le elegie duinesi tra esistenza e dolore bersano

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Page 1: Le Elegie Duinesi Tra Esistenza e Dolore BERSANO

DANIELE BERSANO

Le Elegie duinesi tra esistenza e dolore*

Le Elegie duinesi, il ciclo poetico forse più importante di Rainer Maria Rilke

(Praga, 1875- Val-Mont presso Montreux, 1926), mostrano una coerenza interna in

grado di celare la loro tormentata, più che decennale elaborazione. Come il poeta

stesso ricorda in una lettera del 1925 al suo traduttore polacco, Witold von

Hulewicz, le Elegie «furono iniziate nel 1912 (a Duino), e continuate (in maniera

frammentaria) fino al 1914 in Spagna e a Parigi»1; fu la prima guerra mondiale a far

interrompere la stesura dell’opera, che venne ripresa e portata a termine solo nel

1922, nella quiete del vallesano castello di Muzot.

Presupposto fondamentale delle Elegie duinesi è il rinoscimento dell’impossibilità

del sentire umano di fronte ai massimi motivi conduttori di ogni singola esperienza:

l’amore, la morte, la felicità, il dolore, gli elementi naturali. Questo si compie però

senza sconfessare in toto la poetica del Dinggedicht fondante i Neue Gedichte (1a ediz.

1907-1908), ma con una celebrazione dell’esistente che si esprime nella volontà da

parte del poeta di renderlo conoscibile agli altri esseri umani2. Esplicativa in tal senso

è una lettera del 17 febbraio 1914 a Magda von Hattingberg, contenente la

descrizione del modo di operare poeticamente di Rilke: «Io amo il guardare dentro

[das Einsehen]. Riesci a pensare insieme a me quanto sia magnifico, passando,

guardare dentro a un cane. Non intendo comprendere [...], intendo calarsi nel cane,

nel suo centro esatto, calarsi nel punto partendo dal quale egli è un cane, in quel

luogo in lui in cui Dio si sedette un momento, quando ebbe finito il cane, per

guardarlo nei suoi primi impacci e nelle sue prime trovate, per fargli cenni di assenso

perché era cosa buona, perché non mancava nulla e non lo si sarebbe potuto fare

* Le Elegie duinesi si citano da RAINER MARIA RILKE, Poesie, a cura di Giuliano Baioni, commento di Andreina Lavagetto, Torino, Einaudi, 1994-1995, 2 voll., II, pp. 53-107 (traduz. di Anna Lucia Giavotto Künkler). Per le lettere e i documenti citati si rimanda alla medesima edizione, indicando il numero del volume e delle pagine.

1 RILKE, Poesie, II, p. 508.2 Il motivo non è troppo dissimile da quello che spinse Dante a scrivere la Commedia: anche quello di

Rilke dopotutto è un viaggio in limine mundi, mondo osservato da un più totalizzante punto di vista. La figura del poeta-guida non è comunque così precipua come ha voluto certa ormai datata critica, anche leggendo l’opera in chiave cristianizzante: cfr. ad esempio la traduz. di Elio Gianturco dell’incipit della Prima elegia citato in HELMUT WOCKE, Rilke und Italien. Mit Benutzung ungedruckter Quellen dargestellt, Gießen, Münchow, 1940, p. 125, che introduce arbitrariamente termini quali sorte e anima.

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meglio»3. Come è già stato osservato4, Rilke, pur non conoscendole, non si discosta

troppo dalle teorie fenomenologiche che in quegli stessi anni Edmund Husserl

andava teorizzando: «Io sono consapevole di un mondo, che si estende

infinitamente nello spazio e che è ed è stato soggetto ad un infinito divenire nel

tempo. Esserne consapevole significa anzitutto che io trovo il mondo

immediatamente e visivamente dinanzi a me, che lo esperisco. [...] Ma il mondo che

in ogni momento di veglia mi è consapevolmente «alla mano» non si esaurisce in

questa conpresenza [...] che costituisce l’alone costante del mio attuale campo

percettivo. Nella sua solida organizzazione, esso non ha limiti. Ciò che è attualmente

percepito, ciò che è più o meno chiaramente conpresente e determinato, per quanto

sempre in modo soltanto imperfetto, è in parte attraversato da un orizzonte di realtà

indeterminata oscuramente consaputo»5. La soggettività umana mostra così tutti i

suoi limiti nella percezione del mondo sensibile, oscurata dal suo infinito «alone di

indeterminatezza»6.

