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OTTOBRE 2012 I Appunti dagli interventi di Davide Prosperi e Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl. Mediolanum Forum, Assago (Milano), 29 settembre 2012 PAGINA UNO LA VITA COME VOCAZIONE Hendrick ter Brugghen, Chiamata di san Matteo, 1621 (part.). Centraal Museum, Utrecht (Olanda).

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OTTOBRE 2012 I

Appunti dagli interventi di Davide Prosperi e Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl.

Mediolanum Forum, Assago (Milano), 29 settembre 2012

PAGINAUNO

LA VITA COMEVOCAZIONE

Hendrick ter Brugghen, Chiamata di san Matteo, 1621 (part.). Centraal Museum, Utrecht (Olanda).

LA VITA COME VOCAZIONEPAGINA UNO

II OTTOBRE 2012

Appunti dagli interventi

di Davide Prosperie Julián Carrón alla Giornatad’inizio annodegli adulti

e degli studentiuniversitari di Cl.

MediolanumForum, Assago

(Milano),29 settembre 2012

JULIÁN CARRÓN«Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi gui-

derà alla verità tutta intera» (Gv 16,13). Que-sta è la promessa di Gesù, che lo Spirito Santoci porterà alla verità tutta intera. Perché abbia-mo questo bisogno? Perché la verità vienecontinuamente minacciata dalla sua riduzione,cioè dall’ideologia. Anche noi corriamo sem-pre questo rischio nel modo di guardare la re-altà e noi stessi, di concepirci, di concepire l’av-venimento cristiano, di vivere la vocazione. Nonridurli e non ridurci è una grazia che dobbia-mo invocare, mendicare da Colui che Cristo ciha indicato, lo Spirito. Solo Lui ci può portarea quella autocoscienza vera di cui oggi abbia-mo particolarmente bisogno per vivere. Perciòcominciamo il nostro gesto mendicandoLo.

Discendi Santo Spirito

Il mio volto

DAVIDE PROSPERIInnanzitutto saluto tutti i presenti qui, ad

Assago, e quanti sono collegati in Italia e al-l’estero.Anche quest’anno abbiamo scelto di ritrovarci

insieme come inizio, e già in questo c’è una no-vità che riaccade ogni volta, che è data dalla Pre-senza che affermiamo ritrovandoci per ri-prendere il cammino insieme. Lo scopo di que-sto momento non è tanto quello di segnalareuna parola nuova, ma innanzitutto di aiutarcia non perdere il gusto del cammino. Un annofa, proprio qui ad Assago, Carrón citava una fra-se di don Giussani del 1995: «La radice della que-stione è il fattore costitutivo di ciò che c’è, e laparola più importante per indicare il fattore piùimportante di quel che c’è è la parola presen-za. Ma noi non siamo abituati a guardare comepresenza una foglia presente, un fiore presen-te, una persona presente, non siamo abituati afissare come presenza le cose presenti» (Mila-no, 1 febbraio 1995). Ecco, noi siamo qui oggiper aiutarci a riconoscere questa presenza.Comincio subito col dire che il fatto più si-

gnificativo che ci è stato dato di vivere quest’annoè stato senz’altro l’avvio della causa di beatifi-

cazione di don Giussani. Dico il più significa-tivo per noi, come spunto acuto di consape-volezza di quello che ci è accaduto incontran-do il carisma a lui donato. Siamo chiamati aprendere coscienza che quello che ha investitola vita di tanti incontrando l’esperienza del mo-vimento non è nostro, ma è per tutta la Chie-sa e per il mondo.Da questo punto di vista, una cosa che mi si

è più chiarita quest’anno è proprio un aspettofondamentale del compito che abbiamo davantial carisma. Non si tratta di spingere avanti il di-scorso di Giussani, i contenuti della sua predi-cazione; infatti quello che abbiamo vissuto ma-nifesta come il nostro contributo stia innanzi-tutto nell’esperienza che viviamo e nel giudi-zio che diamo su quello che accade, perché que-sto giudizio è messo continuamente alla pro-va, a nudo, nella sua verità dalle circostanze cheDio ci dà da vivere.Come don Giussani stesso ricordava: «Le cir-

costanze per cui Dio ci fa passare sono fatto-re essenziale e non secondario della nostra vo-cazione, della missione a cui ci chiama» (L.Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammi-no, Marietti, Genova 1999, p. 63). A questo ri-guardo, agli Esercizi della Fraternità Carrónsottolineava: «Il Signore, sempre presentenella storia, ha voluto suscitare nel mezzo delventesimo secolo un carisma come cammi-no per conoscere Cristo, proprio in questa si-tuazione culturale in cui ci troviamo a vive-re, perché l’humus culturale che gli illumini-sti hanno introdotto in Europa determina ingran parte il nostro modo di vivere il reale edi vivere la fede ([...] che riduce la fede a sen-timento, a devozione o a etica). Per questo lastoria di don Giussani è così significativa, per-ché ha vissuto le nostre stesse circostanze, e hadovuto affrontare le stesse sfide e gli stessi ri-schi, ha dovuto fare lui stesso il cammino» (J.Carrón, «Non vivo più io, ma Cristo vive inme», suppl. Tracce, n. 5/2012, p. 20).Io capisco che questo è il primo mandato che

ci viene consegnato: accettare di fare lo stessocammino, prendendolo sul serio fino in fondo,senza sconti. Così, ciò che ci fa certi in questocammino non è tanto l’aver capito quello checi è stato detto (o, peggio, il pensare di averlo ca-

OTTOBRE 2012 III

Orazio Gentileschi,Annunciazione, 1622.Basilica di San Siro, Genova.

pito), quanto piuttosto quello che rende sicu-ro il passo è l’essere stati presi, afferrati, essereattratti da un’esperienza di verità totalizzantecome quella che ci ha affascinato incontrandoquest’uomo e tutto ciò che da lui è nato. Comeha detto papa Benedetto qualche settimana faai suoi ex studenti in un’omelia a Castel Gan-dolfo, ciascuno di noi può ridurre la fede, il cri-stianesimo, a discorso, come una verità che noipensiamo di possedere, e proprio per questo, avolte, siamo accusati di intolleranza, e il Papadice: non è che sbagliano quando ci dicono così,perché «nessuno può avere la verità. È la veri-tà che ci possiede, è qualcosa di vivente![un’esperienza] Noi non siamo suoi possesso-

ri, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lascia-mo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei,[...] pellegrini della verità» (Benedetto XVI, Ome-lia alla S. Messa a conclusione dell’incontro conil “Ratzinger Schülerkreis”, Castel Gandolfo, 2 set-tembre 2012).Riguardando a posteriori i contenuti della pro-

posta dell’anno passato (dalla scorsa Giornatad’inizio anno a tutto il lavoro di Scuola di co-munità, fino agli Esercizi della Fraternità), ci ac-corgiamo che tutta la traiettoria educativa è sta-ta prima di tutto un giudizio sull’esperienza fat-ta, piuttosto che un richiamo a una posizioneda assumere per il futuro. Abbiamo vissuto mol-te circostanze che ci hanno anche messo alla»

