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Le basi della psicoterapiapsicodinamica

a cura diCarla Candelori

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Copyright © MMIXARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 a/b00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–2552–9

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: giugno 2009

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Indice

INTRODUZIONE ....................................................................................... 9

Capitolo I

IL SETTING (Maria Grazia Berardi) .......................................................... 11

Le regole freudiane .............................................................................. 12

Le variazioni del setting: il dibattito negli anni ’50 ............................. 17

Lo sviluppo del concetto di setting nella

psicoanalisi post–freudiana ................................................................. 20

Contributi recenti ................................................................................. 23

Acting out/Acting in ............................................................................. 27

Il setting nella psicoterapia dei bambini e degli adolescenti ................ 29

Nota conclusiva ................................................................................... 31

Bibliografia .......................................................................................... 32

Capitolo II

L’ALLEANZA TERAPEUTICA (Barbara Cupello Castagna) ................... 35

Evoluzione storica del concetto di alleanza terapeutica ....................... 35

Contributi recenti ................................................................................. 41

L’alleanza terapeutica nella psicoterapia dei bambini e degli adole-

scenti .................................................................................................... 43

Nota conclusiva ................................................................................... 47

Bibliografia .......................................................................................... 50

Capitolo III

IL TRANSFERT (Alessandra Babore)......................................................... 53

Le origini… ......................................................................................... 54

Forme del transfert ............................................................................... 58

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Indice

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La nevrosi di transfert .......................................................................... 59

Le ipotesi kleiniane e post–kleiniane .................................................. 62

Il transfert e la psicologia del Sé .......................................................... 66

Il transfert nella psicoterapia dei bambini e degli adolescenti .............. 68

Il transfert oggi: alcune questioni aperte .............................................. 70

Bibliografia .......................................................................................... 73

Capitolo IV

IL CONTROTRANSFERT (Carla Candelori) ............................................ 77

I primi contributi: il controtransfert come ostacolo e come

espressione di patologia ....................................................................... 77

Il controtransfert come strumento di conoscenza ................................. 80

Il controtransfert nel lavoro con i pazienti gravi .................................. 84

Il controtransfert e la psicologia del Sé ................................................ 87

Ulteriori contributi ............................................................................... 89

Il controtransfert nella psicoterapia dei bambini e degli adolescenti .... 92

Nota conclusiva ................................................................................... 95

Bibliografia .......................................................................................... 97

Capitolo V

LE DIFESE (Carmen Trumello) ..................................................................101

Origine del concetto di “difesa” ...........................................................101

I principali meccanismi di difesa ..........................................................104

Sigmund Freud ....................................................................................104

Anna Freud ..........................................................................................108

Melanie Klein e Wilfred Ruprecht Bion ..............................................113

Le difese nella psicoterapia dei bambini e degli adolescenti ................116

La resistenza ........................................................................................118

Difese: verso una possibile definizione ...............................................119

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Indice

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Bibliografia ..........................................................................................121

Capitolo VI

L’INTERPRETAZIONE (Carla Candelori) ................................................123

Il contributo della Klein e di Bion .......................................................125

L’interpretazione mutativa ...................................................................127

Ulteriori contributi ...............................................................................128

L’interpretazione nella psicoterapia dei bambini e degli adolescenti ...130

Nota conclusiva ...................................................................................132

Bibliografia ..........................................................................................134

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Introduzione

Il titolo di questo libro appare impegnativo. In realtà lo sco-po di questa pubblicazione è stato semplicemente quello di ef-fettuare una riflessione su alcuni concetti–base della psicotera-pia psicodinamica, con una particolare attenzione all’evoluzione dei modelli psicoanalitici a cui essi fanno riferimento. Punto di partenza essenziale dei diversi contributi è stato il pensiero di Freud, considerando altresì i principali apporti scientifici di quegli autori che hanno successivamente sviluppato ed ampliato il suo lavoro teorico e clinico.

I concetti–base presi in considerazione (setting, alleanza te-rapeutica, transfert, controtransfert, difese e interpretazione) co-stituiscono il cardine di ogni psicoterapia ad impostazione psi-coanalitica.

