corroborati mediante loSpirito nell’uomo interiore” [Brev 0.0.1; cf Solil 0.1], e perfino la filo-sofia: le scienze filosofiche devono tendere a una sapienza a cui è possi-bile pervenire solo “tramite le virtù” [Hex 5.33] cardinali, con cui ri-congiungersi a Dio, in cui sono fontalmente [cf Hex 6.7; 1.20 e 33].Tale teoria, concettualmente mutuata da Plotino mediante Macrobio [cfHex 6.25], è però in fondo cristiana e francescana, dato che poi le virtùper vivere devono essere “non divise” [Hex 7.15], e quindi necessitanodell’infusione per grazia delle virtù teologali.

Quanto invece al progetto missionario francescano, Bonaventura hadesunto dal comportamento di Francesco col Sultano un modello esem-plare di rapportarsi a quanti erano o erano divenuti esterni alla Chiesa:ossia «non discutere di fede secondo ragione, perché la fede è sopra laragione, né per mezzo della Scrittura, perché essi non l’avrebbero ac-cettata», ma appellarsi ai miracoli e (in senso generale) alla testimo-nianza di vita [Hex 19.14].

Ebbene, Tommaso era partito dalle medesime constatazioni, ma eraarrivato a una conclusione di tutt’altro segno: poiché musulmani e pa-gani non hanno in comune alcuna Scrittura con i cristiani, per discuterecon loro «è necessario ricorrere alla ragione naturale, a cui tutti sonocostretti ad assentire. La quale è tuttavia carente nelle realtà divine»[Summa contra Gentes, 1.2.4].

Per Bonaventura anche senza la fede conosciamo sempre almenoqualche verità sulle realtà ultime [cf Hex 4.1], ma senza la fede incor-riamo sempre almeno in qualche errore su Dio: «è inevitabile infatti chechi filosofa incorra in qualche errore a meno che non venga soccorsoper mezzo del raggio della fede» [Sent 2.18.2.1 ad 6]. Ma Tommaso èancora più radicale: per lui la “pura” ragione nell’investigare le realtàultime sbaglia «plerumque» («perlopiù»), e non solo «qualche volta»[Summa contra Gentes, 1.4.5].

Insomma, Tommaso e Bonaventura, rifacendosi rispettivamente aidue modelli paolini, ossia quello dei “discorsi persuasivi di umana sa-pienza” (usato all’Areopago di Atene) e quello della “stoltezza dellapredicazione” (usato invece a Corinto), e soprattutto facendo tesorodelle rispettive spiritualità domenicana e francescana, hanno elaboratoteologie e filosofie diverse secondo questi modelli.

La spiritualità francescana ha in particolare portato Bonaventura ateorizzare una nuova filosofia (da lui definita “nostra” [Hex 1.17, 1.30,

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1.36], cioè cristiana), rappresentata dalla metafora dell’aqua totaliter invinum conversa come nel racconto evangelico delle nozze di Cana [cfHex 19.8-14]: l’acqua simboleggia la ricerca razionale (non solo filoso-fica, ma anche quella teologica del “senso letterale” delle auctoritates),con cui riempire le facoltà umane fino all’orlo; il vino simboleggia lasapienza che è necessario cercare ma non è possibile trovare [cf Hex5.22 e 7]; l’obbedienza dei servi alla parola di Gesù è la fede. Così, lafilosofia è una ricerca necessaria, ma naturalmente impossibile, sicchéla filosofia senza la fede è come la magia degli egiziani, che a un certopunto “viene a mancare” («deficit in tertio signo»), sicché ciò che è ol-tre viene dal “dito di Dio” [Praec 7.11; cf Don 4.19; Hex 2.30; Sermo-nes dominicales, 42.13 e 27.4].

IL LEGAME TACIUTO DI BONAVENTURA CON ANTONIO

Bonaventura, tramite la lettura di Tommaso Gallo [cf Hex 22.24] egli studi a contatto di Giovanni de la Rochelle, aveva sicuramente sen-tito parlare di Antonio; infine come Generale dell’Ordine dei frati mino-ri aveva presieduto alla traslazione del corpo di Sant’Antonio a Padovanel 1263.

Eppure oblio, reticenza, e una certa diversione sembrano caratteriz-zare il rapporto di Bonaventura con Antonio: nell’unica volta in cui Bo-naventura lo nomina, si ha l’accentuazione del suo ruolo di predicatore,approvato da Francesco e canonizzato dalla Chiesa, ma anche l’“oblio”degli aspetti agiografici straordinari; per il resto, si nota una “reticenza”sul suo nome e sul ruolo di insegnante di teologia incaricato da France-sco.

Tale reticenza potrebbe essere stata dettata in parte da un certo pu-dore o imbarazzo, e dall’altra da motivi di opportunità. L’imbarazzopotrebbe essere dovuto all’opposizione della “scienza del professore”alla scienza del vecchio predicatore (tra l’altro, Bonaventura aveva re-datto un sermonario di fatto alternativo a quello di Antonio), all’op-posizione della spiritualità dello studio alla spiritualità del taumaturgo;che questo imbarazzo fosse diffuso all’epoca è dimostrato dalla testi-monianza, sopra accennata, di Tommaso Gallo e dalle stesse Vite delSanto. Motivi di opportunità invece potevano essere questi: il desideriodi porre l’accento piuttosto su Francesco, presentato come Alter Chri-stus e angelo del Sesto Sigillo; il conseguente timore per una presenta-zione di Antonio come alter Franciscus, come in effetti poi faranno gli

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“spirituali” dell’Ordine [cf Fioretti, n. 39-40]; infine, il desiderio dimantenere una via mediana tra le tendenze contrastanti interneall’Ordine sul modo di impostare gli studi.

Ciò nonostante, i paralleli tematici e testuali tra Antonio e Bona-ventura sono tanti. Innanzitutto, c’è una comunanza tra loro di temisimbolici, spesso tipici della cultura medievale: quello che però colpisceè la compresenza di tutti questi temi insieme, quasi a testimoniare unasintonia di “stile teologico”.