Fin dall’apertura della Prima elegia è messo in risalto il fattore che determina la

distinzione tra l’uomo e gli altri elementi naturali: l’essere conscio della propria

mortalità. L’angelo, invece, «opera prima felice» (II, v. 10), è sottratto del tutto al

perire a causa della sua essenza puramente energetica e dinamica, slegata dalla

materia. Figura che «non ha nulla a che vedere con l’angelo del cielo cristiano, [...] è

quella creatura in cui la metamorfosi del visibile in invisibile, che noi operiamo,

compare già compiuta»7. Il sublime di queste entità, dettato dalla superiorità della

loro condizione rispetto a quella umana, non può che disvelare un ben accentuato

aspetto di terribilità: se anche il poeta riuscisse ad entrare in contatto con un angelo,

infatti, perirebbe a causa della sua più «forte esistenza». Proprio per questo «ein jeder

Engel ist schrecklich» (v. 7)8.

3 RILKE, Poesie, II, p. 500. Si veda l’applicazione del metodo nella precedente poesia Der Hund (1907): ivi, I, p. 694.

4 Cfr. il saggio di Käte Hamburger citato in ivi, II, p. 490.5 EDMUND HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica , a cura di Enrico

Filippini, Torino, Einaudi, 1981, pp. 57-58.6 Ibid.7 RILKE, Poesie, II, p. 510: entità dunque più simile alle suggestioni di Paul Klee e Osvaldo Licini che

alle stereotipate figure dei Preraffaelliti inglesi.8 Sul legame tra bello e terribile cfr. la lettera a Margot Sizzo del 12 aprile 1923: ivi, II, p. 520.

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Come consolazione da cui cogliere la presenza dell’altro rimangono di

conseguenza all’uomo un albero, la strada e la vecchia abitudine dei vv. 13-17,

semplici elementi legati al quotidiano che Rilke enumera in maniera ricorrente nella

sua tarda poesia9. Di questi oggetti non è comunque sufficiente il ricordo, ma si

impone la necessità di una loro presenza (l’albero è «da rivedere ogni giorno», la

vecchia abitudine è rimasta in noi): «Un ricordo, poniamo di un paesaggio, non è

originariamente offerente, il paesaggio non è percepito come se lo vedessimo

realmente. Il ricordo [...] non è veggente»10.

Alla strofa successiva si svela dunque l’Auftrag del poeta: percepire le presenze

reali – per nuova accumulatio qualche stella, un’onda, il suono di un violino – per dirle

e in questo modo renderle esperibili. Ma l’incarico è stato disatteso dai confusi moti

interiori, a causa del desiderio di una donna amata e dal successivo rendersi conto

che la sua presenza significherà prigionia. Si impone perciò la volontà di cantare le

amanti insoddisfatte, metaforiche frecce in massima tensione potenziale il cui nome

forse più indicativo è quello di Gaspara Stampa11.

Dalla figura in potenza delle amanti si passa poi a quella dei morti giovani (vv.

54-68), in grado di comunicare tramite le lapidi e gli epitaffi12. Lontano da qualsiasi

orizzonte metafisico, Rilke pone così in rapporto dialettico i vivi e i morti

dall’inedita prospettiva di questi ultimi. Viene di conseguenza alla luce l’Unrecht che i

vivi compiono nei loro confronti: il considerare la morte un male, torto definito

metaforicamente come un ostacolo frapposto al movimento puro degli spiriti13.