È stata effettuata la scelta di considerarli separatamente per facilitarne la messa a fuoco e l’approfondimento, nella consa-pevolezza del loro continuo intersecarsi ed influenzarsi recipro-co, in riferimento alla complessa processualità che caratterizza ogni esperienza psicoterapeutica. Ci auguriamo che questo ini-ziale contributo possa costituire una possibile indicazione di percorso per chi desidera approfondire questi concetti e il rela-tivo campo di studio, che ci proponiamo di sviluppare in seguito in maniera ulteriormente articolata.

C.C.

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Capitolo I

IL SETTING

Maria Grazia Berardi

«Il setting è come il buio al ci-nematografo, come il silenzio nella sala da concerto».

(Flegenheimer, 1986) Setting è il termine inglese, adottato in Italia, con il quale

generalmente si comprende sia l’insieme delle condizioni for-mali, costanti e necessarie, per intraprendere una terapia psicoa-nalitica (il luogo, l’orario, il pagamento, le vacanze), sia alcune regole che favoriscono l’instaurarsi del processo analitico (la libera associazione, l’utilizzo del lettino) e sia il particolare “as-setto interno” del terapeuta nel corso del trattamento (l’ascolto, il contenimento, l’empatia, l’astinenza, la neutralità).

In realtà la questione è molto più complessa e riguarda le ca-ratteristiche peculiari del metodo psicoanalitico.

In questo capitolo si cercherà di delineare l’evoluzione del concetto di setting, a partire dalle prime teorizzazioni di Freud, che sono state approfondite negli anni ’50 e ’60 da alcuni psico-analisti, i quali hanno dato un contributo sostanziale alla com-prensione dei significati inconsci, per il paziente e per l’analista, degli elementi che compongono il setting; si illustrerà poi lo sviluppo apportato a questo concetto dai principali autori post–freudiani, fino alle teorizzazioni più recenti.

Si cercherà di porre in evidenza alcuni passaggi fondamentali che mostrano l’intersecarsi del setting con gli aspetti che caratterizzano la questione della “cura”, soprattutto con il transfert, ma anche con l’interpretazione e con il controtransfert, al fine di mostrare come le formulazioni attuali riguardanti il setting lo considerino un aspetto “di base” concernente la relazione tra analista e paziente.

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Maria Grazia Berardi

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Le regole freudiane Gli obiettivi peculiari della psicoanalisi sono stati indicati da

Freud agli inizi del 1900, in connessione con le sue formulazio-ni teoriche e metodologiche: un procedimento terapeutico si può definire psicoanalitico se riconosce e lavora sui processi incon-sci, attraverso l’analisi delle resistenze.

I fini della cura, dunque, sono concepiti come dipendenti da alcune “regole analitiche” che devono garantire la creazione e il mantenimento del procedimento psicoanalitico.

Gli psicoanalisti fanno riferimento a queste indicazioni di Freud con l’espressione “tecnica psicoanalitica classica”, che ri-guarda le condizioni necessarie per il trattamento psicoanalitico:

― la “regola fondamentale” della libera associazione, cioè

la richiesta al paziente di non selezionare temi o pensieri, di riportare qualsiasi contenuto di pensiero, senza censu-rarlo consapevolmente, di associare liberamente, al fine di permettere l’espressione dei contenuti inconsci;

― l’uso del lettino per far più facilmente affiorare le libere associazioni, limitando la motilità;

― gli accordi sul piano di realtà per la durata della seduta, il numero di sedute da effettuare durante la settimana, il pagamento, la durata del trattamento;

― l’interpretazione dei sogni, dei sintomi, e delle altre manifestazioni dell’inconscio;

― la regola dell’astinenza, per cui l’analista non deve grati-ficare le richieste del paziente, in modo da non interferire con i fenomeni di traslazione sia positiva che negativa;

― la neutralità, che attiene sia alla necessità di evitare contatti extra–analitici con il paziente, sia alla attenzio-ne a non privilegiare alcuni contenuti del materiale del paziente;

― la non interferenza, cioè lasciare che il materiale del pa-ziente fluisca spontaneamente, senza introdurre prema-turamente indicazioni o interpretazioni.

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Capitolo I – Il setting

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Anche da questa schematizzazione si può desumere che il setting non ha il solo fine di “regolare” le condizioni materiali per effettuare la cura, ma riguarda la costituzione di un sistema che consenta di considerare ogni elemento della realtà interna ed esterna come parte del lavoro analitico.