Temi e simboli comuni tra Antonio e Bonaventura sono ad esempio i se-guenti (il primo riferimento è al sermonario antoniano, il secondo ai testi bona-venturiani): i settenari della grazia [In Nat. Bapt., 3 – Don 1]; la corona di dodicistelle o misteri [II post Pascha, 15 – Hex 22.40]; il “Cerchio” o “anello” salvifico[IV post Pascha, 3; Ascens., 10; X post Pent., 1 – Sent 1.45.2.1 co; Brev 5.1.6 eHex 1.17]; la “settimana” primordiale come metafora degli stadi della vita cristia-na [Septuag., 2-3 – Hex 3.24], tre forme (“da cui, per cui, in cui”) dell’esistere [VIpost Pascha, 3 – Itin 4 e Hex 2]; la coincidenza in Cristo di “primo” e “ultimo”nell’incarnazione [I de Adventu, 4 – Hex 3.13; Itin 6.5]; il microcosmo o “minormundus” [Ascens., 4-5 – Itin 1 e 3-4]; Dio come “luogo naturale dell’uomo” (temaagostiniano) [Ascens., 5 – Don 3.5]; la “nihilitas” creata e peccato come “nulla”(tema eriugeniano) [Ascens., 5 – De perfectione evangelica, 1.1]; i sensi “spiri-tuali” e l’ispirazione attraverso l’olfatto spirituale [Pent., I, 4-9 – Itin 5 e Brev 5];l’esercizio dei doni dello Spirito [XX post Pent., 8 e I Adv., 6 – Don 1]; il Soleche sorge e brucia “tre volte tanto” [Eccli 43,4], ossia Cristo [XI post Pent., 2 –Hex 4.1-2; cf 1.19]; dita della mano come simboli [XII post Pent., 11 – Sermonesdominicales, 13.10]; le quattro virtù “radicali” [umiltà, povertà, pazienza e obbe-dienza: XIX post Pent., 9-11 – umiltà, povertà, castità e obbedienza: PerfEv]; lastella dei Magi come luce che guida filosofi e peccatori [Epiph., 2-3 – Sermo demodo inveniendi Christum]; la conoscenza come illuminazione divina [Cath. Petr.;Sept. – Hex 1.17; Hex 4 e 7]; la Croce come rivelazione [Cath. Petr., 13; Inv. Cr.,7 – Hex 1.24; De triplici via 3.5]; il Trisagio cantato dai due serafini [cf Is 6,2-3]come sintesi della professione di fede [XII post Pent., 12 – Hex 8.8-19]; le quattrofasi della storia della salvezza [In resurrect., II, 11 – struttura di Brev; Don 3.4-5;Hex 21.17]; l’albero edenico della vita e della vera conoscenza [Inv. Cr., 10 – Hex1.15 e 23.31]; Dio come Bene essenziale (tema dionisiano e francescano) [In S.Phil. et Iac., 8 – Itin 6]; “seguire nudo Cristo nudo” [cf In S. Io. Ev., 2 – LegMa2.4].

Alcuni testi antoniani e bonaventuriani, paralleli, in crescente gra-dazione di somiglianza, possono dipendere da una fonte comune (comeBeda e Bernardo).

I testi antoniani e bonaventuriani che sono simili in quanto rimandano allastessa fonte ad esempio sono: le sei caratteristiche del Verbo Incarnato [XII postPent., 12 – Hex 3.12-21]; la Trinità delle persone in Dio e delle nature in Cristo[XX post Pent., 1 e III de Adventu, 3 – Hex 8.9; cf Itin 6.6; Brev 4.10]; la TripliceGerusalemme (ossia la Chiesa, l’anima e la patria celeste) [XX post Pent., 1 e XVpost Pent., 15 – Hex 3.32; 20.3; 22.38]; la duplice assoluzione, interiore e sacra-

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mentale [In octava, 9 – Sermones Dominicales, 48.9]; il contempativo come virdesideriorum [In resurrectione Domini – Hex 20.1; 22.22; Itin 0.3].

Finalmente, il cristocentrismo, trattato da Antonio nell’ottava diPasqua [6-8] e da Bonaventura nella prima collazione in Hexaëmeron[1.11-38] è (nonostante l’utilizzo di distinzioni e auctoritates mediatedalla Glossa) molto più che un semplice parallelo: a meno che non escafuori un improbabile terzo testo (anteriore ad entrambi o intermedio aidue), dalla sinossi dei due testi si può ragionevolmente concludere cheBonaventura avesse in mente il testo antoniano. Per Antonio, Gesù è nelmezzo in cielo, nell’utero della Vergine e nel presepio, sul patibolodella croce e nel cenacolo; per Bonaventura, egli appunto è medionell’eterna generazione, nell’incarnazione, nella passione, nella resur-rezione…

Per concludere: se Bonaventura ha potuto elaborare un modello difondazione della “spiritualità” e della sua interazione con la filosofia ela teologia, è stato grazie alla sua riflessione critica sulla spiritualità dalui vissuta nell’Ordine dei Frati Minori, radicata in Francesco, ma anchemediata in qualche modo da Antonio.

LA SPIRITUALITÀ DELLO STUDIO

Nella giustificazione spirituale dello studio Bonaventura ha rilettoin maniera originale la spiritualità francescana e l’esperienza antoniana.

Infatti, Francesco aveva autorizzato Antonio ad insegnare la teolo-gia ai frati con un breve biglietto scritto tra il 1223 e il 1226 in cui dice-va: «Mi sta bene [«Placet mihi»] che tu insegni ai frati la sacra teologia,purché in questo studio tu non estingua lo spirito d’orazione e devozio-ne [«dummodo inter huius studium orationis et devotionis spiritum nonexstinguas»], così come è contenuto nella Regola».

