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www.historianet.it I volti della storia n. 248 Paolo Sidoni - Paolo Zanetov Pentiti ISBN 9788854153219 maggio 2013 pagine 480 euro 9,90 Dalla Banda della Magliana alle Brigate Rosse Il più completo archivio sui pentiti italiani Storia segreta dei criminali diventati collaboratori di giustizia Patrizio Peci Felice Maniero Saverio Morabito Angelo Epaminonda Maurizio Abbatino e molti altri Il pentitismo è diventato, nel tempo, un vero e proprio fenomeno sociale. In Italia, in particolare, la figura del collaboratore di giustizia ha generato polemi- che e controversie. Se da un lato, infatti, i pentiti hanno permesso di smantellare organizzazioni criminali e famiglie mafiose, dall’altro sono stati, spesso, protago- nisti di veri e propri depistaggi. Accusati di essere infami, traditori e opportunisti dai loro ex sodali. Esposti alle critiche feroci dell’opinione pubblica per via del trat- tamento di favore ricevuto e per l’utilizzo indiscriminato delle loro confessioni. Sono proprio loro, i pentiti, i protagonisti di questo libro: da quelli che hanno con- tribuito alla dolorosa stagione del terrorismo nero e rosso ai mafiosi “redenti”. Paolo Sidoni e Paolo Zanetov ci regalano un saggio accuratissimo che, con la potenza narrativa di un grande romanzo contemporaneo, ci mostra una realtà poco nota, e i meccanismi giudiziari e psicologici che hanno portato a parlare al- cuni dei criminali più feroci del nostro tempo. LEGGI LE PRIME PAGINE DEL LIBRO

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Page 1: LEGGI LE PRIME PAGINE DEL LIBRO · chi ne contestava politicamente la legittimità, come nel caso dei ter-roristi, e da quanti intendevano approfittare della sua debolezza per affermare

www.historianet.it

I volti della storia n. 248

Paolo Sidoni - Paolo Zanetov

PentitiISBN 9788854153219

maggio 2013

pagine 480

euro 9,90

Dalla Banda della Magliana alle Brigate Rosse

Il più completo archivio sui pentiti italiani

Storia segreta dei criminali diventati collaboratori di giustizia

Patrizio Peci

Felice Maniero

Saverio Morabito

Angelo Epaminonda

Maurizio Abbatino

e molti altri

Il pentitismo è diventato, nel tempo, un vero e proprio fenomeno sociale.

In Italia, in particolare, la figura del collaboratore di giustizia ha generato polemi-

che e controversie. Se da un lato, infatti, i pentiti hanno permesso di smantellare

organizzazioni criminali e famiglie mafiose, dall’altro sono stati, spesso, protago-

nisti di veri e propri depistaggi. Accusati di essere infami, traditori e opportunisti

dai loro ex sodali. Esposti alle critiche feroci dell’opinione pubblica per via del trat-

tamento di favore ricevuto e per l’utilizzo indiscriminato delle loro confessioni.

Sono proprio loro, i pentiti, i protagonisti di questo libro: da quelli che hanno con-

tribuito alla dolorosa stagione del terrorismo nero e rosso ai mafiosi “redenti”.

Paolo Sidoni e Paolo Zanetov ci regalano un saggio accuratissimo che, con la

potenza narrativa di un grande romanzo contemporaneo, ci mostra una realtà

poco nota, e i meccanismi giudiziari e psicologici che hanno portato a parlare al-

cuni dei criminali più feroci del nostro tempo.

LEGGI LE PRIME PAGINE DEL LIBRO

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Newton Compton editori

Paolo Sidoni - Paolo Zanetov

PentitiCome si viveva davvero mille anni fa?

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Introduzione

Tecnicamente sono chiamati “collaboratori di giustizia”. Ma i ter-mini più usati per definire gli appartenenti a un sodalizio criminale che decidono di tradire i propri compagni sono: codardi, opportu-nisti, infami. Sulla base di questi non certo lusinghieri giudizi sulla loro tempra morale, nell’opinione pubblica prevale una sensazione di profonda iniquità, che concede ai pentiti, responsabili di gravi delitti, impunità e condizioni di privilegio.

Se tuttavia resta salda nella percezione della morale comune l’in-tollerabilità degli enormi benefici concessi a pluriomicidi pentiti, nel-la lotta al crimine le forze dell’ordine non sono in grado di prescin-dere dal loro apporto, essenziale per scoprire gli autori dei reati più gravi, impedirne la reiterazione e smantellare le grandi associazioni criminali. Lo Stato è dunque consapevole che, per raggiungere questi fini, diventa necessario ottenere informazioni dall’interno del mondo della malvivenza, e che «la prova non può essere fornita da gentiluo-mini, ma da individui della stessa risma se non peggiori», come già recitava una sentenza dei primi del Novecento.

Il fenomeno quindi non è nuovo. Da sempre e ovunque le forze di polizia hanno utilizzato la delazione per risolvere i casi delittuosi sui quali stavano investigando. Al contrario della figura sempre in ombra del confidente, ciò che ha invece rappresentato una novità e un vero e proprio mutamento culturale è stata l’assunzione pubblica delle pro-prie responsabilità da parte dei collaboratori, spesso di primissimo piano, che l’approvazione di specifiche leggi hanno reso personaggi da prima pagina. A volte con effetti devastanti anche per la credibilità stessa della Giustizia.

