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Le politiche microeconomiche Gli obiettivi delle politiche microeconomiche Le economie di mercato spesso non raggiungono un equilibrio ottimale nel senso paretiano, non sono cioè in grado di sfruttare pienamente le potenzialità produttive consentite dalle risorse e dalle tecnologie disponibili. Sappiamo bene che i mercati reali si allontanano nella maggior parte dei casi dal modello ideale della concorrenza perfetta, e questo comporta una riduzione dell’efficienza allocativa del sistema dei prezzi. Le imperfezioni dei mercati possono avere varie cause. La riduzione del numero degli agenti, soprattutto dal lato dell’offerta, da luogo a forme di mercato di monopolio e oligopolio in cui le imprese godono di un potere di mercato che causa inefficienza. In questo caso la motivazione sottostante agli interventi di politica microeconomica è l’eliminazione o l’attenuazione di tale potere e il ripristino di condizioni di concorrenza nel mercato. Questo compito è affidato alle politiche antimonopolistiche o antitrust. Un’altra causa di fallimento del mercato è data dalla presenza di esternalità e beni pubblici. Questo problema si verifica in molti mercati, alcuni dei quali molto importanti come quello dell’istruzione, della ricerca e dell’innovazione tecnologica, e caratterizza spesso gli effetti sull’ambiente dell’attività produttiva. In questi casi l’intervento pubblico può migliorare il funzionamento dei mercati e consentire il raggiungimento di un equilibrio ottimale o, comunque, più efficiente di quello raggiunto dal libero mercato. Infine non dobbiamo dimenticare che quello dell’efficienza non è l’unico obiettivo che la politica economica deve porsi. Una situazione perfettamente efficiente può essere inaccettabile in termini di equità sociale. In questo caso compito della politica economica non è quello di condurre il mercato verso un equilibrio ottimale ma, al contrario, di allontanarsene per perseguire altri obiettivi di giustizia distributiva e di realizzazione di pari opportunità per i cittadini. Questo è il tipico campo di intervento delle politiche sociali e redistributive. Le politiche antitrust L’inefficienza del monopolio Le politiche antitrust sono state storicamente la prima forma di intervento pubblico nell’economia. Lo Sherman Act, la prima legge a prevedere sanzioni nei confronti delle imprese monopolistiche, fu approvato negli U.S.A. nel 1890. In altri paesi queste politiche sono state introdotte in tempi più recenti. In Italia, per esempio, dobbiamo aspettare l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso per vedere all’opera le prime forme di legislazione antimonopolistica. In ogni caso si tratta di una forma di intervento che ha una lunga e consolidata tradizione. Le motivazioni delle politiche antitrust risiedono nei problemi di efficienza che caratterizzano i mercati monopolistici. Possiamo chiederci se il monopolio è veramente inefficiente e, come vedremo, la risposta non è univoca. Sotto il profilo dell’efficienza statica il monopolio è certamente inefficiente, in quanto genera una perdita secca che riduce il benessere generale. Questa è la principale motivazione delle politiche antitrust tese a limitare o regolamentare il potere di mercato del monopolista. Come è noto un monopolista produce una quantità minore rispetto a un’impresa concorrenziale e pratica un prezzo più elevato. Il confronto fra i due mercati è raffigurato nella figura 1. Per consentire il confronto immaginiamo che i costi dell’unica impresa monopolistica siano uguali a quelli della somma delle imprese concorrenziali. Pertanto la linea rossa descrive sia gli uni che gli altri a seconda del mercato che stiamo considerando. Ipotizziamo anche che i costi medi e marginali siano costanti e siano rappresentati entrambi dalla linea rossa orizzontale. In pratica stiamo assumendo che non ci siano economie di scala e che i rendimenti di scala siano

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Page 1: Le politiche microeconomiche - Università di Cagliaripeople.unica.it/sergiolodde/files/2014/01/Le-politiche... · Rispetto al mercato concorrenziale, in una situazione di monopolio

Le politiche microeconomiche

Gli obiettivi delle politiche microeconomiche

Le economie di mercato spesso non raggiungono un equilibrio ottimale nel senso paretiano, non sono cioè in grado di sfruttare pienamente le potenzialità produttive consentite dalle risorse e dalle tecnologie disponibili. Sappiamo bene che i mercati reali si allontanano nella maggior parte dei casi dal modello ideale della concorrenza perfetta, e questo comporta una riduzione dell’efficienza allocativa del sistema dei prezzi.

Le imperfezioni dei mercati possono avere varie cause. La riduzione del numero degli agenti, soprattutto dal lato dell’offerta, da luogo a forme di mercato di monopolio e oligopolio in cui le imprese godono di un potere di mercato che causa inefficienza. In questo caso la motivazione sottostante agli interventi di politica microeconomica è l’eliminazione o l’attenuazione di tale potere e il ripristino di condizioni di concorrenza nel mercato. Questo compito è affidato alle politiche antimonopolistiche o antitrust.

Un’altra causa di fallimento del mercato è data dalla presenza di esternalità e beni pubblici. Questo problema si verifica in molti mercati, alcuni dei quali molto importanti come quello dell’istruzione, della ricerca e dell’innovazione tecnologica, e caratterizza spesso gli effetti sull’ambiente dell’attività produttiva. In questi casi l’intervento pubblico può migliorare il funzionamento dei mercati e consentire il raggiungimento di un equilibrio ottimale o, comunque, più efficiente di quello raggiunto dal libero mercato.

Infine non dobbiamo dimenticare che quello dell’efficienza non è l’unico obiettivo che la politica economica deve porsi. Una situazione perfettamente efficiente può essere inaccettabile in termini di equità sociale. In questo caso compito della politica economica non è quello di condurre il mercato verso un equilibrio ottimale ma, al contrario, di allontanarsene per perseguire altri obiettivi di giustizia distributiva e di realizzazione di pari opportunità per i cittadini. Questo è il tipico campo di intervento delle politiche sociali e redistributive.

Le politiche antitrust

L’inefficienza del monopolio

Le politiche antitrust sono state storicamente la prima forma di intervento pubblico nell’economia. Lo Sherman Act, la prima legge a prevedere sanzioni nei confronti delle imprese monopolistiche, fu approvato negli U.S.A. nel 1890. In altri paesi queste politiche sono state introdotte in tempi più recenti. In Italia, per esempio, dobbiamo aspettare l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso per vedere all’opera le prime forme di legislazione antimonopolistica. In ogni caso si tratta di una forma di intervento che ha una lunga e consolidata tradizione. Le motivazioni delle politiche antitrust risiedono nei problemi di efficienza che caratterizzano i mercati monopolistici.

Possiamo chiederci se il monopolio è veramente inefficiente e, come vedremo, la risposta non è univoca. Sotto il profilo dell’efficienza statica il monopolio è certamente inefficiente, in quanto genera una perdita secca che riduce il benessere generale. Questa è la principale motivazione delle politiche antitrust tese a limitare o regolamentare il potere di mercato del monopolista.

Come è noto un monopolista produce una quantità minore rispetto a un’impresa concorrenziale e pratica un prezzo più elevato. Il confronto fra i due mercati è raffigurato nella figura 1. Per consentire il confronto immaginiamo che i costi dell’unica impresa monopolistica siano uguali a quelli della somma delle imprese concorrenziali. Pertanto la linea rossa descrive sia gli uni che gli altri a seconda del mercato che stiamo considerando. Ipotizziamo anche che i costi medi e marginali siano costanti e siano rappresentati entrambi dalla linea rossa orizzontale. In pratica stiamo assumendo che non ci siano economie di scala e che i rendimenti di scala siano

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costanti, questo da luogo a una curva di offerta orizzontale in un mercato concorrenziale. In un mercato concorrenziale l’equilibrio si avrebbe nel punto C in cui la domanda (linea blu) e

l’offerta (linea rossa che è la somma delle linee di costo marginale di tutte le imprese operanti sul mercato) si incontrano. In questo punto la quantità prodotta è Qc e il prezzo è Pc. Il monopolista massimizza il profitto nel punto in cui ricavo marginale e costo marginale sono uguali (punto M nella figura). Ciò comporta una quantità prodotta pari a Qm, alla quale corrisponde, sulla curva di domanda, un prezzo Pm. Rispetto al mercato concorrenziale, in una situazione di monopolio i consumatori subiscono una perdita di benessere pari alla somma delle aree del rettangolo verde e del triangolo rosso. Il rettangolo verde non costituisce una perdita per la società, perché si traduce in profitto per l’impresa monopolistica. Ma questo non è vero per il triangolo rosso che rappresenta invece una perdita secca per la società perché misura il sovrappiù collegato alla quantità Qm-Qc che viene scambiata in regime di concorrenza ma non in monopolio.

Figura 1. Equilibrio di monopolio Tuttavia, se consideriamo l’aspetto dinamico, ossia la crescita del benessere generale nel

tempo, le opinioni degli economisti non sono univoche. La crescita dell’economia dipende in larga misura dal progresso tecnologico che fa crescere la produttività. In termini dinamici il problema diventa quindi il seguente: quale forma di mercato favorisce maggiormente la dinamica del progresso tecnologico?