Parlando però ai frati del convento universitario parigino, Bona-ventura nel 1273 riferiva a senso (e con alcune significative variazioni)le parole del biglietto di Francesco: «il beato Francesco aveva detto divolere che i suoi frati studiassero, purché prima di insegnare mettesseroin pratica» («volebat, quod fratres sui studerent, dummodo facerentprius, quam docerent») [Hex 22.21].

Ebbene, una prima differenza consiste nel fatto che di Antonio èdel tutto omessa la menzione: qui a Bonaventura interessava sottolinera-re il carattere permanente, e non solo contingente, dell’intenzione delfondatore, senza legarla a uno stile teologico, quello antoniano, ormai

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superato; ma i motivi più profondi della reticenza bonaventuriana ri-guardo Antonio saranno indagati nel paragrafo seguente.

In effetti, il «placet» (ossia “mi sta bene”, “non ho nulla in contra-rio”) del biglietto viene trasformato in un ben più impegnativo «vo-lebat»: mentre Francesco sembrava aver semplicemente acconsentito aduna richiesta di Antonio, nel racconto bonaventuriano sembra che siaFrancesco stesso ad aver preso l’iniziativa.

Come conseguenza, mentre nel biglietto Francesco si riferiva a chiinsegnava (questo era il senso del rimando alla norma sul lavoro nellaRegula bullata), nel racconto bonaventuriano sembra riferirsi ai desti-natari, cioè ai frati.

In terzo luogo, mentre nel biglietto si parlava di “lezioni di sacrateologia”, nel racconto bonaventuriano si parla genericamente di“studi”. In effetti Bonaventura, al bivio tra il rifiuto di alcuni frati adogni studio (in una contrapposizione tra Assisi e Parigi) e d’altra partel’interessamento di alcuni frati a tutte le scienze anche profane [cf Hex17.25] scelse la via di mezzo: mentre però nella primitiva impostazione,quella antoniana, gli studi praticati non erano formali, universitari,“scientifici”, ma biblico-spirituali, per Bonaventura gli studi dovevanoessere quelli normalmente chiesti dall’università, compresi dunque glistudi filosofici previ a quelli teologici. L’atteggiamento di Bonaventura,quindi, fu quello di “zelo per la scienza”, ma anche di “condanna perogni curiosità” [cf De tribus Quaestionibus, 12 + 2]. Infine, la condizio-ne posta da Francesco a chi insegna, e cioè “a condizione di non estin-guere lo spirito di orazione e devozione”, viene trasformata in “a condi-zione di fare prima che predicare” nel racconto di Bonaventura, il qualeaggiunge una domanda retorica (che mostra il vero carattere di quel“fare”): “infatti, aver molto sapere e poco sapore, a che giova?” («multaenim scire et nihil gustare quid valet?») [Hex 22.21].

In tale prospettiva, si comprende meglio quella che oggi possiamo definire larilettura spirituale non solo della teologia, ma della stessa filosofia, operata daBonaventura: essa costituisce l’intento esplicito supremo del programma scientifi-co bonaventuriano ed è imperniata sulla dottrina del carattere cristocentrico ditutte le scienze [cf Hex 1.11], carattere che sfugge a uno sguardo solamente filoso-fico [cf Hex 1.13]. Se ne ricava infine la spiritualità del sapere: essa è imperniatasulla convinzione che «in ogni sapere, se si prescinde da Cristo, perde consistenzacolui che sa» («in omni ergo scientia sine Christo evanescit sciens») [HexD0.1.39].

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‘SYLLOGISMUS CHRISTI’ – ‘PARALOGISMUS DIABOLI’ 72

LA LOGICA CRISTIANA

Bonaventura ha formulato nel 1273, all’inizio delle sue collationesin Hexaëmeron [1.25-30], il “sillogismo di Cristo”, che è l’espressionedella novità (rispetto alla logica filosofica classica) della “nostra logica”(cristiana), incentrata sulla Croce e che va a riparare la falsa logica(sofistica) del diavolo, sottesa ad ogni peccato.

Con un complesso gioco di metafore e sfruttando con disinvolturala polisemia del lemma ‘medius’ in latino, Bonaventura esaminava isette diversi significati che “medium” assumeva nelle principali scienzedel tempo, associandoli ad uno ad uno a passi biblici che parlano di Cri-sto come “medium” o “medius” (ovvero “stante in mezzo”), e ricavan-done una suggestiva intelligenza spirituale.

Ebbene, il medio di cui tratta la logica è il termine medio del sil-logismo. Il sillogismo è quella inferenza che da due proposizioni date oassunte per vere (e chiamate premesse, rispettivamente maggiore e mi-nore, per la loro diversa estensione), fa derivare per necessità logica unaterza proposizione (la conclusione). Pur essendo ciascuna proposizionecomposta da due termini (il soggetto e il predicato) uniti da una copula,il sillogismo conta però solo tre termini, ciascuno ripetuto due volte:infatti le premesse hanno in comune un termine (detto appunto“medio”), che consente secondo certe regole di congiungere insieme glialtri due termini (detti “estremi”, rispettivamente maggiore e minore),formando appunto la conclusione, in cui ovviamente non compare inve-ce il termine medio.

Un paralogismo, invece, è un sillogismo solo in apparenza, inquanto, pur essendo effettivamente composto di tre proposizioni e (ap-parentemente) di tre termini, prende il termine medio in due intenzioni o

72 Cf Ewert H. COUSINS, Bonaventure and the Coincidence of the Opposites, Chicago 1978.Andrea DI MAIO, La logica della Croce in Bonaventura e Tommaso: il sillogismo di Cristo e ilduplice medio, in: Tito P. ZECCA (ed.), La Croce di Cristo, unica speranza. Atti del III Congres-so internazionale “La sapienza della Croce oggi”. Roma, 9-13 gennaio 1995, San Gabriele -Roma 1996, p. 373-398.

