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ACTA PHILOSOPHICA ATENEO ROMANO DELLA SANTA CROCE ARMANDO EDITORE RIVISTA • INTERNAZIONALE • DI • FILOSOFIA

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ACTAPHILOSOPHICAATENEO ROMANO DELLA SANTA CROCE

ARMANDO EDITORE

RIVISTA • INTERNAZIONALE • DI • FILOSOFIA

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Semestrale, vol. 3 (1994), fasc. 2Luglio/Dicembre

sommario

Editoriale: Un dovere di gratitudine

Studi

DIO NELLA FILOSOFIA MODERNA

Nicolas GrimaldiDieu dans la philosophie de Descartes

José Luis FernándezDios en la filosofía de Malebranche

Daniel GamarraJ. G. Fichte: l’affermazione dell’Assoluto

Armando RigobelloDio nella modernità: Husserl

Luis RomeraDio e la questione dell’essere in Heidegger

Note e commenti

Raúl EchauriSobre el origen del ser y la nada

Daniel InnerarityFilosofía como arte y experiencia de la vida

Antonio MaloTre teorie sulle emozioni (seconda parte)

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Cronache di filosofia

La verità scientifica (J.J. SANGUINETI)

Convegni

Riviste

Società filosofiche

Rassegne editoriali

Recensioni

AA. VV., Filosofia e democrazia in Augusto del Noce (M.A. Ferrari)ARISTOTELE, Metafisica, a cura di G. Reale (M. Pérez de Laborda)A. CRESCINI, L’enigma dell’essere (J.J. Sanguineti)P. DONATI, La cittadinanza societaria (G. Chalmeta)S. NANNINI, Cause e ragioni (J.J. Sanguineti)L. POLO, Teoría del conocimiento (vol. IV) (J.A. García González)

Schede bibliografiche

AA.VV., The Past & the Present (S.L. Brock)I. MANCINI, Come leggere Maritain (J. M. Burgos)R. YEPES STORK, La doctrina del acto en Aristóteles (M. Pérez de Laborda)

Pubblicazioni ricevute

Indice del volume 3 (1994)

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Un dovere di gratitudine

Mentre veniva stampato il precedente fascicolo di ACTA PHILOSOPHICA,ci è giunta, inattesa e dolorosa, la notizia della morte santa di S. E. Mons.Alvaro del Portillo, Vescovo Prelato dell’Opus Dei e primo GranCancelliere dell’Ateneo Romano della Santa Croce, avvenuta il 23 marzoscorso, al suo rientro a Roma da un pellegrinaggio in Terra Santa.Ricordarlo, seppur brevemente, con affetto filiale in apertura di questonumero della nostra rivista è per noi un dovere di gratitudine, il cui com-pimento è ben lontano dal corrispondere pienamente a quanto da luiabbiamo ricevuto.

È stato il Beato Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, a desi-derare e ad ispirare l’Ateneo Romano della Santa Croce, ma morì primadi poterlo vedere realizzato. Mons. Alvaro del Portillo, succedutogli nel1975 alla guida dell’Opus Dei, ne ha messo fedelmente in pratica il pro-getto, seguendone e sospingendone con premurosa sollecitudine la prepa-razione, gli inizi e gli sviluppi. In questi anni siamo stati testimoni di comeil Prelato dell’Opus Dei ci sia stato costantemente vicino con le sue indi-cazioni, i suoi suggerimenti, il suo amabile incoraggiamento e soprattuttocon la sua preghiera ed il suo sacrificio.

Anche ACTA PHILOSOPHICA è nata grazie al paterno e paziente impulsodi Mons. Alvaro del Portillo. Ricordiamo con quanta risolutezza e affabi-lità ci spronò già agli inizi di gennaio del 1990 ad avviare una rivista chefosse espressione del lavoro di ricerca della Facoltà di Filosofia delnostro Ateneo, e strumento di dialogo e di scambio con le altre istituzioniuniversitarie. Da allora non ci è mai mancato il suo sostegno e oggi, nelcompletare la terza annata della nostra pubblicazione, guardiamo con stu-pore e riconoscenza la strada percorsa.

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Se pensiamo ad ACTA PHILOSOPHICA nell’insieme della nascita e dellosviluppo del nostro Ateneo, essa appare come naturale riflesso d’una con-cezione della vita universitaria derivata dallo spirito — eredità del BeatoJosemaría Escrivá — che contraddistingue l’Ateneo della Santa Croce,giunto ormai al decimo anno di attività accademica. Fra i diversi aspetti diquesto motivo ispiratore, costantemente ricordatoci dal nostro primo GranCancelliere, possiamo segnalarne due: l’amore per la libertà e l’unità divita.

È ben noto a tutti quanto l’attuale congerie storico-sociale abbia resodifficile per molti uomini riconoscere l’armonia fra libertà e verità. Talepercezione di un orizzonte impervio diventa più acuta allorché ad avver-tirla è una comunità universitaria con il suo essenziale compito formativo.Mons. del Portillo, nella consapevolezza che è la verità a rendere liberi(cfr. Gv 8, 32), parlando di tale compito affermava che il nostro Ateneo«l’assolve nel pieno rispetto della libertà personale, anzi promuovendo lalibertà e la personalità di ciascuno, in un servizio disinteressato e fecondoalla Verità» (Discorso in apertura dell’anno accademico 1985-1986,«Romana», 1 [1985], p. 80).

Questa libertà, che tanto più piena diventa quanto più responsabile erispettosa della libertà altrui, dà atto della ricchezza della verità non irri-gidendola in una delle sue possibili formulazioni storiche. Perciò, «nelgrande quadro comune dell’insegnamento cattolico, questo Centro è aper-to a tutte le correnti e a tutte le scuole di pensiero che cerchino sincera-mente una comprensione più profonda della verità su Dio e della veritàsull’uomo» (ibidem).

Libertà personale e servizio alla Verità, vissuti compiutamente, nonpossono non condurre all’unità di vita, secondo la quale lo specifico agiredell’uomo universitario non è una realtà inconciliabile con il suo persona-le impegno nella vita quotidiana. Richiamandosi agli insegnamenti delfondatore dell’Opus Dei, Mons. Alvaro del Portillo prospettava, come sin-tomo di salute accademica, che «nella vita di ciascuno di noi si accresca-no le virtù cristiane, proprio durante e attraverso le svariate attività checonfigurano la vita di questo Centro universitario» (Discorso in aperturadell’anno accademico 1990-1991, «Romana», 11 [1990], p. 234).

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editoriale

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Così, dunque, non a scapito del pluralismo ma proprio come conse-guenza dell’unità di vita di ognuno, lo studio è per il credente un avveni-mento vitale dove, come sottolineava l’allora Prelato dell’Opus Dei, «ilvero progresso non si può limitare a un mero sapere qualcosa di più, maconsiste soprattutto nel saperne di più di Qualcuno: con un sapere chenon è soltanto teorico, limitato all’intelletto speculativo, ma che coinvolgetutta la persona, in modo tale da promuovere la volontà a gustare, adassaporare (sapere), per mezzo della contemplazione, la Verità, la Bontà ela Bellezza di Dio» (ibidem).

Siamo sicuri per la speranza della fede che Mons. Alvaro del Portillo,definito da Giovanni Paolo II “servitore buono e fedele” per “la suafedeltà alla Sede di Pietro ed il generoso servizio ecclesiale”, sta conti-nuando ad aiutare dal Cielo il lavoro che si svolge nell’Ateneo Romanodella Santa Croce; il suo grato ricordo ci spinge a proseguire nel nostroimpegno con lo spirito di servizio e di collaborazione che da lui, strettissi-mo collaboratore e primo successore del Beato Josemaría Escrivá, abbia-mo imparato. In tal modo, restando nel solco della continuità, mettiamo inpratica quanto ci ha raccomandato sin dalla sua elezione Mons. JavierEchevarría, attuale Prelato dell’Opus Dei e Gran Cancelliere del nostroAteneo, il quale è stato per lunghi anni valido sostegno dei suoi due insi-gni predecessori.

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studi

Dieu dans la philosophie de Descartes

NICOLAS GRIMALDI*

Sommario: 1. L’existence de Dieu prouvée par l’idée que nous en avons; 2. L’existence de Dieuprouvée par l’expérience de notre finitude; 3. L’existence de Dieu prouvée par la continuation demon existence; 4. La démonstration de l’existence de Dieu: le dit argument ontologique; 5. Lavéracité divine; 6. La connaissance de Dieu; 7. Dieu comme cause.

L’idée de Dieu soutient tout l’édifice de la philosophie cartésienne. Non seule-ment son idée est la première et la plus claire de toutes, mais elle précède même celleque nous avons de nous. De même que si nous n’avions pas d’abord l’idée de la per-fection, nous ne pourrions jamais avoir d’expérience de l’imperfection, de même est-ce donc l’idée de Dieu qui nous fait sentir notre imperfection, et nous prépare ainsi àdécouvrir, au bout du doute, la certitude du Cogito.

S’il est vrai qu’il ne peut pas y avoir de «vraie et certaine science pour unathée», c’est parce que nulle déduction ne peut être certaine tant que nous ne sommespas assurés de l’éternité des vérités et de ce que toutes les idées claires et distinctessont vraies. Or une telle certitude ne peut être tirée que de la véracité divine, et cettevéracité elle-même ne peut que se déduire de la nature de Dieu.

Les lois générales de création (c’est-à-dire les fondements de la physique), nepeuvent être que déduites de l’idée que nous avons de l’éternité et de l’immutabilitéde son Créateur. Et tous les théorèmes particuliers seront déduits de ces lois généra-les.

Parce qu’on ne saurait d’aucune façon vouloir ce dont on n’aurait aucune idée,nous n’éprouverions pas l’infinité de notre volonté si l’idée que nous avons de Dieune faisait de l’infinité de ses perfections l’objet ultime de notre volonté. C’est parceque l’idée de Dieu est l’idée la plus originaire de notre entendement qu’elle est l’ori-ginaire corrélat de notre volonté.

Parce que la doctrine cartésienne de la création continuée fait de chaque instantl’instant même de la création, Dieu est non seulement la cause totale de ce qui existe,mais encore la cause efficiente de chaque chose. Parce que c’est donc lui qui fait les

ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 201/226

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* Université de Paris-Sorbonne, 1, rue Victor Cousin, 75230 Paris

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grandes âmes, ou celles qui sont basses et vulgaires, c’est à lui que les généreux sontredevables de l’usage qu’ils font de leur liberté. Il n’est donc rien qui ne dépendetoujours entièrement de Dieu, et pas même le plus libre des hommes dans le momentoù il fait de sa liberté un usage absolu.

Parce que tout dépend de lui, c’est donc lui qu’il faut d’abord connaître. Or lapremière chose à connaître, c’est son existence. Une objection aussi vieille que le pla-tonisme consisterait alors à nous opposer qu’il serait vain de s’interroger sur l’existen-ce de ce qu’on ne connaît pas. La réponse, bien sur, est qu’il n’y aurait strictement rienà en connaître s’il n’existait pas. Alors? Il nous faut remarquer que le mouvementmême de la pensée cartésienne résout cette apparente contradiction, en faisant del’idée de Dieu l’idée la plus originaire. Parce que l’idée de Dieu a toujours déjà étédonnée, nous en avons toujours eu une idée très claire; et c’est pourquoi nous pouvonsfort légitimement nous interroger sur son existence.

C’est ce mouvement spontané de la pensée que nous commencerons par analy-ser.

* * *

L’idée de Dieu apparaît, des la Première Méditation, pour radicaliser l’entrepri-se du doute, du moins en son premier moment. Est alors considéré comme douteuxtout ce dont on peut trouver la moindre raison de douter. S’agissant des véritésmathématiques, si indépendantes de toute existence matérielle, outre le fait que cer-tains s’y trompent, on ne pourrait guère trouver de raison d’en douter que de suppo-ser un Dieu trompeur. En effet, observe Descartes, «il y a longtemps que j’ai dansmon esprit une certaine opinion qu’il y a un Dieu qui peut tout, et par qui j’ai été crééet produit tel que je suis»1. Une chose est l’idée que nous avons de Dieu, autre chosel’opinion que nous avons de son existence. L’idée de Dieu nous fait concevoir «unesubstance infinie, éternelle, immuable, indépendante, toute connaissante, toute puis-sante, et par laquelle moi-même et toutes les autres choses qui sont ont été créées etproduites»2. C’est donc une seule et même chose d’avoir l’idée de Dieu et d’avoirl’idée d’un être infiniment puissant. Puisqu’il n’est rien qu’il ne puisse, il est doncpossible qu’il me trompe jusque dans les choses qui me semblent les plus évidentes.L’idée innée de la toute-puissance de Dieu devient, en ce sens, une raison de douter.

Si l’on comprend bien que l’idée que nous avons de l’infini soit innéepuisqu’elle ne peut être acquise, il est plus surprenant que cette idée que nous avonsde l’infini soit en même temps celle d’un être qui nous a créés. Or c’est une idée con-stante chez Descartes que, si je m’étais créé, je me serais donné toutes les perfectionsdont j’ai l’idée3. Puisque je me connais imparfait, j’ai donc été créé. Mais ce sonttoutes les créatures imparfaites qui, pour cette même raison, ont donc été créées. Ils’ensuit d’une part que le seul être qui ait pu les créer n’est donc pas une créature, etd’autre part qu’il doit être parfait.

Si la toute-puissance de Dieu pouvait fournir une raison de douter, sa perfectionjustifiait toutefois une raison inverse: car la meilleure chance pour une créature de

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studi

1 Première Méditation, AT, IX-1, 16.2 Méditation troisième, AT, IX-1, 36.3 Cfr. Discours, 4ème partie, AT, VI, 34; Méditation troisième. AT, IX-1, 38; Principes I, 20.

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n’être point trop imparfaite n’est-elle pas d’avoir été créée par la plus parfaite descauses? Serait-il vraisemblable, dans ce cas, que le plus parfait et le plus puissant descréateurs n’eut produit ses créatures que pour les abuser?

Voici le problème posé dès la Première Méditation. Lorsqu’elle s’achèvera,deux choses seront manifestes. Assujetti à la capacité de notre entendement, le pre-mier moment du doute aura manifesté que nous avons l’idée de Dieu. Développé parl’exercice de notre volonté sous le travesti du Malin Génie, le second moment dudoute aura prouvé que notre volonté est capable d’une négativité infinie. Car com-bien de choses a-t-elle «révoqué en doute» au bout de cette méditation? Une infinité:autant que Dieu, s’il existe, a pu en créer.

Une fois découverte la première évidence: Cogito, existo, une deuxième en estaussitôt tirée. En effet, puisque l’évidence du conditionné prouve l’évidence du con-ditionnant, l’évidence de ma cogitatio en tant que mode de la pensée atteste l’éviden-ce d’une res cogitans en tant que substance de ce mode. De la découverte du Cogito,Descartes avait encore tiré un corollaire: puisque ce qui caractérisait l’évidence decette proposition (Cogito, existo) était sa très grande clarté et distinction, un théorèmeavait fait de la clarté et de la distinction les propriétés et comme les critères de l’évi-dence. On aurait pu continuer, s’il n’y avait eu cette hypothèque d’un Dieutrompeur4, qui obère toute déduction, et par conséquent toute progression de la con-naissance. Car s’il est vrai qu’on ne peut pas douter de l’évidence dans le momentmême où l’attention en impose l’intuition à l’esprit, plus rien toutefois ne nous assureencore de sa vérité lorsque nous avons cessé d’y être attentif, et que nous considéronsune autre idée. Et en effet, s’il y a un Dieu qui peut tout, ne peut-il pas avoir fait quece qui était vrai l’instant précédent ne fût plus vrai l’instant suivant? Comment alorsêtre jamais assuré de la pérennité de la vérité, nonobstant l’instantanéité de nos certi-tudes? Comment être assuré que la praesens evidentia peut être considérée commeune evidentia aeterna? Nulle science ne sera donc possible tant que n’aura pas étélevée l’hypothèque de l’éventualité d’un Dieu trompeur. Le mouvement desMéditations va donc consister à se demander: 1) s’il y a un Dieu; et 2) s’il peut êtretrompeur.

Tout le cheminement de cette argumentation, on le voit, est gouverné par laconception que se fait Descartes de la toute-puissance divine. Selon lui, étant tout-puissant, Dieu est absolument indépendant. Étant indépendant, il ne peut être assujet-ti à rien, et pas même à la vérité, ni au bien, ni à la justice. Puisqu’il peut tout et qu’ilne dépend de rien, tout dépend inconditionnellement de lui, y compris les vérités,qu’il a donc aussi créées comme il a tout créé. Or c’est cette idée d’un Dieu créateurdes vérités qui, lorsque nous ne percevons plus l’évidence d’une vérité, laisse planerle doute que Dieu, qui l’a créé, ne l’ait depuis abrogée et n’en ait créé une autre. Onvoit donc comment l’argumentation des Méditations, où n’apparaît pas la doctrine dela création des vérités5 en est cependant implicitement tributaire.

Nicolas Grimaldi

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4 Méditation troisième, AT, IX-1, 28: «Mais toutes les fois que cette opinion ci-devant conçuede la souveraine puissance d’un Dieu se présente à ma pensée, je suis contraint d’avouerqu’il lui est facile, s’il le veut, de faire en sorte que je m’abuse, même dans les choses que jecrois connaître avec une évidence très grande»; cfr. Principes I, 13.

5 À Mersenne, 15 avril 1630, AT, I, 145: «les vérités mathématiques, lesquelles vous nommezéternelles, ont été établies de Dieu et en dépendent entièrement, aussi bien que tout le restedes créatures. C’est en effet parler de Dieu comme d’un Jupiter ou Saturne et l’assujettir au

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La première question va donc être celle de savoir s’il existe réellement un êtrequi corresponde à l’idée que nous avons de Dieu. Dieu existe-t-il? A l’oeuvre tout aulong de la Troisième Méditation, une première méthode va consister à prouver queDieu est l’unique cause possible d’un certain nombre de faits aussi indubitablesqu’immédiatement constatables: le fait est que j’ai l’idée de Dieu, le fait est que je nesuis pas parfait, le fait est que je dure. S’interrogeant sur la condition de possibilité defaits aussi patents, Descartes va en effet montrer qu’ils ne seraient pas possibles siDieu n’existait pas. Comme dans une méthode d’investigation policière, les faits étantdonnés, ils constituent autant de preuves de l’existence de leur cause. Car comment netiendrait-on pas pour prouvée l’existence de l’unique cause possible dès lors qu’estindubitablement constatée l’existence de son effet? Si tel effet ne peut avoir que tellecause, il suffit d’avoir établi l’existence de l’effet pour avoir prouvé l’existence de sacause. Autant qu’il y en a donc d’effets remarquables, autant va-t-il donc y avoir depreuves de l’existence de Dieu.

1. L’existence de Dieu prouvée par l’idée que nous en avons

Prenant appui sur l’idée de Dieu que nous trouvons en nous, la première argu-mentation va consister à se demander si nous pouvons l’avoir produite, et sinon quel-le en peut être la cause. Prenant appui sur le principe de causalité, elle va doncl’appliquer aux idées en général, puis à l’idée de Dieu en particulier.

Toute l’axiomatique et tout le rationalisme cartésiens sont requis par la mise enoeuvre de cette preuve. Qu’il n’y ait rien dont on ne soit fondé à «demander la causepourquoi il existe», c’est en effet un axiome, et même le premier de tous6. S’il n’y apas de réalité dont on ne puisse rendre raison, il s’ensuit que tout ce qui est réel estrationnel. Si la raison d’être de toute chose est la cause qui l’a produite (causa siveratio), il doit y avoir une première cause, qui est à elle-même sa propre raison, et quepour cette raison même, posant sa propre existence par sa propre essence, on peutnommer causa sui. Aussi est-ce ce que fera Descartes dans ses réponses à Caterus7 età Arnauld8.

Qu’«aucune chose ne puisse avoir le néant pour cause», c’est également unaxiome9. Pas plus qu’il ne peut donc y avoir d’absolue spontanéité ni de pur com-mencement, pas plus ne peut-il y avoir de création (aliquid ex nihilo) dans la

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studi

Styx et aux destinées, que de dire que ces vérités sont indépendantes de lui»; 6 mai 1630,AT, I, 149: «Pour les vérités éternelles, je dis derechef que sunt tantum verae aut possibiles,quia Deus illas veras aut possibiles cognoscit, non autem contra veras a Deo cognosci quiaindependenter ab illo sint verae. Et si les hommes entendaient bien le sens de leurs paroles,ils ne pourraient jamais dire sans blasphème que la vérité de quelque chose précède la con-naissance que Dieu en a, car en Dieu ce n’est qu’un de vouloir et de connaître, de sorte queex hoc ipso quod aliquid velit, ideo cognoscit, et ideo tantum talis res est vera»; 17 mai1630, AT, I, 151-153: «Vous me demandez in quo genere causae Deus disposuit aeternasveritates. Je vous réponds que c’est in eodem genere causae qu’il a créé toutes choses,c’est-à-dire ut efficiens et totalis causa». Cfr. aussi Sixièmes Réponses, AT, IX-1, 233.

6 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 127.7 Cfr. Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 87.8 Cfr. Réponses aux 4èmes Objections, AT, IX-1, 187-188.9 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, 3e axiome, AT, IX-1, 127.

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création10. Du même coup, puisqu’il ne saurait rien y avoir dans l’effet qui n’y ait étéproduit par sa cause, «c’est une chose manifeste pour la lumière naturelle qu’il doit yavoir pour le moins autant de réalité dans la cause efficiente et totale que dans soneffet»11. Quoiqu’elle paraisse déduite du précédent axiome, Descartes dira que «c’estune première notion, et si évidente qu’il n’y en a point de plus claire»12; et il la pré-sentera donc à la fin des Secondes Réponses comme le troisième de ses axiomes13.

Dès lors qu’il ne pourrait rien y avoir de plus dans ce qui suit que dans ce quiprécède, un tel axiome réduirait donc tout changement à un déplacement, bornerait lenouveau à n’être jamais qu’un réaménagement de l’ancien, et, résumant le tout àn’être rien de plus que la somme de ses parties, ferait par conséquent du mécanismele principe fondamental de tout ce qui peut se produire dans la nature. Or, c’estqu’objectent à Descartes aussi bien Mersenne et les théologiens de la Sorbonne14 queGassendi15. Se référant implicitement à des descriptions d’Aristote16, c’est l’observa-tion même de la vie qui leur parait contester l’axiomatique cartésienne. Le propre dela vie n’est-il pas, en effet, qu’il y ait plus dans ce qui suit que dans ce qui précède?Le propre d’un organisme n’est-il pas que le tout soit autre chose et quelque chose deplus que la somme de ses parties? Ne voit-on pas «tous les jours que les mouches etplusieurs autres animaux, comme aussi les plantes, sont produits par le soleil, la pluieet la terre, dans lesquelles il n’y a point de vie comme en ces animaux, laquelle vieest plus noble qu’aucun autre degré purement corporel»?17. Comme aucune expérien-ce ne saurait récuser une évidence, c’est sa logique a priori qui conduit Descartes àécarter l’objection: s’il nous semble parfois qu’il y ait plus dans l’effet que dans lescauses qui ont concouru à sa production, c’est faute de connaître assez toutes les cau-ses qui concourent au phénomène de la génération18. Formulée par Gassendi, l’autreobjection oppose à Descartes que son principe ne vaut que pour la cause matérielle,mais est impertinent quant à la causalité efficiente: que reste-t-il de l’architecte dansla maison achevée, et qu’eut-on jamais pu observer dans l’architecte de ce qui consti-tue proprement la maison?19. Nul embarras pour Descartes: quel philosophe eutjamais cherché dans la matière la cause ou la raison de la forme qu’elle reçoit?20.

Ce principe de causalité posé comme originaire, Descartes va l’appliquer auxidées. Une telle démarche ne s’explique toutefois que par le statut dérivé queDescartes leur assigne. Toute idée, pense-t-il en effet, est une représentation; toutereprésentation est comme une image; et toute image dérive de son modèle commetout reflet dérive de ce qu’il réfléchit. «Entre mes pensées, recense-t-il, quelques-

Nicolas Grimaldi

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10 Cfr. Cogitationes privatae, AT, X, 218: «Tria mirabilia fecit Deus: res ex nihilo, liberumarbitrium, et Hominem Deum». Si la Création est mirabilis, c’est parce qu’elle excède eteffare, en effet, toute compréhension.

11 Méditation troisième, AT, IX-1, 32.12 Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 106.13 Cfr. ibidem, AT, IX-1, 128.14 Cfr. Secondes Objections, AT, IX-1, 97.15 Cfr. Cinquièmes Objections, AT, VII, 288.16 Cfr. ARISTOTE, Histoire des animaux, V, 15; V, 19; V, 31.17 Secondes Objections, AT-IX-1, 97.18 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 105-106.19 Cfr. Cinquièmes Objections, AT, VII, 288.20 Cfr. Réponses aux 5èmes Objections, § V, AT, VII, 366.

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unes sont comme les images des choses, et c’est à celles-là que convient proprementle nom d’idée: comme lorsque je me représente un homme, une chimère, ou le ciel,ou un ange, ou Dieu même»21. C’est donc par nature, selon Descartes, que toute idéerenvoie à autre chose qu’elle-même, dont elle n’est, comme une effigie ou une trace,qu’une représentation déléguée, dérivée22. La formulation de la lettre au P. Meslanddu 2 mai 1644 n’autorise là-dessus aucune équivoque. C’est très expressément, eneffet, que Descartes y déclare ne «mettre aucune différence entre l’âme et ses idéesque comme entre un morceau de cire et les diverses figures qu’il peut recevoir»23.D’où cette constante assimilation de toute intellection à une passion24. Car «commece n’est pas proprement une action, mais une passion en la cire, de recevoir diversesfigures, c’est aussi une passion en l’âme de recevoir telle ou telle idée»25.

Toute idée est donc constituée, et jamais constituante. Comme un reflet par rap-port à son original, comme une empreinte par rapport à son sceau, comme un tableaupar rapport à son modèle26, l’idée ne produit pas son objet: elle le reproduit. Et«encore qu’il puisse arriver qu’une idée donne naissance à une autre idée,... il faut àla fin parvenir à une première idée, dont la cause soit comme un patron ou un origi-nal, dans lequel toute la réalité ou perfection soit contenue formellement»27. Et eneffet, comme nous n’eussions jamais eu l’idée ou l’image d’un satyre ou d’une sirènesi nous n’avions jamais vu d’homme, de femme, de bouc ni de poisson, toutes nosidées sont «comme des tableaux ou des peintures qui ne peuvent être formés qu’à laressemblance de quelque chose de réel et de véritable»28. Par conséquent, de mêmeque toute vision, si déformée ou composée qu’elle puisse être, dépend de l’objet vu,de même toute idée, si factice qu’elle soit, dépend de l’essence qu’elle ne nous faitconcevoir qu’autant qu’elle nous la représente. On comprend du même coup que, sitoute idée est «comme un tableau», elle peut «à la vérité facilement déchoir de la per-fection des choses dont (elle a) été tirée», quoiqu’elle ne puisse «jamais rien contenirde plus grand ou de plus parfait»29. Image, tableau, trace, empreinte, marque, effigie,reflet, une idée n’est pas une cause: c’est toujours un résultat. Il n’y a pas d’idée ensoi. Renvoyant par nature à autre chose qu’elle-même, c’est par nature qu’elle estune relation, un double.

Ainsi décrite, c’est nécessairement que la nature de l’idée conduit donc à distin-guer sa réalité objective et sa réalité formelle30. Comme ce que nous voyons dans unmiroir pourrait être dit la réalité objective du reflet, la réalité objective d’une idée est ce

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21 Méditation troisième, AT, IX-1, 29.22 Ibidem, AT, IX-1, 34-35: «les idées étant comme des images, il n’y en peut avoir aucune

qui ne nous semble représenter quelque chose».23 À Mesland, 2 mai 1644, AT, IV, 113.24 Cfr. À Regius, mai 1641, AT, III, 372.25 À Mesland, 2 mai 1644, AT, IV, 113.26 Méditation troisième, AT, IX-1, 33: «la lumière naturelle me fait connaître évidemment que

les idées sont en moi comme des tableaux [...]».27 Méditation troisième, AT, IX-1, 33.28 Première Méditation, AT, IX-1, 15.29 Méditation troisième, AT, IX-1, 33.30 Ibidem: «tout ainsi que cette manière d’être objectivement appartient aux idées, de leur pro-

pre nature, de même aussi la manière ou la façon d’être formellement appartient aux causesde ces idées (à tout le moins aux premières et principales) de leur propre nature».

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que nous concevons en elle en tant qu’elle en est l’image ou la représentation. Et commeon pourrait dire, corrélativement, que l’objet réfléchi par le miroir est la réalité formellede l’image ainsi produite, de même la réalité formelle d’une idée est ce qui correspondontologiquement dans son objet à ce qu’elle nous en fait logiquement concevoir31.

De même encore que ce qui fait la différence entre les diverses images d’unmiroir n’est pas le miroir qui les réfléchit, mais la diversité des objets qu’elles reflè-tent, de même n’y a-t-il pas d’autre différence entre les diverses idées que la diversitédes essences ou des objets qu’elles représentent. Leur réalité objective est donc déter-minée et constituée par leur réalité formelle32.

Puisqu’il est de la nature d’une idée de renvoyer à autre chose comme à sacause33, Descartes devait s’estimer fondé à y appliquer le principe de causalité. Il entire donc un théorème qui, appliqué à l’idée que nous avons de Dieu, en prouveral’existence: toute idée doit avoir une cause, contenant formellement au moins autantde réalité que cette idée en représente objectivement34. Il n’y a rien qu’une idée nousfasse logiquement concevoir qui ne doive être ontologiquement dans sa cause.

Étant une substance, notre âme a donc formellement assez de réalité pour pro-duire l’idée d’une substance étendue, et, à partir d’une telle idée, celle de tous lesmodes de l’étendue35. Mais, parce que c’est notre imperfection même qui nous a faitdouter, et parce que c’est le doute qui nous a fait découvrir la substantialité de notreâme, notre âme est une substance finie. Elle ne possède donc pas assez de réalité for-melle pour être cause de l’idée d’infini qui est cependant en nous. Par conséquent,l’idée de perfection36, ou l’idée d’infini37, c’est-à-dire l’idée de Dieu, ne peut être enmoi que parce qu’un être possédant réellement, formellement, ontologiquement cetteperfection et cette infinité l’a mise et produite en moi, «comme la marque del’ouvrier empreinte sur son ouvrage»38. «Il faut nécessairement conclure que, de celaseul que l’idée d’un être souverainement parfait (c’est-à-dire de Dieu) est en moi,l’existence de Dieu est très évidemment démontrée»39.

À cette preuve par la trace ou par la marque, les premiers lecteurs de Descartesélevèrent quatre types d’objections, auxquelles il avait pourtant répondu par avancedans le corps de ses Méditations. Elles portaient:

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31 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, définitions III et IV, AT, IX-1, 124-125.32 Méditation troisième, AT, IX-1, 31-32: «si ces idées sont prises en tant seulement que ce

sont de certaines façons de penser, je ne reconnais entre elles aucune différence ou inégalité,et toutes semblent procéder de moi d’une même sorte; mais, les considérant comme desimages, dont les unes représentent une chose et les autres une autre, il est évident qu’ellessont fort différentes les unes des autres».

33 Ibidem, p. 33: «si nous supposons qu’il se trouve quelque chose dans l’idée qui ne se ren-contre pas dans sa cause, il faut donc qu’elle tienne cela du néant [...]»; «tout ainsi que cettemanière d’être objectivement appartient aux idées, de même aussi la manière ou la façond’être formellement appartient aux causes de ces idées [...]»; «il faut à la fin parvenir à unepremière idée, dont la cause soit comme un patron ou un original [...]».

34 Cfr. ibidem, p. 32-33; cfr. aussi Réponses aux 2ndes Objections, 5ème axiome, p. 128;Principes I, 18.

35 Cfr. Méditation troisième, p. 36.36 Cfr. Discours, 4ème partie, AT, VI, 34; Principes I, 18.37 Cfr. Méditation troisième, p. 36.38 Ibidem, p. 41.39 Ibidem, p. 40.

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– sur la validité de l’application du principe de causalité aux idées, – sur le caractère inné ou adventice de l’idée de Dieu, – sur son caractère inné ou factice, – sur la possibilité même d’avoir véritablement une idée de l’infini.Dans les Premières Objections Caterus fait en effet observer qu’une idée n’a

pas d’existence en acte. Une maison a peut-être besoin d’une cause idéale pour êtreconstruite, mais de quelle cause l’idée de maison pourrait-elle avoir besoin? L’idéede quelque existence que ce soit n’est-elle pas que l’existence d’une idée? Et le pro-pre d’une idée n’est-il pas d’exister sur le mode de l’inexistence? «Pourquoi doncrecherche-je la cause d’une chose qui actuellement n’est point, qui n’est qu’une sim-ple dénomination et un pur néant?»40. La réponse de Descartes est simple. Il est vraique la Joconde n’est pas Monna Lisa. Doit-on penser pour autant que la Joconden’existe pas et qu’elle n’est rien? Les idées ont le même genre de réalité qu’uneimage ou un tableau: une réalité objective. N’être que dans l’entendement, ce n’estpas ne pas être; de sorte que si une chose a besoin d’une cause pour exister hors del’entendement, elle doit aussi avoir besoin d’une cause pour exister dans l’entende-ment, c’est-à-dire pour être conçue41.

Également inspirées d’une ontologie implicitement réaliste, les SecondesObjections font valoir un autre argument. Bien loin de penser, comme feraMalebranche, que représenter c’est en quelque façon contenir, et à l’inverse deDescartes pour qui concevoir une idée c’est la recevoir, Mersenne considère que con-cevoir c’est produire une idée, et qu’il n’est pas plus difficile de concevoir un chilio-gone qu’un triangle, ou d’imaginer mille thalers que de n’en imaginer qu’un: au boutdu compte on n’est pas plus riche d’une manière que de l’autre. Parce que les idéesne sont que des êtres de raison, et parce que l’idée de richesse ne nous rend pas plusriches que l’idée de pauvreté ne nous rend pauvres, aucune idée ne peut «être plusnoble que l’esprit qui la conçoit»42. Descartes répond en dénonçant la pétition deprincipe d’une telle objection. Si on commence par dire que les êtres de raison sontproduits pas la raison, et de surcroît que nous ne concevons que des êtres de raison,on n’aura évidemment aucun mal à prouver que l’idée de Dieu n’est qu’un être deraison. Mais, de fait, on n’aura rien prouvé du tout, puisqu’on a commencé par sedonner ce qui était précisément à prouver, à savoir que tout ce que nous concevonsest produit par notre esprit43. Or tel est précisément le cas unique de l’idée de Dieu,qu’elle contient plus de réalité objective que notre esprit ne possède de réalité for-melle, de sorte qu’il est aussi certain qu’elle est en nous, qu’il est certain qu’elle nevient pas de nous.

Une deuxième série d’objections met en question le caractère inné de l’idée deDieu. Nous ne l’avons pas produite: soit. Elle a été mise en nous: soit. Mais par qui?Y a-t-il rien dans l’idée que nous concevons de Dieu dont nous ne soyons redevablesà ce qui nous a été enseigné?44. N’est-il pas singulier que l’idée qu’en a Descartessoit si exactement conforme à ce qu’en enseigne l’Église depuis qu’elle en a reçu la

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40 Premières Objections, AT, IX-1, 74.41 Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 82-83.42 Secondes Objections, AT, IX-1, 48.43 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 106.44 Cfr. Secondes Objections, AT, IX-1, 98.

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Révélation?45. Comme par une sorte de réciproque, n’est-il pas tout aussi remarqua-ble que ceux qui n’en ont reçu ni la Révélation, ni la tradition, ni l’enseignement,«n’ont point en eux une telle idée»?46. Bref, cette idée de Dieu, l’eussions-nousjamais eue si nous ne l’avions jamais reçue? La première objection n’embarrasse pasDescartes: à supposer que cette idée ait été mise en moi par ceux qui me l’enseignè-rent, tant et tant qu’on remonte, il faut bien finir par convenir qu’il dut y avoir quel-qu’un à qui on ne l’avait pas enseignée et en qui cependant elle avait été mise47.Quant à la seconde objection, il la récuse purement et simplement, parce qu’il nie lefait que précisément elle tient pour observable. Parce qu’il n’y a pas d’homme quin’ait l’idée d’infini, il n’y a pas d’homme qui n’ait l’idée de Dieu; et les Canadiens etles Hurons ne pensent pas là-dessus autrement que tout le monde. Ce qui prouve lecaractère inné de l’idée de Dieu, c’est son caractère universel. En effet, si l’idée deDieu avait pu être inventée, composée, colportée, transmise par ci ou par là, «elle neserait pas conçue si exactement de la même façon par tout le monde; car c’est unechose très remarquable que tous les métaphysiciens s’accordent unanimement dans ladescription qu’ils font des attributs de Dieu»48.

Si l’idée que nous avons de Dieu n’a été ni acquise ni transmise, ne pourrait-ellealors avoir été construite à partir de divers éléments de notre expérience? Fautequ’elle soit une idée adventice, ne serait-elle pas une idée factice? Ne se peut-il,demande Mersenne, qu’elle «ne représente rien que ce monde corporel, qui embrassetoute les perfections» imaginables, de sorte que sous le nom de Dieu nous ne nousreprésentions en fait qu’«un être corporel très parfait»?49. Il suffit, répond Descartes,d’évoquer une telle notion pour en dénoncer l’absurdité. Un corps parfait est commeun cercle carré. Comment serait-il, en effet, de la nature d’un corps d’être infinimentdivisible sans qu’il soit aussi de sa nature d’être infiniment corruptible, c’est-à-direimparfait? Parce que la matière n’existe que partes extra partes, un corps n’estqu’une somme d’exclusions, un ramassis d’ingrédients séparés, morcelés. Commentune unité aussi occasionnelle et précaire aurait-elle aucune perfection?50.

Mais, demande alors Gassendi, si l’idée de Dieu ne peut être tirée de la considé-ration des choses extérieures et matérielles, ne pourrait-elle être formée «par amplifi-cation» ou «par agrandissement» des facultés que nous reconnaissons simplement ennous-mêmes? Ne suffit-il pas de durer, de connaître, de pouvoir, et même de notreexpérience de la bonté et du bonheur51, pour que nous puissions en dériver, par mul-

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45 Cfr. Cinquièmes Objections, AT, VII, 286.46 Secondes Objections, AT, IX-1, 98.47 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 107.48 Ibidem, p. 108; et aussi Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 84: «parce que (l’idée de

Dieu) est empreinte d’une même façon dans l’esprit de tout le monde, et que nous nevoyons pas qu’elle nous vienne jamais d’ailleurs que de nous-mêmes, nous supposonsqu’elle appartient à la nature de notre esprit».

49 Secondes Objections, AT, IX-1, 98.50 Cfr. Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 109; et p. 107: que l’idée de Dieu «peut être

formée de la considération des choses corporelles, cela ne me semble pas plus vraisemblableque si vous disiez que nous n’avons aucune faculté pour ouïr, mais que, par la seule vue descouleurs, nous parvenons à la connaissance des sons. Car on peut dire qu’il y a plus d’analo-gie ou de rapport entre les couleurs et les sons qu’entre les choses corporelles et Dieu».

51 Cfr. Cinquièmes Objections, AT, VII, 287.

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tiplication, l’idée de l’éternité, de l’omniscience, de la toute-puissance, etc.?Observons n’importe quel homme; affectons ses caractères d’une puissance exponen-tielle: n’aurons-nous pas produit de la sorte une idée toute semblable à celle que nousavons de Dieu? Nullement, répond Descartes. Imaginer que Dieu puisse être quelqueméganthrope, ce serait en effet comme croire qu’un éléphant est un énorme ciron52,ou que l’éternité est une dilatation de la temporalité. Quoi qu’on prétende imaginerde la sorte, on ne conçoit rien du tout. Car tant et tant qu’on ajoute du fini à du fini,on n’en finira jamais de produire l’infini53. L’infini peut être un tout; mais il n’estcertainement pas une somme. L’idée que nous en avons ne pouvant donc être obtenuepar aucune médiation, elle ne peut être donnée que tout entière et tout d’un coup54.Donnée immédiate de la conscience, intuition originaire, c’est une idée innée.

D’ailleurs, quand on imagine que l’idée de Dieu pourrait être produite par lafaculté que nous avons «d’amplifier toutes les perfections créées», c’est cette facultédont on omet toutefois d’expliquer comment elle peut être en nous. Excédant toutereprésentation possible, que manifeste une telle faculté, sinon une originaire affilia-tion avec l’idée de ce qui excède tout excès et dépasse tout dépassement?55. Si,comme le dira Malebranche, «nous avons toujours du mouvement pour aller plusloin», n’est-ce pas parce que nous avons originairement l’idée du lointain absolu, del’absolument indépassable, c’est-à-dire de l’infini? Or notre esprit aurait-il la capa-cité de dépasser indéfiniment la représentation de toute chose finie s’il n’avait unevolonté infinie, et notre volonté pourrait-elle être infinie sans vouloir l’infini?Pourrait-elle être infinie si nous n’avions originairement en nous l’idée de perfectionsinfinies, c’est-à-dire de Dieu même?56.

Mais, va objecter Gassendi, puisque notre entendement est fini, en évoquant «cedont on ne peut rien concevoir de plus grand», ce qu’il conçoit de la sorte n’est-il pastoujours fini? Puisqu’il ne peut donc pas le concevoir, cet infini dont il prétend avoirl’idée n’est-il pas alors qu’un mot?57. D’ailleurs, comme le mot même l’indique,l’infini n’est-il pas qu’une notion négative, exprimant seulement la négation de cequi est fini? Tout au contraire, répond Descartes, c’est ce qui est fini qui ne peutjamais être conçu que comme une limitation de ce qui n’a pas de limite58.Malebranche sera donc strictement fidèle à la pensée de Descartes lorsqu’il dira quel’idée d’infini précède et fonde celle de toute chose finie59. D’une part, en effet, on

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52 Cfr. Réponses aux 5èmes Objections, Sur la 3e Méd., § IV, AT, VII, 365.53 Cfr. Méditation troisième, AT, IX-1, 137.54 Réponses aux 5èmes Objections, Sur la 3ème Méd., § X, AT, VII, 371: «ne pensez pas que

”l’idée que nous avons de Dieu se forme successivement de l’augmentation des perfectionsdes créatures”; elle se forme tout entière et tout à la fois, de ce que nous concevons parnotre esprit l’être infini, incapable de toute sorte d’augmentation».

55 Ibidem, § IV, p. 365: «d’où nous peut venir cette faculté d’amplifier toutes les perfections créées,c’est-à-dire de concevoir quelque chose de plus parfait qu’elles ne sont, sinon de cela seul quenous avons en nous l’idée d’une chose plus grande, à savoir, de Dieu même?»; et § IX, p. 371:«je soutiens que cette vertu-là d’augmenter et d’accroître les perfections humaines jusqu’à telpoint qu’elles ne soient plus humaines, mais infiniment relevées au-dessus de l’état et conditiondes hommes, ne pourrait être en nous si nous n’avions un Dieu pour auteur de notre être».

56 Cfr. À Mersenne, 25 décembre 1639, AT, II, 628.57 Cfr. Cinquièmes Objections, AT, VII, 296.58 Cfr. Réponses aux 5èmes Objections, Sur la 3ème Méd., § IV, AT, VII, 365.59 Cfr. N. MALEBRANCHE, Recherche de la vérité, livre III, 2ème partie, chap.VI (OC, I, 441).

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ne conçoit pas l’être par son manque. D’autre part, comment aurions-nous jamaisl’idée du manque ou de la limitation si on n’avait préalablement l’idée de l’être sanslimitation ni restriction?60. Bien loin, par conséquent, que l’idée d’infini puisse êtreobtenue par totalisation ou par négation de l’idée que nous avons de ce qui est fini,c’est au contraire la conscience même de notre finitude qui ne serait pas même possi-ble si nous n’avions originairement l’idée de l’infini; de sorte, comme l’avaientmanifesté les Méditations, que «nous avons premièrement en nous l’idée de Dieu quede nous-mêmes»61.

2. L’existence de Dieu prouvée par l’expérience de notre finitude

Tous les exposés de la métaphysique cartésienne en développent l’argument62.Je désire. J’ai donc l’idée de perfections que je ne puis me donner. C’est la preuveque je ne suis pas mon créateur. En effet, il est plus difficile de faire être ce qui n’estpas que de perfectionner (c’est-à-dire de modifier) ce qui est. Parce que je ne suis pasla cause de mon être, je ne suis pas la cause des idées dont je ne possède pas formel-lement la réalité, et qui ont donc dû être mises en moi par l’être qui m’a créé. Or iln’aurait pas pu en produire en moi la réalité objective s’il n’en avait formellement ouéminemment possédé la réalité.

Comme toute trace est à la fois l’empreinte et l’absence de ce qui l’a produite,notre désir est donc la trace de Dieu en nous. Anticipant une pensée de Pascal63

l’argument cartésien caractérise donc Dieu comme la présence dont notre désir estl’absence. Puisque la conscience même de notre imperfection atteste la finitude denotre statut de créature, la réciproque de ce théorème est qu’étant donc incréé un êtreparfait est nécessairement éternel.

3. L’existence de Dieu prouvée par la continuation de mon existence

Cet argument est un simple corollaire de la doctrine cartésienne du temps,laquelle est immédiatement déduite de son axiomatique. Qu’«aucune chose actuelle-ment existante ne puisse avoir quelque chose non existante pour cause de son exi-stence» il n’y a pas à en débattre ni à en discuter: c’est un axiome64. On en pourraitdéduire que, n’existant plus, le passé ne peut pas être cause du présent. Mais il n’y apas même à le déduire, c’est encore un axiome: «le temps présent ne dépend pas decelui qui l’a immédiatement précédé»65. Pour la même raison, l’avenir, qui n’existepas encore, ne peut pas être la cause finale du présent. Le présent ne peut donc pas

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60 Cfr. À l’Hyperapistes, août 1641, § 6, AT, III, 427; cfr. aussi À Clerselier, 23 avril 1649, §5, AT, V, 356.

61 Méditation troisième, AT, IX-1, 36.62 Cfr. Discours, 4ème partie, AT, VI, 34-35; Méditation troisième, AT, IX-1, 38; Principes I, 20.63 B. PASCAL, Pensées (éd. Brunschvicg), fr. 425: «Que nous crie cette avidité et cette impuis-

sance, sinon qu’il y a eu autrefois dans l’homme un véritable bonheur dont il ne lui restemaintenant que la marque et la trace toute vide [...]?».

64 Réponses aux 2ndes Objections, 3ème axiome, AT, IX-1, 127.65 Ibidem, 2ème axiome.

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tendre vers l’avenir. Nous voici donc introduits a priori dans une ontologie où il n’ya ni tendance, ni dynamisme. Tout s’y achèverait donc à l’instant même qu’il com-mence, si la cause qui l’a créé ne continuait de créer le monde encore à chaqueinstant. Telle est cette doctrine de la création continuée66, qui fait de chaque instantl’instant même de la création, et de Dieu, comme nous le verrons, la cause efficientede toutes choses67.

Pourtant, objecte Gassendi, n’observe-t-on pas souvent que l’effet continued’exister alors même que sa cause a disparu? N’est-il pas ordinaire que les enfantssurvivent à leurs pères? La maison ne dure-t-elle pas bien longtemps encore aprèsque son architecte et les maçons aient disparu?68. Mais ce n’est pas de cette façon,répond Descartes, que Dieu nous crée. Car autre chose est la causalité de type artisa-nal qui fait de l’avenir une transformation du présent, et autre chose celle qui créel’existence même et la perpétue d’instant en instant69. Or c’est ainsi, comme lalumière ne dure qu’autant que le soleil la crée, que nous aussi ne durons qu’autantque Celui qui nous a créés continue de le faire.

4. La démonstration de l’existence de Dieu: le dit argument ontologique

La Cinquième Méditation ne prouve plus: elle démontre. Elle ne cherche plus,par une analyse des effets, à attester les caractères ou l’identité de leur cause. Elle neprocède donc plus a posteriori mais uniquement a priori, par le pur examen d’unenotion. Descartes ne va donc pas procéder ici autrement que n’avait fait SaintAnselme dans les deuxième et troisième chapitre de son Proslogion. Comme celui-ciavait évoqué l’idée de «ce dont on ne peut rien concevoir de plus grand», Descartesévoque l’idée de perfection, c’est-à-dire l’idée de ce à quoi on ne peut rien ajouter, cequi est une autre manière de caractériser l’infini. Certes, avait prévenu SaintAnselme, il ne suffit pas qu’une chose soit comprise dans notre intelligence pour quenous comprenions qu’elle est — sauf précisément lorsqu’il s’agit de «ce dont on nepeut rien concevoir de plus grand». Car le comprendre, c’est comprendre qu’il est.De cela seul — à savoir l’infini — il suffit d’avoir l’idée pour savoir que ce n’est passeulement une idée. Sa pure réalité logique le désigne comme la suprême réalitéontologique. Son existence est incluse dans son essence. Descartes ne dira pas autrechose70.

Toutes les difficultés soulevées par cet argument viennent peut-être du seul fait

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66 Cfr. Discours, 4ème partie, AT, VI, 45; Méditation troisième, AT, IX-1, 39; Réponses aux1ères Objections, AT, IX-1, 86; Principes I, 21.

67 Cfr. p.ex. Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 86: «parce que je vois que les parties dutemps peuvent être séparées les unes d’avec les autres, et qu’ainsi, de ce que je suis mainte-nant, il ne s’ensuit pas que je doive être encore après, si, pour ainsi parler, je ne suis créé denouveau à chaque moment par quelque cause, je ne ferais point de difficulté d’appeler effi-ciente la cause qui me crée continuellement en cette façon, c’est-à-dire qui me conserve».

68 Cfr. 5èmes Objections, sur la 3ème Méd., § 9, AT, VII, 301.69 Cfr. Réponses aux 5èmes Objections, AT, VII, 369.70 Cfr. Discours, 4ème partie, AT, VI, 36; Méditation cinquième, AT, IX-1, 52; Réponses aux

1ères Objections, AT, IX-1, 91; Principes I, 14 et 15.

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de l’avoir présenté comme un argument ou comme une démonstration71, c’est-à-direcomme un raisonnement, avec ses prémices et sa conclusion. Ou bien, en effet, parcequ’on ne peut pas concevoir l’infini s’il lui manque l’existence, c’est une seule etmême chose de concevoir l’infini et de le concevoir existant72. Il s’agit alors d’uneintuition immédiate. Se demander si l’infini peut ne pas exister, c’est comme sedemander s’il peut y avoir un cercle carré. Dans ce cas, il va de soi que l’existence etl’infini sont réciprocables: parce qu’elle ne peut être limitée par ce qui n’existe pas,l’existence est sans limite et par conséquent infinie; de même, parce qu’il n’y a rienqu’on puisse lui ajouter, l’infini existe nécessairement. Toutefois, au lieu d’en con-clure, par un coup de pouce logique, qu’il est l’être nécessaire, on devrait seulementdire, en toute rigueur, qu’il y a nécessairement de l’être, à l’infini. Ou bien, commel’exposé cartésien peut parfois le laisser supposer, nous avons l’idée de Dieu commenous avons celle du triangle73 et, de même que nous déduisons de la nature de celui-ci que la somme de ses angles est égale à deux droits, de même nous «concluons»74

de la nature de celui-là qu’il doit nécessairement exister. On aurait alors affaire,comme en géométrie, à un jugement hypothético-déductif: «à supposer qu’il y ait unêtre parfait... il serait de sa nature que...».

C’est ce qui constitue l’objection de Caterus à Descartes, comme il avait inspirécelle de Saint Thomas75 à Saint Anselme. Si claire que puisse être l’idée que nousavons d’un être parfait ou de l’infini, «il ne s’ensuit pas pour cela qu’on entende quecette chose soit dans la nature, mais seulement dans l’entendement»76. Or Descarteslui-même avait déjà évoqué cette éventuelle objection77, et avait dénoncé le «sophis-me caché sous l’apparence de cette objection»78. Car la considération de toutes lesautres idées nous a accoutumés à distinguer les caractères intrinsèques de leur essen-ce de la possibilité extrinsèque de leur existence79. Et c’est cette habitude qui nousfait croire sophistiquement que nous aurions d’abord l’idée d’un être infini ou d’unêtre parfait, et qu’ensuite nous en déduirions l’existence comme une de ses pro-priétés. Comme d’abord nous avions l’idée de triangle sans savoir ce que pouvaitvaloir la somme de ses angles, ainsi a-t-on pu croire que nous avions d’abord l’idéed’infini sans savoir si l’existence pouvait être ou non contenue dans sa notion. Encette assimilation, en cette abusive généralisation, en cette coutumière analogie con-siste précisément «le sophisme». Car l’idée d’un être parfait n’est autre chose que

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71 Méditation cinquième, AT, IX-1, 52, l. 14-15: «ne puis-je pas tirer de ceci un argument etune preuve démonstrative de l’existence de Dieu?»; cfr. AT, VII, 65, l. 19-20.

72 Ibidem, l. 41-42: «encore qu’en effet je ne puisse pas concevoir un Dieu sans existence nonplus qu’une montagne sans vallée [...]»; et p. 53, l. 13-15: «de cela seul que je ne puisseconcevoir Dieu sans existence, il s’ensuit que l’existence est inséparable de lui, et partantqu’il existe véritablement».

73 Cfr. Discours, 4ème partie, AT, VI, 36; Méditation cinquième, AT, IX-1, 51, l. 14-27 et p.52, l. 3.

74 Cfr. les expressions par lesquelles Descartes suggère peut-être imprudemment un raisonne-ment, une déduction, une discursivité: «il s’ensuit» (AT, lX-1, 53, l. 14 et AT, VII, 6, l. 3),«cette nécessité est suffisante pour me faire conclure»(AT, lX-1, 53, l. 39).

75 Cfr. THOMAS D’AQUIN, Summa theologiae, 1a pars, quaestio 2, art. 1.76 Premières Objections, AT, IX-1, 79.77 Cfr. Méditation cinquième, AT, IX-1, 53, l. 1-7.78 Ibidem, l. 8-9.79 Ibidem, p. 52, l. 28-32.

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l’idée d’un être existant; au point que c’est même n’en pas concevoir l’idée que de sedemander s’il existe.

Plus subtile est une des objections de Gassendi qui anticipe la critique kantien-ne. L’existence, dit-il, n’est pas une perfection. À l’inverse, nulle chose n’est parfaiteou imparfaite qu’à la condition préalable d’exister. Ce n’est donc pas parce qu’unechose est parfaite qu’elle existe, mais il faut qu’elle existe pour qu’elle puisse avoirquelque perfection que ce soit80. Or cette argumentation repose sur deux glissementsde sens. Lorsque Gassendi évoque les diverses perfections possibles d’une chose,c’est au même sens où il évoquerait ses diverses déterminations possibles: pour êtreverte ou jaune, grande ou petite, belle ou laide, encore faut-il d’abord qu’une chosesoit. Son existence n’est pas une détermination ou un prédicat parmi d’autres, mais lacondition même de toute prédication et de toute détermination objective. Par ailleurs,la «perfection» qu’évoque Descartes à propos de Dieu, n’est pas seulement une suré-minente qualité ou l’excellence d’une quelconque détermination: la perfection selonDescartes est un autre nom de l’infini. Faute de lever ces équivoques, Descartes nepeut donc que répondre en répétant qu’on peut concevoir toutes choses indépendam-ment de leur existence, hors l’être parfait, ou l’infini, ou Dieu, car «Dieu est son être,et non pas le triangle»81.

Si on se rappelle la fortune historique de l’argument ontologique, et commenttoute l’ontologie spinoziste en sera en quelque sorte déduite (à partir des notions decausa sui et de substance), une objection de Mersenne prend un poids considérable.S’il y a «un être infini en tout genre de perfection», son existence n’exclut-elle pastoute autre existence?82. Puisqu’il ne peut rien y avoir hors de lui, ne faut-il pas eneffet qu’il soit l’unique substance et la cause immanente de toutes choses? Sans douteest-ce l’histoire qui nous a fait rétrospectivement mesurer l’enjeu de l’objection.Descartes répond; mais est-il convaincant? L’existence de l’infini, dit-il, n’exclut pascelles des choses finies. Soit; mais quel est alors leur statut? Ne seront-elles pas quedes modes de l’infini? À cause de sa conception de la liberté, rien et pas même ce quinous semble absurde ou contradictoire, ne peut limiter la liberté infinie de Dieu. Dumême coup, il n’est plus rien qui doive embarrasser: «à quoi servirait l’infinie puis-sance de cet infini imaginaire, s’il ne pouvait rien créer?... Il en est de même de tousles autres attributs de Dieu, même de la puissance de produire quelques effets hors desoi»83. Hors de Dieu: sera-ce hors de l’infini?