Su questo punto possiamo distinguere due opinioni contrapposte. Da un lato Schumpeter e gli economisti che a lui si ispirano sottolineano il fatto che, per

innovare, è necessario fare ricerca e provare nuove soluzioni, ma tutto questo ha costi molto elevati. Da questo punto di vista l’impresa monopolistica gode di due vantaggi: in primo luogo le maggiori dimensioni le consentono di finanziare una spesa più elevata per la ricerca; inoltre è in grado di appropriarsi più facilmente dei risultati della ricerca stessa. Se tutto ciò è vero, l’impresa monopolistica dovrebbe essere più innovativa, pertanto, in un’economia caratterizzata da mercati monopolistici, il progresso tecnico dovrebbe essere più rapido.

Ne consegue che il guadagno di efficienza dinamica, grazie all’aumento della produttività dovuto al più rapido progresso tecnico, potrebbe più che compensare le perdite in termini di efficienza statica. In questo caso il monopolio può divenire una forma di mercato socialmente desiderabile. Questa è la ragione per cui le imprese innovatrici possono godere dei brevetti che attribuiscono loro un potere monopolistico (cioè quello di escludere altre imprese dalla produzione del bene brevettato) grazie al quale l’impresa può ottenere sovraprofitti e recuperare i costi dell’innovazione.

Figura 1. L’equilibrio del monopolista

C perdita secca

profitto

Rma

Q Qc

cma,Pc

Qm

P

Pm

D, Rme

M

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Un altro filone di pensiero ritiene, al contrario, che il monopolio sia meno efficiente non solo dal punto di vista statico, ma anche da quello dinamico. La pressione concorrenziale è un potente fattore che costringe le imprese ad innovare per mantenere ed accrescere la propria competitività (la necessità aguzza l’ingegno). In assenza di essa, come accade nei mercati monopolistici, l’impresa ha minori stimoli ad abbattere i costi e ad introdurre nuovi prodotti.

La questione è tuttora aperta. E’ difficile dire, per esempio, se l’innovazione sarebbe stata più rapida nel mercato del software qualora la Microsoft non avesse goduto di un enorme potere di mercato. Non c’è dubbio che le grandi innovazioni radicali che consistono soprattutto nell’introduzione di nuovi prodotti sono state spesso introdotte da piccole imprese concorrenziali (basta pensare alla Apple nell’informatica e alla Genentech nelle biotecnologie), ma è anche vero che le innovazioni incrementali, che spesso rappresentano la gran parte dello sviluppo nel tempo di un paradigma tecnologico, sono più frequenti nelle grandi imprese.

Le politiche antitrust

Nonostante manchi un accordo generale, negli ultimi tempi le misure tendenti a controllare e limitare il potere di mercato delle grandi imprese sono divenute più frequenti e articolate in quasi tutti i paesi industrializzati.

Esistono diversi modi possibili di affrontare il problema del monopolio. I principali sono i seguenti:

proprietà e gestione pubblica

gestione privata con regolamentazione del prezzo di vendita

gestione privata con gara d’appalto

normative antitrust e controlli a tutela della concorrenza affidati ad un’Autorità garante della concorrenza

Proprietà e gestione pubblica

In questo caso lo Stato acquisisce la proprietà dell’impresa e la sua gestione viene posta sotto il controllo amministrativo pubblico. Le argomentazioni sottostanti a questa forma di intervento si basano soprattutto sul fatto che l’impresa monopolistica si appropria di extra-profitti sottraendoli alla collettività. Con la gestione pubblica il governo può fissare il prezzo al livello del costo marginale eliminando così gli extra-profitti. Le perdite che ne derivano possono essere riassorbite tramite le entrate fiscali generali. In alternativa il prezzo può essere mantenuto uguale a quello di monopolio, ma gli extra-profitti vengono destinati a fini sociali, accrescendo il benessere dei cittadini.

In alcuni casi si pone l’accento sull’importanza strategica del settore per lo sviluppo dell’economia nazionale. Così la nazionalizzazione dell’energia elettrica in Italia fu giustificata con la necessità di abbassare il costo dell’energia per favorire la competitività e la crescita dell’industria nazionale. In altri casi, come quello dell’industria alimentare (SME/Cirio), questa motivazione è assai meno applicabile.

Questa soluzione è stata largamente adottata in Europa nella seconda metà del secolo scorso, mentre ha avuto un’applicazione molto limitata negli USA e in Gran Bretagna.

Negli ultimi decenni molti governi europei si sono orientati verso una progressiva privatizzazione delle attività precedentemente nazionalizzate. Lo stato si limita a introdurre vincoli alle decisioni delle imprese monopolistiche o a creare le condizioni perché il grado di concorrenza dei mercati sia il più alto possibile.

Questo mutamento di atteggiamento è dovuto alla crescente consapevolezza dei problemi di efficienza che la gestione pubblica comporta. Un motivo è che quando l’impresa privata riduce i costi di 1 euro, il suo profitto aumenta nella stessa misura. Quando la stessa cosa accade in

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un’impresa pubblica, il governo spesso riduce il budget dell’impresa, eliminando così l’incentivo del manager pubblico ad abbattere i costi. Non solo, se i costi aumentano, un’impresa privata fronteggia una riduzione di domanda e, in molti casi, una riduzione dei profitti. Nel caso di un’impresa pubblica invece lo stato interviene per ripianare le perdite attraverso il prelievo fiscale. Anche in questo caso l’incentivo a ridurre i costi viene meno o risulta attenuato.

Inoltre la gestione pubblica non elimina il monopolio, mancano pertanto gli stimoli concorrenziali che sono essenziali per garantire l’efficienza.

Il monopolio naturale

Il secondo tipo di intervento consiste nel lasciare che l’attività sia svolta da un’impresa privata, influenzandone il comportamento mediante forme di regolamentazione che vincolano la determinazione del prezzo o della quantità prodotta. In seguito alle privatizzazioni questa soluzione è divenuta molto frequente, soprattutto nel caso di monopolio naturale, cioè quando lo smembramento dell’impresa monopolistica non accrescerebbe l’efficienza perché, a causa delle economie di scala, una sola impresa è in grado di servire il mercato a costi più bassi rispetto a più imprese in competizione fra loro.

Figura 2. Monopolio naturale

Quando la curva di domanda (D) incontra quella del costo medio (Cme) nel suo tratto

decrescente un’unica impresa monopolistica è in grado di produrre la quantità richiesta dal mercato (q1) ad un costo medio pari a c1. Se due imprese si dividessero il mercato a metà, ciascuna di esse produrrebbe la quantità 1/2q1 ad un costo medio pari a c2. Nel primo caso il costo totale di produzione della quantità richiesta dal mercato sarebbe dato dal rettangolo verde scuro mentre, se il mercato fosse servito da due imprese, ad esso si aggiungerebbe il rettangolo verde chiaro. In un caso come questo più concorrenza significa meno efficienza!

La regolamentazione del prezzo

Non è facile per il policy maker definire il prezzo. In assenza di regolamentazione l’impresa monopolistica praticherebbe il prezzo pm e venderebbe la quantità qm (figura 3 alla pagina seguente). Sappiamo dalla microeconomia che il prezzo che massimizza il benessere sociale deve essere uguale al costo marginale. Al prezzo p=cma la quantità domandata sarebbe qc e il costo sociale dell’ultima unità prodotta sarebbe uguale al beneficio sociale che essa genera (punto a nella figura 3). Questa soluzione sarebbe ottimale ma non è attuabile in pratica, perché il costo medio c1 risulta superiore al prezzo p1 (la differenza è misurata dalla distanza a-b) e ciò si traduce in una perdita per l’impresa produttrice pari all’area del rettangolo rosso. Nessuna impresa sarebbe disposta a produrre la quantità qc a quel prezzo e l’offerta sarebbe quindi nulla.

Q

D

Cme

1/2 q1 q

1

c1

c2

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Una soluzione alternativa, chiamata regolamentazione cost plus, consiste nell’imporre un prezzo p1 pari al costo medio nel punto in cui la curva del costo medio incontra quella di domanda (punto c nella figura 3). In questo caso il profitto sarebbe zero (dato che il prezzo è uguale al costo medio) e ancora una volta nessuna impresa avrebbe convenienza a produrre. Possiamo però assumere che la curva del costo medio misuri non solo i costi di produzione che l’impresa sopporta ma includa anche un margine di profitto normale, cioè non troppo basso né troppo alto date le condizioni generali dell’economia. L’impresa godrebbe quindi di un profitto accettabile (anche se non massimo) che renderebbe conveniente la produzione. Anche questa soluzione non è priva di inconvenienti. In primo luogo il prezzo supera il costo marginale (ricordiamo che il costo marginale è costante ed è sempre uguale a cma) e non consente quindi di massimizzare il benessere sociale. Inoltre non è detto che il policy maker conosca la funzione di costo dell’impresa. Quest’ultima potrebbe allora dichiarare un costo superiore a quello reale e spuntare un prezzo più elevato.

