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Crossed pp 352 19-10-2012 16:16 Pagina 3

I edizione: novembre 2012© 2011 Allyson Braithwaite Condie© 2012 Fazi Editore srlVia Isonzo 42, RomaTutti i diritti riservatiTitolo originale: CrossedTraduzione dall’inglese di Silvia Pellegrini

ISBN 978-88-7625-117-7

www.fazieditore.it

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Ally Condie

CrossedLA FUGA

traduzione di Silvia Pellegrini

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Per Ian che ha guardato in sue ha iniziato a scalare

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Non andartene docile in quella buona notte

Non andartene docile in quella buona notte,i vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;

infuria, infuria, contro il morire della luce.

Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta,perché dalle loro parole non diramarono fulmini

non se ne vanno docili in quella buona notte.

I probi, con l’ultima onda, gridando quanto splendidele loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,

s’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.

Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono,troppo tardi imparando d’averne afflitto il cammino,

non se ne vanno docili in quella buona notte.

Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosiche occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire

s’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.

E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.

Non andartene docile in quella buona notte.infuriati, infuriati contro il morire della luce1.

DYLAN THOMAS

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Varcando la diga estrema

Tramonto e stella della serae da una voce nitida mi sento chiamare

e possano i lamenti tacere sulla digaquando uscirò per mare

Ma una marea che paia addormentata,troppo alta per schiuma e fragore

accolga chi provenne dal profondo infinitoe torna adesso al suo focolare

Tramonto e campane del vespro,e poi l’oscurità!

E possano tacere i pianti e gli addiiquando salperò.

Perché se fuori dai nostri limiti di Tempo e Spaziodalla marea sarò portato

spero di vedere il mio Pilota in facciaquando la diga avrò varcato2.

ALFRED TENNYSON

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Uno

Ky

Sono in piedi in un fiume. È blu. Blu scuro. Riflette il co-lore del cielo serale.

Non mi muovo. Il fiume sì. Lo sento premere contro il miocorpo e sibilare attraverso l’erba che cresce lungo le sponde.«Esci di lì», dice l’Ufficiale. Ci punta addosso la luce dellatorcia, senza abbandonare la propria posizione a riva.

«Ci ha ordinato lei di calare il corpo in acqua», dico, frain-tendendo deliberatamente l’Ufficiale.

«Ma non vi ho detto di entrarci», dice l’Ufficiale. «La-scialo ed esci. Prendi anche il suo cappotto. A lui non ser-ve, ormai».

Lancio uno sguardo a Vick, il ragazzo che mi aiuta a tra-sportare il corpo. Vick non ha messo piede in acqua. Nonè di queste parti ma tutti, nel campo, hanno sentito le vociche circolano sui fiumi avvelenati delle Province Esterne.

«Va tutto bene», gli dico sottovoce. Gli Ufficiali e iFunzionari vogliono che temiamo questo fiume e tutti glialtri, affinché non ci azzardiamo a berne l’acqua o a ten-tarne la traversata.

«Non vuole prelevare un campione di tessuto?», gridoverso riva, all’Ufficiale, mentre Vick tentenna. L’acqua ge-lata mi arriva alle ginocchia e la testa del ragazzo morto

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penzola all’indietro, con gli occhi aperti rivolti al cielo. Imorti non vedono, ma io sì.

Vedo fin troppe cose. Da sempre. La mia mente crea in-solite connessioni tra parole e immagini, permettendomi dicogliere i dettagli di qualsiasi situazione. Compresa questa.Vick non è un codardo, ma il suo volto è velato di paura. Ilragazzo morto ha le braccia ciondoloni e i fili che pendonodalle sue maniche logore sfiorano l’acqua. Il biancore dellesue caviglie sottili e dei suoi piedi scalzi spicca tra le manidi Vick, che si sta pian piano avvicinando alla sponda. L’Uf-ficiale ci ha già fatto togliere gli scarponi al cadavere. Ades-so li regge per i lacci, facendoli oscillare avanti e indietro:un nero dondolio che scandisce il tempo. Con l’altra manomi punta la torcia dritta negli occhi.

Gli lancio il cappotto e, per afferrarlo, è costretto a la-sciar cadere gli scarponi. «Puoi lasciarlo», dico a Vick.«Non è pesante, ce la faccio da solo».