Il y a toutefois une autre objection à l’argument ontologique, et qui nous sem-ble plus radicale que toutes les autres, bien qu’elle n’ait été articulée par aucun descorrespondants de Descartes. Elle consiste à observer que cet argument n’attesteautre chose que l’existence de l’infini, au sens où l’existence ou l’être en généraldoivent être dits infinis. L’infini est: il y a partout et toujours infiniment de l’être.Quel être? Est-il un? Est-il une personne? Est-il créateur? Or, ce «il y a» infini,peut-on le nommer Dieu autrement que par un abus de langage? Autrement dit, cetargument est-il véritablement une démonstration de l’existence de Dieu?

Il est vrai, toutefois, que Descartes n’avait pas attendu cette démonstration pour

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80 Cfr. Cinquièmes Objections, sur la 5ème Méd., § 2, AT, VII, 323.81 Réponses aux 5èmes Objections, sur la 5ème Méd., § 2, AT, VII, 383.82 Cfr. Secondes Objections, AT, IX-1, 99, l. 8-16.83 Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 111.

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tenir l’existence de Dieu comme prouvée. Aussi est-ce dès la fin de la TroisièmeMéditation et au tout début de la quatrième qu’il lève l’hypothèque qui grevait leprojet de toute science possible: celle du Dieu trompeur. L’existence de Dieu désor-mais certaine, le problème se pose en effet maintenant de savoir s’il peut être trom-peur.

5. La véracité divine

Parce que Dieu est infini, il n’est rien qu’il ne puisse. Il peut donc nous tromperjusque dans ce qui nous paraît le plus évident. En effet, s’il y avait une seule chosequ’il ne puisse, sa liberté aurait une limite: il ne serait donc pas absolument infini. Dece pouvoir infini qui est en Dieu, et qui inclut donc celui qu’il a de nous abuser detoutes les façons, ne va-t-il pas s’ensuivre un insurmontable, un invincible doute quiréduira toute science à n’être qu’une suspecte vrai-semblance?

À l’exception de la morale provisoire, c’est tout le système, toute l’entreprisetoute la doctrine cartésienne qui se trouvent maintenant dépendre de cette uniquequestion84. Sur la réponse que Descartes va faire, c’est tout son édifice qui est fondé.Or, autant de fois que l’argument en est exposé, cette réponse tient en deux lignes:«quoique pouvoir tromper soit une marque de subtilité ou de puissance, toutefoisvouloir tromper témoigne sans doute de la faiblesse ou de la malice; et partant celane peut se rencontrer en Dieu»85. Plus brièvement encore, dans son Épître à Voetius,Descartes dira même qu’«un Dieu trompeur est inconcevable [...] parce que celaimplique contradiction dans le concept»86. Il n’y avait donc pas besoin d’explication:il suffisait de poser la question pour y avoir répondu.

Ses Réponses aux Sixièmes Objections fourniront toutefois à Descartes l’occa-sion de produire deux arguments. Le premier est que l’erreur est un défaut, un man-que, une privation, et que ce qui la fait telle est un néant. Or le souverain être ne peutpas plus vouloir le néant qu’il n’en peut être la cause87, car c’est ne rien créer que decréer le rien. Parce qu’il fait implicitement référence à la Révélation, un autre argu-ment est moins cartésien: comment la religion pourrait-elle nous faire un devoir denotre foi si on pensait que Dieu pût jamais nous tromper?88.

Conséquence immédiate de la véracité divine: le fameux projet d’une mathesisuniversalis que Descartes avait formé dès 1628 s’en trouve désormais ontologique-ment bien fondé. Comme Descartes avait annoncé à Mersenne en 1630 que Dieu aplacé dans nos esprits les idées innées des lois qu’il a instituées dans la nature89,

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84 Méditation cinquième, AT, IX-1, 55, l. 9: «la certitude de toutes les autres choses en dépendsi absolument, que sans cette connaissance il est impossible de jamais rien savoir parfaite-ment»; et p. 56, l. 23-26: «Et ainsi je reconnais très clairement que la certitude et la vérité detoute science dépend de la seule connaissance du vrai Dieu: en sorte qu’avant que je le con-nusse, je ne pouvais savoir parfaitement aucune autre chose».

85 Méditation quatrième, AT, IX-1, 43, l. 1-5; cfr. aussi Méditation troisième, p. 41, l. 30-33;Réponses aux 6èmes Objections, § 4, AT, IX-1, 230; et Principes I, 29.

86 Epistola ad Voetium, AT, VIII-2, 60.87 Cfr. Réponses aux 6èmes Objections, § 5, AT, IX-1, 230.88 Ibidem.89 Cfr. À Mersenne, 15 avril 1630, AT, I, 145.

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voici que la véracité divine vient de lui fournir «le moyen d’acquérir une science par-faite touchant une infinité de choses, non seulement de celles qui sont en (Dieu),mais encore de celles qui appartiennent à la nature corporelle, en tant qu’elle peutservir d’objet aux démonstrations des géomètres, lesquels n’ont point d’égard à sonexistence»90. Non seulement c’est donc la carrière d’une science infinie qui s’ouvre àla méthode cartésienne, mais c’est même l’assurance bien fondée d’une science quipourra désormais se développer, à la manière de la géométrie, entièrement a priori.Car le premier effet de la véracité divine est bien que l’ordre des choses est originai-rement conforme à celui de nos idées claires et distinctes, de sorte qu’il suffit de bienjuger pour bien faire.

La véracité divine est-elle le fondement de toute certitude? Regius le fait remar-quer à Descartes: la vérité des axiomes n’est-elle pas manifeste par elle-même, indé-pendamment d’aucune autre garantie que leur évidence même?91. Mersenne renché-rira: n’avons-nous pas découvert avec une absolue certitude que nous existons ou quenous sommes un esprit, avant même de connaître l’existence de Dieu, et moins enco-re sa véracité?92. N’avons-nous pas découvert la clarté et la distinction commed’indubitables critères de la vérité93 avant même de nous interroger sur l’existence deDieu? Par conséquent, va demander Arnauld94, l’argumentation cartésienne n’est-ellepas tombée à son insu dans un cercle, fondant l’existence de Dieu sur sa clarté et sadistinction, puis garantissant la certitude de la clarté et de la distinction par l’existen-ce de Dieu?

Cette objection a pour origine le double statut de la certitude, qu’on l’obtiennedans l’immédiateté d’une intuition, ou par la discursivité d’une déduction. Pendantque notre attention nous procure l’intuition d’une idée claire et distincte, nous nepouvons aucunement en douter. Quand il y aurait un Dieu trompeur, «il ne sauraitjamais faire que je ne sois rien tant que (quamdiu) je penserai être quelque chose»95.Car la clarté et la distinction sont les propriétés de l’évidence, et le propre de l’évi-dence est qu’on n’en puisse pas douter96. Toutefois, cette évidence ne dure qu’aussilongtemps que nous en avons l’intuition; et cette intuition ne dure qu’aussi longtempsque l’attention qui nous la procure. D’où ces notations temporelles dont Descartesprécise et accompagne tous les exemples qu’il donne de cette praesens evidentia:«tant que»97, «toutes les fois que»98, «pendant que»99, «tandis que»100, «quam-

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90 Méditation cinquième, AT, IX-1, 56.91 Cfr. À Regius, 24 mai 1640, AT, III, 64.92 Cfr. Secondes Objections, AT, IX-1, 98-99.93 Cfr. Méditation troisième, AT, IX-1, 27, l. 27-31: «il me semble que déjà je puis établir

pour règle générale, que toutes les choses que nous concevons fort clairement et fort distinc-tement sont toutes vraies».

94 Cfr. Quatrièmes Objections, AT, IX-1, 166.95 Méditation seconde, AT, IX-1, 19, l. 33-34; la même idée est reprise dans la Troisième

Méditation, p. 28, l. 28-34.96 Cfr. la définition de l’intuition dans la 3ème des Regulae, AT, X, 368, l. 16-17 (ut [...] nulla

prorsus dubitatio relinquatur); cfr. aussi Méditation cinquième, AT, IX-1, 52, l. 1-4.97 Cfr. Méditation seconde, AT, IX-1, 19, l. 34.98 Cfr. Méditation seconde, AT, IX-1, 19, l. 37; Méditation cinquième, p. 53, l. 33.99 Cfr. Méditation cinquième, AT, lX-1, 52, l. 3; et p. 55, l. 27.100 Cfr. Méditation troisième, AT, IX-1, 28, l. 29.

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diu»101, «quoties»102. Car l’évidence s’impose à notre intuition aussi longtemps maispas plus de temps que nous y sommes attentifs. Dès que, pour progresser dans lascience, nous suivons l’ordre et l’enchaînement des idées, voici cependant quel’attention que nous donnons à l’une nous distrait de celle que nous avions donnée àl’autre. Du même coup, cessant d’en avoir l’intuition, nous cessons d’en éprouverl’évidence, sa vérité ne s’impose plus à notre esprit que par le souvenir103 que nousen gardons. Rien ne nous assure plus, alors, qu’un Dieu trompeur n’a pas abrogé lesvérités qu’il avait créées. À moins de savoir que Dieu n’est pas trompeur et qu’il adonc fait éternelles les vérités qu’il a créées, nulle déduction ne sera jamais certaine,et nul progrès de la connaissance ne sera jamais possible.

C’est cette certitude-là que la véracité divine garantit: non celle de la praesensevidentia mais celle de l’evidentia aeterna. Aussi Descartes a-t-il parfaitement raisonde se défendre d’être «tombé dans la faute qu’on appelle cercle»104. Car lorsqu’ilavait dit «que nous ne pouvons rien savoir certainement si nous ne connaissons pre-mièrement que Dieu existe», il ne s’agissait pas des évidences présentes à l’intuition,mais de l’éternité des vérités ainsi découvertes, et par conséquent uniquement «de lascience des conclusions»105. Voilà donc en quel sens il ne peut pas y avoir de «vraieet certaine science pour un athée»: «parce que toute connaissance qui peut être ren-due douteuse ne doit pas être appelée science»106.

Lorsque Descartes avait établi, au début de la Troisième Méditation107, que lesidées vraies sont claires et distinctes, c’était une description phénoménologique, et lavérité dont il s’agissait était celle de l’évidence s’imposant à l’intuition. Lorsque lavéracité divine lui permet d’assurer, dans la Cinquième Méditation, que «ce que jeconçois clairement et distinctement ne peut manquer d’être vrai»108, les caractères dela certitude sont élevés cette fois à la dignité de critères logiques, et la vérité dont ils’agit est une réalité éternelle.

On peut donc dire que, si la première conséquence de la véracité divine estl’éternité des vérités créées, la seconde est que toutes les idées claires et distinctessont vraies, c’est-à-dire conformes à la réalité. S’ensuivant de celle-ci, la troisièmeest la substantialité de l’âme et son indépendance ontologique par rapport au corps.Et en effet, dès la Seconde Méditation, la découverte du Cogito a rendu manifesteque nous avons une idée claire et distincte de notre existence comme esprit, alorsmême que nous n’avons aucune idée d’aucun corps. D’une indépendance absolue de

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101 Cfr. Meditatio secunda, AT, VII, 25, l. 9; Meditatio tertia, p. 36, l. 16; Meditatio quinta, p.65, l. 9.

102 Cfr. Meditatio secunda, AT, IX-1, 25, l. 12; Meditatio quinta, p. 67, l. 21.103 Cfr. Méditation cinquième, AT, IX-1, 55, l. 16; p. 56, l. 1 et 5; cfr. aussi À Regius, 23 mai

1640, AT, III, 64, l. 25-29.104 Réponses aux 4èmes Objections, AT, IX-1, 189, l. 36-37.105 Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 110; aussi Réponses aux 4èmes Objections, AT,

IX-1, 190: «nous sommes assurés que Dieu existe parce que nous prêtons attention aux rai-sons qui nous prouvent son existence; mais après cela, il suffit que nous nous ressouvenionsd’avoir conçu une chose clairement, pour être assurés qu’elle est vraie: ce qui ne suffiraitpas, si nous ne savions que Dieu existe et qu’il ne peut être trompeur».

106 Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 111.107 Cfr. Méditation troisième, AT, IX-1, 27, l. 28-31.108 Méditation cinquième, AT, IX-1, 55, l. 39-41.

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leurs idées, la véracité divine nous autorise à conclure que la réalité de l’un est abso-lument indépendante de la réalité de l’autre, et par conséquent qu’il s’agit de deuxsubstances distinctes109.

L’âme étant «d’une nature entièrement distincte du corps», il s’ensuit «qu’ellen’est point naturellement sujette à mourir avec lui»110. C’est la quatrième conséquen-ce de la véracité divine. En effet l’idée claire et distincte que nous avons de la penséela manifeste comme simple – et par conséquent comme indivisible111 –; tandis quel’idée que nous avons du corps nous manifeste l’étendue comme son attribut princi-pal, et la divisibilité infinie comme une propriété de l’étendue. Or, de même que cequi est infiniment divisible est originairement et naturellement corruptible, de mêmece qui est indivisible par nature est naturellement incorruptible112, quoique Dieupuisse annihiler ce qu’il a créé113. Aussi seule la Révélation peut-elle énoncer defaçon affirmative ce que la raison ne manifeste que de façon négative. Ce que dit laraison: parce qu’elle n’est pas soumise au corps, l’âme n’est pas soumise naturelle-ment à la mort114. Ce qu’enseigne la Révélation: que nos âmes sont immortelles115 etsurnaturellement destinées à «des félicités beaucoup plus grandes que celles dontnous jouissons en ce monde»116.

Cinquième conséquence de la véracité divine: il y a des corps extérieurs, lanature matérielle existe. Première observation: il y a en nous une faculté d’imaginer.Or l’imagination est la faculté par laquelle nous nous représentons dans un corps tout

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109 Cfr. Méditation sixième, AT, IX-1, 62; Réponses aux 2ndes Objections, exposé géométri-que, 4ème prop. AT, IX-1, 131-132; Au P. Gibieuf, 19 janvier 1642, AT, III, 475-478.

110 À Mersenne, 24 décembre 1640, AT, III, 266; Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1,120: «La connaissance naturelle nous apprend que l’esprit est différent du corps, et qu’il estune substance; et aussi que le corps humain, en tant qu’il diffère des autres corps, est seule-ment composé d’une certaine configuration de membres, et autres semblables accidents; etenfin que la mort du corps dépend seulement de quelque division ou changement de figure.Or nous n’avons aucun argument ni aucun exemple, qui nous persuade que la mort, oul’anéantissement d’une substance telle qu’est l’esprit, doive suivre d’une cause si légèrecomme est un changement de figure, qui n’est autre chose qu’un mode, et encore un mode,non de l’esprit, mais du corps, qui est réellement distinct de l’esprit. Et même nous n’avonsaucun argument ou exemple, qui nous puisse persuader qu’il y a des substances qui sontsujettes à être anéanties. Ce qui suffit pour conclure que l’esprit, ou l’âme de l’homme,autant que cela peut être connu par la philosophie naturelle, est immortelle».

111 Cfr. Abrégé des Six Méditations, AT, IX-1, 10.112 Ibidem: «l’esprit ou l’âme de l’homme ne se peut concevoir que comme indivisible [...]

l’âme humaine n’est point composée d’aucuns accidents, mais est une pure substance [...]l’âme humaine est immortelle de sa nature».

113 Cfr. À Mersenne, 24 décembre 1640, AT, III, 266.114 Cfr. À Huygens, 10 octobre 1642, AT, III, 798; et À Elisabeth, 3 novembre 1645, AT, IV,

333: «laissant à part ce que la foi nous enseigne, je confesse que, par la seule raison naturel-le, nous pouvons faire beaucoup de conjectures à notre avantage et avoir de belles espéran-ces, mais non point aucune assurance».

115 Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 120: «si on demande si Dieu, par son absoluepuissance, n’a point peut-être déterminé que les âmes humaines cessent d’être, en mêmetemps que les corps auxquels elles sont unies sont détruits, c’est à Dieu seul d’en répondre.Et puisqu’il nous a maintenant révélé que cela n’arrivera pas, il ne doit plus rester touchantcela aucun doute».

116 À Huygens, 10 octobre 1642, AT, III, 798.

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ce que nous nous représentons117. S’il n’y avait aucun corps, elle serait donc en nousune faculté d’aberration ou une faculté hallucinogène, et Dieu qui l’a mise en nousserait un Dieu trompeur. L’existence en nous de l’imagination fait donc présumer del’existence vraisemblable de corps extérieurs. Deuxième observation: nous avons dessensations, et nos sensations sont des idées. Comme telles, elles sont des images. Entant qu’images, elles ont une réalité objective. Cette réalité a nécessairement unecause, dont nous savons déjà qu’elle doit posséder ou éminemment ou formellementau moins autant de réalité que l’idée en représente. Si cette cause était Dieu, il pro-duirait en nous comme un leurre ou comme une illusion ces images à quoi rien deréel ne correspondrait: ce serait un Dieu trompeur. Il ne reste par conséquent qu’unecause possible à nos sensations: une réalité possédant formellement ce qu’elles nousreprésentent objectivement: c’est-à-dire l’existence matérielle de choses extérieu-res118.

La véracité divine autorise la déduction d’une théorème supplémentaire. Puisquetoutes les choses matérielles ne peuvent être conçues que comme étendues, tout ce quiest vrai de l’étendue est nécessairement vrai de la matière. Or, nous avons un systèmed’idées claires et distinctes touchant l’étendue: c’est la géométrie. Tout doit donc pou-voir s’expliquer en physique comme en géométrie par de simples modifications degrandeur, de figure, ou de mouvement. Voici le mécanisme a priori fondé.

6. La connaissance de Dieu

Si on excepte la certitude que je suis, et que je suis un esprit, il n’y a donc pasune connaissance qui ne s’ensuive de celle que nous avons de Dieu119. Non seule-ment, comme nous l’avons vu, l’idée d’infini est la première de toutes et la plus ori-ginaire, puisque l’idée d’aucune chose finie ne peut être formée que par limitation ounégation de l’idée d’infini; mais l’idée de Dieu est même la plus claire et la plusdistincte de toutes. Comme il avait écrit à Mersenne que «Deus est maxime cognosci-bilis et effabilis»120, Descartes répondra à Caterus qu’il y a en Dieu «incomparable-ment plus de choses qui peuvent être clairement et distinctement connues, et avecplus de facilité, qu’il ne s’en trouve en aucune des choses créées»121. Parce qu’il n’ya rien de semblable à l’infini, ni rien qui en approche122, on ne peut en effet jamais leconfondre: aussi est-ce la plus distincte de toutes les idées. Mais s’il est aussi vrai, eten quelque sorte par nature, qu’on ne peut pas le dé-finir, cela est sans importance,

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117 Cfr. Méditation sixième, AT, IX-1, 57 et 58; À Morus, 5 février 1649, AT, V, 270, l. 23-25:«rien ne tombe sous l’imagination qui ne soit étendu».

118 Cfr. ibidem, p. 63, et Principes II, 1.119 À Mersenne, 6 mai 1630, AT, I, 150, l. 2-4: «l’existence de Dieu est la première et la plus

éternelle de toutes les vérités qui peuvent être, et la seule d’où procèdent toutes les autres».120 À Mersenne, 21 janvier 1641, AT, III, 284, l. 11.121 Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 90; et Principes I, 19: «nous concevons (les per-

fections infinies de Dieu) plus clairement et plus distinctement que les choses matérielles, àcause qu’étant plus simples et n’étant point limitées, ce que nous en concevons est beau-coup moins confus».

122 À Morus, 5 février 1649, § 4, AT, V, 274: «Solus Deus est quem positive intelligo esseinfinitum».

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puisqu’il est la seule réalité qui n’ait pas besoin d’être dé-finie pour être clairementconçue et parfaitement distinguée.

Il convient toutefois de distinguer entre ce que c’est que «comprendre», et ceque c’est que «savoir», «entendre», ou «concevoir». Parce que «comprendre c’estembrasser par la pensée»123, «le mot de comprendre signifie quelque limitation, (desorte qu’) un esprit fini ne saurait comprendre Dieu, qui est infini; mais cela n’empê-che pas qu’il ne l’aperçoive, ainsi qu’on peut bien toucher une montagne, encorequ’on ne puisse l’embrasser»124. Aussi Descartes ne cessera-t-il de dire que «l’infini,en tant qu’infini, n’est point à la vérité compris, mais que néanmoins il est enten-du»125, ou que «l’incompréhensibilité même est contenue dans la raison formelle del’infini»126. Il est donc bien clair qu’incompréhensible ne signifie pas inconnaissable,puisque c’est une seule et même chose de connaître l’infinité de Dieu et de le connaî-tre comme incompréhensible127.

Ainsi, de même que l’idée que nous avons de la perfection a dû précéder endroit celle que nous avons de notre imperfection, de même la connaissance que nousavons de Dieu nous découvre que nous pouvons le contempler128 mais non pas lecomprendre, que tout dépend de lui sans qu’il dépende de rien129, et par conséquentqu’il est cause de tout.

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123 À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152: «on peut savoir que Dieu est infini [...] encore quenotre âme étant finie ne le puisse comprendre, [...] de même que nous pouvons bien toucheravec les mains une montagne, mais non pas l’embrasser comme nous ferions un arbre, ouquelque autre chose que ce soit qui n’excédât pas la grandeur de nos bras: car comprendrec’est embrasser par la pensée, mais pour savoir une chose, il suffit de la toucher de la pensée».

124 À Clerselier (en réponse à Gassendi), AT, IX-1, 210, où Descartes reprend donc la mêmecomparaison dont il avait usé dans la lettre à Mersenne du 27 mai 1630.

125 Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 89, l. 31-32; Entretien avec Burman, sur la 3èmeMéd., AT, V, 154: «Dei perfectiones non imaginamur, nec concipimus, sed intelligimus [...]».

126 Réponses aux 5èmes Objections, sur la 3ème Méd., § VII, AT, VII, 368, l. 4; Méditationtroisième, AT, IX-1, 37, l. 4-5: «il est de la nature de l’infini que ma nature, qui est finie etbornée, ne le puisse comprendre; et il suffit que je conçoive bien cela [...]».

127 À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152: «on peut savoir que Dieu est infini et tout-puissant,encore que notre âme étant finie ne le puisse comprendre ni concevoir»; Méditation quatriè-me, AT, IX-1, 44: «sachant déjà que ma nature est extrêmement faible et limitée, et au contrai-re que celle de Dieu est immense, incompréhensible et infinie, je n’ai plus de peine à reconnaî-tre qu’il y a une infinité de choses en sa puissance, desquelles les causes surpassent la portéede mon esprit»; et À l’Hyperaspistes, août 1641, § 7, AT, III, 430, l. 4-7: «quand il est que-stion des choses qui regardent Dieu, ou l’infini, il ne faut pas considérer ce que nous en pou-vons comprendre (puisque nous savons qu’elles ne doivent pas être comprises par nous), maisseulement ce que nous en pouvons concevoir, ou atteindre par quelque raison certaine».

128 Méditation troisième, AT, IX-1, 41: «il me semble très à propos de m’arrêter quelquetemps à la contemplation de ce Dieu tout parfait, de peser tout à loisir ses merveilleux attri-buts, de considérer, d’admirer et d’adorer l’incomparable beauté de cette immense lumière,au moins autant que la force de mon esprit, qui en demeure en quelque sorte ébloui, me lepourra permettre».

129 À Mersenne, 6 mai 1630, AT, I, 150: «il est le seul auteur duquel toutes choses dépen-dent»; 27 mai 1630, AT, I, 152: «il est certain qu’il est aussi bien auteur de l’essencecomme de l’existence des créatures: or cette essence n’est autre chose que ces vérités éter-nelles [...] je sais que Dieu est auteur de toutes choses [...]»; Réponses aux 6èmesObjections, § 8, AT, IX-1, 235: «quand on considère attentivement l’immensité de Dieu, onvoit manifestement qu’il est impossible qu’il y ait rien qui ne dépende de lui [...]».

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Avant d’examiner ce qui s’ensuit de la dépendance de toutes choses par rapportà Dieu, voyons ce que nous pouvons connaître de son incompréhensible nature.Volontiers nous dirions, avec Malebranche, que l’infinité est le principal caractèredes attributs divins, dont les autres dérivent. Pourtant, on doit observer que l’ordredans lequel Descartes les évoque n’est pas constant. Tantôt c’est la souveraineté deDieu et son éternité qu’il cite en premier130. Tantôt c’est son omniscience et sonomnipotence131. Tantôt c’est sa perfection132. Tantôt c’est son infinité133. Sans doutepourrait-on interpréter cette diversité des noms divins, et l’apparente réversibilité deleur ordre, par le fait que chacune des perfections de Dieu englobe et exprime toutesles autres. En ce sens, leur diversité ne ferait que diffracter l’absolue simplicité deDieu134. Au sens où le propre de l’infini est qu’on ne lui peut rien ajouter, n’est-cepas pourtant son infinité qui fait sa suprême perfection? Pour la même raison, n’est-ce pas aussi son infinité qui fait son éternité? Quant à son omniscience et son omni-potence, ne s’ensuivent-elles pas de son infinité absolue, au sens où nulle perfection(connaître, pouvoir) n’existe qu’en participant à la sienne?

Poussant cette logique à sa limite, Descartes n’eut-il pas dû affirmer alors que,puisque l’être et l’infini sont réciprocables, il n’est rien que Dieu ne soit? N’eut-il pasalors été conduit à affirmer, comme fera Spinoza, que l’étendue est un attribut divin?Et en effet, l’étendue n’est-elle pas l’attribut principal d’une substance? Ne pouvantêtre conçue que par elle-même, n’est-elle pas aussi conçue comme infinie – ou dumoins comme indéfinie?135. Ce que l’étendue a d’analogue à l’infinité, cette positi-vité ontologique qui fait de l’étendue une manière d’être, d’où lui viendraient-ils s’iln’y a rien d’étendu en Dieu dont elle participe? Par ailleurs, étant posé que l’étenduen’est pas une limitation, ni une privation, ni une illusion, ni un néant, mais une véri-table réalité, comment Dieu serait-il infini s’il y avait quelque chose qu’il ne fût pas?Morus avait pressenti ce développement de la logique cartésienne, en signalant que si«Dieu est positivement infini», il doit «exister partout». N’allait-on pas alors tomberdans quelque nouveau panthéisme? Descartes s’y refuse absolument. «Je n’admetspas ce partout, répond-il à Morus. Car il paraît ici que vous ne faîtes consister l’infi-nité de Dieu qu’en ce qu’il existe partout, ce que je ne vous passe point; croyant aucontraire que Dieu est partout à raison de sa puissance, et qu’à raison de son essenceil n’a absolument aucune relation au lieu»136.

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130 Méditation troisième, AT, IX-1, 32, l. 5-7: «je conçois un Dieu souverain, éternel, infini,immuable, tout connaissant, tout puissant, et Créateur universel de toutes les choses qui sonthors de lui».

131 Cfr. Principes I, 14.132 Cfr. Principes I, 15; I, 18; I, 19; I, 20.133 Méditation troisième, AT, IX-1, 35, l. 41; p. 36, l. 3: «par le nom de Dieu j’entends une substan-

ce infinie, éternelle, immuable, indépendante, toute connaissante, toute puissante, et par laquellemoi-même et toutes les autres choses qui sont ont été créées et produites»; p. 37, l. 38-40: «jeconçois Dieu actuellement infini en un si haut degré, qu’il ne se peut rien ajouter à la souveraineperfection qu’il possède»; cfr. aussi Principes I, 27, où Descartes va distinguer ce qui est propre-ment infini de ce qui n’est qu’indéfini afin «de réserver à Dieu seul le nom d’infini».

134 Méditation troisième, AT, IX-1, 40, l. 15-17: «l’unité, la simplicité, ou l’inséparabilité detoutes les choses qui sont en Dieu, est une des principales perfections que je conçois en lui»;Réponses aux 2èmes Objections, AT, IX-1, 108, l. 17-20.

135 Cfr. Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 89-90; Principes I, 27.136 À Morus, 15 avril 1649, AT, V, 343, l. 13-18.

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Ce problème a son origine dans la conception différente que Descartes etSpinoza se font de l’étendue. Alors que Spinoza expliquera que l’étendue, en tantqu’attribut, doit être conçue comme absolument simple, et par conséquent commeabsolument indivisible137, Descartes ne la conçoit que comme divisible à l’infini, etcomposée de parties qui toutes réciproquement s’excluent (partes extra partes). Àl’inverse de ce que pensera Spinoza, c’est donc une seule et même chose pourDescartes d’être corporel et d’être étendu. Aussi usera-t-il de la même argumentationpour montrer que Dieu n’est pas étendu que pour montrer qu’il n’est pas corporel.«Parce que l’extension constitue la nature du corps, dit-il, et que ce qui est étendupeut être divisé en plusieurs parties, et que cela marque du défaut, nous concluonsque Dieu n’est point un corps»138. Si Dieu n’est pas étendu, c’est donc parce quel’étendue ne peut pas être divine, et cela pour trois raisons: 1) parce qu’elle n’a pasde simplicité; 2) parce qu’étant divisible elle est exposée à la corruption, et par con-séquent à la temporalité; 3) parce que n’étant constituée que d’une infinité d’exclu-sions et de limitations, son infinité n’est qu’une infinité de privations et de négations.Son infinité n’est qu’un mauvais infini.

7. Dieu comme cause

Parce que Dieu est infini, rien d’extérieur à lui n’a jamais pu le produire: il n’estcausé par rien; il est causa sui139. Ayant donc une indépendance absolue, il n’estdéterminé par rien: sa liberté est infinie. Étant cause de tout, mais n’étant pas étendu,il est absolument transcendant à l’univers qu’il a créé. Toutefois, puisque Dieu n’estdéterminé par rien, peut-il avoir aucune cause finale? ni même aucune cause formel-le? ni non plus aucune cause matérielle, puisque la matière est un effet de saCréation? En quoi alors consiste cette causalité? Comment s’exerce-t-elle?

S’agissant de Dieu, dont la Création est une causalité entièrement surnaturelle,Descartes rappelle le caractère inadéquat de tous les types connus d’explication cau-sale, qui n’ont de sens qu’à l’intérieur de la nature, où s’exerce une causalité stricte-ment naturelle140. Toutefois, parmi les différents types de causalité inventoriés etcaractérisés par l’École, il en est un qu’on peut analogiquement attribuer à laCréation: c’est la causalité efficiente141. Aussi Descartes ne cesse-t-il de dire que

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137 Cfr. B. SPINOZA, Éthique 1, 13 et corollaire; 1, 15, scolie; et lettre XII à Louis Meyer (inOeuvres complètes de Spinoza, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1954, p. 1098).

138 Principes I, 23; et aussi Réponses aux 2ndes Objections, AT, IX-1, 109, l. 10-20: «la natu-re du corps enferme plusieurs imperfections, par exemple, que le corps soit divisible en par-ties, que chacune des parties ne soit pas l’autre, et autres semblables; car c’est une chose desoi manifeste, que c’est une plus grande perfection de ne pouvoir être divisé que de pouvoirl’être, etc.».

139 Cfr. Réponses aux 1ères Objections, AT, IX-1, 87-88; et Réponses aux 4èmes ObjectionsAT, IX-1, 187-189.

140 Réponses aux 6èmes Objections, § 8, AT, lX-1, 235, l. 39; p. 236, l. 5: «il n’est pas besoin dese demander en quel genre de cause cette bonté, ni toutes les autres vérités [...] dépendent deDieu; car, les genres de causes ayant été établis par ceux qui peut-être ne pensaient point à cetteraison de causalité, il n’y aurait pas lieu de s’étonner quand ils ne lui auraient point donné denom; mais néanmoins ils lui en ont donné un, car elle peut être appelée efficiente [...]».

141 Cfr. ibidem, p. 236 , l. 4-5.

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«Dieu est cause efficiente et totale»142. Il le redira en 1647 dans l’édition françaisedes Principes143 comme il le disait dans ses lettres de 1630 à Mersenne: «Dieu est leseul auteur duquel toutes les choses dépendent»144. Comme rien n’existe donc quepar lui145, «il est aussi bien auteur de l’essence que de l’existence des créatures»146;de sorte que les vérités éternelles aussi sont ses créatures et ne dépendent que de savolonté147.

Cette doctrine pose les plus grands problèmes. Elle sera critiquée aussi bien parSpinoza que par Malebranche ou par Leibniz. Elle est aussi ce qui fait la principaleoriginalité de la pensée de Descartes. Tout s’ensuit de la stricte identification de Dieuà l’infini, de l’infini à la toute puissance, de la toute puissance à l’indépendance abso-lue, de l’indépendance absolue à l’indétermination absolue, de cette indéterminationabsolue à l’indifférence absolue, et de l’indifférence absolue à la contingence abso-lue. Toutes ces notions (puissance, indépendance, indétermination, indifférence, con-tingence) vont conspirer et s’unifier dans la notion de liberté, et dans la conceptionque Descartes va donc développer de la liberté de Dieu.

Tout commence par l’idée que «la puissance de Dieu ne peut avoir aucunes bor-nes»148. Parce que rien ne peut donc agir sur la volonté de Dieu, c’est pour elle uneseule et même chose d’être absolument libre et d’être absolument indéterminée. C’estpourquoi «Dieu ne peut avoir été déterminé à faire qu’il fût vrai que les contradictoi-res ne peuvent être ensemble»149. Pas plus qu’il n’a donc été détermine par aucuneconsidération ni raison à créer ces vérités plutôt que d’autres, s’il a donc «voulu quequelques vérités fussent nécessaires, ce n’est pas à dire qu’il les ait nécessairementvoulues»150. Il aurait donc tout aussi bien pu faire que les contradictoires fussentsimultanément compatibles, que les angles d’un triangle ne fussent pas égaux à deuxdroits151, que les rayons d’un cercle ne fussent pas égaux152, qu’il y eut des monta-gnes sans vallées153, ou même rien du tout154.

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142 À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152, l. 2; et À Elisabeth, 6 octobre 1645, AT, IV, 314, l.22-25: «Dieu est tellement la cause universelle de tout, qu’il en est en même façon la causetotale; et ainsi rien ne peut arriver sans sa volonté».

143 Cfr. Principes I, 24.144 À Mersenne, 6 mai 1630, AT, I, 150, l. 7-8; 27 mai 1630, AT, I, 152, l. 7.145 Réponses aux 6èmes Objections, § 8, AT, IX-1, 236, l. 12-13: «rien ne peut exister, en

quelque genre que ce soit, qui ne dépende de Dieu».146 À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152, l. 2-4.147 À Mersenne, 15 avril 1630, AT, I, 145, l. 7-10: «les vérités mathématiques, lesquelles vous

nommez éternelles, ont été établies de Dieu et en dépendent entièrement, aussi bien que toutle reste des créatures»; 27 mai 1630, AT, I, 152, l. 2-4: «il est aussi bien l’auteur de l’essen-ce que de l’existence des créatures; or cette essence n’est autre chose que ces vérités éter-nelles [...]»; 6èmes Réponses, § 8, AT, IX-1, 236, l. 19-22: «il ne faut pas penser que lesvérités éternelles dépendent de l’entendement humain, ou de l’existence des choses, maisseulement de la volonté de Dieu, qui, comme un souverain législateur, les a ordonnées etétablies de toute éternité».

148 À Mesland, 2 mai 1644, AT, IV, 118, l. 11-12.149 Ibidem, l. 19-21.150 Ibidem, l. 25-27.151 Cfr. ibidem, l. 6-10.152 Cfr. À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152, l. 20-23.153 Cfr. À Arnauld, 29 juillet 1648, § 6, AT, V, 224. 154 Cfr. À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152, l. 23.

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La toute-puissance, la parfaite indépendance et la suprême liberté de Dieu sontdonc tout un avec son indétermination et son indifférence absolues. Car «une entièreindifférence en Dieu est une preuve très grande de sa toute-puissance»155, de sorteque sa «volonté a été de toute éternité indifférente à toutes les choses qui ont été fai-tes ou qui se feront jamais»156.

Contrairement à un schéma anthropologique qui nous fait imaginer Dieu à notreimage en lui prêtant un entendement et une volonté semblables aux nôtres, Dieu n’adonc pas été déterminé à créer ce monde parce qu’il serait le meilleur, ou à faire ceschoses parce qu’elles sont très bonnes: tout à l’inverse c’est parce qu’il l’a voulu quece monde est le meilleur, et c’est parce qu’il les a produites que ces choses sont trèsbonnes157. Car tout ce qui est médiat, discursif, successif et séparé dans l’homme àcause de son imperfection, est immédiat, simple et simultané en Dieu à cause de saperfection. Ainsi, alors que c’est par des opérations successives que l’hommeconçoit, délibère, puis décide, la simplicité de Dieu fait au contraire que c’est en lui«une seule et même chose de vouloir, d’entendre, et de créer, sans que l’un précèdel’autre, ne quidem ratione»158. Aussi n’y a-t-il «aucune préférence ou priorité entreson entendement et sa volonté»159. C’est dans le monde créé que les vérités précè-dent la connaissance qu’on en acquiert, et que cette connaissance précède la décisionde notre volonté. Pour Dieu, à l’inverse, rien ne serait à connaître s’il ne l’avait créé,et rien ne serait à vouloir s’il ne le connaissait. Voilà pourquoi la volonté de Dieudevait être absolument indifférente et sa création absolument contingente, «n’y ayanten effet aucune idée qui représente le bien ou le vrai, ce qu’il faut croire, ce qu’il fautfaire, ou ce qu’il faut omettre, qu’on puisse feindre avoir été l’objet de l’entendementdivin, avant que sa nature ait été constituée telle par la détermination de sa volonté.Et je ne parle pas ici d’une simple priorité de temps, mais bien davantage je dis qu’ila été impossible qu’une telle idée ait précédé la détermination de la volonté de Dieupar une priorité d’ordre, ou de nature, ou de raison raisonnée»160.

On aura remarqué qu’en évoquant la simplicité de Dieu, c’est toujours savolonté que Descartes commence cependant toujours par citer. «Par cela seul qu’ilveut quelque chose, il la connaît, etc.»161. «C’est une seule et même chose de vouloir,d’entendre et de créer»162. Et quoiqu’il ne s’agisse d’aucune priorité chronologique,Dieu n’a conçu aucune vérité «avant que sa nature (de cette vérité) ait été constituée

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155 6èmes Réponses, § 6. AT, lX-1, 233, l. 24-25; cfr. aussi § 8, p. 235, l. 32-34.156 Ibidem, § 6, p. 232, l. 40; p. 233, l. 1.157 Ibidem, § 8, p. 235, l. 34-39: «si quelque raison ou apparence de bonté eut précédé sa

préordination, elle l’eut sans doute déterminé à faire ce qui aurait été de meilleur. Mais, toutau contraire, parce qu’il s’est déterminé à faire les choses qui sont au monde, pour cette rai-son, comme il est dit en la Genèse, elles sont très bonnes, c’est-à-dire que la raison de leurbonté dépend de ce qu’il les a ainsi voulu faire».

158 À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 153, l. 1-3; v. aussi 6 mai 1630, AT, I, 149, l. 28-30: «enDieu ce n’est qu’un de vouloir et de connaître; de sorte que ex hoc ipso quod aliquid velit,ideo cognoscit, et ideo tantum talis res est vera».

159 À Mesland, 2 mai 1644, AT, IV, 119, l. 9-14: «l’idée que nous avons de Dieu nous apprendqu’il n’y a en lui qu’une seule action toute pure: et que ces mots de St Augustin exprimentfort bien: Quia vides ea, sunt, parce qu’en Dieu videre et velle ne sont qu’une même chose».

160 6èmes Réponses, § 6, AT, IX-1, 233, l. 1-8.161 À Mersenne, 6 mai 1630, AT, I, 149, l. 28.162 À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 153, l. 2.

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telle par la détermination de sa volonté»163. Et, parce que c’est en effet la volonté quiaffirme ou qui nie, qui crée ou ne crée pas, «les vérités éternelles dépendent [...] seu-lement de la volonté de Dieu»164. Sans doute le Dieu qui prononce le «Fiat» inaugu-ral est-il un Dieu volontaire. Néanmoins, tout cela ne manifeste-t-il pas quelquesubreptice primat de la volonté?

Solidaire de cette observation, on aura noté que toute l’argumentation cartésien-ne s’ensuit ici du privilège accordé à la puissance de Dieu par rapport à ses autresattributs. Malebranche dénoncera dans ce privilège qui soumet la charité, la justice etla sagesse de Dieu à sa puissance, une conséquence de l’anthropomorphisme parlequel nous prêtons à Dieu les perfections que nous désirons le plus, à cause de notreimperfection même, et en conséquence du péché. Par ailleurs, et quelque souci queDescartes ait eu de tenir sa philosophie séparée de sa religion, le Dieu de la Toute-Puissance n’est-il pas plutôt celui de l’Ancien Testament que celui du christianisme?

Enfin, si l’indifférence est en Dieu l’expression de sa suprême liberté, n’est-cepas aussi au sens où le Dieu de Descartes est si ab-solu que, comme chez Aristote,tout ait rapport à lui sans qu’il ait rapport à rien? Tout lui est relié; mais il n’est lié àrien. Mais alors, comment pourrait-il jamais aimer sa création puisqu’elle lui estindifférente? Pourquoi, comme le demandera Leibniz, l’aimerait-on de ce qu’il a faitsans choix, ni inclination, ni dilection, ni préférence? Comme nous le fait pressentirune lettre de 1647 à Chanut, lorsqu’on dit qu’on aime Dieu, faut-il alors s’étonner sicet amour exprime plus souvent le désir d’être Dieu que celui de le servir?165. D’ail-leurs, quand on prendrait garde «à l’infinité de sa puissance, par laquelle il a créé tantde choses, dont nous ne sommes que la moindre partie; à l’étendue de sa providence,qui fait qu’il voit d’une seule pensée tout ce qui a été, qui est, qui sera, et qui sauraitêtre; à l’infaillibilité de ses décrets, [...] et enfin, d’un autre côté, à notre petitesse[...]»166, tant de raisons que nous en puissions tirer de l’admirer ou de le craindre,comment en tirerions-nous une seule de l’aimer? Descartes a certes évoqué «quel-ques philosophes» persuadés que c’est l’Incarnation qui nous fait aimer par-delà tou-tes nos forces un Dieu qui nous a aimés par-delà toute raison167.

Mais y aurait-il un seul mot à changer à la philosophie cartésienne, si le Dieu,qui en est le fondement, était un Dieu qui ne se fût pas incarné dans son Verbe, pournous sauver, dont le Fils ne fût pas mort sur la Croix, et n’eût pas ressuscité?

* * *

Abstract: L’idea di Dio è un concetto centrale di tutta la filosofia cartesiana, anzi sitratta di una questione che ne costituisce il fondamento. La ricerca di Dio secondoCartesio non è comunque un movimento dimostrativo che faccia a meno del primoprincipio della sua filosofia: Cartesio non abbandona la dimensione definita dal

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163 6èmes Réponses, § 6, AT, IX-1, 233.164 Ibidem, § 8, AT, IX-1, 236.165 Cfr. À Chanut, 1er février 1647, AT, IV, 608.166 Ibidem, p. 608, l. 23; p. 609, l. 1.167 Cfr. ibidem, p. 607, l. 19-24.

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cogito per proporre delle prove dell’esistenza di Dio. L’articolo esamina non solo leprove proposte da Cartesio per dimostrare l’esistenza di Dio, ma anche si sofferma aconsiderare il bisogno interno alla filosofia cartesiana, e perciò al cogito stesso,costituito appunto dall’esistenza di Dio come questione basilare sul piano dell’evi-denza; infatti l’evidenza del primo principio cartesiano non è sufficiente per fondaretutte le istanze filosofiche che lo stesso cogito solleva.

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Dios en la filosofía de Malebranche

JOSÉ LUIS FERNANDEZ RODRIGUEZ*

Sommario: 1. La idea de Dios; 2. Las pruebas a posteriori; 3. La prueba ontológica; 4. Lainfinitud, atributo esencial de la divinidad; 5. La libertad divina; 6. El motivo de la creación;7. Creación continuada; 8. Dios, causa única.

1. La idea de Dios

Según Descartes la idea de Dios sirve de fundamento para todas las otras ideas,incluso para la idea del yo, pues si no tuviésemos la idea de lo infinito no podríamossaber que somos finitos. Pero, aunque es la primera en el orden del fundamento, no esla primera en el orden del descubrimiento, pues en ese orden la primera es la del yo,ya que sólo a partir de la idea del yo se prueba la existencia de Dios. Si se elimina esaprimacía cronológica del yo, no queda más que la primacía de Dios. Pues bien, ése esel parecer de Malebranche, porque para él la idea de Dios es la primera en todos lossentidos, pues «uno puede estar algún tiempo sin pensar en sí mismo, pero me pareceque no podría subsistir un momento sin pensar en el ser»1, es decir, en Dios.

Esta inmediatez puede expresarse diciendo que el conocimiento de Dios es unconocimiento sin idea. Sans idée, porque Malebranche está pensando en la acepción

ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 227/245

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* Departamento de Historia de la Filosofía, Universidad de Navarra, 31080 Pamplona, Spagna

1 I, 456. XII-XIII, 174. Todas las referencias a Malebranche están tomadas de sus Oeuvrescomplètes, publicadas bajo la dirección de A. ROBINET, Vrin, Paris 1960 ss, indicando eltomo en caracteres romanos y la página en caracteres arábigos. Para que el lector puedasaber en cada momento a qué obra pertenece cada referencia, señalo a continuación la tablade correspondencias entre los tomos de esta edición y las obras de Malebranche: I, II, III.De la recherche de la verité. IV. Conversations chrétiens. V. Traité de la nature et de lagrâce. VI, VII, VIII, IX. Recueil de toutes les réponses a Monsieur Arnauld. X. Méditationschrétiennes. XI. Le traité de la morale. XII. Entretiens sur la métaphysique et sur la reli-gion. XIII. Entretiens sur la morte. XIV. Traité de l´amour de Dieu. Trois lettres au R.P.Lamy. Réponse génerale aux lettres du R.P. Lamy. XV. Entretiens d´un philosophe chrétienet d´un philosophe chinois. XVI. Réflexions sur la prémotion physique. XVII/1. Pièces etécrites divers. XVII/2. Mathematica. XVIII. Correspondence et actes. XIX.Correspondence et actes. XX. Documents biographiques et bibliographiques. XXI. Indexdes citations. XXII. Index Général.

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estricta de la idea, acepción según la cual la idea es arquetipo: el arquetipo que Diostiene de todas las cosas creadas. Y en ese sentido es obvio que no se puede hablar deidea de Dios, porque, al ser increado, «no hay un modelo a cuyo tenor Dios haya sidoformado»2. Cuando se expresa así, Malebranche no hace más que sintonizar con elmodo que Dios tiene de conocerse a sí mismo. La teología cristiana nos enseña queDios no se conoce por medio de una idea, sino engendrando al Hijo, que es unasemejanza perfecta de su Padre, porque «nada puede representar a Dios, salvo suVerbo, que es consustancial con El»3. Por eso, si Dios no tiene idea de sí mismo,¿cómo vamos a conocer a Dios por medio de una idea? Con razón se ha dicho que,antes de preguntarse por el conocimiento que el hombre tiene de Dios, el filósofodebe interrogarse por el conocimiento que Dios tiene de sí mismo. A diferencia deDescartes, Malebranche cree que el conocimiento humano debe asimilarse al conoci-miento divino4.

Ahora bien, también sintonizaría con la teología cristiana, si expresase la inme-diatez de nuestro conocimiento de Dios diciendo que tenemos idea de Dios, pues lateología cristiana también asegura que el Verbo, por ser la representación del Padre, esla idea del Padre, aunque una idea especial, pues, al ser una semejanza perfecta, unasemejanza que encierra toda su sustancia, la idea de Dios viene a ser Dios mismo:l´infini est à lui même son idée5. No debe extrañarnos, por tanto, que Malebrancheafirme sin cesar que conocemos a Dios mediante su idea, aconsejándonos que, si que-remos hablar de Dios, debemos «consultar con mucha atención y respeto la idea vastae inmensa del ser infinitamente perfecto»6; protestando incluso contra «los hombresque a veces dicen que no tienen idea de Dios»7, sin caer en la cuenta de que, si fueracomo ellos creen, no podrían decir que Dios es sabio, justo, poderoso, etc., pues esascualidades no pueden serle atribuidas «si falta la idea de ese sujeto»8.

Naturalmente, sólo puede afirmar que tenemos idea de Dios, después de habernegado que la haya, si ahora no entiende la idea en el sentido estricto de arquetipo. Yes evidente que no la toma en esa acepción, porque, al ser Dios increado, no hayarquetipo que preceda a su creación. Si hubiera arquetipo de Dios, sería conocido enotra cosa, como sucede con los cuerpos, pues tener la idea de un cuerpo es ver unacosa distinta del cuerpo, es ver su modelo. Pero si no hay arquetipo de Dios, teneridea de Dios no es ver a Dios en otra cosa, sino en sí mismo o de modo inmediato. Aeso viene a parar en definitiva Malebranche, cuando, en su respuesta a Arnauld, quelo acusaba de mantener cosas contradictorias9, afirma que, referida a Dios, la idea nose toma en el sentido propio de arquetipo, sino en el sentido general de ce que estl´objet inmediat de l´esprit quand on pense10. Con lo que la contradicción señalada

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2 VI, 165. Cfr. XII, 53.3 VI, 165-166.4 Cfr. H. GOUHIER, La philosophie de Malebranche et son expérience religieuse, Vrin, Paris

1948, pp. 332-334.5 XII, 53.6 V, 26. Cfr. V, 75; XI, 67.7 II, 54.8 Ibidem; cfr. III, 94.9 Cfr. Des vrais et fausses idées, c. XXVI. Œuvres. Edic. N. Schouten, Cologne 1.683, XXX-

VIII, p. 333.10 VI, 166.

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por Arnauld no es más que una mala inteligencia de Arnauld, pues tanto da decir queDios es conocido sin idea como afirmar que tenemos idea de Dios, ya que en los doscasos estamos ante un conocimiento inmediato de Dios. La contradicción se da magisin verbis quam in re11.

Para subrayar la inmediatez de nuestro conocimiento de Dios, Malebranchellega incluso a asegurar que a Dios, igual que al alma, lo conocemos por sentimentinterieur, pues, de la misma manera que «llego a la conclusión de que existo, porqueme siento... llego a la conclusión de que Dios existe... porque lo percibo»12. Perocomparar el conocimiento que tenemos de Dios con el conocimiento que tenemos denosotros mismos no es confundirlos, porque, aunque los dos son directos, lo son dedistinta manera, ya que el arquetipo de nuestra alma existe en Dios, aunque de hechoestamos privados de él, cosa que no ocurre con el arquetipo de Dios, que no existe enninguna parte.

Exprésese como se quiera, el conocimiento de Dios es inmediato. La razón deesa inmediatez es siempre la misma y casi siempre expresada con las mismas pala-bras: «Nada finito puede representar lo infinito»13. Como representar es contener,también se puede decir: lo finito no puede contener lo infinito. Si no atendemos a esarazón, quebrantamos lo que él llama el primer principio de nuestros conocimientos,que dice que «la nada no es visible». Esto significa que sólo podemos percibir unacosa en otra, si la primera está de alguna manera contenida en la segunda, porque, sino lo estuviera, al percibirla en ella, percibiríamos algo que no está allí, con lo cualtendríamos una percepción sin objeto, una percepción de nada, incurriendo así en unacontradicción, pues quien dijese que percibe la nada «vería y no vería al mismo tiem-po»14: vería, porque dice ver; no vería, porque ver nada es no ver. En esa contradi-cción incurriría quien dijese que percibe tres realidades donde sólo hay dos o diez mildonde sólo hay nueve mil novecientos noventa y nueve, pues percibiría una que noexiste. Pero también, y «con más razón»15, quien afirmase que percibe una realidadinfinita en esa realidad finita que es nuestra alma, porque «vería un infinito que noexiste»16.

Ahora bien, si nada finito puede contener lo infinito, entonces lo infinito sólopuede ser percibido inmediatamente. Como le gusta decir a Malebranche, «si estás deacuerdo en que nada finito puede representar lo infinito, es evidente que, si ves loinfinito, sólo lo ves en sí mismo»17.

2. Las pruebas a posteriori

Esa inmediatez no se respeta, por supuesto, en las pruebas a posteriori, puesesas pruebas, por ser discursivas, excluyen precisamente el contacto directo del pen-samiento con Dios. Desde luego, esas pruebas pueden ser muchas. Ya en la

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11 Cfr. F. ALQUIÉ, Le cartésianisme de Malebranche, Vrin, Paris 1974, pp. 120-122.12 II, 103.13 II, 96. Cfr. II, 99; V, 74; VIII, 974; XII, 135; XII, 174, etc.14 II, 99.15 VIII, 947.16 II, 100.17 XII, 52.

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Recherche de la verité decía: «¿Qué dificultad hay para reconocer que existe unDios? Todo lo que Dios ha hecho lo prueba; todo lo que los hombres y las bestiasson, lo prueba; todo lo que nosotros vemos, todo lo que nosotros sentimos, lo prueba.En una palabra, no hay nada que no pruebe la existencia de Dios, o que no puedaprobarla a espíritus atentos y que se dediquen con seriedad a buscar al autor de todaslas cosas»18. En las Conversations chrétiennes repite: «Mira los objetos que nosrodean. ¿De cuál quieres que me sirva para probarte que hay un Dios? ¿Del fuegoque nos conforta? ¿De esta luz que nos ilumina? ¿De la naturaleza de las palabras pormedio de las cuales estamos conversando? Porque, como acabo de decirte, no hayninguna creatura que no pueda servir para dar a conocer al Creador, con tal de queuno la considere con toda la atención posible y no forme juicios precipitados sobreella»19. Y en Entretien d’un philosophe chrétien et d’un philosophe chinois afirmatambién: «No hay nada visible en el mundo que Dios ha creado a partir de lo cual nose pueda ascender al conocimiento del Creador, con tal de que se razone acertada-mente»20.

Esto no significa, sin embargo, una reivindicación de las pruebas escolásticasque parten de las realidades exteriores. Para Malebranche esas pruebas no tienenningún valor, puesto que suponen la existencia de los cuerpos, y esa existencia sólopuede ser establecida por la fe. Partir de lo sensible quiere decir tomar como punto departida esas modalidades de la sustancia pensante que se llaman sensaciones. Setrata, pues, de unas pruebas a posteriori peculiares: a posteriori, porque arrancan delas criaturas; peculiares, porque, cuando uno ve una criatura, no la ve en sí misma,sino en ciertas perfecciones que están en Dios y que la representan, o sea, en susideas. Por eso, tampoco se puede decir que este tipo de pruebas sean de inspiracióncartesiana, pues si es verdad que Descartes se vio obligado, debido a la existenciaproblemática del mundo externo, a abandonar las pruebas tradicionales, también lo esque, mientras Descartes parte de la idea de Dios, Malebranche arranca de las sensa-ciones.

Pues bien, la prueba a posteriori más elaborada21 es la que se encuentra enEntretien d´un philosophe chrétien et d´un philosophe chinois, donde le piden aMalebranche una prueba más concreta que la prueba ontológica, que, por ser tanabstracta, no acaba de ser del todo convincente: «¿No habría una más sensible?»22.

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18 II, 19. Cfr. II, 104.19 IV, 14. Cfr. IV, 13.20 XV, 11.21 Una de ésas es la que tiene como punto de partida la sensación del dolor provocado por una

espina que nos pincha. ¿De dónde surge ese dolor? «Lo que causa el dolor no es el alma quesiente, ni la espina que nos pincha; es una potencia superior. Esta potencia debe saber almenos el momento en que la espina nos pincha. No puede saberlo por medio de la espina,porque los cuerpos no pueden iluminar los espíritus, porque no son ni visibles ni inteligiblespor sí mismos y porque no hay ninguna relación entre un cuerpo y un espíritu, ninguna efi-cacia de los cuerpos sobre los espíritus. No puede saberlo, pues, más que por sí misma, esdecir, por el conocimiento de su propia voluntad que crea y mueve la espina y cuya potenciaes infinita, porque es capaz de crear. Existe, pues, un Dios» (IV, 28). «Si no hubiese Dios,yo no sería pinchado, no sentiría nada, no conocería nada» (IV, 28-29).