Figura 3. Regolamentazione del prezzo

Anche ammettendo che la funzione di costo sia nota, i problemi non sarebbero ancora finiti. Un prezzo agganciato al costo medio rappresenta infatti un disincentivo all’innovazione. Se l’impresa sa che una riduzione del costo medio, ottenuta mediante l’introduzione di una innovazione di processo, porta con sé una equivalente riduzione del prezzo non ha nessuna convenienza a innovare, in quanto il suo profitto rimarrebbe inalterato. Il rischio è che ciò che la regolamentazione consente di guadagnare sul piano dell’efficienza statica potrebbe essere compensato da una perdita equivalente o anche superiore in termini di efficienza dinamica.

La regola del price-cap

Un modo per ovviare all’inconveniente è quello di fissare un prezzo che varia nel tempo in base alla regola del price-cap. In pratica si permette all’impresa di aumentare il prezzo stabilendo un vincolo superiore, in genere pari al tasso di inflazione diminuito di una certa percentuale x. La regola è quindi:

p = - x%

dove è il tasso di inflazione. Applicando questa regola il prezzo aumenta in misura minore rispetto al tasso di inflazione, da cui deriva una riduzione del prezzo del bene in termini reali. La ratio sottostante è che, in questo modo, l’impresa è costretta ad aumentare la propria efficienza abbassando i costi di produzione (per esempio introducendo innovazioni di processo) per compensare la diminuzione del prezzo e mantenere il proprio margine di profitto. Inoltre se l’impresa è in grado di abbattere i costi in misura maggiore rispetto alla riduzione del prezzo reale

Rma

Cma

p1

C,P

Q

D

c1

qc q

1

pm

qm

c b

a

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può tenere per sé l’aumento di profitto che si determina. Anche in questo caso gli inconvenienti non mancano, l’impresa può infatti reagire non

aumentando l’efficienza del processo produttivo, bensì abbassando la qualità del prodotto o del servizio offerto per abbattere i costi. Un esempio è il caso della Railtrack, impresa ferroviaria del Regno Unito, che ridusse gli investimenti sulla sicurezza dei viaggiatori. Si sono verificati anche casi di imprese municipalizzate del gas che hanno ridotto la percentuale di gas nella miscela immessa in rete.

Gestione privata con gara d’appalto

Molto spesso la gestione di un’attività in regime di monopolio viene affidata ad un’impresa privata selezionata mediante una gara d’appalto. L’autorità pubblica specifica in modo dettagliato il tipo di servizio richiesto e invita le imprese interessate a presentarsi alla gara fornendo le condizioni alle quali sono disposte a servire il mercato, quali tariffe intendono praticare ecc.. L’impresa che offre le condizioni migliori vince l’appalto. Questo sistema ha un vantaggio fondamentale: poiché le imprese concorrono fra loro, le migliori condizioni offerte sono le stesse che si avrebbero in un mercato concorrenziale. Se ci troviamo in regime di monopolio naturale il prezzo non potrebbe essere uguale al costo marginale ma sarebbe, comunque, il più basso possibile compatibilmente con la necessità di garantire all’impresa un profitto normale. L’autorità pubblica potrebbe intervenire con un sussidio pari alla differenza fra il costo marginale e il prezzo praticato dall’impresa vincitrice, in questo modo anche il prezzo sarebbe uguale a quello concorrenziale.

Questo tipo di approccio al problema del monopolio è sempre più diffuso, soprattutto a livello locale. Molti servizi pubblici comunali come il ritiro dei rifiuti, la gestione dell’acquedotto, del gas o dei trasporti pubblici sono affidati ad imprese private con gare d’appalto.

Tuttavia, nonostante gli indubbi vantaggi, anch’esso non è esente da problemi. Se il servizio è complesso, la definizione delle condizioni alle quali deve essere offerto è spesso molto laboriosa e implica l’introduzione di vincoli stringenti all’attività dell’impresa. Se l’attività richiede consistenti investimenti fissi in attrezzature, è inoltre difficile trasferirla ad una nuova impresa quando quella uscente non è più disposta a continuare ad erogare il servizio. Sorge infatti un conflitto, non sempre facilmente risolvibile, fra il nuovo vincitore che vorrebbe acquisire l’attività al minimo costo e ciò che l’impresa uscente richiede per cederla.

Questa difficoltà di sostituzione fa sì che l’impresa già operante diventi inamovibile anche se opera in modo inefficiente. Infatti se l’attività richiede investimenti fissi l’impresa operante ha il vantaggio di averli già fatti mentre quella subentrante dovrebbe ancora sostenerli e sarebbe costretta a scaricare sul prezzo i relativi costi. Ciò potrebbe impedirle di essere competitiva con l’impresa operante. Solo nel lungo periodo quando gli investimenti effettuati fossero diventati obsoleti e dovessero essere interamente rinnovati si ristabilirebbero condizioni di parità dal punto di vista competitivo.

Un ulteriore problema si crea nel caso in cui le imprese che partecipano all’asta non operino come veri concorrenti ma abbiano interesse a colludere fra loro. In questo caso il prezzo che emergerebbe dall’asta sarebbe superiore non solo a quello concorrenziale ma anche a quest’ultimo aumentato del profitto normale.

La normativa antitrust e le politiche per la concorrenza

Nel caso del monopolio naturale le politiche antimonopolistiche consistono, come abbiamo visto, nel controllo del comportamento del monopolista per evitare che il prezzo sia troppo elevato o la quantità troppo limitata. Misure volte ad aumentare il numero delle imprese operanti sul mercato non ne accrescerebbero l’efficienza.

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La creazione di posizioni monopolistiche nei mercati non dipende soltanto dalla presenza di monopoli naturali. Spesso esse sono il risultato di precise strategie da parte delle imprese esistenti, tese a limitare, o impedire del tutto, l’ingresso di nuove imprese che è, in definitiva, l’aspetto più importante della concorrenza. In questi casi l’autorità pubblica può adottare numerose forme di intervento che mirano a eliminare le barriere all’entrata e garantire il più alto grado di concorrenza possibile.

La definizione del mercato rilevante

Le misure antitrust consistono sia nell’imporre lo smembramento di imprese che hanno assunto dimensioni tali da godere di posizioni dominanti sul mercato, sia nell’impedire che tali posizioni si creino attraverso processi di fusione delle imprese.

Interventi di questo tipo sono stati attuati soprattutto negli U.S.A., dove hanno una lunga tradizione. All’inizio del secolo scorso, in base allo Sherman Act, furono smembrati due fra i più famosi trust, come la Standard Oil e la American Tobacco. Più di recente la stessa sorte è toccata ad un grande monopolio delle telecomunicazioni come la AT&T. Mentre non è accaduto altrettanto alla Microsoft in un recente quanto famoso procedimento antitrust (si veda l’approfondimento: Il caso Microsoft)

Tuttavia l’esistenza di una posizione dominante deve essere dimostrata e questo non è sempre facile perché dipende dalle dimensioni del mercato. La domanda cruciale diventa allora: quale è il mercato rilevante? L’internazionalizzazione dei mercati ne ha allargato i confini in molti settori. Spesso, il fatto che in un paese un bene sia prodotto da una sola impresa non è sufficiente per dar luogo ad una posizione dominante. In altri casi i confini del mercato sono difficili da definire. Negli anni 50 del secolo scorso la Dupont aveva il monopolio dei materiali trasparenti da imballaggio (cellophane), ciononostante riuscì ad evitare la scure dell’antitrust sostenendo che quello del cellophane è solo un segmento di un mercato più vasto che comprende tutti i materiali per imballaggio. In Italia un problema simile si è posto per quanto riguarda la quota di Mediaset nella raccolta pubblicitaria. Secondo la legge Gasparri quella di Mediaset non costituisce una posizione dominante, perché il mercato rilevante non è solo quello televisivo, bensì il più vasto mercato delle telecomunicazioni.

La legislazione antitrust in Europa

Nei Paesi dell’Unione europea la legislazione antitrust è relativamente recente ed è stata spesso condizionata, anche al livello della stessa UE, da considerazioni di politica industriale (creazione di Compagnie di Bandiera, tutela delle industrie nazionali dalla concorrenza esterna, etc.).

La legislazione dell’UE è largamente ispirata alla legislazione statunitense ed è imperniata sugli articoli 85, 86 e 92 del Trattato di Roma. La Commissione Europea è il soggetto pubblico preposto alla tutela della concorrenza. All’interno della Commissione uno dei Commissari è preposto alla politica della concorrenza e sovrintende alla relativa Direzione Generale. Contro le decisioni della Commissione in materia di concorrenza si può fare ricorso alla Corte europea di giustizia. La normativa dell’UE vieta: • gli accordi tra imprese che possano impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza

all’interno del mercato comune; • lo sfruttamento abusivo della posizione dominante da parte di una o più imprese; • gli aiuti di Stato alle imprese che falsino le regole della concorrenza, come le sovvenzioni alle

esportazioni ed i finanziamenti in conto capitale. Il divieto relativo agli aiuti di Stato prevede alcune deroghe, sono infatti giudicati ammissibili: • gli aiuti regionali destinati allo sviluppo delle regioni più svantaggiate;

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• gli aiuti orizzontali, come i contributi per ricerca e sviluppo e per la salvaguardia ambientale; • gli aiuti settoriali regolati dalla Commissione su decisioni del Consiglio.