Ma Vick mi raggiunge in acqua. Adesso le gambe del ra-gazzo morto sono bagnate e la sua uniforme nera è zuppa.«Non è granché, come Banchetto Finale», urla Vick all’Uf-ficiale. C’è rabbia nella sua voce. «Il menù di ieri sera l’hascelto lui? Se è così, meritava di morire».

È da talmente tanto tempo che non mi permetto di pro-vare rabbia, che adesso non mi limito a provarla. Mi impa-sta la bocca e, mandandola giù, il suo gusto aspro e metal-lico mi dà la sensazione di rosicchiare una vaschetta d’allu-minio. Questo ragazzo è morto per un errore di valutazioneda parte degli Ufficiali. Non gli hanno dato abbastanza ac-qua e lui è morto prima del tempo.

Bisogna nascondere il cadavere, perché nessuno do-vrebbe morire in un campo di smistamento come questo.Dovremmo aspettare finché non ci mandano nei villaggi, dimodo che sia il Nemico a occuparsi di noi. Ma le cose nonvanno sempre così.

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La Società ci vuole terrorizzati dalla morte. Ma io non hopaura di morire. Temo solo che succeda nel modo sbagliato.

«È questa la fine che fanno le Aberrazioni», ci dice l’Uf-ficiale spazientito. Fa un passo nella nostra direzione. «Losapete. Non ci sono ultimi pasti. Né ultime parole. Lascia-telo e venite fuori».

È questa la fine che fanno le Aberrazioni. Abbassando losguardo mi accorgo che il fiume è diventato nero, come ilcielo. Ancora non mollo.

I Cittadini se ne vanno con un banchetto. Con un ultimodiscorso. E un campione di tessuti che verrà conservato,garantendo loro la possibilità di essere immortali.

Per quanto riguarda il cibo e il campione, non posso fa-re nulla, ma le parole non mi mancano. Non smettono maidi scorrermi in testa, assieme alle immagini e alle cifre.

Perciò ne bisbiglio alcune che mi sembrano adatte al fiu-me e alla morte:

«Benché dal perimetro di spazio e tempol’onda mi porterà lontano,spero di veder in volto il mio Pilotaquando traversata avrò la duna sommersa».

Vick mi guarda, stupito.«Lasciamolo», gli dico, ed entrambi molliamo la presa

nel medesimo istante.

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Due

Cassia

La terra è diventata parte di me. L’acqua bollente del la-vandino scorre sulle mie mani, arrossandole e facendomipensare a Ky. Adesso somigliano un po’ alle sue.

Ovviamente, quasi tutto mi fa pensare a Ky.Sfrego un’ultima volta sulle dita un pezzo di sapone che

ha il colore di questo mese, novembre. In un certo senso,mi piace la terra. Penetra in ogni piega della mia pelle, di-segnando una mappa sul dorso delle mie mani. Un giorno,stordita dalla stanchezza, ho osservato quella cartina epi-dermica immaginando che potesse condurmi a Ky.

Ma Ky non c’è.Tutto questo (la Provincia lontana, il campo di lavoro, le

mani sporche, il corpo stanco, la mente dolente) è dovutoal fatto che Ky non c’è e io voglio ritrovarlo. Ed è stranocome l’assenza si trasformi in presenza. In una mancanzatalmente completa che, se dovesse venir meno, mi guarde-rei alle spalle, sconvolta, per scoprire uno spazio che, giàprivo di lui, si è ormai svuotato del tutto.

Mi allontano dal lavandino e osservo la nostra baracca.Dalle alte finestrelle penetra solo il buio della sera. È l’ul-

tima notte prima del trasferimento; il prossimo contingentea cui verrò assegnata sarà l’ultimo. Dopodiché, mi hanno

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detto, andrò a Central, la Città più grande della Società, perottenere il mio impiego definitivo in uno dei centri di cata-logazione del posto. Un impiego vero e proprio, non comequesto scavare nel fango, questo duro lavoro di braccia. So-no stata in molti campi di lavoro, ma tutti nella Provincia diTana. Non sono più vicina a Ky di quanto fossi all’inizio.