Prenderemo ora in considerazione alcuni contributi di Freud per rintracciare i riferimenti e le indicazioni fornite nei diversi scritti, sottolineando la difficoltà di codificare in modo univoco le sue continue scoperte, in quanto la teoria e la tecnica psicoa-nalitica sono state arricchite e riformulate continuamente in tut-ta la sua opera.

Inizialmente Freud si è sentito sollecitato a delineare alcune indicazioni a garanzia della scientificità della psicoanalisi per svincolare la cura psicoanalitica dalla originaria influenza della tecnica dell’ipnosi, e dalle componenti di “suggestione” insite in quest’ultima.

La prima formulazione sulle regole analitiche si trova nel ca-pitolo sulla tecnica degli Studi sull’isteria (Breuer, Freud, 1892–1895): nelle prime esperienze con le pazienti isteriche, già con il metodo catartico, indicava l’uso del lettino, la regolarità delle se-dute, e lo svolgimento della terapia in uno spazio protetto.

Il primo lavoro con un’esposizione più dettagliata è del 1904: Freud fa una descrizione molto generale del metodo, con la pre-sa in esame del vecchio metodo catartico e la successiva intro-duzione dell’analisi delle libere associazioni che andava a sosti-tuire l’ipnosi. In tale scritto sono già evidenti le prime connes-sioni tra le finalità dell’analisi e il metodo.

Sin dal passaggio dall’ipnosi alle libere associazioni, infatti, Freud si è posto alcune questioni non solo di carattere tecnico ma anche etico. Egli si rende conto che:

― sul piano della tecnica, l’ipnosi non garantisce risultati nel

trattamento a causa della separazione tra coscienza e in-conscio, mentre le libere associazioni e l’uso del lettino, sembrano favorire la comunicazione conscio/inconscio;

― sul piano etico l’ipnosi, attraverso la suggestione dello sguardo, impone il potere del medico, mentre l’uso del-

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Maria Grazia Berardi

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le libere associazioni lascia al paziente la libertà di de-cisione e di scelta in qualsiasi momento del trattamento.

In questo clima “democratico” il paziente ha una parte attiva

e significativa nel trattamento e può condividere con il terapeuta la responsabilità della cura.

Un contributo di rilievo in quegli anni è la descrizione dell’analisi di Dora (1905), in cui l’interruzione della terapia da parte della paziente, conduce Freud a riflessioni sulla mancata interpretazione del transfert, ma anche a interrogarsi sul setting e sulle peculiarità della terapia con gli adolescenti. Successiva-mente ha ripreso i problemi relativi alla tecnica, introducendo alcuni suggerimenti: regole pratiche, ma sempre strettamente connesse con gli obiettivi principali della cura (vincere le resi-stenze del paziente, eliminare l’amnesia infantile, rendere con-scio l’inconscio).

Come è stato messo in rilievo in precedenza, nonostante i vari propositi di Freud di effettuare un’esposizione sistematica della tecnica, in realtà questa permea tutta la sua opera. I princi-pali lavori specifici su questo tema vengono scritti tra il 1911 e il 1915 e il loro contenuto sarà ampliato ed integrato anche in opere successive.

Nel contributo Consigli al medico nel trattamento psicoana-litico (1912), egli fa presente che l’analista, durante la seduta, dovrebbe mantenere un’“attenzione liberamente fluttuante”, che permette di non attribuire maggiore o minore rilievo ad alcuni elementi del materiale portato dal paziente, ma di seguire i mo-vimenti della sua libera associazione. Sottolinea l’importanza della “mancanza di intenzione” da parte di una mente “sgombra e senza preconcetti”. Il clinico dovrebbe essere per i suoi pa-zienti come uno “specchio”, e mostrare solo ciò che gli viene mostrato, inoltre dovrebbe essere “opaco”, per evitare di offrire soddisfacimenti sostitutivi al lavoro analitico, e riuscire a rinun-ciare sia alla suggestione, che ad ogni tipo di attività educativa.