prova, che ci hanno sfidato su una posizio-ne originale: o si tiene il legame col ceppo, conl’origine di quello che ci ha preso, oppure è di-ventato chiaro che l’alternativa è il prevalere diun’analisi, si diventa reattivi; è una tentazione ir-resistibile.Pensiamo, ad esempio, alla vicenda della cri-

si economica, tutti ne abbiamo risentito equanti anche tra di noi ne sono stati investiti,talvolta con danni tremendi. Eppure, propriopartendo dalla nostra storia, abbiamo tentato

un giudizio originale con il quartino «Lacrisi, sfida per un cambiamento»; e questogiudizio è stato - direi con sorpresa - un fat-tore di presenza e di incontro con tanta gen-te che ha voglia di rimettersi in marcia, eche non si è ancora concluso, ma prima an-cora è stato una molla che ha messo inmoto noi. Davanti a tutto quello che stasuccedendo abbiamo detto che la realtà èpositiva, non per una ingenuità, ma per-ché vediamo tanti anche tra di noi che citestimoniano che la realtà, in quanto c’è,così com’è, è una grande provocazione, l’oc-casione per un cambiamento, per un mi-glioramento, perché è più grande di noi equindi c’è una speranza. Per cui, per esse-re realisti, non possiamo aspettarci di ri-durre quello che c’è alla nostra misura, aquello che sapevamo già, al punto in cui cisentivamo sicuri, ma dobbiamo accettare

di aprirci per poter crescere.Poi si è inasprita un’aggressione mediatica an-

che su Cl in quanto tale, l’abbiamo visto so-prattutto sui giornali, mossa soprattutto dal di-battito sulla politica, e anche qui - lo ricordia-mo bene - la lettera di Carrón, pubblicata su Re-pubblica il primo maggio, ha spiazzato tutti, den-tro e fuori il movimento, perché ha posto unaprovocazione sulla radice della questione. Ci sia-mo ripetuti spesso, quest’anno, l’affermazionedi don Giussani: «Quando [...] la morsa di unasocietà avversa si stringe attorno a noi fino a mi-nacciare la vivacità di una nostra espressione equando una egemonia culturale e sociale ten-de a penetrare il cuore, aizzando le già natura-li incertezze, allora è venuto il tempo della persona»(L. Giussani, «È venuto il tempo della persona»,a cura di L. Cioni, Litterae Communionis CL, n.

1, gennaio 1977, p. 11). Nel contesto generale disospetto, di livore e - diciamolo pure - anche dimenzogna in cui abbiamo vissuto e che abbia-mo respirato, questa lettera, pubblicata propriosu uno dei giornali più accanitamente lontanicome impostazione del pensiero, ha aperto unvarco a uno sguardo nuovo, a una possibilitànuova di guardare le circostanze, che ci sono dateper la costruzione di un bene più grande. Un giu-dizio vero non è sempre immediato, ma certa-mente è un giudizio che muove. «Per questo -diceva nella lettera - non abbiamo altra lettu-ra di questi fatti se non che essi sono un potenterichiamo alla purificazione, alla conversione aColui che ci ha affascinato. È Lui, la sua presenza,il suo instancabile bussare alla porta della no-stra dimenticanza, della nostra distrazione cheridesta in noi ancora di più il desiderio di esseresuoi» (J. Carrón, «Carrón: da chi ha sbagliatoun’umiliazione per Cl», la Repubblica, 1 mag-gio 2012). Non c’è giudizio del mondo che pos-sa vincere sull’affermazione di chi siamo: sia-mo Suoi.Sotto Natale un’amica raccontava che un

giorno sua figlia è tornata a casa dalla scuola me-dia un po’ turbata. C’era stata l’annuale festa na-talizia ed era rimasta colpita da un suo compa-gno che aveva perso il papà. Allora questa ra-gazzina ha detto: «Mamma, io non so se ce la fa-rei ad essere felice al suo posto», perché lo vedevaspesso contento, anche alla festa l’aveva visto con-tento. Allora sua mamma, come fanno di soli-to le mamme, ha cercato subito di “correre ai ri-pari” spiegandole che la madre di quel bambi-no è una gran donna, che non gli mancherà nul-la, eccetera. Ma tutte queste spiegazioni, certa-mente vere, alla figlia non bastavano, perché leiaveva visto una cosa ancora più vera, nella suasemplicità di bambina aveva visto più in pro-fondità: era stata ferita. Il Mistero aveva apertouna breccia e si era affacciato. Lei aveva intravistoin quel suo compagno una grandezza straordi-naria, inimmaginabile, aveva visto che aveva undestino (noi siamo fatti per la felicità), e per que-sto si era fatta subito una domanda su di sé, per-ché anche lei aveva un destino.E noi abbiamo fatto un Meeting questa esta-

te per cercare di dire che cos’è questo destino:la natura dell’uomo, la sua consistenza, quello

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Le circostanze,belle o brutte chesiano, sono modiattraverso cui il Mistero ci

chiama. Non sono,come tante volte le interpretiamosecondo la nostra

misura, lafregatura da

sopportare. Hannouno scopo benpreciso nel

disegno di Dio

per cui si alza ogni mattina e si impegna in tut-te le sfide che si trova ad affrontare, la sua gran-dezza è il rapporto con l’infinito.Allora possiamo vedere che Dio ci ha dato

questo anno per renderci più consapevoli diquello che noi siamo, dell’ideale al quale sia-mo attaccati e per cui viviamo, e ce lo ha chia-rito attraverso le circostanze che ci ha dato, an-che quelle magari non sempre immediatamentedesiderabili.Proprio per questo, incominciando il nuovo

anno, ti chiediamo: che cosa vuol dire tutto quel-lo che ci è capitato? Che cosa permette di im-parare a vedere quello che c’è dentro le circo-stanze e che tante volte si fa così fatica a vede-re? Questo lo sentiamo particolarmente urgenteperché, senza poter riconoscere la vera consi-stenza delle cose, è molto arduo percorrere il sen-tiero per il compimento del proprio destinoumano.

JULIÁN CARRÓNMi auguro, anzitutto, che ciascuno riprenda

quanto ha appena detto Davide, perché è unatestimonianza di che cosa vuol dire fare un cam-mino, è una sintesi del percorso fatto che ci aiu-ta tutti a fissarlo con consapevolezza nella me-moria, in modo tale che non si perda.

Che cosa c’entra - mi chiede - tutto quanto ciè capitato e continua a capitarci con l’urgenzadi imparare a vedere quello che sta dentro le cir-costanze e che tante volte facciamo così fatica avedere? Questo lo sentiamo particolarmente ur-gente perché, senza poter riconoscere la vera con-sistenza delle cose, è molto arduo percorrere lastrada per il compimento del proprio destinoumano.