Se voglio scappare per andarlo a cercare devo sbrigarmi.Indie, una delle ragazze con cui condivido la baracca, mi

scansa con una spinta per raggiungere il lavandino. «Ci hailasciato un po’ d’acqua calda?», mi chiede.

«Sì», rispondo. La sento brontolare sottovoce mentre apreil rubinetto e prende la saponetta. Dietro di lei, alcune ragaz-ze aspettano in fila, altre siedono in fervente attesa sui bordidei letti a castello disposti lungo il perimetro della stanza.

È il settimo giorno, quello in cui arriva la corrispondenza.Con molta attenzione, slego la piccola sacca che tengo

appesa alla cintura. Tutte ne abbiamo una, e dobbiamoportarla sempre con noi. La mia è piena di lettere: comemolte altre ragazze, le conservo finché non diventano illeg-gibili. I foglietti sono simili ai delicati petali delle neoroseche Xander mi ha regalato quando ho lasciato il Distretto,e che ho a loro volta conservato.

Nell’attesa le rileggo. Le altre ragazze fanno lo stesso.I fogli ingialliscono lungo i bordi e si deteriorano rapi-

damente: le parole sono pensate per essere consumate egettate via. Nel suo ultimo messaggio, Bram mi raccontadel duro lavoro nei campi e di come sia diventato uno stu-dente modello che non fa mai tardi a lezione; la cosa mi fasorridere perché so che si tratta di un’esagerazione, se nonaltro per quanto riguarda l’ultimo punto. Ma il suo mes-saggio mi fa anche spuntare le lacrime: racconta di aver vi-sto la microscheda del Nonno, quella consegnataci, nellasua scatolina d’oro, durante il Banchetto Finale.

Prima lo storico legge un riassunto della vita del Nonno e

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User
Stamp

poi, alla fine, c’è una lista dei suoi ricordi preferiti, scriveBram. Aveva un ricordo per ognuno di noi. Di me, preferivaquello di quando ho detto la mia prima parola: «Ancora». Dite, quello che chiamava “il giorno del giardino rosso”.

Mi sono sempre ripromessa di riguardare la microschedadel Nonno (visto che il giorno del Banchetto non ero statamolto attenta), ma non l’ho mai fatto e adesso me ne pento.Ma ciò che più mi dispiace è il fatto di non ricordare il gior-no del giardino rosso. Ricordo tante giornate passate a chiac-chierare col Nonno, seduti su una panchina in mezzo ai boc-cioli rossi in primavera, a neorose rosse in estate e a foglierosse in autunno. Probabilmente è a quelle che si riferiva.Forse Bram ha sbagliato a scrivere: il Nonno ricordava i gior-ni del giardino rosso, al plurale. I giorni primaverili, estivi eautunnali trascorsi seduti a chiacchierare.

Il messaggio dei miei genitori ha toni d’esultanza: hannoappena saputo che il mio prossimo campo di lavoro sareb-be stato l’ultimo.

Non posso biasimarli per la loro gioia. Hanno credutonell’amore, abbastanza da darmi la possibilità di cercareKy, ma sono contenti che la ricerca sia finita. Li ammiro peravermi lasciato provare. È molto più di quanto farebbe lamaggior parte dei genitori.

Riordino i foglietti, mettendoli uno sopra all’altro, e mitornano in mente le carte da gioco, e mi torna in mente Ky.E se con questo trasferimento riuscissi a raggiungerlo? Ose mi nascondessi nell’aeronave e mi lanciassi dal cielo co-me una pietra, nelle Province Esterne?

Se lo facessi, cosa penserebbe rivedendomi dopo tantotempo? Mi riconoscerebbe? So di essere cambiata nell’a-spetto. Non si tratta soltanto delle mani. Nonostante le ab-bondanti razioni di cibo, infatti, tutto questo lavoro mi hafatto dimagrire. Ho le occhiaie, perché non riesco a dormi-re, anche se qui la Società non controlla i nostri sogni. Il

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fatto che non si curino di noi mi preoccupa ma, allo stessotempo, godo della libertà di dormire senza sensori. Resto aletto, sveglia, pensando a parole vecchie e nuove, a un ba-cio rubato alla Società, in un momento in cui non vigilava.Mi sforzo di dormire, ci provo davvero, perché in sognoriesco a vedere meglio Ky.