22 XV, 11. En otra ocasión, refiriéndose a las pruebas personales o metafísicas, que así llamaél en ocasiones a las pruebas a priori, dice: «Es inútil proponerle esas demostraciones alcomún de los hombres. Son demostraciones que cabe llamar personales, porque no conven-

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Malebranche satisface esa petición probando que ni los supuestos cuerpos exteriores,ni nuestro cuerpo, ni nuestra alma pueden explicar las sensaciones tan variadas queexperimentamos en nosotros. «Cuando abres los ojos en medio del campo, en elmomento mismo en que los abres, descubres un número de objetos muy grande, cadauno según su magnitud, su figura, su movimiento o reposo, su proximidad o sulejanía, y descubres todos esos objetos por medio de percepciones de colores muydiferentes. ¿Cuál es la causa de esas percepciones tan instantáneas que tenemos detantos objetos? No puede ser más que o los objetos mismos o los órganos de nuestrocuerpo que reciben su impresión o nuestra alma o... el Dios al que nosotros adoramosy que creemos que obra en nosotros sin cesar con ocasión de las impresiones de losobjetos sobre nuestro cuerpo»23.

¿Los objetos? Lo que hacen los objetos es reflejar la luz hacia nuestros ojos.Ahora bien, esa reflexión es una operación puramente material, que no puede consti-tuir por sí misma la verdadera causa de esas percepciones de los objetos, puesto quela percepción, que es pensamiento, no puede ser el resultado de la materia, que esextensión, pues pensamiento y extensión son absolutamente heterogéneos.

¿Nuestros ojos? Los ojos reunen los rayos reflejados por los objetos. Así reuni-dos, provocan una alteración del nervio óptico y, por medio de esos pequeños cuer-pos que se llaman espíritus animales, una alteración del cerebro. Ahora bien, esasalteraciones de nuestro cerebro no pueden ser la verdadera causa de nuestra percep-ción de los cuerpos, porque son alteraciones puramente materiales que no tienen nadaque ver con nuestras percepciones, como tampoco lo tienen los objetos.

¿Nuestra alma? ¿No puede nuestra alma sacar de las alteraciones orgánicas esaspercepciones que tenemos de los objetos? Tampoco, porque para ello necesitaríaconocer los procesos orgánicos de la percepción, cosa que no conoce. Además, aun-que los conociese, para poder conocer cómo pasan los rayos a través del ojo, necesi-taría conocer a la perfección la óptica y la geometría. Suponiendo que las conocieseperfectamente, no podría descubrir al instante las relaciones infinitas del campo per-ceptivo, necesarias para poder calcular su figura, su magnitud, su distancia, su sor-prendente variedad de colores. Ahora bien, en vez de eso, «tenemos el sentimientointerior de que todas nuestras percepciones de objetos se producen en nosotros sinnosotros e incluso a nuestro pesar»24. Si nuestras percepciones dependieran de noso-tros, serían percepciones producidas de acuerdo con nuestros conocimientos, regula-das por ellos. Puesto que sabemos, por ejemplo, que el sol nunca cambia de tamaño,nuestra percepción debía presentárnoslo con la misma magnitud en el horizonte queen el zenit. Y, sin embargo, pese a nuestros conocimientos, lo vemos mayor en elhorizonte. Es, pues, evidente que no es nuestra alma la que causa las percepcionesque ella tiene en el momento en que abre los ojos en medio de un campo.

¿Dios? Para poder regular los movimientos de nuestro cuerpo con los movi-mientos de los cuerpos exteriores el ser que cause nuestras percepciones debe cono-cer perfectamente la geometría y la óptica. Esos conocimientos son tan exactos que

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cen generalmente a todos los hombres. La mayor parte, a veces incluso los más sabios o quemás leen, no quieren o no pueden prestar atención a las pruebas metafísicas, por las queordinariamente sienten un absoluto desprecio. Por eso, si uno pretende convencerlos, es pre-ciso proponer unas más sensibles» (II, 103-104).

23 XV, 11.24 XV, 15.

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es necesario que ese ser sea infinitamente inteligente. Pero, además, los aplica contanta rapidez, tan instantáneamente que esa inteligencia infinita debe ir acompañadade una potencia infinita. La producción de esas sensaciones supone un conocimientotan perfecto que sólo es asequible a una causa infinitamente inteligente e infinitamen-te poderosa. Pues bien, ese ser es el ser infinitamente perfecto.

Estamos, pues, ante una prueba que establece que la menor modificación sensi-ble no encuentra su causa verdadera ni en las cosas exteriores, ni en nosotros, sino enuna potencia suprema que obra según una suprema sabiduría.

Ahora bien, las pruebas sensibles, por ser discursivas, carecen de la imprescin-dible inmediatez que requiere nuestro conocimiento de Dios. Como él dice, todas laspruebas sacadas de las criaturas «tienen el defecto de no convencer al espíritu parsimple vue. Todas esas pruebas son razonamientos convincentes en sí mismos, pero,al ser razonamientos, no son convincentes si se supone un genio maligno que nosengaña. Nos convencen suficientemente de que hay un poder superior a nosotros,porque incluso esa suposición extravagante lo prueba, pero no nos convencen plena-mente de que existe un Dios o un ser infinitamente perfecto. Con lo cual, en esosrazonamientos la conclusión es más evidente que el principio»25.

3. La prueba ontológica

De la prueba ontológica, que Malebranche suele calificar como la prueba «deDescartes»26, dice que es la «más bella, más relevante, más sólida y la primera, o sea,la que menos cosas supone»27; y también que es la «más simple, más clara y mássólida de todas las que la metafísica puede ofrecer»28.

La formulación más breve y más repetida es ésta: «Si pienso en El, y ciertamen-te pienso en El, necesariamente existe»29. Que pensamos en lo infinito, no resultadifícil de comprender, porque todos los hombres «piensan en Dios, cuando preguntansi existe»30. Lo que resulta difícil poner de manifiesto es que basta pensar en Diospara saber que existe. ¿Cómo se llega a eso?

En las Respuestas a las segundas objeciones Descartes recoge su formulacióndel argumento ontológico en el siguiente silogismo: «Se debe atribuir a una cosa loque se concibe como contenido en la idea de esa cosa; ahora bien, la existencia nece-saria está contenida en la idea de Dios; luego Dios existe»31. Pero Malebranche nocree que sea una formulación del todo convincente, porque tiene carácter discursivo.Por eso, se decide a añadirle una aclaración, que titula: Eclaircissement de la preuvede Descartes de l’existence de Dieu. Con ella pretende «comprender todavía con másdistinción esta prueba de la existencia de Dios y responder con más claridad a ciertasobjeciones que se le podrían hacer»32. Al recordar en otra ocasión ese

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25 II, 371.26 II, 93, 94, 96.27 I, 441.28 VIII, 947.29 XII, 135. Cfr. II, 101, 372; III, 143; XII, 174, etc.30 XII, 56.31 Op. cit., AT, IX, 129. 32 II, 93.

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Eclaircissement dice que lo había añadido «para hacer la demostración más completay convincente. Me parecía que la suya, sin ese complemento, podría dar lugar a quesurgiese en el espíritu cierta desconfianza justificada, que yo no había querido descu-brir por respeto a su autor y por otras razones más importantes»33. ¿En qué consisteese complemento?

Para evitar el carácter discursivo de la prueba, hay que empezar por corregir elprincipio sobre el que la prueba se apoya. Malebranche cae enseguida en la cuenta deque ese principio es el que afirma que todo lo que está clara y distintamente encerra-do en la idea de una cosa se puede afirmar con verdad de la cosa misma. Así, si seconcibe que la idea del todo es mayor que la idea de la parte, se debe concluir que eltodo es mayor que la parte; si se concibe claramente que la existencia posible estácontenida en la idea de una montaña de mármol, se debe inferir que una montaña demármol puede existir; si se concibe claramente que la existencia no puede estarincluida en la idea de una montaña sin valle, hay que deducir que una montaña sinvalle no puede existir; otro tanto hay que decir de la existencia de Dios, pues, si seconcibe claramente que la existencia está contenida en la idea de ser omniperfecto, sedebe concluir que Dios existe necesariamente, puesto que la evidencia es igual entodas esas proposiciones34.

Malebranche no está, sin embargo, dispuesto a aceptar que ése sea el primerprincipio de nuestros conocimientos. Ciertamente es un principio, pero no el primero,pues el primero es el que afirma que «la nada no es visible»35, pues el de los cartesia-nos depende de él, ya que «si se puede afirmar de una cosa lo que está encerrado ensu idea» es «porque la nada no es visible»36. Ahora bien, si la nada no es visible, sepuede establecer ya esta primera verdad: lo finito no puede representar lo infinito. Deésta se sigue la siguiente: si nada finito puede contener lo infinito, entonces si perci-bimos lo infinito, lo percibimos en sí mismo o de modo inmediato. Y de aquí se sacasin más su existencia, porque «todo lo que el espíritu percibe inmediatamente, existerealmente... pues, si no existiera, al percibirlo, no percibiría nada... lo cual es unacontradicción manifiesta»37. «Es contradictorio que se pueda ver inmediatamente loque no existe, ya que al mismo tiempo se vería y no se vería, porque ver nada es nover»38. «Ese es el principio primero e incontestable: todo lo que el espíritu percibeinmediatamente existe necesariamente, puesto que, si no existiese, si no fuese nada,al percibirlo, el espíritu no percibiría nada, lo cual es una contradicción»39.Malebranche hace observar que dice siempre «inmediata y directamente»40.

Muchos no acaban de entender esto, pues, como pueden pensar en muchascosas que no existen, se imaginan que también podemos pensar en lo infinito sin queexista. Pero no es lo mismo, porque, si podemos pensar en muchas cosas que no exis-ten, es porque esas cosas no son vistas en sí mismas o directamente, sino en las ideasque las representan. Ahora bien, Dios no se encuentra en ese caso, ya que Dios es

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33 VIII, 947.34 Cfr. II, 93.35 II, 96.36 VIII, 953.37 XV, 5.38 II, 99.39 XIX, 910.40 XV, 5.

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percibido en sí mismo. Malebranche lo reitera una y otra vez: «Es necesario recordarque, cuando uno ve una criatura, no la ve en sí misma ni por sí misma, porque no lave... más que por la visión de ciertas perfecciones que están en Dios, que la represen-tan. Así, se puede ver la esencia de esa criatura sin ver la existencia, su idea sin ella;se puede ver en Dios lo que la representa sin que ella exista. Esa es la única razón deque la existencia no necesaria no esté contenida en la idea que la representa, con loque, para ser vista, no es necesario que exista actualmente... Pero no sucede lo mismocon el ser infinitamene perfecto; no puede ser visto más que en sí mismo, porquenada finito puede representar lo infinito. Por tanto, no se puede ver a Dios sin queexista; no se puede ver la esencia de un ser infinitamente perfecto sin ver su existen-cia; no se puede ver simplemente como un ser posible; nada lo contiene, nada puederepresentarlo. Por tanto, si se piensa en El, es necesario que exista»41.

Todo lo dicho puede recogerse en el siguiente silogismo: «Todo lo que el espíri-tu percibe inmediatamente existe realmente; ahora bien, pienso en el infinito, percibodirecta e inmediatamente el infinito; por tanto, existe»42. Este silogismo no debe, sinembargo, confundirnos, porque, si nos valemos de razonamientos discursivos paraprobar la existencia de Dios, es sólo «para exponerlos a los demás»43, pues, si Dioses percibido en sí mismo, la prueba deja de ser discursiva y se convierte en intuitivao, como le gusta decir a Malebranche, en prueba de simple vue44, lo cual significa:tan pronto como vemos lo infinito, comprendemos que lo infinito existe.

A esto viene a parar el complemento que Malebranche introdujo en la prueba deDescartes. Cosa distinta es si es o no una modificación muy profunda. Quizás seamenos de lo que parece, puesto que esto había sido vislumbrado ya por el propioDescartes. En efecto, es cierto que Descartes expone la prueba ontológica medianteun silogismo, como ya vimos. Sin embargo, Descartes prosigue diciendo que, aunquehaya presentado la prueba en forma de silogismo, «su conclusión puede ser conocidasin prueba por los que están libres de todos los prejuicios», remitiéndonos a otrotexto en el que desea a sus lectores que «gasten mucho tiempo en considerar la natu-raleza del ser sumamente perfecto... porque, sólo con eso, y sin ningún razonamiento,sabrán que Dios existe»45. En otra ocasión dice también que es «casi la misma cosaconcebir a Dios y concebir que existe»46. Pero, sin solución de continuidad, siguediciendo: «Mas eso no impide que la idea que tenemos de Dios, o de un ser suma-mente perfecto, sea muy diferente de esta proposición, Dios existe, y que una nopueda servir de modelo o antecedente para probar la otra»47. Con Malebranche esecarácter discursivo desaparece totalmente. Por eso, después de afirmar que el infinitoexiste, «porque en la idea de infinito está encerrada la existencia necesaria», se corri-ge inmediatamente, «para hablar con más claridad, porque el infinito no puede servisto más que en sí mismo»48. Se trata, pues, de una prueba que no encierra ya razo-namiento alguno; cuando lo incluye, es para exponer la prueba a los demás.

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41 II, 96. Cfr. XII, 53-54.42 XV, 5.43 II, 372.44 II, 371.45 Réponses aux secondes objectiones, AT, IX/1, 126.46 A Mersenne, juillet 1641, AT, III, 396.47 Ibidem.48 II, 371.

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Si estamos ante una prueba de simple vue, se comprende que diga Malebrancheque «es tan evidente que hay un Dios como lo es para mí que yo existo»49; que la«proposición, existe Dios, es la más clara de todas las proposiciones que afirman laexistencia de algo, y que incluso es tan cierta como ésta, pienso, luego existo»50; quees «una demostración muy simple... la más simple de las que yo podría dar»51.

4. La infinitud, atributo esencial de la divinidad

La palabra Dios no es más que «la expresión abreviada del ser infinitamenteperfecto»52. Y en esa expresión cuenta tanto la perfección como la infinitud, perosobre todo la infinitud, pues ella es la que hace que las perfecciones que le atribuimosa Dios puedan ser atribuidas a Dios.

De ella, en efecto, se sigue un primer grupo de atributos que le convienen al serinfinitamente perfecto considerado en sí mismo o de modo absoluto. En primer lugar,la independencia, que deriva directamente de la perfección infinita: «Dios es el serinfinitamente perfecto; por lo tanto, es independiente»53. Puesto que la independen-cia alude a la falta de causa, de la independencia se deriva la inmutabilidad: «Dios esindependiente; por lo tanto es inmutable»54. De la independencia se sigue también laeternidad: «La existencia eterna es la manera de existir de lo que esindependiente»55. Además de independiente, inmutable y eterno, la perfección infini-ta es inmensa. Inmensidad significa omnipresencia, es decir, que «la sustancia divinaestá en todas partes, no sólo en el universo, sino infinitamente más allá, porque Diosno está encerrado en su obra, sino que su obra está en El y subsiste en susustancia»56. Y conviene poner buen cuidado en no confundir la inmensidad divinacon la extensión inteligible. Malebranche protesta airadamente contra esa asimila-ción.

De la infinita perfección, considerada no en sí misma, sino en su relación conlas criaturas se sigue otro grupo de atributos que tiene que ver o con el entendimien-to, como la sabiduría, o con la voluntad, como la justicia. Ahora bien, aunque Diosconoce y quiere, porque conocer y querer son indudablemente perfecciones, no cono-ce y quiere como nosotros, pues, por ser infinitamente perfecto, el conocimiento y elquerer de Dios son también infinitamente perfectos. Así, es infinitamente perfecta susabiduría, pues, a diferencia de nosotros, que no conocemos todo y no conocemosnada en nosotros, Dios conoce todo y lo conoce todo en El. «Por eso, Dios no sólo essabio, sino la sabiduría»57. Lo mismo pasa con la justicia, pues Dios no sólo es justo,sino la justicia. Las perfecciones que están en Dios y que representan los seres que hacreado y puede crear no son todas iguales, sino que hay entre ellas un orden. Las per-

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49 II, 103.50 XII, 54.51 XV, 5.52 Ibidem.53 XII, 175. 54 Ibidem.55 VI, 19.56 XII, 178.57 XII, 188.

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fecciones que representan los cuerpos, por ejemplo, no son tan nobles como las querepresentan los espíritus. Y ese orden es inmutable, puesto que en Dios todo es inmu-table, con lo cual no puede hacer que un espíritu dependa de un cuerpo. Ahora bien,como Dios se ama, ama también el orden inmutable entre esas perfecciones. Por eso,Dios es esencialmente justo, «porque todas sus voluntades están esencialmenteconformes con el orden inmutable»58. En eso estriba precisamente la justicia, a saber,en «el orden inmutable de las perfecciones que El encierra en su esencia»59.

Como todos los atributos se siguen de la infinita perfección de Dios, todos soninfinitos, aunque usando una terminología de Spinoza, sería mejor decir que cada unode ellos es infinito en un género, es decir, una expresión determinada de la infinitud.Ahora bien, Dios no es una simple suma de atributos infinitos en un género, sino infi-nito en todos los géneros, en todos los sentidos, en una palabra, «lo infinito infinita-mente infinito»60. Y de esta infinitud hace Malebranche «el atributo esencial de ladivinidad»61. Con eso quiere decir, por supuesto, que la infinitud ocupa el primerlugar en la definición de la esencia de Dios, de suerte que por relación a ella cual-quier otro atributo debe ser considerado como menos esencial. Sin embargo, la infini-tud no sólo es un atributo privilegiado o fuera de serie, pero uno más entre los demás,sino el atributo que «encierra todos los demás atributos»62, es decir, el que constituyela raíz de todas las demás perfecciones, puesto que, si las demás perfecciones tienenen común el ser perfecciones infinitas, esto es debido precisamente a esa infinitudradical. Gracias a ella, «Dios es necesaria y esencialmente infinito en toda suerte deperfecciones»63.

Esa infinitud explica la forma suprema de unidad llamada simplicidad, pues, sicada una de las perfecciones que forman la esencia divina es infinita, cada una deellas es realmente idéntica a las otras. Como dice nuestro autor, «cada perfección queEl posee incluye todas las demás sin ninguna distinción real, porque, al ser cada per-fección divina infinita, constituye el ser divino»64.

Ahora bien, que la esencia divina sea simple no quiere decir que nosotrosconozcamos perfectamente cómo lo es: «No descubres esa propiedad, que es esencialpara el infinito, de ser a la vez uno y todo, compuesto, por así decirlo, de una infini-dad de perfecciones diferentes, de tal manera simple que en El cada perfecciónencierra todas las demás sin ninguna distinción real»65.

Lo mismo hay que decir de las demás perfecciones. Sabemos que todas lasdemás perfecciones están incluidas en la infinitud divina, pero no sabemos cómo. Yesto es así, tanto si se trata de la inmensidad: «¿Cómo existe Dios en todas partes yentero en todas partes?»66; de la eternidad: «¿Cómo ve El en su eternidad, en unaduración sin sucesión, la sucesión de todos los tiempos?»67; de la omnipotencia:

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58 XII, 191.59 XVI, 51.60 XII, 52.61 XII, 387.62 XVI, 138.63 XVI, 137.64 III, 148. Cfr. XII, 54.65 XII, 54. 66 XVI, 132.67 Ibidem.

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«¿Cómo es Dios omnipotente? Quiere un mundo y ese mundo existe en el mismoinstante en que El quiere que exista. ¿Qué relación hay entre un acto eterno de lavoluntad divina y la creación del universo en el tiempo?»68; y «lo mismo sucede consu sabiduría, su justicia, su bondad»69. Sabemos, pues, que Dios tiene todas las per-fecciones, pero no sabemos cómo. «Es ese cómo el que no podemos explicar clara-mente»70. Por eso, se puede decir que de las perfecciones divinas tenemos un conoci-miento, pero no una comprehensión, es decir, no un conocimiento perfecto, pues esoes lo que significa comprendre por oposición a entendre.

Ahora bien, si las perfecciones son incomprehensibles es porque también esincomprehensible la infinitud que está detrás de ellas confiriéndole la infinitud quecada una de ellas tiene. De lo infinito, dice Malebranche, no tenemos «una com-prehensión o una percepción que lo abrace y lo abarque, pero tenemos cierta percep-ción, es decir, una percepción infinitamente pequeña comparada con una comprehen-sión perfecta»71. «Sólo veis muy confusamente y como de lejos lo que Dios es. No loveis tal como es, porque, aunque veis lo infinito o el ser sin restricción, sólo lo veisde una manera muy imperfecta»72. Esto se debe a nuestra propia limitación: «Comomi espíritu es finito, el conocimiento que yo tengo de lo infinito es finito. Yo no locomprehendo, no lo abarco; estoy incluso cierto de que jamás podré abarcarlo. Enuna palabra, la percepción que tengo de lo infinito es limitada, pero la realidad objeti-va en la que mi espíritu se pierde, por así decirlo, no tiene límites»73.

Con esto Malebranche no hace más que repetir una doctrina cartesiana, puesDescartes no se cansa de repetir que Dios es conçu, pero non compris74, llegandoincluso a afirmar que «la incomprehensibilidad misma pertenece a la razón formal delo infinito»75.

Por imperfecto que sea, el conocimiento de lo infinito es anterior al de lo finito.En una carta a Clerselier escribe Descartes: «La noción que tengo de lo infinito existeen mí antes que la de lo finito, porque, por el hecho de concebir el ser o lo que es, sinpensar si es finito o infinito, concibo el ser infinito; pero, para poder concebir un serfinito, es necesario que sustraiga alguna cosa de esa noción general del ser, que con-siguientemente debe ser anterior»76. Malebranche, tomando pie de este texto, repite:«El espíritu no sólo tiene la idea de lo infinito, la tiene incluso antes que la de lo fini-to. Porque concebimos el ser infinito, con sólo concebir el ser, sin pensar si es finitoo infinito. Pero, para concebir un ser finito, se necesita sustraer alguna cosa de esanoción general de ser, que consiguientemente debe ser anterior. De esta suerte, elespíritu sólo percibe una cosa en la idea que tiene de lo infinito»77. La idea de Dioses, de esta suerte, la condición de cualquier otra idea, pues cualquier otra se forma

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68 Ibidem.69 XVI, 25.70 Ibidem. Cfr. A. ROBINET, Système et existence dans l’œuvre de Malebranche, Vrin, Paris

1965, p. 184.71 II, 101. Cfr. XII, 51.72 XII, 54.73 XII, 174. Cfr. XII, 183.74 À Mersenne, 27 mai 1630, AT, I, 152. Réponses aux premières objections, AT, IX/1, 89, etc.75 Réponses aux cinquièmes objections, AT, VII, 368.76 À Clerselier, 23 avril 1649, AT, V, 356.77 I, 441.

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descendiendo de lo infinito a lo finito por sucesivas restricciones, determinaciones,limitaciones.

Esto ocurre con nuestras ideas particulares, que «no son más que participacio-nes de la idea general de lo infinito, de la misma manera que Dios no toma su ser delas criaturas, sino que todas las criaturas no son más que participaciones imperfectasdel ser divino»78. «Todas las ideas particulares que tenemos de las criaturas no sonmás que limitaciones de la idea del Creador, igual que los movimintos de la voluntadhacia las criaturas no son más que determinaciones del movimiento hacia elCreador»79.

Esto sucede también con las ideas generales. Mientras Tomás de Aquino piensaque la ideas generales se obtienen prescindiendo de la concreción, Malebranche creeque se forman añadiendo la generalidad a la concreción. Cuando le objetan que lasideas generales no son más que una reunión confusa de algunas ideas particulares,Malebranche responde que la suma de particulares sólo da como resultado un parti-cular. Para obtener una idea general hay que añadir la idea de generalidad a las ideasparticulares. Es lo que ocurre, por ejemplo, con la idea general de círculo. «Sólo pue-des formar ideas generales, porque descubres en la idea de infinito suficiente realidadpara dar generalidad a tus ideas... Jamás podrías pensar en esas formas abstractas degéneros y especies, si la idea de infinito, que es inseparable de tu espíritu, no se unie-se naturalmente a las ideas particulares que percibes. Podrías pensar en tal círculo,pero jamás en el círculo... El espíritu sin reflexionar añade a sus ideas finitas la ideade generalidad que encuentra en el infinito»80. Y lo mismo se puede decir del dolor.«Si piensas en el dolor en general, es que puedes unir la generalidad a todas lascosas. Pero insisto en que no podrías sacar esa idea de la generalidad de tu fondo.Tiene demasiada realidad; es preciso que el infinito te la suministre de su abundan-cia»81.

El infinito está, pues, en el origen de toda idea: de toda idea particular y de todaidea general. Por eso, no queda más remedio que decir que Dios es más conocido quecualquier otra cosa.

5. La libertad divina

Dios crea el mundo, pero lo crea no necesariamente, sino libremente. Afirmarque Dios es libre quiere decir que «es indiferente para obrar o no obrar»82. En estoMalebranche se opone decididamente a Spinoza. Spinoza mantiene que, aunque Diosno está sujeto a un ser distinto del suyo, ésta ligado a su propio ser, a «las leyes de sunaturaleza»83, con lo que «todas las cosas están determinadas a existir»84. Esto esjustamente lo contrario de lo que piensa Malebranche, pues, según él, Dios no crea

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78 I, 441-442.79 I, 443.80 XII, 58.81 XII, 60.82 VIII, 490.83 Ethica, I, 17, G. II, 61.84 Op. cit., I, 29, G. II, 71.

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necesariamente el mundo, sino que lo crea «con una libertad perfecta y una completaindiferencia»85. La razón está en que Dios, como ser infinitamente perfecto, «se bastaplenamente a sí mismo»86, y en consecuencia no se ve forzado a producir ningún otroser. Malebranche insite en esta idea de múltiples maneras, pero concibiendo siemprela libertad divina como una consecuencia de la autosuficiencia de Dios: como Diosse basta plenamente a sí mismo, «se determina a crear el mundo con una entera liber-tad»87.

Esa libertad es el fundamento de la distinción entre verdades necesarias y ver-dades contingentes, pues mientras las segundas dependen de la libre iniciativa divina,las primeras dependen de la razón de Dios88. De ahí la oposición de Malebranche aDescartes en el tema de las verdades necesarias.

Descartes cree que esas verdades dependen «solamente de la voluntad deDios»89. Ahora bien, esta doctrina, piensa Malebranche, nace de la aspiración delhombre de humanizar a Dios, concretamente de su deseo de imaginar a Dios comoalgo que a él mismo le gustaría ser. Al hombre, en efecto, le gustaría ser creador deverdades, abandonando de esta manera el orden impuesto por la razón, ante el quesiente «una especie de servidumbre», «una especie de impotencia»90. Al no poderhacerlo, en vez de renunciar a su deseo, imagina a Dios como a él mismo le gustaríaser, a saber, «poder absoluto para obrar contra todo orden»91. El voluntarismo respec-to de las verdades necesarias nace, pues, del deseo del hombre de cortar a Dios por elpatrón de «sus propias inclinaciones»92, de «sus pasiones»93, de «sí mismo»94.

Spinoza no comparte esta crítica. Según él, acusar a Descartes de haber huma-nizado a Dios es no haber entendido a Descartes. Según Spinoza, Descartes no tiene,desde luego, razón, pues pensar que las verdades necesarias dependen de la voluntadde Dios es pensar como posible otra voluntad de Dios, siendo así que Dios no puedetener otra voluntad distinta de la que tiene95. Pero tampoco tiene razón Malebranchepara acusar a Descartes de humanizar a Dios: «La opinión que somete todo a unacierta voluntad divina indiferente y que sostiene que todo depende de su benepláci-to, se aleja menos de la verdad que la opinión de los que sostienen que Dios hacetodo con la mira puesta en el bien»96. Hacer depender a Dios de algo a lo que él sesomete en su obrar como a un modelo «es lo más absurdo que puede afirmarse deDios»97.

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85 XII, 176.86 XII, 208.87 Ibidem. Cfr. VIII, 754; IX, 1109; XV, 30, etc.88 Cfr. G. DREYFUS, La volonté selon Malebranche, Vrin, Paris 1958, p. 54.89 AT, IX/1, 336.90 XII, 22091 II, 87.92 III, 86.93 III, 190.94 XII, 220.95 Cfr. op. cit., I, 33, G. II, 75. 96 Op. cit., I, 33, G. II, 76.97 Ibidem.

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6. El motivo de la creación

La decisión libre de producir el mundo no es una decisión sin motivo. Al con-trario, la motivación es condición para la libertad, con tal de que el motivo no seainvencible. Y es obvio que no lo es, puesto que, al ser autosuficiente, nada hay queempuje invenciblemente a Dios a producir algo distinto de El. ¿Cuál es ese motivono invencible?

La tradición filosófica venía afirmando que el motivo de la creación era elamor, pero Malebranche cree que eso no es así: Dios no ha creado el mundo «porpura bondad, por pura caridad para con nosotros»98. Si pensamos así, es porque nosdejamos llevar por «nuestro amor propio... contrario a la ley divina, a ese ordeninmutable que encierra todas las buenas razones que Dios puede tener»99. Según eseorden, el movimiento del amor de Dios «no puede, como en nosotros, proceder defuera, ni por consiguiente arrastrarlo hacia afuera»100. En Dios «todo amor que nosea el amor propio sería desordenado o contrario al orden inmutable que El encierra yque es la ley inviolable de la voluntad divina»101

Si el motivo del acto creador no puede ser el amor o generosidad divina, ¿cuálpuede ser? Solamente su gloria: Dios «hace todo para su gloria»102. Ahora bien,¿cómo puede Dios sacar gloria de su creación, siendo así que es una obra finita, sinninguna proporción con lo infinito? Esta dificultad parece cerrar el paso a toda espe-ranza de dar razón del acto creador, pues, si el mundo es indigno de Dios, ¿cuálpuede ser el motivo para que Dios lo cree? Ninguno, salvo que hagamos al mundodigno de Dios. Y sólo resulta digno de Dios, «si una persona divina ... se une a suobra para hacerla divina y, de esta suerte, digna de su contemplación y proporcionadaa la acción de su voluntad»103. Esa persona es el Verbo, la Razón Universal, que,para dignificar la totalidad de la naturaleza, «se une a las dos sustancias, espíritu ycuerpo, de las que está compuesto» el mundo104. Por esa unión, la obra de la creaciónqueda infinitamente engrandecida, haciéndose capaz de darle la gloria que El lecomunica por su divinidad. Con lo cual, el mundo honra a Dios sin que Dios saque sugloria de algo ajeno a El.

La Encarnación es, pues, la razón de ser de la creación. De suerte que, por lotanto, la Encarnación no está subordinada a la Redención, pues no ha sido decididapor Dios para rescatarnos del pecado, sino para justificar la creación. «Aunque elhombre no hubiese pecado», el Verbo se encarnaría para darle al mundo «una digni-dad infinita, con el fin de que Dios, que sólo puede obrar para su gloria, reciba de éluna gloria que corresponda perfectamente a su acción»105 creadora. He ahí la expre-sión metafísica del cristocentrismo.

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98 XII, 200.99 XII, 201.100 Ibidem.101 Ibidem.102 XVI, 183. 103 V, 11-12.104 XII, 205.105 XII, 204.

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7. Creación continuada

Descartes afirma, como un axioma, la discontinuidad del tiempo: el tiempo pre-sente no depende del que le ha precedido inmediatamente. Y de la discontinuidad deltiempo deduce Descartes la doctrina de la creación continuada, pues, si el tiempo esdiscontinuo, de que una cosa exista ahora no se sigue que deba existir un momentodespués, salvo que el que la ha producido en el primer momento siga produciéndola,es decir, conservándola106. También Malebranche piensa que el instante de la crea-ción «no pasa»107 jamás, de suerte que, si las criaturas existen, es «porque Dios quie-re que existan» y, si siguen existiendo, es «porque Dios continúa queriendo que exis-tan»108. Esto es así respecto de las criaturas corporales: «Un cuerpo existe, porqueDios quiere que exista; continúa existiendo, «porque Dios continúa queriendo queexista»109. Pero también lo es respecto de las criaturas espirituales: «Dios crea nues-tra alma durante todos los momentos de su existencia, ya que sólo existe, porqueDios quiere que exista y sólo continúa existiendo, porque Dios continúa queriendoque exista»110. La razón hay que buscarla, fundamentalmente, en la necesidad degarantizar la dependencia de la criatura respecto de su creador. Esa dependencia nose da, desde luego, en las obras humanas, pues una casa sigue en pie, aunque se hayamuerto el arquitecto que la ha construido. Pero no debemos juzgar las obras divinaspor el patrón de las obras humanas, pues, si las obras de los hombres no dependen delos hombres es porque estos no le han dado el ser a la materia con la que trabajan,sino que la suponen ya producida, cosa que no ocurre con las obras divinas, puesDios no supone nada producido, sino que lo produce todo111.

Serían tan independientes que Dios ni siquiera podría aniquilarlas, esto es, hacerque dejaran de ser. Naturalmente, si quisiera podría aniquilarlas, porque es todopode-roso, pero es que no puede querer, porque su voluntad tendría entonces como términola nada. Y esto se aviene mal con los atributos divinos tales como la sabiduría y laomnipotencia: con la sabiduría, porque un Dios infinitamente sabio no puede querernada que no merezca ser querido, como le ocurre a la nada, que no encierra «nada debueno ni de amable»112; con la omnipotencia, porque, no se entiende bien qué omni-potencia sería ésa que se desplegase para no hacer nada113. Por eso, la aniquilaciónde las criaturas no puede ser consecuencia de una voluntad positiva; sólo puede serconsecuencia de que Dios deje de querer que existan.

8. Dios, causa única

De la doctrina de la creación continuada saca Malebranche la consecuencia de

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106 Cfr. Discours de la méthode, V, AT, VI, 45; Meditationes, medit. III, AT, IX/1, 39, 127;Principes de la philosophie, AT, IX/2, 34.

107 XII, 156.108 VII, 514. Esa voluntad por la que crea y conserva es la misma (cfr. III, 26; VII, 514; X, 50).109 X, 49.110 XVI, 36.111 Cfr. X, 49; XII, 157-158.112 X, 49. Cfr. XII, 158.113 Cfr. XII, 159.

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que sólo Dios puede ser causa. Efectivamente, cuando Dios crea, no produce seresabstractos, sino existentes114. Esto, aplicado a los cuerpos, quiere decir que Dios creacuerpos en estado de reposo o de movimiento. Y, como la creación es continuada, esDios quien los conserva en reposo o en movimiento, por lo que la fuerza que muevelos cuerpos no pertenece a los cuerpos, sino a Dios: «Es la acción omnipotente delcreador que los crea o conserva sucesivamente en diferentes lugares»115.

Lo que se dice de los cuerpos debe decirse también de los espíritus, pues Dioses «el creador, el conservador, el único verdadero motor de los espíritus igual que delos cuerpos»116. Por estar continuamente creando los espíritus, es la causa de todo loque hay en nuestros espíritus: de nuestros conocimientos, pues los espíritus «no pue-den conocer nada si Dios no los ilumina»117; de nuestras sensaciones, porque losespíritus «no pueden sentir nada si Dios no los modifica»118; de nuestras voliciones,ya que los espíritus «son incapaces de querer nada si Dios no los mueve hacia el bienen general, es decir, hacia Él... los hombres sólo pueden amar, porque Dios quiereque amen y su querer es eficaz... sólo pueden amar, porque Dios los empuja sin cesarhacia el bien en general, es decir, hacia Él»119.

Todo se debe, pues, al querer de Dios, con lo que todos los efectos están enconexión con su voluntad, pero no en una conexión cualquiera, sino en una conexiónnecesaria, porque la voluntad de Dios es omnipotente y en consecuencia siempre efi-caz, pues «es evidente que Dios no sería todopoderoso, si su voluntad absoluta fueseineficaz»120, es decir, si quisiera algo y ese algo no sucediera. Y en eso consiste pre-cisamente la causalidad, pues, cuando se habla de la relación de causalidad, se hablade una conexión necesaria, ya que una cosa es propiamente causa de otra, cuando «elespíritu percibe una conexión necesaria entre ella y su efecto»121. Por eso, Dios escausa. Más aún, la única verdadera causa, porque «el espíritu no percibe unaconexión necesaria más que entre la voluntad del ser infinitamente perfecto y losefectos. Por eso, sólo Dios es la causa verdadera»122. He ahí el principio «más fecun-do»123 y el «más santo»124 de todos los principios: el más fecundo, porque una solacausa produce una infinidad de efectos125; el más santo, porque, al ser Dios la únicacausa verdadera, todo el honor y la gloria son sólo para El, soli Deo omnis honor etgloria126.

Tenemos así fundada desde fuera, es decir, desde la voluntad omnipotente deDios, la conexión necesaria. Pero esto no significa que tengamos una idea clara ydistinta de la causalidad. Hay quienes piensan que la esencia de la causalidad es

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114 Cfr. XII, 156.115 VII, 515.116 III, 145.117 II, 314.118 Ibidem.119 Ibidem.120 X, 96.121 II, 316.122 Ibidem. Cfr. III, 53, 203, 209, 213, 216; IV, 29; V, 48; XI, 160-163; XII, 166, etc. 123 X, 121.124 XI, 162.125 Cfr. X, 118-119; XI, 118; XII, 97, 286-287.126 II, 311.

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oscura en el nivel del ser finito, pero se hace clara en el nivel del ser infinito. Pero noes así, al menos para Malebranche. Según él, tenemos una idea clara de que la volun-tad de Dios es omnipotente y en consecuencia que entre ella y sus efectos debe haberuna conexión necesaria. Pero eso no significa que tengamos una idea clara de la natu-raleza de esa conexión necesaria, puesto que pertenece al orden de la voluntad divinay sólo Dios conoce su voluntad. Al filósofo que le pregunta sobre la creación, elVerbo le contesta: «Te gustaría comprender cómo la voluntad de mi Padre tiene unaeficacia tan grande que da y conserva el ser a todas las cosas, pero te atormentas envano por averiguarlo. Ya te he dicho que sólo debías consultarme sobre lo que yoencierro en tanto que sabiduría eterna y razón universal de los espíritus... Pero túquieres saber por qué una cosa existe por el mero hecho de que Dios lo quiera. Mepides una idea clara y distinta de esa eficacia infinita que da y conserva el ser a todaslas cosas. No tengo ahora una respuesta que darte que sea capaz de satisfacerte. Tupregunta es indiscreta. Me consultas sobre el poder de Dios, consúltame sobre susabiduría, si quieres que te satisfaga ahora. No otorgo a los hombres una idea distintaque responda a la palabra potencia o eficacia... aunque creas que Dios hace todo loque quiere, eso no significa que veas claramente que hay un enlace necesario entre lavoluntad de Dios y los efectos, porque tampoco sabes lo que es la voluntad de Dios.Pero lo que es evidente es que Dios no sería omnipotente si sus voluntades absolutasresultasen ineficaces»127. El conocimiento de la causalidad está reservado para laotra vida128.

Malebranche no dice sólo que Dios es la única causa verdadera. Explica,además, que Dios ejerce esa causalidad de una manera universal. Malebranche nodeja de repetir que Dios produce todas las cosas por medio de la eficacia de su volun-tad, pero de una voluntad que no es particular, sino general. Y con ello quiere decirque Dios «obra siguiendo las leyes generales establecidas por El»129. Estaríamos, porejemplo, ante una intervención particular de la voluntad de Dios, si Dios moviese unabola sin la intervención de ninguna colisión, es decir, si se tratase de un movimientosin choque; o si Dios nos hiciese sentir el dolor de un pinchazo sin la intervención deuna espina que nos pinche, es decir, si se tratase de un dolor sin excitación. Por elcontrario, estamos ante una intervención general de la voluntad de Dios, cuando unabola se mueve por la colisión de otra que choca con ella, porque entonces Dios lamueve siguiendo la ley general del movimiento; cuando sentimos dolor por una espi-na que nos pincha, puesto que en ese momento Dios actúa de acuerdo con la leygeneral de la unión del alma y el cuerpo. Y las razones de que Dios opera siguiendoleyes generales son, aparte de motivos a posteriori, motivos a priori, fundados en lanaturaleza de la causa, concretamente, en la sabiduría, inmutabilidad y bondad deDios: en su sabiduría, porque las intervenciones generales son propias de una inteli-gencia infinita, capaz de prever todas las consecuencias130; en su inmutabilidad, por-que las actuaciones generales implican conducirse siempre de la misma manera131;en su bondad, porque, al valerse de leyes generales, asocia a las criaturas a su poder,

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127 X, 96.128 Cfr. XV, 33.129 V, 147. Cfr. VII, 651.130 Cfr. V, 165-166; VI, 37-38; VIII, 717; XV, 28.131 Cfr. V, 21; VI, 38; VIII, 665.

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haciéndolas partícipes de la bondad de su obra, en la medida en que tienen capacidadpara ello132.

Esas leyes generales, por lo demás, precisamente por ser generales, son muypocas. Y en esto brilla otra vez la infinita sabiduría de Dios en forma de simplicidad,pues con muy pocas leyes produce una infinidad de obras admirables133. De esteprincipio de la simplicidad hacían entonces los filósofos un uso muy amplio sobretodo en la ciencia. Ya Descartes decía que «la naturaleza obra siempre por los mediosmás fáciles de todos y más simples»134. Y Leibniz afirmaba también que Dios debeconstruir su obra con el menor gasto, minimo... sumptu135. Pero Malebranche va másallá, porque le da a ese principio una extensión que no tenía, valiéndose de él para laexplicación metafísica del tema de los defectos del mundo. ¿De dónde proceden losdefectos que deforman el mundo? El optimismo clásico, de ascendencia agustiniana,piensa que los defectos del mundo no son verdaderos defectos, sino defectos aparen-tes, debidos a una de estas dos cosas: o bien a nuestra ignorancia de los planes deDios en su conjunto, pues, si conociésemos el conjunto de los planes de Dios, lo quenos aparece como un defecto, nos aparecería como formando parte de un todo y enconsecuencia no como un defecto; o bien a la necesidad de poner de manifiesto lasperfecciones del universo, porque con los defectos sucede como con las sombras deun cuadro, que son necesarias para realzar la belleza del color, o con las disonanciasmusicales, que resultan imprescindibles para poner de relieve la belleza de laarmonía. Ninguna de estas razones satisface, sin embargo, a Malebranche136, pues laperfección de una obra debe medirse en función de lo que se hace, pero también enfunción de la manera de hacerlo, ya que Dios, que «quiere que su obra le honre..., noquiere que sus vías le deshonren»137. Sobre todo, quiere que su conducta no ledeshonre, porque, al ser infinita, debe ser preferida por Dios a la obra que de ellaresulte, que es finita. Eso es lo que explica que el mundo esté lleno de defectos, puesuna conducta general y simple deja escapar el detalle de los acontecimientos, gene-rando de esa suerte la aparición de desórdenes en el universo. Pero es preferible unmundo lleno irregularidades a una conducta que se guíe por leyes particulares y com-plejas.

Pero no basta con decir que Dios es la única causa y que ejerce su causalidadpor medio de intervenciones generales de su voluntad. Se necesita añadir que Diosasocia a las criaturas a su causalidad, haciendo de ellas causas ocasionales. Estosignifica que Dios se sirve de ellas «para determinar la eficacia de sus voluntadesgenerales»138. Así, la colisión de los cuerpos es la causa ocasional para que Diosmueva los cuerpos, dado que esa colisión determina la eficacia de la ley general delmovimiento, pues hay una ley que dice que Dios mueve los cuerpos, pero resulta quelos cuerpos sólo se mueven cuando entran en colisión, con lo cual la colisión deter-mina la eficacia de esa ley, haciendo de causa ocasional; el pinchazo es la causa oca-

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132 Cfr. VIII, 665.133 Cfr. III, 81, 88-89; V, 53; IX, 1081; X, 78-79; XVII/1, 581.134 AT, IX, 201.135 De rerum originatione radicali, G. VII, 303.136 Cfr. V, 36, 41; VIII, 765-766, 769-770; XV, 53-54.137 XII, 213-214.138 V, 154. Cfr. X, 75; X, 142; VI, 36.

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sional para que Dios produzca en nosotros un dolor, pues hay una ley que dice quesólo sentimos dolor, cuando nuestro cuerpo experimenta una alteración, con lo queesa alteración determina la eficacia de esa ley, sirviendo de causa ocasional139. Lascausas ocasionales forman, pues, parte de las leyes generales como determinacionessuyas.

* * *

Abstract: Secondo Malebranche la nostra conoscenza di Dio è immediata e ciò ciobbliga a rivedere sia le prove a priori che a posteriori per il fatto che tutte e duesono discorsive. Ma immediatezza non vuol dire che la nostra conoscenza dellaNatura Divina sia perfetta. La stessa nozione di infinito, che si trova aldilà dellenostre capacità, ce lo impedisce. Ciò è valido per tutti gli attributi, compreso quellodella Potenza Divina. Per questa ragione, anche se l’unica causa che esiste è laCausalità Divina, noi non la possiamo comprendere perfettamente, cioè dal punto divista di Dio.

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139 Cfr. XII, 318-319. Esas determinaciones son susceptibles a su vez de cumplirse de milmaneras diferentes, originándose así la enorme variedad de efectos (cfr. X, 54).

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J. G. Fichte: l’affermazione dell’Assoluto

DANIEL GAMARRA*

Sommario: 1. L’Assoluto dal punto di vista del finito; 1.1. Alcune questioni storiografiche; 1.2. Dalprincipio incondizionato all’Assoluto; 1.3. Teoria e realtà del primo principio; 1.4. Presenza eimmagine; 2. Assoluto, immagine e apparizione; 2.1. La considerazione metafisica dell’immagine;2.2. Considerazioni sull’Assoluto; 2.3. Apparizione e Assoluto.

1. L’Assoluto dal punto di vista del finito

1.1. Alcune questioni storiografiche

La situazione storica della filosofia di J.G. Fichte viene di solito delimitata frala filosofia di Kant e quella di Hegel. E all’interno della filosofia romantica tedescaFichte occupa di solito un posto relativo agli altri due grandi idealisti, cioè fraSchelling e Hegel. L’inserimento di Fichte in questa situazione storica implica disolito un giudizio sulla sua filosofia, cioè non si tratta meramente di un puro riferi-mento temporale o cronologico. Quando se ne cercano invece più da vicino le moti-vazioni, non è difficile riscontrare alla base di tale schema l’interpretazione hegelianadella storia della filosofia e, più specificamente, la sua interpretazione riguardo alperiodo da lui stesso vissuto. Se si va oltre nella linea dell’interpretazione di Hegel— e, in questo caso, anche di Schelling —, la filosofia di Fichte viene suddivisa indue grandi periodi ben diversi fra di loro: quello di Jena, che occuperebbe gli anniche vanno dal 1793-94 fino al 1800; e quello di Berlino, tranne il breve soggiorno aErlangen, comprendente il periodo fra il 1800 e l’anno della morte di Fichte, il 1814.

Questa periodizzazione abbastanza rigida della filosofia di Fichte e lo schemadei suoi rapporti sia con la filosofia di Kant, sia specialmente il suo posto fra i tregrandi romantici, non ha tuttavia un riscontro completamente soddisfacente nei fatti.Anzi, il vero riscontro di questo schema si troverebbe piuttosto nell’esegesi hegelia-na. Nella Dottrina della scienza del 1794, Fichte afferma ripetutamente che la suafilosofia futura non sarà altro se non lo sviluppo della riflessione sul primo principioassolutamente incondizionato del sapere, cioè viene detto in pratica che ormai ha in

ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 247/269

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* Ateneo Romano della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma

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possesso un certo primo principio, un’intuizione fondamentale se si vuole, che svi-lupperà successivamente e che ciò appunto segnerà l’indirizzo della sua filosofia,cioè non un altro principio, non un’altra intuizione. Come ha affermato R. Lauth,«nel periodo jenese Fichte ha chiamato questo primo principio ‘io’ per esprimerneverbalmente il carattere spirituale. Il grossolano fraintendimento di questa parola loha spinto a cercare altre espressioni: soggetto-oggetto, ecc. Dal 1801 al 1804 Fichte,entrando in discussione con il realismo superiore di Jacobi-Reinhold e l’idealismosuperiore di Schelling-Hegel, lottò senza tregua per completare la filosofia trascen-dentale nei suoi principi supremi»1. La questione come si vede da queste parole sem-bra più complessa ma allo stesso tempo più chiara.

Che in Fichte esista una maturazione intellettuale delle sue tesi è fuori dubbio,come lo è il fatto che l’accusa di ateismo del 1799 segni nella sua vita, e anche nellasua filosofia, una esigenza riguardo comunque allo stesso progetto filosofico anterio-re a quella data. Infatti, come mette in rilievo Lauth, le prime formulazioni della filo-sofia di Fichte non furono accolte con la comprensione dovuta: sia il linguaggio chela novità proposta non furono immediatamente capiti; anzi, dopo il 1799 continuò lastessa situazione. Il problema riguardava fra l’altro la questione dell’ Io,dell’Assoluto e del sapere. Le prime formulazioni della Dottrina della scienza2 deglianni 1793 e 17943 furono difficili da capire sia per il metodo che per la proposta teo-retica, e di questo fatto si accorse Fichte stesso. Così nel 1797 pubblica la Versucheiner neuen Darstellung der Wissenschaftslehre e nel 1798, con l’aggiunta di novamethodo, un’altra nuova versione della WL. Ma il lavoro sulla WL ebbe quindi unperiodo di inattività quando venne fuori la questione sull’ateismo. Infattil’Atheismusstreit occupa l’attenzione di Fichte durante il 1799 e il 1800 non soltantoda un punto di vista teoretico ma anche pratico, giacché a causa dello sviluppo dellaquestione deve abbandonare Jena e trasferirsi a Berlino dove, dopo un breve periodo,consegue la cattedra di filosofia. A questo punto riprende vigorosamente il lavorodella WL e, meno di un anno dopo, compare la WL 1801; sono gli anni delle discus-sioni col realismo superiore di Reinhold e di Jacobi, e soprattutto con l’idealismo diSchelling e di Hegel.

Così troviamo in un periodo di meno di dieci anni tre formulazioni della WL,avendo presente che la prima (degli anni 1793-94) non è che una introduzione o,meglio, una fondazione4; l’Atheismusstreit rappresenta certamente un momento nondedicato alla WL propriamente detta5; il lavoro viene ripreso nel 1801, dopo il man-cato successo delle WL precedenti e stimolato dal bisogno di approfondire le nuove

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studi

1 R. LAUTH, La filosofia trascendentale di J.G. Fichte, Guida Editori, Napoli 1986, p. 45.2 D’ora in poi per riferirci a questo titolo: Wissenschaftslehre, più volte ripetuto da Fichte in

diverse rielaborazioni e edizioni, adopereremo: WL.3 Quest’ultima col titolo completo, assai significativo di: Grundlage der gesamten

Wissenchaftslehre.4 Cfr. R. LAUTH, La filosofia trascendentale..., cit., pp. 43; 52-53. Fichte si esprime così

nell’ottobre di 1794 nella Allgemeine Literatur-Zeitung, quando presenta la Grundlage:«alla presente fondazione dell’intera Dottrina della scienza farà seguito, la prossima Pasqua,un sistema sviluppato della Dottrina della scienza teoretica e pratica».

5 Comunque le questioni dibattute fanno parte della tematica della WL; il rapporto fra i granditemi dell’Atheismusstreit e quelli della WL si vede con più chiarezza a partire dai successivisviluppi della Dottrina della scienza.

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prospettive aperte con le riflessioni condotte dal 1793 fino a quel momento6.Secondo l’interpretazione di Schelling7 e di Hegel, questo sarebbe il principalemomento in cui avviene la distinzione dei due periodi della filosofia di Fichte; e,secondo l’interpretazione del solo Hegel, praticamente qui finisce la vera e propriafilosofia di Fichte, poiché Hegel non conoscerà le posteriori edizioni della WL e avràconoscenza soltanto della “filosofia popolare” di Fichte, sviluppata in vari momenti,con lezioni rivolte a un pubblico piuttosto vario: 1800, 1803, 1806 e 1807 sono ledate dei corsi più importanti; e sulla loro validità filosofica il giudizio di Hegel èalquanto duro8.

In questa cornice storica si inserisce il problema dell’Assoluto: esso non nascenella seconda filosofia di Fichte in quanto secondo periodo, poiché una separazioneda un presunto primo periodo non è mai esistita; ma è presente fin dalle prime formu-lazioni della WL, anche se è a partire dal 1801 che Fichte sviluppa in un modo parti-colarmente acuto il problema, in chiara polemica con la filosofia idealista9.

Resta quindi da chiarire brevemente il rapporto di Fichte con Kant. Al riguardoabbiamo un testo importante dello stesso Fichte: «Ho sempre detto, e lo ripeto ora,che il mio sistema non è altro che quello kantiano. Ciò vuol dire che contiene lo stes-so punto di vista, ma che nel modo di portare avanti la ricerca è completamente indi-pendente dall’esposizione kantiana. Ho detto questo non per avvalermi di una grandeautorità, né per creare un punto di appoggio per la mia teoria al di fuori di essa, ma

Daniel Gamarra

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6 A. PHILONENKO, L’oeuvre de Fichte, Vrin, Paris 1984, p. 211: «À chaque pas Fichte s’estenrichi, répétons-le; mais sa richesse est toujours accumulée dans le même sens. Il n’y aguère de raison qui permette de distinguer un premier Fichte d’un second, si ce n’est pasqu’après 1798 il ne publie pas tout comme il le faisait auparavant».

7 Cfr. F.W. SCHELLING, Philosophie und Religion (1804), Ausgewählte Werke III, 629 [C.H.Beck’sche Verlagbuchhandlung, München 1977]; e Zur Geschichte der neuerenPhilosophie. Münchener Vorlesungen (1827), Ausgewählte Werke, V, 375 e ss [C.H.Beck’sche Verlagbuchhandlung, München 1979]. Le discussioni fra Fichte e Schellingsono state accuratamente studiate da R. LAUTH, Die Entstehung von Schellings Identität-philosophie in der Auseinandersetzung mit Fichtes Wissenschaftslehre (1795-1801), KarlAlber Verlag, München 1975; id., Die erste Auseindersetzung zwischen Fichte undSchelling 1795-1797, «Zeitschrift für philosophische Forschung», 21/3 (1967), pp. 341-367; id., Die zweite philosophische Auseinandersetzung zwischen Fichte und Schellingüber die Naturphilosophie und die Transzendentalphilosophie und ihr Verhältnis zueinan-der (Herbst 1800-Frühjahr 1801), Kant-Studien, 45 (1974), pp. 397-435.

8 G.W.F. HEGEL, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, Jubiläumsausgabe, XV,640 [Frommann, Stuttgart 1965]: «In seinen späteren, popularen Schriften hat FichteGlaube, Liebe, Hoffnung, Religion aufgestellt, ohne philosophisches Interesse, für ein allge-meines Publikum, eine Philosophie für aufgeklärte Juden, Jüdinnen, Staatsräthe». Nellepagine che dedica all’analisi della filosofia di Fichte, Hegel cita come fonte la Grundlageder gesamten Wissenschaftslehre, di 1794, Grundlage des Naturrechts nach Principien derWissenschaftslehre di 1796, Über den Begriff der Wissenschaftslehre di 1798, e alcuni scrit-ti dell’epoca dell’Atheismusstreit . Per un confronto più ampio fra le filosofie di Fichte equella di Hegel, cfr. R. LAUTH, Hegel vor der Wissenschaftslehre, F. Steiner Verlag,Stuttgart 1987.

9 R. LAUTH, La filosofia trascendentale..., cit., p. 53: «Tutta la preoccupazione di Fichte neglianni 1799-1804 fu respingere sia il realismo superiore (Jacobi-Bardili-Reinhold) sia l’ideali-smo superiore (Schelling-Hegel) e di completare la filosofia trascendentale sviluppando unadottrina dell’assoluto».

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per dire la verità ed essere giusto»10. In questo senso, in sostanza, il pensiero diFichte oltre ad essere chiaro è anche molto vicino alla verità. La questione sollevatapure da Hegel di vedere Fichte come il passaggio obbligato fra la filosofia di Kant ela sua, appartiene soprattutto allo schema interpretativo triadico proposto da Hegel.Infatti Hegel vede in Fichte il compimento (Vollendung)11 della filosofia di Kant, enon un pensatore originale che aggiunge alla filosofia kantiana una novità che Kantnon aveva raggiunto. Se Fichte, come si vede dal testo della WL 1797, pensava che lasua fosse una filosofia entro il kantismo, ciò non significa che non si accorgesseanche della sua novità. La filosofia trascendentale in Fichte continua ad essere verafilosofia trascendentale, ma al tempo stesso prende le distanze rispetto a Kant e svi-luppa argomenti originali.