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estensioni diverse nella maggiore e nella minore, così che in realtà itermini non sono più tre, ma quattro, e pertanto, mancando la mediazio-ne fra gli estremi, la presunta conclusione non segue affatto logicamen-te.

Così, mentre il medio logico del sillogismo, congiungendo i dueestremi, costringe la ragione ad assentire» alla conclusione, viceversa ilmedio (apparente, ma in realtà doppio) del paralogismo, pur inducendoall’inganno, non riesce a costringere la ragione ad assentire alla erroneaconclusione.

Ebbene, da un punto di vista teologico ci sono due modi di ragiona-re: uno è quello del diavolo e l’altro è quello di Cristo.

IL PARALOGISMO DEL DIAVOLO E IL PECCATO DELL’UOMO

La logica del diavolo, naturale ma sofistica, è quella sottesa ad ognitentazione, che consiste infatti in un paralogismo in cui, sebbene lepremesse siano vere, il termine medio è usato con doppiezza equivoca,così che la falsa conclusione proposta, in realtà non segue logicamente:l’inganno diabolico non consiste mai nella proposta di un errore manife-sto, ma nella tendenziosa utilizzazione di mezze verità.

In primo luogo, infatti, è vera la proposizione maggiore: «l’uomodeve desiderare di assomigliare a Dio». Tale premessa non ha bisognodi essere dimostrata, essendo evidente (“per sé nota”), né ha bisogno diessere formulata o assunta esplicitamente (e infatti non compare nelracconto biblico della tentazione dei progenitori): Bonaventura dice cheil diavolo poté “presupporla” necessariamente ed implicitamente nelcuore dell’uomo: questi è infatti creato ad immagine (naturale e imper-dibile) di Dio e quindi tende naturalmente ad essere a sua somiglianza(sovrannaturale ed infusa) ovvero ad essere imitatore di Dio secondo levirtù.

La proposizione minore pone che l’uomo, mangiando del fruttoproibito della scienza del bene e del male (e quindi peccando), diventeràsimile a Dio. La falsa conclusione subdolamente insinuata dal paralogi-smo è che “dunque, l’uomo deve mangiare del frutto proibito”.

L’estensore della reportatio edita da Delorme a torto ritiene falsa laproposizione minore [0.1.26] (in tal caso infatti non ci sarebbe paralogi-smo formale, ma errore di contenuto): in effetti Dio stesso, dopo avercostatato il peccato dei progenitori, ammetterà: «l’uomo è divenuto co-

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me uno di noi, per la conoscenza del bene e del male» [Gen 3,22]; eproprio per questo l’uomo sarà scacciato dal paradiso terrestre.

Il difetto sta invece nell’ambiguità del significato di “somiglianza”,che è inteso nella maggiore nel senso di imitazione lodevole e virtuosadi Dio, e nella minore nel senso di pretesa velleitaria e peccaminosa disostituirsi a lui.

Significativa è la soluzione che in tal modo si dà al paradosso so-cratico (accennato dalla citazione dionisiana), per cui nessuno farebbe ilmale volontariamente: in realtà, trattandosi di un sofisma, dalle duepremesse della tentazione, la conclusione non consegue per necessità,ma per libera scelta della volontà dell’uomo, che rimane pertanto re-sponsabile del suo errore: sebbene tratta in inganno, tale inganno non èinevitabile; d’altro canto, anche il peccato più grave presuppone sempreil desiderio di essere simili a Dio e scambia la “somiglianza” (o meglio,“parvenza”) di bene per bene vero. Pertanto, chi pecca (e soprattutto ildannato, che rimane irreversibilmente nel suo peccato) si trova in unacondizione di radicale contraddizione con se stesso. In questo senso lacolpa è pena a se stessa, ed anzi la maggiore delle pene d’inferno.

Ma poiché l’uomo è insieme «causa che agisce < liberamente > eche subisce < il corso naturale delle cose >» [De Regno Dei 43], loscompaginamento da lui provocato, col male di colpa, nell’ordine liberodella giustizia si ripercuote nello scompaginamento anche dell’ordine dinatura che lo riguarda, e quindi nella sua soggezione al male di pena [cfBrev 3.10.2-8].

E così dopo avergli promesso la massima somiglianza con Dio, ildiavolo ha ridotto l’uomo nella massima dissomiglianza con Dio, e nonsolo quanto all’ordine della giustizia, ma anche quanto all’ordine dellanatura, come testimonia la triplice condizione di vulnerabilità, bisogno emortalità.

Per questo paralogismo ognuno pecca, dice Bonaventura rileggen-do in chiave logica la tesi paolina che tutti peccano in Adamo [cf Rm5,12-21].

IL SILLOGISMO DI CRISTO E LA REDENZIONE DELL’UOMO

Per rimediare a questo paralogismo, occorreva dunque il sillogismoriparatore di Cristo: Bonaventura dice che «al fine di» restituire l’uomoalla sua somiglianza con Dio, «fu necessario» che Cristo assumesse lasomiglianza con l’uomo decaduto, e cioè la dissomiglianza dalla sua di-

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gnità divina. Ma attenzione: la necessità di questa kenosi divina non èassoluta, ma condizionata, in quanto basata sulla libera scelta di Dio disalvare così l’uomo peccatore.

Bonaventura formula questo sillogismo in tre modi connessi, anchese non sempre in maniera chiara, completa e precisa.

• Prima formulazione: Cristo è immortale; ma è morto; dunque è ri-sorto.

La prima formulazione può essere così semplificata (includendonelle condizioni di immortalità e mortalità anche le altre): Cristo è im-mortale; ma Cristo è morto; dunque Cristo è risorto. Questa è la logicadella resurrezione di Cristo.