Vedere qualcuno è possibile esclusivamente su conces-sione della Società. Sia dal vivo, che tramite portale o mi-croscheda. Un tempo, la Società permetteva ai cittadini ditenere delle foto dei propri cari. In questo modo, si potevaperlomeno ricordare l’aspetto di una persona morta o lon-tana. Ma è da anni che le foto sono state messe al bando. E,di recente, la Società ha anche abolito la consuetudine didare ai neo-Abbinati, dopo il loro primo incontro dal vivo,un’istantanea del partner. L’ho scoperto leggendo uno deimessaggi che non ho conservato, spedito dal DipartimentoAbbinamenti a tutti coloro che avevano deciso di essereAbbinati. Ne ricordo un frammento: «Le procedure di Ab-binamento sono state snellite, per massimizzare l’efficienza eincrementare i risultati ottimali».

Mi chiedo se non siano stati commessi altri errori.Chiudo di nuovo gli occhi, sperando in una fugace ap-

parizione del volto di Ky. Ma ultimamente ogni immagineche rievoco mi sembra incompleta, indistinta. Mi doman-do dove si trovi lui adesso, cosa stia passando, e se sia riu-scito a conservare il pezzo di seta verde che gli ho dato pri-ma che se ne andasse.

Se sia riuscito a conservare il ricordo di me.Tiro fuori dalla sacca un altro foglio e lo dispiego con at-

tenzione sul letto. Insieme al biglietto è venuto fuori ancheun petalo di neorosa: al tatto somiglia alla carta e, come lacarta, ha i bordi ingialliti.

La ragazza assegnata alla branda accanto si accorge di ciòche sto facendo, perciò riscendo su quella inferiore. Tutte le

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ragazze vengono a stringersi attorno a me, come fanno ognivolta che tiro fuori questo pezzo di carta. Conservarlo nonpuò causarmi problemi, perché non si tratta di merce ille-gale o di contrabbando. È stato stampato da un portale re-golamentare. Ma qui possiamo stampare solo i messaggi equindi questo scampolo d’arte si è trasformato in un tesoro.

«Penso che potrebbe essere l’ultima volta che lo guar-diamo», dico. «Si sta sgretolando».

«Non mi è proprio venuto in mente di portare uno deiCento Dipinti», dice Lin, osservandolo.

«Neanche a me», replico. «Mi è stato regalato».Ci ha pensato Xander, nel Distretto, il giorno in cui ci

siamo detti addio. È il dipinto numero diciannove, Abissodel Colorado di Thomas Moran, su cui una volta, a scuola,feci una relazione. Allora dissi che era il mio quadro prefe-rito e dopo tanti anni Xander, evidentemente, se ne ricor-dava ancora. Quell’immagine mi procurava una vaga sen-sazione di terrore ed eccitazione: un cielo spettacolare, unpaesaggio magnifico e accidentato, pieno di picchi e bara-tri. L’immensità di quel luogo mi spaventava. Allo stessotempo, però, mi dispiaceva pensare che non avrei mai vistonulla di simile dal vivo: alberi verdi abbarbicati a rocce ros-se, nuvole azzurre e grigie fugacemente sospese, che diffon-devano cupi bagliori dorati.

Forse, parlando del quadro, la mia voce aveva lasciatotrapelare questo struggimento, Xander se ne era accortoe lo aveva tenuto a mente. Xander continua a giocare d’a-stuzia. Questo quadro è una delle carte che aveva a di-sposizione. Adesso, ogni volta che guardo il dipinto o toc-co un petalo di neorosa ripenso a quanto lo sentivo vici-no, a quante cose sapeva di me. E soffro per ciò a cui hodovuto rinunciare.

Avevo ragione a dire che sarebbe stata l’ultima volta cheguardavamo il dipinto. Quando lo prendo, si disintegra. I

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nostri sospiri, emessi all’unisono, fanno volare i frammentidi carta.

«Possiamo sempre vederlo sul portale», dico loro. L’uni-co portale del campo si trova nell’edificio centrale dove,imponente, ronza in perenne ascolto.