1. CONSISTENZA E CIRCOSTANZE

La fatica a percepire quel che sta dentro le cir-costanze ha a che vedere con la «egemonia cul-turale e sociale [che] tende a penetrare il cuo-re» (L. Giussani, «È venuto il tempo della per-sona», op. cit., p. 11) di ciascuno di noi. Colpi-sce che Benedetto XVI - non cede su questo pun-to -, rivolgendosi alla Cei, abbia cominciato pro-prio da qui, da questa riduzione che non è sen-za conseguenze: «La razionalità scientifica e lacultura tecnica, infatti, non soltanto tendono aduniformare il mondo, ma spesso travalicano irispettivi ambiti specifici, nella pretesa di deli-neare il perimetro delle certezze di ragione uni-camente con il criterio empirico delle proprieconquiste. Così il potere delle capacità umanefinisce per ritenersi la misura dell’agire [...]. Ilpatrimonio spirituale e morale in cui l’Oc-

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Caravaggio,Vocazione di Pietroe Andrea, 1603-1606.Hampton Court, RoyalCollection, Londra.

cidente affonda le sue radici e che costitui-sce la sua linfa vitale, oggi non è più compresonel suo valore profondo, al punto che più nonse ne coglie l’istanza di verità. Anche una terrafeconda rischia così di diventare deserto inospitalee il buon seme di venire soffocato, calpestato eperduto» (Discorso all’Assemblea della ConferenzaEpiscopale Italiana, 24 maggio 2012).Ma come può essere sfidata questa riduzione

della ragione? È sfidata dalla realtà, dalle circo-stanze, come don Giussani - tenetelo sempre amente - ci ha indicato nel decimo capitolo de Ilsenso religioso: le domande della ragione si de-stano nell’impatto con la realtà. «La vita è que-sta trama di circostanze che, assediandoti, ti toc-cano e ti provocano (“provocano”: qui c’è la ra-dice della più bella parola cristiana sulla vita: “Vo-

cazione”)» (L. Giussani, Certi di alcu-ne grandi cose. 1979-1981, Bur, Milano2007, p. 387).Ci sono tantissime testimonianze di

questo, ne leggerò solo qualcuna.«Sono psicologa in ospedale, dove mi

occupo di gravidanza. Una donna e suomarito hanno cercato per molto tem-po un figlio e a febbraio, finalmente, lagravidanza tanto attesa arriva. Un mesedopo, alla donna viene diagnosticato untumore ai polmoni con metastasi dif-fuse in gran parte del corpo. Al primocontatto non le viene data alcuna spe-ranza di sopravvivenza. Con il prose-guimento della gravidanza le vieneconsigliata l’interruzione. Prima di co-noscerla personalmente, incontroun’ostetrica che mi riferisce che loro

hanno cercato di entrare il meno possibile nel-la stanza di questa donna perché il carico da por-tare è troppo. E un ginecologo dice: “Io cerco dientrare solo per lo stretto indispensabile, perchéè un finale già stabilito”. La prima volta che in-contro questa donna in stanza presento, comefaccio di solito, il servizio offerto dall’ospedale,ma mi accorgo di essere in imbarazzo e mi fer-mo poco. La volta successiva entro in punta dipiedi, rimango da sola con lei, che mi raccontadi sé, del dolore acuto nel corpo, della difficol-tà a comprendere come, dopo un miracolo (es-sere rimasta incinta, quello che tanto desidera-

va), possa esserle stata data una punizione (il tu-more con le metastasi). Più rimango davanti alei, più la mia solita veste professionale da solanon regge, non trovo appigli, mentre si apronodentro di me le stesse domande sue, lo stesso gri-do, che mi porto fuori dalla stanza, dove inizioa intuire che la mia capacità professionale nonc’entra, che c’è di più [pensiamo di cavarcela conla nostra razionalità scientifica, ma la realtà cispinge, ci sfida ridestando le stesse domande: c’èdi più!]. Quella donna incinta e malata mi rimettedi fronte a tutta la mia umanità bisognosa den-tro il mio ruolo professionale».La ragione del valore delle circostanze è sem-

plice: «Dio non fa nulla per caso» (L. Giussani,Qui e ora. 1984-1985, Bur, Milano 2009, p. 446).Questa è l’unica lettura vera del reale, delle cir-costanze. Altro che dietrologie (in cui tante vol-te ci fermiamo fino a stancarci)! Le circostanze,belle o brutte che siano, tutte, sono modi attra-verso cui il Mistero ci chiama. Non sono, cometante volte noi le interpretiamo secondo la no-stra misura (cioè il nostro razionalismo), la fre-gatura da sopportare. Hanno uno scopo ben pre-ciso nel disegno di Dio.Quale scopo?Lo si capisce bene a partire dalla concezione

di realtà che don Giussani non si è mai stanca-to di comunicarci e di testimoniarci. Rileggia-mo che cosa diceva davanti a una sfida ancorapiù drammatica di adesso, quando intorno al ses-santotto il movimento fu decimato: «Nella vitadi chi Egli chiama, Dio non permette che acca-da qualche cosa, se non per la maturità, se nonper una maturazione di coloro che Egli ha chia-mati. Questo vale innanzitutto per la vita dellapersona, ma ultimamente e più profondamen-te per la vita della sua Chiesa, perciò, analoga-mente, per la vita di ogni comunità [...]. Dio nonpermette mai che accada qualche cosa, se nonper una nostra maturità, per una nostra matu-razione. Anzi [ecco il test che Giussani propo-ne per verificare se stiamo diventando più ma-turi], è proprio dalla capacità che ognuno di noie che ogni realtà ecclesiale ha (famiglia, comu-nità, parrocchia, Chiesa in genere) di valorizzarecome strada maturante ciò che appare comeobiezione, persecuzione, o comunque come dif-ficoltà, è dalla capacità di rendere strumento e

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In che cosaconsiste la nostramaturazione?

È la generazione di un soggetto

in grado di avereconsistenza inmezzo a tutte le

vicende della vita.«Allora, è la lottache ci tiene svegli,

e questa lotta è la trama normale

della vita»

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momento di maturazione questo, che si dimo-stra la verità della fede» (L. Giussani, «La lungamarcia della maturità», Tracce, n. 3/2008, p. 57).In che cosa consiste, dunque, la nostra matu-

razione? È la maturazione della nostra autoco-scienza, è la generazione di un soggetto in gra-do di avere consistenza in mezzo a tutte le vicendedella vita. Perché le circostanze introducono unalotta: «Allora, è la lotta che ci tiene svegli, e que-sta lotta è la trama normale della vita: ci tiene sve-gli, cioè ci matura la consapevolezza di ciò cheè la nostra consistenza o la nostra dignità, cheè un Altro» (L. Giussani, Certi di alcune grandicose. 1979-1981, op. cit., p. 389). Le circostanze,perciò, ci sono date perché maturi in noi la con-sapevolezza di ciò che è la nostra consistenza, af-

finché noi prendiamo veramente coscienza chela nostra consistenza è un Altro.Per vedere bene qual è la modalità con cui noi

di solito affrontiamo queste sfide, basta che fac-ciamo un paragone col canto che abbiamo ap-pena cantato, Il mio volto, e che ci lasciamo col-pire da esso. Perché questo canto - mi sono sor-preso a pensarlo spesso negli ultimi tempi - sa-rebbe quasi impossibile che qualcuno di noi loscrivesse oggi... «Mio Dio, mi guardo ed ecco sco-pro / che non ho volto; / guardo il mio fondo evedo il buio / senza fine [verificate che cosa fac-ciamo noi quando vediamo il buio senza fine,come lo affrontiamo, come reagiamo, come ciagitiamo, e poi paragoniamolo con quel che diceil canto]. // Solo quando mi accorgo che tu»