Non si tratta evidentemente di un sillogismo aristotelico: infatti, iltermine medio, che (come dice esplicitamente Bonaventura) è Cristo,compare anche nella conclusione, mentre le due estremità (ovvero lecondizioni di immortalità e mortalità) non sono congiunte nella conclu-sione, ma sono come compenetrate e superate nella straordinaria condi-zione della resurrezione, per cui il Cristo pur con i segni della passionevive immortale, quasi come in natura accade (secondo Aristotele) nellecommistioni con predominanza di un elemento sull’altro.

Si tratta piuttosto di un ragionamento che riecheggia (comple-tandola e rafforzandola) la logica dionisiana dell’affermazione, dellanegazione e della sublimazione: così, Cristo, che nella maggiore è sog-getto di un’attribuzione di una perfezione positiva (l’immortalità) enella minore è soggetto di un’attribuzione privativa (la morte), è rive-lato dalla conclusione come soggetto di un’attribuzione in qualchemodo superlativa. Ma mentre nel procedimento dionisiano le attribuzio-ni per affermazione, negazione ed eminenza riguardano solo i “nomi” diDio, ovvero il nostro tentativo di conoscere il Dio che sorpassa ogni co-noscenza, viceversa nel sillogismo di Cristo tali attribuzioni riguardanoconcrete condizioni e azioni storico-salvifiche: l’incarnazione, la mortee la resurrezione di Cristo.

Nondimeno, il ragionamento si riallaccia implicitamente ad una tesidella fisica aristotelica: quando in una commistione, un elemento pre-domina su un altro, è quello predominante ad accrescersi, mentre l’altroscompare, o meglio, è assorbito dal primo, come per l’appunto accadenella nutrizione, in cui il cibo è assorbito dall’organismo; tale tesi, ri-letta alla luce del principio paolino per cui la morte fu vinta dalla vita, è

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stata adoperata soprattutto dalla teologia orientale per descriverel’unione di umanità e divinità in Cristo e (per partecipazione) anche nelcristiano.

• Seconda formulazione: Cristo è per natura simile a Dio; ma si è fattoper grazia simile all’uomo; dunque, l’uomo è reso di nuovo simile aDio.

Per capire però in che senso Cristo è termine medio del sillogismo,dobbiamo ricostruirne la seconda formulazione, che può essere cosìespressa: Cristo è per essenza simile a Dio (e quindi immortale); Cristosi è fatto per misericordia simile all’uomo (e quindi mortale); dunquel’uomo è per misericordia reso simile a Dio. Insomma, Dio si è fattocome noi per farci come lui: e questa è la logica della resurrezione edelevazione dell’uomo. In questo caso il termine medio, che è Cristo, faeffettivamente da mediatore fra Dio e uomo e non compare nella con-clusione; ma neanche in questo caso si tratta di un sillogismo in sensoaristotelico e quindi generalizzabile (ad esempio, dal fatto che il ciboche mangio viene assimilato da me, non segue che divento simile al ci-bo).

Ma allora come funziona questa argomentazione? Essa sembra in-nanzitutto violare il principio di non contraddizione: in Cristo infatti c’èuna certa coincidenza degli opposti:

«il primo congiunto con l’ultimo, Dio con l’uomo […], l’eterno coltemporale […], l’atto puro con […] la passione e morte» [Itin 6.5-7].

In realtà, tale violazione è solo apparente: infatti gli opposti noncoesistono nello stesso modo allo stesso tempo.

Dunque, pur non violando le leggi della logica classica, l’argomen-tazione trova la sua forza altrove: in entrambe queste formulazioni delsillogismo, la maggiore è infatti vera necessariamente (per essenza) eposta fin dall’eternità; la minore è invece assunta liberamente (per mise-ricordia) nel tempo: la conclusione segue invece per necessità “logica”,con la resurrezione. Morendo in croce Cristo vuole congiungersi conl’altro estremo, per far seguire la conclusione e prendersi gioco del dia-volo, che in questa drammatica disputa credeva di «averlo messo in dif-ficoltà» [«confudisse»].

L’argomentazione si fonda insomma su una logica che potremmodefinire “dialettica”, per cui «fu necessario» che gli opposti fosserovinti dagli opposti, in quel «prodigioso duello» fra morte e vita, come

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dice la sequenza pasquale: l’immortalità (che competeva anche all’u-manità di Cristo in virtù della sua unione con la divinità) fu momen-taneamente vinta dalla morte, e tuttavia la vita per essenza non poté es-sere definitivamente superata dalla morte, sia pure assunta per miseri-cordia.

Come spiega la citazione giovannea fatta propria da Bonaventura,la massima umiliazione (l’innalzamento in croce) è anche la massimaesaltazione (l’innalzamento in gloria), che consente a Cristo di attiraretutto a sé e quindi di ricapitolare in sé anche gli opposti (immortalità emorte).

Insomma, il sillogismo di Cristo funziona secondo non la logicanaturale (quella aristotelica), ma secondo quella che Bonaventura chia-ma la «nostra logica», ossia la logica cristiana, che è la logica del-l’amore divino, e che, sebbene venga portata a compimento nellaresurrezione, viene però fondamentalmente manifestata nella Croce, os-sia nell’assunzione della negatività e della dissimiglianza.

Non capire queste cose doveva essere non solo mancanza di fede,ma di intelligenza, se (come nota Bonaventura) Cristo poté rimpro-verare i due discepoli di Emmaus:

«Stolti e tardi di cuore nel credere […]: era necessario che il Cristopatisse per entrare nella sua gloria» [Lc 24, 25; cf Hex D 0.1.26].

• Terza formulazione: Cristo è impassibile; ma ha patito per noi; dun-que, è nostro Signore e Dio.