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8 pentiti

Perché una persona che ha intrapreso la strada dell’illegalità decide di collaborare? Il termine “pentimento” rimanda inevitabilmente ad aspetti religiosi. Tuttavia a parte il caso, probabilmente unico, del mafioso Leonardo Vitale, la decisione del pentimento è dettata ovvia-mente da mere considerazioni di natura utilitaristica: quando si con-fessano i propri e gli altrui delitti si ottengono protezione per sé e la propria famiglia, vantaggi economici e, soprattutto, il riottenimento della libertà. Non a caso la decisione di collaborare matura quando si finisce in carcere, quando l’unica prospettiva rimasta è quella di tra-scorrere segregati lunghi anni della propria vita. Alla spinta opportu-nistica si sommano a volte altre dinamiche. A dire il vero poco nobili. Può essere la vendetta, ma anche una congenita patologia mentale. Per questo ultimo aspetto i casi di Angelo Izzo e Giovanni Pandico sono eloquenti.

Inizialmente intendevamo astenerci dall’esprimere il nostro parere riguardo l’effettiva sincerità dei casi di pentimento passati in rasse-gna, in modo da lasciare ampia facoltà di giudizio al lettore. Tuttavia alcune vicende sono così anomale e inquietanti che non è stato possi-bile, e riteniamo neanche giusto, trattarle asetticamente.

Ciò detto appare indispensabile esporre alcune considerazioni di base sul fenomeno o, per meglio dire, sulle ragioni storiche del suo manifestarsi. Applicata per venire a capo del brigantaggio di ottocen-tesca memoria, la legislazione che concede sconti di pena e indulti ai pentiti rivede la luce nei primi anni Ottanta, in un periodo di profon-da crisi della società italiana, presa contemporaneamente d’assalto da chi ne contestava politicamente la legittimità, come nel caso dei ter-roristi, e da quanti intendevano approfittare della sua debolezza per affermare la legge del più forte propria della criminalità organizzata. Diverse per ambientazione e personalità dei protagonisti, le vicende narrate appaiono accomunate tra loro in ragione dell’emergenza che le rese possibili. Previste in un primo momento per far fronte alla cri-si degli “anni di piombo”, le misure premiali si estesero di lì a poco alla criminalità organizzata.

A conferma di queste considerazioni non potrà certo sfuggire come in molti degli episodi descritti aleggi, quando non risulti determinan-te per talune dinamiche, l’inquietante presenza dei servizi segreti.

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9 INTRODUZIONE

Una puntuale entrata in scena che suggerisce inedite possibilità di manovra per inserirsi nei vistosi vuoti di potere tramite inconfessabili alleanze.

Ulteriori e inequivocabili segnali della avversa congiuntura italiana dell’epoca potranno infine essere colti sia nel retroterra delle inso-spettabili complicità emerse dalle rivelazioni dei collaboratori, sia dall’incredibile dilagare della criminalità organizzata in aree fino a quel momento estranee ad essa come il Nord-Est, Milano e Roma.

Un fenomeno completamente nuovo che, in sintonia con il massic-cio estendersi del terrorismo d’ogni colore, offre la misura dell’im-preparazione del Paese nel coglierne le avvisaglie per poi contrastar-lo validamente. Una significativa débâcle morale e pratica, a stento arginata dall’estrema àncora di salvezza del pentitismo, per quanto male se ne possa dire al riguardo.

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1Pentiti ante litteram

In provincia di Palermo, tra Ficuzza e Corleone, sorge un edificio religioso del xix secolo, il santuario di Maria Santissima del Rosario di Tagliavia. Il 20 marzo del 1940 l’eremo viene scosso da un dram-matico episodio. Come al solito i frati si sono alzati di buon’ora per assistere alla messa officiata dal cappellano don Felice Giambrone. A uno a uno prendono posto sui banchi del coro. Sembra una matti-na come tante altre, ma all’improvviso il questuante fra’ Giovanni, al secolo Tommaso Carnesi, estrae da sotto la tonaca una doppietta da caccia e inizia a sparare. I pallettoni colpiscono il cuciniere frate Francesco (Filippo Bongiorno), settantaquattro anni, e il vicesupe-riore fra’ Antonino (Carmelo Di Benedetto), settantuno anni. Tutti ri-mangono di ghiaccio. L’omicida volta le spalle e si dà alla fuga nelle campagne circostanti. Ripresi dallo spavento, fra’ Eugenio e fra’ Ro-sario gli corrono dietro. Gli gridano di fermarsi. Per tutta risposta fra’ Giovanni si volta ed esplode due colpi. Poi si ferma, ricarica il fucile e spara una terza volta. Fortunatamente tutti i colpi vanno a vuoto.

Sul pavimento della chiesetta il sangue dei due confratelli ha creato una vistosa pozza. I frati sono inorriditi. Mentre si cerca di prestare soccorso, accorre il superiore Agostino Tantillo, fra’ Giovan Battista. Si adopera per far trasportare i due feriti all’ospedale civico di Pa-lermo. Per frate Francesco l’emorragia provocata dalla lacerazione dell’arteria femorale è fatale. Arriva in clinica già cadavere. Colpi-to al volto, alla spalla e alla trachea, fra’ Antonino morirà invece il giorno successivo. Fa tuttavia in tempo a rendere una dichiarazione al magistrato: il suo confratello «avrebbe agito in un momento di pazzia, sparando a casaccio senza prendere alcuno di mira, perché

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nessun motivo di rancore potea egli avere contro gli altri e special-mente contro di lui»1.