L’unità Kant-Fichte proposta da Hegel ha un fondamento, ma forse è un’unitàtroppo fortemente affermata. L’idealismo soggettivo è una categoria che a Hegelrisulta chiara dal punto di vista del suo superamento nell’idealismo assoluto e con lamediazione di quello oggettivo. La domanda si pone quindi nella e sulla validitàdell’interpretazione triadica. Si deve aggiungere però che Kant considerò la WL comeuna “pura logica”12, cioè senza vederla né in continuità né come compimento dellasua filosofia; e con ciò sembra che i tre giudizi siano in parte discordanti fra loro:Fichte si dichiara in buona misura kantiano, Kant non considera la filosofia di Fichteun superamento della sua e Hegel, infine, stabilisce una connessione stretta fra ledue, in disaccordo con i giudizi di entrambi. Non è questo il luogo per chiarire inmodo preciso la questione, ma soltanto sembra interessante notare che i momentihegeliani propongono uno schema storiografico che in questo caso — oppure anchein questo caso — non sembra verificarsi completamente. La questione, come avremooccasione di vedere a proposito del problema di Dio in Fichte, è più complessa, inquanto la proposta filosofica di Fichte non è pura conseguenza della filosofia kantia-na né pura opposizione ad essa.

Allo stesso tempo i temi scanditi intorno al problema di Dio o dell’Assolutonella filosofia fichtiana scoprono una dimensione che le prime edizioni della WL ave-vano annunciato, ma non avevano sviluppato in maniera rigorosa ed esauriente.Anche se Hegel da parte sua aveva valutato criticamente le prime WL13 intorno al1800, non aveva certo previsto l’ulteriore sviluppo della filosofia di Fichte in questitemi. Anzi, la scissione fra finito ed infinito che preoccupa sia l’Hegel giovane siaquello più maturo, ha anche una risposta nella filosofia di Fichte, che si presenta inmodo diverso dall’interpretazione hegeliana riportata sia nella Differenz che nelle piùtardive Vorlesungen.

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studi

10 Versuch einer neuen Darstellung der Wissenschaftslehre (=WL 1797), F. Meiner Verlag,Hamburg 1984, p. 2 (SW, I, 420-421).

11 Cfr. G.W.F. HEGEL, Vorlesungen..., cit., 640.12 I. KANT, Erklärung in Beziehung auf Fichtes Wissenschaftslehre, AK, XII, 370: «Denn

reine Wissenschaftslehre ist nichts mehr oder weniger als bloße Logik, welche mit ihremPrincipien sich nicht zum Materialem des Erkenntnis versteigt, sondern von Inhalte dersel-ben als reine Logik abstrahirt [...]».

13Cfr. G.W.F. HEGEL, Differenz des Fichte’schen und Schelling’schen Systems derPhilosophie, in Beziehung auf Reinhold’s Beyträge zur leichtern Übersicht des Zustandesder Philosophie zu Anfang der neunzehnten Jahrhunderts (1801), Jubiläumsausgabe, I; trad.it. a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1990.

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1.2. Dal principio incondizionato all’Assoluto

La filosofia di Fichte si presenta con una fondamentale dimensione riflessiva,costituente e originante della filosofia come tale. La non accettazione della cosa insé, così come veniva proposta da Kant, rimuove l’ultimo ostacolo per fare del sogget-to l’ambito dell’inizio della filosofia14. Infatti, davanti alla cosa in sé, il soggettodoveva ricevere un qualcosa che non dipende da lui, davanti al quale il soggetto stes-so è passivo. Se la cosa in sé viene tolta, si apre di conseguenza lo spazio per un ini-zio assoluto a partire da un solo principio: non cioè dalla cosa in sé e dal soggetto,ma soltanto dal soggetto. Ma questo inizio deve rivestire appunto un carattere assolu-to e allo stesso tempo deve essere trovato nell’interiorità soggettiva15.

Da questa premessa muove già buona parte dello sviluppo della filosofia diFichte; inizio della filosofia, punto di vista della filosofia, esito della filosofia sonotre momenti intimamente vincolati che dipendono dall’unità della scelta filosofica diFichte. Infatti egli vuole fondamentare l’inizio assoluto ed incondizionato del saperein modo tale da poter ricavare così un primo principio del sapere in generale16. Ilpunto consiste nel fatto che Fichte distingue l’inizio della filosofia dall’inizio delsapere come tale. La filosofia infatti è un sapere e come tale ha un principio o deiprincipi che reggono lo sviluppo e le sequenze logiche. Ma la questione che Fichtepropone quando parla dell’inizio del sapere non è tanto quella dell’inizio della filoso-fia, ma di un sapere che coinvolga la filosofia stessa in un grado più alto di sinteti-cità. Questo è l’ambito della dottrina della scienza: il sapere del sapere, la scienzasuprema il cui oggetto, per parlare in modo improprio, è il sapere stesso17.

Da questo punto di vista la proposta fichtiana non è una proposta metafisica nelsenso tradizionale del termine, giacché la preoccupazione del filosofo non è quella diindagare l’oggetto, la cosa che si presenta davanti al soggetto; si tratta piuttosto diuna ricerca riflessiva e allo stesso tempo originante del sapere18. In questo senso, ladimensione filosofica in cui si muove Fichte è assoluta, ma in modo diverso a quelloappunto della metafisica che trova l’Assoluto come termine dell’indagine filosofica ecome sviluppo dei principi primi della filosofia avendo come orizzonte la natura,oppure la molteplicità del reale nel suo essere in sé. Fichte pone la questione dell’ini-zio del sapere in modo inverso, cioè in quanto non si tratta di sapere qualcosa masoltanto di un sapersi, senza che però questo sapersi venga costituito attraverso ladistinzione di soggetto e oggetto19. La riflessione filosofica verso il primo principio èquindi una ricerca dell’incondizionatezza del primo principio stesso, oppure unaricerca condotta sulla possibilità di tale incondizionatezza. Se qualcosa è saputo,

Daniel Gamarra

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14 Cfr. Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre (=GgWL), F. Meiner Verlag, Hamburg1988, pp. 40 e 98 (SW, I, 120 e 172-173).

15 Cfr. Cfr. Wissenschaftslehre nova methodo (=WL 1798), F. Meiner Verlag, Hamburg 1982,p. 7 (SW, X, 7).

16 GgWL, p. 171 (SW, I, 252-253): «Außer dem Setzen des Ich durch sich selbst soll es nochein Setzen geben. [...] Un so ist denn die WL a priori möglich, ob sie gleich und objektivegehen soll».

17 Cfr. WL 1798, p. 101 (SW, X ,127-128).18 Cfr. WL 1798, p. 28 (SW, X, 33).19 Cfr. WL 1798, p. 11 (SW, X, 12).

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conosciuto, la domanda si pone esattamente sulla possibilità fondante del saperecome tale.

Il posto del primo principio del sapere è definito, nella filosofia di Fichte, dallariflessione verso l’interiorità soggettiva in modo trascendentale. Con ciò Fichte sipone in un punto di vista che ammette soltanto il sapere se intimamente giustificatodal primo principio: ogni sapere dev’essere contenuto nella condizione trascendenta-le posta dal primo principio, non in quanto al suo contenuto oggettivo o empirico, main quanto alla dipendenza e al collegamento con esso. Cioè il primo principio delsapere è il solo sapere autogiustificato, perché autoevidente20. Se è così, il primoprincipio non è relativo, ma assoluto.

Il movimento filosofico della riflessione ha una direzione verso l’alto eall’indietro, perché la WL si costituisce nella sua autofondazione: la realtà del saperenon si potrebbe paragonare tanto ad una acquisizione, quanto ad una riduzione adunum21. Il punto di partenza empirico di Fichte è la pluralità del sapere umano, ladiversità delle scienze, il sapere volgare. Tutte le forme di sapere hanno in comuneuna richiesta più o meno modesta di verità e certezza. Ma al tempo stesso la certezzadi qualsiasi sapere dipende a sua volta dai principi ricevuti da un sapere superiore. Sela questione della verità e della certezza è posta in modo assoluto, cioè come sianopossibili la verità e la certezza in se stesse, la giustificazione della risposta non puòvenire dalla cosa ma dal principio che costituisce il sapere. Sapere infatti è un atto delsoggetto che ha colto un qualcosa che di solito può essere rappresentato come undavanti a sé. Se si fa questione non di questo davanti ma di ciò che rende possibile ildavanti stesso, troviamo la soggettività in una dimensione non empirica in quantonon determinata da nessun contenuto che appartenga all’esperienza22. La via diFichte verso il primo principio del sapere è una proposta trascendentale della sogget-tività in cui trova la giustificazione di ogni certezza non per via oggettiva oppureempirica, ma nel cogliere il nucleo attivo della costituzione di qualsiasi oggettività.

In questo modo il primo principio del sapere è un sapersi a cui si arriva nonoggettivando, ma nell’annullamento dell’oggettività; dietro questo annullamento sitrova soltanto l’atto costituente del sapere23. La WL è questa scienza che ha comecompito lo svelare la struttura soggettiva trascendentale che autofondamenta se stessacome istanza di sapere o di pensiero, al margine di qualsiasi oggettività e come puraattività autoevidente.

Ma è da sottolineare che l’assolutezza del primo principio costituente del sape-re, che è attivo, autoevidente e non-oggettivo, è un’assolutezza rinchiusa nell’ambitodel finito. Infatti Fichte non afferma la realtà di una istanza assoluta di ordine o natu-ra ontologica, ma un assoluto che è di carattere gnoseologico. La distinzione fraontologico e gnoseologico ha un valore limitato. Dire che l’ontologico è, a questopunto, abbandonato per affermare il carattere gnoseologico del principio, sarebbeun’affermazione in un certo senso vera, ma non sufficientemente vera. Nelle primeredazioni della WL Fichte aveva identificato il primo principio con l’Io. Questo Io

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studi

20 Cfr. WL 1797, p.104 (SW, 524).21 Die Wissenschaftslehre. Zweiter Vortrag im Jahre 1804 (=WL 1804), F. Meiner Verlag,

Hamburg 1986, p. 7 (SW, X, 93).22 Cfr. WL 1797, p. 72 (SW, I, 492).23 Cfr. WL 1797, p. 112 (SW, I, 533).

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non ha nessun carattere sostanziale ma ha, in senso stretto, il carattere di principioattivo autoevidente. Ciò che Fichte cercava era appunto il superamento della distin-zione soggetto-oggetto in ordine alla fondazione di un sapere assoluto in quanto nondipendente da quella stessa relazione. Il posteriore sviluppo della WL aggiunge aquesta determinazione del principio il carattere di unicità, in quanto l’istanza ultima èanteriorità rispetto alla scissione soggetto-oggetto, oppure di pensiero-essere. Infondo la caratterizzazione del primo principio nel suo carattere incondizionato è unadescrizione ontologica dell’Io: cioè non si tratta di una questione di mera identifica-zione gnoseologica di un incondizionato, bensì di un raggiungimento di una realtàspirituale che si determina in un atto finito non condizionato, cioè ultimo24. Perciòl’assolutezza dell’incondizionato rivela in realtà un atto finito che è autoevidente: lasua evidenza non dipende dall’oggetto pensato, la sua ultimità non riguarda il caratte-re di causa del reale, ma comunque si presenta come reale e non-oggettivo, riflessivoe non-relativo: assoluto e finito25.

Costringere il primo principio nei limiti della finitezza è dargli carattere reale dipensiero o di atto ultimo che fondamenta ogni sapere; la sua assolutezza non è tutta-via l’infinitezza di un essere al di là del finito o del mondo. Ma questo assoluto, che èallo stesso tempo atto finito e incondizionato, pone la questione dell’Assoluto comela propria negazione. Il primo principio del sapere, l’Io, non ha natura di fondamentoontologico del reale, ma soltanto di fondamento del sapere, in quanto il sapere vienegeneticamente sviluppato da esso. Ma in un successivo approfondimento della WLFichte, soprattutto dopo l’Atheismusstreit, comincia a sentire e a manifestare temati-camente la nostalgia dell’Assoluto che si colloca al di là della finitezza. Se la rifles-sione aveva portato Fichte fino alla radice del sapere, alla determinazione del princi-pio della WL, essa adesso lo induce, dopo il momento di fondamentazione sistemati-ca del sapere e della deduzione genetica della coscienza, all’indagine trascendentaledell’Assoluto come altro dalla soggettività26. Il punto di vista continua ad essere peròlo stesso: in certo modo la domanda si porrà come la possibilità di affermazionedell’Assoluto, sulla condizione di tale affermazione dal punto di vista del finito. Ecertamente se la genesi trascendentale aveva dato ragione della totalità degli atti delsoggetto, i concetti devono in questo momento cambiare in modo abbastanza radica-le, giacché non si tratta per l’appunto di una deduzione né di una genesi, ma di pensa-re il rapporto di origine del pensiero stesso riguardo ad una certa alterità. Trovare Dioo affermare l’Assoluto senza abbandonare il punto di vista finito è il compito di cuiFichte si fa carico a partire dal 1799-1800. Il principio incondizionato del sapere gliha permesso di trovare la WL; occorre ancora vedere se la WL gli permette di andareoltre senza abbandonare se stessa.

Ma a questo punto abbiamo diversi concetti non ancora strutturati in modoadeguato. Il punto di vista di Fichte è quello del sapere, e per trovare il principioprimo e inconfutabile del sapere stesso ha percorso il cammino della riflessione tra-

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24 L’ultimità del principio incondizionato è la conclusione di un interno vedersi del soggetto;questo non definisce che in sé ogni sapere implichi ogni esclusione dell’oggetto oppure ogniriferimento oggettivo e anche all’esperienza. Ciò che afferma Fichte è che l’istanza oggettivaoppure quella esperienziale non è ultima e con ciò non offre un carattere autogiustificantesi.

25 Cfr. Darstellung der Wissenschaftslehre. Aus den Jahren 1801/02 (=WL 1801), F. MeinerVerlag, Hamburg 1977, p. 34 (SW, II, 27-28).

26 WL 1801, pp. 188-189 (SW, II, 132); p. 190 (SW, II, 134-135).

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scendentale fino all’identificazione di un principio teoretico incondizionato delsapere che è il sapere che sa se stesso; il che a sua volta è possibile in quanto c’è unatto di pensiero che si pone come primo e autoevidente: l’Io, la coscienza nel suomomento trascendentale, costituiscono il momento primo del sapere. In questomodo il principio incondizionato si rivela in possesso di una certa assolutezza, eperciò definisce un ambito di sapere assoluto. L’introduzione invece di un Assolutoche può essere affermato come un al di là della coscienza, non significa un’espan-sione della coscienza e del suo atto fino all’Assoluto, ma un’affermazione a partiredall’unità del concetto di sapere. Il sapere è sempre sapere-di: ma se c’è un Assolutocome tale, il sapere, se rimane nel suo punto di vista finito, non può costituirsi comeassoluto per il fatto che si trova in possesso dell’Assoluto — anche se il sapere puòessere un sapere assoluto27. L’assolutezza del sapere non è sapere dell’Assoluto,anche se si costituisce come sapere assoluto. Unità e incondizionatezza del princi-pio, sapere assoluto e Assoluto sono categorie che non si possono scambiare fra lorocome se ci fosse ancora una categoria superiore che rendesse ragione di una unità diprospettiva. Ma il cammino del sapere non costituisce comunque un’affermazioneassoluta della autosufficienza del sapere, nel senso che è inevitabile dall’interno delsapere stesso la presenza di una alterità che si mostra soltanto nel sapere28. In que-sto modo l’Assoluto secondo Fichte è l’Assoluto del sapere-in-sé29. L’io o soggettosi relaziona all’Assoluto come una immagine: c’è fra l’Assoluto e l’Io un rapportomanifestativo30.

Ma prima di continuare con questo tema qui appena introdotto, ci soffermeremoa chiarire uno dei problemi contenuti in questa serie di tesi: quello dell’unità teoreti-co-pratica del principio incondizionato del sapere in quanto dimensione unica (o uni-taria) della soggettività. È dall’unione di queste due dimensioni che il concetto diimmagine, oppure quello di manifestazione (Erscheinung) — sviluppato da Fichtecon la finalità di chiarire il rapporto dell’Io con l’Assoluto —, giunge, attraverso laDottrina della scienza, a determinare più esattamente la portata dell’affermazionefichtiana di Dio.

1.3. Teoria e realtà del primo principio

Se una ricerca filosofica o scientifica che sia si propone di cercare il primo prin-

254

studi

27 WL 1801, p. 29 (SW, II, 22): «Das Wissen ist nicht das Absolute, aber es ist selbst alsWissen absolut».

28 G. RAMETTA (a cura di), J.G. FICHTE: Privatissimum 1803. Dodici lezioni sulla dottrinadella scienza, Edizioni ETS, Pisa 1993, Introduzione, p. 37: «dall’interno della prospettivatrascendentale emerge dunque la necessità di porre, per spiegare il sapere e per non “salta-re” irreflessivamente oltre di esso, un “uno veramente essente”, un “vero originario”, chenecessariamente assume la determinazione della “verità” solo all’interno del sapere e comesapere, ma che appunto proprio per questo si manifesta, attraverso il sapere, come l’indedu-cibile implicato, principio e presupposto di quest’ultimo».

29 WL 1804, p. 237 (SW, X, 277).30 R. LAUTH, La filosofia trascendentale..., cit., p. 45: «La Wissenschaftslehre 1804 mostra che il

supremo punto di unità della Dottrina della scienza è l’autocoscienza non nella sua immanen-za, ma come manifestazione (Erscheinung) dell’assoluto; la Dottrina della scienza si situa nelpunto di unità e di congiunzione del sapere e della verità assoluta rivelantesi in esso».

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cipio come punto di partenza, la cui conoscenza è necessaria per andare avanti nelconoscere, si pensa immediatamente ad un principio che deve soddisfare una esigen-za appunto conoscitiva. Nella Dottrina della scienza di Fichte questa dimensioneviene profondamente potenziata. La WL infatti ha una sola possibilità di giustificarsi:la sua dev’essere una autogiustificazione; il suo principio non si trova al di fuori diessa; anzi, la giustificazione è specificamente uno sviluppo del suo proprio concetto.Questo è una necessità del primo principio e della Dottrina della scienza come sape-re primo, oppure come sapere del sapere; se la WL si trova in grado di poter sviluppa-re la nozione propria di WL verrà dunque (auto)giustificata, altrimenti essa stessa nonsarà sapere primo.

Accanto a ciò, oppure implicitamente in questa posizione fondamentale, la WLsi dà, di conseguenza, il suo proprio oggetto. Nel riflettere in modo radicale, sembrache Fichte non lasci spazio a nessuna immagine, a nessun oggetto che non sia il sape-re autogiustificantesi: non appare in quella riflessione se non la riflessione appenadistanziata da qualsiasi oggettività. Perché infatti non si tratta di una riflessione auto-coincidente oppure che nel suo esercizio si sovrapponga a se stessa annullando asso-lutamente ogni doppia dimensione di oggetto e riflessione. Ma invece si assiste aduna donazione oggettuale che si costituisce nel riflettere stesso. Come Fichte proponenella prima WL, cioè nella Grundlage, la “esperienza” attraverso la quale appare ilprimo principio è la proposizione A=A, non attraverso il suo contenuto bensì attra-verso l’identità. Che A è A non significa altro, in ordine alla fondazione del princi-pio, che A è posto, e l’atto del porre si rivela fondamentale in quanto è il giudiziostesso, l’attività del giudicare non in senso psicologico ma come radicale attività sog-gettiva fondante31: è l’Io che giudica e nel giudicare coglie il fatto fondamentale (tra-scendentale) dell’affermare stesso, oppure coglie se stesso in quanto autore dell’attofondamentale che si rivela nel giudizio32.

In questo modo l’andare indietro verso il primo principio che possa fondamenta-re il sapere in modo assoluto, non soltanto permette di trovare a Fichte un principioincondizionato del sapere che sa se stesso, ma anche l’atto fondamentale del porre: ilprincipio teoretico della WL è inseparabile dal fatto fondamentale dell’attività dell’Io.Anzi, l’Io è tale nell’agire attraverso cui pone il primo principio: «la filosofia si procu-ra scientificamente non solo il proprio oggetto, ma anche il pensiero dell’oggetto»33.Questa bi-dimensione del primo principio è una costante nel pensiero di Fichte. Con latematizzazione di entrambi i problemi cambierà la terminologia e in un certo sensoalcuni suoi interessi speculativi, entro l’unità sostanziale del suo pensiero; ma ciò chenon cambierà affatto sarà la tesi che il fondamento del sapere è attivo, e che in ciòcombacino sia la teoricità del principio sia la sua praticità34. Il pensare è pensiero-di, o

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31 Cfr. GgW, Erster Teil, 1 (SW, I, 91-101); ivi, p. 16 (SW, I, 96): «Also das Setzen des Ichdurch sich selbst ist die reine Tätigkeit desselben. – Das Ich setzt sich selbst, und es ist,vermöge diese bloßen Setzens durch sich selbst [...]».

32 WL 1797, p. 41 (SW, I, 461): « [...] in diesem Akte (di pensare) [...] sieht der Philosoph sichselbst zu, er schaut sein Handeln unmittelbar an, was er tut, weil er – es tut».

33 R. LAUTH, La filosofia trascendentale..., cit., p. 43.34 A. PHILONENKO, L’oeuvre de Fichte, cit., pp. 34-35: «Le Moi sera donc effort infini, parce

que qu’on n’en a jamais fini avec le monde, mais parce que tout effort suppose une limita-tion qu’il doit franchir. [...] Le Moi doit être absolument pour soi, donc libre»; e anche p.37: «[...] le Soi est défini par Fichte comme effort infini (unendliches Streben). La liberté

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anche nella sua prima istanza principiale, pensiero che si pensa oppure pensiero cheriflette; il pensare è inseparabile dalla sua dimensione di opposizione a ciò che pensa enell’opporsi si vede la dimensione e il motivo fondamentale della sua realtà come atto.Sia che questa attività venga prima concettualizzata come sforzo sia come libertà, hasempre la dimensione originaria della realtà soggettiva come realtà in atto: cioè,secondo Fichte, non esiste un atto del soggetto che non implichi allo stesso tempo larealtà e l’esercizio dell’atto primo35.

Se la WL si propone di dedurre la totalità delle forme di pensiero in modo taleda unire ogni manifestazione di pensiero al primo principio incondizionato, tale com-pito spetta anche alla libertà o all’attività pratica dell’Io non in modo però secondarioo conseguente, ma in modo originario e a livello più alto di quello del pensiero riflet-tente; in questo modo Fichte ha unificato sia la prospettiva del sapere in quanto alfondamento, attraverso il superamento della distinzione soggetto-oggetto; ma è anda-to anche oltre la distinzione sapere-atto pratico della libertà, in quanto approdato alladimensione comune attiva non per astrazione ma in quanto raggiungimento dell’ori-gine comune dell’attività dell’Io. La storia pragmatica dello spirito umano36, comeFichte ha definito la WL, è la deduzione viva del sapere attraverso la necessità delleforme di pensiero37.

E questa unità originaria dello spirito ha, nella questione dell’Assoluto,un’importanza fondamentale. Come avremo occasione di vedere, la posizionedell’Assoluto è senz’altro l’al di là del sapere, in quanto la Dottrina della scienza èper l’appunto una teoria del sapere: l’Assoluto è in un certo senso ciò che non è sapu-to giacché infinito e in quanto non-sapere; ma la posizione dell’Assoluto spettaanche, e principalmente, all’attività dell’Io come attività unica e originaria, in modotale che l’Assoluto non si rapporti — anche se in modo negativo — soltanto al saperema anche alla libertà: questa vive nell’ancora della storia e nella soggettività finita, eha anche il carattere di sforzo infinito, di tendenza non (mai) compiuta. La presenzadell’Assoluto, l’immagine, nella soggettività non è altro che la presenza del divinonell’attività originaria del soggetto. Il che comunque non significa per Fichte chel’Assoluto si presenta nel soggetto in modo tale da condizionare necessariamente odeterminare sia il sapere che la vita pratica o morale donando un contenuto o unarappresentazione determinata. Qui si dovrebbe ritornare in un certo senso ad unadistinzione precedentemente riferita fra dimensione ontologica e gnoseologicadell’Io: ma si dovrebbe aggiungere una dimensione ulteriore cioè quella morale. Cosìperò come il principio gnoseologico rivela la natura dell’Io e in un certo senso ilpensare è Io, così in questo momento la natura dell’Io viene piuttosto costituita siadal pensare che dalla libertà, o, se si vuole andare all’ultima piega dello spirito,

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studi

est l’invitation permanente à l’existence et à ce titre la liberté est un devoir qui comprend enlui-même sa propre récompense: elle est pretium sui et Fichte doit ici se séparer de Kant[...]».

35 Die Principien des Gottes- Sitten- und Rechtslehre, F. Meiner Verlag 1986, p. 96: «SetzenSie dieses Princip der Genesis als einen Vernunftschluß: ich frage, welches ist seine absolutvorauszusetzende Prämisse: Offenbar: Das Denken kommt gar nicht durch sich selber zumimmanentem Seyn [...] sondern nur durch ein fremder Princip, das Soll [...]».

36 Cfr. GgWL, p. 141 (SW, I, 222).37 Cfr. M. GUEROULT, L’évolution et la méthode de la doctrine de la science chez Fichte,

Olms, Hidesheim 1982 [reprint], I, p. 160 e ss.

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dall’attività originaria comprendente sia l’attività intellettuale che quella morale38,come immagine dell’Assoluto.

Siccome la presenza dell’Assoluto non è diretta ma, attraverso la mediazionedell’immagine, l’Assoluto stesso condiziona la vita soggettiva nella misura in cui ilsoggetto raggiunge attraverso la WL la consapevolezza delle potenzialità dell’attivitàoriginaria. La questione è che a questo punto la WL è cambiata rispetto alla primaimpostazione data da Fichte, nel senso che ha subito un ampliamento nello scoprireuna dimensione della soggettività che nel primo percorso della WL si era mostratasolo parzialmente. L’interesse di Fichte era sempre stato la libertà39, ma anche lalibertà e la fondazione dell’agire morale è stata una scoperta sul filo della WL. Sel’impostazione delle prime WL concentrano l’interesse e l’argomentazione da unpunto di vista più teoretico rispetto alla Dottrina della scienza, dopo gli anni 1799-1800 Fichte si rende conto che con i principi della WL ha in mano i principidell’agire libero e che la dimensione corrispondente all’affermazione dell’Assoluto dicui ha bisogno il sapere, si presenta anche davanti alla soggettività come tale a partiredal suo carattere di principio attivo. Comunque la natura attiva della soggettività,dell’Io, non si configura soltanto come un guardare ciò che si mostra davanti alle suepotenzialità. In primo luogo perché l’Assoluto non si mostra in se stesso, d’altra parteperché questo guardare non è adatto a penetrare la natura dell’Assoluto; cosìl’Assoluto si presenta mediato, ma la mediazione come tale concentra il suo essercinel nucleo dell’attività originaria del soggetto. Se questa attività non viene appuntoattivata, la presenza dell’Assoluto non sarà possibile. In questo modo, l’Io raggiun-gerà quel tanto di Assoluto (mediato) a seconda di quanto la sua attività in quelladirezione sia stata un compito liberamente esercitato sia riguardo al sapere che allavita morale. Il soggetto che invece non cerca di mettere in atto la WL non raggiun-gerà né una vita veramente dotta, né una vita pienamente morale. Perciò l’unità teo-retico-pratica della WL che si presenta nelle sue prime formulazioni in modo piutto-sto oscuro riguardo alla dimensione antropologica complessiva dell’Io, si estendecomunque lungo tutto il percorso della WL e della “filosofia popolare” di Fichte. Ilfatto che dopo alcuni anni in cui non aveva lavorato in modo diretto alla WL, cioè glianni della filosofia della religione e della filosofia della storia, Fichte ritorni alla WL,permette di vedere che verso il 1810 la ripresa della WL ha un fondamentale caratteresintetico e riflessivo su un’opera che si era già molto avvicinata alla sua completezza.

1.4. Presenza e immagine

La filosofia di Fichte nel periodo di Jena non tratta in maniera decisa il proble-ma dell’Assoluto, anche se non si può negare che in un certo senso la via intrapresa

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38 Cfr. WL 1801, pp. 194 e ss. (SW, II, 136).39 In questo senso le motivazioni profonde del pensiero di Fichte si devono cercare in colle-

gamento con il superamento del necessitarismo spinoziano e nella scoperta della ragionepratica in Kant: la sua filosofia ha un’intenzione pratica fin dall’inizio anche se nelle primeWL questa intenzione rimane in certo senso oscurata; di questa difficoltà sono testimoni iprimi interpreti della sua filosofia ed è stata soltanto la critica storica sviluppata negli ulti-mi anni a far luce definitivamente su questo aspetto. Cfr. L. PAREYSON, Fichte. Il sistemadella libertà, Mursia, Milano 1976, pp. 73 e ss.

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aveva come fine, o almeno come uno dei suoi fini, il raggiungimento di una dimen-sione assoluta al di là della soggettività40. La prima WL pone l’accento e l’interessespeculativo nella determinazione dei principi del sapere e nella determinazione dellesue leggi strutturanti; per ottenere ciò Fichte procede nella deduzione dei modi neces-sari del pensiero e delle sue azioni necessarie. La questione comunque dell’origine,della radice del sapere e dell’intelletto viene presentata quasi in modo negativo, cioèvelatamente mostrata, mentre si accusa soprattutto una assenza: la mancata appari-zione del problema dell’Assoluto diventa così la necessità della sua apparizione.

Invece la riflessione del più lungo periodo di Berlino viene configurata e deci-samente dominata da questo problema: l’Assoluto, la sua manifestazione nel sapere,la sua presenza vitale41. Le WL del 1801 e del 180442 offrono due prospettive sullaquestione. Più che trattarsi comunque di due punti vista che partono da posizioniseparate o distanziate fra loro per avvicinarsi ad una stessa questione, esiste fra i duetesti un rapporto di continuità: nel 1804 Fichte riprende la tematica sull’Assoluto apartire dai risultati della WL 1801. Si tratta di un momento di fondamentale impor-tanza per capire la totalità del pensiero fichtiano43: c’è qualche autore che ha definitoquesto momento come un periodo mediano44 della filosofia fichtiana; la questionesostanziale è comunque che in questo momento Fichte matura quella posizione chesembrava di una immanenza assoluta della coscienza45 per assumere un punto divista che non si identifica neanche in un punto di vista dell’Assoluto, ma nel punto diunione della coscienza con la sua giustificazione ultima, cioè col suo fondamento.

La tematica dell’Assoluto si pone quindi attraverso la necessità di riunire la plu-ralità del sapere, che la coscienza finita diversifica, in un solo sapere e che non puònon avere se non un solo principio. E così come entro il limite della finitezza il prin-

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studi

40 Cfr. J. CRUZ CRUZ, J.G. Fichte: Doctrina de la ciencia, traduzione e introduzione, Aguilar,Buenos Aires 1975; qui, Introducción, p. XXXIII.

41 Id., p. XIII: «El saber finito pulveriza la realidad en sí de las cosas y, al hacerlo, necesita deuna realidad, un esse in mero actu (SW, X, 206), que le dé consistencia».

42 Cfr. J. WIDMANN, Die Grundstruktur des transzendentalen Wissens nach J.G. FichtesWissenschaftslehre 1804, Meiner, Hamburg, 1977.

43 R. LAUTH, Le problème de l’interpersonalité chez J.G. Fichte, «Archives de Philosophie»,25 (1962), p. 325: «Malgré l’importance de quelques travaux sur la dernière philosophie deFichte [Loewe, Gurtwitsch, Guéroult], il règne encore aujourd’hui un préjugé tant du pointde vue de l’histoire de la philosophie systématique, qui identifie purement et simplement laphilosophie de Fichte avec la forme que la WL a trouvée dans la Grundlage de 1794;l’approfondissement et la nouvelle forme qu’elle a trouvée ensuite viennent, pense-t-on, demotifs extra-philosophiques, religieux que l’on croit pouvoir ignorer. Cette fausse intérpre-tation ne rend pas justice à l’intense travail purement scientifique auquel se livra Fichte àBerlin de 1801 à 1804 pour achever le système de la WL».

44 Cfr., p.e., G. RAMETTA, J.G. Fichte: Privatissimum..., cit., Introduzione, pp. 39 e 69.45 È l’impressione che causa la lettura della prima WL, in cui è difficile vedere le possibili successi-

ve aperture che vengono mostrate da Fichte più tardi negli sviluppi della WL e in alcuni altriscritti come, ad e., quelli di «filosofia popolare». Perciò come criterio ermeneutico non servebadare tanto alla distinzione fra periodi e momenti diversi delle opere di Fichte, ma soprattuttoalla sua unità la cui analisi ammette nonostante l’adoperare un criterio genetico, di collegamentointerno delle diverse tesi esposte da Fichte; ma anche il punto di vista della genesi implica l’ideadi unità. D’altra parte le critiche che si possono muovere al sistema della WL nascono anche daquesta prospettiva, giacché prese separatamente alcune sue tesi godono del favore dell’incomple-tezza riguardo ad una valutazione che potrebbe chiedere il diritto di vera interpretazione.

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cipio della WL si erano mostrati allo stesso tempo con validità teoretica e con unadimensione pratica, anche nell’apparizione della questione dell’Assoluto questi duemotivi si trovano uniti. Se il sapere — nella dimensione finita — è diversificato, lo èanche la vita, cioè l’attività originaria della soggettività, fondamento del sapere edella libertà. La prospettiva che spinge Fichte a cercare una spiegazione al di là dellafinitezza, ma entro la finitezza, abbraccia pure questi due aspetti; o per meglio dire,abbraccia l’unico aspetto reale dell’Io: la sintesi di prassi e teoresi, la precedenzadell’origine prima della divisione dell’attività originaria del soggetto, giacché se ilsapere e la vita si considerano nella loro dimensione finita, la domanda sull’originedeve mostrare l’istanza di unità di sapere e di vita. Ma la dimensione assoluta dellavita non può che mostrarsi, cioè non può presentarsi apertamente nella sua infinitez-za così come essa è, in quanto che il mezzo della sua presenza è la coscienza e la vitafinita. In questo senso si stabilisce in Fichte una dialettica di origine assoluta-appari-zione in cui infatti l’apparizione è l’apparire dell’origine ma in quanto apparire; piùesattamente, l’Assoluto si manifesta (Erscheinung, Sicherscheinung). La manifesta-zione è manifestazione dell’Assoluto come vita e sapere, cioè manifestazione finita:se la manifestazione fosse infinita, non sarebbe in senso stretto manifestazione ma siidentificherebbe con l’Assoluto stesso nella sua forma originaria di principio; maquesto implicherebbe che il finito fosse infinito46. La manifestazione è perciò anchenegatività: l’apparire è allo stesso tempo l’essere occulto, ciò che non appare e sinasconde nell’apparire stesso. Ma come si può vedere anche da queste considerazio-ni, l’Assoluto, o meglio, la possibilità della sua affermazione, viene data e propostain chiave negativa al di là o prima della dialettica manifestazione-nascondimento.Infatti l’Assoluto viene negativamente trovato, o negativamente affermato, giacchél’affermazione come tale riguarda il contenuto del concetto oppure l’attività dell’Io.Questo non può, in prospettiva trascendentale, giungere all’Assoluto in modo affer-mativo; la ricerca invece dell’unità che lo stesso Io non è capace di dare47, in sensovero e proprio, alla totalità del reale e del sapere, viene condotta da Fichte attraversouna via negationis perché l’Assoluto non ammette altra affermazione che la negazio-ne della finitezza. Da qui nasce anche la forza che ha nel pensiero fichtiano la rifles-sione sull’immagine, e le riflessioni sulla luce e la vita che si manifesta nel finito48.

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46 O almeno che il finito si mettesse nella prospettiva dell’infinito e tentasse di capire se stessoe l’Assoluto da un punto di vista che appartiene soltanto all’Assoluto. Questo potrebbe esse-re il punto di vista di Hegel; Fichte invece, pur ammettendo un punto di vista unico, cioèquello trascendentale, non adopera un punto di vista al di fuori del finito e in questo modo sidelinea la possibilità dell’affermazione di una determinata unità di finito e infinito senzacompromettere l’indipendenza della finitezza.

47 Su questo dare possibile (o impossibile) per il soggetto, si gioca buona parte dell’interpreta-zione del pensiero di Fichte; non posso adesso entrare nella questione, ma in modo moltogenerico si potrebbe dire che differisce dal porre e che non ha un senso ontologico ma tra-scendentale; il dare trascendentale appartiene al soggetto, è a sua completa disposizione, e ilsoggetto stesso deve dare essenzialmente, il che sarebbe un darsi, che lo costituisce trascen-dentalmente.

48 WL 1804, p. 236 (SW, X, 276): «Gewißheit oder Licht ist unmittelbar lebendiges Princip,also reine absolute Einheit, eben des Lichtes, welche durchaus nicht weiter beschrieben,sondern nur vollzogen werden kann [...]». Anche, p. 231 (SW, X, 272): «Jetzt erst sind wirauf einen Charakter des Lichtes gekommen, durch welchen es sich ummitelbar zeigt, alsEins mit dem oben eingesehenen Sein: die Gewißheit rein und für sich, und als solche».

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In altri termini, abbondare sull’Assoluto non è che una ermeneutica della differenzadel finito.

La prospettiva del sapere è quindi quella della possibilità della manifestazione:la realtà in sé, ciò che uno è in sé, appare nell’Io come Io. «Perciò Fichte non haadesso inconvenienti nel parlare di Essere puro o di Essere assoluto: essere non comecategoria dell’esistenza percettibile; non come qualcosa di oggettivo, ma come origi-ne del sapere: non un oggetto del sapere, qualcosa che può diventare cosciente, ma lavita condizionante la totalità del sapere effettivo»49. Perciò, così come aveva dedottotutte le azioni necessarie dell’Io a partire dal primo principio della WL, Fichte adessosi trova davanti al compito di giustificare la totalità del sapere a partire dalla sua ori-gine, utilizzando non il punto di vista dell’origine stessa e in quanto tale, ma quellodella sua manifestazione: si tratta di una nuova genesi del sapere in cui questo apparecome manifestazione dell’origine. E così come la sua manifestazione è tale in quantosapere, lo è altrettanto in quanto vita, cosicché il sapere altro non è se non la vitamanifestata come luce. In questo senso le categorie di Vita e di Luce compaionoall’interno della dialettica della manifestazione, cioè come esplicazioni del rapporto-di-immagine dell’essere finito con l’Assoluto. L’Essere come origine è Assoluto; c’èanche un sapere assoluto che non è l’Essere ma l’Essere implicito nel sapere comeorigine e manifestazione; così Fichte ha posto il rapporto con l’Essere non comequalcosa che corrisponde al mondo empirico, ma come qualcosa che ha a che vederecon l’Io e con la sua riflessività. L’ascesa alla WL, ai suoi principi, continua ad essereun compito proprio ed esclusivo del finito, come ascendere riflessivo e libero;l’Essere originante che è in sé e per sé, non appare come tale nel sapere, maquest’ultimo è l’unica dimensione possibile della sua apparizione. In un certo senso èvero che la visione dell’Essere è limitata alla condizione soggettiva, ma è anche veroche il contenuto del sapere non è altro che l’Essere: la coscienza è sua immagine,oppure la presenza dell’Assoluto è immagine, in modo tale che la coscienza è la pre-senza dell’Assoluto giacché unita ad esso come alla sua fonte ed origine50.

La molteplicità ricondotta all’unità nell’ambito del sapere segna la conquista diuna dimensione ulteriore della soggettività nella sua propria interiorità. E questanuova dimensione implica il carattere di autodistinzione reciproca: l’Assoluto non èl’Io, l’Io non è l’Assoluto. Mentre la presenza dell’Assoluto come sapere assoluto èla presenza-di-immagine, o l’essere-di-immagine.

2. Assoluto, immagine e apparizione

2.1. La considerazione metafisica dell’immagine

Il problema di Dio in Fichte può essere esaminato nella prospettiva, già prima

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studi

49 J. CRUZ CRUZ, J.G. Fichte: Doctrina de la ciencia, cit., Introducción, p. XXXIII.50 M. IVALDO, L’Assoluto e l’immagine, Studium, Roma 1983, p. 33-34: «[...] siffatta afferma-

zione [dell’Assoluto] non potrà avvenire alla maniera di una presa diretta e immediatadell’Assoluto stesso, ma alla maniera di una riflessione e radicalizzazione del sapere inquanto forma, immagine, vivente compenetrazione di pensiero e di vita».

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accennata, della dialettica uno-molteplice51, e si tratta di una prospettiva che nellafilosofia fichtiana risulta necessaria. Al tempo stesso, e premettendo la questioneunità-molteplicità, si può giungere al problema di Dio attraverso la considerazionemetafisica dell’immagine52. Ma questo raggiungere il problema di Dio, o porsi inmodo giustificato il problema di Dio, non significa per Fichte dimostrarne l’esistenzae neanche penetrarne l’essenza. Sia l’uno che l’altro compito non appartengono allafilosofia trascendentale così come Fichte la concepisce. La questione è invece diver-sa, ma non meno decisiva.

La questione dell’Assoluto nasce da una istanza di unità e di unificazione radica-le del molteplice finito. Il sapere nel finito si rispecchia in modi diversi ma semprelimitati. L’ascesa verso il primo principio della WL è invece un tentativo di giustifica-zione dell’unità del molteplice dal punto di vista del sapere, cioè il raggiungimentodell’unità ha un carattere chiaramente riflessivo. L’Io che si trova «in fondo» al per-corso della Dottrina della scienza è allo stesso tempo il principio che la rende possibi-le. La riflessività è in generale la possibilità di ricondurre, nell’ambito della filosofiatrascendentale, il relativo al suo fondamento, e con ciò viene determinato anche ilmodo di procedere metafisico. Questo non può prescindere dalla riflessività dell’Io inquanto questa è costitutiva della filosofia stessa, o meglio della Dottrina della scienza.

Il problema dell’Assoluto viene anche assunto in questo modo di procedere; ilconcetto di immagine come un qualcosa di dipendente da un’altra realtà, per cosìdire, principale o superiore, porta con sé l’idea di una discesa: l’immagine è ciò cheriflette ciò che non è immagine ma che semplicemente è. L’immagine esiste se dauna parte c’è qualcosa che rifletta, e se c’è qualcosa che si possa riflettere.L’Assoluto nella sua manifestazione è immagine, ma l’immagine dell’Assoluto nonviene costituita da una discesa dell’Assoluto verso e fino al finito. Fichte ripete inmolti modi che l’apparizione è apparizione dell’Assoluto, cioè che la manifestazioneè sempre manifestazione dell’Assoluto nella vita dell’Io. Ma ciò che non semprespiega è il rapporto esistente fra l’Assoluto e la sua manifestazione53. Dal punto divista dei principi della WL e cioè dal punto di vista trascendentale, l’elemento teoreti-co che viene fuori nel problema dell’Assoluto è quello della discontinuità fral’Assoluto e il finito, cioè fra il mondo dell’Io e la dimensione fuori da ogni possibileoggettivazione. Con ciò ci troviamo nella situazione in cui l’Assoluto si manifestacome immagine, ma al tempo stesso sembra incomunicabile con ciò in cui si manife-sta. D’altra parte, la riflessività dell’Io arriva al limite della molteplicità al di là dellaquale dovrebbe esserci il fondamento, ma non c’è esperienza del fondamento e ilprimo principio della WL si manifesta come attività finita. L’Io cioè non raggiungeriflessivamente l’essere dell’Assoluto in quanto tale. Invece ciò che viene da lui rag-giunta è l’immagine come condizione dell’apparizione dell’Assoluto; la filosofia

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51 Cfr. A. MASULLO, L’uno e i molti nella fichtiana filosofia del soggetto: Individualità, plura-lità, comunità, in V. MELCHIORRE (a cura di), L’Uno e i molti, Vita e Pensiero, Milano 1990,pp. 337-369; e anche, F. MOISO, Unità e identità nel tardo Fichte, ibid., pp. 371-404.

52 Così lo propone anche M. VETÖ, Idéalisme et théisme dans la dernière philosophie de Fichte.La «Doctrine de la science» de 1813, «Archives de Philosophie», 55 (1992), pp. 263-285; qui,p. 264. Il suo è comunque un punto di vista che mira soprattutto a slegare la prospettiva meta-fisica da una meramente storiografica, senza riferimento alla questione uno-molteplice.

53 Cfr. W. JANKE, Fichte. Sein und Reflexion. Grundlagen der kritischen Vernunft, Walter deGruyter, Berlin 1970.

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fichtiana dell’Assoluto è una filosofia della presenza non attraverso la prova direttadel Dio che crea o agisce nel mondo, ma attraverso la sua affermazione indiretta dicui l’immagine è il nesso.

Se quindi, da una parte, troviamo in Fichte la necessità dell’affermazionedell’unità come superamento della molteplicità e del relativo, dall’altra parte, il puntodi vista dell’Io riflessivo si rivela come il costitutivo della WL e perciò come il suolimite invalicabile: l’Assoluto può entrare in scena dall’Io per il quale non è possibiletrascendersi o annullarsi, cioè arrivare realmente a Dio oppure far scomparire l’attoproprio dell’Io perché avvenga un atto rivelatore dell’Assoluto stesso.

La considerazione dell’immagine ha quindi una portata metafisica in questosenso: si tratta di ricavare dall’immagine ciò che a partire dall’immagine è altro e che simanifesta in essa, ma che allo stesso tempo si trova fuori della portata dell’Io. Da quiche la questione dell’immagine può invitare alla considerazione dell’immagine inquanto immagine, del rapporto immagine-essere, e quello di immagine come immaginedi Dio. Ciò che R. Lauth ha denominato höhere Wissenschaftslehre54 indica in un certosenso il punto di vista sintetico dell’immagine, anche se in senso stretto la dottrinadella scienza superiore non s’identifica con l’immagine, ma consiste soprattutto nelpunto di vista trascendentale in cui si uniscono il momento ascendente verso l’Assolutoe il punto di vista deduttivo che a partire dal momento supremo dell’ascensione giusti-fica la totalità del reale55. Comunque il momento più alto della WL, cioè il momentosintetico, è evidente per se stesso; si tratta appunto di un intuitus che in un certo sensosupera anche il momento riflessivo dell’Io in un atto unico. Ma questo momento, che èil risultato della riflessione, mostra appunto l’immagine come essenzialmente determi-nata dalla manifestazione dell’Assoluto e come condizione di possibilità di tale manife-stazione. A partire da questo punto superiore in cui l’immagine viene costituita comeevidenza, si può iniziare il movimento di discesa dell’Assoluto verso il finito56.

2.2. Considerazioni sull’Assoluto

L’immagine ha quindi questo ruolo in un certo senso mediale: il che significa,

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studi

54 Cfr. R. LAUTH, Le problème de l’interpersonalité chez J.G. Fichte, p. 327.55 J.M. MANZANA MARTINEZ, L’Absolu et son «apparition» absolue d’après la «Doctrine du

savoir» de 1812 de Johann Gottlieb Fichte, «Archives de Philosophie», 28 (1965), p. 391:«Par la Doctrine supérieure du savoir la philosophie transcendentale se convertit en philo-sophie de la transcendance (selon Fichte, en l’unique philosophie possible de la transcen-dance), en tant qu’en elle la totalité du réel apparaît possible seulement “en se transcendan-te”: “à partir de” l’Absolu et “vers” l’Absolu existant».

56 J.M. MANZANA MARTINEZ, L’Absolu et son «apparition» absolue..., cit. p. 392: «Ce mouve-ment régressif pourrait être appelé “contemplatio creaturarum sub specie aeternitatis velDei” en opposition au mouvement ascendant: “demonstratio Dei ex creaturis”». Anche sequeste espressioni sono suggerenti e invitano a riflettere su dimensioni metafisiche, sembrache abbiano in Fichte un carattere quasi metaforico, o che comunque non possono essereconsiderate in senso metafisico stretto. In qualche modo la proposta di Fichte rimane sem-pre nella prospettiva del finito anche se in esso si colga qualcosa dell’Assoluto. Più appro-priata sembra invece, se si vuole parlare di elemento metafisico o di punto di vista metafisi-co, la considerazione metafisica dell’immagine non come elemento puramente funzionale,ma manifestativo e costitutivo dell’atto dell’Io.

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da un lato, presenza dell’Assoluto come manifestazione, e d’altra parte, anche limita-zione dell’Assoluto nel finito, considerando che l’immagine non è in senso strettouna partecipazione ontologica, cioè non è di natura assoluta ma riflette l’Assoluto, necostituisce la condizione.

Questa distanza fra l’Assoluto e l’Io era stata messa in rilievo da Fichte primaancora che sviluppasse in modo completo la dottrina dell’immagine. Infatti questaappare, sulla base delle riflessioni del 1801, soprattutto nella WL 1804 e, in modoassai chiaro e manifesto, più tardi nelle elaborazioni della WL di 1812 e 181357. Mala teoria dell’immagine viene sviluppata su un concetto di Assoluto, di sapere assolu-to, di luce e di vita che appartiene appunto alla WL 1801. L’analisi di alcuni testi diFichte riguardanti questi temi potrà chiarire ulteriormente la posizione dell’immaginecome manifestazione dell’Assoluto.

1. In primo luogo si deve considerare che l’idea che ha Fichte dell’Assoluto è diuna estrema linearità, nel senso che il punto di vista negativo attraverso cui vienepensato l’Assoluto non lascia spazio ad altra affermazione che non sia la sola assolu-tezza. Infatti Fichte non caratterizza l’Assoluto se non per il suo essere assoluto,indicando che ogni qualificazione sarebbe allo stesso tempo una determinazione chenon farebbe altro che togliere il suo carattere indipendente e libero da ogni momentodi relatività; perciò «l’Assoluto non è né un sapere, né un essere, così come neancheè identità o indifferenza, ma è soltanto ed esclusivamente l’Assoluto»58.

2. La Dottrina della scienza non viene configurata come una scienzadell’Assoluto, perciò neanche come un sapere assoluto; la WL non può assumere ilpunto di vista dell’Assoluto nel suo farsi come scienza prima, in quanto il suo ogget-to è se stessa e la sua definizione combacia con la sua realizzazione: il processo diautogiustificazione della WL è la WL come tale, e non si ha — come accade in Hegel— un sapere che sia realizzazione (realtà) dell’Assoluto come tale. Ma l’Assolutosecondo Fichte è forma del sapere, cioè la sua configurazione come sapere è tale soloin quanto manifestazione dell’Assoluto59.

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57 Cfr. J.M. MANZANA MARTINEZ, L’Absolu et son «apparition» absolue..., cit.; id., ElAbsoluto y la «apariencia» absoluta según la «Doctrina del saber» de J.G. Fichte del año1812, «Scriptorium Victoriense», 11 (1964), pp. 241-280; id., El ascenso y la determinacióndel Absoluto-Dios según J.G. Fichte en la «Teoría de la ciencia» de 1804, «ScriptoriumVictoriense», 9 (1962), pp. 7-63, 245-275; M. VETÖ, Idéalisme et théisme..., cit.; id., Lestrois images de l’Absolu. Contribution à l’étude de la dernière philosophie de Fichte,«Revue Philosophique de la France et de l’Étranger», 117 (1992), pp. 31-64; G. SCHULTE,Die Wissenschaftlehre des späten Fichte, Klostermann, Frankfurt 1971.

58 WL 1801, p. 19 (SW, II, 12-13): «Zufördest, welches lediglich darum gesagt wird, um unsreUntersuchung zu leiten, ist durch den bloßen Begriff eines absoluten Wissens soviel klar,daß dasselbe nicht das Absolute ist. Jedes zum dem Ausdrucke: das absolute gesezte zweiteWort hebt die Absolutheit, schlechthin als solche, auf, und läßt sie nur noch in der durch dashinzugesezte Wort bezeichneten Rüksicht, und Relation stehen. Das absolute ist weder einWissen, noch ist ein Seyn, noch ist es Identität, noch ist es Indifferenz beider, sondern es istdurchaus bloß und lediglich das Absolute».

59 WL 1801, p. 19 (SW, II, 13): «Da wir aber in der Wissenschaftslehre, und vielleicht auchausser derselben in allem möglichen Wissen, nie weiter kommen, denn bis auf das Wissen,so kann die W.L. nicht vom Absoluten, sondern sie muß vom absoluten Wissen ausgehen.[...] Vielleicht, daß das absolute eben nur in der Verbindung, in der es aufgestellet ist, alsForm des Wissens, keinesweges aber rein und für sich, in unser Bewußtseyn eintritt».

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3. La forma del sapere — della WL — è la penetrazione della luce assoluta nellacoscienza finita, cioè il vedere stesso del sapere costituisce nel sapere la luce cheviene dall’Assoluto; ma il punto di vista trascendentale considera questo punto diluminosità come una istanza superiore o anteriore ad ogni possibile separazione realedella luce come tale. Il sapere (das Wissen) è l’essere-per-sé (Fürsichseyn) perché èl’unità superiore in cui non c’è né una istanza puramente interiore o soggettiva eneanche una istanza esteriore o oggettiva, ma l’intima unità superiore di essere esapere, o di libertà e sapere. Questa unità è l’interiore vedere della luce60.

4. Comunque si può parlare di una assolutezza del sapere in quanto s’innalza alpunto di vista superiore, cioè in quanto è ciò che è e perché è: la giustificazione delsapere a partire da se stesso costituisce un in sé-per sé (in sich-für sich), il darsi di sestesso che non può essere altro che luce e visione pura61.

Queste dimensioni dell’assolutezza implicano diversi livelli o ambiti. Infattil’Assoluto di cui non si può affermare predicativamente nient’altro che non sia la suaassolutezza, è al tempo stesso l’origine della luce. Ma la luce non viene vista dallaWL nell’Assoluto, ma è vista nella stessa WL come supremo sforzo di autoriflessionee autogiustificazione: coll’arrivare della WL al punto primo che giustifica se stessa ela totalità del sapere, si raggiunge la luce costitutiva della WL, che a sua volta vieneconcepita come un certo assoluto, cioè come il vedere assoluto, incondizionato e con-dizione di possibilità di qualsiasi sapere e forma di coscienza. Ma il vedere assolutodella WL non è il vedere dell’Assoluto né vedere l’Assoluto come tale. L’Io non rag-giunge altro che un punto di vista superiore, trascendentale e unico come origine egiustificazione del sapere; ma questo punto è assoluto solamente in quanto non giu-stificato se non da se stesso, in quanto non relativo a nessuna ulteriorità nell’ambitodel sapere. L’Assoluto invece è l’irraggiungibile fonte della luce che viene affermatocome tale dalla luce del principio supremo della WL: si tratta infatti di una afferma-zione indiretta e per via di condizione. L’Assoluto come condizione della luce finita èimmagine; e quest’ultima come condizione dell’Assoluto mostra che questo sola-mente è affermabile a partire dal raggiungimento del punto di vista trascendentale.

Il raggiungimento dell’Assoluto quindi non è possesso oggettivo della cosa,che significherebbe, nella prospettiva di Fichte, una doppia riduzione: da una parte,l’Assoluto sarebbe considerato nel limite dell’oggettività e perciò gli sarebbe attri-

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studi

60 WL 1801, p. 25 (SW, II, 19): «Nicht das ruhende Seyn ist das Wissen, und eben sowenig istes die Freiheit, sagten wir, sondern das absolute sich Durchdringen, und Verschmelzen bei-der ist das Wissen. Sonach ist eben das sich Durchdringen, ganz davon abgesehen, was sichdurchdringe, die absolute Form des Wissens. Das Wissen ist ein für sich seyn, und in sichseyn, und in sich wohnen, und walten, und schalten. Dieses Fürsichseyn eben ist der leben-dige Lichtzustand, und die Quelle aller Erscheinungen im Lichte, das absolute substantielleinnere Sehen, schlechthin als solches». Un ulteriore chiarimento dell’essenza del sapereviene dato in WL 1801, p. 26 (SW, II, 20): «Besteht, wie aus dem eben gesagten einleuchtet,in diesem für sich seyn das eigentliche innere Wesen des Wissens, als eines solchen (alseines Lichzustandes, und Sehens): so besteht das Wesen des Wissens eben in einer Form(einer Form des Seyns, und der Freiheit, nemlich, ihrem absoluten sich Durchdringen), undalles Wissen ist seinem Wesen nach formal».