Federico Barocci,Cristo e i pescatori,1580-1583.Real Monasterode San Lorenzo,El Escorial (Spagna).

sei, / come un’eco risento la mia voce / e ri-nasco» (A. Mascagni, «Il mio volto», Canti, Coop.Ed. Nuovo Mondo, Milano 2007, p. 203).Quante volte, davanti al buio, ciascuno di noi sisorprende a fare il percorso che descrive il can-to? E invece quante volte arriviamo al buio e ciagitiamo cercando una conferma al di fuori del-l’esperienza per aggrapparci a qualcosa? Per que-sto dico: oggi chi sarebbe in grado di comporreun canto così? Immaginate, invece, se ogni vol-ta che uno è nel buio, facesse quello che il can-to dice: guardare il fondo, senza rimanere a unuso ridotto della ragione, fin quando ricono-sce il Tu che è al fondo di ogni buio. Che au-tocoscienza di sé acquisterebbe ogni volta! Checapacità di vivere nella verità di sé, non de-terminato costantemente dal buio, non do-vendo costantemente fuggire dal buio, perchéha incontrato lì, in fondo al buio, in fondo alreale, in fondo a se stesso, che cosa lo costituisce!E qual è il segno? Non che ho altri pensieri oaltri sentimenti. No! Lo riconosco da un fat-to reale: che io rinasco.Come dice questa lettera: «Carissimo Julián,

la vita, seguendo, diventa ogni giorno più af-fascinante. Ogni istante in cui prendo coscienzadi chi sono e del rapporto con il Signore che,solo, rende la mia persona salda e lieta, diven-ta la possibilità di camminare verso il mio com-pimento. Sono una casalinga, ho tre figli; e sonouna grande avventuriera. Non mi sono mai sen-tita schiacciata dalla solitudine inevitabile chela mia vita mi regala e dalla fatica di un lavo-ro che non risulta pubblico (come cambiarepannolini o preparare pappe ai bambini),perché davvero, finalmente, dando creditoalla verità di quello che sempre ci dici (comesempre ci diceva don Gius), tutte le volte chesi affaccia sull’orizzonte del quotidiano un qual-che senso di soffocamento o di menzogna, miaccade di pensare a te, penso al mio io, a Chilo sta facendo in quell’istante, e immediata-mente scopro il rapporto unico e grande chemi costituisce, e tutto torna al suo giusto po-sto e respiro l’aria fresca della mia libertà, l’ariafresca della Sua presenza. Io voglio solo rin-graziarti perché in questi anni sto iniziando re-almente a conoscere e a seguire don Giussani,

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»El Greco,Il miracolo di Gesù cheguarisce il cieco, 1570.The Metropolitan Museum of Art, New York.

e perché non passa giorno in cui ogni circo-stanza - oserei dire anche il mio male, il mio pec-cato - mi accorgo e domando che possa esse-re la grande occasione per fare il mio passo cer-to e consapevole verso il mio destino. Questaè la grande speranza per me, per i miei cari eper tutto il mondo».Allora capite perché le circostanze sono par-

te essenziale della vocazione: perché ci sfidano,perché se a volte non fossi nel buio più buio, po-trei vivere senza accorgermi del Mistero, senzail bisogno di rendermi veramente cosciente diche cosa sono e del fatto che Lui c’è; e così ri-nascere. «Autocoscienza è la capacità di rifletteresu di sé fino in fondo [che non vuol dire rima-nere in una introspezione psicologica]. Ma se unoriflette su se stesso fino in fondo in modo to-talmente cosciente, incontra un Altro, perché di-cendo “io” in modo totalmente autocosciente,m’accorgo che io non mi faccio da me» (Radunodi sacerdoti, 9-16 settembre 1967, La Verna (Ar),Archivio Cl). E quando mi rendo conto che nonmi sono fermato a metà strada, che sono arri-vato a questo Altro? Per un ragionamento? Perun sentimento? Per un autoconvincimento? Per-ché rinasco!Io mi domando: in tutto questo periodo in cui

siamo stati così sfidati dalle circostanze, quan-te volte ci è capitato di essere costretti a fare que-sto percorso, fino a rinascere nel riconoscimentodel Tu? Io, vi confesso, ho dovuto farlo una in-finità di volte, altrimenti vi garantisco che nonsarei più qua. Perché uno può essere dall’altra par-te del mondo e gli arriva per email l’ultimo ar-ticolo del giornale che ci attacca pesantemente,e lì non c’è spazio per la fuga: o uno si lascia de-terminare dalla reazione e ridurre a questo pertutta la giornata, o ricomincia a fare un percorsoe riconosce ancora una volta di non essere quel-lo che dicono i giornali, ma legame con Uno chelo fa. Davanti a ogni circostanza e a ogni sfida,che sono costanti, io sono costretto a deciderese rimanere nel lamento oppure se guardarlacome la possibilità attraverso cui il Mistero chia-ma me al rinnovamento della mia autocoscienza.Il problema non è che ci tolgano il buio, o che

ci risparmino certi attacchi; «il vero nostroproblema è uscire dall’immaturità» (L. Giussa-ni, «La lunga marcia della maturità», op. cit., p.

70), cioè iniziare a dire “io” da uomini veramentecoscienti di quel che sono. Per questo è il tem-po della persona. Perché la nostra immaturitànon è generata - come a volte pensiamo - daglialtri o dalle circostanze o dagli attacchi che ci tro-viamo ad affrontare. Non confondetevi: gli al-tri non hanno il potere di generare questa no-stra immaturità, ma mettono soltanto in evi-denza che c’è, ci rendono coscienti fino a chepunto siamo inconsistenti, ce lo fanno scopri-re; ci fanno scoprire che tante volte noi siamo piùdeterminati dalle circostanze che dall’autoco-scienza. Allora la questione non è lamentarsi del-le circostanze - quanto tempo perdiamo in unosterile lamento! -, ma uscire dall’im-maturità.Il Signore vuole farci uscire dal-

l’immaturità generando un soggettocosì consistente che sia in grado di sfi-dare qualsiasi buio, qualsiasi circo-stanza, qualsiasi problema. Altrimen-ti noi nel reale non ci saremo, tente-remo di fuggire, come vediamo acca-dere intorno a noi: i medici non en-trano più nelle stanze dei malati per-ché c’è troppa realtà per starle davan-ti. E noi pensiamo di poter stare davantia tutte le sfide senza avere consistenza?Così si introduce uno sguardo di-

verso sulle circostanze, e si capisce qualè il senso della vita come vocazione:«Vivere la vocazione significa tende-re al destino per cui la vita è fatta. Taledestino è Mistero, non può essere descritto e im-maginato. È fissato dallo stesso Mistero che cidà la vita. Vivere la vita come vocazione signi-fica tendere al Mistero attraverso le circostan-ze in cui il Signore ci fa passare, rispondendo adesse. [...] La vocazione è andare al destino ab-bracciando tutte le circostanze attraverso cui ildestino ci fa passare» (L. Giussani, Realtà e gio-vinezza. La sfida, SEI, Torino 1995, pp. 49-50)(non quelle che scegliamo noi, come se le po-tessimo decidere noi, ma tutte).Che il Signore ci faccia camminare al destino

attraverso circostanze avverse è qualcosa dimisterioso, la Bibbia ce lo ricorda sempre: «Levostre vie non sono le mie vie» (Is55,8). Quan-do facciamo attenzione ci accorgiamo che