La strofa successiva (vv. 69-85) è composta in modo da rispondere alle possibili

9 Oltre al «luogo, sede, giaciglio, suolo, dimora» di X, v. 15, cfr. i passi citati in RILKE, Poesie, II, pp. 521-522.

10 HUSSERL, op. cit., p. 304.11 «Gaspara Stampa [...] amava il conte Collalto, che per qualche tempo deve averla riamata, rapido,

trascurato e distratto. Quando lui smise lei ne morì, intorno al 1554, a trent’anni.»: lettera a Sidie Nadherny del 7 ottobre 1908, in RILKE, Poesie, II, p. 529. L’immagine della freccia d’amore che scoccata colpisce il cuore dell’amata, celeberrimo topos di chiara ascendenza petrarchesca (cfr. Canzoniere 2, 3 ecc.) ben presente nel canzoniere di Gaspara – si vedano almeno i componimenti XIV, XXII, CCX dell’ediz. a cura di Rodolfo Ceriello (Milano, Rizzoli, 1994) – che Rilke aveva già letto nel 1908, viene qui modernamente bloccata nel momento appena precendente, senza permettere il suo rapido dileguarsi «come da corda cocca» (Inferno XVII, v. 136).

12 Il riferimento a luoghi quali le chiese di Roma e Napoli e la lapide di Santa Maria Formosa è determinato dai ricordi biografici dei numerosi viaggi in Italia: cfr. RILKE, Poesie, II, pp. 531-532.

13 I vv. 66-68 portano probabilmente in controluce un riferimento al mito di Orfeo ed Euridice (OVIDIO, Metam. X, vv. 50-59): anche il figlio di Calliope, nell’ansia di rivedere l’amata ninfa, blocca per sempre il suo movimento verso la vita («revolutaque rursus eodem est», v. 63).

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obiezioni dei viventi, secondo una modalità molto simile a quella dell’epistola

consolatoria medievale. Laddove il parente del defunto potrebbe opporre al trapasso

ragioni anagrafiche14, Rilke pone in primo piano la peculiarità dell’assenza dal

mondo, con la perdita dei consueti valori da attribuire alle cose ad esso appartenenti:

«Certo è strano non abitar più la terra, / non usar più di costumi appena imparati, /

a rose e a cose diverse che sono chiara promessa / non dare più il senso di umano

futuro» (vv. 69-72). L’errore fondamentale dei viventi è il distinguere troppo

marcatamente tra vita e morte, a causa della paura verso quest’ultima; d’altra parte le

entità superiori come gli angeli spesso non intendono se vanno tra gli abitanti di

questo mondo o i defunti, col loro sovrastare entrambe le categorie15.

L’ultima strofa (vv. 86-95) si occupa così di porre nuovamente il problema da un

nuovo punto di vista: forse sono proprio i vivi ad aver bisogno dei defunti, il dolore

per i quali «riconduce alla vita, come tutto ciò che raggiunge un certo grado di forza

estrema»16. E la leggenda relativa alla nascita della musica, secondo cui essa si

sarebbe per la prima volta propagata proprio come canto luttuoso in onore del

mitico Lino, è lì a testimoniarlo17.

La Quinta elegia, l’ultima in ordine di composizione18, introduce in posizione

centrale all’interno del complessivo macrotesto la figura dell’artista di strada

girovago. Questi, ancora più effimero dell’uomo, dal momento che le figure che

costruisce nello spazio si dissolvono quasi all’istante, offre il modello della pura

insostanzialità senza inganni, opponendosi così alla Maske dell’elegia precedente (IV,

vv. 26-27).

I Saltimbanques – così era inizialmente sottotitolata l’elegia, in riferimento

14 Cfr. ad esempio la Familiare II 1 di Petrarca a Philippe de Cabassoles per la morte del fratello, studiata da GIUSEPPE CHIECCHI, La parola del dolore. Primi studi sulla letteratura consolatoria tra Medioevo e Umanesimo, Roma-Padova, Antenore, 2005, pp. 176-206.