Nel lavoro Inizio del trattamento (1913) si occupa degli a-spetti che riguardano le prime fasi di un’analisi, come, per e-sempio, cosa dire al paziente nel corso del primo incontro, quali

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Capitolo I – Il setting

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spiegazioni dargli. Affronta anche la possibilità che vi sia una pregressa conoscenza con il paziente (rapporti sociali, cono-scenza tra le famiglie) avvertendo che, in questi casi, sarebbe preferibile trovare un “sostituto degno di fiducia”, per evitare una situazione complessa, che potrebbe incidere negativamente anche sui preesistenti rapporti. Seguono indicazioni sul tempo e sul denaro: l’ora analitica è del paziente, ed è tenuto ad utiliz-zarla e, comunque, a pagarla; senza questo accorgimento le re-sistenze dell’inconscio troverebbero una facile via per sottrarsi. Rispetto alla frequenza, occorre sottolineare che Freud inizial-mente vedeva i pazienti sei giorni a settimana, tre nei casi lievi o nelle fasi più avanzate; mentre, in riferimento alla durata, ha dato risalto alla intrinseca difficoltà nello stabilirla a priori, a causa della “atemporalità” dell’inconscio e della lentezza con cui si verificano i mutamenti profondi.

Le questioni poste dal paziente sulle limitazioni di tempo o sulla durata del trattamento, le interruzioni premature, i tentativi di selezionare argomenti, sono tutti esaminati come manifesta-zioni della resistenza.

In questo scritto, inoltre, Freud riprende la “regola fonda-mentale” della libera associazione e aggiunge alcune richieste da porre al paziente: non preparare prima della seduta il mate-riale da narrare e cercare di informare meno persone possibili del trattamento in corso, soprattutto nelle fasi iniziali.

Se il paziente ha bisogno di cure mediche, consiglia che sia una persona diversa dal suo psicoanalista a somministrargliele per evitare complicazioni transferali.

In Osservazioni sull’amore di traslazione (1914a) sottolinea l’importanza della regola dell’astinenza, che consiste nel non soddisfare i desideri consci e inconsci del paziente, che possono rappresentare delle forze propulsive al trattamento. Ribadisce inoltre che queste regole sono finalizzate a permettere la crea-zione di un clima in cui il paziente possa avere fiducia nel-l’analista, in modo da promuovere la traslazione e il lavoro sulle resistenze.

Infine in Analisi terminabile ed interminabile (1937) trovia-mo delle indicazioni per fissare la fine di un trattamento: per

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Maria Grazia Berardi

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quanto ogni analisi possa definirsi “interminabile”, per i pazien-ti un criterio riguarda la possibilità di creare le condizioni più favorevoli al funzionamento dell’Io.

Freud fa presente che occorre che l’analista liberi il campo da aspettative proprie e del paziente, raccomandando ai suoi al-lievi di saper attendere e di condurre il processo con integrità ed onestà intellettuale. Ciò che si richiede al buon clinico è un co-stante impegno a mettere a nudo le proprie resistenze e a mi-gliorare la propria competenza umana e professionale. Per Freud l’unico a doversi sottoporre ad un’analisi “interminabile” è proprio l’analista:

sembra… che molti analisti imparino ad usare determinati meccanismi di difesa che consentono loro di escludere dalla propria personalità, riversandole probabilmente sugli altri, le conseguenze e le prescrizioni dell’analisi: essi restano quindi quello che sono, e riescono in tal modo a sottrarsi all’influsso critico e correttivo dell’analisi (1937, p. 531).

Freud ha precisato in seguito che le regole da lui suggerite

dovrebbero tener conto della variabilità della patologia e della personalità dei pazienti e che si è limitato a descrivere un pro-cedimento delegando alla sensibilità dell’analista la possibilità di adattarlo nelle varie situazioni cliniche.

In una lettera scritta a Ferenczi nel 1928 (e riportata da Jones, 1953) si evince come egli concepisse le regole diversamente da come sono state recepite, sia dai suoi contemporanei che, suc-cessivamente, da quegli psicoanalisti che possono essere collo-cati nell’ambito della sua scuola:

le Raccomandazioni tecniche che scrissi tanto tempo fa erano d’ordine essenzialmente negativo. Mi pareva che la cosa più importante fosse sottolineare quello che non si deve fare e segnalare le tentazioni di scegliere direttive contrarie all’analisi. Lasciai al “tatto” tutto ciò che di positivo si dovrebbe fare. Lei ne ha ora avviato la discussione. È accaduto, per tutto risultato, che gli analisti docili non hanno afferrato la elasticità delle regole che avevo proposto, e vi si sono sottomessi come se si trattasse di altrettanti tabù. Un giorno o l’altro tutto questo andrà riveduto, senza che gli obblighi di cui ho parlato debbano però andare ignorati... Ciò che troviamo nella realtà è un delicato equili-brio ― per lo più a livello preconscio ― delle varie reazioni che ci

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Capitolo I – Il setting

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aspettiamo in seguito al nostro intervento. L’esito dipende soprattutto dalla valutazione quantitativa dei fattori dinamici della situazione. Na-turalmente non si possono dare regole di misura: la decisione dipende dall’esperienza e dalla normalità dell’analista.