La legislazione antitrust in Italia

La legislazione antitrust è stata introdotta in Italia solo di recente. Con la legge 287 del 1990 il nostro paese si è dotato di una Autorità garante della concorrenza e del mercato che vigila sul rispetto delle regole in tutti i mercati, ad eccezione di quello del credito che rimane di competenza della Banca centrale. L’AGCM ha competenze in materia di: • accordi tra imprese; • fusioni e concentrazioni; • abuso di posizione dominante; • pubblicità ingannevole; • conflitto di interessi.

L’AGCM ha natura di Ente amministrativo. Pertanto le sue decisioni sono soggette alla giurisdizione amministrativa. Essa fornisce, inoltre, pareri e segnalazioni alle autorità governative.

Oltre all’AGCOM sono state istituite anche diverse Autorità di settore, che hanno compiti più specifici e limitati a particolari settori di attività. La nascita di tali organismi è stata resa necessaria soprattutto dall’esigenza di sorvegliare e controllare i processi di privatizzazione e liberalizzazione avvenuti negli ultimi anni. Esempi di questo tipo sono l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e quella di vigilanza sui fondi pensione. Altre Autorità hanno compiti specifici di vigilanza sulla condotta delle imprese come l’Autorità Garante della Privacy, o quelle per gli appalti e per l’informatica nella pubblica amministrazione.

Il caso Microsoft

Nel 1998 la Microsoft fu posta sotto accusa dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti per abuso di posizione dominante. In particolare l’impresa di Seattle fu accusata di avere violato le norme sulla concorrenza (Sherman Act), includendo il browser Internet Explorer nel sistema operativo Windows e danneggiando così i concorrenti Netscape e Opera. La Microsoft si difese sostenendo che ciò era il risultato dell’innovazione tecnologica che spinge verso una progressiva integrazione della rete Internet nel sistema operativo dei personal computer, e che i consumatori avrebbero beneficiato di tali innovazioni non dovendo più sopportare un costo aggiuntivo per il browser. I suoi avversari opponevano a queste argomentazioni il fatto che il prezzo del sistema operativo includeva anche i costi di sviluppo del browser. Il caso era comunque assai più ampio e poneva alcuni problemi di rilevanza generale per le politiche antitrust.

Si poneva innanzitutto il problema della individuazione del mercato rilevante, in base al quale definire la posizione dominante della Microsoft. L’accusa sosteneva che doveva essere considerato come mercato rilevante quello dei sistemi operativi installati su personal computer Intel compatibili (Intel-PC), dove la quota di mercato della Microsoft era superiore al 90%. La difesa della Microsoft opponeva come misura più adeguata l’intero mercato del software. Utilizzando quest'ultimo criterio la MICROSOFT non sarebbe stata un monopolista poiché il suo fatturato era pari al 9% dell’industria del software negli Stati Uniti e al 10% del mercato mondiale.

Un secondo punto importante era che un’impresa, per quanto grande, non può essere considerata dominante a meno che non sia in grado di impedire l’ingresso sul mercato di concorrenti e di comportarsi come un price maker.

La prima sentenza dei giudici, emessa nel 1999, riconosceva la Microsoft colpevole di monopolizzazione del mercato e la condannava allo smembramento in due unità separate: una per la produzione di sistemi operativi e l’altra per altri tipi di software. Ma il processo si concluse con una sentenza molto più blanda che la obbligava a condividere i codici API (Application

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Programming Interface) con altre imprese, e a nominare un gruppo di tre esperti indipendenti che avrebbero avuto pieno accesso al codice sorgente del sistema operativo Windows per controllare l’applicazione della sentenza.

Curiosamente non si parlava più del divieto di legare altro software al sistema operativo che era stato la motivazione iniziale della causa.

I mercati contendibili

Secondo un approccio che ha avuto un’ampia diffusione negli ultimi decenni gli interventi di cui abbiamo parlato fino ad ora non sarebbero necessari nella maggior parte dei casi. Ciò che il policy maker dovrebbe limitarsi a fare è impedire che nel mercato si creino barriere all’entrata, questo sarebbe di per sé sufficiente ad eliminare o attenuare in larga misura i problemi legati al monopolio, anche nel caso di monopolio naturale. La teoria in questione è quella dei mercati contendibili il cui pioniere è William Baumol. Secondo questa teoria la sola “minaccia di concorrenza potenziale” ossia di entrata di imprese esterne indurrebbe il monopolista sia a minimizzare i costi che a stabilire prezzi e quantità concorrenziali. Per comprendere questa affermazione è necessario stabilire cosa si intende per mercato contendibile. Un mercato è "contendibile" quando a) l'entrata è "libera" e b) l'uscita non comporta costi. Entrata "libera" significa che una nuova impresa che vuole entrare nel mercato (entrant) non sostiene alcun costo aggiuntivo rispetto a quelli sostenuti dall'impresa già presente (incumbent) ossia non ha uno svantaggio di costo rispetto ad essa. Ciò richiede che l'entrante abbia accesso alla stessa tecnologia e agli stessi input e che i consumatori percepiscano il prodotto dell'entrant come uguale a quello dell'incumbent. Perché l’uscita sia senza costi è necessario che ciascuna impresa possa recuperare tutti i costi sostenuti qualora decidesse di uscire dal mercato; in pratica ciascuna impresa può rivendere i macchinari che ha acquistato per produrre nell'industria allo stesso prezzo d'acquisto al netto del deprezzamento o può riutilizzarli in un’altra produzione. Se queste condizioni sono presenti sul mercato l’impresa incumbent non potrebbe realizzare a lungo sovraprofitti perché questo incentiverebbe l’ingresso di nuove imprese che sarebbero disposte a praticare un prezzo più basso pur di realizzare sovraprofitti. L’ingresso di nuove imprese eroderebbe i sovraprofitti fino a che il prezzo non scende al livello concorrenziale. Non è necessario che questo avvenga di fatto, è sufficiente la minaccia di ingresso di nuove imprese per costringere il monopolista ad eliminare l’incentivo all’ingresso, cioè il sovraprofitto, praticando un prezzo uguale o vicino a quello concorrenziale. E’ chiaro che in questo caso il mercato è in grado di raggiungere spontaneamente un’allocazione ottimale e lo Stato dovrebbe astenersi dal regolare i prezzi o smembrare imprese di grandi dimensioni e limitarsi piuttosto ad impedire la formazione di barriere all’entrata e favorire il più possibile la libertà di entrata e di uscita.

Tutto questo è molto bello ma viene subito da chiedersi: quanto spesso queste condizioni si verificano? La risposta è che nella realtà i mercati sono raramente contendibili. Il mercato dei trasporti è tra quelli considerati più contendibili. Prendiamo per esempio il trasporto aereo, se una compagnia serve in regime di monopolio una certa tratta per la quale il prezzo eccede il costo, non sarebbe difficile per un’altra compagnia stipulare accordi di scalo con gli aeroporti serviti in quella tratta e dirottare alcuni degli aeromobili che già utilizza in altre aree sulla tratta in questione. I costi dell’operazione sarebbero probabilmente molto bassi e, nel caso in cui i profitti si annullassero, sarebbe altrettanto facile tornare a fare ciò che si faceva in precedenza.

Ciononostante negli anni ottanta negli USA si verificò un forte aumento delle tariffe in diverse tratte in cui la concorrenza era limitata, evidentemente la minaccia dell’ingresso di nuove imprese non era abbastanza forte da tenere bassi i prezzi. Questo accadeva perché in realtà l’ingresso in

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una tratta comporta costi non trascurabili. Per esempio è necessario informare i clienti della compagnia incumbent dei vantaggi ottenibili rivolgendosi a quella entrante, dovevano essere aperte nuove agenzie e così via. Inoltre le compagnie potenziali entranti sapevano che i prezzi sarebbero caduti dopo l’ingresso. Insomma il gioco non valeva la candela.

Approfondimento: le privatizzazioni in Italia

La privatizzazione delle attività economiche di proprietà pubblica ha avuto inizio in Italia negli anni 90. Un forte impulso in questa direzione fu dato dal governo Amato con l’avvio della privatizzazione dell’ENI, IRI, ENEL, INA, BNL e Ferrovie dello Stato. La legge 333 del ‘92 definiva le modalità della privatizzazione stabilendo che si dovesse procedere preferibilmente ad un’offerta pubblica di vendita. Attraverso l’offerta pubblica viene definito il prezzo di vendita dell’attività da privatizzare. Si tratta di una fase molto delicata del processo di privatizzazione, nella quale l’esigenza di fare cassa può condurre ad una forte sottostima del valore dell’attività. Questo è indubbiamente accaduto in alcuni casi. L’assenza di un mercato azionario diffuso e le caratteristiche del capitalismo italiano hanno fatto sì che la vendita si trasformasse in un duro scontro fra gruppi di potere pubblici e privati, in cui lo Stato ha finito per subire una doppia perdita: quella subita acquistando a suo tempo a caro prezzo imprese sull’orlo del fallimento, e la seconda, nella fase di privatizzazione, offrendo a prezzi molto appetibili le imprese pubbliche migliori.