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PAGINA UNOLA VITA COME VOCAZIONE

Davanti a ognicircostanza sono

costretto a deciderese rimanere nellamento o se

guardarla come la possibilità

attraverso cui ilMistero chiama me.Il problema non è che ci tolgano ilbuio; «il vero nostroproblema è usciredall’immaturità»

»

questo, paradossalmente, è così convenien-te per la generazione di un soggetto che senza diquesto noi ci perderemmo nella banalità più as-soluta, nella distrazione più superficiale, nella ri-duzione più tremenda. Perché tutte le circostanzeattraverso cui il Mistero ci fa camminare al de-stino sono per risvegliare il nostro soggettoumano, in modo tale da avere il vigore che gli

consente di vivere in qualsiasi con-tingenza. È la verifica della fede, è la ve-rifica dell’avvenimento cristiano: se ilcristianesimo è in grado di generare unsoggetto consistente, non fuori dalla re-altà, non nella nostra stanza, ma nelreale così come il reale ci sfida. E qualè il vigore, qual è la forza dell’io?Dove si trova? La forza dell’io è soltantonell’autocoscienza. Perciò tutte le cir-costanze per cui il Signore ci fa passaresono per maturare in noi «l’autoco-scienza, una percezione chiara edamorosa di sé, carica della consape-volezza del proprio destino e dunquecapace di affezione a sé vera, liberatadall’ottusità istintiva dell’amor proprio.Se smarriamo questa identità, nulla cigiova» (L. Giussani, «È venuto il tem-

po della persona», op. cit., p. 12).

2. GLI ELEMENTI DELLA NOSTRA AUTOCOSCIENZA

Gli elementi della nostra autocoscienza ce li haricordati il Papa nel suo messaggio al Meetingdi Rimini, lo scorso agosto.

a. Dipendenza originaria: «Fatti»«Parlare dell’uomo e del suo anelito all’infi-

nito significa innanzitutto riconoscere il suo rap-porto costitutivo con il Creatore. L’uomo è unacreatura di Dio [tutti sappiamo queste frasi, tut-ti le sappiamo, io per primo, ma se non le ri-scopriamo rispondendo alle circostanze, ri-mangono lì nel cassetto delle nostre conoscenzeinutili, e poi tutti siamo spiazzati da qualsiasi cir-costanza; per questo, vi prego (come chiedo perme stesso) di non soccombere alla tentazionedi pensare che già lo sappiamo. Non lo sap-piamo! Altrimenti vivremmo con una intensi-tà che noi tante volte nel quotidiano ci sognia-mo]. Oggi questa parola - creatura - sembra qua-

si passata di moda: si preferisce pensare all’uo-mo come ad un essere compiuto in se stesso eartefice assoluto del proprio destino. La consi-derazione dell’uomo come creatura appare“scomoda” poiché implica un riferimento es-senziale a qualcosa d’altro o meglio, a Qualcunaltro - non gestibile dall’uomo - che entra a de-finire in modo essenziale la sua identità;un’identità relazionale, il cui primo dato è la di-pendenza originaria e ontologica da Colui checi ha voluti e ci ha creati». Questo non ce lo puòtogliere alcuna circostanza, alcun potere, alcunattacco, perché costituisce la verità di noi più deinostri pensieri, dei nostri sentimenti o delle no-stre reazioni, o degli altri: non sono gli altri a de-finire che cosa siamo noi; noi siamo questa di-pendenza originaria, e quando questa dipen-denza originaria non è così consapevole, allo-ra siamo in balìa di tutti, lo vediamo al lavoro,nei rapporti, con gli amici, leggendo i giorna-li, stando da soli. Eppure, sottolinea Benedet-to XVI, «questa dipendenza, da cui l’uomo mo-derno e contemporaneo tenta di affrancarsi, nonsolo non nasconde o diminuisce, ma rivela inmodo luminoso la grandezza e la dignità su-prema dell’uomo, chiamato alla vita per entrarein rapporto con la Vita stessa, con Dio» (Be-nedetto XVI, Messaggio al XXXIII Meeting perl’Amicizia fra i Popoli, 10 agosto 2012).«Ma il peccato originale?», ci domandiamo

spesso.Continua il Papa: «Il peccato originale ha la sua

radice ultima proprio nel sottrarsi dei nostri pro-genitori a questo rapporto costitutivo, nel volermettersi al posto di Dio, nel credere di poter faresenza di Lui. Anche dopo il peccato, però, rimanenell’uomo il desiderio struggente di questodialogo [cioè il desiderio di respirare, il deside-rio di uscire dal bunker], quasi una firma im-pressa col fuoco nella sua anima e nella sua car-ne dal Creatore stesso. [...] “O Dio, tu sei il mioDio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’animamia, desidera te la mia carne, in terra arida, as-setata, senz’acqua”. [...] Non solo la mia anima,ma ogni fibra della mia carne è fatta per trova-re la sua pace, la sua realizzazione in Dio. E que-sta tensione è incancellabile nel cuore dell’uo-mo: anche quando si rifiuta o si nega Dio, nonscompare la sete di infinito che abita l’uomo. Ini-

X OTTOBRE 2012

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Che il Signore ci faccia

camminare aldestino attraverso

circostanzeavverse è qualcosadi misterioso. Ma è così convenienteper la generazionedi un soggetto chesenza di questo

noi ci perderemmonella banalità più assoluta

»

zia invece una ricerca affannosa e sterile, di “fal-si infiniti” che possano soddisfare almeno perun momento» (Ivi). Siamo talmente costituitida questo Mistero che ci vuol bene, che nean-che noi, con tutto il nostro male, possiamo ri-durre questa sete. Allora questa sete grida, gri-da, grida Lui, grida che c’è qualcosa in me cheresiste, che permane dopo tutte le mie distrazioni,dopo tutto il mio male, dopo tutto il mio con-fondermi. Dite se non rimane la sete, che è il se-gno di qualcosa di irriducibile, un dato: siamofatti per l’infinito. Questo è il nostro destino. Questo dato è il primo elemento della nostra

autocoscienza, di una percezione chiara e amo-rosa di sé. La dipendenza originaria costituiscela verità di noi: siamo frutto di un atto di amo-re di Dio. Siamo! E nessuno sbaglio, nessuna di-strazione, nessuna circostanza, nessun dolore puòcancellare il fatto che io ci sono. E se ci sono, ilMistero che mi fa mi sta gridando, per il fatto diesserci: «Tu sei un atto di amore Mio. Tu sei fat-to per Me ora, sei fatto a Mia immagine e so-miglianza». E allora acquista tutta la sua porta-ta la frase che tutti “sappiamo” e che ci farebberespirare, se noi ne prendessimo consapevolez-za: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a im-magine di Dio lo creò» (Gen1,27). Questo, ci dicedon Giussani, è il fondamento dell’affezione a