61 WL 1801, p. 27 (SW, II, 20): «Das Wissen ist in sich, und für sich als Wissen; und durchausnur als Wissen. Es ist als Wissen absolut, was es ist, und weil es ist. [...] Es ist daher für sichabsolut und engreift sich selbst und hebt an, als eigentlich formales Wissen, [...] alsLichzustand und Sehen, nur, inwiefern es absolut ist».

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buibile qualsiasi predicato — in grado assoluto — a partire dalla capacità configura-tiva della ragione; ma il sapere che non sia il sapere supremo della WL è sempreconoscenza del reale finito e quindi la ragione predicativa non farebbe altro nei con-fronti dell’Assoluto che “conoscerlo” come qualsiasi altro oggetto di sapere. Questaequiparazione di oggettività varrebbe di fatto la riduzione dell’Assoluto a qualcosadi finito: cioè l’oggettività nasce nell’ambito della ragione finita e soltanto in essama, allo stesso tempo, appartiene soltanto alla ragione finita in quanto riferita allacosa finita. Da ciò quindi la seconda riduzione e cioè che la considerazione oggetti-va dell’Assoluto non sarebbe altro che predicare di esso che è cosa. Se la via inveceintrapresa dalla WL è quella del sapere e della ascesa, attraverso il sapere stesso,fino al primo principio autoevidente62, ciò che intende fare Fichte è proporre unpunto di vista in cui l’oggettività venga messa al bando: attraverso l’oggettività nonsi giustifica, secondo il nostro, il sapere; attraverso essa solo si conoscono “cose”,cioè il suo ambito è quello delle scienze.

Il sapere del sapere non è quindi oggettivo in questo senso: la WL non ha peroggetto se non l’assolutezza del sapere, non in quanto riferito ad un oggetto assolutoma in quanto non riferito ad altro che non sia l’evidenza del primo principio; se ilprincipio del sapere è trovato dal sapere dev’essere necessariamente autoevidentenell’ambito stesso del sapere; e questo ambito di sapere sarà quindi non oggettivo. Seoltre a ciò è possibile un’affermazione dell’Assoluto come qualcosa di reale, non losarà nella linea dell’oggettività ma in quella della WL, ossia del sapere autofondante.Con ciò la ricerca dell’Assoluto viene delimitata dalla questione del limite del pen-siero, colto nello stesso cogliersi come sapersi, o come sapere di se stesso. Comeabbiamo letto prima, Fichte fa di questo cogliersi del sapere un certo assoluto perchéil primo principio si pone oltre la distinzione di sapere e libertà, cioè come puronucleo attivo del soggetto. Sapere e libertà costituiscono in confronto con la attivitàfondante una scissione di questa, cioè una determinazione: il sapere si determinaverso l’oggetto e la libertà verso l’agire morale. L’unità dell’atto prima della scissio-ne costituisce il limite ultimo della soggettività e perciò il limite a partire del quale sipone la questione dell’Assoluto reale. L’Assoluto come infinito non può presentarsifinitamente e in un certo senso appare come la controforma del limite della WL.Controforma significa l’esteriorità dell’Assoluto riguardo al sapere e, allo stessotempo, la sua implicazione a partire del sapere. L’immagine quindi è la mediatriceche appartenendo al limite finito evoca l’infinitezza dell’Assoluto come la luce pre-sente nella vita dell’Io63.

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62 M. GUEROULT, L’évolution et la méthode..., cit., p. 163: «Par là, nous presentons que si leMoi comme sujet philosophant est incontestablement représentatif, le Moi comme objet dela philosophie pourrait bien être quelque chose de plus: l’action première de l’esprit humainserait le fondement de la répresentation; une science bâtie seulement sur le concept dereprésentation ne saurait donc être qu’une propédeutique».

63 J. CRUZ CRUZ, J.G. Fichte: Doctrina de la ciencia, cit., Introducción, p. XXXVI: «El saberabsoluto encerrado en sí mismo, tiene una relación-de-imagen con el Absoluto, y en expli-carla estriba la marcha de la Doctrina de la ciencia. El saber absoluto señala al Absolutocomo fundamento originario por encima de sí mismo. El Absoluto sólo es en el saber (Yoabsoluto), pero en tanto que está sobre todo saber».

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2.3. Apparizione e Assoluto

«Al di fuori di Dio non esiste, realmente e nel vero senso del termine, nientealtro che il sapere: e questo sapere è la stessa esistenza divina, puramente e semplice-mente, e nella misura in cui siamo il sapere, noi stessi, nella nostra radice più profon-da, siamo l’esistenza divina»64. Queste parole pronunciate da Fichte davanti a unpubblico non specializzato costituiscono comunque una sintesi di notevole forzariguardante la questione dell’immagine. Come previamente esaminato, l’accesso aDio non ha in Fichte il carattere di una prova della realtà dell’esistenza di Dio insenso classico65, ma non si tratta neanche, come potrebbe far pensare di primo acchi-to il testo sopra citato, di un caso di panteismo. L’esistenza divina, di cui parla ilnostro, non ha appunto un carattere metafisico nel senso che si possa pensare che cisia identità di essere fra l’uomo e Dio; «siamo l’esistenza divina» significa più preci-samente: l’Assoluto si manifesta in noi attraverso il sapere66.

Le parole della quarta lezione dell’AsL hanno un contenuto che Fichte avevadiscusso nella lezione precedente in cui si era proposto — e lo aveva proposto ai suoiuditori — il compito di «pensare con rigore l’essere»67. In questo ambito Fichte face-va una distinzione di non poca importanza per la questione: fino a quel momento e apartire dai vari ragionamenti fatti, Fichte aveva pensato l’essere come Uno e noncome molteplice, cioè come «un essere chiuso, nascosto e assorbito in se stesso»68. Econtinuava: «ma non giungono (Loro) ancora affatto a un’esistenza, dico a un’esi-stenza, a una manifestazione e rivelazione di questo essere»69. Lontano da una con-traddizione, Fichte propone in questo caso una distinzione che svolgerà un ruolochiave nello sviluppo dell’AsL, e cioè quella fra essere ed esistenza. L’essere ha quiun carattere metafisico chiaro in quanto Fichte lo caratterizza come immutabile edeterno70: ciò che prima abbiamo riferito col termine di Assoluto diventa, nelle lezionisulla vita beata, l’essere che si trova al di là di ogni singolo mutevole e temporale;l’Uno concepito quasi in senso neoplatonico, rappresenta nell’ambito di queste lezio-ni la fonte della vita e della felicità, ma al contempo lo si vede come profondamentedistaccato dal mondo in cui tutto scorre, si muove e scompare. La preoccupazione diFichte è quindi riportare questo essere, l’Assoluto, al mondo della vita e alla vitadegli uomini. Ma come affermava nel primo testo citato: al di fuori di Dio non esisteche il sapere. Con questo indica, da un altro punto di vista, la stessa tesi prima accen-nata e cioè che il punto di vista trascendentale offre una possibilità di accesso

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64 Die Anweisung zum seligen Leben (=AsL), SW, V, 448 (286). Per le traduzioni in italiano,cfr. J.G. FICHTE, La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Guida Editori, Napoli1989; le pagine di questa edizione fra parentesi.

65 In questa linea casomai si potrebbe pensare ad un’argomentazione da elencare fra i diversiargomenti ontologici, anche se la distanza riguardo a quest’ultimi delle argomentazioni diFichte per quanto si riferisce alla dialettica Assoluto-immagine, Assoluto-manifestazione, èpiuttosto grande.

66 Per un’analisi del concetto di manifestazione (Erscheinung) nell’ultimo Fichte, cfr. i giàcitati articoli: M. VETÖ, Idéalisme et théisme..., e J.M. MANZANA MARTINEZ, L’Absolu et son«apparition» absolue..., specialmente pp. 402 e ss.

67 AsL, SW, V, 438 (276): «das Seyn scharf zu denken».68 AsL, SW, V, 439 (277).69 Ibidem.70 Cfr. ibidem.

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all’Assoluto soltanto attraverso la WL in modo tale che, se ora nella AsL l’Assoluto sipresenta come il Dio, origine della vita e fine della felicità eterna, la questione conti-nua ad essere sostanzialmente la stessa: la questione della felicità, la realizzazioneetica e la pienezza della vita morale dell’uomo hanno a che vedere con Dio in modoradicale, ma anche e soltanto attraverso la WL.

Ciò che prima era rimasto nascosto era appunto ciò che Fichte stesso dice a suoiascoltatori: si è pensato all’essere come ciò che è Uno, eterno e non mutevole; occor-re quindi stabilire il nesso fra questo essere e la vita mondana. La risposta viene pro-posta in chiave metafisica e allo stesso tempo senza abbandonare la chiave trascen-dentale: l’essere si distingue dall’esistenza. L’esistenza è ciò che ci appare; ciò chegiudichiamo come essere. Fichte fa appello al modo comune di giudicare: giudichia-mo che ciò che vediamo è. E proprio questo è l’esistenza: «l’esistenza dell’essere è lacoscienza, o la rappresentazione dell’essere»71. L’apparire esige la fonte che si mani-festa, la manifestazione stessa e il qualcuno cui la manifestazione si manifesta. L’esi-stenza è quindi la manifestazione dell’essere nella coscienza72. La fonte continua adessere Dio o l’Assoluto, e la manifestazione è l’immagine. Ma con questo l’essere,cioè l’Assoluto, diventa esistente73, cioè si manifesta nell’esistenza non come è in sé,nella sua eternità ed unità, ma nella molteplicità della rappresentazione in modo taleche ogni giudizio sul mondo non è altro che un giudizio sul Dio manifestato74. Illimite trascendentale, il percorso giudicativo lungo il limite del pensiero, continua adesigere che l’affermazione non abbia come oggetto l’Assoluto ma la sua manifesta-zione come manifestazione. La totalità di ciò che si manifesta, o meglio, la totalitàmanifestata è la totalità dell’esistenza che «deve concepirsi, conoscersi e formarsicome semplice esistenza, e deve porre e formare di fronte a sé un essere assoluto, dicui essa stessa è appunto la semplice esistenza: mediante il suo essere essa deveannientarsi di fronte a un’altra esistenza assoluta; il che presenta appunto il caratteredi semplice immagine, di rappresentazione o di coscienza dell’essere»75.

La manifestazione dell’Assoluto nella coscienza implica la natura riflessivadell’Io, oppure detto altrimenti, la riflessività della coscienza continua ad essere atti-va davanti all’essere manifestato. La domanda che si pone a questo punto è che sel’esistenza è l’essere manifestato in modo cosciente, la coscienza stessa deve potercomprendere in se stessa come possa nascere la manifestazione «e come dall’essereinterno in sé nascosto possa derivare un’esistenza, una manifestazione e rivelazione»dell’essere76. Ma questa risposta non è possibile. Fichte comunque non si ferma

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71 AsL, SW, V, 440 (278).72 AsL, SW, V, 441 (278-279): «Das Bewusstseyn des Seyns, das Ist zu dem Seyn – ist unmit-

telbar das Daseyn».73 AsL, SW, V, 441 (279): «Wir haben sonach, [...] im Denken dazuthun, dass das

Bewusstseyn des Seyns, die einzigmögliche Form und Weise des Daseyns des Seyns, somitselber ganz unmittelbar, schlechthin und absolut dieses Daseyn des Seyn sey».

74 Wissenschaftslehre 1805 (=WL 1805), F. Meiner Verlag, Hamburg 1984: «Das Licht ist die göt-tliche Existenz selbst, – wie wir vom Lichte aufsteigend erkennen; vielmehr aber, wie wir nuneinsehen: die göttliche Existenz ist das Licht: und dies zwar also: das Licht ist nicht an sich, diegöttl. Existenz selber, insofern wir eine solche Existenz noch späterhin zugeben werden; sondernes ist nur die Form, der absolut nothwendige modus existendi der göttl. Existenz [...]».

75 AsL, SW, V, 441-442 (279). Cfr. WL 1805, pp. 54 e ss.76 AsL, SW, V, 442 (280-281).

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davanti ad una risposta negativa. Il motivo del perché l’esistenza non possa compren-dersi nel suo originarsi nella coscienza sta nel fatto che essa è donazione immediataed assoluta, che si trova nel suo esserci come già data in modo tale che non c’è spa-zio per una ulteriore riflessione cosciente e viva, cioè nell’ambito della pura eviden-za: a questo punto la autoevidenza significherebbe che l’Assoluto diventa evidentenel suo manifestarsi, nel suo darsi, in modo tale da far scomparire la distinzione frafinito ed infinito, fra coscienza ed essere, fondendosi in una unica esistenza o identitàdi unità e molteplicità. La riflessione non può mettere più luce di quanta ne abbiaricevuta; l’Io non può andare al di là dell’evidenza del sapersi o dell’autocompren-dersi come origine della propria attività. La donazione è quindi differenza profonda eabissale fra l’Assoluto e la coscienza, cioè, la sua immagine77.

Ma la manifestazione dell’Assoluto nel sapere, «questo modo di esistere delsapere, determinato in maniera immutabile e attingibile soltanto con la comprensionee la percezione immediata, è la vita interna e veramente reale in esso»78. Cioè, seattraverso la dimensione riflessiva della coscienza non si può raggiungere l’evidenzadell’Assoluto, la vita di questo si vive veramente nell’esistenza e al tempo stesso sipuò tentar di capire che cosa è questa vita, non dal punto di vista dell’autoevidenza,ma dal punto di vista essenziale. L’essere reale, cioè non l’esistenza né alcuna imma-gine dell’essere, non può essere immediatamente conosciuto, e ciò «è stato da noichiamato vita»79. Se la manifestazione è l’esistenza dell’Assoluto, niente esiste al difuori dell’Assoluto stesso, cioè non c’è più possibilità né di vita né di comprensioneulteriore o superiore a questo rapporto. La realtà si esaurisce nel limite della manife-stazione. La coscienza però non è in grado di cogliere la totalità dell’esistenza edell’essere perché non é essa stessa l’Assoluto, ma l’immagine in cui esso si manife-sta. Ma il sapere che la coscienza possiede è la sua propria vita che è anche la vitamanifestata; in questo modo «la vita reale del sapere è, nella sua radice, l’essereinterno e l’essenza dell’assoluto stesso, e nient’altro; e tra l’assoluto o Dio e il saperenella sua radice vitale più profonda non c’è separazione, ma i due si confondonocompletamente»80.

L’itinerario che comincia con l’identificazione del primo principio del sapereimplica, nella filosofia di Fichte, il raggiungimento della comprensione della vitaprofonda dell’anima e attraverso essa il raggiungimento della verità radicale del suoessere, cioè l’immagine che la coscienza trova in sé è una manifestazionedell’Assoluto, anzi, la manifestazione costituisce la vita della coscienza. La doman-da, in un certo senso, eterna della filosofia è quella che si pone anche nel limite dellasua propria comprensione, il che, come unico limite reale, non può essere valicato.Fichte ha tentato una via che lo ha portato a questa constatazione: l’autoevidenzadella coscienza ha un limite costitutivo; l’alterità assoluta che non entra nella autoe-videnza si manifesta come vita profonda e come vita donata.

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studi

77 Cfr. WL 1805, p. 116.78 Ibidem.79 AsL, SW, V, 443 (280).80 AsL, SW, V, 443 (281).

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Abstract: The problem of God, or of the Absolut, in the transcendental philosophyhas not a classical metaphysical character; the position of the problem has ansubjective origin, and in Fichte’s philosophy God appears as a certain last point inthe way of the Wissenschaftslehre. The «doctrine of the science» is the theory offoundation of the philosophy and of the totality of sciences: Fichte finds its first prin-ciple in a subjective and last act of the mind. But in a latter period of his thougth, butin continuity with its former philosophy, Fichte maintains that the Absolut appears asan imagine in the conscience: this thesis constitues the possibility of an affirmationof God from an indirect point of view, perhaps the only possible point of view in tran-scendental philosophy.

Daniel Gamarra

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Dio nella modernità: Husserl

ARMANDO RIGOBELLO *

Sommario: 1. L’articolazione del discorso; 2. Dio identificato e posto tra parentesi; 3. Il “Logos diogni essere possibile”; 4. Costituzione e creatività; 5. Garanzia intersoggettiva e veridicità divina;6. Il messianesimo della ragione; 7. Considerazioni conclusive.

1. L’articolazione del discorso

Il metodo fenomenologico husserliano e il vasto contesto speculativo che neconsegue costituiscono un punto di vista privilegiato per cogliere e valutare il nucleoteoretico del pensiero contemporaneo ed in particolare la condizione in cui viene atrovarsi la Trascendenza divina in tale contesto. La fenomenologia da un lato si ponecome metodo radicale rivolto a trasformare la filosofia in scienza rigorosa, dall’altroapre il discorso sul darsi immediato che dalle prime evidenze logiche si estende alleemergenze esistenziali del mondo della vita. In questa duplice e solidale direzione diricerca, la fenomenologia esprime efficacemente le due anime che percorrono tantaspeculazione contemporanea: il rigore razionale analitico e la dimensione esistenzia-le, anime che convergono ed insieme si differenziano di fronte a un tema altrettantoradicale: il tema del senso. La fenomenologia, in un tempo di incombente nichilismo,sembra essere l’ultima spiaggia su cui si combatte la lotta del senso ed in cui si met-tono alla prova le estreme possibilità della ragione e dell’esistenza di convergere inun orizzonte che si ponga al di là di ogni cedimento psicologico e morale e che siapercorso da un’insuperabile istanza di assolutezza. Il tema di Dio, l’interrogativo suldivino a che livello si situano in tale concezione filosofica? Questo è l’argomento checi proponiamo di svolgere nelle pagine che seguono limitandoci alla posizione hus-serliana che della fenomenologia è la più emblematica espressione. Il discorso si arti-colerà attorno ai seguenti punti: l’idea di Dio nel contesto dell’attività costitutivadell’ego trascendentale fenomenologico; la garanzia intersoggettiva e la garanziadivina; l’istanza di infinito nel compito teleologico della ragione.

Alla trattazione dei tre aspetti del tema va premessa una considerazione genera-le che riguarda la compresenza nel discorso husserliano di descrizione eidetica e di

ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 271/286

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* Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Dipartimento di ricerche filosofiche, viaCavaglieri, 00173 Roma

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costituzione egologica, quasi una oscillazione tra la funzione maieutica del vedere,del cogliere attraverso la radicalità della riduzione, il volto più elementare e più pro-prio del fenomeno (su cui poi si articolano le “ontologie regionali”) e la funzionefondante del costituire. Il costituire non si limita infatti a descrivere le intuizioni eide-tiche ma ne analizza il costituirsi nell’io. La costituzione è donazione di senso che sisvolge a-priori nel contesto trascendentale dell’io che dona senso riconoscendo e chelo riconosce donandolo. Le analisi fenomenologiche si fondano appunto nelle evi-denze apodittiche dell’ego la cui descrizione non è descrizione di dati emersidall’esperienza, ma di contenuti a-priori. Tale a-priori non è, come in Kant, condi-zione di conoscenze, ma è già conoscenza di articolazioni di senso che costituisconole evidenze apodittiche dell’ego. Dalla fenomenologia eidetica si passa così alla feno-menologia trascendentale che ne costituisce la radicalizzazione e in cui si attua larivoluzione copernicana di Husserl, il raggiungimento della terra promessa di unascienza fenomenologica. In tale scienza, cui sono dedicate, tra le altre, le ultime pagi-ne della Quinta meditazione cartesiana, trovano il loro fondamento le operazionidelle scienze ingenuamente positive: il loro livello non è radicalmente critico e rin-viano alle operazioni originarie dell’ego costituente in cui si chiarisce anche l’oriz-zonte intenzionale.

Ci siamo soffermati su queste considerazioni come premessa al successivodiscorso poiché il passaggio da una fenomenologia eidetica ad una fenomenologiatrascendentale, passaggio che causò il disagio ed indi il distacco dal maestro di alcunitra i più noti discepoli di Husserl, da Heidegger ad Edith Stein, condiziona notevol-mente il discorso intorno a Dio. Le articolazioni di senso quali evidenze apodittichedell’io finiscono infatti per presentarsi come operazioni della vita di un Assolutoimmanente entro il cui orizzonte trascendentale si risolve tutto il senso della realtà.Siamo di fronte alla versione fenomenologica dell’idealismo trascendentale.

2. Dio identificato e posto tra parentesi

Un noto passo di Ideen ci porta decisamente, pur nella sua brevità, nel cuorestesso della questione di Dio nella prospettiva fenomenologica-trascendentale. Sitratta del paragrafo 58, intitolato “La trascendenza di Dio neutralizzata”, del Libro 1º,sezione seconda, capitolo quarto1. L’argomento si svolge nel contesto della conside-razione fenomenologica fondamentale, ossia della “neutralizzazione dell’atteggia-mento naturale”. Tentiamo di dare ora una parafrasi e un qualche commento del para-grafo in questione. Husserl inizia il discorso osservando come, operata la messa traparentesi del mondo e quindi posta fuori gioco la trascendenza del mondo nei con-fronti della coscienza ridotta, ci si faccia innanzi il tema di un’altra diversa trascen-denza. Questo farsi innanzi non è il presentarsi di un dato immediato di tale coscien-za, come invece avviene per l’io puro (dato immediato della coscienza ridotta), magiunge alla nostra consapevolezza in un modo che richiede un chiarimento. Va dettocomunque subito che questa diversa trascendenza si situa nel polo opposto alla tra-

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1 E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a cura diE. Filippini, Einaudi, Torino 1965, pp. 127-128. Le citazioni che seguono si riferiscono aquesta edizione e traduzione.

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scendenza del mondo nei confronti dell’io, ossia è la trascendenza di Dio, trascen-dente nei riguardi dell’io ed insieme del mondo. Husserl, quando scrive queste pagi-ne, ha già operato la “riduzione del mondo naturale all’assoluto della coscienza” eosserva come tale riduzione abbia messo in luce delle connessioni di fatto (ossiacolte già costituite nella “sfera della visione empirica”), tra percezioni immanenti alvissuto (Erlebnisse) e i sistemi di regole. Questo insieme di convergenze dà luogo adun mondo morfologicamente ordinato, empiricamente rilevabile e che costituisce ilcorrelato intenzionale della coscienza ridotta e rende possibile le scienze “classifica-trici e descrittive”. Questo mondo — continua Husserl — appare come “una naturafisica sottoposta a leggi esatte”, ciò alla luce della teoresi fisico-matematica e limita-tamente agli “stadi inferiori materiali”.

È questo il punto in cui Husserl introduce la considerazione che si riferiscedirettamente al tema dell’esistenza di Dio. Il livello degli accennati stadi inferiori,materiali, empirici non giustificano la razionalità operante in quel mondo “morfolo-gicamente ordinato”, rimane quindi il problema di dove venga la “mirabile teleolo-gia” che ne guida le manifestazioni. Nel mondo empirico, inoltre, agiscono diverseforme di teleologia da quelle biologiche che presiedono allo sviluppo dagli elementa-ri organismi fino all’uomo, a quelle che investono la cultura e i valori. Tutto ciò nonpuò venir spiegato sul terreno naturalistico, ossia con dati di fatto e leggi naturali. Lastessa riduzione fenomenologica porta, al di là del dato e delle dinamiche naturalisti-che, alla questione del fondamento nella coscienza costitutiva di quanto appare sulpiano fattuale. Husserl ribadisce in proposito la necessità di un fondamento meta-naturalistico e precisa che esso è richiesto non tanto di fronte al fatto in quanto merofatto, ma al «fatto come sorgente di possibili e reali valori, crescenti all’infinito». Ciò«impone la questione del suo (suo del fatto come sorgente di valore) fondamento chenon può avere naturalmente il senso di una causa fisica». La conclusione del passoinveste direttamente ed esplicitamente il nostro tema. Husserl non intende soffermar-si «sul modo in cui la coscienza religiosa può condurre al medesimo principio», néaffrontare la questione sul fondamento razionale di tale modalità. Ciò che inveceinteressa, nell’ambito della sua ricerca, è che l’Essere divino extramondano, cosìcome risulta dalle considerazioni razionali prima accennate, verrebbe ad essere tra-scendente non solo rispetto al mondo, ma pure nei riguardi della coscienza: «sarebbedunque un assoluto in senso totalmente diverso dall’assoluto della coscienza, comed’altra parte sarebbe un trascendente in senso totalmente diverso dalla trascendenzanel senso del mondo»2. Questo assoluto totalmente diverso che trascende in formatotalmente diversa non è oggetto di ricerca fenomenologica: «A questo assoluto —continua Husserl e con tali parole conclude il paragrafo — trascendente noi estendia-mo naturalmente la riduzione fenomenologica. Esso deve rimanere fuori del nostrocampo di ricerca, se questo ha da essere il campo della coscienza pura»3.

Vi è un commento di Lévinas su queste pagine che ne pone in luce le difficoltàteoretiche: «È difficile prendere sul serio le brevi indicazioni su Dio che Husserl dànelle Idee cercando nel meraviglioso gioco delle intenzioni costituenti il mondo inmodo coerente, una prova finalistica dell’esistenza di Dio. La monade invita Dio

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2 E. HUSSERL, o.c., p. 128.3 Ibidem.

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stesso a costituirsi come senso per un pensiero responsabile davanti a se stessa»4. Lamonade è naturalmente l’ego, la coscienza pura fenomenologicamente ridotta, l’egocostituente. Il giudizio di Lévinas è forse eccessivo, leggendo le parole di Husserl siavverte comunque che la questione appare per lui marginale, per lo meno sul pianodella ricerca filosofica fenomenologicamente intesa. Al di là delle impressioni stacomunque il fatto che Husserl ritiene validi gli argomenti finalistici addotti per rico-noscere la esistenza di Dio risalendo da una intrinseca teleologia del cosmo e delmondo della vita umana; certamente è un riconoscimento che si collega inequivoca-bilmente al di fuori della ricerca fenomenologica. Quest’ultima anzi per procederedeve mettere tra parentesi Dio. Ateismo metodico, quindi? Più precisamente sipotrebbe parlare di una identificazione della realtà divina e contemporaneamente diuna sua messa tra parentesi.

Per una compiuta intellezione del testo commentato rimane da chiarire il signifi-cato dell’espressione “in senso totalmente diverso” che Husserl usa sia per indicare ladifferenza tra l’Assoluto e l’assoluto della coscienza, sia la differenza tra il trascenderedi Dio nei confronti del mondo e della coscienza e il trascendere della coscienza neiconfronti del mondo. Quell’assoluta diversità corrispondente all’assoluta separazionedel discorso ontologico-metafisico (in senso tradizionale e realistico) dal discorsofenomenologico-trascendentale. Da un lato vi è una trascendenza irriducibileall’immanenza, dall’altro una trascendenza compresa nell’orizzonte intrascendibiledell’immanenza, ossia quella trascendenza “genuina e vera” dell’intersoggettivitàimmanente nell’ego trascendentale e che costituisce lo sbocco finale delle Meditazionicartesiane. La distinzione può essere formulata in modo concettualmente chiaro,rimane tuttavia difficile mantenere l’assolutezza della coscienza al di fuori di una con-siderazione metafisica; è questo l’arduo terreno in cui si situa la ricerca fenomenologi-ca, il livello speculativo in cui consiste la sublime ambiguità della coscienza è ricco disuggestioni, una ricchezza pagata con una neutralizzazione senza ritorni.

Il paragrafo 58, su cui ci siamo soffermati, ha dato luogo ad un’ampia discus-sione tra gli interpreti. Come punto di riferimento in tale discussione potremmo citaredue Autori emblematici di due posizioni tra loro divergenti: Landgrebe e Strasser. PerLudwig Landgrebe la soggettività trascendentale ponendosi come assoluta toglievalidità speculativa all’idea di Dio che tuttalpiù può essere considerata un correlatodell’attività costituente propria dell’ego trascendentale, un ego che finisce per colo-rirsi di panteismo5. Secondo Stephan Strasser invece l’esplicita dichiarazione diHusserl sulla eterogeneità tra l’assoluto della coscienza e l’assolutezza di Dio, tra latrascendenza del mondo e la trascendenza di Dio non lascia dubbi sul fatto che Diosia concepito da Husserl come radicalmente diverso dalla coscienza trascendentale eche il suo modo di essere trascendente sia inteso in forma radicalmente diversa daglialtri modi di considerare la trascendenza6. La diversità della tesi di Strasser da quelladi Landgrebe è tuttavia ridotta se si tiene conto che anche per Strasser l’affermazionehusserliana dell’esistenza di Dio è fatta al di fuori del discorso fenomenologico. Ladifferenza è più di tono che di ordine speculativo. Per Strasser le poche parole sulla

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4 E. LÉVINAS, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967, p. 48.5 Cfr. L. LANDGREBE, Phänomenologie und Metaphysik, Hamburg 1949.6 Cfr. S. STRASSER, History, Teleology and Gott in Husserl, «Analecta Husserliana», vol. IX,

p. 326.

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necessità di riconoscere l’esistenza di Dio, sia pure in un quadro speculativo nonfenomenologico, sono di notevole peso ai fini di intendere l’orientamento personaledi Husserl, per Landgrebe esse appaiono marginali. Strasser arricchisce le considera-zioni fatte ricordando come altrove Husserl parli di Gott als Idee, un’espressione cherichiama l’ideale kantiano dell’idea di Dio, un ideale ad uso regolativo. In Husserl,osserva Strasser, non si tratta tuttavia di un ideale regolativo della conoscenza.Ragione di più per riconoscere come tale idea, nel contesto del discorso husserliano,non sia tanto una “finzione euristica” quanto una “realtà ultima ed assoluta”, sia pureinattingibile attraverso un referto fenomenologico7.

Il discorso su Dio nel pensiero di Husserl non si esaurisce nella discussione sulsenso da attribuire alle argomentazioni svolte nel paragrafo 58 di Ideen, ma si esten-de alla natura dell’Assoluto husserliano e investe quindi il piano fenomenologicovero e proprio, sia nel senso della attività costitutiva dell’io trascendentale che inquello della garanzia intersoggettiva che tale attività costituente porta con sé. Ed è suquesti aspetti, già indicati all’inizio di queste pagine, che vorremmo ora soffermarci.

3. Il “Logos di ogni essere possibile”

Si è visto come Husserl nel già ampiamente citato paragrafo 58 abbia sottoli-neato il “senso totalmente diverso” che si pone tra l’assolutezza di Dio trascendentesecondo la tradizione finalistica e quella che caratterizza l’attività costituentedell’ego trascendentale. Ma si tratta proprio di un “senso totalmente diverso” oppureciò è più una dichiarazione di principio che una nota emergente dalle “cose stesse”?La chiara distinzione tra livello fenomenologico e livello ontologico rimane validaanche quando i due livelli sono considerati in termini di assolutezza? Oppure l’asso-lutezza in quanto tale ontologizza stati di coscienza e operazioni della soggettività? Ilpiano fenomenologico, investito da alcunché di assoluto, trova il suo compimento inuna articolazione di strutture conoscitive che finisce per configurarsi come il logos diogni essere possibile, come uno schema di ontologia concreta. Cercheremo di chiari-re questi aspetti del discorso a partire da alcune pagine della Quinta delleCartesianische Meditationen.

Husserl enuncia, delucida, chiarisce le proprie posizioni spesso ritornando su diesse, tentando di esprimerle con parole diverse, focalizzandone alcuni aspetti, arric-chendole di ulteriori sfumature. Tutto ciò indica certamente lo sforzo di chiarire a sestesso la profondità della propria posizione e, allo stesso tempo, permette di incontra-re frequentemente nei suoi scritti dei periodi, degli incisi all’interno dei periodi, checondensano in poche righe il nucleo centrale del discorso. Spesso vi è solo l’imbaraz-zo della scelta. Prendiamo l’avvio nella nostra indagine da uno di questi brani emble-matici, una pagina del paragrafo 64 della Quinta meditazione cartesiana. «Possiamodire — scrive Husserl — che nella fenomenologia a priori trascendentale trovano laloro origine ed il loro fondamento ultimo (per la ricerca delle loro correlazioni) tuttele scienze a priori in generale; prese in questa loro origine fanno addirittura parte

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7 Cfr. S. STRASSER, Das Gottesproblem in der Spätphilosophie Edmund Husserl,«Philosophisches Jahrbuch», 67 (1958).

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della universale fenomenologia a priori come sue ramificazioni sistematiche»8.Questa fenomenologia trascendentale a priori presuppone un “a priori universale” etale a-priori è indicato subito dopo come il “logos” in cui risiede la condizione dipossibilità nell’intero universo: «Il sistema dell’a-priori si può anche designare comesviluppo sistematico a priori universale, connaturato all’essenza della soggettivitàuniversale e quindi anche dell’intersoggettività; quest’a-priori è l’universale logos diogni essere possibile»9.

Si noti come lo sviluppo sistematico dell’a-priori venga considerato comecostitutivo dell’essenza stessa della soggettività trascendentale; ne discende che talesoggettività si pone come giustificazione a-priori di tutta la possibilità del reale equindi della sua intelligibilità. Ciò porta Husserl a configurare una “ontologia univer-sale” e subito precisa che questa ontologia non va intesa come vuota ontologia for-male poiché le sue strutture formali sono condizione di ogni possibile articolazionedella realtà (“tutte le possibilità regionali dell’essere”). «In altri termini — continuainfatti Husserl — la fenomenologia trascendentale pienamente sviluppata sarebbe perciò stesso una vera e propria ontologia universale; non però una mera e vuota ontolo-gia formale ma anche tale da comprendere in sé tutte le possibilità regionalidell’essere secondo tutte le correlazioni che a queste appartengono»10.

Il discorso di Husserl vuole rendere ragione del formarsi di una ontologia con-creta attraverso il metodo fenomenologico e perciò sottolinea come il quadro ontolo-gico delineato sia quello che risulterebbe da una fenomenologia trascendentale piena-mente sviluppata, connessa direttamente con lo “sviluppo sistematico dell’a-prioriuniversale” sopra ricordato. Nella considerazione fenomenologica trascendentalerisiede “l’origine e il fondamento ultimo” di ogni conoscenza e ne sono implicite lelinee di sviluppo in ogni sua possibile specificazione (le “regioni” del sapere) secon-do la dinamica interna di quel logos che si è visto essere “logos di ogni essere possi-bile”. Due ulteriori specificazioni arricchiscono l’analisi del contesto che stiamo esa-minando. La prima considerazione riguarda il carattere di “universo in sé primo dellascienza con fondazione assoluta” che connota l’ontologia concreta, indicata anchecome “teoria concreta ed universale della scienza” ed inoltre “logica concretadell’essere”11. La seconda considerazione, che è conseguenza della prima, sottolineacome sia possibile in questa “scienza totale dell’a-priori” raggiungere «il fondamentodi una scienza autentica dei fatti e di una filosofia universale in senso cartesiano,ossia una scienza universale dell’essere di fatto basata su fondazione assoluta. Ognirazionalità del fatto sta invero nell’a-priori»12. L’affermazione di una scienza deifatti resa possibile dal riportare il fatto ad una fondazione assoluta a-priori sembradelineare processi interni alla vita dell’Assoluto, al di là del progetto cartesiano, unAssoluto autofondantesi: «La scienza a-priori — continua Husserl — è scienza di ciòche vale come principio cui deve far ricorso la scienza dei fatti per potere infine rice-vere una fondazione di principio. Solo che la scienza a-priori non deve essere inge-nua ma derivare dalle ultime fonti fenomenologiche-trascendentali; in tal modo

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8 E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1970, p. 173.9 Ibidem.10 Ibidem.11 Ibidem.12 E. HUSSERL, o.c., pp. 173-174.

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dev’essere conformata in un a-priori integrale fondato su se stesso e giustificantesi inbase a se stesso»13.

A questo punto possiamo fare un primo bilancio sulla concezione di Dio inHusserl a partire da un esame di considerazioni interne al discorso fenomenologico-trascendentale e non più in sede meta-fenomenologica come nel caso del paragrafo58 delle Ideen. Gli elementi che possiamo raccogliere dall’analisi fatta possono esse-re indicati nell’ordine seguente: l’a-priori universale, fondato e giustificato in base ase stesso, è connaturato all’essere della soggettività trascendentale, origine e fonda-mento di ogni conoscenza; l’ontologia concreta che discende da tale a-priori contie-ne a-priori tutte le possibili articolazioni dell’essere, è logos di ogni essere possibile;la scienza che si sviluppa dall’a-priori universale, proprio della soggettività trascen-dentale, è logica del concreto che raggiunge il fatto, è scienza dei fatti. Questi ele-menti investono la nozione di soggettività trascendentale, quella di scienza e i carat-teri dell’ontologia. Sulla soggettività trascendentale avremo modo di intrattenerci piùinnanzi ponendola in rapporto con l’intersoggettività, ma già fin d’ora possiamocogliere in essa la nota dell’assolutezza divina determinata dal suo essere coessenzia-le all’a-priori trascendentale universale, un a-priori autofondantesi ed autogiustifi-cantesi, che si configura come logos di ogni possibile realtà. Da tale soggettività e datale a-priori discende una scienza che richiama direttamente la scienza divina poichéda un lato la sua validità è completamente garantita a-priori, dall’altro attinge al con-creto, fino alla conoscenza rigorosa del fatto individuale. Si pensi a Spinoza per cuila conoscenza dell’individuale è possibile solo a Dio, oppure alla determinazionecompleta dell’individuale che per Kant è possibile solo nel contesto di tutti i giudizipossibili che si trova soltanto nell’idea di Dio14. L’ontologia, cui perviene la ricercafenomenologica nel suo più compiuto sviluppo, ha la concretezza dell’Assoluto, lesue articolazioni sono quelle di ogni reale possibile, la sua logica è la logica del con-creto.

Sarebbe troppo affrettato concludere che la soggettività trascendentale, connatu-rata all’a-priori universale, è l’equivalente di Dio o dell’idea di Dio. Rimane infattiaperta la questione della differenza tra il livello fenomenologico e quello ontologico-metafisico del discorso, questione che investe pure l’accennata “ontologia concreta”poiché è da stabilire se tale concretezza fenomenologicamente rilevante lo sia anchea livello extra-fenomenologico cioè nel contesto di una considerazione realistica.Una via per addentrarci nell’ardua questione è certamente quella che investe le

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13 E. HUSSERL, o.c., p. 174.14 Spinoza nell’Ethica, propositio XXXI, scholium, afferma che la relazione delle cose con

Dio, la loro dipendenza “secundum essentiam et existentiam”, si può sicuramente dimostra-re con argomenti propri della conoscenza per universali (il secondo genere della conoscenzaspinoziana). Tale dimostrazione tuttavia “non ita tamen Mentem nostram afficit, quamquando id ipsum ex ipsa essentia rei cujuscumque singularis, quam a Deo pendere dicimus,concluditur”. È interessante notare una certa convergenza tra questa intuizione spinozianadella cosa singola nella sua dipendenza da Dio e la teoria di Kant a proposito della determi-nazione completa: la conoscenza adeguata di un singolo oggetto è possibile soltanto sepotessimo investirlo con tutto l’universo dei giudizi possibili, ma la somma di tutti i giudizipossibili è l’idea di Dio. Solo se potessimo rendere costitutiva e non semplicemente regola-tiva tale idea potremmo attingere la conoscenza esaustiva del concreto (Kritik der reinenVernunft, A 571-584; B 599-612. Sono le pagine sull’ideale trascendentale, libro II, cap. III,sez. II).

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modalità con cui la soggettività trascendentale opera, ossia occorre chiarire la naturadella attività costituente. Quale è il vero valore di questa enigmatica parola sospesa,come la stessa fenomenologia, tra l’apertura sul senso della realtà e il conferimenttodi senso? Poiché lo sviluppo della ricerca fenomenologica comporta lo “svilupposistematico dell’a priori universale”, secondo la dichiarazione di Husserl fatta nelcontesto della pagina appena esaminata, sarà bene situare il discorso entro l’itinerariotracciato da Husserl stesso: «Nell’ordine, la prima delle discipline filosofiche sarebbel’egologia delimitata solipsisticamente, la scienza dell’ego ridotto in maniera primor-dinale; come seconda verrebbe poi la fenomenologia intersoggettiva fondatasull’egologia; quest’ultima tratta dapprima le questioni universali per ramificarsidopo in varie scienze a priori speciali»15. La nostra attenzione sarà rivolta soprattuttoalla seconda e terza fase dell’itinerario; la prima parte dello sviluppo della ricercafenomenologica corrisponde a quella “fenomenologia eidetica” che precede la “feno-menologia trascendentale”. Al passaggio da questa prima fase alla successiva si èaccennato all’inizio di queste pagine a commento dell’articolazione del discorso checi proponevamo di svolgere.

4. Costituzione e creatività

«La vita pratica quotidiana è ingenua» afferma Husserl nelle prime considera-zioni del paragrafo 64 della Cartesianische Meditationen, ingenua perché nel suoambito si sperimenta, si pensa, si valuta, si agisce all’interno di “un mondo già dato”e gli atti intenzionali vengono compiuti in modo anonimo16. Se dalla vita quotidianasi passa alla conoscenza del mondo mediante le “scienze positive”, cioè le singolescienze della nostra enciclopedia del sapere, si perviene soltanto ad una “ingenuità diordine superiore”: «La scienza ha la pretesa di giustificare i suoi passi teorici e riposasempre sulla critica», però di fatto la sua critica non è radicale e ritiene originarieoperazioni che riposano invece su atti intenzionali a lei sconosciuti. La critica ultimadella conoscenza è invece «studio ed esame delle operazioni originarie, scoperta ditutti i loro orizzonti intenzionali mediante i quali soltanto può alla fine cogliersi laportata delle evidenze e valutarsi correlativamente il senso ontico degli oggetti, delleformazioni teoriche, dei valori e degli scopi»17.

Le operazioni originarie cui si allude sono operazioni costitutive che rilevano inradice gli orizzonti intenzionali di senso attraverso l’autoesplicazione dell’ego tra-scendentale. Questa autoesplicazione consiste nella costituzione universale e neces-saria delle «forme di un mondo possibile... nell’ambito di ogni possibile formad’essere in generale e del suo sistema di gradualità»18. Anche tenendo nel massimoconto le considerazioni fatte, sarebbe difficile ed affrettato concludere che la sogget-tività trascendentale connaturata all’a-priori universale equivalga alla nozione diDio. Rimane infatti aperta la questione più volte ricordata della differenza tra livellofenomenologico e livello ontologico-metafisico del discorso, questione che investepure l’accennata “ontologia concreta” poiché quella concretezza è sempre relativa al

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15 E. HUSSERL, o.c., p. 173.16 E. HUSSERL, o.c., pp. 170-171.17 E. HUSSERL, o.c., p. 171.18 E. HUSSERL, o.c., p. 172.

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contesto fenomenologico. Si aggiunga anche la altrettanto rilevante questione delmodo in cui il mondo appare alla soggettività trascendentale, un mondo “già dato”.Questa datità limita la sfera di assolutezza dell’ego trascendentale. «La fenomenolo-gia è idealismo — osserva Husserl nel paragrafo 41 della Quarta meditazione — solonel senso di una autoesplicitazione del mio ego come soggetto di ogni possibileconoscere, condotta nella forma di una scienza egologica sistematica, avendo cioè dimira ogni senso dell’oggetto essente che deve appunto aver senso per me comeego»19. Siamo quindi di fronte ad una nuova forma di idealismo trascendentale chetuttavia si differenzia da quello dialettico della filosofia classica tedesca poiché alposto della attività creativa vi è quella costitutiva compiuta esplicitazione di senso(durchgeführte Sinnesauslegung), «condotta su ogni tipo pensabile di essere per me,come ego, e specialmente sulla trascendenza (che mi si presenta realmente datadall’esperienza) della natura, della cultura, del mondo in generale. Ma ciò vale quan-to dire: rivelazione sistematica dell’intenzionalità costitutiva stessa»20. «La prova diquesto idealismo è la fenomenologia stessa»21.

Tentiamo di riesporre il nucleo centrale del discorso ed avanzare una ipotesi. Ilmondo, per la fenomenologia husserliana è già dato, ma la presa di coscienza delsenso del mondo porta a scoprirne la fonte nell’attività costitutiva dell’ego trascen-dentale a-priori. Si tratta di un’indagine che dal dato risale alla genesi svelandone ilsenso. L’indagine, come si è visto, porta all’attività costituente dell’ego trascendenta-le assoluto, una intenzionale esplicitazione che investe d’ogni lato ogni aspetto dellarealtà. Tutto ciò si svolge entro l’orizzonte coscienziale dell’ego costituente, la suarealtà è quella della coscienza trascendentale stessa, non ha bisogno di prova alcuna,si dà con evidenza apodittica. L’ipotesi che avanziamo è che l’ego, la soggettività tra-scendentale a-priori si presentino impegnati in un’attività costituente perché cosìeffettivamente appare alla nostra conoscenza soggettiva che risale dalla ovvietà delmondo quotidiano alle operazioni dell’ego trascendentale. La costitutività ci appari-rebbe come creatività e ravviseremmo nell’Assoluto egologico un Dio immanente sefosse possibile porci immediatamente alla sorgente a-priori invece di avvicinarci adessa attraverso un lungo itinerario di riduzione su riduzione, se fosse possibile violarela neutralità fenomenologica e compiere quell’ “avventura metafisica”, quell’ “ecces-so speculativo” contro i quali Husserl mette in guardia all’inizio del paragrafo 60della Quinta meditazione. All’interno di questa ipotesi anche l’enigma della donazio-ne di senso, che è contemporaneamente esplicitazione e scoperta di senso, verrebbechiarito. L’indagine fenomenologica trascendentale di Husserl verrebbe quindi adessere una esplicitazione della vita ab intra dell’Assoluto compiuta dal suo internostesso da una mente finita, esplicitazione che si rivela compito infinito se consideratadal punto di vista della soggettività singola, non trascendentale. Questa posizionepotrebbe confluire, sotto alcuni aspetti, nella proposta di Ludwig Landgrebe che ritie-ne possibile interpretare la posizione husserliana in senso panteistico.

La questione del senso è connessa intimamente a quella sulla costituzione. Lacostituzione (Konstitution) è donazione di senso (Sinngebung) ed allo stesso tempocompleta esplicitazione di senso (durchgeführte Sinnesauslegung), raggiunge la

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19 E. HUSSERL, o.c., p. 95.20 Ibidem.21 Questa frase manca nella traduzione italiana citata.

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genesi del senso (Sinngenesis). Anche quando Husserl accentua il fatto della dona-zione non ci troviamo mai di fronte ad una costruzione del senso, ma quasi ad un suoriconoscimento attivo, intenzionale che approda alla fonte genetica. L’intenzionalitàinfatti è movimento verso, ma non vuota direzione, la sua stessa attività è condizio-nata dalla meta cui tende, il senso che dona ha la sua premessa nella fonte originariache è sottesa, oggetto di esplicitazione costitutiva. Nell’Husserl più maturo la costitu-zione va assumendo l’aspetto di una funzione, una relazione in cui il conferimento el’esplicitazione appaiono come due volti dello stesso rapporto. Nonostante ciò non sipuò negare che l’operazione costitutiva husserliana rimanga, nel suo fondo, enigmati-ca. Le alterne accentuazioni sul dono o sulla scoperta, le esitazioni in proposito, l’ori-ginalità stessa della nozione non mai completamente portata alla luce fanno dellacostituzione il sintomo di una ambivalenza della fenomenologia trascendentale hus-serliana che discende da quella singolare forma di ontologia senza realtà oggettiva, diconcretezza senza natura che abbiamo già incontrato nelle citazioni dal testo. L’ambi-valenza è tra un discorso ipotetico di realtà virtuale (verrebbe quasi da dire) e undiscorso che, in direzione opposta, scaturirebbe dall’“eccesso speculativo” cui si èaccennato sopra. L’ipotesi di un immanentismo a sfondo panteistico decanta l’ambi-valenza, conduce in realtà la prospettiva husserliana oltre se stessa, ma può esercitareuna funzione euristica nei confronti del tema che ci siamo proposto, ossia quale possaessere il ruolo del discorso su Dio nel contesto della speculazione di Husserl. Nonintendiamo dire che Husserl si riveli, in fondo, un panteista, ma che il panteismopotrebbe costituire una motivata eresia in seno al movimento fenomenologico giuntoal suo maturo livello trascendentale.

5. Garanzia intersoggettiva e veridicità divina

Un ulteriore elemento per individuare e chiarire il ruolo che la concezione diDio gioca nella fenomenologia trascendentale husserliana ci viene dalla problematicainiziale della Quinta Meditazione, ossia dal problema di come superare il solipsismo.È nota la strada seguita da Husserl per rompere l’isolamento provocato dalla messatra parentesi del mondo naturale: la radicalizzazione della riduzione fino al raggiun-gimento della sfera appartentiva e la conseguente presa di coscienza della sferadell’estraneo nella quale si annuncia una presenza singolare e irriducibile alle altre,quella dell’“alter ego” e successivamente della comunità intersoggettiva. Ci riferiamosoprattutto ai noti paragrafi 42, 43 e 44. L’itinerario compiuto da Husserl interessa ilnostro tema poiché nel descrivere i modi della “verificazione concordante” con cui ilrapporto intersoggettivo garantisce l’oggettività del mondo, sia pure del mondo comefenomeno della soggettività, Husserl assume una posizione che in qualche modo puòricordare le argomentazioni con cui Cartesio toglie l’ipoteca sul mondo oggettivofacendo ricorso alla veridicità divina. L’osservazione è di Paul Ricoeur nel suo lucidocommento alla Quinta Meditazione22. In realtà l’analogia appare motivata dall’anali-si dei testi.

«Io ho esperienza degli altri, come altri che sono, in molteplicità d’esperienze

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studi

22 Cfr. P. RICOEUR, E. Husserl. La Cinquième Méditation Cartesienne, in À l’école de la phé-noménologie, Vrin, Paris 1986, p. 198.

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concordanti e variabili», e più oltre: «in ogni caso io esperisco in me, entro il miovivere coscienziale trascendentalmente ridotto, il mondo assieme agli altri; il senso diquesta esperienza implica che altri non siano quasi mie formazioni sintetiche private,ma che costituiscano un mondo in quanto a me estraneo, come intersoggettivo, unmondo che c’è per tutti ed i cui oggetti sono disponibili a tutti»23. L’esito speculativodel discorso è riassunto qualche riga più sotto: «Questo problema si presenta dunquea tutta prima come un problema speciale, quello dell’esserci-per-me degli altri equindi il tema della teoria trascendentale dell’esperienza dell’estraneità, ossia lacosidetta Einfühlung. Ma subito si vede che l’importanza di una tale teoria è moltomaggiore di quel che sembra a prima vista, in quanto parimenti fonda una teoria tra-scendentale del mondo oggettivo»24. Dall’estraneità intersoggettiva prende sensoanche un mondo di “oggetti con predicati spirituali”, ossia il mondo della cultura edei valori propri della spiritualità. L’avvertire l’alter ego, anzi gli altri dà luogo ad unrapporto che allarga la sfera della soggettività stessa e rende consapevoli che la sog-gettività è inclusa in un’intersoggettività, che l’attività costituente dell’ego trascen-dentale non è isolata intenzionalità di un soggetto e supera anche il calore dell’empa-tia che, in fondo, è un sentire privato. Il senso del mondo che ci circonda e dei valorispirituali che in esso fioriscono è garantito dalla consapevolezza di essere inscritti inun orizzonte trascendentale intersoggettivo. L’intersoggettività è il garante del valoreoggettivo di tutta l’attività intenzionale costituente.

Anche per Cartesio la garanzia dell’esistenza della realtà valida per ognuno èraggiunta a partire dalle potenzialità speculative implicite nel cogito, ossia mediantel’idea di Dio che fonda l’esistenza del mondo e che non può ingannarci per la veridi-cità intrinseca alla propria natura. Si rileggano in proposito le pagine della Quartadelle Meditazioni Metafisiche di Cartesio: «dal fatto solo che questa idea (l’idea diDio) si trova in me, ovvero dal fatto che io esisto, io, che posseggo questa idea, con-cludo così evidentemente l’esistenza di Dio e l’intera dipendenza della mia esistenzada lui in tutti i momenti della mia vita, che non penso che lo spirito umano possaconoscere qualcosa con maggiore evidenza e certezza»25 e subito dopo aggiungel’annuncio dell’itinerario che lo porterà a riconoscere l’oggettività del mondo: «E giàmi sembra di scoprire un cammino che condurrà da questa contemplazione del veroDio (nel quale tutti i tesori della scienza e della saggezza sono rinchiusi) alla cono-scenza delle cose dell’universo»26. Non seguiamo Cartesio nell’esporre il suo itinera-rio, il criterio che lo guida è comunque formulato immediatamente dopo: «Poiché, inprimo luogo io riconosco che è impossibile che Dio m’inganni, ché in ogni frode edinganno si trova qualche imperfezione»27. La soggettività trascendentale interpersona-le, la comunità intermonadica di Husserl non sono certo il Dio dell’idea cartesiana;l’ego husserliano è tuttavia, per sua natura, pure esso veridico. La garanzia, in entram-bi i casi, è nella assolutezza, in entrambi i casi si tratta di una garanzia interna al sog-getto, interna ed allo stesso tempo diversa dalla condizione di solus ipse da cui partel’argomentazione, garanzia interna ma erga omnes. Non è nemmeno il caso di ricorda-re che il discorso di Husserl si disegna nell’ambito della coscienza trascendentale

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23 E. HUSSERL, o.c., pp.102-103.24 E. HUSSERL, o.c., p. 102.25 CARTESIO, Opere; vol. I, Bari 1967, p. 232.26 Ibidem.27 CARTESIO, o.c., pp. 232-233.

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ridotta, ambito proprio della fenomenologia, mentre quella di Cartesio conduce diret-tamente all’ontologia, anzi alla metafisica nel senso vero e proprio del termine.Analogie e differenze quindi non mancano, ma ha un suo significato comunque il fattoche l’alterità garante, evinta in entrambi i casi dall’approfondimento dell’ego, sia stataesplicitamente individuata in Dio da uno dei due pensatori, da Cartesio appunto.Sebbene il parallelismo tra le due posizioni non sia privo di notevoli difficoltà, leaccennate convergenze vengono a rafforzare l’ipotesi avanzata nel precedente para-grafo sul carattere assoluto, in qualche modo divino, della soggettività trascendentaleed intermonadica husserliana. Il panteismo implicito nell’orizzonte trascendentalehusserliano ha un qualche antecedente nell’ontologismo implicito nelle articolazionidel cogito di Cartesio.

6. Il messianismo della ragione

L’ultimo aspetto su cui intendiamo soffermarci riguarda la natura teleologicadella ragione husserliana, il suo compito infinito così come emerge già dalle primepagine della Krisis28. Prendiamo l’avvio dal paragrafo 6 dove, delineato un abbozzo distoria della filosofia moderna, Husserl precisa il compito per la ripresa, dopo la crisi ela stanchezza speculativa del nostro tempo, mediante il ritorno ad una «fede in unaragione assoluta che dia senso al mondo, fede nel senso della storia, nel sensodell’umanità, nella sua libertà in quanto attiva possibilità dell’uomo di conferire unsenso razionale alla sua esistenza umana individuale e umana in generale»29. La rea-lizzazione di questo impegno comporta il «portare la ragione latente all’auto-compren-sione, alla comprensione delle proprie possibilità e perciò rendere evidente la possibi-lità, la vera possibilità, di una metafisica — è questo l’unico modo per portare la meta-fisica, cioè la filosofia universale, sulla via laboriosa della propria realizzazione»30. Siconfigura così un «movimento infinito dalla ragione latente alla ragione rivelata e nelperseguimento infinito dell’auto-normatività». La ragione quindi può presentarsilatente oppure rivelata, il suo fine è la omnicomprensione, un fine che ha un orizzonteinfinito in cui esplicarsi. La omnicomprensione è sostanzialmente una autocompren-sione. Possiamo dire che Husserl ha una fede nel significato positivo, unitario e quindirazionale implicito nel “mondo della vita”. La filosofia non ha senso fuori di questaopzione positiva, è una lotta per chiarire questo platonismo di fondo e contro laregressione di una civiltà e società che perdono la percezione e il senso del valore.Questa razionalità universale ci deve essere, è postulata con un atto di fede. Proprioper questa sua presenza postulata, per questo suo situarsi in prospettiva di compito darealizzarsi come telos, come ideale, la razionalità (nelle sue forme particolari e nellesue particolari realizzazioni) è latente o meglio è passata o sta passando da uno stadiodi latenza ad uno di esplicitazione. La ragione è quindi, di fatto, dal punto di vista sto-rico un processo di razionalizzazione, da latente si va facendo rivelata, un processoche indica un compito infinito. Essa tende alla omnicomprensione, che sarà pure auto-comprensione, ed è un tendere aperto, intenzionalmente rivolta ad identificarsi col

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28 Cfr. E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura diE. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1966, pp. 33-47.