Le variazioni del setting: il dibattito negli anni ’50

Negli anni ’50 nuove teorizzazioni sono state sollecitate sia dal-

le necessità di rendere flessibili alcune condizioni della terapia con pazienti gravi o psicotici, di cui la psicoanalisi iniziava ad occupar-si, che da un approfondimento, emerso proprio dalle esperienze cliniche, del contributo dei processi psichici dell’analista nella re-lazione con il paziente (la controtraslazione appunto).

In quegli anni si sono svolti alcuni congressi di psicoanalisi incentrati proprio sulla tecnica, in cui sono state problematizza-te le “regole classiche” e presentati lavori teorico–clinici sulle possibili modificazioni del setting.

Nei vari interventi e discussioni le questioni riguardanti il setting sono state considerate non solo come aspetti formali che permettono lo svolgimento del lavoro analitico, ma come elementi che in vario modo “attivano” il transfert e il processo analitico. È dunque prevalsa una lettura delle regole del setting in riferimento alla costruzione del rapporto analista–paziente, quindi del transfert–controtransfert e dell’interpretazione.

I principali interventi di quel dibattito sono stati riportati in un testo molto ricco e articolato, curato da Genovese (1988), che mette in risalto nell’introduzione che «concepire le regole del setting analitico come una funzione attiva del processo co-stituiva di per sé un nuovo vertice osservativo rispetto alla con-cezione classica, nonostante quelle regole fossero rimaste so-stanzialmente le stesse» (p. XVII).

In molti scritti sono presenti interrogativi sulla possibilità di modificare alcune regole analitiche per adattarle in funzione di alcune tipologie di pazienti e delle diverse fasi dell’analisi.

Riportiamo brevemente alcuni dei contributi da cui si evince la ricchezza del dibattito su questi argomenti.

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Maria Grazia Berardi

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Eissler (1953) pone l’accento sulle possibili variazioni che possono essere apportate alla tecnica in riferimento al disturbo e alla personalità del paziente. Si tratta di un intervento significa-tivo in quanto l’autore insiste sulla necessità di interrogarsi co-stantemente sulle conferme del metodo e sulle eventuali modifi-cazioni che l’analista introduce, soprattutto evidenziando i pos-sibili effetti che queste possono avere sul paziente:

la realtà clinica è così varia e presenta tante situazioni impreviste da rendere impossibile una tecnica standard, che possa soddisfare tutte le esigenze concrete. [...] Se per le circostanze particolari della vita del paziente può essere necessaria una certa misura tecnica, è un grave er-rore concludere che questa misura abbia una validità generale solo perché si è rivelata utile in condizioni particolari (p. 4).

Eissler sottolinea che alcuni pazienti possono non tollerare

eccessive frustrazioni, altri possono essere danneggiati dall’ap-pagamento di un desiderio anche banale: occorre pertanto con-siderare le variazioni individuali.

Quindi, a suo parere, alcune modificazioni possono essere introdotte nelle situazioni di stallo, nelle reazioni terapeutiche negative, e in funzione di alcune caratteristiche specifiche dei pazienti, ma dovrebbero essere utilizzate soltanto per un breve periodo.

L’autore afferma che occorre mantenere un’aderenza alla tecnica classica, evidenziando il rischio, per l’analista, di deci-dere una determinata tecnica sulla base della sua inclinazione o della sua propensione a seguire il principio di piacere; ricorda inoltre che Freud aveva messo in rilievo che le regole costitui-scono anche misure protettive per il paziente contro l’effetto della personalità del terapeuta.