15 «L’angelo sta a un’altezza irraggiungibile al di sopra dell’uomo. Non esiste, come l’uomo, nella sfera terrestre dell’al di qua, ma neppure, come i morti, in quella dell’al di là, bensì egli sta in rapporto con il Tutto che s’innalza composto dell’aldiqua e dell’aldilà»: ROMANO GUARDINI, Rainer Maria Rilke. Le Elegie duinesi come interpretazione dell’esistenza, Brescia, Morcelliana, 1974, p. 32.

16 Lettera a Sidie Nadherny del 1 agosto 1913, in RILKE, Poesie, II, p. 532.17 «È la leggenda invano che una volta nel lamento per Lino / la prima musica, osando, penetrò nei

sensi impietriti, / che solo nello spazio atterrito, privo d’un tratto e per sempre / d’un giovane quasi divino, il vuoto trapassò / in vibrazione che ora rapisce e aiuta e consola», vv. 91-95.

18 Realizzata a Muzot il 14 febbraio 1922, sostituì le precedenti Gegen-Strophen, che a Rilke «non parevano, per la diversa natura della composizione, giustificate in quel luogo»: RILKE, Poesie, II, p. 818.

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all’omonima tela di Picasso che Rilke vide a Monaco nel 1915 e consigliò di

acquistare alla scrittrice e collezionista Hertha Koenig, dedicataria del

componimento19 – sono mossi da un Wille mai pago, al tempo stesso volontà

interiore e istanza esterna in grado di farli sollevare dallo squallido suolo di una

periferia degradata, assimilabile alla Parigi dei Fleurs du mal. L’iteratività dei gesti

atletici è accentuata dal continuo fiorire e sfiorire della «rosa degli spettatori», una

sorta di caduco antiempireo dantesco fruttificante nello sterile pseudocarpo del

tedio (vv. 18-25).

Nelle strofe successive vengono poi descritte le personalità del vecchio e del

giovane acrobata, con le loro rispettive differenze. Il vecchio, regredito a suonatore

di tamburo, è ormai altro da ciò che è stato in giovinezza, «residuo vedovo di sé

sordo e confuso»20. Il giovane, caratterizzato metaforicamente da vigore fisico e

mitezza d’animo – «quasi d’una nuca / e d’una suora il figlio» (vv. 33-34) – si rivela

invece come frutto immaturo da sacrificare a ripetizione all’anonima folla. Il dolore

provato nel toccare terra, con il ritorno alla banale mediocritas del mondo urbano,

lascia comunque spazio ad un sorriso spontaneo, vera e propria erba curativa ancora

sconosciuta agli uomini. Sta all’angelo raccogliere questa Heilkraut, eternizzando così

il sorriso fuggevole21.

Dopo la descrizione della ragazza dei vv. 62-72, anch’ella frutto posto sulla

bilancia del perfetto equilibrio, seguono due strofe contenenti uno dei messaggi

principali dell’intero ciclo. Ai vv. 73-80 è infatti esplicitata tutta la nostalgia verso un

passato in cui l’errore era ancora diffuso e accettato, e l’esercizio rendeva palese la

fatica, manifestando appieno il carattere umano dell’esistenza. L’«affannoso non-

luogo» della possibilità assoluta non viene oggi più percepito, sostituito dal vuoto

virtuosismo esteriore. La morte stessa giunge a mimetizzarsi sotto le spoglie umane

di Modistin, al fine di confezionare un distacco dal mondo per gli uomini più

attraente: «Piazze di Parigi, scena interminabile / dove Madame Lamort fa la

19 Cfr. il documento citato in RILKE, Poesie, II, p. 623.20 ANNA LUCIA GIAVOTTO KÜNKLER, «Non essere sonno di nessuno sotto tante palpebre». Rilke o la responsabilità

del compito conoscitivo, Genova, Il melangolo, 1979, p. 139. La descrizione del vecchio artista è riferibile per molti aspetti a quella di Père Rollin, étoile decadente del Jardin du Luxembourg descritta da Rilke nella prosa poetica Saltimbanques (1907): cfr. il passo in RILKE, Poesie, II, pp. 625-626.