29 E. HUSSERL, o.c., p. 42.30 E. HUSSERL, o.c., p. 44.

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proprio ideale, che si configura in qualche modo analogo al kantiano “ideale dellaragione”. Che in Kant ha, come è noto, soltanto un uso regolativo ed è l’idea di Dio.

La razionalità delle scienze positive, nel quadro della prospettiva husserlianache stiamo esponendo, è una razionalità formale, che chiude i fatti entro le propriestrutture analitiche, è una efflorescenza feconda della ricerca umana ma è semplice-mente un defluire laterale del grande fiume della ricerca filosofica che non dovrebbescindersi e ristagnare nelle realizzazioni parziali, ma procedere oltre. La razionalitàche presiede alle singole scienze ed alle tecniche non è la ragione senz’altro, si ali-menta essa stessa di una fonte che non esaurisce in sé. La distinzione e le articolazio-ni sono elementi transitori, storicamente opportuni, ma debbono essere intenzional-mente rivolti a quella unità verso cui procede il filone centrale della ricerca, senzaper questo perdere la loro autonomia operativa. Se la rivelazione potesse essere com-pleta, se la terra promessa potesse essere raggiunta, allora si coglierebbe nella com-prensione assoluta l’unità totale e si perverrebbe anche alla umanizzazione totale delmondo che consiste nella autocomprensione. Questo messianesimo della ragione è digrande interesse per il nostro tema e vorremmo valutarlo approfondendo l’analisidella struttura della ragione, colta in itinere. Se, per così dire, sorprendessimo laragione husserliana in un momento del processo delineato, ci apparirebbe il tipo dirazionalità propria delle scienze particolari ma entro il quadro unitario e prospetticodella ragione in una pienezza che tuttavia ancora costituisce soltanto un orizzonteregolativo. Tra la razionalità esplicita ed operante in tutta la chiarezza delle sue arti-colazioni logiche e la razionalità latente che si appresta alla rivelazione comparesempre un iato che interrompe una continuità da cui tuttavia non si può prescindere.Il punto critico della omnicomprensione-autocomprensione caratterizzante la razio-nalità husserliana sembra essere quindi nell’ardua sutura tra tecniche logiche, propriedelle scienze particolari, e l’ideale della comprensione totale. Ci si dovrebbe muove-re nel più rigoroso razionalismo, ma si parla di ragione nascosta, di ragione rivelata,di fede e si mobilita lo slancio morale per la soluzione del compito. Una fede, unapassione di unità e di totalità di significato pervadono tutta la prospettiva husserliana,ma la progressiva razionalizzazione deve sempre combattere contro un regredimento,un fermarsi al settoriale, insomma contro la perdita di senso. Ed ecco quindi l’appelloalla immagine ed alla forza quasi religiosa di un ideale razionale e regolativo.

Sono proprio rimossi in Husserl quei presupposti “ingenui” che impediscono aKant, secondo la critica husserliana, di saldare l’analitica a-priori con l’ideale dellaragione? Che tipo di razionalità potrà essere quella che si realizza nella comprensionetotale? Il rimando ad una razionalizzazione mai compiuta è forse il segno di una tra-scendenza elusa? Il compito infinito della ragione orientata verso una assoluta com-prensione è certamente segnato da una forte tensione religiosa che richiama dinami-che interne alla soggettività-intersoggettività trascendentali, delineate nei precedentiparagrafi e che qui viene colto in una proiezione temporale di compito storico; dicompito che tuttavia, dato il carattere di infinito che gli è costitutivo, acquista tonalitàmessianiche e il cui orizzonte intenzionale richiama una prospettiva escatologica.Tutto questo accentua il carattere religioso del compito della ragione. L’analogia, siapure parziale, con l’ideale regolativo kantiano, d’altra parte, reca un ulteriore elemen-to per considerare il telos della ragione husserliana un analogo dell’idea di Dio.Analogia non è identità, le differenze rimangono, rimane tuttavia anche un abbozzodi ricerca che si apre ad un ridimensionamento delle differenze.

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7. Considerazioni conclusive

Possiamo raccogliere i disparati elementi di quella che potremmo indicare comela prospettiva teologica di Husserl, elementi certamente tra loro connessi, ma che nonsi possono organizzare in un sistema unitario. Ciò è significativo in un Autore cuinon manca una forte passione sistematica. Da ciò potremmo trarre una prima consi-derazione: sul terreno strettamente fenomenologico, anche a livello di fenomenologiatrascendentale, il tema di Dio, tema metafisico proprio della filosofia classica, nonoccupa un posto di rilievo. In forma esplicita Husserl se ne occupa nel paragrafo 58di Ideen nei modi e nei limiti che si è cercato di chiarire: un riconoscimento dellavalidità degli argomenti filosofici ma non fenomenologici dell’esistenza di Dio;l’estraneità di tale tema alla ricerca fenomenologica.

La nostra ricerca per procedere ha dovuto spostarsi su di un piano diverso: quel-lo della affinità con alcune connotazioni metafisiche dell’idea di Dio. Un discorso suHusserl contro Husserl o, meglio, oltre Husserl, cioè attribuendo impliciti significatimetafisici a considerazioni che Husserl intende invece mantenere sul terreno rigoro-samente fenomenologico. Ciò si riferisce a quanto si è andati dicendo sulla soggetti-vità trascendentale monadica e intermonadica e sulla sua attività costituente, comepure sulla garanzia intersoggettiva nel superamento del solipsismo ed infine sul com-pito infinito della ragione. Il problema pregiudiziale rimane tuttavia quello del rap-porto tra fenomenologia e discorso metafisico. In proposito la conclusione del para-grafo 64 con cui si chiudono le Meditazioni Cartesiane può recare un ulteriore chiari-mento. Avviandosi a terminare il discorso, Husserl sottolinea come il metodo feno-menologico sia incompatibile con quella “metafisica ingenua” che ammette le “cosein sé”, ma non disconosce le istanze problematiche che hanno dato vita a tale metafi-sica, sia pure “tra problemi e metodi errati”31. La metafisica compatibile invece conla fenomenologia è costituita dal plesso problematico che si interroga sui temi “ultimie sommi” come quelli della giustificazione dell’esistenza, dell’esistenza autentica,della morte, della genesi del senso e della storia. Tutto ciò è accolto soltanto “a titoloideale di possibilità di essenza”32, cioè come espressione di tensioni ideali di cui pos-siamo avere referto fenomenologico. Non si tratta di un passaggio dal livello fenome-nologico al piano metafisico, ma dell’attenzione a quanto abbia riferimento a temi eproblemi dell’esistenza radicalmente intesa e dell’ulteriore che sempre ci trascende,attenzione fenomenologica situata nell’orizzonte di senso che la fenomenologia defi-nisce. Si tratta di una metafisica impropria che può più correttamente definirsi feno-menologia delle istanze metafisiche, fenomenologia della coscienza morale edell’esperienza religiosa. I caratteri propri della metafisica appaiono invece implicitiin un’ “auto riflessione universale”: «L’essere in sé primo che precede ogni oggetti-vità mondana e la comprende in sé, è l’intersoggettività trascendentale, la totalitàdelle monadi che si articola in diverse forme di comunità»33. Entro l’intrascendibilesfera monadica appaiono le idee metafisiche ma con la consistenza propria di unfenomeno della coscienza trascendentale ridotta. Tutto ciò è in piena corrispondenzacon il programma fenomenologico fin dal suo primo configurarsi.

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31 E. HUSSERL, Meditazioni Cartesiane, cit., p. 174.32 Ibidem.33 Ibidem.

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Chiariti i limiti del rapporto che Husserl pone tra fenomenologia e metafisica,non ci rimane che cercare tra i frammenti di metafisica implicita nella prospettivafenomenologica un primo abbozzo di risposta al tema che ci eravamo proposti, ossiail posto che occupa il problema di Dio nella fenomenologia trascendentale husserlia-na. Gli elementi su cui ci siamo soffermati presentano tuttavia tra loro notevoli diver-sità, anzi appaiono eterogenei. Uno, quello sulla struttura finalistica del mondo, infat-ti è valido purché lo si prenda in considerazione al di fuori della ricerca fenomenolo-gica, un altro, quello del logos a-priori, si colloca tra ontologia e gnoseologia, unaaltro ancora fa riferimento alla dinamica della costituzione, una attività ambivalentetra la scoperta e la implicita creatività. Due ulteriori elementi investono da un lato iltema delle garanzie conoscitive, dall’altro il compito inesauribile della ricerca comestruttura della razionalità stessa. Questi elementi disparati troverebbero tuttavia reci-proche connessioni se potessero convergere in un nucleo dottrinale, quello appuntodella nozione classica di Dio, un nucleo alluso, indicato come orizzonte intenzionalema mantenuto nel limbo di una ontologia fenomenologica che non gli permette dicostituirsi nella propria identità speculativa. Se la fenomenologia trascendentalegiungesse alla soluzione del compito in vista del quale Husserl l’aveva formulata, eattingesse il livello delle verità metafisiche si attuerebbe l’accennata convergenza: ilfinalismo cosmico si rivelerebbe parallelo con la teleologia infinita della ragione, il“logos di ogni essere possibile” si identificherebbe con la mente divina, cadrebbel’ambivalenza tra l’attività costitutiva e creatività, la struttura ontologico-metafisicarenderebbe superflua la garanzia intersoggettiva, l’infinito e l’assolutezza non si tro-verebbero in conflitto con il già dato, col limite, con la finitezza.

Ma Husserl non ha portato il suo discorso fino a questo punto, il suo progettofenomenologico non è tramontato in una ontologia e tanto meno in una metafisica ditipo classico. Ciò non toglie che l’ipotesi di un suo sviluppo in senso teistico abbia unsuo significato speculativo nella valutazione di logiche interne al pensiero moderno enel giudizio sulla stessa fenomenologia. Il pensiero moderno ogniqualvolta si articolaa livello di assolutezza non può eludere il problema di Dio comunque lo risolva, ed’altra parte il problema di Dio pone la ricerca fenomenologica in situazioni limiteove la singolarità del suo consistere ontologico rivela tutta la sua precarietà. Uno stu-dio intorno all’idea di Dio nella fenomenologia husserliana potrebbe includere ancheun paragrafo sulla fenomenologia della religione, del linguaggio e dell’esperienza reli-giosa, ma ci siamo limitati alla fondazione speculativa dell’idea di Dio e così pureabbiamo tralasciato l’aspetto biografico, sulla personale religiosità di Husserl. Un ade-guato quadro relativo alla fenomenologia della religione come sviluppo di tematichehusserliane è stato tracciato da Angela Ales Bello in Husserl. Sul problema di Dio34.L’Autrice riferisce sul dibattito in corso e sottolinea la rilevanza religiosa della regres-sione al vissuto originario che la Rückfrage husserliana contribuisce a porre in luce.

Xavier Tilliette, in una breve introduzione alla fenomenologia husserliana, dedi-ca al tema che siamo andati trattando alcune pagine che intitola Digressione teologi-ca quasi a sottolineare la secondarietà dell’argomento nel pur vastissimo ambito dellaricerca fenomenologica di Husserl. Il P. Tilliette si chiede «se la rarefazione del divi-

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34 A. ALES BELLO, Husserl sul problema di Dio, Studium, Roma 1985. Si vedano soprattuttole pp. 105-137.

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no nella fenomenologia non sia l’effetto accidentale di una ristrettezza metodica»35.È da questa ristrettezza che nasce l’idea di una filosofia “come scienza rigorosa”,un’idea che oggi appare anacronistica, a meno di una radicale trasformazione dellafilosofia in formalismo analitico, uno sbocco ben lontano dalla concezione husserlia-na del filosofare. Il divieto di ogni “eccesso speculativo” discende dalla pregiudizialemetodologica che isola il divino al di fuori della ricerca.

Eppure è proprio la scelta metodologica della riduzione, della messa fuori giocodel mondo naturalisticamente inteso, che offre l’opportunità della descrizione di con-nessioni di senso che richiamano, come si è già accennato, le dinamiche interne dellavita ab intra di un Dio fonte del senso. Ma tutto ciò rimane ad un livello di limboontologico con tutte le ambiguità che questa collocazione comporta, un’ambiguità ilcui fascino spesso discende da un’esperienza di isolamento in un mondo virtuale. Ilperiodo con cui si chiude la Quinta Meditazione, dopo aver richiamato il detto socra-tico del “conosci te stesso” ed aver affermato che la scienza positiva è scienza di ciòche si è perduto nel mondo, conclude con un programma di ascesi speculativa invista di una nuova pienezza di senso, di una salvezza: «Si deve perdere (verlieren) ilmondo mediante l’epoché, per riottenerlo con l’autoriflessione universale (um sie inuniversaler Selbstbesinnung wiederzugewinnen)». E termina rileggendo Agostinoalla luce della nuova interiorità: «Noli foras ire, dice Agostino, in te redi, in interiorehomine habitat veritas»36. Questa presa di coscienza di se stessi non è la scoperta diuna fonte interiore di senso più intima a noi che noi stessi, ma un’autoriflessione cheè riappropriazione razionale di quel mondo cui si aveva rinunciato con l’ascesidell’epoché. Il presupposto illuministico infatti impedisce all’autocoscienza riconqui-stata di raccogliersi nell’intimità di ciò che le è “più proprio”.

* * *

Abstract: In Husserl, God is identified as cause of the teleological order of theworld, absolute and transcendent; but the divine being falls outside the scope of phe-nomenological study and must be “bracketed”. Husserl insists on a radical distinc-tion between God’s transcendence and that of consciousness. However, the nature ofthe difference is unclear. The analysis of transcendental subjectivity manifests a prio-ri grounds or functions which possess a seemingly divine absoluteness: the Logos ofall possible beings, at once universal and concrete, reminiscent of the spinozian andkantian conceptions of the divine mind; the guarantee of intersubjectivity, analogousto God’s role as the guarantee of truth in Descartes; and a tension toward omni-com-prehension, with religious connotations comparable to those of Kant’s “ideal of rea-son”. As in the case of the transcendental subject’s role as “constitutive” of meaning,a role which is ambivalent between “creativity” and mere “dynamic discovery”, thelimits of the phenomenological method preclude a definitive resolution of the ambi-guity. The question requires a positive confrontation between phenomenology andclassical metaphysics.

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35 X. TILLIETTE, Breve introduzione alla fenomenologia husserliana, a cura di E. Garulli,Itinerari, Lanciano 1983, p. 124.

36 E. HUSSERL, o.c., p. 175.

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Dio e la questione dell’essere in Heidegger

LUIS ROMERA OÑATE*

Sommario: Introduzione; 1. L’assenza di Dio; 1.1. L’epoca della notte del mondo; 1.2. La questio-ne di Dio e la questione dell’essere; 2. La natura onto-teo-logica del pensiero metafisico di Dio;2.1. Il primato della “ratio” e il principio di ragione; 2.2. Il significato dell’oggettivazione; 2.3. IlDio non divino; 3. L’altro inizio: verso il Dio divino; 3.1. L’ultimo Dio e il superamento dellametafisica; 3.2. L’essere pensato dalla differenza ontologica; 3.3. L’essere come l’accadere appro-priante (l’“Ereignis”); 4. L’apparire di Dio; 4.1. Le dimensioni del pensiero dell’essere e la lorounità: il “Geviert”; 4.2. Dal sacro ai divini; 4.3. Il Dio di Heidegger.

Introduzione

M. Heidegger è un pensatore ad un tempo essenziale ed epocale. Infatti, il pen-satore tedesco ha occupato, e occupa tutt’ora, un posto preminente nel pensiero diquesto secolo perché ritorna sulle questioni essenziali di ogni tempo, ripensandole dauna situazione storica assunta in un modo consapevole, il che gli consente di conside-rarle contemporaneamente in dialogo con la tradizione e con lo sguardo rivolto versoil futuro. Più in particolare Löwith sottolinea che Heidegger è un pensatore inquie-tante per i suoi contemporanei per lo stesso motivo per cui lo furono Fichte eSchelling, cioè perché il suo pensiero è associato a questioni religiose1.

Forse il discusso risultato finale del periplo speculativo heideggeriano, siccome— prima o poi — finisce per condurre alla questione di Dio, può essere simbolica-mente rappresentato nell’immagine dell’“uomo pazzo” che annunzia la morte di Dioal mercato, nella nota pagina di Nietzsche. Nella lettura che fa di essa Heidegger sienfatizza, non a caso, l’affermazione con cui il personaggio nietzscheano fa ingressonella scena: “cerco Dio!”, mentre il requiem che Nietzsche gli fa cantare è sostituitoda Heidegger con il de profundis. E commenta: «l’uomo pazzo, invece, — comerisulta chiaramente dalla prima parte del passo, e, più chiaramente ancora, per chi haorecchie per intendere, dall’ultima parte — è colui che cerca Dio invocandolo ad alta

ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 287/313

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* Ateneo Romano della Santa Croce, Piazza di S. Apollinare 49, 00186 Roma

1 Cfr. K. LÖWITH, Heidegger, pensador de un tiempo indigente, Rialp, Madrid 1952, p. 179.Anche O. PÖGGELER (El camino del pensar en Martin Heidegger, Alianza, Madrid 1986) osser-va che il problema di Dio era presente sin dall’inizio del pensiero di Heidegger (pp. 283-291).

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voce. Un pensatore ha forse qui realmente invocato il de profundis? E hanno udito leorecchie del nostro pensiero? O continuano ancora a non udire il grido? Il grido con-tinuerà a non essere udito finché non si incomincerà a pensare. Ma il pensiero inco-mincerà solo quando si renderà conto che la ragione glorificata da secoli è la piùaccanita nemica del pensiero»2.

Come non sentire la voce del medesimo Heidegger nel pensatore che cercaIddio e canta il de profundis per un Dio che non si trova più, il cui canto solo saràcapito da un pensiero liberatosi della ratio? Diversamente da Nietzsche, Heideggernon recita un responsorio (che indica sempre qualcosa di definitivo: requiem aeter-nam dona ei...) dinanzi alla morte di Dio; lui invoca il salmo dell’uomo che, pieno diangoscia di fronte all’assenza di Dio, nel profondo del suo cuore brama, mossodall’anelito e dalla nostalgia, perché Dio torni a farsi presente (de profundis clamaviad te...). Ma, d’altra parte, coincide con Nietzsche sia nella costatazione dello spariredi Dio, sia nell’identificazione della causa della sua assenza: Dio è morto perché noil’abbiamo ucciso. «“Dio è morto”. Questa affermazione non corrisponde a un atteg-giamento di negazione e di astio, quasi significasse: “Non c’è alcun Dio”; ma rispec-chia invece lo sdegno: “Dio è stato ucciso!”. Siamo di fronte al pensiero cruciale; manello stesso tempo la comprensione si fa ancora più ardua. Sarebbe più facile com-prendere il detto “Dio è morto” se significasse: “Dio si è allontanato di sua iniziativadalla sua vivente presenza”. Ma che Dio sia stato ucciso da altri, e per di piùdall’uomo, è cosa inconcepibile»3.

Ma forse il pensiero di Heidegger nella ricerca di Dio alla fine si risolve nellasola indicazione di una possibile via per arrivare a Lui, si conclude cioè nell’anelito,senza riuscire però a trovare Iddio4; da ciò l’immagine ricordata dell’uomo che cantail de profundis, che è lamento per l’assenza, anelito e supplica, ma non ancora gioiaper la presenza ritrovata5.

Quattro sarebbero di conseguenza i temi che si presentano alla considerazionedella questione di Dio nel pensiero di Heidegger: 1) l’assenza di Dio nel nostrotempo, 2) il motivo per cui Dio è sparito, 3) la modalità di pensiero che può cercare ilDio nascosto e, infine, 4) l’esito del sentiero heideggeriano. A questi quattro puntiallude la presente nota sintetica.

1. L’assenza di Dio

1.1. L’epoca della notte del mondo

Richiamandosi a Hörderlin — l’altro punto di riferimento heideggeriano insie-me a Nietzsche nella considerazione del problema di Dio — Heidegger vede lanostra epoca come un tempo indigente nel quale è calata e si estende la notte del

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studi

2 M. HEIDEGGER (=H.), La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», in Sentieri interrotti, LaNuova Italia, Firenze 1979, pp. 245-246.

3 Ibidem, p. 239.4 Cfr. J. B. LOTZ, Das Sein nach Heidegger und Thomas von Aquin, in Atti del congresso inter-

nazionale «Tommaso d’Aquino nel suo VII centenario», vol. VI, Roma-Napoli, pp. 38-41.5 Non è nostra intenzione pronunciarci sul problema biografico di Dio in Heidegger, ma sol-

tanto sulle indicazioni teoretiche della sua opera.

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mondo. La povertà e l’oscurità che invadono con sempre più intensità tutte le sferedel momento attuale non riguardano aspetti accessori: «ormai l’epoca è caratterizzatadall’assenza di Dio, dalla “mancanza di Dio” (...). La mancanza di Dio significa chenon c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e lecose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degliuomini in essa»6. La notte del mondo consiste nella mancanza di quel Dio, che non silimitava ad essere un elemento culturale insieme ad altri; al contrario, la sua assenzasi annuncia con la mancanza di un fondamento che fonda, in modo tale che veniamoa trovarci in un’epoca che, mancando il fondamento, «pende nell’abisso»7.

Il momento storico attuale, epigono finale e definitivo dell’epoca moderna, è cosìconfigurato che l’ente si presenta in quanto tale sotto il dominio della tecnica. Alladomanda sul come “è” oggi in generale l’ente, Heidegger risponde affermando: «qualeesso “è” ci vien detto dal predominio dell’essenza della tecnica moderna, il cui dominiosi manifesta in tutti i campi della vita, come appare dal fatto che si hanno espressionicaratteristiche come funzionalizzazione, massimo rendimento (Perfection), automazio-ne, burocratizzazione, informazione»8. Nell’epoca della tecnica9 le tracce di Dio sisono perse, nascoste o dimenticate sotto il predominio della volontà dell’uomosull’ente, che rende impossibile il lasciar essere l’ente e l’apparire di Dio.

Ciò nonostante non risiede qui il motivo ultimo dell’indigenza del nostrotempo: «nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non sologli dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale.Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre piùpovero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Diocome mancanza»10. Nell’assenza di Dio e nella progressiva incapacità di riconoscerel’assenza come assenza resta legata la sorte dell’uomo in un modo radicale.Heidegger ritiene che all’interno di questo processo storico di impoverimento diventaogni volta più difficile che l’uomo possa trovare lo spazio nel quale raggiungere esviluppare la propria essenza11. Riprendendo una delle note che caratterizzanol’uomo sin da Sein und Zeit (la morte, nella cui anticipazione, operata dal pensiero,l’uomo diventa consapevole del suo essere) avverte: «il tempo è povero non soltantoperché Dio è morto, ma anche perché i mortali sono a mala pena in grado di conosce-re il loro essere-mortali. Essi non sono ancora padroni della propria essenza. Lamorte si ritrae nell’enigmatico»12.

L’assenza di Dio, che si manifesta come mancanza di un fondamento che per-mette all’uomo di trovare nella storia lo spazio in cui soggiornare nella propria essen-za, si costituisce come un processo o destino storico13 che si realizza nell’epoca della

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6 H., Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, o.c., p. 247.7 Ibidem, p. 248. 8 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, in Identità e differenza II, «Teoresi»

(1967), pp. 215-235, qui p. 221.9 «L’espressione ‘tecnologia’ deve servire come caratterizzazione della metafisica dell’epoca

atomica» (ibidem, p. 221).10 H., Perché i poeti?, o.c., p. 247. Cfr. P. DE VITIS, Heidegger e la filosofia della religione, in

AA.VV., La ricezione italiana di Heidegger, Cedam, Padova 1989, pp. 181-202.11 Cfr. H., Perché i poeti?, o.c., p. 249.12 Ibidem, p. 252.13 Cfr. ibidem, p. 249.

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tecnica con la sua definitiva radicalità: «l’essenza della tecnica viene a giorno conestrema lentezza. Questo giorno è la notte del mondo, mistificato in giorno tecnico.Si tratta del giorno più corto di tutti. Con esso si leva la minaccia di un unico intermi-nabile inverno. Frattanto, non solo è tolta all’uomo ogni protezione, ma le tenebreavvolgono l’integrità di tutto l’ente. Ogni salvezza (Heil) è tolta. Il mondo divieneallora empio (heillos). E così, non solo resta nascosto il Sacro (das Heilige) cometraccia della divinità, ma la stessa traccia del Sacro, la salvezza, sembra dissolta. Ameno che non ci siano mortali in grado di vedere la minaccia della mancanza di sal-vezza in quanto minaccia»14.

La domanda che in questo contesto emerge con forza e urgenza dinanzi al pen-siero suonerebbe così: come mai siamo arrivati alla mancanza di Dio, anzi, all’inca-pacità di percepire l’assenza come tale? Perché essa costituisce un destino storico incui è inserito l’uomo? S’intravede una possibile via d’uscita che permetta di recupe-rare lo spazio in cui si manifesti il Dio fuggito e dove l’uomo ritorni alla sua essenza?In Heidegger queste domande puntano verso quel segno che determina il centro delsuo pensiero: l’oblio dell’essere, l’oblio dell’oblio e il bisogno di un pensierodell’essere. «E se questo oblio fosse l’essenza nascosta della povertà del tempo dellapovertà?»15.

È certo che Heidegger ha manifestato più volte la sua estraneità ad un avvicina-mento della filosofia alla teologia, rivendicando il carattere proprio e specifico delpensiero filosofico16, ma è anche vero che non sono meno frequenti le affermazionicirca la unicità del suo pensiero: «numerosi sono i sentieri (Feldwege) sconosciutiche vi conducono. Tuttavia per ogni pensatore ne sussiste uno solo, il suo, quello chegli è assegnato, sulla cui traccia egli deve muoversi in un costante andirivieni, permantenersi in esso come nel proprio, anche se non gli appartiene, e dire ciò che cosìgli risulta»17.

Heidegger si manifesta cauto sulla possibilità di un discorso su Dio all’internodel pensiero dell’essere: «con questa indicazione, tuttavia, il pensiero che rimandaalla verità dell’essere come a ciò che è da pensare, non intende affatto aver deciso peril teismo. Esso non può essere teista più di quanto non possa essere ateo. Ma questonon sul fondamento di un atteggiamento di indifferenza, ma di rispetto dei limiti chesono posti al pensiero come tale, e precisamente da parte di ciò che gli si dà come ciòche va pensato, ossia da parte della verità dell’essere»18.

1.2. La questione di Dio e la questione dell’essere

Nonostante le riserve ora riportate, Heidegger è anche esplicito nell’indicare il

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studi

14 Ibidem, p. 272.15 Ibidem, p. 251.16 Cfr H., Fenomenologia e teologia, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 3-34. Per

Heidegger la «filosofia cristiana» sarebbe un «ferro di legno» (cfr. H., Introduzione allametafisica, Mursia, Milano 1968, p. 19) o un «cerchio quadrato» (cfr. H., Nietzsche II,Neske, Pfullingen 1961, p. 132). Per una discussione del rapporto filosofia-teologia inHeidegger cfr. V. MELCHIORRE, Il linguaggio dell’essere fra filosofia e teologia, in AA.VV.,Heidegger e la metafisica, Marietti, Genova 1991, pp. 191-222.

17 H., La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», o.c., p. 193.18 H., Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, o.c., p. 303.

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modo secondo il quale considera che si deve impostare il problema di Dio: «solo apartire dalla verità dell’essere si può pensare l’essenza del sacro. Solo a partiredall’essenza del sacro si può pensare l’essenza della divinità. Solo alla lucedell’essenza della divinità si può pensare e dire che cosa debba nominare la parola‘Dio’»19. Perciò si domanda: «ma come può l’uomo dell’attuale storia del mondo riu-scire anche solo a domandarsi in modo serio e rigoroso se Dio si avvicini o si sottrag-ga, quando proprio quest’uomo tralascia di pensare anzitutto in quella dimensione incui solamente quella domanda può essere posta? Ma questa è la dimensione delsacro, che rimane chiusa persino come dimensione, se l’apertura dell’essere non èdiradata e, nella sua radura, non è vicina all’uomo. Può darsi che la caratteristica diquest’epoca del mondo consista nella chiusura alla dimensione di ciò che è integro(das Heile). Forse questa è l’unica sventura (Unheil)»20.

La connessione tra il problema di Dio e la questione dell’essere consiste nell’ante-cedenza dell’ultima nei confronti della prima; il che significa che, sebbene il pensierodell’essere ancora non possa pronunciarsi su Dio, è imprescindibile e condiziona il rife-rimento dell’uomo a Dio21. In questo senso è prioritario un pensiero dell’essere in rife-rimento al sacro, e del sacro rispetto a Dio. «L’etere, nel quale soltanto gli dei sono dei,è la loro divinità. L’elemento di questo etere, in cui la divinità stessa è presente, è ilsacro. L’elemento dell’etere per il ritorno degli dei, il sacro, è la traccia degli dei fuggi-ti. Ma chi sarà in grado di rintracciare questa traccia? Le tracce, sovente, sono ben pocovisibili, e sono sempre il retaggio di un’indicazione appena presentita»22.

Si raggiunge lo spazio in cui porre il problema di Dio soltanto nella misura incui ci si avvicina al sacro, il che implica pensare prima di tutto l’essere. E, parallela-mente, ricuperare lo spazio per l’apparire di Dio suppone contemporaneamente einscindibilmente che l’uomo si riappropri della sua essenza: «la salvezza deve venireda là donde proviene ai mortali la svolta della loro essenza»23. Anche qui il pensierodeve incamminarsi verso il sentiero che conduce all’essere giacché «il pericolo con-siste nella minaccia che investe l’essenza dell’uomo nel suo rapporto all’essere e nonin qualche pericolo momentaneo»24.

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19 Ibidem, p. 303. Ma «l’essere non è né Dio né il fondamento del mondo. L’essere è essenzial-mente più lontano di ogni ente e nondimeno è più vicino all’uomo di qualsiasi ente, sia que-sto una roccia, un animale, un’opera d’arte, una macchina, un angelo o Dio» (ibidem, p. 284).

20 Ibidem, p. 303.21 «Pochi sono coloro che sanno che Dio attende la fondazione della verità dell’essere e quindi

il salto dell’uomo nell’esserci! Si ritiene invece che dovrebbe essere l’uomo che aspettaDio. Forse è questa la forma più pericolosa dell’essere-senza-Dio (Gottlosigkeit)» (H.,Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), Gesamtausgabe (=GA), Bd. 65, Klostermann,Frankfurt a. M. 1989, p. 417).

22 H., Perché i poeti?, o.c., p. 250. «Però questo sacro non è semplicemente il divino di una“religione” sussistente, in questo caso di quella cristiana. Il sacro non si può in generale sta-bilire “teologicamente”, perché ogni “teologia” già presuppone lo Theos, il Dio, e questo ècosì vero che sempre dove appare la teologia, il Dio ha già cominciato la sua fuga» (H.,Hölderlins Hymne «Andenken», GA, Bd. 52, pp. 132-133).

23 H., Perché i poeti?, o.c., p. 273. «Per giungere nella dimensione della verità dell’essere inmodo da poterlo pensare, noi, uomini di oggi, siamo tenuti a chiarire anzitutto come l’essereriguarda l’uomo e come lo reclama. Tale esperienza essenziale ci accade nel momento incui capiamo che l’uomo è in quanto e-siste» (H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 282).

24 H., Perché i poeti?, o.c., p. 272.

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Ma qui Heidegger fornisce un’indicazione di natura dialettica: perché la salvez-za incominci ad annunciarsi è imprescindibile che l’uomo si accosti fino all’esperien-za totale dell’assenza di Dio e del fondamento. «Per vedere il pericolo e rivelarlooccorrono mortali che giungano più rapidamente nell’abisso»25, perché «forse ognisalvezza che non provenga da dove ha luogo il pericolo, è ancora sventura (Unheil).Ogni salvezza mediante espedienti (...) non è che vuota apparenza»26. E questo per-ché se si considera l’essenza degli uomini «essi appaiono più vicini alla non-presenza(Ab-wesen) perché sono investiti dall’esser-presente (An-wesen), cioè dall’essere,come è chiaro fin dai tempi più remoti. Poiché l’esser-presente nello stesso tempo sinasconde, esso è già non-presenza. Pertanto l’abisso (Ab-grund) custodisce e ritienetutto»27. L’uomo deve giungere nell’abisso per scoprire i segni che racchiude in sé,vale a dire, i segni degli «dei fuggiti»28 perché nell’abisso s’intravede quell’essere-presente (l’essere) che si nasconde (non-presenza) al pensiero come espressione dellavolontà di dominio.

2. La natura onto-teo-logica del pensiero metafisico di Dio

2.1. Il primato della “ratio” e il principio di ragione

Il richiamo di Heidegger a Nietzsche per fornire una traccia che permetta dicapire il motivo per cui Dio è assente nell’attualità è duplice. Da una parte la mancan-za di Dio fa parte del destino intrinseco del pensiero occidentale, destino che perNietzsche — come per Heidegger — può essere definito nel suo tratto essenziale conil termine nichilismo; dall’altra, la mancanza di Dio, proprio in quanto destino, ha lasua sorgente nella radice del pensiero occidentale, perciò l’annunzio di Nietzschesegnala e la morte di Dio e i suoi responsabili. Ora, se il pensiero dell’occidente è unpensiero metafisico che si è contraddistinto — per Nietzsche, come per Heidegger —in ultima analisi per l’affermazione teoretica di Dio, l’asserzione nietzscheana, nellalettura di Heidegger, finisce per dire che è la metafisica in quanto tale, cioè comemodalità del pensiero, che ha come destino ed esito finale l’allontanamento di Dio.Come è possibile che il pensiero che ha avuto la pretesa di essere il pensiero su Diosia, nella sua essenza, il pensiero della morte di Dio? Sarà così nella misura in cui ildestino della metafisica, cioè lo sviluppo storico delle potenzialità intrinseche dellasua essenza — inizialmente nascoste —, sia di fatto il destino dell’assenza di Dio.Per chiarire in modo esauriente il suddetto destino non è sufficiente l’analisi storica,occorre piuttosto pensare l’essenza della metafisica, da cui derivano le diverse formestoriche in cui è apparsa e che restava paradossalmente nascosta (non-pensata) allametafisica stessa. «Il criterio per un discorso con la tradizione storica è (...) [cercare]un non-pensato, da cui il già-pensato riceve il suo spazio fontale»29.

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25 Ibidem, p. 272.25 Ibidem, p. 273.27 Ibidem, p. 249. «La non-salvezza in quanto non-salvezza ci dà la traccia della salvezza. La

salvezza evoca il Sacro. Il Sacro congiunge il Divino. Il Divino avvicina Dio»(ibidem, p.296). Cfr. H., Nietzsche I, Neske, Pfullingen 1961, p. 352.

28 H., Perché i poeti?, o.c., p. 249.29 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 219.

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Il pensiero in cammino verso l’essenza non-pensata deve compiere quel passoindietro (Schritt zurück) che (passando dal derivato all’originario) conducenell’ambito, finora non considerato, dal quale l’essenza della metafisica e l’essenzadella verità dell’essere possono essere pensate30.

Da sempre — ritiene Heidegger — la metafisica si è caratterizzata come undiscorso teoretico razionale (è logia) incentrato sull’ente in quanto ente (è onto-logia), il quale si conclude con l’emergenza del discorso su Dio (è teo-logia): lametafisica ha una costituzione onto-teo-logica. «La metafisica è teologia, cioè unargomentare su Dio, perché Iddio fa parte della questione filosofica»31. La prima efondamentale domanda che sorge, qualora si avesse la pretesa di chiarire la mancanzadi Dio, è «la domanda su come Iddio entri a far parte della questione filosofica e ciònon soltanto nella filosofia dell’epoca moderna, ma nella filosofia in quanto tale»32.

La domanda è bivalente e unitaria ad un tempo, pone in discussione l’ambito incui s’impone il problema di Dio e contemporaneamente indaga l’essenza della filoso-fia stessa, vale a dire, «la questione ‘come pervenga Iddio nella filosofia?’ rimandaallora alla domanda ‘da dove deriva la struttura onto-teologica dell’essenza dellametafisica?’»33. Porre e discutere questa domanda significa compiere il passo indie-tro con il quale diventa possibile fare luce sul modo in cui si è pensato Dio nellametafisica.

Innanzitutto preme a Heidegger mettere in evidenza il significato del terminelogia, che accompagna comunemente la denominazione delle scienze, indicando intal modo che l’esercizio del pensiero, che di solito si considera scientifico, è sotto laformalità di tale logia: «nel suffisso -logia non si nasconde soltanto la logicità nelsenso del discorso conseguenziale, ed in special modo del procedimento predicativo,che ordina, dirige, assicura e comunica il sapere scientifico. -Logia è rispettivamente(jeweils) la totalità di una connessione fondante, in cui l’oggetto delle scienze vienerappresentato e concepito in rapporto al suo fondamento»34.

Logia indica una modalità del pensare — che oggi è diventata la forma più rigo-rosa e quindi la modalità per eccellenza del pensare — che parte da rappresentazionidel reale, in cui l’ente è colto nella sua verità tramite la sua oggettivazione ed èespresso mediante la proposizione. Sulla base delle rappresentazioni, la logia è ancheprocesso logico che, grazie al discorso conseguenziale, determina le cause-ragioniche spiegano l’ente oggettivato, per finire con un’immagine completa e sistematicadell’ente articolata secondo connessioni fondanti che rapportano l’ente al suo fonda-mento ed è così giustificato e assicurato dal pensiero e per il pensiero. In quanto assi-curato dalla ratio l’ente diventa disponibile alla tecnica.

La metafisica in quanto onto-teo-logia risponde alla modalità del pensiero logi-co: «l’ontologia e la teologia sono ‘logie’, in quanto cercano la spiegazione dell’ente

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30 Cfr. ibidem, p. 219. Passo indietro significa problematizzare, partendo da ciò che è statopensato, per arrivare nell’implicito non pensato, vale a dire, per giungere alla radice od ori-gine del già-pensato. Cfr. H., Dell’essenza del fondamento e Dell’essenza della verità (inSegnavia, o.c., pp. 79-157) per il passaggio del concetto di verità come adeguazione (il già-pensato) alla verità come aletheia (il non-pensato originario).

31 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 223.32 Ibidem, p. 223.33 Ibidem, p. 224.34 Ibidem, p. 225.

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in quanto tale e lo fondano nella totalità. Esse danno ragione dell’essere come fonda-mento dell’ente. Esse rispondono al ‘logos’ (Rede stehen = lo corrispondono) e sonoessenzialmente logos-conformi, logoiformi; sono cioè la logica del logos»35.

Per Heidegger il carattere logico della metafisica costituisce una sua nota essen-ziale, già presente sin dall’inizio della sua storia36. Tuttavia, l’autentica natura e laportata di tale carattere, per quanto riguarda il pensiero dell’ente, dell’essere e, quin-di, di Dio, si manifesta esplicitamente soltanto con la modernità. Inoltre, il pensierologico, nel senso sopra indicato, come modalità del pensiero scientifico, non limita ilsuo campo di applicazione all’ambito delle scienze nel senso stretto; è diventatoinvece la formalità del pensiero che domina preponderantemente la cultura occiden-tale in tutti i campi.

La natura del pensiero logico può essere conseguentemente enunciata in modosintetico tramite il “principio di ragione” formulato da Leibniz con l’espressione nihilest sine ratione. Heidegger ritiene che il principio ora enunciato agiva già da secolinel profondo della cultura dell’occidente, e in modo particolare nella metafisica,anche se solo con Leibniz venne messo in luce esplicitamente37. Il fatto che sia unprincipio indica che si riferisce all’elemento fondamentale dell’atteggiamentodell’uomo di fronte al reale. Infatti, secondo questo principio, si segnala che «l’intel-letto umano in quanto tale, ovunque e ogni qualvolta è in attività, mira subito a sco-vare il fondamento in base al quale ciò che gli capita di incontrare è così com’è (...).L’intelletto pretende che per le sue asserzioni e per le sue affermazioni si dia una fon-dazione»38. Nel principio di ragione viene al linguaggio il nostro modo di abitaresulla terra: «il nostro soggiorno e il nostro andare sulla terra sono ovunque in cammi-no verso delle ragioni, verso il fondamento (...). Sondare il fondo e fondare determi-nano tutto il nostro fare e il nostro lasciar stare»39.

Proprio il fatto che ci siano voluti dei secoli perché il principio di ragione fosseenunciato esplicitamente indica per Heidegger come sia lungo e difficile il camminoche porta il pensiero verso ciò che gli è più vicino, cioè verso ciò che forma la basesulla quale si costituisce, cresce e determina il suo destino40. Il principio leibnizianoè un principio del pensiero in quanto svela cosa significhi in generale conoscere e checosa si debba ritenere conoscenza valida e verità accettabile. Concretamente il princi-pio è enunciato da Leibniz con altre formule equivalenti con l’espressione soprariportata, come quando lo nomina principium reddendae rationis e lo esplicita dicen-do quod omnis veritatis reddi ratio potest41.

Il principio di ragione, nel significato che ha in Leibniz e in generale nellamodernità, si ricollega al rappresentare del soggetto, dove “fornire una ragione” indi-ca giustificare razionalmente le rappresentazioni all’io che rappresenta. «Tutto ciòche si incontra viene presentato, posto in una presenza, rispetto all’io che rappresen-ta, viene ad esso riportato e ad esso offerto. In conformità al principium reddendae

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studi

35 Ibidem, p. 225. In queste pagine Heidegger ha presente soprattutto Hegel, ma la valenzadell’affermazione ha la pretesa di estendersi a tutta la metafisica occidentale.

36 Cfr. H., La dottrina platonica della verità, in Segnavia, o.c., pp. 159-192.37 Cfr. H., Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 17.38 Ibidem, p. 15.39 Ibidem, p. 28.40 Cfr. ibidem, p. 18 e p. 42.41 Cfr. ibidem, p. 47.

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rationis, il rappresentare, se vuole essere conoscitivo, deve fornire al rappresentarestesso il fondamento di ciò che incontra, deve, cioè, renderglielo (reddere)»42.

Ma il principio di ragione, perché principio del pensiero, è anche un principiodell’ente, giacché «per Leibniz e per tutto il pensiero dell’età moderna, il modo in cuil’ente ‘è’ poggia sull’oggettività degli oggetti. L’oggettività dell’oggetto per il rap-presentare comporta l’essere rappresentato degli oggetti», il che significa infine che«qualcosa ‘è’, e cioè si dimostra un ente, soltanto se viene enunciato in una proposi-zione che soddisfa il principio di ragione»43. Secondo la dimensione ontica — e adun tempo noetica — il principio è anche esplicitato secondo la formula principiumrationis=nihil est sine ratione seu effectus sine causa44. La tesi del fondamento sipresenta come un principio nella misura in cui determina il riferimento a tutto ciò cheè, accomunando così i termini ratio e causa (nihil est sine ratione, nihil est sinecausa)45, in quanto è ente soltanto ciò che è rappresentato e quindi «la ragione, ilfondamento, è qualcosa che va fornito all’uomo che rappresenta e che pensa»46.

Nell’analisi finora seguita si prepara l’ultimo passo delle riflessioni diHeidegger intorno al significato del principio di ragione. Tenendo presente che «solociò che si presenta al nostro rappresentare, che ci viene-incontro (be-gegnet) in modotale da risultare posto, posato, sul proprio fondamento, vale come qualcosa che sta inmodo sicuro, che sta di fronte, e cioè come un oggetto (Gegenstand)», e quindi che«soltanto di ciò che sta in questo modo possiamo dire con certezza: esso è»47; alloraall’interno del pensiero rappresentante-fondante si compie il passaggio fino a Diocome ultima ratio rerum48. «Detto in termini estremi, ciò significa: Dio esiste soltan-to in quanto la tesi del fondamento è valida»49, e viceversa50.

2.2. Il significato dell’oggettivazione

Il carattere di logia del pensiero, che fa sì che esso si sviluppi secondo il princi-pio di ragione e che riconduce il che cosa è e il perché è dell’ente alla ratio, determi-na il modo in cui Dio è entrato nella metafisica, condizionando la modalità del pensa-re Dio. Per cogliere di quale Dio si tratta occorre ancora soffermarsi sulle conseguen-ze del carattere di logia del pensiero, il che suppone tornare sul significatodell’oggettivazione in Heidegger.

«Ogni ente è ora o il reale come oggetto o il realizzante come rappresentazioneoggettivante in cui si costituisce la oggettività dell’oggetto. La rappresentazione

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295

42 Ibidem, p. 47.43 Ibidem, p. 49.44 Cfr. ibidem, p. 45. In Tommaso d’Aquino è invece chiara ed esplicita la distinzione tra

causa (piano ontologico) e ragione (piano noetico). Inoltre l’analogia esula dalla visionedella ratio offerta da Heidegger. La modernità come criterio ermeneutico della metafisicarende impossibile la comprensione delle metafische non razionalistiche.

45 Cfr. ibidem, p. 53.46 Ibidem, p. 50.47 Ibidem, p. 55.48 Cfr. ibidem, p. 54. L’espressione già annuncia il nucleo della critica di Heidegger al Dio

della metafisica: questo Dio è deducibile o spiegabile e, quindi, è controllato dalla ratio.49 Ibidem, p. 56.50 Cfr. ibidem, p. 57.

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oggettivante, rappresentando, subordina l’oggetto all’ego cogito. In questa remissio-ne, l’ego cogito rivela ciò che è in base alla sua attività (la subordinazione rappresen-tativa), cioè si rivela come subjectum. Il soggetto è soggetto a se stesso. L’essenzadella conoscenza è l’autocoscienza. Ogni ente è dunque o oggetto del soggetto o sog-getto del soggetto. In entrambi i casi l’essere dell’ente consiste in una rappresentazio-ne che è un porsi-innanzi-a-se-stesso e quindi in un imporsi. All’interno della sogget-tività dell’ente l’uomo assurge a soggetto della sua stessa essenza. L’uomo si costitui-sce nell’in-sorgere. Il mondo si muta in oggetto»51. Oggettivare significa porre qual-cosa dinanzi al soggetto (ob-iectum, Gegen-stand) in modo tale che l’ente così postoresta comprensibile, disponibile e assicurato dal e per il soggetto che rappresenta.Heidegger interpreta l’essenza del rappresentare in quanto imporsi alla luce della dot-trina di Nietzsche della volontà di potenza, la quale costituirebbe lo stato finale dellosviluppo del rappresentare moderno, manifestando la natura definitiva di ciò che sicontiene nella logia, nella misura in cui l’oggettivare presuppone la decisione chel’ente vale come ente solo in quanto diventa oggetto per un soggetto. «Il volere (...) èl’imposizione incondizionata di sé secondo un progetto che ha già posto il mondocome l’insieme degli oggetti producibili. Questo volere determina l’essenzadell’uomo moderno senza che egli si renda conto della sua portata, senza che, atutt’oggi, possa ancora capire in base a quale volontà — assurta ad essere dell’ente— questo volere voglia»52.

L’ultima conseguenza è affermata da Heidegger con tutta la sua radicalità:«questo rapporto fra soggetto e oggetto vale come l’unico ambito in cui si decide inmerito all’ente rispetto al suo essere, in cui si decide, cioè, dell’essere, ma sempre esoltanto in quanto oggettività dell’oggetto, e mai dell’essere in quanto tale»53 giacchél’essere è l’indisponibile simpliciter. Il principio di ragione è l’ambito in cui l’esserein quanto tale non appare, si sottrae, si dimentica. Il primato della ratio che corri-sponde alla logia condiziona l’oblio dell’essere54.

L’appartenenza di ratio, onto-teo-logia e oblio dell’essere determina il modo incui l’essere si è destinato alla metafisica e condiziona la sua storia. Come è statodetto, Heidegger conduce la sua analisi seguendo le indicazioni del pensiero modernogiacché «solo nel mondo moderno tutto ciò comincia a palesarsi come il destino(Geschick) della verità dell’essere dell’ente nel suo insieme»55. Ovvero, con lamodernità diventa chiaro il sostrato essenziale che guidava sin dall’inizio la storia-destino del pensiero metafisico, in modo tale che, nella misura in cui pensare significa

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51 H., La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», o.c., p. 235. Per Heidegger la storia della meta-fisica, da Platone a Hegel, ha cercato sempre di ricondurre la verità come aletheia all’antro-pologia (cfr. H, Beiträge zur Philosophie, o.c., n. 110, pp. 208-222).

52 H., Perché i poeti?, o.c., p. 266, e continua: «la totalità degli oggetti disponibili, che ormaicostituisce il mondo, è sottoposta alla produzione autoimponentesi, è ordinata da questa esottoposta ai suoi deliberati (...). Viene così in chiaro, nel corso della metafisica moderna,l’essenza —a lungo nascosta— della volontà, quale da tempo si andava attuando comel’essere dell’ente» (id).

53 H., Il principio di ragione, o.c., p. 100.54 «La metafisica non si interroga sulla verità dell’essere stesso. Perciò, essa non si chiede

neppure mai in che modo l’essenza dell’uomo appartenga alla verità dell’essere. Non solo lametafisica non ha ancora posto finora questo problema, ma questo problema è inaccessibilealla metafisica in quanto metafisica» (H., Lettera sull’«umanismo», p. 276).

55 H., Perché i poeti?, o.c., p. 267.

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rappresentare l’ente in quanto ente (sia come idea, come sostanza, come ente creato ocome oggetto), il «pensiero metafisico è onto-logia e null’altro»56, cioè non è maipensiero dell’essere. «La metafisica rappresenta l’ente nel suo essere, e pensa cosìanche l’essere dell’ente. Ma essa non pensa l’essere come tale, non pensa la differen-za tra l’essere e l’ente»57.

Come oblio dell’essere il pensiero metafisico è un pensiero nichilista e la storiache sottostà a codesto pensiero è nichilismo: «in ogni fase della metafisica si rende divolta in volta visibile un tratto della via che il destino (Geschick) dell’essere si traccianel seno dell’ente, nelle brusche epoche della verità. Nietzsche stesso spiega metafi-sicamente il corso della storia occidentale, e precisamente come il sorgere e lo svi-lupparsi del nichilismo»58.

Nella misura in cui l’epoca moderna è l’epoca della massima sottrazionedell’essere, in essa si svela totalmente il destino nichilista nascosto della metafisicaoccidentale59. Heidegger non ha dubbi circa la vicendevole appartenenza dei terminionto, teo e logia, affermando che «la metafisica è teo-logia perché è onto-logia. Essaè questa, perché essa è quella»60. Il che significa che il Dio della metafisica poggiasul nichilismo.

Il Dio dell’onto-teo-logia è, quindi, il Dio dell’oblio dell’essere, un Dio che èraggiunto cercando ragioni-fondamenti nell’ambito della ratio oggettivante sottopo-sta all’io che rappresenta e controllata da lui; un Dio che costituisce perciò la ratiodefinitiva, la giustificazione finale, la causa ultima (Ur-sache), l’Ente sommo61.

2.3. Il Dio non divino

Come entra Dio nella filosofia? Di quale Dio si tratta? Nella metafisica«l’essere, come fondamento del fondato, abbisogna di una fondazione adeguata,cioè della causa prima. Questa causa è data come Causa sui. Così suona nella filo-sofia il nome adeguato per Iddio»62. Il Dio della metafisica si viene a trovare rin-chiuso nei limiti della ratio, così diventa un oggetto assicurato dalla ragione e rap-

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56 H., La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», o.c., p. 192.57 H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 276. L’interpretazione heideggeriana della metafisica

è stata fondatamente contestata da più parti: cfr. W. BEIERWALTERS, Martin Heidegger. Lasua tesi dell’oblio dell’essere messa in dubbio dal pensiero neoplatonico, in AA.VV.,Identità e differenza, Vita e Pensiero, Milano 1985, pp. 365-378; C. FABRO, Partecipazionee causalità, SEI, Torino 1960; idem, Tomismo e pensiero moderno, PUL, Roma 1969; idem,Dall’essere all’esistente, Morcelliana, Brescia 1957, pp. 335-419; M. BERCIANO, La críticade Heidegger al pensamiento occidental, UPS, Salamanca 1990, pp. 45-46.

58 H., La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», o.c., p. 192. «In nessun luogo troviamo questaapprensione (Erfahren) dell’essere stesso. In nessun luogo incontriamo un pensatore chepensi la verità dell’essere stesso e quindi la verità stessa come essere (...). La storiadell’essere ha inizio, e certo necessariamente, con l’oblio dell’essere (...). L’essenza delnichilismo risiede nella storia, in virtù della quale, nell’apparire stesso dell’ente come talenel suo insieme, ne è nulla dell’essere come tale e della sua verità» (id., p. 242).

59 Cfr. H., Il principio di ragione, o.c., pp. 98-99.60 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 226.61 Cfr. ibidem, pp. 224-226, anche H., Nietzsche II, o.c., pp. 342-347.62 Ibidem, p. 234. È ovvio che la ricostruzione storica di Heidegger sembra alquanto sommaria.

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presentato come il supra-ente, auto-causa e fondamento-ragione ultima fornito dallaragione a se stessa63.

Heidegger avverte che del pensiero che si muove secondo il principio di ragione«fa parte anche l’assicurazione che qualcosa è inspiegabile. Con simili asserzioni cre-diamo di stare davanti al mistero, come se fosse pacifico che la verità dell’esserepossa essere fatta poggiare su cause e ragioni esplicative o, che è lo stesso, sulla suainafferrabilità»64. Il Dio della metafisica (anche quando lo si crede l’ineffabile) sareb-be sottomesso al primato del pensiero dell’ente in quanto l’onto-logia parte dall’entein generale e cercando il suo fondamento — senza pensare l’essere — diventa teo-logia arrivando all’ente supremo e causa ultima. «Nell’unità dell’ente in quanto tale,in generale e supremo, si fonda la concezione essenziale della metafisica»65.

Per Heidegger la problematicità del Dio della metafisica affiora non appena siguardano le cose dalla prospettiva della religione: «dinnanzi ad un tale Dio l’uomonon può né pregare, né tanto meno offrire sacrifici. Dinnanzi alla Causa sui l’uomonon può porsi in ginocchio riverente, né tanto meno far cantare e danzare il suocuore. Conseguentemente il pensare a-teo, che deve rinunciare al Dio della filosofia,cioè alla Causa sui, è forse più vicino al Dio divino (dem göttlichen Gott). Questaespressione vuol significare soltanto che un tale pensare è più libero (più disponibile)per Lui di quanto la Onto-teo-logia non sia disposta ad ammettere. Possa una taleosservazione rischiarare quel cammino, nel quale un pensare è in via; quel camminoche il passo indietro vien tracciando: al di là della metafisica nella essenza di essa, aldi là dell’oblio della differenza»66.

Dalle premesse ora accennate Heidegger trae la sua conclusione teoretica: «lametafisica è onto-teologia. Chi conosce la teologia nel suo maturarsi storico, sia quel-la della fede cristiana, sia quella della filosofia, preferisce oggi, nell’ambito del pen-sare, tacere su Dio. Difatti il carattere onto-teologico della metafisica è diventatodiscutibile per il pensare, non a motivo di qualsiasi ateismo, ma a motivo dell’espe-rienza di un pensare, al quale, nella onto-teo-logia, si è affacciata la prospettiva diuna unità dell’essenza della metafisica, non ancora pensata»67. L’esperienza di unpensare più originario di cui ci parla il limite della metafisica informa, inoltre, delmotivo dell’assenza di Dio. Detto in altre parole: «l’ultimo colpo contro Dio e controil mondo sovrasensibile consiste nel misconoscere Dio, l’ente dell’ente, assumendolocome supremo valore. Il colpo più duro contro Dio non consiste nel ritenerlo incono-scibile, nel provare la indimostrabilità della sua esistenza, ma nell’innalzarlo a supre-mo valore. Questo colpo non viene inferto da coloro che stanno a vedere e non credo-no in Dio, ma dai credenti e dai loro teologi che parlano del più essente degli entisenza mai impegnarsi a pensare l’essere stesso e senza quindi rendersi conto che quelparlare e questo pensare, considerati in base alla fede, sono la pura e semplicebestemmia di Dio, una volta mescolati alla teologia della fede»68.

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63 «Un Dio che per prima cosa deve provare la propria esistenza è in fin dei conti un Diomolto poco divino, e provare la sua esistenza risulta al massimo un atto blasfemo» (H.,Nietzsche I, o.c., p. 366).

64 H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 273.65 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 227.66 Ibidem, p. 234.67 Ibidem, p. 223.68 H., La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», o.c., pp. 238-239.