La terza formulazione del sillogismo è tratta dal racconto del-l’apparizione di Gesù «in mezzo» (ossia, come medio) ai suoi discepolila domenica dopo Pasqua: Cristo entrando a porte chiuse dimostra di es-sere impassibile; mostrando a Tommaso le mani e il costato dimostra diaver patito; la conclusione che Gesù riesce ad ottenere 73 da Tommaso è:

73 Analogamente a ‘compello’, il verbo ‘extorqueo’ nel significato di “costringere qualcuno

ad ammettere qualche verità” aveva (oltre al senso negativo, rimasto nella nostra espressione“estorcere una confessione”), un senso logico (in tal senso, in una disputa si deve con argomenticostringere l’avversario ad ammettere ciò che precedentemente negava) e un senso teologico(così Gesù induce Tommaso a fare la sua professione di fede). Anche se, a causa dei limiti stori-ci, si ammetteva nei confronti di quanti erano fuorusciti dalla Chiesa cattolica – non quindi neiconfronti degli “infedeli”, nati cioè in altre religioni – la liceità di una costrizione anche fisicaperché vi rientrassero, tuttavia si conveniva che la costrizione all’assenso di fede dovesse avve-nire per mezzo di una certa evidenza: non quella della ragione naturale (che è insufficiente inmateria di fede), ma quella dei miracoli. Francesco non solo aveva prescritto ai suoi frati che

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‘SYLLOGISMUS CHRISTI’ 155

“Mio Signore e mio Dio!”. In questo consiste la logica paradossale dellafede, che deve prendere il posto della logica naturale, ma che non è ri-nuncia a capire, dato che la fede, completata dal dono d’intelligenza,acquista la “fermezza di un ragionamento certo” [UnMag, 1].

Il sillogismo di Cristo ci consente perciò di pensare meno inade-guatamente Dio opponendo a ogni attribuzione affermativa una attribu-zione negativa per dedurne una attribuzione superlativa, perché di lui«non si può pensare il migliore» [Itin 6.2; Hex 5.31].

IL SILLOGISMO DI CRISTO E LA DIALETTICA HEGELIANA

Confrontando il sillogismo bonaventuriano di Cristo con l’istanzaespressa da Hegel (alla fine di Fede e sapere) di un venerdì santo spe-culativo e di una dialettica della negazione, notiamo certamente l’ana-logia: in entrambi i casi abbiamo infatti una concezione triadica del pro-cesso, la cui conclusione, la resurrezione, è, dopo la croce, necessaria(«può e deve risuscitare»); ma notiamo anche due grandi differenze: perHegel il momento negativo (corrispondente alla “minore” del sillogi-smo) è speculativo e non più storico e, soprattutto, è necessarioanch’esso (infatti il puro concetto «deve designare» il dolore infinito),per necessità intrinseca ed assoluta. Così per Hegel la generazione eter-na del Figlio, la creazione del mondo, l’incarnazione e la passione sonosolo figure che sfumano l’una nell’altra finendo per coincidere 74.

Mentre la logica della croce in senso stretto, basandosi sulla libera e miseri-cordiosa assunzione della minore da parte di Dio avvenuta nella storia, rientranella sfera sovrannaturale della grazia e della sola teologia, invece il venerdì santospeculativo hegeliano non è più storico, non è libero, non è amoroso: similmentel’idea deve negarsi ed esteriorizzarsi nella natura, prima ancora che nel venerdìsanto speculativo; pertanto la creazione non è più un atto di libera autocomunica-zione divina, ma uno sviluppo necessario dell’idea. L’Aufhebung hegeliana è dun-que la secolarizzazione del concetto insito nell’atto di Cristo che, come Agnello diDio, “tollit” (nel triplice senso di “prende su di sé”, “solleva”, “toglie di mezzo”)il peccato del mondo.

andassero tra gl’“infedeli” di non far liti ma di testimoniare solo d’essere cristiani [cf Regolanon bollata 16.7-8; Regola bollata 12], ma lui stesso, quando fu davanti al Soldano e a suoidottori islamici non volle «disputare di fede usando la ragione, perché la fede è sopra la ragio-ne», «ma propose che gli si accendesse un rogo e vi sarebbe entrato lui con loro: non bisogna in-fatti mescolare tanta acqua di filosofia al vino della Scrittura, sì da trasformare il vino in acqua,ché sarebbe un pessimo miracolo»; viceversa, «la fede può essere provata mediante la Scritturae i miracoli» [Hex 19.14].

74 Cf Peter HENRICI, Panlogismo o Pancristismo?, in: Il Cristo dei filosofi, atti del XXXconvegno del Centro di Studi filosofici di Gallarate, Morcelliana, Brescia 1976, p. 118.

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INTRODUZIONE AL LESSICO DI SAN BONAVENTURA156

LA LOGICA DEL DONO

Come ha notato Orlando Todisco [Il dono dell’essere. Sentieri inesploratidel Medioevo francescano, EMP, Padova 2006], mentre alla base del nichilismomoderno e del totalitarismo c’è la “voluptas dominandi”, la volontà di potenza ap-portatrice di violenza, alla base invece della posizione bonaventuriana, francesca-na e cristiana ci sarebbe la preferenza per il servizio e il dono, ossia il“volontarismo”, inteso come non determinabilità della volontà da motivi oggettiviesterni. Non si tratta di una libertà dispotica e arbitraria, ma generosa e diffusiva, apartire da Dio, chiamato da Francesco “onnipotente e bon Signore”. In questa otti-ca del “primato del bene” nella logica effusiva (bonum diffusivum sui), la cono-scenza diviene “ri-conoscenza” e l’essere è scoperto come dono, in una verità cheè manifestazione. Pertanto, nonostante la somiglianza del vocabolario, il pensierobonaventuriano va differenziato dalla tradizione platonica: in Bonaventura il pla-tonismo è rovesciato: non arriviamo a realtà archetipali, di cui le creature sarebbe-ro versioni imperfette, bensì a un progetto d’amore da realizzare sempre meglionella storia. «Dio è amore, essenzialmente e causativamente», ossia in se stesso, inquanto Trinità, e in quanto produce in noi l’amore [cf Sent 1.17a ad db 5]: ma sel’amore di Dio per le creature è da sempre, questo non comporta che anche lecreature esistano da sempre: al contrario Dio comunica il suo amore come e quan-do vuole. La filosofia bonaventuriana è quella dell’eccedenza della bontà rispettoalla verità e all’eccedenza della volontà sull’intelletto: il bene, in quanto autodif-fusivo, caratterizza ogni causa efficiente, e, in quanto cercato, caratterizza ogni fi-ne; «quia bonus est Deus, sumus; in quantum sumus, boni sumus», così che «ipsavoluntas sit supremum in anima» [cf Sent 1.45.2.1; 21b.3.2 db 1-2; 3.27.1.3].