Fra’ Giovanni si dà alla macchia. La sua latitanza dura poco più di un mese. Il 24 aprile la polizia lo scova nei pressi di Partinico na-scosto in un cascinale. Il “monaco pazzo”, come è stato ribattezzato dalla stampa, si getta dalla finestra nel tentativo di fuggire, ma dopo un movimentato inseguimento viene arrestato. Durante l’interroga-torio si dichiara infermo di mente. Poi confessa il reale motivo del crimine che ha commesso. Emerge una sordida storia in cui tutti gli ecclesiastici dell’eremo – il superiore per primo – sono coinvolti. Fra’ Giovanni rivela di aver sottratto dalle offerte settemila lire per curare la tubercolosi che lo affliggeva. Frate Francesco e fra’ Antoni-no avevano scoperto il furto. Fra’ Giovanni si consulta con il superio-re che gli dà un suggerimento tutt’altro che filantropico: sopprimere i due confratelli, facendo successivamente finta di essere pazzo. Fra’ Giovan Battista «gli avea anche fatto sperare il posto di vicesuperio-re»2 che la morte di fra’ Antonino avrebbe reso vacante. Investigatori e inquirenti ricostruiscono i trentaquattro giorni di latitanza di fra’ Giovanni. Viene a galla la vasta rete di appoggi e connivenze della quale il frate assassino aveva goduto.

Il singolare episodio desta l’attenzione di tutta la Sicilia. Il con-testo che emerge è talmente torbido da legittimare gli interrogativi più inquietanti. Il superiore dell’eremo, accusato dell’istigazione agli omicidi, viene prosciolto in istruttoria. Fra’ Giovanni gioca nuova-mente la carta della pazzia. I giudici non gli credono e lo condannano all’ergastolo e a un anno di isolamento diurno. Altri imputati minori, accusati di favoreggiamento e falsa testimonianza, vengono condan-nati a pene dai nove ai dodici mesi di reclusione. Fra’ Giovanni sarà scarcerato dopo quarant’anni. Sembra che la detenzione lo abbia aiu-tato a riscoprire la fede. Pochi giorni dopo aver ottenuto la libertà passerà a miglior vita.

Nel rapporto stilato per la magistratura il 6 maggio del 1940, la polizia descrive un fosco quadro del romitorio siciliano:

L’Eremo di Tagliavia ad eccezione dei due sacerdoti, era abitato da persone poco amanti del lavoro, che, solo a scopo di lucro, avevano indossato l’abito monacale. Che, specialmente il superiore Tantillo Agostino era un noto capeg-

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giatore della mafia, già processato per associazione per delinquere e correità in duplice omicidio, sebbene poi prosciolto per non avere commesso i fatti, data la sua astuzia… e le sue facoltà di simulazione e dissimulazione.3

I ricordi di alcuni anziani del luogo tracciano ancora più nel detta-glio l’incredibile realtà:

Quando giravano nei paesi, quei monaci, più che questuare, pretendevano […] Un giorno, un frate grande e grosso se la prese col suo mulo stracarico del grano della questua, che non ce la faceva a muoversi. Al culmine dell’ira, gli sferrò un violento pugno in testa, che lasciò il povero animale tramortito per terra. La verità è che, in quel periodo, la mafia di Corleone e dei paesi vicini, attraverso la presenza dei suoi “picciotti”, utilizzava il convento di Tagliavia per controllare un vastissimo territorio agricolo, strategico per i suoi affari.4

La protezione assicurata al frate omicida durante la latitanza d’al-tronde non poteva essere fornita che dalla mafia, profondamente ra-dicata nel territorio. Una vicenda sconcertante. Tanto più che il su-periore fra’ Giovan Battista-Agostino Tantillo venne indicato come “uomo d’onore” già alcuni anni prima, nel 1937. A puntare l’indice, il medico palermitano Melchiorre Allegra che alle forze dell’ordine disse chiaramente: «Il padre superiore del convento di Tagliavia è un “affiliato”»5.

Un pentito degli anni TrentaNel tempo la mafia si è modificata, evolvendosi con il mutare della

società. Dai suo albori nel xviii secolo, avvolti da un’aurea mitica, Cosa nostra passò a salvaguardare gli interessi dei grandi proprieta-ri latifondisti, costringendoli a scendere a patti. Nel secondo dopo-guerra li scalzò prendendone il posto e affermandosi infine, grazie al sacco edilizio degli anni Cinquanta-Sessanta e al traffico di droga, come potentato economico e politico. Da fenomeno essenzialmente rurale, la mafia divenne fenomeno urbano. Nonostante le profonde trasformazioni attraverso cui si è sviluppata, ha tuttavia conservato lo stesso metodo per cooptare i più disparati ambienti professionali. La storia di Melchiorre Allegra è emblematica. Le dichiarazioni che nel 1937 rese agli investigatori sui riti d’iniziazione, le leggi dell’onore

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e dell’omertà, le esecuzioni e le spregiudicate manovre economiche, la commistione tra mafia, società civile e mondo politico, la strut-turazione gerarchica, confermavano quanto era già stato riportato a cavallo del Novecento nel rapporto del questore di Palermo Ermanno Sangiorgi.