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Tacere su Dio, non ripetere la bestemmia di Dio, non significa in Heidegger larinuncia al problema di Dio; vuol dire invece che il compito che ha la filosofia oggi èquello di tornare sulla questione dell’essere e, in essa, risalire alla questionesull’uomo per disporsi alla questione di Dio. Nell’epoca della massima sottrazionedell’essere e dell’assenza di Dio Heidegger vede l’uomo smarrito, fuori e lontano dicasa. La spaesatezza (Heimatlosigkeit) sperimentata dall’uomo che riflette riguarda lapropria e più intima essenza, perché per Heidegger la patria del soggiorno storicodell’uomo è la vicinanza all’essere. «In questa vicinanza si compie, se mai si compie,la decisione se e come Dio e gli dei si neghino e resti la notte, se e come il giorno delsacro albeggi, se e come nell’albeggiare del sacro possano cominciare di nuovo adapparire Dio e gli dei. Ma il sacro, che solo è lo spazio essenziale della divinità, chesola a sua volta concede la dimensione per gli dei e per Dio, giunge ad apparire solose prima, dopo lunga preparazione, l’essere stesso viene a diradarsi ed è esperitonella sua verità. Solo così comincia, a partire dall’essere, il superamento di quellaspaesatezza, in cui non solo gli uomini, ma l’essenza dell’uomo stanno vagando»69.

Come più volte è stato sottolineato, Heidegger non ha fretta nel parlare di Dio,prima occorre arrivare al luogo in cui si dischiude il sacro e diventa possibile l’appa-rire del Dio divino. Per portare a compimento tale desiderio abbiamo bisogno di pen-sare l’essere superando l’oggettività che sottoponeva l’ente all’io, in modo tale che siriconosca e si rispetti il carattere di indisponibilità dell’essere; solo così ci si avvicinaalla sacralità.

3. L’altro inizio: verso il Dio divino

3.1. L’ultimo Dio e il superamento della metafisica

Il Dio divino verso il quale tende il pensiero di Heidegger si prospetta necessa-riamente come l’opposto del Dio della metafisica. Non a caso ha voluto Heideggerintitolare la sezione VII dei Beiträge zur Philosophie con le parole: “L’ultimo Dio”,che sono accompagnate dal sottotitolo: “il completamente Altro contro i passati,soprattutto contro quello cristiano”70. Devono essere superati tutti i modi metafisicidi pensare Dio e Heidegger non esita a ricondurre il Dio della teologia cristiana allametafisica e quindi ad esigere il suo superamento71: «l’ultimo Dio ha la sua più unica

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69 H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 291.70 H., Beiträge zur Philosophie, o.c., p. 403.71 Cfr. lo studio di Regina sul problema di Dio nei Beiträge zur Philosophie, dove ritiene che in

questo testo Heidegger parla del cristianesimo come pensiero teologico ridotto al platonismoe questo al soggettivismo, mentre, sempre secondo Regina, non esisterebbe a priori un’oppo-sizione tra il Dio cristiano non teologizzato e l’ultimo Dio di Heidegger. Piuttosto i titoli“tutt’Altro” e “l’ultimo Dio” starebbero a significare l’impossibilità di arrivare a lui con ilpensiero calcolante. (U. REGINA, I mortali e l’ultimo Dio nei Beiträge zur Philosophie, inAA.VV., Heidegger, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 165-198). Molto più critico si manifestaL. PAREYSON, Heidegger: la libertà e il nulla, «Annuario filosofico», 5 (1989), pp. 9-29.Pöggeler ritiene invece che il modo giudaico, cristiano e greco di pensare il divino sono il“già-stato” che obbliga a passare attraverso l’esperienza nietzscheana della morte di Dio per-ché il nuovo Dio pervenga (El camino..., o.c. p. 209). Cfr. H., Nietzsche II, o.c., p. 29.

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unicità e si mantiene fuori di quella determinazione calcolante che è pensata nei titoli“mono-teismo”, “pan-teismo” e “a-teismo”. Il “monoteismo” e ogni forma di “tei-smo” esiste dalla “apologetica” giudaico-cristiana, la quale ha come presupposto spe-culativo la “metafisica”. Con la morte di questo Dio cadono tutti i teismi»72.

La posizione che assume Heidegger nei confronti della storia della metafisica(come sviluppo del nichilismo legato al principio di ragione) lo porta a tentare unnuovo inizio per il pensiero con il quale inaugurare una nuova storia grazie all’appari-re di un nuovo Dio, l’ultimo Dio, il Dio divino. «L’ultimo Dio non è la fine, ma l’altroinizio delle smisurate possibilità della nostra storia. Per amor suo è permesso alla sto-ria che c’è stata finora di non finire, ma deve essere portata fino alla sua fine»73.

Per allontanare la propensione a pensare Dio metafisicamente e rientrare nellastoria della metafisica, Heidegger sottolinea tre caratteristiche del Dio a cui si riferi-sce: 1) l’ultimo Dio non è la fine ma il più profondo principio (der tiefste Anfang),2) tale Dio si sottrae a qualsiasi calcolo (Rechnung), cioè a quella razionalità dovetutto torna e resta chiaro e fondato per la ratio, e 3) l’ultimo Dio ci chiama con uncenno (Wink), non si manifesta in un modo palese all’uomo. Con lo stesso scopoadopera spesso il termine “gli dei” per indicare, da una parte, l’indisponibilitàdell’ultimo Dio da parte della ratio e quindi l’opposizione di questo Dio all’entesupremo della metafisica; e, dall’altra, la ricchezza di un Dio che in qualche modo ècoinvolto nella storia, come si dirà74.

Ma anche qui il primo passo del nuovo inizio verso l’ultimo Dio riguardal’essere: «l’essere sussiste come il “fra” per Dio e l’uomo, ma in modo tale che que-sto spazio intermedio (Zwischenraum) disponga (einräumt) alla possibilità essenzialeper Dio e l’uomo»75. Per Heidegger l’essere non si trova né sopra né sotto “gli dei”,il rapporto dell’essere con il divino è di natura diversa, ma è tale da potersi affermareche «gli Dei hanno bisogno dell’essere», «gli dei si servono dell’essere»76, per il loroapparire (non soltanto nel senso di apparire alla coscienza umana, ma nel significatoche ha in Heidegger il termine apparire o farsi presente, cioè come anwesen).

3.2. L’essere pensato dalla differenza ontologica

Per trarre l’essere dall’oblio e pensarlo nella sua verità Heidegger identificacome strada percorribile dal pensiero quella che conduce al luogo dove si trova ladistinzione ontologica tra essere e ente (il pensiero diventa una topologia)77. Forse

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72 H., Beiträge zur Philosophie, o.c., p. 411.73 5Ibidem, p. 411.74 Cfr. ibidem, p. 411.75 Ibidem, p. 476.76 Ibidem, p. 438. «Gli dei hanno bisogno del pensare secondo la storia dell’essere, ossia

hanno bisogno della filosofia» (ibidem, p. 438). 77 Per Heidegger l’essere non è riducibile al semplice giacere dell’ente di fronte a me, alla

vuota e positivistica esistenza; ma l’essere non può neanche essere pensato metafisicamentecome la determinazione più generale dell’ente, né come la formalità che costituisce l’ente inquanto ente (l’entità) o l’oggetto in quanto oggetto (l’oggettività). Tanto meno l’essere silascia cogliere come la ragione-causa giustificante dell’ente. In tutti questi casi l’essere cisfugge come ciò che non è disponibile per la ratio: pensarlo come esistenza significaun’impostazione o positivista (ingenua e senza pensiero) o secondo le modalità logiche

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pensando la differenza in quanto differenza, il pensiero riceve un’indicazionesull’essere e, con essa, un chiarimento sull’essenza della metafisica, vale a dire, sulcome è sorta la onto-teo-logia e sul perché l’essere si sia destinato ad essa nel modoin cui lo ha fatto. È chiaro che, se la differenza è essenziale, ogni pensiero dell’ente,anzi ogni pensiero che oblia l’essere, è pur sempre un pensiero che sorge dalla diffe-renza stessa, dove la mancanza consisterebbe proprio nel non averla pensata78.Heidegger è infatti di questa opinione. «Penseremo l’essere in modo concreto (sach-lich), solo se lo penseremo nella differenza con l’ente, e questo nella differenza conl’essere»79. Per calarsi nella differenza Heidegger avverte propedeuticamente cheoccorre evitare il ricorso alle rappresentazioni, le quali ci porterebbero a concepire ladifferenza come una relazione che il pensiero aggiungerebbe all’essere e all’ente permetterli in rapporto80; la differenza è più radicale. Ma offre anche una premessa sullaportata della differenza ontologica: «allora si vedrà che essere significa, ovunque esempre, essere dell’ente, nella cui flessione il genitivo è da intendere come genitivooggettivo... Ente significa, ovunque e sempre, ente dell’essere, nella cui flessione ilgenitivo è da intendere come genitivo soggettivo»81. La differenza distingue, peròcollega, non ci conduce in un essere-in-sé isolato.

Avvicinarsi alla differenza, per cogliere l’origine dell’essenza della metafisica epreparare il pensiero dell’essere, implica muoversi ancora una volta secondo lamodalità del passo indietro che nel suo domandare instancabile si spinge verso l’ori-ginario. In questo contesto Heidegger fornisce un’indicazione precisa sul modo in cuipensare la differenza e, in essa, l’essere: «essere dell’ente significa: essere, il quale èl’ente. L’“è” è detto qui in modo transitivo (con un significato transitivo), passando.L’essere è qui nel modo di un transito verso l’ente»82. Ciò non significa — sottolineaHeidegger — relativizzare la differenza o sottintendere che l’essere lasci il suo luogo(Ort) per passare nell’ente come se quest’ultimo prima fosse senza l’essere e solosecondariamente si collegasse all’essere; ma, neanche, che l’essere, nel passarenell’ente, si snaturalizzi, polverizzandosi nella pluralità degli enti.

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(possibilità-realtà) nella quale il primato è dalla parte del logos che determina le condizionidi possibilità (logiche) dell’essenza perché questa possa esistere; pensarlo come la determi-nazione più astratta o come ragione sufficiente dell’ente sono altri modi di avvicinarsiall’essere sempre sotto il dominio della ratio. In Heidegger, invece, l’approccio all’essere sirealizza sottolineando il primato del senso nella considerazione dell’ente. Il senso rinvia aun orizzonte complessivo di significato in cui l’ente come tale è: tale orizzonte è il mondo(Welt). Nella misura in cui c’è un mondo, ci sono gli enti corrispondenti a quel contestototale di senso, in modo tale che il mondo è l’apertura in cui s’illumina l’ente, ed è presente.Il mondo però ha un carattere storico, il che significa che in nessun mondo si svela comple-tamente l’essere; in ogni orizzonte di senso l’essere si mostra parzialmente (si svela e sinasconde). Il carattere storico, veritativo e di rapporto con l’ente sono tre caratteristiche fon-damentali dell’essere in Heidegger.

78 Cfr. H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 228.79 Ibidem, p. 227.80 Cfr. ibidem, p. 227.81 Ibidem, p. 227.82 Ibidem, p. 229; quando, come in questo caso, la traduzione è stata modificata da noi ripro-

durremo il testo tedesco: «Sein des Seienden heißt: Sein, welches das Seiende ist. Das “ist”spricht hier transitiv, übergehend. Sein west hier in der Weise eines Überganges zumSeienden» (H., Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik, Identität und Differenz,Neske, Pfullingen 1978, p. 56).

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Il problema, stando alle indicazioni viste, consiste nel pensare coerentemente eadeguatamente il passare (Überkommnis) nel suo significato più radicale e origina-rio. La metafisica ha preteso di pensarlo secondo la modalità della ratio oggettivanteche ha portato a rappresentare il passare come un produrre, in modo tale che l’esserediventa il fondamento o ragione ultima nell’ambito di una comprensione dell’enteche lo prospetta sempre come prodotto (effettuato dalla causa efficente, creatodall’Ente supremo o posto dalla coscienza)83. Storicamente le rappresentazioni meta-fisiche dell’essere e del passare hanno avuto forme diverse, il che significa chel’essere — in quanto passare nel senso del produrre come causare-giustificare — sidà di volta in volta nella metafisica «in questa od in quella accezione storica: physis,logos, en, idea, energheia, sostanzialità, oggettività, soggettività, volontà, volontà dipotenza, volontà di volontà»84.

Ma Heidegger ritiene che l’interpretazione produttiva del passare non sia la piùradicale e originaria. In altri termini, dobbiamo ricuperare un pensiero ancora piùradicale, il quale avrà ovviamente la difficoltà di pensare e dire l’essere senza i con-cetti e i termini metafisici consueti nella cultura occidentale85; pensiero, tra l’altro,che ci condurrà verso quella dimensione radicale, essenziale od originaria (come dirsi voglia) dalla quale provengono le interpretazioni storiche delle metafisiche (senzaperò essere stata pensata da esse).

Sulla linea della ricerca dell’originario, Heidegger afferma che l’«essere vuoldire, dall’alba del pensiero occidentale-europeo fino ad oggi, lo stesso che esser pre-sente (Anwesen)»86. Corrispondentemente l’ente è ciò che è presente, il presente opresentato (das Anwesende). Qui di nuovo sorge il problema di pensare non soltantol’ente, ma l’essere; cioè, di pensare la presenza (Anwesenheit) nella quale è presentel’ente, di pensare il far-presente (An-wesen nel senso verbale, Anwesenlassen).«Essere, da cui ogni essente è segnato come tale, essere vuol dire esser presente,ostendersi dell’essere nella presenza (Anwesen). Pensato in riferimento a ciò che cosìè presente (auf das Anwesende), l’esser presente (Anwesen) si mostra come lasciar-esser-nella-presenza, lasciar-esser-presente (als Anwesenlassen). Ma ora si tratta dipensare propriamente questo lasciar-esser-nella-presenza»87.

Per Heidegger l’essere visto dal passare e dal far-presente, nel senso più radica-le, significa che l’essere apre lo spazio in cui appare l’ente, spalanca la radura(Lichtung) nella quale l’ente si fa presente e così è come ente: «lasciar-esser-presentevuol dire: disvelare, portare nell’Aperto (Entbergen, ins Offene bringen)»88. Peròl’essere, nell’aprire la radura, nel far apparire l’ente, si sottrae in quanto essere;l’essere porta nella presenza, mostra, però il mostrare e il portare nella presenza si

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83 Cfr. H., Tempo ed essere, Guida, Napoli 1987, pp. 142-143.84 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 230. 85 «Il linguaggio ci rifiuta ancora la sua essenza, che consiste nell’essere la casa della verità

dell’essere. Il linguaggio si concede piuttosto al nostro semplice volere e alla nostra attivitàcome uno strumento del dominio sull’ente» (H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 272).

86 H., Tempo ed essere, o.c., p. 102.87 Ibidem, p. 106.88 Ibidem, p. 106. «Lo stare nella radura (Lichtung) dell’essere, lo chiamo e-sistenza dell’uomo.

Solo all’uomo appartiene un tal modo d’essere. L’e-sistenza così intesa non è solo il fonda-mento della possibilità della ragione, ratio, ma è ciò in cui l’essenza dell’uomo conserva laprovenienza della sua determinazione» (H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 277).

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occultano per lasciare apparire l’ente. L’essere ha il carattere del ritrarsi(Entzugscharakter), gli corrisponde il nascondimento e il nascondersi (Verborgenheitund Sichverbergen)89.

Invece di soffermarsi a chiarire il significato originario del far-apparire che siocculta, la metafisica ha interpretato l’essere secondo i canoni dell’oggettività: «lapresenza di ciò che è presente è interpretato in Aristotele come poiesis. Questa, rein-terpretata più tardi come creatio, conduce, lungo una linea di grandiosa semplicità,fino alla posizione (Setzung), quale è quella della coscienza trascendentale deglioggetti. Si fa evidente, così, che il tratto fondamentale del lasciar-venire-alla-presen-za è nella metafisica il produrre (Hervorbringen) nelle sue diverse forme»90. La pre-senza a cui vuole richiamarsi Heidegger è più originaria della semplice-presenza(Vorhandenheit) nel senso dell’esistenza di fatto che rinvia a una essenza come possi-bilità (ambito delle modalità), e anche più originaria della presenza come utilizzabi-lità (Zuhandenheit). «Utilizzabilità e semplice-presenza sono modi dell’Anwesen;cioè del venire ad essere nella presenza»91; e, in quanto modi, derivati; e, come deri-vati, sono modi in cui si è interpretata la presenza nella metafisica.

Il passo indietro verso l’originario impensato porta il pensiero — secondoHeidegger — a considerare l’essere in funzione del passare. Alla luce di quanto èstato detto, il passare dell’essere è un pervenire svelando, il quale svela da se stesso ecosì arriva nell’ente. «Arrivo significa: occultarsi nello svelamento, cioè mantenersiocculto: essere ente»92. Heidegger pensa l’essere e l’ente con il gioco di quattro ter-mini: pervenire (Überkommnis) e arrivo (Ankunft), svelare e occultare. «L’essere simostra come il pervenire (Überkommnis) che svela. L’ente come tale appare nelmodo dell’arrivo (Ankunft) che si occulta nella svelatezza»93. L’essere e l’ente pensa-ti così si mostrano come diversi grazie alla differenza, la quale dà e mantiene separa-to il tra (das Zwischen), dove essere come pervenire ed ente come arrivo sono in rap-porto, si separano e si riuniscono94. «La differenza dell’essere e l’ente è, come dif-ferenza tra pervenire e arrivo, la risoluzione (Austrag) svelante-velante di entram-bi»95. Quando il pensiero raggiunge la differenza come risoluzione o diporto(Austrag) di pervenire e arrivo, si pensa l’essere nella differenza.

L’essere come pervenire apre lo spazio (svela) donde l’ente appare (arriva allosvelamento mentre vela la svelatezza e lo svelare). Nell’aprire lo spazio (il mondo,

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89 Cfr. H., Tempo ed essere, o.c., pp. 137-138.90 Ibidem, p. 156.91 Ibidem, p. 109.92 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 229; «Sein geht über (das) hin,

kommt entbergend über (das), was durch solche Überkommnis erst als von sich herUnverborgenes ankommt. Ankunft heißt: sich bergen in Unverborgenheit: also geborgenanwähren: Seiendes sein» (p. 56).

93 Ibidem, p. 229; «Sein zeigt sich als die entbergende Überkommnis. Seiendes als solcheerscheint in der Weise der in die Unverborgenheit sich bergenden Ankunft» (p. 56).

94 Cfr. ibidem, p. 229; «Dieser [der Unter-Schied] vergibt erst und hält auseinander dasZwischen, worin Überkommnis und Ankunft zueinander gehalten, auseinander-zueinandergetragen sind» (pp. 56-57).

95 Ibidem, p. 229; « Die Differenz von Sein und Seiendem ist als der Unter-Schied vonÜberkommnis und Ankunft der entbergend-bergende Austrag beider. Im Austrag waltetLichtung des sich verhüllend Verließenden, welches Walten das Aus- und Zueinander vonÜberkommnis und Ankunft vergibt» (p. 57).

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Welt) l’essere richiama l’uomo perché questi gli corrisponda permettendo che ilmondo sia eretto, s’imponga e perduri. L’uomo è Dasein, dove il da indica la raduraaperta dall’essere e nella quale l’ente, ogni ente, è96. Le accezioni storiche in cuil’essere si dà nella e alla metafisica sono i diversi modi in cui si è pensato l’esseredell’ente, cioè i diversi modi in cui si è interpretato lo svelare e il passare senza pen-sare direttamente allo svelare e al pervenire in quanto tale97, né tanto meno, alla dif-ferenza come diporto che li separa e riunisce, rapportandoli.

L’essere si dà sempre storicamente configurando le diverse epoche a seconda delmodo in cui l’essere, destinandosi, è interpretato dalla metafisica. Che sia l’esserestesso che si destina in modo storico significa, da una parte, che la forma in cui l’esse-re si dà è determinata secondo il modo in cui lo stesso essere si illumina in un’epocastorica98; e dall’altra, che l’esperienza dell’essere e della differenza, cioè il modo incui si pensano l’uno e l’altra, costituiscono i singoli momenti della storia dell’essere99.

La storia dell’essere costituisce l’autentica storia in quanto l’essere si offreall’uomo aprendo lo spazio in cui l’ente appare. Perché si offre storicamenteHeidegger applica all’essere il termine destino (Geschick). «Riferendo la parolaGeschick all’essere, intendiamo dunque dire che l’essere si rivolge a noi e si dirada,e, diradandosi, predispone e concede il lasco di spazio e tempo (den Zeit-Spiel-Raumeinräumt) nel quale l’ente può apparire»100.

I termini storia dell’essere e destino si articolano con i termini visti prima disvelare e velare, di passare e arrivo101. «L’essere è (west) come destino, come sve-larsi che al tempo stesso perdura in quanto velarsi»102 (per questo l’ente comeAnkunft occulta). «L’essere perdura in quanto destinarsi — che si sottrae — del lascodi spazio e di tempo per l’apparire di ciò che, corrispondendo al destino e alla suaingiunzione, si chiama, di volta in volta, l’ente»103.

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96 Cfr. H., Beiträge zur Philosophie, o.c., p. 298. «Il modo in cui l’uomo, nella sua essenzapropria, è presente all’essere è l’estatico stare-dentro nella verità dell’essere. Con questadeterminazione essenziale dell’uomo non vengono dichiarate false e rifiutate le interpreta-zioni umanistiche dell’uomo come animal rationale, come ‘persona’, come essere compostodi spirito, di anima e corpo. Piuttosto, l’unico pensiero è che le supreme determinazioniumanistiche dell’essenza dell’uomo non esperiscono ancora l’autentica dignità dell’uomo»(H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 283).

97 Cfr. H., Tempo ed essere, o.c., pp. 156-157.98 H., La concezione onto-teo-logica della metafisica, o.c., p. 231.99 Cfr. ibidem, p. 231.100 H., Il principio di ragione, o.c., p. 111.101 «Muovendo dalla struttura-destino dell’essere stesso (aus dem Geschick des Seins), il nihil

del nichilismo significa che l’essere è tenuto per nulla. L’essere non entra nella luce dellapropria essenza. Nell’apparire dell’ente come tale, l’essere rimane escluso. La veritàdell’essere sfugge; è dimenticata. Il nichilismo sarebbe dunque nella sua essenza una storiache concerne l’essere. Il non-esser-pensato avrebbe dunque le sue radici nell’essenza stessadell’essere, essendo l’essere stesso a sottrarsi. L’essere si sottrae ritraendosi nella propriaverità. Esso custodisce se stesso e si nasconde in questo custodirsi (...). In tal caso la metafi-sica non sarebbe affatto la semplice dimenticanza di un problema non ancora posto neiriguardi dell’essere. Essa non sarebbe affatto un errore. La metafisica verrebbe ad essere lastoria dell’ente come tale, a partire dalla struttura-destino (Geschick) dell’essere stesso» (H.,La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», o.c., p. 243).

102 H., Il principio di ragione, o.c., p. 131.103 Ibidem, p. 144.

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In questi passi si sottolineano quattro elementi del pensiero dell’essere diHeidegger: 1) il carattere storico-destinale dell’essere, 2) il suo passare nell’enteaprendo il luogo in cui esso si fa presente (Lichtung, Welt)104, 3) il rapporto stretto tral’essere e l’uomo105 e 4) il primato dell’ens ut verum. Tuttavia la dimensione storicaessenziale dell’essere e il suo pervenire nell’ente non implicano assenza di unitànell’essere: «se tuttavia ha una sua verità il fatto che l’essere di volta in volta si desti-na a noi, e inoltre che l’essere, in quanto tale, si concede a noi ed è destinazione, allo-ra, in base a ciò, si ha che “essere” ed “essere” dicono di volta in volta, nelle diffe-renti epoche del suo destino, qualcosa di diverso. Nondimeno, nell’insieme del desti-no dell’essere domina un qualcosa di medesimo, che non si lascia però rappresentaremediante un concetto generale»106.

Rivolgendo lo sguardo verso la differenza si raggiunge il luogo in cui pensarel’essere, e ad un tempo si può capire il modo in cui esso si è destinato nella metafisi-ca (nella sottrazione)107. Infatti, per Heidegger, la metafisica ha pensato la differenzaessere-ente in termini di fondamento-fondato secondo il predominio del pensiero rap-presentante-fondante, interpretando l’essere e l’ente e la differenza, in modo tale chel’essere e la differenza restavano nell’oblio per la prepotenza dell’oggettivazione.Dall’oggettivazione e dal principio di ragione la metafisica, quando pensa l’entecome il più generale e fondato, è onto-logia e, quando pensa l’ente come ente supre-mo che fonda, è teo-logia108.

La metafisica è solo quell’interpretazione dell’essere che perde l’essere stesso.Quando il pensiero si ritira nell’essenza della metafisica e intravede la sua sorgente(la differenza come Austrag) la metafisica è superata e il pensiero si prepara peraccogliere l’essere dimenticato e far così spazio per una nuova manifestazione diDio. Ciò nonostante, nel sentiero di Heidegger non si è compiuto ancora l’ultimopasso.

3.3. L’essere come l’accadere appropriante (l’“Ereignis”)

Il carattere unitario che reclama l’essere nonostante il suo destinarsi e darsi sto-rico (il quale costituisce la Seinsgeschichte) porta il pensare a soffermarsi ancora unavolta ad approfondire nell’essere in quanto tale, non solo nella differenza con l’ente,ma secondo il carattere del darsi che gli è proprio. Infatti, l’essere come l’aperturache fa presente e si occulta, così come l’essere in quanto destinarsi storico, non rin-viano forse a una dimensione ancora più profonda dove pensare l’essere? Il darsi sto-rico ma unitario dell’essere implica che ci deve essere un’istanza più originaria dallaquale la storia dell’essere riceve il suo destinarsi, costituendo essa la sorgente unitaria

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104 «Ma proprio la radura (Lichtung) è l’essere» (H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 285).105 «Ma come si rapporta, se mai ci è consentito porre il problema in questo modo, l’essere

all’e-sistenza? L’essere stesso è il rapporto (Verhältnis) in quanto è lui che tiene a sé l’e-sistenza nella sua essenza esistenziale, cioè estatica, e la raccoglie in sé come il luogo dellaverità dell’essere nel mezzo dell’ente» (H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 285).

106 H., Il principio di ragione, o.c., p. 111.107 Cfr. ibidem, p. 109.108 Cfr. ibidem, p. 150.

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del donarsi dell’essere nel tempo. Tale istanza è nominata da Heidegger con il termi-ne Ereignis e la si raggiunge tramite l’analisi del darsi (es gibt) dell’essere109.

Con lo scopo di dire e pensare l’essere come presenza (Anwesen) senza scam-biarlo con l’ente, del quale diciamo sempre che è, Heidegger adopera l’espressionec’è-si dà (es gibt) per indicare l’essere stesso. L’ente è, l’essere c’è-si dà110. «Neldisvelare gioca un dare (Geben), quello appunto che nel lasciar-esser-nella-presenza(Anwesen-lassen) dà (gibt) l’esser presente (Anwesen), cioè l’essere (Sein)»111. Inriferimento all’espressione tedesca es gibt, il dare di cui si parla — interpretaHeidegger — fa riferimento a uno es che dà. Ma la storia dell’essere ci attesta chetale darsi è sempre nel tempo, il che significa constatare che insieme all’essere si dàil tempo. «Quindi noi tenteremo ora di gettare uno sguardo in avanti fino allo Es diquesto Es gibt Sein, Es gibt Zeit, allo Es che dà essere e tempo (...) e scriviamo lo Escon la maiuscola (...). Per questa via dovrà mostrarsi il modo in cui si dà (es gibt)essere, si dà (es gibt) tempo»112. Alla luce della modalità della donazione edell’istanza che dona (lo Es) sarà evidenziata nell’analisi heideggeriana la modalitàdell’essere a cui arriva il suo pensiero. È perciò necessario analizzare quest’ultimopasso della sua opera per cogliere l’impostazione heideggeriana del problema di Dio.

In continuità con l’orientamento che sta alla base di tutto il cammino del pen-siero di Heidegger — da “Essere e tempo” (1927), e prima, a “Tempo e essere”(1964) —, il motivo ultimo che persegue Heidegger nella sua riflessione intorno alloEs gibt Sein è di pensare l’essere distogliendo lo sguardo dall’essere pensato dallametafisica: «pensare propriamente l’essere esige che si abbandoni l’essere come fon-damento dell’essente a favore del dare che gioca nascosto nel disvelamento, cioè afavore dello Es gibt. L’essere, in quanto è la donazione (Gabe) di questo Es gibt,trova il suo luogo proprio (gehört) nel dare. L’essere in quanto donazione non è svin-colato dal dare»113.

Heidegger indica che il dare l’essere può mostrarsi più chiaramente nell’ambi-to di una riflessione sul dare a cui si riferisce. Ciò riesce nella misura in cui volgia-mo la nostra attenzione verso la ricchezza dell’essere di cui è custode, e di cui ciparla, la storia dell’essere; vale a dire verso la ricchezza di cambiamento (Reichtumder Wandlung), ovvero verso la pienezza di cambiamento (Wandlungsfülle)dell’essere, dove, secondo Heidegger, si trova il primo punto d’appoggio per pensa-re il significato dell’esser presente (Anwesen) come espressione della pienezza del

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109 Nei Beiträge, nel capitolo VII sull’Ultimo Dio, il paragrafo 256 —intitolato appunto Derletzte Gott— è preceduto dal paragrafo 255 con il titolo: Die Kehre im Ereignis. Afferma O.Pöggeler (Heidegger und die hermeneutische Philosophie, Alber, Freiburg-München 1983,p. 118): «Sein als das unverfügbare, jeweils geschichtliche Seinsgeschick zeigt sich in sei-nem Sinn oder in seiner Offenheit und Wahrheit als Ereignis (...). Sein als Ereignis: mit die-ser Bestimmung des Sinns von Sein ist Heideggers Denken angekommen an seinem Ziel.Im Ereignis ist die Zeit, in deren Licht das Sein immer schon auf eine verborgene Weiseverstanden wurde, eigens mitgedacht». Per un’analisi del termine Anwesen e il suo rapportocon lo Es, cfr. M. MARASSI, Presenza e differenza. Heidegger e l’unità orginaria, inAA.VV., La differenza e l’origine, Vita e Pensiero, Milano 1987.

110 Cfr. H., Tempo ed essere, o.c., pp. 105-106.111 Ibidem, p. 106.112 Ibidem, p. 106. Già si era espresso in questi termini nella Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 288.113 H., Tempo ed essere, o.c., p. 107.

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donare. In altri termini, il dare e l’esser presente propri dell’essere si possonocogliere solo se si tiene presente la dimensione storica dell’essere. «Noi possiamoaccertare la pienezza di cambiamento (Wandlungsfülle) dell’Anwesen anche storica-mente (historisch), ricordando come Anwesen, venire ed essere nella presenza, simostra come lo En, l’uno unicamente unificante, come Logos, il raccoglimentocustodente il Tutto, come idea, ousia, energheia, substantia, actualitas, perceptio,monade, come oggettività, come posizione (Gesetztheit) del porre-sé nel senso dellavolontà di ragione, d’amore, di spirito, di potenza, come volontà di volontànell’eterno ritorno dell’eguale. Ciò che si può accertare storiograficamente si lasciaincontrare all’interno della storia (Geschichte). Il dispiegarsi della pienezza di cam-biamento dell’essere appare a prima vista come una storia dell’essere (Geschichtedes Seins)» e solo così si manifesta come accade e avviene l’essere (wie Seingeschieht) e il modo in cui si dà essere114.

Questo dare che dona la sua donazione al tempo che si trattiene in sé conservan-do la sua pienezza Heidegger lo denomina il destinare (das Schicken). «Se noi pen-siamo — come va fatto — in questo senso il dare, l’essere, che si dà (es gibt), è ildestinato (das Geschickte)»115. L’accadere dell’essere e il suo carattere destinaledeterminano la storia dell’essere: «storia dell’essere significa destino dell’essere(Seinsgeschichte heißt Geschick von Sein), nelle cui destinazioni (Schickungen) tantoil destinare (das Schicken) quanto anche Quello (das Es) che destina (schickt)sospendono, trattenendosene, la loro manifestazione»116. Pensato dall’invio, chedona e si mantiene in sé, conservandosi, in quanto si sottrae, l’essere si svela con lasua epocale pienezza di cambiamento.

Per completare il quadro Heidegger si richiama in questo contesto al ruoloessenziale dell’uomo, giacché l’uomo «è però tale che egli riceve come donazione(Gabe) l’esser presente (Anwesen), che grazie allo Es si dà (das Es gibt), percependociò che appare nel lasciar-l’essere-ostendersi-nella-presenza (im Anwesenlassen)»117.

Il darsi dell’essere non è pensabile in termini di fattualità empirica o fenomeni-ca, né tanto meno come un in-sé effettuato da un’istanza con il ruolo di causa produ-cente, né come posizione nell’ambito del rapporto soggetto-oggetto. In tutti questicasi l’essere è visto metafisicamente. La modalità del pensiero dell’essere diHeidegger, vale a dire, il come si manifesta e si pensa l’essere in Heidegger, non èsecondo il contro (che oppone causa ed effetto, soggetto e oggetto), né in funzionedell’in-sé , in questi casi il modo di pensare l’essere l’ontifica; egli, invece, sviluppaun pensiero nel quale è fondamentale il rapporto come dimensione originaria ultimanon concettualizzabile, la quale indica il come in cui appare, e si deve pensare,l’essere. Il rapporto è apparso chiaramente nell’analisi della differenza come Austragche distingue mantenendo la vicendevole relazione tra essere e ente118. Il rapportoriappare quando si pensa alla relazione tra l’essere e l’uomo: «l’essere ha bisogno

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114 Ibidem, p. 109.115 Ibidem, p. 110.116 Ibidem, p. 111.117 Ibidem, p. 115.118 «“Pensare l’essere senza l’essente” non significa, dunque, che all’essere sarebbe inessen-

ziale il rapporto all’essente e che sarebbe necessario prescindere da questo rapporto; piutto-sto vuol dire che non bisogna pensare l’essere alla maniera della metafisica» (H., Tempo edessere, o.c., p. 142).

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dell’uomo per essenziarsi, e l’uomo appartiene all’essere per compiere in questo lasua estrema determinazione come esserci»119. La mutua appartenenza di essere euomo compare spesso nelle opere di Heidegger120. Il rapporto riappare nel contestodel darsi dell’essere nel tempo: c’è un appropriare e un traspropriare (Zueignen, Übe-reignen) «dell’essere come presenza e del tempo come regione dell’Aperto in ciò cheè loro proprio (in ihr Eigenes)»121.

L’essere pensato nel suo darsi storico, ma unitario, secondo la modalità del rap-porto di appartenenza (che rispetta la distinzione) di essere ed ente, essere e uomo edessere e tempo è nominato da Heidegger con il termine Ereignis; dove si osserva peròun’evoluzione, giacché, in un primo momento, l’Ereignis designava l’essere (il rap-porto dell’abbisognare dell’essere nei confronti dell’uomo e dell’appartenenzadell’uomo all’essere «costituisce l’essere come Ereignis»122), mentre in un secondomomento l’Ereignis indica lo Es che dà l’essere: «ciò che determina ambedue, tempoed essere, in quel che è loro proprio, cioè nella loro coappartenenza(Zusammengehören), noi lo chiamiamo: das Ereignis»123. Questo spostamentosemantico è già un’indicazione di come l’essere pensato da Heidegger rinvia a unadimensione più originaria dello stesso essere (lo Es che dà), nella quale si pensa ilrapporto tra essere e tempo. Questa struttura di pensiero era già apparsa quandoabbiamo visto la differenza ontologica; anche lì la distinzione e il rapporto tra essereed ente rinviavano a un’istanza (l’Austrag) nella quale pensare la differenza e ilvicendevole rapporto di essere ed ente.

L’Ereignis non è il semplice evento, né una semplice relazione che sopprag-giunge successivamente, né un altro nome metafisico dell’essere, né un concettoonniabbracciante124. Heidegger non è esplicito sul significato ultimo di questadimensione radicale: «la sua esplicazione non è più compito di questaconferenza»125; ciò che si può dire è che l’Ereignis è l’accadimento dell’appropriare(essere e tempo, essere e uomo, essere ed ente), che al tempo stesso s’impropria sot-traendosi e conservando la sua pienezza essenziale126.

4. L’apparire di Dio

4.1. Le dimensioni del pensiero dell’essere e la loro unità: il “Geviert”

Il pensiero dell’essere è impostato da Heidegger secondo le diverse prospettiveche sono emerse lungo l’analisi fin qui condotta: l’essere visto dalla differenza conl’ente ci ha portato a vederlo secondo i termini del passare come far presente che

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119 H., Beiträge zur philosophie, o.c., p. 244.120 «Così nella conferenza sull’identità (...) è detto cosa l’ap-propriamento (das Ereignis) ad-

propria, cioè porta nel suo proprio (ins Eigene) e mantiene nell’appropriamento: vale a direla co-apparteneza di essere e uomo» (H., Tempo ed essere, o.c., p. 152).

121 Ibidem, p. 124.122 H., Beiträge zur Philosophie, o.c., p. 244.123 H., Tempo ed essere, o.c., p. 125.124 Cfr. ibidem, pp. 125-128, 150, 160.125 Ibidem, p. 128.126 Cfr. ibidem, pp. 129-131. cfr. J. GREISCH, Identité et différence dans la pensée de Martin

Heidegger, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 57 (1973), pp. 71-111.

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dischiude mentre si occulta; l’essere nel suo rapporto con il tempo, come destinarsiche costituisce la storia dell’essere; l’essere nella vicendevole appartenenza(Zusammengehörigkeit) con l’uomo in quanto il suo destinarsi richiama l’uomo comeDasein che permette che si apra e si mantenga la radura (il da) in cui l’ente si mostraed è. Tutte queste prospettive possono essere integrate nel termine Ereignis (comeaccadere storico appropriante di esse), ma Heidegger ha adoperato anche un altro ter-mine in cui unificare le dimensioni ora segnalate: il termine Geviert, che offre inoltreil vantaggio di includere in sé un riferimento esplicito al divino.

Il Geviert indica «le quattro contrade dell’insieme dei Quattro e la loro riunionenel luogo dell’incrocio»127. Le quattro contrade a cui si riferisce Heidegger indicanole quattro dimensioni in cui si deve pensare l’essere, quattro dimensioni che devonoessere integrate e riunite per pensare l’essere secondo la loro specificità ma ad untempo unitariamente.

Le prime dimensioni del Geviert sono nominate con il binomio cielo (o mondonelle prime versioni128) e terra, dove il primo termine indica l’aprire dell’essere chedischiude lo spazio nel quale l’ente trova significato e la vita dell’uomo e un popoloincontrano il luogo per il loro soggiorno. Il secondo termine (terra) allude al nascon-dimento dell’essere che serba così la propria ricchezza: «la terra è l’autochiudersi peressenza»129, «che servando sorregge»130.

La terza dimensione sono i mortali poiché «essere-presente (‘essere’) è sempre, inquanto essere-presente, un essere-presente all’essere umano, essendo l’essere-presentequel richiamo che di volta in volta chiama l’essere umano»131. Il richiamo dell’essereall’uomo si compie nel pensiero e accade nel linguaggio come «casa dell’essere»132.

La quarta dimensione sono i divini: «i divini sono messaggeri che ci indicano ladivinità. Nel sacro dispiegarsi della loro potenza, il Dio appare nella presenza o siritira nel suo nascondimento»133. In questo testo Heidegger presenta quattro terminiche vanno distinti: i divini, la divinità, il sacro e il Dio. Per poter precisare il rapportotra i divini (o gli dei) e il Dio, e tra questi e il sacro e la divinità, occorre prima con-cludere la visione del Geviert.

«Quattro sono le voci che risuonano: il cielo, la terra, l’uomo e il Dio. In questequattro voci il destino raccoglie l’intero rapporto infinito»134. Ma Heidegger rapportaanche il termine Geviert all’ente (o alla cosa) e quindi lo prospetta come mondo(Welt). L’ente si manifesta ed è all’interno di un mondo che contemporaneamentemantiene: «è necessario che, a partire dell’Ereignis, la differenza ontologica siarimessa al pensiero. Ora, però, visto dall’Ereignis, questo rapporto si mostra come ilrapporto di mondo e cosa»135.

Il rapporto di essere-mondo con ente-cosa è già stato delineato nell’analisi della

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127 H., La questione dell’essere, in Segnavia, o.c., p. 360.128 Cfr. H., L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, o.c., pp. 21-30.129 Ibidem, p. 32.130 H., Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1985, p. 99.131 H., La questione dell’essere, o.c., p. 357.132 H., Lettera sull’«umanismo», o.c., p. 267; H., Il linguaggio, in In cammino verso il lin-

guaggio, Mursia, Milano 1984, pp. 28-35.133 H., Costruire abitare pensare, o.c., p. 99.134 H., La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, pp. 203-204.135 H., Tempo ed essere, o.c., p. 147; cfr. H., La cosa, in Saggi e discorsi, o.c., pp. 109-124.

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differenza, ora però può essere precisato ulteriormente: «le cose (...) adunano pressodi sé cielo e terra, i mortali e i divini. I Quattro costituiscono, nel loro relazionarsi,un’unità originaria. Le cose trattengono presso di sé il Quadrato (Geviert) deiQuattro. In questo adunare e trattenere consiste l’essere cosa della cosa. L’unitarioQuadrato di cielo e terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quantocose, noi lo chiamiamo: il mondo. (...) Le cose (...) nel loro essere e operare comecose, dispiegano il mondo»136.

Pensare l’essere come Geviert significa pensarlo come il punto d’incrocio delledimensioni essenziali a cui il Geviert accenna: l’essere come disvelare che si occultae si offre ai mortali costituendo così un mondo in cui l’ente è in quanto tale, sicchésolo nel mondo l’ente è e viceversa; l’ente trattiene la riunione delle dimensioni man-tenendo un mondo per la durata epocale di tale mondo. Il darsi (es gibt) dell’essere,come accadere (Ereignis) che appropria reciprocamente (zueinanderereignet) ledimensioni del Geviert mentre ogni dimensione si traspropria (vereignen) e confidaalle altre configurando il Quadrato nella sua unitarietà, è un darsi che non è costituitodal soggetto, né può essere ridotto a un effetto che richiama una ratio sufficiens.

L’arrivare all’essere è reso possibile da un pensiero che sa attendere l’avventodell’essere, sentire il suo appello, rammemorare quello in cui già si è. Con questeespressioni Heidegger tenta di nominare un pensiero che è riflessione senza concet-tualizzare o ragionare. Questo tipo di riflessione non produce un pensiero, ma silascia invadere dall’essere. Il carattere gratuito, non dipendente da me, di qualcosache ci viene incontro senza essere afferrata, è il tratto indicato nei divini.

4.2. Dal sacro ai divini

Come abbiamo visto l’apparire di Dio al pensiero va preceduto in Heidegger dalpensiero della divinità, del sacro e dell’essere secondo un susseguirsi di tappe chenon possono essere omesse.

Il sacro si mostra unicamente nell’ambito di una verità che non è a disposizionedell’uomo. Il sentiero del pensiero di Heidegger è il tentativo di arrivare a un essereche reclama per sé la pienezza e l’indisponibilità, che non si lascia impossessare dalpensiero oggettivo-metafisico, né diventa materiale per la tecnica dell’uomo. Soloquando il pensiero raggiunge tale essere, si mostra e percepisce il sacro.

Il sacro dice inoltre riferimento a un essere che non scioglie l’ente nel nulla, mache, invece, lo raccoglie e lo trattiene nel suo essere e nella sua verità di ente, nellamisura in cui apre e mantiene lo spazio in cui l’ente è come tale. Il sacro allude quin-di a quell’essere che permette all’uomo di sviluppare le potenzialità storiche affidate-gli. Nella misura in cui il sacro parla di un essere che lascia l’ente e i mortali nellaloro essenza, il sacro salva137.

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studi

136 H., Il linguaggio, o.c., p. 35. Cfr. H., Costruire abitare pensare, o.c., p. 99. Pöggeler sotto-linea il rapporto tra critica al pensiero occidentale, centralità del Welt e attesa soteriologicain Heidegger: «Nicht das erstarrte und entleerte Sein, sondern die “Welt” soll das zentraleThema Heideggers sein: die Welt als “wahre Welt”, als Welt, die den abendländischenNihilismus in seiner Gesamtheit hinter sich läßt. Heidegger soll die alte verfallene, christli-ch-metaphysisch-bürgerliche Welt verwerfen und die kommende, heile und neue Welterwarten» (O. PÖGGELER, Heidegger und die hermeneutische Philosophie, o.c., p. 75).

137 Cfr. O. PÖGGELER, El camino..., o.c., p. 231.

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Il sacro non si mostra mai direttamente all’uomo finito, non è mai un prodottoné ricade nelle reti della ratio. Il sacro si mostra come ciò che riunisce un mondosecondo la storia accaduta dell’essere. Infatti, il raccogliere del sacro è sempre stori-co, giacché consiste nel riunire un mondo come Geviert. Perciò ogni epoca storica èraccolta in un’unità grazie al sacro che si presenta di volta in volta sotto la forma diun dio.

Il sacro ci porta nell’ambito della divinità dove si mostrano gli dei come coloroche indicano l’avvenire dell’essere e raccolgono il mondo. Il dio come il divino (undio della schiera degli dei, un divino) raccoglie e trattiene un mondo. Perciò ai morta-li compete aspettare l’avvento del divino: «i mortali abitano in quanto attendono idivini come divini. Sperando, essi si confrontano con l’inatteso e insperato. Essiattendono gli indizi del loro avvento, e non misconoscono i segni della loro assenza.Non si fanno da sé i loro dei e non praticano il culto degli idoli. Nella disgrazia, essiattendono ancora la salvezza che si è allontanata da loro»138. I divini non sono né unanuova versione metafisica di Dio, né una riedizione di un politeismo pagano, mostra-no piuttosto, da una parte, la contrapposizione con l’uomo: questi è “fondato”, i divi-ni ricordano l’essere fondato dell’uomo e la ricchezza del fondamento, non metafisi-camente pensato, e il carattere di dono dell’essere139. Dall’altra, i divini indicanoquel carattere del dio che raccoglie e mantiene un mondo che avviene storicamente inmodo gratuito.

Così i mortali non riportano gli dei al Dio della metafisica confezionando unidolo, ma, secondo la loro divinità e sacralità, sanno ricevere il dono che essi otten-gono. Il sacro, nel riunire, ci parla dell’interpellanza di un dio, di quel dio che fondail soggiorno storico dell’uomo. Ma il divino (un dio degli dei) è solo nell’ambito delGeviert, cioè si manifesta come una delle dimensioni del Quadrato.

4.3. Il Dio di Heidegger

Fin qui il Dio di Heidegger sembra esaurirsi negli dei; vale a dire, il Dio si pre-senta in ogni epoca storica sotto la forma del dio che raccoglie e sorregge il mondo incui sono gli enti e l’uomo, ed è soltanto questo. Ma parallelamente al richiamo adun’istanza unitaria originaria che dà l’essere nel suo accadere storico, anche quiHeidegger allude a un Dio al quale accennano i divini: «i divini sono i messaggeridella divinità, che ci fanno segno. Dal nascosto dispiegarsi di questa, appare il Dionella sua essenza, che lo sottrae ad ogni confronto con ciò che è presente»140.

Questo Dio (l’ultimo Dio, il Dio divino) non si lascia paragonare con niente diciò che è presente. Il Dio di Heidegger non si presenta mai chiaramente ai mortali,resta avvolto nel suo mistero. Forse davanti a tale Dio solo resta l’attesa di un suosegno a cui corrispondere con l’atteggiamento mistico.

Ma qui è opportuno chiedersi di quale Dio potrebbe eventualmente trattarsi.Ricapitolando quanto è stato detto, si è visto che l’essere va pensato da una

parte secondo il rapporto; dall’altra in funzione dell’unità e pienezza che esige per

Luis Romera

311

138 H., Costruire abitare pensare, o.c., p. 100.139 Cfr. M. BERCIANO VILLALIBRE, El evento (Ereignis) como concepto fundamental de la filo-

sofía de Heidegger, «Logos», XXIII-53 (1990), pp. 29-45.140 H., La cosa, o.c., p. 118.

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sé. Secondo il rapporto l’essere si prospetta: 1) nel rapporto essere-ente come diffe-renza che collega (espressa tramite i termini passare, far presente, presenza), 2) nelrapporto essere-uomo come identità che distingue perché non è la semplice ugua-glianza (indicato come vicendevole appartenenza) e, infine, 3) nel rapporto essere-tempo come destinarsi storico che apre i mondi e le epoche storiche (segnalato con itermini storia dell’essere e destino). In questo contesto facevamo riferimentoall’essere come mondo nel senso del Geviert.

L’essere però rivendica un carattere unitario (è sempro lo stesso, das Selbe) checi ha portato all’Ereignis e allo Es.

In questo orizzonte appare il sacro come l’indisponibile che raccoglie e rinvia aun divino che sorregge il mondo e interpella l’uomo perché questi corrisponda aldestino storico dell’essere nell’epoca a lui affidata.

Qui, però, può apparire l’ambiguità o indecisione finale del pensiero diHeidegger. L’unità dell’essere emerge come tale solo nel suo dispiegarsi nel tempo,cioè essa si dà sempre e necessariamente in un modo storico, costituendo un mondonel destinarsi nel tempo, in modo tale che la pienezza dell’essere si mostra nel susse-guirsi delle epoche storiche. Se l’essere, inoltre, si dà sempre nel passare nell’ente(istituendo un mondo) e nel richiamare l’uomo (perché gli corrisponda e si mantengail mondo), allora dobbiamo reintrodurre nell’ambito dell’essere, anzi nell’ambitodella donazione dell’essere, la necessità. Ma una pienezza che necessariamente devepassare e istituire, vale a dire, una pienezza che necessariamnete si dà nella storia enel far presente gli enti, è una pienezza piena? Neanche con il rinvio allo Esdell’Ereignis sparisce l’ambiguità, poiché anche l’Ereignis va pensato secondo lanecessità di un dare essere e tempo, e la sua pienezza, anche se indisponibile perl’uomo, finisce nel destinare storico del suo dono. Ma un dono che è necessario, ètotalmente dono o è soltanto dono in una dimensione, quella cioè affermata nell’indi-sponibilità nei confronti dell’uomo?

È merito indiscutibile di Heidegger l’aver richiamato l’attenzione verso la que-stione dell’essere e del Dio divino. L’uomo non ha a che fare soltanto con gli enti,egli si rapporta all’essere in quanto tale, e unicamente all’interno di un rapporto delpensiero con l’essere nel quale l’essere è pensato (e non obliato) può emergere laquestione di Dio. Ma è proprio la modalità dell’essere heideggeriano, e quindi lamodalità del dono e della donazione, che rendono ambiguo il cammino verso l’appa-rire del Dio divino.

In effetti, la filosofia è nata in Grecia come il problema dell’uno e dei molti,come il problema della molteplicità finita e temporale (storica) degli enti che rinvia aun’istanza unitaria nella quale fuggire dal nulla. Due sono le risposte che, in ultimaanalisi, si sono date al problema. La prima considera che l’uno si rapporta ai moltifacendoli sorgere dalla propria pienezza, alla quale ritornano, costituendo così unatotalità. La soluzione monista appare nella physis greca e si ripropone nei panteismi,in quello spinoziano e in altri, come forse anche nello Spirito assoluto hegeliano e,secondo un’impostazione diversa, nell’eterno ritorno dell’uguale nietzschiano. Glienti emergono dalla physis e vi ritornano; la physis però non è mai senza gli enti,anche se non si esaurisce in nessuna forma ontica storica. La physis è pervasa daltempo, genera necessariamente, è impersonale.

La seconda risposta considera il rapporto secondo il termine trascendenza. Inquesto caso l’uno, nella misura in cui è autenticamente trascendente (cosa solo possi-

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studi

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bile in una metafisica creazionista) dona i molti, ma il suo donare è gratuito, la suapienezza è tale da non aver bisogno della donazione. Il Trascendente è il più lontanodella necessità; perciò esiste una differenza essenziale tra ragione e causa, tra fonda-re come processo intellettuale (che s’inizia con la problematicità di ciò che è fondatoper arrivare al fondamento che è affermato come necessario però a partire dal fonda-to) e il fondare ontologico del fondatore come donare del Trascendente (che è gratui-to, indeducibile).

In ambedue i casi l’istanza raggiunta può essere sottomessa alla ratio, come fail meccanicismo monista o il Dio razionalista che crea il migliore dei mondi possibili.Ma anche nei due casi l’istanza è suscettibile di essere pensata come al di là dellaratio. Ciò che è però essenziale è che soltanto in un contesto di trascendenza ha spa-zio un Dio divino.

È questo il caso di Heidegger? È difficile a dirsi141. Il pensiero dell’essere diHeidegger non sembra però molto aperto alla Trascendenza; forse solo resta, dopo iltentativo speculativo, l’attesa: «soltanto un Dio può ancora salvarci. La sola possibi-lità che ci resta nel pensiero e nella poesia, è la possibilità per la manifestazione diquesto Dio»142.

* * *

Abstract: The problem of God is profoundly present in Heidegger’s thought. It hasbeen the object of frequent discussion in the attempt to determine both the modalityof Heidegger’s God and the attitude of thought that according to Heidegger is capa-ble of peceiving God’s gesture. The question of God is developed in four moments:the analysis of the absence of God in our age, the lack of God as fruit of onto-theo-logy, the thought of being as the first stage towards the sacred, towards the divinity,and therefore towards God, and the final result of Heidegger’s thought (regardingGod). This study concludes with a question regarding the ambiguity or problematicof a transcendent God in Heidegger’s thought.

Luis Romera

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141 L’ambiguità può essere indicata confrontando il rinvio allo Es, che sembra lasciar apertauna porta verso la trascendenza (cfr. J. B. LOTZ, Dall’essere al sacro. Il pensiero metafisicodopo Heidegger, Querciana, Brescia, 1993), con affermazioni come: «anche Dio è, se egli è,un essente, si trova come essente nell’essere» (H., Die Technik und die Kehre, Neske,Pfullingen 1962, p, 45). È in generale critico nei confronti del carattere fondativo dell’impo-stazione heideggeriana W. WEISCHEDEL, Il Dio dei filosofi, vol. II, Il Melangolo, Genova1991, pp. 307-350.

142 H., «Der Spiegel», 31.V.76, Ormai solo un Dio ci può salvare, Guarda, Parma 1987, p. 136.

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note e commenti

Sobre el origen del ser y la nada

RAUL ECHAURI*

El viejo y acuciante problema del origen del ser ha cobrado en los últimos añosnuevamente actualidad gracias a la conocida teoría del big bang, según la cual unafantástica estampida originaria habría dado lugar al nacimiento del universo. En talsentido, S. Hawking habla de un comienzo del tiempo y, con él, del universo, cuandoera “infinitésimamente pequeño e infinitamente denso”1.

Dejando de lado todos los interrogantes que pueda suscitar la existencia de ununiverso autoconcentrado en un punto preexistente de energía, la obra de Hawkingdestaca elocuentemente, por lo menos en sus primeros pasos, que el universocomenzó a existir en un momento determinado. Pero luego, el autor se inclina a pen-sar, según lo expuesto en una conferencia pronunciada en el Vaticano, que el univer-so no tuvo “ningún principio” y que, por consiguiente, no fue creado2.

No cabe ninguna duda que la física actual está rondando con tales ideas en tornoal misterio mismo del ser, a su posible aurora, a su posible ocaso incluso, ya que siamaneció gracias a la explosión del big bang, podría también atardecer en virtud delbig crunch o gran implosión. Por otra parte, ¿resulta correcto afirmar que si el univer-so no comenzó, carecería de creador? Como pensamos que tales cuestiones, en últimainstancia, son de naturaleza preferentemente metafísica, es decir, pertenecientes a undominio que excede la ciencia, aunque ella los pueda avalar desde su óptica propia,nos permitiremos recurrir a distintos filósofos, comenzando, con Parménides de Elea,uno de los primeros que parece haber planteado la cuestión del origen del ser.

1. Parménides

Sorprendido ante el hecho de que el ente sea, Parménides estima que él resulta

ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 315/325

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* Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (Conicet), Sánchez de Loria 536bis, 2000 Rosario, República Argentina

1 S.W. HAWKING, Historia del tiempo, Grijalbo, Buenos Aires 1988, p. 26.2 Op.cit., p. 156.

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inengendrado e imperecedero; y para reafirmar su postura, se interroga a sí mismo,en un pasaje notable, acerca de una posible génesis u origen de lo real, preguntándosecómo y de dónde habría podido surgir. De haber nacido, tendría que haber nacido apartir de lo que no es (εκ µη εοντος); pero ello resulta absolutamente imposible, yaque lo que no es, no es ni expresable (φατον), ni pensable (νοητον).