21 «Angelo! O raccogli il minuto fiore, l’erba salutare. / Procura un vaso, serbala! Ponila tra le gioie che a noi / non sono aperte ancora; esaltala in un’urna delicata / con lo slancio di una scritta snella, di fiori adorna: Subrisio saltat», vv. 58-61.

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modista / e i cammini inquieti della terra, nastri senza fine, / intreccia e avvolge, e

nuovi / fiocchi inventa [...] per gli scadenti / cappellini invernali del destino» (vv. 87-

92)22.

L’apostrofe finale, mediante il lungo periodo ipotetico dei vv. 94-105, non può

che essere rivolta all’angelo: se ci fosse un luogo nel quale gli amanti-acrobati

potessero trovare l’abilità, il Können, che non è troppa né troppo poca, allora

riceverebbero in premio dai morti-spettatori le monete del vivere felice, finalmente

appagato. L’ipotesi, in sé irreale, lascia pensare che solo la massima poesia, con le

sue opere d’arte, possa arrivare a tale risultato.

L’elegia conclusiva, la cui elaborazione fu particolarmente tormentata – dei versi

composti a Duino tra il gennaio e il febbraio del 1912 Rilke conservò solo l’esordio

(vv. 1-12), ideando il seguito ben dieci anni dopo, l’11 febbraio 192223 – si occupa di

ricapitolare alcuni temi trattati precedentemente e di proporre una via di

accettazione del dolore umano in ultima analisi liberatoria.

Fin dall’apertura (vv. 1-15) l’io lirico esplicita, con una quadruplice invocazione a

se stesso ben definita dal ricorrere del daß seguito dal congiuntivo presente, la

difficoltà umana nell’accettare la non finitezza del dolore24. Esso infatti non è solo

tempo, ma nella notte, momento adatto alla perfetta identificazione con lo spazio25,

è in grado di farsi oggetto: «luogo, sede, giaciglio, suolo dimora» (v. 15).

La città moderna, luogo deputato alla fuga dal dolore la cui principale attrazione

è la riproduzione del denaro26, offre in realtà solo temporanee soluzioni ingannevoli

22 La stessa tematica nella Danse macabre dei Fleurs du mal di Baudelaire: «En tout climat, sous tout soleil, la Mort t’admire / en tes contorsions, risible Humanité, / et souvent, comme toi, se parfumant de myrrhe, / mêle son ironie à ton insanité!» (XCVII, vv. 57-60).

23 Delle difficoltà di composizione possono dare prova le lettere enfatiche con le quali Rilke diede notizia a Marie Taxis e Lou Salomé del completamento dell’elegia: cfr. RILKE, Poesie, II, pp. 666-667.

24 «Che io un giorno, sortendo dall’atroce conoscenza, / un canto di giubilo e lode levi al consenso degli angeli. / Che dei martelli, chiaramente battuti, del cuore / nessuno fallisca su corde molli, dubbiose o / pronte a spezzarsi. Che effuso in pianto il mio viso / mi dia più rilucenza; che il pianto invisibile / fiorisca», vv. 1-7.

25 Sulla notte, che appartiene ad un «ordine di ‘realtà’ del tutto disinteressate ma cariche di suggestione e di misteriose tensioni spirituali» (ALBERTO DESTRO, Le “Duineser Elegien” e la poesia di Rainer Maria Rilke, Roma, Bulzoni, 1970, p. 125) cfr. I, vv. 18-19: «O e la notte, la notte, quando il vento colmo di spazi / il volto ci rode».

26 L’evento è descritto ai vv. 29-33 come un numero da spettacolo della «fiera annuale», rappresentazione «della vita che si afferma nella misura in cui esclude direttamente fuori sé la morte»: ANNA LUCIA GIAVOTTO KÜNKLER, Una città del cielo e della terra. Le Elegie duinesi di R.M. Rilke, Genova, Marietti, 1990, p. 300.