A volte entrare a far parte della mafia può dipendere da un avveni-mento fortuito. È il caso del medico Melchiorre Allegra. Quando nel 1926 prestava servizio al reparto infettivo dell’ospedale militare di Palermo, curò parecchi soldati che si erano volontariamente procura-ti delle infezioni in modo da ottenere una licenza, se non il completo esonero dagli obblighi di leva. Quando sotto gli occhi gli capitava un caso di autolesionismo, Allegra se ne rendeva subito conto. A volte ometteva di denunciare i colpevoli per evitargli le pesanti sanzioni previste dal codice militare. Fra i coscritti che coprì con il suo silen-zio capitò anche un parente di Giulio D’Agate, mafioso di Villabate. Il ragazzo provenivada un reparto di chirurgia, dove era stato operato per ascesso al ginocchio. Era stato trasferito al reparto malattie infettive, perché affetto da una erisipola se-condaria, e siccome non era in condizioni gravi, io durante le medicature, mi divertivo ad interrogarlo sulle cause della sua malattia. Egli stesso mi confidò che l’ascesso era stato procurato da un’iniezione di olio di trementina e tintura di iodio fattasi praticare da un compagno entro la capsula articolare del ginoc-chio, sul piroscafo, mentre era di ritorno dall’Albania.6

Allegra minacciò di svelare l’espediente alla magistratura militare. Fra i parenti che lo andavano a trovare capitava anche lo zioGiulio D’Agate, che io conoscevo come persona di riguardo, cioè individuo rispettato e temuto. Questo, saputo dal nipote che io stavo per procedere alla denuncia, cercò di avvicinarmi, e mi rivolse calda preghiera perché desistessi dalla denuncia minacciata, scongiurandomi di non rovinare il nipote che aveva moglie e figli. Cedetti alle preghiere e assicurai il Giulio D’Agate che avrei taciuto ogni cosa. L’ammalato guarì e venne dimesso dall’ospedale per una licenza di alcuni mesi.7

D’Agate si ripresentò in ospedale alcuni giorni dopo. Chiese ad Allegra di intervenire a favore di un altro soldato. Il medico accettò; curò il malato e gli fece ottenere una licenza. Nel periodo del suo ri-covero un giorno Allegra, uscendo dalla clinica, s’imbatté in D’Aga-

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te. L’uomo d’onore era in compagnia di due persone che gli vennero presentate per Francesco Motisi e Vincenzo Di Martino. Lo stavano aspettando. Intendevano proporgli qualcosa dalla quale avrebbe si-curamente tratto vantaggio. Ma non era quello il posto adatto per af-frontare certi argomenti. S’incamminarono insieme per raggiungere un magazzino di agrumi nei pressi del porto. Una volta all’interno, i tre iniziarono a lusingare il medico. Ne lodarono la bontà d’animo e la serietà del carattere. Acconsentendo a “coprire” quei ragazzi pres-so l’ospedale militare, dissero, si era inoltre comportato da persona di riguardo. Per questi motivi D’Agate, Motisi e Di Martino, volevano concretamente dimostrare la stima che nutrivano nei suoi confronti:

Mi spiegarono che essi appartenevano ad una associazione molto potente, che comprendeva molta gente di tutte le categorie sociali, non escluse le mi-gliori, di cui componenti era chiamati “uomini d’onore”. Questa associazione, essi aggiunsero, che era proprio quella che in Sicilia si chiamava “mafia” da molti conosciuta in maniera, però, assai vaga perché nessuno, tolti quelli che vi appartenevano, potevano con sicurezza, attestarne l’esistenza.8

Continuando nella spiegazione, ad Allegra viene illustrata la strut-tura gerarchica di Cosa nostra. Le “famiglie” – coincidenti in genere con il gruppo di uno specifico paese o, nel caso delle città più impor-tanti, di un determinato rione – facevano ciascuna riferimento a un proprio capo. Quando la “famiglia” era particolarmente numerosa venivano istituiti al suo interno gruppi di dieci persone chiamati de-cine. Il capo decina ne predisponeva le attività. Le relazioni tra le famiglie delle diverse aree dell’isola, indipendenti l’una dall’altra, erano mantenute dai capi provincia. Erano per lo più i membri della famiglia o della decina a designare il proprio leader. A coadiuvarlo, un consigliere. Si trattava di una figura eminente, poiché il suo pare-re era necessario per qualsiasi decisione il capo dovesse prendere e inoltre, in caso di sua assenza, ne assolveva tutte le funzioni.

Come una piovra, i tentacoli dell’organizzazione si estendevano anche al di fuori dei confini nazionali. «La setta, infatti – svelò Alle-gra – a loro dire, aveva ramificazioni potenti, oltre che in Sicilia, in Tunisia, nelle Americhe, in qualche centro del continente, in qualche altro di altre nazioni, come per esempio, Marsiglia»9.