La legge fissava, inoltre, i limiti di detenzione delle azioni da parte dei nuovi azionisti privati. Anche questo è un aspetto importante che può condizionare il successo della privatizzazione. Lo Stato, pur diventando azionista di minoranza, può riservarsi diritti speciali come la cosiddetta golden share, che consente di mantenere forme di controllo, come la nomina di un certo numero di amministratori o l’esercizio di un diritto di veto in caso di successiva vendita a terzi. Il dibattito in Italia si è concentrato sul dilemma fra public company e nocciolo duro, ovvero fra un’organizzazione della proprietà caratterizzata da una frammentazione dell’azionariato in molti piccoli azionisti (public company), e una basata sulla concentrazione del potere gestionale in mano a un forte gruppo di controllo (nocciolo duro).

Infine la legge prevedeva la creazione di autorità di regolamentazione per le public utilities. Con il primo governo Prodi le privatizzazioni furono portate avanti con le dismissioni dell’ENI,

IMI,INA, BNL e, in particolare, con la privatizzazione della Telecom Italia nel 1997, che ha portato a una quasi completa liberalizzazione del mercato e ad una sostanziale riduzione delle tariffe telefoniche.

Con il secondo governo Berlusconi nel 2001, le privatizzazioni hanno subito invece un forte rallentamento.

Esternalità

Inefficienza del mercato in presenza di esternalità

Nelle pagine precedenti abbiamo esaminato un caso di fallimento del mercato dovuto a mancanza di concorrenza, in cui l’intervento pubblico può contribuire a migliorare l’efficienza del mercato stesso mediante corrette misure di politica economica.

Un secondo caso molto importante di fallimento del mercato si ha quando sono presenti esternalità. Come avremo modo di vedere, in presenza di esternalità, l’introduzione di tasse e sussidi, lungi dal generare distorsioni come accade in un mercato perfetto, permette di accrescere l’efficienza complessiva. Nel caso in cui le esternalità siano tali che il bene ha le caratteristiche di un bene pubblico, l’intervento diretto dello Stato nella produzione può essere l’unica soluzione al fallimento del mercato.

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Le esternalità sorgono quando le decisioni di un agente economico producono effetti su altri agenti senza che il mercato ne tenga conto. Il mercato può essere interpretato come un sistema di segnali o, se vogliamo, di premi e sanzioni. Attraverso i prezzi il mercato segnala che cosa la società preferisce e quanto costa sottrarre risorse ad altri impieghi. Gli agenti rispondono a questi segnali perché, se si comportano coerentemente con essi, saranno premiati, se non lo fanno subiranno sanzioni (se un'impresa aumenta la produzione di beni il cui prezzo è aumentato otterrà maggiori profitti, mentre, se destina più risorse alla produzione di beni il cui prezzo è diminuito, subirà perdite). Quando ci sono esternalità questo sistema si inceppa e non riesce più a inviare segnali corretti, perché le decisioni che producono effetti negativi su altri agenti non sono sufficientemente sanzionate e quelle che hanno un impatto positivo non sono premiate quanto dovrebbero.

Ciò accade perché i diritti di proprietà non sono ben definiti. In altri termini gli agenti non sono in grado di appropriarsi in modo esclusivo dei benefici derivanti da decisioni giuste, né subiscono interamente i danni causati da decisioni sbagliate. Per esempio, l’impresa A può inquinare le acque di un fiume e imporre costi all’impresa B che le utilizza, perché quest’ultima non ha alcun diritto sulle acque del fiume.

In questa situazione non esiste più una piena corrispondenza fra benefici e costi sociali da un lato e benefici e costi individuali o privati dall’altro.

Esternalità negative

Possiamo esaminare gli effetti delle esternalità nella figura 4. La linea nera dei costi privati misura i costi effettivamente sostenuti dalle imprese, ma esse impongono alla società costi aggiuntivi che si sommano a quelli privati. I costi totali per la società sono misurati dalla linea rossa, ma le imprese non li considerano e prendono le proprie decisioni di offerta in base ai costi privati, cioè quelli che effettivamente sopportano. L’equilibrio si avrà quindi ad un prezzo P1 e con una quantità prodotta Q1. Questa quantità è superiore a quella ottimale alla quale il costo marginale sociale è uguale al prezzo. La presenza di esternalità negative da luogo quindi a una produzione eccessiva.

Figura 4. Esternalità negative

Esternalità positive

Esternalità positive si hanno invece quando le decisioni di un agente determinano una riduzione dei costi sociali o, il che è lo stesso, un aumento dei benefici sociali di cui il mercato non tiene conto. Un caso tipico è quello dei vaccini. Chi decide di vaccinarsi lo fa perché così riduce la

P

Q1 Q Q

2

P2

P1

Costi sociali

Costi privati

D

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probabilità di ammalarsi, ma non prende in considerazione il fatto che coloro che entreranno in contatto con lui trarranno benefici dalla sua decisione perché non verranno contagiati.

Nella figura 5 la linea nera decrescente misura i benefici per coloro che si sottopongono al

vaccino, ma i benefici sociali sono superiori a quelli privati e sono misurati dalla linea rossa. Se coloro che si vaccinano tengono conto solo dei benefici privati l’equilibrio si avrà quindi ad un prezzo P1 e una quantità Q1. Questa quantità è inferiore a quella ottimale (Q2), alla quale il costo marginale è uguale al beneficio marginale sociale. La presenza di esternalità positive da luogo quindi a sottoproduzione.

Le politiche

I due problemi di sovra e sottoproduzione possono essere risolti o attenuati facendo in modo che gli agenti che prendono le decisioni tengano conto dei costi e dei benefici sociali. E’ necessario cioè internalizzare le esternalità ossia ristabilire un corretto sistema di premi e sanzioni.

Si può ottenere questo risultato grazie all’introduzione di una tassa nel caso delle esternalità negative e di un sussidio in presenza di esternalità positive. Nella figura 6a l’introduzione di una tassa pari al segmento azzurro fa aumentare i costi privati, fino a farli coincidere con quelli sociali. La linea rossa diventa allora la curva dei costi e di offerta per le imprese, e l’equilibrio si sposta verso quello ottimale con un prezzo P2 e una quantità Q2.

Figura 6. Tasse e sussidi

Figura 5. Esternalità positive

P

Q1 Q Q

2

P2

P1

Benefici sociali

Benefici privati

P

Q1 Q Q

2

Costi sociali

Costi privati

D

P

Q1 Q Q

2

P2

P1

Benefici sociali

Benefici privati

tassa sussidio

o

P2

P1

a b

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Nella figura 6b un sussidio pari al segmento verde accresce i benefici dei vaccinati facendoli

coincidere con quelli sociali. La curva di domanda di vaccini diventa quindi la linea rossa e l’equilibrio si determina nel punto ottimale con prezzo P2 e quantità Q2.

Perché le tasse sono una soluzione efficiente?

Le tasse sono una soluzione efficiente al problema delle esternalità. Naturalmente nella realtà non è semplice stabilire quale deve essere l’entità della tassa per internalizzare completamente le esternalità, dal momento che spesso la funzione dei costi sociali non è ben definita. Si può procedere per tentativi variando la tassa fino ad ottenere il risultato voluto. Nel caso della politica ambientale, per esempio, la tassa riduce l’inquinamento e l’entità di tale riduzione è misurabile. La domanda che sorge spontanea a questo punto è: perché non risolvere il problema imponendo direttamente standard ambientali che le imprese sono tenute a rispettare e multare quelle che non li rispettano?

Gli economisti sono in genere favorevoli all’uso della tassazione rispetto all’imposizione di uno standard, perché le tasse consentono di ottenere lo stesso risultato in termini di riduzione dell’inquinamento ad un costo inferiore.

Figura 7. Tassa pigouviana

Nella figura 7 misuriamo sull’asse delle ascisse la quantità di sostanze inquinanti emessa dalle imprese e su quello delle ordinate i costi di abbattimento dell’inquinamento stesso. La linea blu rappresenta l’andamento di questi ultimi. Per ridurre l’inquinamento (spostandosi da destra a sinistra) bisogna sostenere costi crescenti. In sostanza più si inquina e minori, come è ovvio, sono i costi di abbattimento, per questo motivo la linea blu è decrescente. Se il governo introduce una tassa per unità di inquinamento pari a T (in pratica significa dire alle imprese: se pagate la tassa potete inquinare), le imprese ragionano nel modo seguente: finché il costo di abbattimento è inferiore alla tassa è conveniente disinquinare pagando il costo degli impianti necessari. Quando il costo supera la tassa diviene conveniente pagare la tassa e continuare a inquinare. Immaginiamo che le imprese abbiano costi di abbattimento differenti e che ognuna di esse sia rappresentata da un punto sulla linea blu. Quelle che stanno più a destra hanno costi più bassi e quelle più a sinistra sopportano costi più alti. Questo implica che tutte le imprese che si collocano a destra del punto I* nella figura 7 decideranno di abbattere l’inquinamento perché farlo costa meno che pagare la

I

Costi

T

I* O

B

C

A

I1 I2

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tassa. Viceversa tutte quelle che stanno a sinistra preferiranno pagare la tassa e continueranno a inquinare. L’inquinamento sarà quindi pari a I*. Il costo complessivo del disinquinamento per arrivare al livello I* è dato dall’area del triangolo BI*I. Questo stesso risultato si potrebbe ottenere anche obbligando tutte le imprese a disinquinare nella stessa misura mediante l’imposizione di uno standard che limita l’inquinamento complessivo al livello I*. In questo caso però tutte le imprese sarebbero costrette a disinquinare e questo varrebbe nella stessa misura sia per quelle che hanno costi più bassi sia per quelle che li hanno più alti. Possiamo ipotizzare che metà del disinquinamento venga realizzato dalle imprese che hanno costi inferiori alla tassa con un costo pari al triangolo CI2I e metà dalle altre con un costo pari al trapezio ABI*I1. Si può vedere facilmente che la somma di queste due aree è superiore a quella del triangolo BI*I perché, con lo standard a differenza della tassa, il costo si riduce del trapezio BCI2I* ma aumenta del più grande trapezio ABI*I1.