Per questo, la reductio bonaventuriana non è riduzionistica come l’Auf-hebung hegeliana. Le scienze e le realtà particolari e profane hanno per tale ricon-duzione un significato teologico positivo.

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‘HUMILITAS’ 157

‘HUMILITAS’ – ‘NIHILITAS’ 75

Nelle questioni disputate sulla perfezione secondo il Vangelo Bo-naventura affronta le virtù evangeliche, ossia povertà, castità e obbe-dienza, a cui viene francescanamente anteposta l’umiltà, espressa e de-finita da una ricca struttura linguistica e concettuale.

Nella prima questione, il concetto di umiltà è espresso da due temi linguisti-ci, il tema ‘humil-’ e il tema ‘vil-’: il primo comprende i lemmi ‘humilis’, ‘hu-militas’, ‘se humiliare’ e ‘humiliatio’, tradotti rispettivamente con “umile”,“umiltà”, “umiliare” e “umiliazione” (questi ultimi due vanno intesi in senso menoforte che nel linguaggio corrente); il secondo è composto dai lemmi ‘vilis’,‘vilitas’, ‘alicui/sibi vilescere’, ‘se vilificare’, ‘vilificatio’, tradotti rispettivamentecon “spregevole”, “spregevolezza”, “diventare spregevole”, “rendere spregevole”(o “spregiare”), “spregio” (questi ultimi due in senso abbastanza vicino a quello di“umiliare” e “umiliazione” nel linguaggio corrente). Per finire, tutta una serie dilocuzioni e di lemmi secondari consente a Bonaventura di sfumare ulteriormente isignificati sopra delineati: ‘se parvificare’ (ossia, diventare come un bambino),‘facere seipsum servum aliorum’, ‘abiectus’ e ‘abiectio’ (generalmente tradottocon ‘degradazione’), ‘se exinanire’ ed ‘exinanitio’ (la spogliazione di sé operatadal Verbo nell’incarnazione) e qualche altro.

Il tema ‘humil-’ esprime una realtà etica: humilis è chi possiede lavirtù dell’humilitas; se humiliare (a cui corrisponde l’humiliatio sui) si-gnifica invece diventare o rendersi umile. Il tema ‘vil-’ (quasi speculareper strutturazione sintattica e semantica rispetto al precedente) esprimeinvece una realtà ontologica sulla quale per un verso si fonda e nellaquale per un altro verso si esplica quella etica: vile è ciò che non valeniente, vilis è colui che avendo scoperto di non valere niente si com-porta di conseguenza, scegliendo per sé le cose vilia e considerandosi efacendosi considerare vilem; vilescere indica la svalutazione subita daqualcosa, riconosciuta manifestamente come spregevole e come taletrattata; vilificare indica invece l’atto voluto e cosciente (vilificatio) cheprovoca una tale svalutazione e il comportamento conseguente. In parti-

75 Cf Andrea DI MAIO, nota lessicale in: San BONAVENTURA, Opuscoli teologici / 3. La

perfezione evangelica. Questioni disputate (Opere di San Bonaventura, edizione latino-italiana,vol. V/3), Città Nuova, Roma, 2005, p. 38-39, n. 1. Sulla riformulazione scolastica dell’eticaaristotelica così da potervi includere l’umiltà (considerata vizio da Aristotele) come vera virtù cfRené-Antoine GAUTHIER, Magnanimité. L’idéal de la grandeur dans la philosophie païenne etdans la théologie chrétienne, Paris, Vrin 1951.

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colare, una persona può vilescere (divenire spregevole) a se stessa op-pure agli occhi degli altri: se questo processo di auto-svalutazione agliocchi propri e altrui è voluto, si avrà nel primo caso la vilificatio sui in-terior (ossia l’atto esternante l’umiltà, rivolto però all’interno della pro-pria mente), nel secondo caso quella exterior (rivolta cioè agli altri).

L’opposizione semantica fra questi due temi linguistici è fondamentale: Bo-naventura, presupponendo (in quanto da tutti riconosciuta necessaria per la vitacristiana) la virtù dell’umiltà, si domanda espressamente quale atto possa dall’e-sterno radicarla e all’esterno manifestarla: conformemente alla tradizione asceticae alla spiritualità francescana, tale atto esterno è per Bonaventura lo spregio di séinteriore (o meglio, rivolto al proprio interno) ed esteriore (o meglio, rivoltoall’esterno, agli occhi degli altri). Se però la virtù dell’umiltà si radica e si esternamediante lo spregio di sé, quest’ultimo è reso possibile dalla spregevolezza che èintrinseca alle cose e agli uomini in conseguenza della creazione e del peccato. Suquesta problematica si innesta l’opposizione semantica che lega ‘superbus’ (e de-rivati) e ‘humilis’ a ‘sublimis’ (e derivati o sinonimi) e ‘vilis’.

A tali relazioni semantiche è sottesa un’affascinante ontologia.L’umiltà è infatti un atteggiamento fondamentale dal punto di vista nonsolo morale, ma anche teoretico, in quanto è il riconoscimento della ra-dicale «nihilitas» (“nullità”) della creatura rispetto al Creatore: “tuttociò che è stato fatto promana da un solo Principio ed è stato prodotto dalnulla e di nulla” [PerfEv 1.1 co].