Al medico venne spiegato che Cosa nostra provvedeva inoltre a

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vendicare eventuali offese arrecate ai “fratelli” da chi non appartene-va alla organizzazione. Le norme erano poche e semplici. La pratica del furto non era ammessa. L’omicidio invece sì, ma solo previo il benestare dei capi che dovevano ritenerne validi i motivi. E Cosa nostra avrebbe eventualmente fornito aiuto nella perpetrazione del crimine. Per chi non avesse rispettato le regole, ad attenderlo c’era la morte.

Terminata la spiegazione, ad Allegra viene chiesto se volesse ade-rire:

Io capii che ero già stato messo a parte da troppi segreti, per poter, in caso di rifiuto, uscire vivo da quella riunione, e quindi accettai dichiarandomi addirit-tura entusiasta della offerta che mi si faceva. Pertanto si diede luogo al “rito”: il signor Di Martino, dietro invito del signor Motisi con uno spillo o ago che fosse, mi punse il polpastrello del detto medio di una mano, facendo uscire una goccia di sangue con la quale venne intrisa una immagine in carta di una santa. Tale immagine sacra, venne infiammata ed io dovetti tenerla in mano mentre ripetevo una formula di giuramento suggerita dagli altri; dissi presso a poco questo: “Giuro di essere fedele a miei fratelli, di non tradirli mai, di aiutarli sempre, e se così non fosse, io possa bruciare e disperdermi, come si disperde questa immagine che si consuma in cenere”. Dopo questo ci fu un abbraccio e un bacio generale e quindi il seguito delle istruzioni.10

Allegra entrò così nell’onorata società, costretto dalle circostanze a non potersi tirare indietro. Era destinato a far parte della famiglia del rione palermitano Pagliarelli, di cui Francesco Motisi era consigliere e al cui vertice sedeva il cugino Ciccio.

Ieri come oggi la mafia era apolitica. Solo nel caso si fosse indivi-duato un candidato disposto a pagare profumatamente o capace, una volta salito al potere, di fornire copertura istituzionale agli uomini e agli affari della famiglia, questa si sarebbe mobilitata per favorire la sua elezione. Le raccomandazioni del politico, legato in questo modo a Cosa nostra, spaziavano negli ambienti giudiziari, amministrativi e finanziari, con i quali abitualmente interagiva. Si trattasse di ottenere un passaporto o un porto d’armi per un pregiudicato, un prosciogli-mento giudiziario o una concessione di libertà, come anche procurare la cancellazione di inopportuni provvedimenti burocratici o, al con-trario, di sollecitarne di necessari, attraverso il politico la mafia era in

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grado di soddisfare ogni esigenza.Evidentemente Allegra confonde la data nella quale entrò a far par-

te dell’onorata società. Afferma di essere stato affiliato nel ’26. Suc-cessivamente però, facendo luce sull’ambiguo mondo dei “grandi elettori” siciliani, racconta agli investigatori del suo coinvolgimento nella politica avvenuto due anni prima, nel 1924, durante le ultime libere elezioni prima dell’avvento della dittatura di Mussolini:

Fui avvicinato dal prof. Ambrosini della R. Università di Palermo, il quale venne a propormi di combinare con lui una lista che avrebbe portato l’emblema della bilancia. Mi rifiutai in un primo tempo, ma in una seconda intervista mi riservai di dargliene una conferma. Mi rivolsi frattanto al Motisi, il quale mi fece notare che in proposito aveva un impegno con l’avvocato Nicolò Maggio, il quale avrebbe diviso suffragi della “mafia” con l’on. Cucco che si presentava in una lista fascista. Mi ero messo nell’ordine di idee di rinunciare alla candida-tura, quando il giorno dopo ricevetti l’inaspettata visita del signor Maranzano Salvatore, da Castellamare del Golfo, che allora era il “capo” della provincia di Trapani e che in questa qualità mi era stato presentato da Fontana Francesco, da Gibellina, quello che io conoscevo per mafioso sin dall’infanzia, giusta la fama che correva di lui, e che in seguito conobbi ufficialmente come “capo” di Gibellina. Il Maranzano venne a dirmi di avere saputo della mia decisione di candidato e che in proposito aveva parlato con Ciccio Fontana e Ciccio Motisi, di accordo coi quali avevano stabilito che io entrassi nella lista a “Cavallo” in unione con l’amico nostro Cocò Maggio, allo scopo di evitare frazionamento delle forze elettorali e che in questo senso mi avrebbero fatto officiare.11

Nonostante l’appoggio mafioso, Allegra non riesce a conquistare uno scranno al Parlamento. Cosa nostra aveva infatti diviso i con-sensi sui quali poteva contare tra la lista democratica e quella fasci-sta. L’esperienza politica permise comunque al medico di entrare in contatto con molti uomini di mafia. L’elenco che fornisce alla polizia contiene decine e decine di nomi di autorevoli uomini d’onore fino allora mai sospettati. E al medico pentito non sfuggiva il rischio di rivelare i segreti di cui era custode:

Io avevo sufficiente esperienza per giudicare di cosa fosse capace la mafia quella che purtroppo io non potevo rinnegare formalmente stante la minaccia delle famose schioppettate che in quell’epoca tuonavano spesso e ovunque; del resto, anche ora, sebbene i tempi sono al quanto cambiati, dopo le mie presenti propalazioni, io sono sicuro che la mafia di quelli specialmente che tutt’ora