Un esempio numerico

Per rendere più chiara l’argomentazione precedente vediamo ora un esempio numerico. Immaginiamo che nel nostro mercato operino due imprese A e B. Ciascuna di esse emette una quantità 10 di gas inquinanti. L’inquinamento totale è quindi pari a 20. Per abbattere di una unità l’inquinamento l’impresa A sopporta un costo pari a 80 euro, mentre per l’impresa B il costo unitario è di 120 euro.

Se il policy maker ritiene che una quantità 10 di gas inquinanti sia il livello ottimale di inquinamento, può conseguire tale obiettivo sia con l’introduzione di uno standard che con l’imposizione di una tassa. Nel primo caso ciascuna delle due imprese sarebbe tenuta ad abbattere le proprie emissioni di 5 unità. Il costo per l’impresa A sarebbe pari a 80 x 5 = 400, mentre per l’impresa B sarebbe 120 x 5 = 600. Il costo totale per raggiungere lo standard prefissato sarebbe quindi pari a 400 + 600 = 1000.

Cosa accadrebbe se venisse imposta una tassa pari a 100 per ogni unità di inquinamento? Le due imprese potrebbero scegliere se abbattere l’inquinamento acquistando depuratori, oppure risparmiare su questa spesa e pagare la tassa per continuare a inquinare.

L’impresa A ha convenienza a non pagare la tassa, perché abbattere le emissioni di un’unità le costa meno che pagare la tassa (80<100). Preferisce quindi azzerare le proprie emissioni con un costo totale di 800 (80 x 10). L’impresa B, al contrario, sopporta un costo di abbattimento superiore alla tassa (120>100), ha quindi convenienza a continuare ad inquinare esattamente come prima e pagare la tassa.

In totale le emissioni delle due imprese ammontano in entrambi i casi a 10, ovvero quanto richiesto dallo standard, ma i costi sono differenti. Con la tassa solo l’impresa A sopporta costi di abbattimento per un totale di 800, con lo standard entrambe riducono l’inquinamento con un costo complessivo di 1000. La tassa consente quindi di ottenere lo stesso obiettivo ad un costo inferiore.

Si noti che l’ammontare della tassa pagata dall’impresa B è un costo per l’impresa ma non per la società, perché il gettito della tassa va allo Stato e si trasformerà in un beneficio per coloro che usufruiranno della spesa pubblica con essa finanziata.

Permessi negoziabili

Un altro tipo di strumento di intervento particolarmente utilizzato in campo ambientale è costituito dai permessi negoziabili o certificati ambientali. I permessi sono niente altro che autorizzazioni a produrre una certo ammontare di inquinamento concesse dal policy maker alle imprese. L’autorità pubblica stabilisce un ammontare massimo di inquinamento complessivo, dopodiché distribuisce alle imprese permessi di inquinamento per un totale pari al massimo

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OA O

B I

Inquinamento

I2 S

standard CmA,P CmB,P

C

D

E

I3

F

G

stabilito. L’idea sottostante è di creare un mercato in cui le imprese possano liberamente scambiare tali permessi nel caso in cui ciò risulti conveniente e lasciare che il mercato stesso determini il prezzo di scambio. In altri termini il decisore pubblico stabilisce il tetto massimo di inquinamento ma la sua distribuzione è lasciata al mercato. Questa soluzione presenta almeno due vantaggi non trascurabili innanzitutto consente, come vedremo fra breve, di minimizzare i costi sociali necessari per ottenere un livello di inquinamento prestabilito. Questo risultato si può ottenere anche con la tassazione ma, se le curve dei costi di abbattimento non sono note all’autorità pubblica, calcolare la tassa ottimale non è semplice, bisogna procedere per tentativi ed errori. I permessi permettono di risolvere questo problema perché il prezzo dei permessi, che è uguale alla tassa, è determinato spontaneamente dal mercato.

Le imprese possono inquinare entro i limiti definiti dai permessi di cui dispongono (per esempio se un permesso consente di emettere 10 unità di CO2 nell’aria, un’impresa che ne possieda 100 potrà inquinare fino a un massimo di 100x10 = 1000 unità di Co2). Se il suo livello di produzione comporta un inquinamento superiore, dovrà ridurlo fino a rientrare nei limiti consentiti dai permessi e dovrà quindi sostenere costi di abbattimento.

Se nel mercato operano imprese che hanno costi di abbattimento differenti si creerà una domanda e un offerta di permessi. Ipotizzando un certo prezzo di acquisto dei permessi, le imprese che debbano sopportare costi di abbattimento superiori a tale prezzo saranno indotte ad acquistare permessi perché, in questo modo, eviteranno costi di abbattimento superiori. Al contrario, le imprese che abbiano costi di abbattimento inferiori avranno interesse a vendere i permessi, perché otterranno un ricavo superiore ai costi che devono sostenere per ridurre l’inquinamento entro i limiti consentiti.

L’equilibrio fra domanda e offerta determina un prezzo dei permessi in questo mercato. E’ possibile dimostrare che a questo prezzo l’inquinamento è distribuito in modo tale da ridurre i costi totali di abbattimento dell’inquinamento rispetto a quelli che si avrebbero imponendo alle imprese uno standard. Vediamo come.

Figura 8. Permessi negoziabili e standard Consideriamo due imprese (A e B) le cui produzioni emettono sostanze inquinanti ciascuna per

un ammontare pari alla distanza OAOB. L’inquinamento complessivo è quindi uguale al doppio di questa distanza. Le due imprese possono ridurre l’inquinamento ma, per farlo, devono sopportare costi marginali che sono rappresentati dalle due curve crescenti. La curva che parte dall’origine OA misura i costi marginali che deve sopportare l’impresa A per abbattere l’inquinamento. Maggiore è la riduzione maggiori sono i costi per abbattere ulteriormente l’inquinamento di una unità

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aggiuntiva. Se l’impresa A abbattesse l’inquinamento per un ammontare pari a OAI, il suo costo marginale sarebbe IC e il costo totale sarebbe misurato dall’area OAIC (ossia la somma di tutti i costi marginali relativi a ciascuna dose di inquinamento da OA ad I). Allo stesso modo la curva che parte dall’origine OB misura i costi marginali di abbattimento dell’impresa B. Se quest’ultima abbattesse l’inquinamento per un ammontare pari a OBI2, il suo costo marginale sarebbe I2D e il costo totale sarebbe misurato dall’area OBI2D.

Supponiamo che l’autorità per la politica ambientale voglia limitare l’inquinamento ad un massimo fissato nella distanza OAOB. Questo significa che le due imprese dovrebbero ridurre a metà il loro inquinamento complessivo. Per ottenere questo risultato il governo può utilizzare due strumenti: l’imposizione di uno standard o il ricorso a un sistema di permessi negoziabili. Nel primo caso il governo imporrebbe a ciascuna delle due imprese di ridurre a metà il proprio inquinamento. In sostanza l’impresa A dovrebbe abbatterlo di OAS e l’impresa B di OBS, in questo modo l’inquinamento complessivo si ridurrebbe a OAOB. Possiamo misurare facilmente quali sarebbero i costi di questa soluzione. L’impresa A sopporterebbe costi totali per un ammontare pari all’area del triangolo OASG, all’impresa B l’abbattimento costerebbe una somma misurata dall’area del triangolo OBSF. Il costo complessivo sarebbe la somma delle due aree.