«No», dice Indie. «È troppo tardi».È vero. Dopo cena non ci è permesso di uscire dalla ba-

racca. «Allora domattina, a colazione», propongo.Indie fa un gesto sprezzante e si volta dall’altra parte. Ha

ragione. Non so perché, ma non sarebbe la stessa cosa. Al-l’inizio, pensavo che a rendere speciale quell’immagine fos-se il fatto di possederla, poi però ho capito che non si trat-tava di questo. Era, piuttosto, la possibilità di guardarequalcosa senza essere osservati, senza sentirsi dire comeguardare. È stato questo il dono del dipinto.

Non so come mai non andassi sempre in giro con quadrie poesie, prima di venire qui. Tutta quella carta nei porta-li, tutto quel lusso. Innumerevoli saggi di bellezza accura-tamente selezionati erano a nostra disposizione, eppurenon li degnavamo dell’attenzione che meritavano. Comeavevo fatto a non notare che il colore della vegetazione checosteggiava il canyon era talmente vivido da dare quasil’impressione di sentire sulle dita la levigatezza delle foglie,la loro viscosità, simile a quella di ali di farfalla che si schiu-dono per la prima volta?

Con un unico, rapido gesto, Indie spazza via dal mio let-to i pezzetti di carta. Lo fa senza neppure guardare. E cosìcapisco che la perdita del dipinto l’ha davvero toccata, per-ché sapeva esattamente dove si trovava ogni frammento.

Li raccolgo per portarli all’inceneritore, con gli occhi ve-lati di lacrime.

Non fa niente, mi dico. Ti restano altre cose, ben più con-crete, nascoste tra fogli e petali. Un portapillole. La scatolinad’argento del Banchetto d’Abbinamento.

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La bussola di Ky e le pillole blu che ti ha dato Xander.Di solito, non tengo la bussola e le pillole nella sacca che

mi porto sempre dietro. Sono troppo preziose. Non so segli Ufficiali frughino tra le mie cose, ma so per certo che lemie compagne lo fanno.

Perciò, appena arrivo in un nuovo campo, tiro fuori bus-sola e pillole e le sotterro in una buca profonda, andando-le a riprendere solo alla fine. Oltre a essere oggetti illegali,sono anche regali inestimabili: la bussola, lucente e dorata,può indicarmi la direzione da prendere. E la Società hasempre detto che, a patto di avere acqua a sufficienza, unapillola blu può tenerci in vita per un paio di giorni. Xanderne ha rubate decine per me: in caso di necessità, potrei so-pravvivere a lungo. Messi assieme, i loro regali costituisco-no un perfetto kit di sopravvivenza.

Se solo riuscissi a raggiungere le Province Esterne perpoterle usare.

Nelle notti come questa (quelle che precedono un tra-sferimento) devo trovare il modo di andarle a riprendere,augurandomi di ricordare il punto in cui le ho sotterrate.Stasera sono stata l’ultima a rientrare, con le mani sporchedi una terra scura che ricopre un’altra parte del campo. Perquesto mi sono affrettata a lavarmele, pregando che losguardo acuto di Indie, in fila dietro di me, non cogliessenulla. Prego che dalla sacca non cadano granelli di terra eche nessuno senta il tintinnio armonioso, il suono della spe-ranza, prodotto dalla scatolina d’argento e dalla bussolache sbattono tra loro e contro il portapillole.

In questi campi cerco di evitare che le altre operaie sap-piano che sono una Cittadina. Nonostante la Società man-tenga il riserbo sullo status dei suoi membri, mi è capitatodi sentire alcune ragazze che dicevano di aver dovuto resti-tuire i loro portapillole. Ciò significa che queste ragazze,per qualche ragione (errori propri o dei loro genitori), han-

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no perso la Cittadinanza. Diventando Aberrazioni, propriocome Ky.

Solo una categoria è peggiore delle Aberrazioni: le Ano-malie. Ma ormai, di fatto, non se ne sente più parlare. Sem-bra quasi che siano sparite dalla faccia della terra. E ho ideache dopo la loro scomparsa siano state rimpiazzate dalleAberrazioni, almeno nella coscienza collettiva della Società.

Nella provincia di Oria, nessuno parlava delle Regole diRiclassificazione, perciò vivevo nel timore di causare la Ri-classificazione della mia famiglia. Ma poi, grazie alla storiadi Ky e alle conversazioni clandestine di queste ragazze, hocapito come stanno le cose.