“Dal nulla e di nulla” è il doppio senso dell’espressione «de nihilo sunt pro-ducta» (il ‘de’ esprime tanto il complemento di origine che quello di materia).Probabilmente a ragione di questa ambivalenza, Bonaventura finisce per preferirequest’ultima all’espressione ‘creatio ex nihilo’ (comunemente usata dagli Scola-stici e da lui adoperata nel Commento alle Sentenze). L’espressione “creatio denihilo” è semanticamente più vicina all’espressione “creatio post nihilum” con laquale Bonaventura ha strenuamente sostenuto l’assurdità anche filosofica di unacreazione ab aeterno [cf Sent 2.1a.1.2 e Praec 2.28]. Se i suoi argomenti logi-co-matematici ci appaiono oggi come non concludenti (perché quelle che gli pare-vano contraddizioni sono solo i paradossi dei transfiniti), rimane suggestiva la suaidea che un mondo senza inizio né fine non salvaguarderebbe il senso della storiae la irripetibilità della persona umana [cf Hex 6-7].

In base ai due modi di essere (“di natura e di grazia”), Bonaventuradistingue due tipi di “nullità” (uno “per opposizione all’esser di natura”;l’altro “per opposizione all’essere morale [«moris»] e della grazia”), equindi due tipi di umiltà: una che può chiamarsi “umiltà della verità”,che è il riconoscimento della prima nullità (ossia il riconoscimento deipropri limiti); l’altra può invece chiamarsi “umiltà della severità”, chesorge dalla considerazione della colpa (propria o altrui), per cui l’uomosi giudica “spregevole interiormente, agli occhi propri” e degno di esse-re giudicato anche “esteriormente, agli occhi altrui” [PerfEv 1.1 co].

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‘HUMILITAS’ 159

Per il suo «esse et a Deo et de nihilo» [Regn 43] e il suo peccato, lacreatura umana ha quindi in sé tre aspetti: “un che di deiformità” inquanto fatta «a Deo» (e perciò va onorata, perché riluce in essa il vesti-gio, l’immagine e la similitudine di Dio); “un che di defettibilità”, inquanto fatta «de nihilo» (e perciò non va sovrastimata); e “un che dideformità”, a motivo del nulla che è il peccato (e perciò va ritenutaspregevole) [cf PerfEv 1.1 ad 5]. L’umanità creata per mezzo del Verboincreato pecca quando abbandona il Verbo ispirato ed è redenta me-diante il Verbo incarnato [cf Brev 4.1.4]: “senza di lui fu fatto il nulla,ossia il peccato” [In Ioannem, 1.14] 76.

Suggestiva è la rilettura bonaventuriana della teoria agostiniana del male“come privazione di bene”: poiché “l’unità è l’indivisione dell’ente, la verità l’in-divisione di ente ed essere, e la bontà, in aggiunta a questo, è l’indivisione di ente,essere e fare”; e poiché ci sono “una causa che soltanto fa”, cioè Dio (che fa tutto“da sé, secondo sé e per sé”, ossia con modo, specie ed ordine); una causa “chesoltanto è fatta”, cioè la creatura irragionevole; e una causa “che è fatta e fa”, cioèla creatura ragionevole; ebbene, la privazione di modo, specie ed ordine può darsinella creatura ragionevole come colpa, e in quella corporea come pena [Regn 43;cf Brev 3.10.2-8]. L’esperienza del male (riconoscibile solo in rapporto al Bene) èper Bonaventura è una via per giungere all’esistenza di Dio [cf Hex 5.30]. Permantenersi nel bene sarebbe bastato all’uomo osservare l’umiltà di verità, ma do-po il peccato, l’uomo, ignorando la propria condizione, “si oppone inconsapevol-mente alla propria salvezza”: perciò fu necessario che l’Uomo Dio si umiliassesulla Croce [Hex 1.24] e che la grazia dello Spirito e la cura dei sacramenti risa-nassero l’intelletto, l’affetto e l’effetto dell’umanità [cf Brev 5-6].

All’obiezione aristotelica secondo la quale l’umiltà sembra piuttosto un ec-cesso, e dunque un vizio, perché la virtù sta nel mezzo, si risponde che tale “mez-zo” va inteso non per la quantità posseduta, ma per l’allontanamento da ogni di-fetto ed eccesso che abbiano carattere di vizio [cf PerfEv 1.1 ad 3].

Di grande rilievo è l’idea che l’umiltà, essendo una virtù, abbia la sua causaesemplare in Dio [PerfEv 1.1 ad 11-12] (e che pertanto in maniera eminente Diostesso sia Umiltà, come del resto aveva già cantato Francesco nelle Laudi del DioAltissimo), anche se “limitatamente a ciò che di perfezione vi è in essa, ovvero ilnon oltrepassare i propri limiti”, mentre invece quanto attiene alla soggezione adaltri, non ha la propria causa esemplare in Dio in sé, ma nel Dio fattosi Uomo.

Bonaventura risponde anche all’obiezione che oggi chiameremmo dei doppipensieri. Se l’umiltà può essere pure accettata come virtù interiore, fa problema ilsuo esercizio esteriore (e quindi anche la vita minoritica stessa), perché sembre-rebbe un’ostentazione, ossia proprio il contrario dell’umiltà: ebbene, l’umiliazioneesteriore è segno non di un’umiltà già acquisita, ma della volontà di esercitarsi adacquisire l’umiltà [cf PerfEv 1.1 ad 13-14].

76 Cf AGOSTINO, Omelie su Giovanni, 1.13; ERIUGENA, Omelie sul Prologo di Giovanni.

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Finito di stampare nel mese di aprile del 2008dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri)

per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma

CARTE: Copertina: Patinata opaca Bravomatt 300 g/m2 plastificata opaca; Interno: Usomano bianco Selena 80 g/m2

ALLESTIMENTO: Legatura a filo di refe / brossura

Stampa realizzata in collaborazione con la Finsol S.r.l. su tecnologia Canon Image Press