sé (e noi che tante volte andiamo a mendicarele briciole che cadono dalla tavola di qualche po-tente!): «L’affezione a se stessi non può essere mo-tivata da quel che si è; è motivata dal fatto che siè, è la sorpresa di sé come dono di qualcosa d’al-tro, come grazia, come sorpresa di essere, comefatto di un altro. Se la prima cosa che fa Dio èamarti, qual è l’imitazione più immediata di Dio?L’imitazione di Dio è la sorpresa di amarsi, di vo-lersi» (Memores Domini, 8 ottobre 1983, pro ma-nuscripto). «Se uno non ha amore, se uno nonha tenerezza per se stesso, imita Dio in niente;se uno non imita Dio nell’amare, non può imi-tare Dio, perché la prima cosa, e fondamenta-le, con cui Dio si rivela all’uomo che è fatto a Suaimmagine e somiglianza, la prima somiglianzacon Dio è amare sé. Perché la prima cosa che faDio è amarti» (Memores Domini, 3 maggio 1987,pro manuscripto).Ciascuno può fare il paragone tra la coscien-

za che ha di sé e ciò che dice don Giussani; nonper lamentarci di quanto siamo ancora incon-sistenti, ma per gustare una promessa, per ri-scoprire la possibilità di non perdere quel che cidiciamo.

b. Avvenimento cristiano: «Suoi»A noi è successo un altro fatto, che costi-

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»

Scuola siciliana,Cristo che guarisce unainferma (romanico).Gabinetto dei Disegnie delle Stampedegli Uffizi, Firenze.

tuisce il secondo elemento della nostra au-tocoscienza e che risponde a una domanda chespesso anche noi ci facciamo e che il Papa ha for-mulato così: «Non è forse strutturalmente im-possibile all’uomo vivere all’altezza della proprianatura? E non è forse una condanna questo ane-lito verso l’infinito che egli avverte senza mai po-terlo soddisfare totalmente? Questo interroga-tivo ci porta direttamente al cuore del cristia-nesimo. L’Infinito stesso, infatti, per farsi rispostache l’uomo possa [guardate che verbo usa!] spe-rimentare, ha assunto una forma finita. Dal-l’Incarnazione, dal momento in cui il Verbo siè fatto carne, è cancellata l’incolmabile distan-za tra finito e infinito: il Dio eterno e infinito halasciato il suo Cielo ed è entrato nel tempo, si èimmerso nella finitezza umana» (Benedetto XVI,Messaggio al XXXIII Meeting per l’Amicizia frai Popoli, op. cit.). Come ciascuno di noi sa che è successo pro-

prio così, che queste non sono parole dette avanvera?Perché anche noi, come Giovanni e Andrea,

siamo stati presi, fino al punto che ciascunopuò dire: mai sono stato me stesso come quan-do Tu mi sei accaduto. Questo è il contenutodello sperimentare Cristo. Il secondo dato delcontenuto della mia autocoscienza, dunque, èCristo che mi è successo nella vita, che mi hafatto sperimentare me stesso con una inten-sità, con una grandezza, con una pienezza cheio non riesco a riprodurre con tutti i miei ten-tativi. Il contenuto della mia autocoscienza, delsentimento di me, è che il mio io sei Tu, Cri-sto. Tu sei me, Tu sei il mio vero io. Per que-sto si può sintetizzare il contenuto della miaautocoscienza con le parole di san Paolo:«Non sono più io che vivo, ma Cristo vive inme» (Gal 2,20). Ciascuno può guardare e ve-dere fino a che punto è questa autocoscienzadi Cristo a dominare le giornate, oppure se èuna frase scolpita sul muro, ma di cui non ab-biamo un contenuto reale di esperienza.Il Papa ci ricorda la gioia e la gratitudine che

invadeva la vita dei primi cristiani: «Infatti, nelCristianesimo delle origini era così: l’essere li-

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»Heinrich Hofmann,Cristo e il giovane ricco,1889. Riverside Church,New York.

berato dalle tenebre dell’andare a tastoni,dell’ignoranza - che cosa sono? perché sono?come devo andare avanti? -, l’essere diventa-to libero, l’essere nella luce, nell’ampiezzadella verità. Questa era la consapevolezzafondamentale. Una gratitudine che si irra-diava intorno e che così univa gli uomini nel-la Chiesa di Gesù Cristo» (Benedetto XVI,Omelia alla S. Messa a conclusione dell’incon-tro con il “Ratzinger Schülerkreis”, op. cit.). Tut-ti sappiamo quanto Giussani fosse talmente do-minato da questa coscienza, al punto tale dafare dire al cardinale Martini: «Ecco, tu, ognivolta che parli, ritorni sempre a questo nucleo,che è l’Incarnazione, e - con mille modi diversi- lo riproponi» (C.M. Martini citato in J. Car-rón, «Carrón: sono addolorato, potevamocollaborare di più», Corriere della Sera, 4 set-tembre 2012). Che cos’era, ogni volta, sentir-lo parlare!A questo punto il Papa tira le fila: «Nulla al-

lora [dopo l’Incarnazione] è banale o insi-gnificante nel cammino della vita e del mon-do. L’uomo è fatto per un Dio infinito che èdiventato carne, che ha assunto la nostra uma-nità per attirarla alle altezze del suo essere di-vino». È stupefacente come prosegue il Papa:«Scopriamo così la dimensione più vera del-l’esistenza umana, quella a cui il Servo di DioLuigi Giussani continuamente richiamava: lavita come vocazione. Ogni cosa, ogni rap-porto, ogni gioia, come anche ogni difficol-tà, trova la sua ragione ultima nell’essere oc-casione di rapporto con l’Infinito, voce di Dioche continuamente ci chiama e ci invita ad al-zare lo sguardo, a scoprire nell’adesione a Luila realizzazione piena della nostra umanità»(Benedetto XVI, Messaggio al XXXIII Meetingper l’Amicizia fra i Popoli, op. cit.).Capite? Vivere la vita come vocazione è cam-

minare al destino attraverso ogni cosa, chenon è più banale e insignificante, ma acquista lacapacità di richiamarci all’autocoscienza. Le cir-costanze ci sono date per risvegliare questa au-tocoscienza, non perché le circostanze possanodarci quello che abbiamo detto (il fatto di essercie il fatto che Cristo ci accada), ma perché le cir-costanze ci aiutano a scoprire carnalmente,sperimentalmente che cosa vuol dire Cristo e che

cosa vuol dire il fatto che io ci sono, perché il Si-gnore ci fa camminare al destino attraverso tut-te le circostanze che fa capitare. Per questo: «Nondobbiamo avere paura di quello che Dio ci chie-de attraverso le circostanze della vita» (Ivi).Il Signore richiama tutti a riconoscere l’es-

senza della propria natura di essere uomini,fatti per l’infinito. E questo è quello che do-cumenta la Rivelazione, che tutto quanto ciè dato, ci è dato per la nostra maturazione, percrescere in questa autocoscienza. Perciò que-sto è il tempo della persona, il tempo di cia-scuno di noi, perché ciascuno è chiamato, at-traverso circostanze particolarissime, a ri-spondere a Cristo che chiama. E ri-spondere alla situazione e alla pro-vocazione è impossibile, se non cimettiamo in gioco con tutto noi stes-si. Perché, solo la persona può nonsoccombere a questa situazione,proprio per la natura dell’io. Quel-lo che è in gioco in tutto questo è lalotta accanita per non ridurre l’io atutti i fattori antecedenti.