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coltivavano l’idea d’imperio, non lascerà nulla d’intentato contro di me e della mia famiglia e forse anche controlla la volontà di coloro che la lottano.12

Dopo la sconfitta elettorale, Allegra cercò l’aiuto della mafia per vincere un concorso indetto a Palermo per l’assegnazione di quindi-ci posti di medico condotto. Richiese l’appoggio direttamente a chi lo avevano affiliato, Francesco Motisi. Il mafioso lo rassicurò: uno degli incarichi che desiderava sarebbe andato a lui. Venne invece as-segnato a un altro uomo d’onore, il dottor Filippo Marcianò. Dopo la inconcludente esperienza politica, aveva ricevuto un’altra falsa pro-messa. Allegra era stanco:

Da parecchio tempo, per conto mio, sentivo la nausea di appartenere ad una attività filantropica e moralissima, nonché cavalleresca, celava, invece, i più bassi scopi di sfruttamento e di delitto. Perciò, quando la misura fu colma io mi ritirai tagliando, per quanto possibile, i rapporti con questa gente e giuro che io non la cercai mai più, pur aderendo e fare qualche favore che del resto prodiga-vo anche a quelli che si presentavano solamente come uomini.13

Le giornate del medico trascorrevano in tranquillità tra lo studio, la donna con la quale aveva stretto una relazione e le partite a carte con gli amici. Fra questi c’era l’avvocato Pietro Pulejo, difensore di parecchi mafiosi. Attraverso lui veniva a sapere quanto accadeva all’interno dell’onorata società.

Tra il 1926 e il 1927 si consuma la frattura all’interno della mafia palermitana, originata dal controllo sul lavoro dei portuali di Paler-mo. Iniziava così una sanguinosa faida conosciuta come “lotta di Pia-na di Colli”. Nei suoi verbali, Allegra riporta le confidenze ricevute da Pulejo, secondo il quale

per comporre il dissidio erano venute dalla America tre commissioni speciali di mafiosi colà residenti, senza, però, riuscire a far ritornare la pace. La polizia minacciava, pertanto, nuove retate per cui il signor Lucio Tasca Bordonaro, anche lui un “fratello”, assunse impegno di fronte al prefetto, di proporre ed ottenere una pacificazione generale. Ci fu in prefettura una riunione generale di “rappresentanti”, ma che pare non abbia dato nessun risultato dato che la lotta continuò ugualmente e che a farla finire valsero solamente la morte di molti e le vaste retate operate dalla polizia.14

Allegra subisce il primo fermo di polizia nel 1928. Durante una

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perquisizione viene rinvenuta nel suo appartamento una lettera estor-siva indirizzata a un collega, minacciato di morte nel caso non avesse versato trentamila lire. La missiva era stata inviata alcuni anni prima. La vittima si era rivolta ad Allegra chiedendone l’intercessione per risolvere la vicenda. Grazie alle sue conoscenze mafiose, il medico riuscì a scoprire l’autore del ricatto. Si trattava di un latitante dell’A-grigentino costretto poi dalla mafia, su richiesta di Allegra, ad abban-donare l’intento e inviare le proprie scuse al medico ricattato.

La lettera era poi stata dimenticata da Allegra in fondo a un cassetto della sua scrivania. Le forze dell’ordine non vollero sentire giustifi-cazioni e arrestarono il medico con l’accusa di favoreggiamento e tentata estorsione. Ottenuta la libertà provvisoria, la questura dispose il suo allontanamento da Palermo. Durante l’istruttoria le accuse ven-nero ridimensionate, il reato di estorsione cancellato e, successiva-mente, Allegra venne assolto anche da quello di favoreggiamento. Ma i problemi giudiziari erano soltanto all’inizio. La procura gli contestò gli aborti illegali procurati su richiesta di due donne. Procedimenti finiti con altrettante assoluzioni. Fu poi la volta di una denuncia per omissione di cure mediche. Due “fratelli” lo avevano condotto da un altro mafioso che, per «una questione sorta a Mondello in seguito ad una scampagnata con relativa ubriacatura»15, aveva ricevuto una coltellata. La lesione si era infiammata, il pus fuoriusciva. Ad Allegra venne chiesto di curare il ferito. Rifiutò. Disse di portarlo dal medico che gli aveva prestato le prime cure. La vicenda venne a conoscenza dei carabinieri. Altra accusa e altra assoluzione.

Nel ’33 al medico viene contestato il favoreggiamento nei confron-ti di Antonino Centonze, «buon giovane mio amico, non mafioso, cassiere della Banca sicula e Castelvetrano»16, datosi alla fuga dopo aver commesso un “reato infamante”. «Fu in quell’occasione che io avrei voluto presentarmi all’ispettore generale di ps per fargli una confessione ampia come quella che oggi sto facendo con tanta spon-taneità ma me ne astenni»17.