Immaginiamo ora che il governo distribuisca alle due imprese permessi negoziabili che consentano a ciascuna di inquinare per un ammontare pari a metà dello standard. Entrambe le imprese dovrebbero ridurre a metà l’inquinamento come nel caso precedente ma, a questo punto, si aprirebbe la possibilità di uno scambio di permessi vantaggioso per entrambe. Entrambe le imprese stanno disinquinando nella stessa misura ma i loro costi marginali sono diversi: SG per l’impresa A e SF per l’impresa B. L’impresa B avrebbe convenienza ad acquistare permessi a qualunque prezzo inferiore a SF perché inquinare per una unità in più (grazie al relativo permesso) costerebbe meno che abbattere l’inquinamento nella stessa misura. In questo modo però il costo marginale di abbattimento si riduce (l’impresa si sta spostando verso destra), l’impresa B quindi sarebbe sempre disposta ad acquistare permessi ma ad un prezzo decrescente, ovvero avrebbe convenienza ad acquistare permessi fino a ché il loro prezzo fosse inferiore o, al massimo, uguale al costo marginale di abbattimento. La curva del costo marginale a partire dal punto F fino a OB corrisponde quindi alla curva di domanda di permessi dell’impresa B. Come si comporterebbe invece l’impresa A? Questa ha interesse a vendere permessi se il loro prezzo è superiore o almeno uguale al costo marginale di abbattimento. Quindi la sua curva del costo marginale, a partire dal punto G e proseguendo alla sua destra, non è altro che la curva di offerta di permessi dell’impresa A. E’ evidente che, in queste condizioni, l’impresa A venderebbe permessi e l’impresa B li acquisterebbe ma gli scambi non potrebbero andare oltre il punto E perché, a destra di quel punto, B avrebbe convenienza ad acquistare solo a un prezzo inferiore a quello al quale A è disposta a vendere (la curva di offerta sovrasta quella di domanda). Nel punto E, pertanto, il mercato è in equilibrio con un prezzo pari a I3E e una distribuzione dei permessi OAI3 per l’impresa B e OBI3 per l’impresa A (attenzione: in equilibrio l’impresa A sta abbattendo l’inquinamento di OAI3 e inquina per un ammontare OBI3 quindi deve detenere permessi per lo stesso ammontare, il contrario vale per l’impresa B). Questo risultato è frutto di una semplificazione a fini espositivi. In realtà, in presenza di due sole imprese sul mercato, il prezzo non sarebbe necessariamente I3E ma ma dipenderebbe dalla abilità di ciascuna impresa nella contrattazione, se però estendessimo l’analisi ad un mercato concorrenziale in cui operano molte imprese, il risultato finale sarebbe esattamente quello che abbiamo descritto.

Perché questo risultato è più efficiente di quello ottenibile con lo standard? Possiamo facilmente dare una risposta confrontando i costi. In entrambi i casi l’inquinamento è lo stesso (OAOB) ma nel secondo i costi sono minori. Infatti i costi di abbattimento con i permessi sono uguali alla somma dell’area OAI3E (impresa A) più l’area OBI3E (impresa B). Questa somma è più piccola della precedente determinata dallo standard (OASG + OBSF) e la differenza è data dal

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triangolo EFG. Il motivo è che lo scambio di permessi permette di raggiungere il punto efficiente in cui i costi marginali delle due imprese sono uguali al prezzo e quindi fra loro (questo è esattamente quello che accade in un mercato concorrenziale ed è la condizione generale per la minimizzazione dei costi), mentre lo standard è meno flessibile e fa sì che permangano costi marginali diversi.

L’efficienza della pubblica amministrazione

Fallimenti del mercato e fallimenti dello Stato

I fallimenti del mercato rendono necessario l’intervento pubblico nella produzione di beni e servizi che il mercato non è in grado di produrre in modo efficiente. In qualche caso questo intervento può limitarsi a modificare le decisioni degli agenti attraverso la tassazione, in altri lo Stato deve sostituirsi agli agenti privati nella produzione di beni che il mercato non è in grado di produrre in modo efficiente o, addirittura, non produce per niente. E’ il caso dei beni pubblici, lo Stato può sopperire alle deficienze del mercato perché dispone di un potere di coercizione e, attraverso l’imposizione fiscale, può costringere i cittadini a finanziare i costi di produzione dei beni pubblici. Tuttavia è lecito porsi la seguente domanda: lo Stato è , a sua volta, in grado di produrre questi beni in modo efficiente?

Lo Stato e gli altri agenti pubblici (politici, amministratori pubblici ecc.) sono generalmente considerati come un soggetto indistinto che agisce in nome di un generico “interesse pubblico”. In realtà essi sono soggetti individuali che agiscono per conto di altri, prendono cioè decisioni che producono effetti su altri soggetti. Questo fatto ha due implicazioni. In primo luogo le decisioni dei soggetti pubblici non sono necessariamente neutre e orientate al perseguimento del benessere sociale ma possono rispondere a interessi particolari dei singoli individui o gruppi. Questo non significa che le loro motivazioni siano identiche a quelle che sono alla base del comportamento degli agenti privati, al contrario possono essere diverse e dar luogo ad esiti differenti da quelli generati dal libero gioco del mercato.

Differenze fra settore pubblico e privato

La pubblica amministrazione viene spesso accusata di essere inefficiente, rigida e lenta nell’applicazione delle procedure e resistente alle innovazioni. E’ difficile stabilire concretamente in che misura il settore pubblico sia meno efficiente di quello privato. Tuttavia esistono alcune ragioni generali che inducono a ritenere plausibile questa ipotesi in certi casi. Esistono due ordini di problemi: • gli incentivi organizzativi sono diversi nel settore pubblico e in quello privato; • le caratteristiche delle attività svolte nel settore pubblico sono spesso tali da rendere difficile la

misurazione dei risultati conseguiti. Nel settore privato il mercato sanziona l’inefficienza delle imprese attraverso la perdita di

profitti e, in definitiva, il fallimento dell’impresa. Questo vincolo è importante perché costringe l’impresa a sostituire amministratori incapaci che sono all’origine delle perdite, e a non cedere di fronte a richieste salariali che non siano compatibili con la propria competitività sul mercato.

Una seconda differenza importante riguarda il fatto che le imprese private sono sottoposte alla concorrenza, mentre questo non accade nel settore pubblico. La mancanza di concorrenza significa in primo luogo che gli utenti dei servizi della pubblica amministrazione non hanno l’opportunità di scegliere e di esprimere le loro preferenze. In un regime concorrenziale, se un utente è disposto a pagare di più per usufruire di un servizio rapido, potrebbe reagire alla lentezza di un’amministrazione rivolgendosi a un’altra che pratica un prezzo più alto ma fornisce un servizio migliore. In questo caso l’amministrazione inefficiente sarebbe costretta a tenere conto

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delle preferenze dell’utente sobbarcandosi i costi di un aumento del personale per velocizzare il servizio. In assenza di concorrenza l’amministrazione non riceve nessun segnale di questo tipo e l’inefficienza tende a persistere. Gli incentivi nel settore pubblico

La concorrenza crea incentivi per le imprese a fornire un servizio che risponda alle esigenze dell’utenza e permette un confronto fra diverse soluzioni al problema. In sua assenza il confronto non è possibile e viene meno l’opportunità di sanzionare l’impresa inefficiente rivolgendosi ad altri.

Anche gli incentivi individuali sono diversi. Nelle imprese private le remunerazioni dei manager sono legate ai profitti e quindi al successo di mercato delle decisioni prese da questi ultimi. Nel settore pubblico questo non accade o, comunque, la corrispondenza fra risultati e remunerazione è molto meno chiara, soprattutto perché, come vedremo fra poco, non è facile valutare con precisione i risultati delle decisioni degli amministratori pubblici.

Per quanto riguarda la sicurezza del posto di lavoro, le differenze sono note. La non licenziabilità del dipendente pubblico (a meno di atti illeciti) risponde all’esigenza di rendere la burocrazia il più possibile indipendente da pressioni politiche, ma presenta lo spiacevole effetto collaterale di rendere il dipendente non sanzionabile anche in caso di incompetenza. Obiettivi e risultati nella pubblica amministrazione

Come abbiamo visto, l’inefficienza del settore pubblico può essere spiegata, almeno in parte, con la mancanza di corretti incentivi, ma ciò dipende a volte dal fatto che la natura stessa delle attività svolte nel settore pubblico è diversa da quelle del settore privato. Nei processi produttivi che si svolgono nelle imprese è possibile determinare con una certa precisione i costi degli input e il valore dell’output, nonché l’insieme delle azioni e procedure necessarie per trasformare gli uni nell’altro in modo efficiente (tecnologie). L’impresa dispone, inoltre, di un indicatore abbastanza chiaro della bontà delle decisioni prese: il profitto.

Le cose stanno spesso diversamente nelle attività pubbliche. Mentre non è difficile misurare i costi di produzione, non altrettanto si può dire a proposito dell’output. Quale è, per esempio, l’indicatore più corretto per misurare un programma di sussidi agli studenti meritevoli e bisognosi? Potrebbero essere i voti riportati, o i redditi guadagnati nella vita lavorativa. Ma potrebbe essere anche la capacità del programma di selezionare correttamente studenti bisognosi e meritevoli, da cui dipendono in ultima analisi i risultati menzionati.

Spesso inoltre gli obiettivi che un programma persegue sono molteplici e complessi e non è facile definire una gerarchia dell’importanza dei diversi obiettivi specifici. I programmi di sviluppo o quelli relativi ai servizi sociali sono esempi di questo tipo.