3. LA STRADA DELLA CERTEZZA

Questo lo documenta in modo spet-tacolare san Paolo. Anche a lui l’in-contro con Cristo ha segnato la vita,tanto da capovolgere tutto ciò che con-siderava un valore: «Siamo infatti noii veri circoncisi, noi che rendiamo il cul-to mossi dallo Spirito di Dio e ci glo-riamo in Cristo Gesù, senza avere fi-ducia nella carne, sebbene io possa vantarmi an-che nella carne. Se alcuno ritiene di poter con-fidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ot-tavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù diBeniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto allalegge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; ir-reprensibile quanto alla giustizia che deriva dal-l’osservanza della legge. Ma quello che poteva es-sere per me un guadagno, l’ho considerato unaperdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai ioreputo una perdita di fronte alla sublimità del-la conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, peril quale ho lasciato perdere tutte queste cose e leconsidero come spazzatura, al fine di guadagnareCristo e di essere trovato in lui, non con una

OTTOBRE 2012 XIII

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»

Questo è il tempodella persona,

perché ciascuno èchiamato, attraverso

circostanzeparticolarissime, a rispondere a

Cristo che chiama.Rispondere

alla situazione è impossibile

se non ci mettiamoin gioco con tutto

noi stessi

mia giustizia derivante dalla legge, ma conquella che deriva dalla fede in Cristo, cioè conla giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede.E questo perché io possa conoscere lui, la potenzadella sua risurrezione, la partecipazione alle suesofferenze, diventandogli conforme nella mor-te, con la speranza di giungere alla risurrezionedai morti» (Fil 3,3-11).Ma anche a lui, che aveva questa chiarezza su

Cristo, niente è stato risparmiato, anzi; basta guar-dare le circostanze che ha dovuto affrontare:

«Cinque volte dai Giudei ho ricevuto itrentanove colpi; tre volte sono stato bat-tuto con le verghe, una volta sono sta-to lapidato, tre volte ho fatto naufragio,ho trascorso un giorno e una notte inbalìa delle onde. Viaggi innumerevoli,pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pe-ricoli dai miei connazionali, pericoli daipagani, pericoli nella città, pericoli neldeserto, pericoli sul mare, pericoli da par-te di falsi fratelli; fatica e travaglio, ve-glie senza numero, fame e sete, frequentidigiuni, freddo e nudità. E oltre a tuttoquesto, il mio assillo quotidiano, lapreoccupazione per tutte le Chiese» (2Cor11,24-28). È impressionante! Ma at-traverso tutto ciò in cui il Signore lo hafatto passare, che cosa è emerso semprepiù potentemente alla coscienza di san

Paolo? Che «noi abbiamo questo tesoro in vasidi creta, perché appaia che questa potenza stra-ordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo in-fatti tribolati da ogni parte, ma non schiaccia-ti; siamo sconvolti, ma non disperati; persegui-tati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uc-cisi, portando sempre e dovunque nel nostro cor-po la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesùsi manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noiche siamo vivi, veniamo esposti alla morte a cau-sa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia ma-nifesta nella nostra carne mortale. Di modo chein noi opera la morte, ma in voi la vita. Animatituttavia da quello stesso spirito di fede di cui stascritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noicrediamo e perciò parliamo, convinti che coluiche ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà an-che noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insie-me con voi. Tutto infatti è per voi, perché la gra-

zia, ancora più abbondante ad opera di un mag-gior numero, moltiplichi l’inno di lode alla glo-ria di Dio» (2 Cor 4,7-15).Tutto quello che gli viene dato è per lui, è per

conoscere di più Gesù, la forza della Sua risur-rezione, la potenza di Colui a cui lui ha affida-to la vita. Questa è una umanità tutta traboccantedi gratitudine, che nasce ancora più consape-volmente perché il Mistero non ha risparmia-to alcunché a Paolo. Queste circostanze, che sonoparte della Rivelazione - le lettere di san Paolosono parte della Rivelazione, non sono aneddotio aggiunte decorative -, dicono il metodo di Dio:Dio non ci risparmia alcunché affinché possa cre-scere questa gratitudine sconfinata. Allora viverela vita come vocazione con questa coscienza (checioè portiamo questo contenuto in vasi di cre-ta) è la strada per non essere appiattiti nell’ot-tusità e nella opacità della nostra coscienza, inmodo tale che la certezza di Cristo possa diventaresempre più nostra. Noi non metteremo in di-scussione le nostre “idee” su Cristo a meno cheLui stesso non sfondi costantemente la nostra ri-duzione, facendoci sperimentare Chi è.L’esito di questo metodo di Dio lo descrive

lo stesso Paolo: la certezza acquisita. «Se Dio èper noi, chi sarà contro di noi? Egli che non harisparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato pertutti noi, come non ci donerà ogni cosa insie-me con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Diogiustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che èmorto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra diDio e intercede per noi? Chi ci separerà dun-que dall’amore di Cristo? Forse la tribolazio-ne, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nu-dità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scrit-to: Per causa tua siamo messi a morte tutto il gior-no, siamo trattati come pecore da macello. Main tutte queste cose noi siamo più che vincitoriper virtù di colui che ci ha amati. Io sono in-fatti persuaso che né morte né vita, né angeliné principati, né presente né avvenire, né po-tenze, né altezza né profondità, né alcun’altracreatura potrà mai separarci dall’amore di Dio,in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,31-39).Se noi non siamo vincitori in mezzo a tutta la

situazione di egemonia culturale in cui siamochiamati a vivere, qual è la ragionevolezza del-la fede? Perché sarebbe ragionevole credere in Cri-

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Attraverso ciò in cuiil Signore lo ha fattopassare, è emersopotentemente alla coscienza

di Paolo che «noiabbiamo questotesoro in vasi di creta, perché

appaia che questapotenza

straordinaria vieneda Dio e non da noi»