La regola è questa: se un genitore viene Riclassificato, lasua famiglia subirà la stessa sorte.

Ma se un figlio viene Riclassificato, la famiglia resta im-mune. Solo sui figli grava il peso dell’Infrazione.

Ky fu Riclassificato a causa di suo padre. In seguito, do-po la morte del figlio dei Markham, venne portato nell’O-ria. Solo ora mi rendo conto dell’eccezionalità del caso diKy, che poté lasciare le Province Esterne perché un altroragazzo era stato ucciso, e del fatto che probabilmente Pa-trick e Aida erano personaggi ancora più influenti di quan-to chiunque di noi potesse immaginare. Mi chiedo che fineabbiano fatto. Il solo pensiero mi raggela.

In ogni caso, ricordo a me stessa, partire alla ricerca diKy non distruggerà la mia famiglia. Posso provocare la miaRiclassificazione, non la loro.

Mi aggrappo a questo pensiero: saranno al sicuro, loro eXander, indipendentemente da dove sarò costretta a spin-germi.

«Corrispondenza», dice l’Ufficiale appena entrata nellastanza. È quella con la voce dura e lo sguardo gentile. Ci faun cenno col capo e inizia a leggere i nomi. «Mira Waring».

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Mira fa un passo avanti. Noialtre restiamo a guardare econtiamo. Ha ricevuto tre messaggi, come al solito. Per ab-breviare i tempi, tutti i messaggi vengono stampati e lettidall’Ufficiale incaricato prima che ci vengano consegnati,evitando che si crei la fila davanti al portale.

Per Indie non è arrivato niente. E per me c’è solo unmessaggio, una lettera collettiva da parte dei miei genitorie di Bram. Da parte di Xander nulla. Non aveva mai salta-to una settimana, prima d’ora.

Cos’è successo? Stringo la mano attorno alla sacca e ascol-to il fruscio dei foglietti che si accartocciano al suo interno.

«Cassia», dice l’Ufficiale. «Vieni con me nell’edificiocentrale, per cortesia. C’è una comunicazione per te».

Le altre ragazze, sorprese, iniziano a fissarmi.E a quel punto vengo percorsa da un brivido. So cosa mi

aspetta. È la mia Funzionaria che vuole fare un controllovia portale.

Il suo viso lo ricordo perfettamente, in ogni singolo, gla-ciale lineamento.

Non voglio andare.«Cassia», dice l’Ufficiale. Mi alzo e la seguo, senza stac-

care lo sguardo dalle mie compagne e dalla baracca che,d’improvviso, mi sembra calda e accogliente. L’Ufficiale miprecede lungo il sentiero che conduce all’edificio centrale,dove entra scortandomi fino al portale. Attraverso la salaaccompagnata dal suo ronzio.

Prima di alzare lo sguardo sul portale, per un attimo re-sto a occhi bassi. Controlla la tua espressione, i tuoi gesti,il tuo sguardo. Guardali in modo che loro non possano ve-dere dentro di te.

«Cassia», dice una voce che non mi aspettavo, ma checonosco.

Quando alzo lo sguardo, proprio non riesco a credere aimiei occhi.

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È qui.Il portale è spento e lui è di fronte a me, in carne e ossa.È qui.Sano e salvo.Qui.Non è solo (dietro di lui c’è un Funzionario), ma è co-

munque…Qui.Alzo le mani arrossate, segnate come mappe, a coprirmi

gli occhi perché la visione è quasi insostenibile.«Xander».

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Tre

Ky

È passato un mese e mezzo da quando abbiamo lasciatoin acqua quel ragazzo. Adesso sono steso in una buca, sot-to una pioggia di fuoco.

È una canzone, mi dico, come faccio sempre. Il bassodell’artiglieria pesante, il soprano delle grida e la mia pau-ra nel ruolo di tenore. Fa tutto parte della musica.

Non cercare di scappare. Dico a me stesso e agli altri, mai fantocci appena reclutati non danno mai retta. Credono aciò che la Società ha detto loro mentre li portava qui: «Fa-te il vostro dovere nei villaggi e vi riporteremo a casa entrosei mesi. Vi ridaremo la Cittadinanza».