Le dichiarazioni del medico ai carabinieri di Castelvetrano e ai poliziotti della stazione di Alcamo arriveranno in occasione del suo coinvolgimento in un grave fatto di sangue. Allegra ricostruisce la vicenda: «Tempo fa a Castelvetrano successero molti reati gravi e la

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polizia minacciava aspri provvedimenti. Vennero da me alcuni ele-menti della vecchia mafia per espormi il pericolo»18. Ad Allegra la mafia chiese di prestarsi per disporre una trappola nella quale far cadere il malavitoso locale, responsabile di mettere in serio pericolo gli affari dell’onorata società. Il malvivente finì ucciso e, arrestato, di fronte alle pesanti accuse che gli venivano mosse, Allegra decise di raccontare tutto ciò che sapeva su Cosa nostra.

Le sue dichiarazioni furono raccolte in ventisei fogli dattiloscritti che fecero tremare la Sicilia. Dentro c’erano i nomi dei capi delle famiglie e degli uomini di secondo piano, dei baroni, dei politici, dei professionisti in affari con la mafia. Venivano raccontate per la prima volta le leggi e i riti dell’associazione criminale. Da quei lontani anni Trenta dovrà trascorrere molto tempo prima che qualcun altro decida di infrangere il muro dell’omertà.

Sulla via della redenzioneDurante il maxiprocesso contro Cosa nostra del 1986 Giovanni

Falcone si augurò che, almeno dopo morto, Vitale avesse trovato il credito che meritava. Il magistrato antimafia si riferiva a Leonardo Vitale, affiliato alla cosca di Altarello di Badia nel 1960, all’età di diciannove anni.

Quando il 30 marzo del 1973 Vitale si presentò alla squadra mo-bile di Palermo aveva deciso di pentirsi. Un pentimento, il suo, nel senso più vero e profondo del termine, mosso da quel sentimento di dolore e contrizione per aver trasgredito una legge morale alla quale, nel profondo, si sentiva strettamente vincolato. Vitale non ha l’aria del mafioso. È inquieto, pieno di tic, fuma una sigaretta dopo l’altra. La sua è una storia particolare. Probabilmente unica. Quella di un mafioso diventato collaboratore di giustizia in seguito a una crisi mi-stica. Dal memoriale che ha scritto emerge una profonda afflizione interiore:

Io sono stato preso in giro dalla vita, dal male che mi è piovuto addosso sin da bambino. Poi è venuta la mafia, con le sue false leggi, con i suoi falsi ideali: combattere i ladri, aiutare i deboli e, però, uccidere; pazzi! I Beati Paoli, Co-riolano della Floresta, la massoneria, la Giovane Italia, la camorra napoletana e

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calabrese, Cosa nostra mi hanno aperto gli occhi su un mondo fatto di delitti e di tutto quanto c’è di peggio perché si vive lontano da Dio e dalle leggi divine […] bisogna essere mafiosi per avere successo. Questo mi hanno insegnato ed io ho obbedito […] La mia colpa è di essere nato, di essere vissuto in una famiglia di tradizioni mafiose e di essere vissuto in una società dove tutti sono mafiosi e per questo rispettati, mentre quelli che non lo sono vengono disprezzati […] il mafioso non ha via di scelta perché mafioso non si nasce, ma ci si diventa, glielo fanno diventare.19

Rimasto orfano di padre a soli dodici anni, Leonardo è affidato allo zio Giovan Battista Vitale, capo della cosca di Altarello di Bai-da. Giovan Battista è un mafioso spregiudicato e astuto, capace di uccidere e far uccidere, ma anche di intrattenere delicati rapporti di mediazione. Leonardo è invece un ragazzino pensieroso e dall’animo sensibile, pronto a fare qualsiasi cosa lo zio gli chieda. Per il nipote il boss ha in mente una carriera criminale di tutto rispetto. Lo inizia un passo alla volta. Gli mette in mano una pistola ordinandogli di sparare a un cavallo. Leonardo non vuole uccidere, nemmeno un ani-male. Ma più di tutto non vuole deludere lo zio verso il quale nutre un sentimento di venerazione. Così il ragazzo preme il grilletto.

Nell’agosto del ’72 viene rapito in pieno giorno a Palermo l’inge-gnere Luciano Cassina, primogenito di uno dei più ricchi imprenditori dell’isola. Un gruppo di quattro persone lo aveva atteso all’uscita del suo ufficio nella centralissima via Principe di Belmonte, a due passi dal porto. Gli saltano addosso. Cassina reagisce. Grida alle persone che si trovano per strada di aiutarlo. Con voce eccitata un malvivente intima ai presenti di andare via, altrimenti li avrebbe ammazzati tutti. Gli attoniti spettatori si allontanano terrorizzati. I banditi fanno fati-ca a vincere l’opposizione dell’ingegnere che continua a dimenarsi. Riescono a intontirlo con una serie di violente percosse alla testa, lo prendono per le braccia e per i piedi e lo scaraventano sul sedile po-steriore dell’auto rimasta in attesa. Il sequestrato si riprende e cerca nuovamente di reagire. Ma uno dei rapitori lo tramortisce sferrando-gli un colpo al capo con il calcio della pistola, talmente violento da far saltare la linguetta del caricatore. Il veicolo parte sgommando. Dalla portiera rimasta mezza aperta fuoriescono i piedi dell’ingegne-re. L’aggressione è durata pochi minuti, due o tre, non di più.