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sto? Invece se qui, proprio qui, in mezzo a tut-to quello che stiamo dicendo, a tutto quello chestiamo vivendo, a tutte le sfide che ci troviamoad affrontare, vediamo che siamo più che vin-citori in Lui (non per merito nostro, ma perchéCristo ci ha amati), questo genera una consistenzache è unica. La persuasione di cui parla san Pao-lo è la certezza dell’autocoscienza. Chi non de-sidera almeno un grammo di questa certezza?Allora, è solo se noi vediamo all’opera la con-temporaneità di Cristo che siamo veramente vit-toriosi. Essere vittoriosi non vuol dire «prendereil potere». Essere vittoriosi vuol dire vedere la vit-toria di Cristo, anche se siamo spogliati di tut-to. Essere vittoriosi significa essere traboccantidella Sua presenza.Per questo, dobbiamo decidere dove tro-

viamo la risposta al desiderio di felicità che ciscopriamo addosso perché siamo fatti per l’in-finito. Solo così potremo collaborare alla mis-sione della Chiesa, che «non è l’accanimentodel proselitismo, ma una testimonianza che la-scia trasparire l’attrattiva di Gesù, è lo strug-gimento perché tutti siano salvati» (A. Scola,Alla scoperta del Dio vicino, Centro Ambro-siano, Milano 2012, p. 31), come ci ha ricor-

dato il cardinale Scola nella sua recente lette-ra pastorale.Davanti a testimoni come san Paolo possia-

mo vedere che cosa può diventare Cristo pernoi, in modo tale che, anche nelle circostanzepiù pressanti, sempre di più il contenuto del-la nostra autocoscienza ci riempia di silenzio,urga dentro di noi la memoria di Cristo comela cosa più preziosa, la cosa più desiderabile, acui dare tempo, a cui dare spazio, a cui dare ilnostro cuore. Se non abbiamo sempre di piùil desiderio di questa memoria, se non ci sor-prendiamo desiderando questo silenzio per darespazio alla memoria, noi siamo già vinti, per-ché abbiamo ceduto sul contenuto dell’auto-coscienza e quindi l’abbiamo svuotata di quelche ci è capitato e ce la siamo fatta riempire daquello che vuole il potere. Essere in silenzio èvivere questa coscienza di Cristo, è la capacitàdi pensare e invocare Cristo.Per questo, per imparare a pregare bisogna

amare il silenzio, cioè il sentimento profondo disé come persona incamminata verso una metache è il mistero di Cristo. Deve diventare maturo,sempre più maturo e grande il silenzio. Se noinon arriviamo a fare in modo diverso quel-

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Hendrick ter Brugghen,Chiamata di san Matteo,1621. Centraal Museum,Utrecht.

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lo che facciamo di solito, se il silenzio non èprendere coscienza di sé per riempire la nostrapersona (a volte già riempita di tutte le distra-zioni, di tutte le preoccupazioni, di tutte le coseda fare), se noi non diamo lo spazio al prende-re di nuovo coscienza di noi, saremo travolti datutt’altro. Perché il silenzio è riprendere coscienzadel proprio rapporto con la grande presenza delmistero del Padre.È così che possiamo, poi, af-

frontare il reale con negli occhi, nel-la coscienza, Lui. Come il cieconato. Non che il cieco nato lo gua-risca e poi lo tiri fuori dal reale perpaura che gli venga tolto quello chegli ha dato. No. Con negli occhiquella Presenza che l’ha guarito,Gesù lancia il cieco nella mischia,non lo tira fuori. Cioè: Cristo ge-nera un io in grado di vivere il rea-le, come il cieco che ha la sempli-cità di riconoscere che prima non ci vedeva eadesso ci vede. La sua coscienza era determi-nata da quello che gli era successo. Con que-sta autocoscienza può stare davanti a tutti, nonperché sia più potente, ma per questa sempli-cità nell’aderire a quello che gli è capitato. Que-sta è la potenza dell’autocoscienza - e nell’ul-timo arrivato! -, e tutti i sapienti tra i farisei nul-la hanno potuto rispetto a un io che aveva que-sta autocoscienza.Così possiamo stare davanti a qualsiasi cir-

costanza, come ci ha testimoniato una nostracarissima amica davanti alla morte, in un dia-logo che ha avuto con il marito (che me lo hascritto) quando ha saputo quello che stava persuccedere: «Mi ha detto: “Io sono tranquilla,non ho paura, perché c’è Gesù. Ora nemme-no sono più angosciata per te e per i bimbi, per-ché so che siete nelle mani di un Altro”. E io:“Ma non sei triste?”. “No, non sono triste. Sonocerta di Gesù, anzi, sono curiosa di quello chemi capiterà, di quello che il Signore mi sta pre-parando. Forse dovrei essere triste, ma non losono. Mi dispiace solo che la tua prova sia piùgrande della mia”. “Ma va’”. “Certo, sarebbe sta-to meglio il contrario”. E io, sorridendo per-ché già incredibilmente confortato dal mira-colo appena visto, le dico: “È proprio vero, so-

prattutto per i bambini”. Questo è stato sen-za dubbio uno dei più bei momenti dei di-ciassette anni (dodici di matrimonio e cinquedi fidanzamento) passati insieme. Se non il piùbello». Con una consistenza così si può guar-dare tutto, fino alla soglia del destino.Noi abbiamo un testimone a cui non è sta-

to risparmiato alcunché: don Giussani. «Miaforza e mio canto è il Signore» (Es 15,2):

«Mentre diciamo così, non dicia-molo con gli occhi sbarrati e riem-piti della presenza degli altri! Ma di-ciamo questa parola, ripetiamoquesta frase con negli occhi la pre-senza di Cristo, che è la verità di tut-to quel che c’è qui, la verità ultimadi tutto quel che c’è qui: “Ogni cosain Lui consiste”. [...] “Mia forza”,perciò mia arma di battaglia, e“mio canto”, vale a dire mia dol-cezza che rimane nella battaglia, bel-

lezza che mi trascina nella battaglia, che mi dàsostegno nella battaglia, durasse un’ora o du-rasse cento giorni. Anzi, c’è la battaglia che è tut-ta la vita. Che nel vivere io tenga presente Gesù!Questo l’amicizia nostra ci promette: un aiu-to a incrementare, ad avanzare, a camminaredentro questa memoria, Dio santo! È una pro-messa dentro ogni battaglia - mentre c’è la bat-taglia, attraverso tutto il tempo della vita chesia lotta e fatica - a entrare sempre di più den-tro il Tu; perché il “Tu” è a un presente: “Miaforza e mio canto sei tu”. Ecco, che questo Tucoincida con la Sua faccia, coincida col Suonome. Nome: è una presenza in tutta la sua for-za e suggestività, potenza e dolcezza» (L. Gius-sani, L’attrattiva Gesù, Bur, Milano 1999, pp.184-185).Così - con questo negli occhi - possiamo di-

sporci a iniziare il prossimo 11 ottobre, nella gran-de compagnia di tutta la Chiesa, l’Anno della Fedeche il Papa ha voluto indire per «riscoprire e riac-cogliere questo dono prezioso che è la fede, perconoscere in modo più profondo le verità chesono la linfa della nostra vita, per condurre l’uo-mo d’oggi, spesso distratto, ad un rinnovato in-contro con Gesù Cristo via, vita e verità» (Be-nedetto XVI, Discorso all’Assemblea della Con-ferenza Episcopale Italiana, op. cit.).

XVI OTTOBRE 2012

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Cristo genera un io in grado divivere il reale,come il ciecoche riconosceche prima nonci vedeva e

adesso ci vede

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