Nessuno dura sei mesi.Quando uscirò dalla buca mi troverò davanti edifici an-

neriti e arbusti di salvia del deserto ridotti in cenere. Corpicarbonizzati, disseminati sul terreno arancione e sabbioso.

Poi la canzone s’interrompe e impreco. Le aeronavi sistanno spostando. So qual è il loro bersaglio.

Questa mattina, all’alba, ho sentito alle mie spalle un ru-more di scarponi che marciavano sulla brina. Non mi sonogirato a vedere chi mi stesse seguendo verso la periferia delvillaggio.

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«Che stai facendo?», mi ha chiesto qualcuno. Non ho ri-conosciuto la sua voce, ma questo non significa niente. Dalcampo spediscono di continuo nuove reclute. Qui nei vil-laggi crepiamo sempre più in fretta.

Ancor prima che mi caricassero su quel treno, nell’Oria,sapevo che non ci avrebbero mai destinati al combattimen-to. Hanno già tutta la tecnologia e gli Ufficiali addestratinecessari a quello scopo. Uomini che non sono né Aberra-zioni né Anomalie.

Ciò che serve alla Società – ciò che vede in noi – sonocorpi. Fantocci con cui popolare i villaggi. Ci spostano. Cispostano ovunque abbiano bisogno di attirare il fuoco delNemico. Vogliono che il Nemico pensi che le ProvinceEsterne siano ancora abitate e vitali, anche se le uniche per-sone che ho visto qui fuori erano fantocci come me. Para-cadutati con il minimo di equipaggiamento indispensabilea sopravvivere per essere uccisi dal Nemico.

Nessuno torna a casa.Tranne me. Io ci sono tornato. Le Province Esterne so-

no il luogo che un tempo chiamavo casa.«La neve», rispondo al nuovo fantoccio. «Sto guardan-

do la neve».«Qui mica nevica», ha replicato in tono beffardo.Non ho detto nulla. Ho continuato a osservare la som-

mità dell’altopiano più vicino. È uno spettacolo che meri-ta davvero di esser visto, quello della neve bianca sulle roc-ce rosse. Sciogliendosi, diventa trasparente come il cristal-lo, percorsa da riflessi iridescenti. Mi è capitato di andarein vetta dopo una nevicata. Erano magnifici gli alberi sche-letriti dall’inverno ricoperti da quella coltre bianca.

Ho sentito che si voltava e tornava indietro di corsa, ver-so l’accampamento. «Guardate in cima all’altopiano!», ur-lava, e gli altri, risvegliandosi, gli rispondevano con gridaemozionate.

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«Stiamo andando a prendere la neve, Ky!», mi ha urlatoqualcuno poco dopo. «Vieni».

«Non farete in tempo», gli ho detto. «Si scioglie troppoin fretta».

Ma nessuno mi ha dato ascolto. I Funzionari ci fanno pa-tire la sete e la poca acqua che abbiamo sa di borraccia. Ilfiume più vicino ormai è davvero avvelenato ed è raro chepiova.

Un sorso d’acqua fresca. Capisco perfettamente il desi-derio che li ha spinti ad andare.

«Sei sicuro?», si è girato a gridarmi uno di loro e io hofatto di sì con la testa.

«Tu vieni, Vick?», ha strillato qualcun altro.Vick si è alzato, si è parato i duri occhi azzurri con una

mano e ha sputato a terra, sull’erba ghiacciata. «No», ha ri-sposto. «Ky ha detto che si scioglierà prima che possiamoraggiungerla. E in più dobbiamo scavare delle fosse».

«Non ci fai fare altro che scavare», si è lamentato uno deifantocci. «Dobbiamo recitare la parte dei contadini. Così di-ce la Società». Aveva ragione. Vogliono che piantiamo col-ture invernali, usando zappe e sementi che si trovano nei ca-panni del villaggio, lasciando i cadaveri insepolti. Ho senti-to dei fantocci dire che in altri villaggi i morti non vengonosotterrati. Le carcasse vengono abbandonate in balia dellaSocietà, del Nemico o di qualunque animale interessato.

Ma Vick e io li seppelliamo. Abbiamo iniziato con quelragazzo, nel fiume, e finora nessuno ci ha fermati.