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dettate da ragioni di mercato: la birra Todlos, «che dolce appare a chi beve, / se

insieme sempre vi mastica divagazioni nuove» (vv. 35-37), ne è l’esempio estremo.

Solo oltre la palizzata coperta di manifesti pubblicitari si apre la regione della morte

consapevole – abitata da amanti, bambini e cani – dove tutto «è vero».

Un giovane procede nell’esplorazione di questa Leidland seguendo una giovane

Lamentazione, figura apprezzata solo dai «giovani morti»27. Col trasferimento

spaziale nella valle del v. 54 la guida è sostituita da una figura più anziana, in grado di

conservare nella memoria quel tempo in cui il rapporto con il dolore non si era

ancora raffreddato e l’umano desiderato nella Quinta elegia (vv. 73-80) esisteva

ancora28. Segue la descrizione della mitica, decadente terra del dolore e del suo cielo

stellato, direttamente legati dall’enigmatica figura della Sfinge29. Essa, monumento

funebre delle ormai decadute Lamentazioni, è figura cosale che conferisce un volto

ben riconoscibile alla morte, e al tempo stesso essere trascendentale che illumina e

sovrasta la notte: grazie allo Staunen che è in grado di trasmettere permette l’accesso

al mondo del possibile30. Il giovane defunto, accostata in fondo alla valle la «fonte

della gioia» (v. 99), prosegue poi la propria ascesa verso i «monti dell’originario

dolore» in solitudine, senza meta: si fa infinitamente morto.

La chiusura, con la celebre metafora dei fiori penduli del nocciolo, è così

dedicata ad una considerazione di carattere propedeutico, valida per l’intera

categoria umana: la felicità va forse cercata nella caduta verso la terra, piuttosto che

nell’ascesa31. O, come nei Sonetti a Orfeo, «qui tra effimeri sii, nel regno del declino, /

un calice squillante che squillando già s’infranse»32.

27 «Solo i giovani morti, nel primo stato / impassibile e senza tempo, nel divezzamento, / la seguono amandola», vv. 47-50.

28 Gli antenati minatori del v. 56 rappresentano «la capacità della lamentazione di portare alla luce l’essere sotterrato», mentre la mestizia in fiore del v. 65 «rende percepibile che la lamentazione è un canto nel quale la perdita irrevocabile si trasforma nuovamente in vita, [...] nel sorriso di una gioia diversa e più durevole»: GIAVOTTO, Una città, cit., p. 304.

29 Sulla Sfinge, «del segreto ipogeo / il volto» (vv. 75-76), ammirata da Rilke durante il viaggio in Egitto del 1911, cfr. la lettera a Magda von Hattingberg del 1 febbraio 1914 in RILKE, Poesie, II, pp. 674-676.

30 «Ed essi [scil. il giovane e la Lamentazione] stupiscono del capo regale, silente, / che ha posto per sempre il viso dell’uomo / sulla libra che è delle stelle», vv. 77-79.

31 «Ma se risvegliassero, i morti senza fine, una metafora in noi, / vedi, indicherebbero gli amenti delle spoglie / avellane, penduli, oppure / la pioggia, che sulla scura terra cade a primavera», vv. 106-108.

32 Sonetti a Orfeo II, XIII, vv. 7-8: RILKE, Poesie, II, p. 153.

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Bibliografia

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ANNA LUCIA GIAVOTTO KÜNKLER, «Non essere sonno di nessuno sotto tante palpebre». Rilke o la responsabilità del compito conoscitivo, Genova, Il melangolo, 1979.

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EDMUND HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a cura di Enrico Filippini, Torino, Einaudi, 1981.

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HELMUT WOCKE, Rilke und Italien. Mit Benutzung ungedruckter Quellen dargestellt, Gießen, Münchow, 1940.

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