Passando a considerare altri contributi, vediamo che per An-na Freud (1954) le regole non sono un sistema da seguire o mo-dificare secondo l’esperienza di ogni analista, ma sono basate su una certa concezione della psicopatologia. Individua alcune modifiche che possono essere apportate: quelle necessarie per alcuni tipi di disturbi (psicosi, delinquenza, ...), quelle derivanti da cambiamenti nella teoria, dalle tendenze dell’analista, dalle

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Capitolo I – Il setting

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caratteristiche della personalità del paziente o della traslazione. Sottolinea che occorre

rendere vive le regole del procedimento analitico in modo da poterle esaminare singolarmente, vedere quale significato ognuna di esse ha per noi e che cosa possono significare per il paziente. Quando in qual-che modo interagiamo con tali regole, dobbiamo renderci conto che stiamo interagendo con qualcosa di reale, vivo e significativo per noi e non con una semplice tradizione o convenzione (1954, p. 64).

Pone l’attenzione sui modi in cui le regole possono essere u-

tilizzate sia dall’analista che dal paziente. Da parte dell’analista può esservi la tendenza ad evitare quelle che si percepiscono troppo restrittive, o ad utilizzarle per creare una sorta di barriera protettiva nell’incontro con il paziente. Mentre, per quanto ri-guarda il paziente, A. Freud mette l’accento sulla possibilità che ogni aspetto del setting possa essere investito dalla parte malata del paziente:

non esiste nessuna regola analitica che la nevrosi del paziente non possa rendere perversa utilizzandola ai propri fini. Sarebbe davvero interessante se gli analisti raccogliessero una casistica clinica che mo-stri come una regola tecnica di procedimento possa essere convertita e utilizzata a scopi nevrotici (ibidem, p. 55). Ad esempio un paziente ossessivo può utilizzare le regole

per mantenere tutta la situazione analitica sotto controllo e per creare uno schermo protettivo tra sé e l’analista: le regole, per-tanto, non solo permettono, ma “riguardano” il processo di tra-slazione.

Anche Loewenstein (1958) afferma che per riflettere su un cambiamento nelle regole occorre tenere presente il loro senso e considerare quale significato assumono per il paziente e per l’analista in quel momento. Mette in guardia contro il narcisi-smo dell’analista che può indurlo ad essere attirato seduttiva-mente da un paziente a non applicare una data regola:

l’uso improprio della regola da parte del paziente e il modo in cui noi la maneggiamo rientra in realtà sotto la voce “nevrosi di traslazione”, che tutti ben conosciamo. Il fatto è che non soltanto alcuni pazienti

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usano l’analisi per trasferire delle fantasie sull’analista, ma che lo stesso procedimento analitico diventa allora per loro un’occasione per utilizzare le regole o a fini di difesa o a fini di gratificazione. Di con-seguenza, come Miss Freud ha sottolineato, non resta che analizzare quest’uso improprio della tecnica analitica (1958, p. 59). In seguito a questo dibattito non vi sono stati importanti

cambiamenti e trasformazioni della tecnica, le regole sono co-munque rimaste un punto di riferimento abbastanza costante negli anni, ma si sono avviate riflessioni che hanno contribuito ad arricchirle di significato e funzioni nuove, in stretta connes-sione con le evoluzioni della teoria del processo psicoanalitico, stimolate dalle esperienze cliniche, in un costante intreccio tra-sformativo.

Lo sviluppo del concetto di setting nella psicoanalisi post–freudiana

I principali apporti che hanno contribuito a riprendere e ad

approfondire anche aspetti riguardanti il “metodo classico” del-la psicoanalisi freudiana sono derivati dalle teorie della Klein, di Winnicott, Bion e Rosenfeld.

Attraverso il contributo della teoria del pensiero di Bion (1962, 1967, 1970) si sono modificati i criteri di classificazione diagnostica, con il riconoscimento della presenza di aree di fun-zionamento psicotico anche in pazienti considerati nevrotici. Tutto questo ha condotto ad una modificazione nella dicotomia relativa a disturbi nevrotici e psicotici, introducendo il concetto di parte psicotica e parte nevrotica della personalità.

Si può desumere, dalle principali teorie degli autori post–freudiani, quanto le considerazioni sulle regole del setting siano sempre più collegate alla maggiore conoscenza, derivante dal-l’esperienza clinica.

Occorre ricordare che il concetto di setting ha preso spunto dalle teorizzazioni di Winnicott (1941), il quale, nell’articolo The observation of infants in a set situation, usa per primo tale termine in un’accezione che riguarda sia le condizioni esterne