Vick è scoppiato in una fredda risata. In assenza di Fun-zionari e Ufficiali, è diventato una sorta di leader ufficiosoe a volte gli altri si dimenticano che non ha alcun poterereale nella Società. Dimenticano che anche lui è un’Aber-razione. «Non vi faccio fare niente. E vale lo stesso per Ky.Sapete bene chi è che comanda davvero e se volete tentarela sorte andando lassù, non sarò certo io a impedirvelo».

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Mentre il sole saliva, loro facevano altrettanto. Per unpo’, sono rimasto a guardarli. Le uniformi nere e la distan-za tra il villaggio e l’altopiano li facevano sembrare una co-lonna di formiche impegnata a scalare una collinetta. Poimi sono alzato in piedi e sono tornato al lavoro, nel cimite-ro, scavando fosse per chi era rimasto ucciso nell’attaccodella notte precedente.

Vick e altri ragazzi lavoravano sodo al mio fianco. Dove-vamo scavare sette fosse. Non troppe, considerata la vio-lenza dell’attacco e il fatto che eravamo quasi in cento de-stinati a cadere.

Davo la schiena agli scalatori, per non dover assistere al-l’arrivo in vetta con la neve sciolta. La loro era solo unaperdita di tempo.

Anche pensare a chi non c’è più è una perdita di tempo.E, a giudicare da come vanno le cose da queste parti, nonho tempo da perdere.

Eppure non posso farne a meno.La prima notte che passai nel Distretto di Mapletree,

guardai fuori dalla finestra della mia nuova camera da let-to scoprendo che in quel luogo non c’era nulla di familia-re, nulla che mi ricordasse casa mia. Quindi mi ritrassi. Poientrò Aida, abbastanza simile a mia madre da permettermidi riprendere fiato.

Mi porse la bussola che teneva in mano. «I nostri geni-tori avevano un solo manufatto e due figlie. Perciò, contua madre, decidemmo di tenerlo a turno. Ma poi lei partì».Mi prese una mano e vi posò la bussola. «Condividevamoun manufatto e adesso condividiamo un figlio. La bussolati appartiene».

«Non posso accettarla», le dissi. «Sono un’Aberrazione.Non ci è permesso avere oggetti del genere».

«Non importa», disse Aida. «Ti appartiene».In seguito l’ho data a Cassia che, in cambio, mi ha regalato

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il ritaglio di seta verde. Sapevo che prima o poi me lo avreb-bero portato via. Sapevo che non sarei mai riuscito a conser-varlo. Per questo, l’ultima volta che siamo andati sulla Colli-na, durante la discesa mi sono fermato e l’ho annodato al ra-mo di un albero. In fretta, per evitare che lei se ne accorgesse.

Mi piace pensare che è lassù, in cima alla Collina, espo-sto a vento e pioggia.

Perché, in fin dei conti, non si può sempre scegliere co-sa conservare. Possiamo solo scegliere cosa lasciare.

Cassia.Appena ho visto la neve ho pensato a lei. Ho pensato:

Potremmo salire lassù. Non importa se la neve si scioglie. Po-tremmo sederci e scrivere parole sulla sabbia ancora umida.Potremmo, se tu ci fossi ancora.

Ma in realtà, mi sono ricordato, non sei stata tu ad an-dartene. Sono stato io.

Sul ciglio della fossa vedo spuntare uno scarpone. Capi-sco a chi appartiene dalle tacche incise sul bordo della suo-la: un metodo usato da alcuni fantocci per tenere il contodei giorni a cui sono sopravvissuti. Nessun altro ha altret-tante tacche, altrettanti giorni alle spalle. «Non sei tu a es-sere morto», dice Vick.

«No», dico, tirandomi in piedi con una spinta. Sputo lapolvere e prendo la pala.

Vick si mette a scavare al mio fianco. Evitiamo entrambidi parlare dei ragazzi che non potremo seppellire. Quelliche sono andati a prendere l’acqua.

Dal villaggio, sento le voci di alcuni fantocci che parla-no tra loro e con noi. Qui ci sono altri tre morti, gridano, epoi, alzando lo sguardo, ammutoliscono.

Nessuno dei fantocci saliti sull’altopiano tornerà indie-tro. Mi trovo a sperare l’impossibile, che prima del bom-bardamento siano almeno riusciti a dissetarsi. Che sianomorti con la bocca piena di neve pulita e fresca.

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