Un altro aspetto problematico ha a che fare con l’ambiguità delle tecnologie: ossia la difficoltà di definire con sufficiente chiarezza le procedure per trasformare gli input in output. Per esempio, l’obiettivo di ridurre la povertà può essere realizzato in modi molto diversi e persino contraddittori. Aumentare i livelli salariali o salvaguardare l’occupazione può essere un modo, ma lo è anche favorire la crescita economica contenendo i salari e consentendo alle imprese di disinvestire licenziando i lavoratori in sovrannumero.

La difficoltà di misurare i risultati non permette di disegnare una struttura degli incentivi che spinga i manager a prendere decisioni efficienti. La logica decisionale dei burocrati

Quali sono allora gli obiettivi dei burocrati e quali i criteri decisionali che adottano per conseguirli?

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I burocrati non possono appropriarsi dei profitti che derivano dai servizi prestati la loro logica decisionale non può quindi essere quella dell’impresa privata cioè la massimizzazione del profitto. Che cosa quindi cercano di massimizzare? Secondo alcuni analisti i burocrati cercano di accrescere le dimensioni del loro ente in termini di budget, di dipendenti ecc. poiché da esse dipendono la loro remunerazione, la reputazione pubblica, il loro potere. Un’impresa privata riesce a crescere se soddisfa le esigenze dei consumatori. Se lo fa meglio dei concorrenti la sua quota di mercato aumenta a danno dei concorrenti e, con essa, i suoi profitti. Anche il burocrate è in concorrenza con gli altri burocrati per l’assegnazione dei fondi di bilancio. Questo è, a suo modo, un mercato, con la differenza che i “clienti” che il burocrate deve soddisfare non sono i cittadini utenti, bensì i politici che decidono gli stanziamenti di bilancio. Il burocrate statale tende quindi ad essere in sintonia con i desideri dei politici che sovrintendono al suo ente. Questo fatto di per sé non comporta necessariamente inefficienza nel senso di incapacità di soddisfare le preferenze dei cittadini se i politici sono rappresentativi di queste ultime.

In altri casi il servizio comporta il pagamento di una tariffa e allora il budget dell’ufficio dipende dalla spesa dei cittadini per il servizio.

Il rapporto fra burocrati e politici è caratterizzato da asimmetria di informazione. Il burocrate conosce meglio la funzione di costo della attività produttiva che svolge mentre il politico dispone di informazioni più limitate e incerte e non è il grado di accertare il grado di efficienza del servizio.

Il burocrate massimizzante può generare inefficienza

Come si comporta un burocrate che abbia come obiettivo quello di massimizzare le dimensioni del suo ente? Questo problema è stato analizzato da un economista studioso della burocrazia di nome Niskanen. Niskanen assume che l’obiettivo del burocrate sia quello di massimizzare il suo budget sotto il vincolo di coprire i costi e non subire perdite. Consideriamo un servizio con tariffa per cui tali dimensioni sono misurate dalla spesa degli utenti. Maggiore è la spesa, maggiori saranno i fondi a disposizione dell’ufficio per ingrandire le sedi, assumere nuovi dipendenti ecc., tutti fattori che entrano nella funzione obiettivo del burocrate. Alternativamente potremmo immaginare che il burocrate che dirige l‘ufficio riceva un budget dal governo il quale, a sua volta, è disposto a finanziare il servizio con uno stanziamento massimo che riflette quanto i cittadini sono disposti a spendere per quel servizio (altrimenti il governo subirebbe conseguenze negative sul piano elettorale perché non rispetterebbe le loro preferenze tassandoli più di quanto sono disposti a spendere).

In entrambi i casi il budget dipende dalla disponibilità a pagare dei cittadini che è misurata dalla curva di domanda per il servizio. Nel grafico a sinistra della figura 9 alla pagina seguente è raffigurata una normale curva di domanda inclinata negativamente. In questo grafico la spesa degli utenti è misurata dall’area del rettangolo che ha per lati le coordinate del prezzo e della quantità. Nel caso raffigurato l’area del rettangolo è quella grigia. La spesa varia al variare del prezzo e della quantità e dipende dall’elasticità della domanda che cambia lungo la curva (normalmente in una funzione lineare la domanda è anelastica a un prezzo basso, e diventa via via più elastica all’aumentare del prezzo).

Sappiamo che, quando la domanda è anelastica, all’aumentare del prezzo la quantità domandata si contrae meno che proporzionalmente e la spesa totale, che è il prodotto dei due, aumenta. Il contrario accade se la domanda è elastica. Il punto in cui questo rovesciamento ha luogo è il punto medio della curva di domanda in cui l’elasticità è unitaria (punto M nella figura).

Possiamo riportare il valore della spesa nel grafico a destra trasformandola in una misura lineare che troviamo sull’asse delle ascisse (in sostanza nella figura 9 la spesa Smax sul grafico a destra equivale all’area del rettangolo grigio in quello a sinistra). Nell’asse delle ordinate riportiamo il prezzo dal grafico a sinistra. Sappiamo che la domanda è anelastica quando il prezzo è basso pertanto, se ci muoviamo dall’origine facendo aumentare il prezzo, la spesa tenderà ad

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aumentare fino al prezzo P* per poi diminuire a prezzi più alti, come mostra la figura a destra. Se il burocrate volesse massimizzare la spesa dovrebbe praticare il prezzo P*, in corrispondenza del quale la spesa è massima (punto S). Di fatto il burocrate non può scegliere liberamente il prezzo del servizio.

Figura 9. Il modello di Niskanen

Dato che nella pubblica amministrazione il prezzo è normalmente uguale al costo unitario, se

quest’ultimo è minore di P* (per esempio P1), il burocrate non può realizzare il suo obiettivo cioè far sì che la spesa sia massima (ricordiamo che il burocrate non può incamerare profitti). Ha però un’altra possibilità. Dato che c’è asimmetria di informazione, il burocrate può permettersi di modificare i costi senza timore di essere sottoposto a controlli molto stretti (i suoi controllori pubblici non conoscono bene la sua funzione di costo e non possono quindi misurare i costi con precisione sufficiente). Deve fare in modo che il costo medio del servizio aumenti fino ad uguagliare il prezzo P* che rende massima la spesa. A questo scopo può fare in modo che diminuisca l’efficienza (per esempio riducendo i ritmi di lavoro o pagando a prezzi più alti le forniture) per far crescere il costo medio fino al valore desiderato. Come si vede la logica decisionale può essere molto perversa, si crea cioè un incentivo all’inefficienza.

Affinché il burocrate possa comportarsi in questo modo devono però sussistere le seguenti condizioni: • completa assenza di ogni forma di concorrenza: se ci fosse concorrenza, qualche altro

burocrate potrebbe offrire il servizio ad un costo inferiore; • “ambiguità” della tecnologia, in modo che sia difficile accertare gli effettivi costi di produzione

del servizio e l’eventuale inefficienza del burocrate. Il modello di Niskanen è una rappresentazione molto stilizzata della realtà dei servizi pubblici

ma ha il merito di mettere in evidenza alcune ragioni per cui l’efficienza della pubblica amministrazione, in certe condizioni, può essere inferiore a quella di un servizio analogo offerto da privati.

Le distorsioni nelle decisioni di spesa

In genere i burocrati conoscono meglio dei politici le procedure (tecnologie) per produrre il servizio e i costi ad esse associati. Questo vantaggio di informazione consente loro di dare una immagine distorta dei benefici e dei costi derivanti dal servizio che dirigono.

A seconda dei casi il burocrate può avere interesse a dichiarare costi più elevati o più bassi di quelli reali. Se c’è concorrenza tra diverse amministrazioni per l’accesso ai fondi necessari a

P

Q Spesa

D

P* S

Q*

P*

Smax

P

P1

S1

M

spesa

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realizzare un programma (ad esempio, un programma di realizzazione di opere pubbliche) e i costi sono elevati, il burocrate può avere interesse a comportarsi come in una gara d’appalto, sottostimando tali costi per aggiudicarsi i fondi, soprattutto se sa che, una volta avviato il programma, sarà in grado di ottenere i fondi supplementari necessari per completarlo.

Quando la concorrenza è minore o assente si può creare un incentivo ad esagerare i costi per massimizzare le risorse disponibili e, eventualmente, utilizzarle per qualche altro programma.

In alcuni casi i burocrati possono cercare di aumentare la dimensione del proprio bilancio presentando un numero limitato di alternative, ad esempio due programmi estremi - un programma chiaramente inefficace e poco costoso e un programma efficace e più costoso – sperando di favorire in tal modo la scelta di quello più costoso.

Oppure possono minacciare di ridurre qualche voce di spesa (magari una voce che i politici ritengono importante ai fini della loro rielezione) per ottenere un aumento dello stanziamento complessivo.

Un altro tipo di distorsione molto frequente nella burocrazia è l’accelerazione della spesa nei mesi finali dell’anno finanziario. Un burocrate che non riesce a spendere l’intera sua assegnazione di bilancio, può rischiare di ritrovarsi l’anno successivo con un bilancio ridotto. Deve pertanto mostrare a chi decide l’assegnazione dei fondi di avere pienamente utilizzato le risorse assegnate.