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Le forze dell’ordine iniziano subito un’affannosa caccia all’uomo. Vengono predisposti rastrellamenti ad ampio raggio che si spingono alle aree limitrofe della città. Del sequestrato non c’è traccia. Il gior-no stesso viene fermato Leonardo Vitale, di trentun anni. Sulla carta risulta un coltivatore diretto, il suo tenore di vita appare tuttavia spro-porzionato. Possiede due auto, tra cui una Lancia Fulvia coupé vista sfrecciare dietro l’auto dei rapitori. Vitale spiega di aver scambiato quel giorno la sua macchina con l’auto di un amico, Francesco Scri-ma, un macellaio di trent’anni. Scrima conferma. Precisa però di aver riconsegnato la Fulvia verso l’una, mezz’ora prima del sequestro. Vi-tale dà invece un altro orario: le quattro del pomeriggio. La procura dispone il fermo di Scrima. All’Ucciardone lo segue un suo cugino, nella cui villetta vicino Palermo si sospetta che il sequestrato sia sta-to tenuto per qualche ora. Si tratta di un personaggio che in futuro farà molto parlare di sé: Giuseppe Calò, detto “Pippo”, sorvegliato speciale in ottimi rapporti con i più sinistri nomi del gotha mafioso di Palermo. Nel ’68 venne processato insieme ad altri centoventi “uo-mini d’onore” a Catanzaro, sede giudiziaria scelta per motivi di legit-tima suspicione, con l’accusa di associazione a delinquere aggravata, guadagnandosi una condanna a sei anni di reclusione. Scrima e Calò fanno parte del “giro” del rione Danisinni, uno dei più popolari di Palermo, dove spadroneggiava fino a qualche anno prima il vecchio capomafia don Tano Filippone, zio dello stesso Calò.

Dall’anno precedente in Sicilia il fenomeno dei rapimenti, archi-viato nel dopoguerra con la fine della banda di Salvatore Giuliano, era tornato in auge. Una successione di episodi che aveva indotto la stampa a parlare

di “nuova mafia”, per dare un’etichetta a imprese diverse da quelle tradizionali. Imprenditori e agrari, un tempo, venivano costretti a dare notevoli somme con ben altri sistemi: la minaccia, l’avvertimento, l’offerta di protezione. L’impre-sario edile, come il grossista dei mercati e il ricco commerciante, vivevano tranquilli a patto di versare regolarmente le cifre concordate in segreto.20

Per le ricerche di Cassina vengono impiegati oltre seicento fra ca-rabinieri e poliziotti. Posti di blocco e rastrellamenti si estendono al quadrilatero Monreale-Partinico-San Cipirello-Montelepre. Tut-

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to inutile. Del rapito non c’è traccia. I giornali iniziano a dubitare dell’inutile coreografia messa in piedi dalle forze dell’ordine: «C’è in giro molto scetticismo; non può escludersi che, dopo questa prima fase delle indagini, polizia e carabinieri si ritrovino in mano solo un pugno di mosche»21, polemizzano i quotidiani. Non hanno torto. Ven-titré giorni dopo il sequestro, “Pippo” Calò viene rilasciato per insus-sistenza d’indizi. A fine settembre toccherà a Vitale lasciare l’Ucciar-done. Cassina sarà liberato dopo quasi sei mesi trascorsi nelle mani dei banditi, nel febbraio del ’73, dietro il pagamento di un riscatto di un miliardo e trecento milioni.

Uscito dal carcere, Vitale appare sfibrato. Il suo stato mentale ha risentito dei mesi trascorsi in cella d’isolamento. Viene sottoposto alla visita di un neuropsichiatra, il professor Vincenzo Bonavita, che diagnostica una “sindrome paranoide depressiva” e ne suggerisce la cura presso un istituto. Verso lafine del 1972 viene ricoverato presso una clinica privata per circa un mese; rice-ve un trattamento psicofarmacologico e gli viene praticato […] per otto giorni l’elettroshock […] Subito dopo viene inviato al soggiorno obbligato nell’isola dell’Asinara. Qui i suoi disturbi si aggravano. Nel mese di dicembre lo ricove-rano nella clinica neurologica dell’università di Sassari, gli viene diagnosticato uno stato “dissociativo”. Nello stesso mese del 1972 viene dimesso e torna a casa sua a Palermo, ma persistono i sintomi depressivi ed emerge un senso di colpa verso la madre, la quale lo ha seguito in tute le degenze in Sardegna.22

Ma la causa del profondo disagio psicologico di Vitale non è do-vuta soltanto a un’acuta depressione. C’è di più. Quando Leonardo torna a Palermo i parenti che si recano «a fargli visita per confortare sia la mamma sia la sorella Maria, lo trovavano sempre seduto nel giardino a pregare»23. In lui è scattata una molla che lo ha portato su un percorso di fede. Prende le distanze dalla vita fino allora trascorsa nelle spirali della mafia. Si presenta al vicequestore Bruno Contrada e racconta tutto. Vitale non è un “padrino”, ma a ogni modo conosce molti segreti. La vendetta trasversale arriva rapida. Pochi giorni dopo le prime dichiarazioni la mafia gli uccide un cugino, Salvatore, con il quale Leonardo si era confidato prima di recarsi alla polizia. Il corpo di Salvatore viene ritrovato riverso su una misera brandina all’inter-no di un deposito nel terreno all’estrema periferia di Palermo, nella