Nos parece evidente que lo que no es se identifica para Parménides con la nada,y la nada, como lo había afirmado poco antes, no es (µηδεν δ ουκ εστιν). De lo queno es, no puede obviamente resultar lo que es. Por otra parte, si el ente procediese dela nada (του µεδενοσ), ¿qué necesidad —vuelve a preguntar Parménides— lo habríahecho emerger antes o después?

En efecto, si el ente hubiese nacido, ¿qué lo habría hecho nacer? Al no visuali-zar Parménides ninguna razón que dé cuenta de un presunto nacimiento del universo,concluye, una vez más, en la perennidad de todo cuanto existe: “es necesario que seaabsolutamente o no” (fr.8). Desde el momento que el ente es, resulta imposible queno sea, ni que no haya sido. El es, por lo tanto, absolutamente y, por ello, sin origen.

De haberse generado, señala Meliso en sintonía con esta postura, el ente tendríaque haber sido precedido por la nada; pero resulta imposible que de la nada provengaalgo: “Siempre fue lo que era y siempre será. Pues si se hubiese generado, resultanecesario que antes de generarse no hubiese sido nada; si antes no fue nada, jamáspodría generarse nada de la nada (ουδεν εκ µηδενος)” (fr.l).

En este espléndido texto, Meliso pone de relieve una de las convicciones funda-mentales de toda la filosofía antigua: el universo no ha tenido origen, porque, detenerlo, la nada lo habría antecedido; pero como de la nada efectivamente nada puedesurgir, él es ingénito, eterno e imperecedero, tal como lo apunta el segundo fragmen-to: “Porque él entonces no ha surgido, él es, fue y siempre será, y no tiene ningúncomienzo, y tampoco ningún fin, sino que es infinito”.

Tanto Parménides como Meliso, por lo tanto, han pensado y planteado la posi-bilidad de un origen radical del universo, aunque la han desechado inmediatamente,porque ella supondría su procedencia de la nada; y lo que es no puede provenir de loque no es, tal como también lo reitera por su parte Empédocles de Agrigento: “Pueses imposible que algo llegue a ser a partir de lo que no es” (fr.12).

2. Platón

Por otra parte, es esta última expresión, “lo que no es” (το µη ον), aquella cuyosentido trata de dilucidar Platón en El sofista y ante la cual manifiesta su perplejidad.Si el no ser no fuera, no se podría explicar a su juicio la existencia de lo falso, ya quelo falso alude justamente a lo que no es. Sin embargo, Platón recuerda los versos deParménides antes citados, según los cuales es imposible que el no ser sea. ¿Cómocompaginar entonces la existencia de lo falso, o sea de lo que no es, con la absolutainexistencia del no ser proclamada por Parménides?

Intrigado por esta cuestión, Platón ya no sabe qué designa el no ser, ni a quéobjeto o a qué realidad correspondería (237 c). Resulta imposible, al respecto, conce-bir el no ser, decirlo, pronunciarlo o comprenderlo (238 c). No obstante, así como lofalso acreditaba, en cierta manera, la realidad del no ser, también la mentira la respal-da, pues el que miente dice lo que no es. Temiendo convertirse en un parricida, al

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note e commenti

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contradecir a su padre Parménides, Platón sostiene que lo que no es, en cierto modoes, en tanto que lo que es, de alguna manera, no es (241 d). Si lo frío y lo calienteson, prosigue Platón, ¿qué puede significar el “ser” que conviene a ambos?Indudablemente, Platón se asocia aquí a lo que él llama una “lucha de gigantes” entorno a la realidad.

Finalmente, Platón culmina sus reflexiones sobre el no ser, con una piezadialéctica, modelo ejemplar de su pensamiento y que constituye, a juicio deBrochard, la piedra angular de todo el platonismo. Cinco géneros o ideas supremasparticipan mutuamente entre sí: lo que es, el movimiento, el reposo, lo mismo y lootro. Indudablemente, el movimiento es, asegura Platón, en tanto que participa de loque es, pero no es, en tanto que participa de lo otro, lo cual lo hace distinto del ser y,por ello mismo, no ser. “Es por lo tanto inevitable que haya un ser del no ser, no sola-mente en el movimiento, sino en toda la sucesión de los géneros. En toda la serie, enefecto, la naturaleza de lo otro hace de cada uno de ellos otro que el ser, y, por esomismo, no ser. Así todos, universalmente, bajo esta relación, diremos correctamenteque no son, y, por el contrario, en tanto que participan del ser, diremos que son y losllamaremos seres” (256 e).

Alrededor de cada forma, por ende, hay multiplicidad de ser, infinita cantidadde no ser; y dado que el ser mismo resulta diverso del resto de los géneros o ideas,toda vez que estos son, el ser no es, y toda vez que el ser es, las otras formas no son.De esta manera, Platón se ve como forzado a sostener la realidad del no ser, en untexto incomparable, que señala un hito en su filosofía: “Cuando enunciamos el no ser(µη ον), esto no significa, parece, enunciar alguna cosa contraria (εναντιον) al ser,sino solamente alguna cosa distinta (ετερον)” (257 b).

La naturaleza de lo otro hace de cada forma que participa de él, otro que el ser,y, por ello mismo, no ser. El género “lo otro” resulta así la condición o el fundamentodel no ser. ¿Se ha convertido Platón realmente en un parricida, al afirmar contraParménides la realidad del no ser, que éste rotundamente negaba? Quizás, sea unaosadía de nuestra parte decir que Platón no comprendió la visión parmenídea acercadel no ser, pues cuando el filósofo de Elea habla del no ser, se refiere a él como a unvacío ontológico, del cual el ente no habría podido surgir.

En cambio, cuando Platón afirma que las cosas, al participar de lo otro, no son,no niega que existan, o sea que no sean en absoluto, sino que son distintas. Por talmotivo, mientras para Parménides el no ser indica la nada, para Platón el no ser seña-la lo otro.

De este modo, tanto la expresión ser como la de no ser poseen para Parménidesun sabor existencial, del que están desprovistas para Platón. “Uno puede estar segurode encontrarse en la tradición del platonismo auténtico —anota Gilson— cada vezque las nociones de existencia y de nada son remitidas a las nociones puramenteesenciales de lo mismo y de lo otro, de eodem et diverso”3.

Platón, por lo tanto, no lo contraría a Parménides, sino que utiliza las palabrasser y no ser con un sentido decididamente esencialista. De aquí, que Platón use indi-stintamente los términos ser, ente y esencia, por cuanto para él ser (ειναι) es ser algo(ον) o algo que se es (ουσια),

Para Parménides, en cambio, ser no significa ser lo que se es, sino que el ser

Raúl Echauri

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3 E. GILSON, Le Thomisme, Vrin, Paris 1965, 6ª ed., pp. 54-55.

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designa la condición o estado mismo de lo real, pues el ente es o está siendo, y el noser la ausencia absoluta de realidad, pues la nada no es. Por tal motivo, Platón nodistingue entre el “es” copulativo y el “es” existencial; mejor dicho, Platón reduce el“es” existencial al copulativo, lo cual es otra manera de decir, que el ser goza para élde un sentido puramente esencial. Sin duda alguna, el ente es, tanto para Parménidescomo para Platón; pero que sea significa para el primero que está ejerciendo el ser,mientras que para el segundo significa que es tal o cual cosa. Decir simplemente “laflor es” significaría para Parménides que ella está siendo, mientras para Platón queella es tal o cual cosa o que ella está siendo lo que es.

3. Aristóteles

Por su parte, Aristóteles estima que el “es” sólo posee una dimensión copulati-va. Las expresiones ser o no ser, “en sí mismas, en efecto, no son nada (ουδεν εστι),pero ellas agregan a su propio sentido una cierta composición que es imposible deconcebir independientemente de las cosas compuestas”4.

Nuevamente aquí, igual que para Platón, ser significa ser esto o lo otro, jamásser en el sentido fuerte o existencial del término, tal como era el caso de Parménides.El verbo ser se reduce a simple cópula verbal, mero nexo de unión entre un sujeto ysu atributo o predicado. Por ello, siempre que Aristóteles habla de un tránsito del noser absoluto al ser, sólo se refiere al paso del no ser tal o cual cosa, al ser esa cosa. Entodos los casos, se trata siempre de la generación, sea sustancial, sea accidental, queúnicamente afecta al rostro esencial del ente, nunca a su faz existencial.

El no ser aristotélico, por tanto, no indica la nada, sino la ausencia de unaforma, sustancial o accidental, que puede nacer por generación o morir por corrup-ción. Como dice Tricot, no hay para Aristóteles ni generación ex nihilo, ni corrupciónad nihilum. Por ello, no existe en la obra aristotélica la más mínima alusión a un ori-gen radical de los seres, ni mucho menos a su creación, aunque, de hecho, no hayahabido en ella nada que se opusiera a la misma, tal como lo señala Jolivet5.

4. Filón

Si bien la idea de creación estaba virtualmente contenida en el primer versículodel Génesis (Bereschit bara Elohim), parece haber sido Filón de Alejandría el prime-ro en advertirla, tal como lo destaca G. Reale: “Filón es el primer pensador que intro-duce en la filosofía la doctrina de la creación”6.

El mismo Gilson, por su parte, corrobora tal juicio, otorgándole a Filón la paterni-dad de tal idea, aunque durante los primeros años de su magisterio se la había negado7.

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note e commenti

4ARISTOTELES, De Interpretatione, 16b, 23-25.5 Cf. R. JOLIVET, Essai sur les rapports entre la pensée grecque et la pensée chrétienne, Vrin,

Paris 1931.6 G. REALE, Storia della filosofia antica, Vita e pensiero, Milano 1978, Vol. IV, p. 279.7 “La influencia de Platón ha sido tan profunda que Filón el Judío que habría debido ser el pri-

mero en desarrollar una filosofía de la creación ex nihilo, no ha concebido jamás su idea”

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Indudablemente, asistimos con Filón a los primeros albores de una idea, quizásno completamente perfilada en su pensamiento, ya que la acción creadora de Diosparece confundirse a veces con la acción meramente configuradora del demiurgoplatónico. El texto del Génesis utiliza el verbo bara, que la versión griega de losSetenta traduce por epoihsen. En tal sentido, Dios hizo el cielo y la tierra; pero eldemiurgo también los hizo, lo cual no significa que los haya creado, ya que su activi-dad se reduce a modelar y configurar una materia preexistente. Por tal motivo, al noexistir en el léxico griego el verbo “crear”, Filón tiene que recurrir al verbo κτιζειν,que significa “fundar” y “construir”, para expresar el acto creador. Por ello, y paradistinguir la creación, de la mera formación, Filón escribe: “Dios no sólo ha conduci-do las cosas a la luz, sino que ha hecho aquellas cosas que antes no eran; él no essolamente demiurgo, sino incluso creador (κτιστης)8.

A partir de este momento, y gracias al contacto con el texto bíblico, la cuestióndel origen del ser, débilmente sospechada, alcanza una relevancia especialísima.Habiendo desestimado tanto Parménides como Meliso y Empédocles la posibilidadde un surgimiento radical del universo, por cuanto nada puede proceder de la nada, laidea de creación introduce una alternativa frente a la idea rectora y dominante delpensamiento griego, tal como lo ha subrayado E.Bréhier: “Nada viene de la nada,nada retorna a la nada. Este principio, martillado en los versos del viejo Lucrecio, haquedado la gran idea rectora de todos los pensadores griegos, desde los físicos preso-cráticos hasta los últimos platónicos”9.

Dos cosmovisiones se encuentran ahora enfrentadas. El mundo no ha tenidoprincipio, ni tendrá fin, o, por el contrario, ha tenido un origen; en otras palabras, o eseterno o ha sido creado. Pero si el mundo es eterno, su eternidad no puede ser lamisma que la de Dios, dado que el universo visible está afectado por el tiempo, entanto que Dios, no. Por ello, aunque el mundo no haya tenido ni principio, ni fin, nose lo puede calificar de eterno a juicio de Boecio, porque si bien posee una duraciónilimitada, no abarca todo el pasado y el porvenir en un solo instante. Sólo Dios eseterno, por cuanto “en su presente reúne la infinidad de los momentos del tiempo quefluye”10. En tal sentido, Boecio atribuye la eternidad exclusivamente a Dios, mien-tras que al mundo le reserva la perpetuidad.

5. Santo Tomás

Santo Tomás, por su parte, se solidariza plenamente con Boecio, negando lacoeternidad del mundo con Dios, ya que “incluso si el mundo siempre existió, nosería coeterno con Dios” (Deo coaeternus), pues su duración no sería totalmentesimultanea; lo cual es requerido por el sentido de la eternidad. Pues la eternidad es,como allí mismo se dice, la posesión totalmente simultánea y perfecta de una vidainterminable. Pero la sucesión del tiempo resulta causada por el movimiento, como

Raúl Echauri

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(Cf. L’esprit de la philosophie médiévale, Vrin, Paris, 1948, p. 69). “La creación del mundoex nihilo ha sido enseñada por Filón” (Cf. History of Christian Philosophy in the MiddleAges, Random House, New York 1955, p. 39).

8 FILON, De somniis, I, 76, F.H. Colso-G.H. Whitaker, London-Cambridge, Vol.V, p. 337.9 E. BRÉHIER, Etudes de philosophie antique, P.U.F, Paris l955, p. 166.10 BOECIO, La consolación de la filosofía, Aguilar, Buenos Aires 1960, p. 185.

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dice el Filósofo. Por lo cual, lo que está sometido a la mutabilidad, aunque siemprehaya existido, no puede ser eterno; y a causa de esto, Agustín dice que ninguna crea-tura puede ser coeterna con la invariable esencia de la Trinidad” (De pot., q.3, a.14).

Según Santo Tomás, no se puede hablar de una creatura coeterna con Dios, siasignamos a la palabra “eternidad” el mismo sentido, cuando la atribuimos a la crea-tura y cuando la atribuimos a Dios. Primero, porque la duración del mundo, de sereterno, no sería tota simul como la de Dios; y segundo, porque las cosas están some-tidas a una mutabilidad completamente extraña a la esencia divina.

Sin embargo, sabemos ciertamente por la fe, que el mundo no existió siempre;pero ello no se puede demostrar racionalmente “por cuanto la novedad del mundo(novitas mundi) no puede recibir una demostración por parte del mismo mundo”(S.Theol., Ia., q.46, a.2). Por lo tanto, que el mundo haya comenzado, y sea una nove-dad, resulta objeto de fe, pero no se puede demostrar, ni saber: unde mundum incoe-pisse est credibile, non autem demonstrabile vel scibile (S.Theol., Ia., q.46, a.2).

No obstante, Santo Tomás estima que el mundo podría no haber comenzado, osea que podría haber sido creado desde toda la eternidad (ab aeterno). Tal es lo quetrata de mostrar en su penetrante opúsculo De aeternitate mundi, que entre otrascosas, marca la autonomía del pensamiento filosófico con respecto a la fe religiosa; yhablamos de la autonomía de la razón, porque si bien Santo Tomás sabe por su fe queDios creó el mundo en el tiempo, o si se quiere, que el mundo y el tiempo comenza-ron, considera racionalmente posible que el mundo y el tiempo no hayan comenzado,con lo cual creación del mundo y eternidad del mundo no se excluyen entre sí.

Escrito contra los que murmuran que tales ideas sean compatibles, Santo Tomásestima plausible que podría haber existido algo eterno, siempre y cuando toda su rea-lidad hubiese sido causada por Dios. En tal caso, el universo carecería de un princi-pio de duración (principium durationis), es decir, no habría comenzado. Ello podríarepugnar al entendimiento por dos razones. En primer lugar, porque, de ser así, Dioscomo causa agente, piensan algunos, tendría que haber precedido a lo creado enduración. Dicho con otras palabras, como siempre una causa precede a su efecto,sería menester que Dios antecediese a la creatura, lo cual no sería posible si el mundofuese eterno. Sin embargo, Santo Tomás piensa que un efecto puede ser producidosúbita e instantáneamente por su causa, con lo cual no existe ningún orden de prela-ción temporal entre ésta y aquél.

En segundo lugar, dado que el mundo ha sido hecho de la nada, también repug-naría al entendimiento la idea de su eternidad, porque, en tal caso, su no ser tendríaque haber precedido en duración a su ser. Haber sido hechas de la nada significa quelas cosas no han sido hechas a partir de algo preexistente, de modo tal que la nada noha precedido a lo creado, “como si fuera necesario que la nada fuese antes de lo quefue hecho e inmediatamente después exista algo”11. En todo caso, resulta lícito decirque primero es la nada que el ser, en el sentido de que la creatura, considerada en símisma y por sí misma, no es nada, “por lo cual hay que decir que naturalmente tieneantes la nada que el ser”12.

No existe, por ende, la menor repugnancia en pensar que “algo ha sido creado

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note e commenti

11 S. TOMAS, De aeternitate mundi, en Opuscula philosophica, Lethielleux, Paris 1949, p. 57.12 Op.cit., p. 58.

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por Dios y que este algo siempre existió”13. Si hubiese existido alguna incongruenciaal respecto, San Agustín la habría notado, según Santo Tomás, sobre todo porquehabría sido la manera más eficaz para él de negar la eternidad del mundo.

Sin embargo, a pesar de no haber nunca admitido la eternidad de la creatura,San Agustín parece no rechazarla, en opinión de Santo Tomás, por haber citado unargumento usado por los platónicos, según el cual Dios habría causado desde siemprea la creatura, sin precederla, tal como acontece con un pie que deja su huella en elpolvo. El pie podría haber estado posado en el polvo desde toda la eternidad causan-do su huella; del mismo modo, Dios podría haber creado las cosas desde siempre, encuyo caso la causa y el efecto serían concomitantes.

No obstante, algunos opinan que no puede existir una creatura coeterna conDios, como sostienen Juan Damasceno, Hugo de San Víctor y el mismo San Agustín.Pero la explicación última de esta postura, según Santo Tomás, la brinda Boecio,cuando en su Consolación de la filosofía escribe: “Una cosa es ser conducido a travésde una vida interminable, lo cual atribuye Platón al mundo, otra cosa distinta es quetoda la presencia de una vida interminable sea igualmente abarcada, lo cual resultamanifiesto que sólo es propio de la mente divina”14. En otros términos, mientras lavida de la creatura está extendida en el tiempo, la vida divina está concentrada en unpunto. La eternidad de la creatura, por lo tanto, afectada por el cambio, el movimien-to y la duración es temporal; por el contrario, la eternidad de Dios, ajena a ellos,resulta atemporal.

En este sentido preciso, tampoco para Santo Tomás se puede hablar de unacreatura coeterna con el creador, porque la eternidad de la creatura no tiene el mismocarácter que la de Dios. Sin embargo, se puede hablar de una creatura coeterna conDios, en el sentido de que la creatura, móvil y temporal, podría haber coexistidodesde siempre con su Creador, inmóvil y atemporal. El tiempo y la eternidad podríanhaber coexistido paralelamente, no obstante la radical heterogeneidad de sus natura-lezas respectivas. Dicho de otro modo, lo que para Santo Tomás resulta congeniablees la eternidad de Dios y la perennidad temporal del mundo.

Tal postura no desdice, por otro lado, la doctrina de Santo Tomás sobre el esse,primer efecto de la causa suprema: primus effectus est esse et non est ante ipsumcreatum aliquid (De pot.,q.7, a.2). Dado que crear es dar el esse (prima rerum creata-rum est esse), Dios podría haber conferido el actus essendi a las cosas desde toda laeternidad, o, por el contrario, ellas podrían haber comenzado a ser. La creación esuna relación de dependencia por parte de la creatura con respecto al Creador, y esadependencia pudo haber sido eterna, aunque sabemos por la Revelación que ha sidotemporal: et sic creatio nihil est aliud realiter quam relatio quaedam ad Deum cumnovitate essendi (De pot., q.3., a.3).

El universo, por tanto, de ser eterno, no habría tenido principio de duración,pero aun en este caso, habría tenido principio de origen (principium originis), ya queDios lo causa y produce. Podría haber carecido de un inicio temporal, pero nunca deorigen, porque él depende totalmente de Dios.

Raúl Echauri

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13 Op.cit., p. 58.14 BOETHIUS, The Theological Tractates, University Press, Harvard 1958, pp. 401-402.

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6. Leibniz

Como señala Leibniz al respecto en su opúsculo De rerum originationeradicali, aunque el mundo sea eterno, debe haber una razón última de su existencia.En tal sentido, existen cosas más bien que nada, dado que cada esencia posible tienela pretensión de existir según el grado de realidad o perfección que encierra. La exis-tencia, por ende, resulta algo exigido por aquellas esencias aptas para alcanzar suactualidad. Pero Dios se manifiesta como la razón última y como la fuente mismatanto de los seres posibles como de los actuales.

Leibniz habla, en este sentido, del “gran principio”, según el cual “nada se hacesin razón suficiente”. “Asentado este principio, la primera pregunta que tenemosderecho a formular será por qué hay algo más bien que nada. Pues la nada es mássimple y más fácil que algo”15.

Lo que nos llama la atención en este notable texto, no es tanto la formulación delo que se ha llamado “la cuestión fundamental de la metafísica”, sino más bien sureferencia a la simplicidad de la nada, con la cual, por otra parte, debería habercomenzado el texto, ya que más que una conclusión resulta una premisa. En este sen-tido, dado que la nada es más simple y fácil que algo, ¿por qué hay cosas? Dicho deotro modo, sería más lógico o más comprensible que no hubiese nada en absoluto, yaque la nada es más simple y fácil que el ser. Sin embargo, hay ser, y éste resulta,obviamente, mucho más difícil de justificar que la nada.

No obstante, lo más maravilloso que hace un ente es ser. Y el ser que el enteejerce lo constituye y establece como tal, ya que si no lo ejerciera no sería y nohabría entonces nada en absoluto. En tal sentido, Leibniz parece inscribirse en lanómina de aquellos pensadores que lo han detectado, al interrogar por qué existen lascosas y no más bien la nada, tal como también lo presume Gilson: “Por haber escritoesa frase, es necesario, sin duda, que Leibniz se haya sorprendido y admirado, al con-tacto con el acto misterioso que llamamos el ser, aquél en virtud del cual uno dice delos entes que ellos son”16.

Pero la diversidad de los espíritus es una cosa admirable y para verificarlobastará que nos remitamos al filósofo de la duración, para quien el problema del ori-gen del ser resulta un problema fantasma por cuanto la idea de nada es, a su juicio,una pseudo-idea.

7. Bergson

Al comienzo de su recordado análisis de esta cuestión en L’évolution créatrice,Bergson escribe: “La existencia se me aparece como una conquista sobre la nada. Yome digo que podría, que debería incluso no haber nada, y me sorprendo entonces quehaya alguna cosa. O bien, me represento toda realidad como extendida sobre la nadacomo sobre un tapiz: la nada era en primer lugar y el ser ha venido por añadidura. Obien aún, si siempre ha existido alguna cosa, es necesario que la nada le haya siempre

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note e commenti

15 G.W. LEIBNIZ, Escritos filosóficos, Charcas, Buenos Aires 1982, p. 601.16 E. GILSON, Constantes philosophiques de l’être, Vrin, Paris 1983, p. 147.

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servido de substrato o de receptáculo y sea, en consecuencia, eternamenteanterior”17.

Según Bergson, resulta imposible imaginar la nada, pero podríamos tratar deconcebirla, al pensar en un objeto inexistente. Pensemos, en primer lugar, en un obje-to existente. La idea de este objeto no es más que la representación pura y simple deese objeto, pues no se puede representar un objeto, “sin atribuirle por eso mismo, unacierta realidad. Entre pensar un objeto y pensarlo existente, no hay absolutamenteninguna diferencia”18.

Pero si pensamos el objeto como inexistente le agregamos algo, a saber, “la ideade una exclusión de este objeto particular por la realidad actual en general”19.Representarse un objeto como inexistente implica conferirle, por lo menos, una exis-tencia puramente ideal, la de un puro posible; negada la existencia sustancial delobjeto, aparece la existencia atenuada de lo simplemente posible, con lo cual resultaabsolutamente imposible pensar en un objeto inexistente y, con ello, pensar en lanada.

“En otros términos, y por extraño que pueda parecer nuestra aserción, hay más,y no menos, en la idea de un objeto concebido como ‘no existente’ que en la idea deeste mismo objeto concebido como ‘existente’, pues la idea del objeto ‘no existente’es necesariamente la idea del objeto ‘existente’ con la representación, además, de unaexclusión de este objeto por la realidad actual tomada en bloque”20.

Entre pensar un objeto y pensarlo existente no hay para Bergson ninguna dife-rencia, siempre y cuando la reducción que él propone de lo realmente existente a lopensado, o la identificación del ente actual con su idea sea genuina. En efecto, no hayninguna diferencia desde un punto de vista puramente conceptual; pero si lo realencierra además de su esencia, objeto de concepto, el ser o la existencia como algono incluido en la esencia o distinto de ella, la realidad no se identificaría, ni coinci-diría con su idea o concepto. La realidad no es reductible a mera idea, o, dicho deotro modo, ella excede el plano lógico, dado que el misterio de la existencia no essusceptible de ser apresado por un concepto.

Por otra parte, “creemos figurarnos —apunta Bergson— que el ser ha venido allenar un vacío y que la nada preexistía lógicamente al ser”21. Bastaría, sin embargo,recordar a Parménides y a Meliso, para invalidar tal aseveración. Ni el ser ha venidoa colmar un vacío, ni la nada lo ha precedido, como también lo asegura Santo Tomás.

Su noción de la nada, por tanto, como un vacío ontológico previo al ser, notiene la vigencia que Bergson parece asignarle. Por otra parte, ¿cómo imaginar o con-cebir lo que no es, tal como lo propone? ¿Qué otra cosa se puede decir de la nada,sino que ella no es? Pero aunque la nada no sea ni pensable, ni imaginable, ella esuna idea exigida por el pensamiento cuando éste se aboca a la cuestión del origen delser. Por tanto, ella ha jugado un papel relevante no sólo en las concepciones creacio-nistas del universo, sino también en aquellas cosmovisiones que, sin afirmar la crea-ción se asomaron al problema de un presunto advenimiento del ser.

Raúl Echauri

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17 H. BERGSON, L’évolution créatrice, P.U.F., Paris 1948, p. 276.18 Op.cit., p. 284.19 Op.cit., p. 285.20 Op.cit., p. 286.21 H. BERGSON, La pensée et le mouvant, P.U.F., Paris 1950, p. 65.

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8. Heidegger

Pero la pregunta fundamental de la metafísica ha sido retomada en nuestros díaspor Martin Heidegger, sin brindar, por otra parte, no obstante la exspectativa suscita-da, ninguna respuesta satisfactoria al respecto.

En primer lugar, Heidegger estima que un cristiano no puede acceder a la cues-tión planteada, porque de antemano tiene la solución, ya que cree que Dios creó alprincipio el cielo y la tierra. Prescindiendo de que esa proposición sea “verdadera ofalsa para la fe”22, ella no se relaciona, por lo tanto, con la pregunta fundamental, nila admite, porque el creyente queda dispensado por su fe de tal interrogación.

Sin embargo, lo absolutamente importante, a nuestro juicio, consistiría en sabersi tal idea, verdadera para la fe, es también verdadera para la razón, en cuyo caso lacreación explicaría el origen radical del ser, satisfaciendo la pregunta fundamental.Rechazar la idea de creación, porque ella está asociada a una determinadaRevelación, implica un cierto filosofismo, desde el momento que el pensamiento, ental caso, está decidido a no aceptar otras ideas más que las que él mismo descubre.

Si la idea de creación le brinda al filósofo una respuesta atendible al problemadel ser, sería absurdo despreciarla por el solo hecho de no haber sido advertida por sureflexión.

Por otra parte, la creación es una verdad de orden natural, a juicio de SantoTomás, que la inteligencia humana habría podido conquistar, aunque de hecho ella ladeba a la Revelación. En tal sentido, Dios no sólo ha revelado verdades de caráctersobrenatural, como su paternidad o la Trinidad, sino también de índole natural por serde difícil acceso a la razón, tales como la creación.

Pero nuestro filósofo está reñido con tal idea; incluso, en uno de los poquísimostextos sobre el particular, Heidegger atribuye al tomismo una visión hylemórfica delacto creador. En tal sentido, lo creado es lo confeccionado, y crear significa, porende, según Heidegger, fabricar. Conviene recordar, sin embargo, que para SantoTomás, Dios no procede como un artesano, porque el objeto inmediato del acto crea-dor es el esse, el ser mismo del ente, el cual actualiza a la materia y a la forma, estoes, a la esencia, resultando a su vez restringido y limitado por ella.

Pero los equívocos de Heidegger abundan. Tal como lo señala en Was istMetaphysik?, el pensamiento cristiano considera a la nada como la ausencia total derealidad, lo cual implicaría, en su opinión, que Dios, al crear, tendría que haberse vin-culado con ella. Sorprende bastante que un metafísico de su talla piense que Diospueda relacionarse con la nada, como si ésta fuese una zona sin ser que coexistiríacon Dios.

Antes de la creación, no existían simultáneamente la nada y el ser, como loasienta Santo Tomás, sino sólo Dios, el ser mismo puro y subsistente, que todo lo lle-naba y todo lo inundaba; y si El todo lo colmaba antes de su fiat creador, también losigue colmando después, pues Dios está presente en todas las cosas (adest omnibus)como causa de su ser.

Por otra parte, Parménides, Meliso y Empédocles tuvieron mil veces razón, alnegar que el ente pudiese provenir de la nada. Y Santo Tomás los confirma plena-

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22 M. HEIDEGGER, Introducción a la metafísica, Nova, Buenos Aires 1956, p. 43.

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mente, porque el ente no procede de la nada, sino de Dios como fuente absoluta yúnica de todo lo que es. Sólo el Ser puede engendrar el ser. En tal sentido, la creacióntiene el carácter de un acontecimiento constituido por el don del ser, aunque tal donno presuponga evidentemente un receptor.

A nadie se le puede escapar la resonancia heideggeriana de estas ideas, por lomenos tal como se pueden apreciar en Zur Sache des Denkens. Sin duda, la noción deEreignis ocupa allí un lugar central entendida como el acontecimiento que trae apa-rejado el obsequio del ser: “El don (Gabe) del estar presente es lo peculiar del acon-tecer”23. Pero una vez que el suceso tiene lugar, el ser desaparece como tal, y sóloqueda en la superficie el ente: “Cuando el ser es visualizado como el acontecimiento,desaparece como ser”24.

Estas reflexiones heideggerianas, un poco esotéricas, pueden ser esclarecidas ala luz de la doctrina tomista de la creación. Indudablemente, la creación ha constitui-do un acontecimiento fundamental, ya que gracias a ella ha comenzado realmente aexistir lo que no existía. Pero el esse mismo, lo más íntimo y profundo del ente, sedisimula en el seno de éste. Sólo podemos percibir el ente, pero el ser mismo en vir-tud del cual él es o existe, se sustrae a la captación tanto sensible como conceptual. Sibien el ente indica “lo que es”, el espíritu humano recala espontáneamente en el “loque”, sin reparar en el “es”, o sea en el ser. Y es natural que así sea, porque el “loque” señala la esencia del ente, y ésta constituye el objeto adecuado y connatural delentendimiento humano.

Sin embargo, resulta necesario exceder la esencia, el “lo que”, para divisar elesse como la raíz secreta de todo cuanto existe. Expresado ahora en términos heideg-gerianos, “el ser es, con respecto al ente, aquello que muestra, que hace visible, sinmostrarse a sí mismo”25.

También el esse tomista hace visible al ente, por cuanto lo hace existir; y tam-bién él, igual que el Sein heideggeriano, no se muestra a sí mismo, ya que se entrañaíntimamente en el seno del ente como el fundamento invisible de la realidad visible.

Este parentesco entra la idea tomista de creación y la noción heideggeriana deEreignis, que ha acudido espontáneamente a nuestro espíritu, también ha sido adver-tida por J. Lotz en un texto que nos complace citar: “Reencontramos aquí una vecin-dad profunda entre Heidegger y Santo Tomás, en cuanto que el evento original deaquél y la creación de éste, indican simplemente la comunicación del ser”26.

Efectivamente, creatio y Ereignis designan el acontecimiento del ser, o, si sequiere, ambos han tenido como objeto la dádiva del ser, obsequio admirable que nospermite contemplar el fantástico espectáculo de los entes y cuyo misterio siempreestimulará la reflexión del espíritu humano.

Raúl Echauri

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23 M. HEIDEGGER, Zur Sache des Denkens, Max Niemeyer, Tubingen 1969, p. 22.24 Op.cit., p. 46.25 Op.cit., p. 39.26 J.B. LOTZ, Il valore religioso nella filosofia dell’essere di M. Heidegger, «Sapienza», 3

(1978), p. 261.

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Filosofía como arte y experiencia de la vida

DANIEL INNERARITY*

Forma parte de los tópicos de la profesión que del filósofo se espere una actitudde desconfianza por principio, una duda o sospecha genérica en relación con la exis-tencia del mundo exterior y de la realidad. Mientras el hombre corriente libra subatalla contra la dureza del mundo real, el ocioso pensador flirtea con distinguidasentidades y se bate contra monstruos vaporosos en un mundo al que no llegan losrotundos desmentidos de la realidad vulgar. Nadie sabría decir a ciencia cierta quiénle ha concedido a este personaje el privilegio de prescindir olímpicamente de la expe-riencia de la vida. Esta caricatura parece retratar bien a quien se considera un filósofoescéptico y entiende la filosofía como una actividad más cercana al arte que a la cien-cia, más adicta al sentido que a la exactitud. Pues bien, voy a sostener la tesis aparen-temente paradójica de que cuanto más escéptico se es, tanto más irrenunciable resultala experiencia de la vida, es decir, esas evidencias fundamentales arrancadas penosa-mente al curso de los acontecimientos, en el trato con la realidad, como sabiduríavital ganada tras las decepciones y los gozos que jalonan los tropiezos de una bio-grafía finita.

El escepticismo consecuente ha de comenzar desconfiando de la duda absolutaacerca de la realidad. En el célebre prólogo a la segunda edición de la Crítica de larazón pura, Kant hablaba de un escándalo de la filosofía consistente en que la exi-stencia del mundo exterior se base en la fe y que no sea posible ofrecer suficientespruebas a quien se obstine en ponerla en duda. Heidegger decía en Ser y tiempo queel verdadero escándalo consistía más bien en que hubiera alguien que esperara talesdemostraciones. El escepticismo razonable se pone de parte de Heidegger en la medi-da en que duda de la duda acerca de la existencia de la realidad, o al menos no renun-cia al hábito —formado en la experiencia de la vida— de que en estos casos el pesode la prueba recae sobre el acusador. Lo que en la vida se ha mostrado como unagarantía procesal que sirve a la justicia no puede ser ignorado en el ejercicio de lateoría.

La ocupación del filósofo no puede justificarse si no es porque conduce a una

ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 327/338

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* Departamento de Filosofía, Facultad de Filosofía y Letras, Universidad de Zaragoza, Spagna

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ganancia de experiencia, con todo lo que ello comporta: descubrimiento, sentido,comprensión, orientación. Si la filosofía fuera únicamente negativa habría desapare-cido con la comprobación de que la realidad no es solamente el escenario de la deso-lación y el sinsentido, como parecería complacer a los apologetas de la amargura. Elpesimismo y la crítica que rebasan las fronteras de lo razonable se convierten en unimplacable tribunal que se dedica a extender arbitrariamente la contingencia delmundo, a no reconocer los testimonios en favor de un sentido —incoado, modesto—en lo que se nos ofrece y en lo que hacemos con ello. El hombre teórico excesiva-mente seducido por la crítica colabora así —probablemente contra sus intenciones—a ampliar el alcance de la irrealidad, disminuyendo a un tiempo el trabajo de la expe-riencia. Un vacío inmenso comienza a abrirse a los pies de su atalaya. El estereotipode filósofo-que-sospecha se hace a su vez sospechoso de no tener nada interesanteque ofrecer, de que su filosofía a martillazos es una venganza resentida contra su pro-pia ceguera. Y es mejor que no le pille a uno cerca esa peligrosa síntesis de despiste yviolencia.

1. Estrategias contra la desrealización

La filosofía es atención y aprendizaje, experiencia ganada en el trato —no siem-pre fácil y gratificante— con la realidad. Y además pretendo mostrar cómo estaganancia de experiencia que proporciona no aleja a la filosofía del arte, sino todo locontrario. La filosofía y el arte son igualmente cultivos de la atención hacia la reali-dad y no ejercicios de distracción. La filosofía puede ser considerada como una delas bellas artes en la medida en que coopera con ellas en la ampliación y concentra-ción de nuestro sentido de realidad. Son verdaderas estrategias de resistencia contrala desrealización.

Hay una tradición filosófica que describe la historia de la humanidad en térmi-nos de una progresiva desilusión, como una ganancia de sentido de la realidad. Alprincipio era la fantasía y lo ficticio, ahora gobiernan la observación y la experiencia.Me permito desconfiar de esta épica de la desconfianza. La experiencia nos dice queandamos más bien escasos de experiencias y sobrados de credulidad. Bien examina-das las cosas, nuestro mundo ofrece también el rostro de una ingenuidad no superada,creciente incluso. Podría afirmarse que el contenido ilusorio de la realidad oficial haaumentado en la cultura moderna.

Este mundo moderno es un mundo de creciente aceleración, de progreso. LaIlustración tenía, fundamentalmente, prisa. Con ella se introdujo una apremiantenecesidad de tiempo, pues había que recuperar el retraso de la razón. Y para recupe-rar el único procedimiento era acelerar los procesos. El tiempo, que hasta entoncesno era más que un medio en el que hacían su aparición acciones y actores, se con-vierte en un poder al que todo se confía en virtud de su mera cantidad. Este cambiode escala había de tener como consecuencia que el individuo se viera zarandeado enese nuevo formato universal entre el entusiasmo por las nuevas dimensiones de losproyectos históricos y el desconsuelo ante su insignificancia personal. Las tareaspúblicas se sobreponen a la pereza privada, la expectativa histórica pone en unsegundo plano a las experiencias personales, entre las cuales está la evidencia denuestra finitud y la sabiduría de la paciencia. El nuevo formato del tiempo acelerado

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de las expectativas se permite prescindir del tiempo lento de la experiencia. En eltorbellino de la aceleración la experiencia resulta cada vez más impotente, pues cadavez envejecen con más velocidad aquellas situaciones en las cuales y para las cualesse obtuvieron las experiencias.

Por eso es propio de los procesos progresivos que comiencen con una iniciativaética para continuar con una inercia cinética. Lo que podríamos llamar una heteromo-vilidad catastrófica consiste en que quien se mueve, mueve algo más que a sí mismo.Quien hace la historia, hace algo más que historia: destino. Es el exceso cinético quesobrepasa los límites hasta arribar a lo no pretendido. Ese más fatal es la dinámica delas masas muertas que, una vez puestas en movimiento, ya no quieren saber nada definalidades morales. El fatalismo es la otra cara del activismo irreflexivo. ¿Es posibleentonces hacer algo? Sí, bajo la condición de suponer una continuidad que realmenteno existe, es decir, actuando desde la ficción de que las cosas no han cambiado o nohan cambiado tanto. Al menos, que no ha habido un cambio significativo desde quecomenzó nuestra reflexión y menos aún desde que tomamos la decisión y la pusimosen práctica. Esta paradoja es especialmente aguda en las acciones que, por su dimen-sión o por el número elevado de sujetos que están implicados, necesitan mucho tiem-po. Mientras el tiempo transcurre —y además aceleradamente— cambian tambiénlos datos a partir de los cuales se comenzó a actuar, y la rectificación no siempre esposible o beneficiosa. Entonces resulta necesario ignorar las nuevas condiciones,actuar como si no las hubiera, bajo el supuesto de que las cosas están como al princi-pio. Sin estas ficciones sería imposible acabar ninguna empresa. Donde todo fluye,las acciones son obligadas a devenir ficciones. Sólo es posible actuar suspendiendoficticiamente el curso del tiempo. Luhmann ha hablado a este respecto de la necesi-dad de reducir la complejidad, pero a nadie se le oculta que toda simplificación con-tiene alguna mentira piadosa o, mejor dicho, progresista.

Tratándose de política, la observación de Luhmann es muy cierta. El númerocreciente de participantes en las decisiones hace que no sea posible controlar a todoso a algunos expertos, por lo que se impone hacer como si se les hubiera controlado,pero en verdad nos ponemos en sus manos: les creemos. Esta es la consecuencia desu tesis de que el incremento de racionalización exige un incremento de confianza,hasta que ya no se sabe si se cree o se sabe (o se finge saber, que es lo más probabletratándose, por ejemplo, de política económica). Esta nueva necesidad de creer, insta-lada en el núcleo de la sociedad tecnológica, supone un incremento del número deinexpertos, una disminución de la experiencia propia, que no proporciona ningunaindicación acerca de qué debe hacerse ante las situaciones inéditas. Es uno de losmodos en que se manifiesta que la racionalidad del mundo moderno no reduce elespacio de lo ilusorio sino que lo aumenta.

2. Experiencia, expectativa, experimento

Otra indicación de la presencia creciente de ficciones en el mundo moderno esla pérdida de experiencia que se produce cuando es sustituida por la expectativa.Vivimos en una cultura que está cada vez más dispuesta a la ilusión. Quien carece deexperiencias tiene más facilidad para hacerse ilusiones. Esto tiene mucho que ver, sinduda, con el ya mencionado envejecimiento de nuestras experiencias, lo que nos hace

Daniel Innerarity

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añorar aquella niñez en la que el mundo no nos resultaba aún extraño. Si no se tienenexperiencias que puedan ser significativas en el momento presente, nuestra expectati-va hacia el futuro no puede ser medida —moderada, generalmente— por las expe-riencias —malas, generalmente— de que disponemos. La expectativa no controladapor la experiencia se magnifica y tiende a convertirse en ilusoria. Aparecen las super-esperanzas y los super-miedos que tan buena acogida tienen entre los desmemoria-dos.

Ya sé que no ponerse inmediatamente y sin condiciones en favor de la utopíaestá tan mal visto como interrumpir por un momento la queja y ver lo que de positivohay en la realidad. Pero a veces la utopía no es sino una renuncia a mejorar lo exis-tente en nombre de lo inmejorable. Creo que nuestro campo de acción se define enotros términos. Se requiere más valor para poner a prueba una opinión o un juicioque para navegar en el reino de las posibilidades jamás contradichas. Y es que laexperiencia probablemente no sea otra cosa que el nombre que damos al aprendizajeque resulta del fracaso, del desmentido de una expectativa por el veto interpuesto porla realidad. Las experiencias son el buen resultado de la crisis de las expectativas. Elmalo es la puerilidad. Cuando la fuerza de desmentir que es propia de la experienciagira en el vacío, el principio de realidad pierde crecientemente la posibilidad dehacerse valer. Aparece lo que Koselleck llama el vacío entre la expectativa y la expe-riencia1. Los hombres se convierten en “esperadores” sin experiencia, en ilusos. Lasexpectativas que han soltado las amarras con el pasado y con el presente se dirigen alo más lejano y futuro, adquieren un tono patético. A este respecto, Koselleck hadenominado a la modernidad la era de las singularizaciones2. En ella no sólo se sin-gularizan los progresos en el progreso, las libertades en la libertad, las historias en lahistoria, sino sobre todo las expectativas en la expectativa: en una única y absolutaexpectativa total que está por encima de toda satisfacción real —y, por tanto, de cual-quier decepción—, pues está decepcionada a priori de lo dado, de tal modo que espe-ranza y decepción confluyen en una actitud que podríamos llamar de indignacióncontinua. El principio esperanza se convierte así en principio fanatismo, lo que enalemán se dice Unbelehrbarkeit, es decir, literalmente: imposibilidad de ser enseña-do, de aprender, incorregible. Lo malo del doctrinarismo es que no tiene remedio. Laindisposición habitual a ser corregido por las experiencias agudiza la pérdida deexperiencia. Condena al hombre a existir esperando todavía y habiendo dejado ya deexperimentar.

Al hablar de experiencia hay que distinguirla cuidadosamente del experimentocientífico, pues no son la misma cosa. Es más: están incluso en relación inversamenteproporcional. Precisamente en la era moderna —caracterizada por una pérdida cre-ciente de la experiencia— es cuando tiene lugar el apogeo de las ciencias experimen-tales. Allí donde disminuye la capacidad para la experiencia de la vida, se hace nece-sario salvarla mediante una delegación en los especialistas de lo empírico. Pero laparadoja consiste en que cuanto más exacta —más especializada— es la elaboraciónque los expertos hacen de la experiencia, tanto menos podemos seguirles, y nosvemos obligados a aceptar experiencias que nosotros mismos no hacemos y que, por

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1 R. KOSELLECK, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Suhrkamp,Frankfurt 1979, pp. 349ss.

2 Cfr. ibidem, p. 265.

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tanto, no son experiencias de la vida, de nuestra vida. La ciencia conduce a la fe... enla ciencia y en los científicos. En la medida en que los especialistas del experimentocientífico hacen del mundo —por decirlo con Kant— “objeto de la experiencia posi-ble”, deja el mundo de ser objeto de la experiencia propia.

3. El cultivo moral de la experiencia

El fenómeno correlativo en el campo de la ética es la apriorización de lasexpectativas morales, la respuesta menos oportuna a la pérdida de experiencia: larenuncia explícita a ella, o sea aquel apriorismo que —pese a la acertada crítica hege-liana, infructuosa al parecer— se ha convertido en un signo de identidad de buenaparte de la ética posterior a Kant y que culmina en la actual ética discursiva queabsuelve actualmente a quien lo desee de las faltas por omisión en materia de expe-riencia.

Los intentos de hacer una ética sin experiencia se apoyan en la suposición deque vivimos en una era postconvencional, lo que nos condena a producir toda nuestraorientación existencial a partir del discurso ético-filosófico. Creo que tiene razónOdo Marquard al declararse escéptico ante esta declaración “fundamentalista”, deque haya que partir de cero: tan mal no estamos3. El apriorismo de la ética discursivaexige que toda norma moral se fundamente en un discurso universal libre de dominioal que accedemos con la predisposición de dejarnos convencer por la fuerza delmejor argumento. Ahora bien, esa disposición a relativizar el propio punto de vista ya escuchar a los demás se sustenta ya en una actitud moral no deducida de ningúndiscurso, sino de la experiencia de la vida, que nos ha enseñado esta obligación ele-mental. El discurso no puede ser fundamento, comienzo absoluto. Sin una experien-cia moral fundamental ni siquiera el discurso mismo puede iniciarse. ¿Cuál es enton-ces la fuerza argumentativa en materia moral? No lo sé exactamente, pero en cual-quier caso muy limitada. Una sociedad donde la vida de seres inocentes hubiera deprotegerse únicamente con argumentos —en la que no hubiera ninguna “convencio-nalidad” previa bajo la forma de compasión espontánea, atención al otro, sinceridad,repugnancia ante el dolor injusto o sentido del ridículo— sería mejor abandonarla asu suerte y, por supuesto, mantenerse lo más alejado posible de los torturadores sinpretender convencerlos. Si todo hubiera de salvarlo la ética filosófica, sería un indi-cio de que ya no queda nada que salvar. La experiencia de la vida nos enseña que noestamos tan mal.

Aristóteles afirmaba que la ética no era apropiada para los jóvenes porquecarecían de experiencia de la vida. Esta opinión supone que la ética es una tematiza-ción de la experiencia de la vida que ya se tiene y no una fuente de futuras conviccio-nes. De la ética esperaba el perfeccionamiento del arte de vivir, una ayuda para con-firmar o corregir las costumbres de la vida, insustituible por un artefacto argumentati-vo. Pero para eso se necesita una cierta edad. Esa experiencia de la vida comparecerásin duda en un discurso moral pero no se adquiere en él. Si la moral “laica” quieredecir lo que el término significa —inexperto, lego en la materia, ignorante—, indi-

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3 Cfr. Das Über-Wir. Bemerkungen zur Diskursethik, en K. STIERLE / R. WARNING (eds.), DasGespräch, Fink, München 1984, pp. 29ss.

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caría que se espera demasiado de la ética y que se nos tiene en demasiado poco a losque no somos catedráticos de la materia. No estamos tan mal como piensan los anun-ciantes de la postconvencionalidad. La extensión de una suerte de docta ignorantiauniversalis como condición de acceso a la elaboración mutua de obligaciones mora-les provoca en el honrado hombre medio la sensación de que lo hecho hasta elmomento era una indecencia.

A diferencia de Aristóteles, el punto de partida de Kant es catastrofista. Pareceinteresado más bien en aleccionar al que no quiere ser bueno que en mejorar al queya está convencido, al ciudadano cuya honestidad se reconoce —mientras no sedemuestre lo contrario—, verdadero y único sujeto de la ética (que no necesitan ni elperfecto ni el desalmado, pues ambos son igualmente incorregibles). Kant parecesuponer que no hay nada en lo que apoyarse, una convicción inicial, algún valor pací-ficamente compartido, una preferencia de principio por el bien, un deseo de felicidadque no significa necesariamente el mal ajeno. El acceso al punto de vista del impera-tivo moral tiene el estatuto de una conversión. Bien podría decirse que el hombre esun estudiante de ética que no dejará de ser reprobable mientras no haya aprobado laasignatura. La ética de Kant es una respuesta a la pregunta: ¿cómo es posible unaética independiente de la experiencia? El apriorismo ético es la negación de la expe-riencia de la vida como instancia ética. No es casual que se dirija primordialmente alos casos de conflicto ético en los que las convenciones y la experiencia de la vidaparecen no ofrecer ninguna solución hasta que aparece la tabla de salvación de unimperativo formal. Para Aristóteles, en cambio, el conflicto no es el punto de partida.Por eso dedica su ética al acierto accesible a todos, a una virtud que no supone unavictoria, y transfiere los conflictos a la competencia de los poetas trágicos.

4. El realismo de la lentitud

La actual crisis de la experiencia a causa de la renuncia o desaparición de laexperiencia de la vida es lo que hace que aumente la necesidad de las ciencias delespíritu, de los saberes humanísticos, de la conciencia histórica y la experiencia esté-tica, de la filosofía. La recuperación del sentido de la realidad requiere otro ritmo.Efectivamente vivimos en un mundo acelerado, pero también tenemos al alcancemedios para compensarla. A la realidad oficial de la aceleración le acompaña siem-pre la realidad alternativa de la lentitud. Más aún: precisamente en un mundo rápidoes en el que que hay que ser lento para ser realista, es decir, para ser un poco másescéptico, para creer menos en los experimentos y en las expectativas, para no con-fiarlo todo a un discurso universal definitivo. Me refiero a esa suerte de escepticismoque se basa en la experiencia de nuestra finitud, de la escasez de tiempo, de la necesi-dad de contar con lo dado, de renunciar al patetismo crítico y mirar con desconfianzalas expectativas desmesuradas.

La velocidad no vence completamente a la lentitud; más bien ocurre que lanecesita para reparar sus propias disfunciones y con frecuencia acude a ella secreta-mente. Si, por ejemplo, nuestro tiempo está caracterizado por una creciente acelera-ción, esto significa que nuestras experiencias envejecen cada vez más rápidamente.Este es el problema de la obsolescencia que acompaña a toda aceleración; la creaciónde novedades incrementa lo que ha de desecharse. A la innovación le sigue el cemen-

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terio. A una cultura de la basura le acompaña siempre otra del reciclaje. Si en elámbito de la ciencia y la técnica aumenta el envejecimiento, en el de las letras recaela tarea de rescatar las significaciones de las particularidades agonizantes que nomerecen perecer. Tras la revolución viene el museo, es decir: el sentido estético y elsentido histórico. Donde crece la extrañeza crece también la necesidad de interpretarlo pasado. La era del desecho es también la era del museo y el monumento, de losparques naturales, de la protección del sentido de continuidad histórica, de la eco-logía física y de la ecología del espíritu, que son precisamente las humanidades, lossaberes de la interpretación y del recuerdo, de la lentitud. Pues la primera experienciaque se adquiere con el estudio de la historia es la siguiente: cuánto ha cambiadodonde casi nada ha cambiado. Y la segunda dice: qué poco ha cambiado donde casitodo ha cambiado y donde —como es el caso del mundo moderno— más cosas cam-bian y más rápido. En el mundo del cambio acelerado habita también la lentitud quees necesaria para no perecer en ese cambio, para hacerlo inofensivo, menos extraño.Ayuda a superar la insatisfacción con el mundo que —bajo la forma de desorienta-ción o perplejidad— surgiría ante la impresión de caducidad generalizada.

En un mundo acelerado crece pues la extrañeza, disminuye la experiencia.Nuestras experiencias envejecen con creciente rapidez. El mundo se amplía enorme-mente, pero —como ya he señalado— los experimentos técnico-científicos que losustentan no están a nuestro alcance. A los científicos se les cree. Lo que de elloresulta es que nos vemos empujados a sustituir las experiencias por expectativas ilu-sorias, hasta que finalmente dejamos de percibir la realidad por culpa de la ilusión: larealidad misma adquiere el estatuto de lo ilusorio (la confianza en el científico, elvideo juego, la realidad virtual, el pánico en las bolsas, la cultura de la imagen, elrumor, la simulación política... ). Si las ciencias físico-matemáticas se hicieran con elmonopolio de la experiencia, los no versados viviríamos en un mundo irreal, de puracreencia, sustentado en experimentaciones sofisticadas cuya validez no podríamoscomprobar. Pero afortunadamente existen las letras que todo el mundo entiende máso menos, para las que no hay una frontera exacta entre profesionales y aficionados, niacreditaciones de competencia exclusiva. A los humanistas se les juzga.

5. El rendimiento cognoscitivo del arte

En esta situación, los saberes humanísticos son un camino de retorno desde loficticio a la realidad. Aparentemente tienen más bien que ver con todo lo contrario:mundos irreales, mitos superados, libros envejecidos, teorías etéreas, sentidos inde-mostrables, horrores y bellezas en estado puro, gestas y tragedias... La expresión deVerlaine et tout le reste est litérature designa precisamente esa identificación dearte y falsedad retórica o, al menos, insignificancia cognoscitiva. Frente a esteprejuicio, Marquard ha propuesto recoger lo mejor de la concepción romántica delarte como anti-ficción, cuya tarea no tiene lugar en el ámbito de lo ficticio, sinoque es un instrumento para obtener experiencias —por eso Schelling llamaba alarte el órgano de la filosofía—, de reflexión y atención. Lejos de ser un entreteni-miento banal, el arte tiene que ver con lo que es “grave y constante” (James Joyce)en el misterio de nuestra condición. Su rendimiento cognoscitivo —al presentarnosla condición humana de una forma que nos es inédita y familiar a la vez, pues todo

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el mundo entiende el dolor y el llanto, cualquiera sabe de amores y traiciones—puede ser de gran relevancia en una sociedad precipitadamente dividida entre legosy competentes. El mundo del arte permite enriquecer las experiencias sin que dejende ser nuestras. Por eso puede contribuir a que deje de ser necesario adquirir com-petencia técnica a cambio de rudimentalismo cultural o pagar con un analfabetismotecnológico la privacidad llena de sentido. En otros términos: a que no haya queoptar entre la lentitud y la prisa, entre la experiencia y la perplejidad. Porque el artees lo más resistente al envejecimiento; su constancia y duración constituyen elnúcleo de su llamada de atención sobre ese aspecto y ese ritmo desatendido en lasuperficie de la aceleración.

El arte es experiencia, es decir, camino de acceso hacia la realidad. Esta concep-ción del arte es la antítesis de determinado estereotipo tardo-romántico que loentendía como embriaguez autorreferente. Un ejemplo de este tipo lo encontramos enla oposición entre conocimiento y arte, tal como lo establece Nietzsche en su comen-tario a una fábula puesta en boca de “un espíritu sin sentimientos” y que forma partede un escrito póstumo titulado Sobre el pathos de la verdad.

En un lejano rincón cualquiera del universo que se derrama reluciente en incon-tables sistemas solares hubo una vez una estrella sobre la que astutos animales inven-taron el conocer. Fue el minuto más arrogante y embustero de la humanidad, pero fuesólo un minuto. Tras unas pocas respiraciones de la naturaleza, se heló la estrella ylos astutos animales tuvieron que morir. Ocurrió en el momento preciso: aunque yase habían vanagloriado de haber conocido mucho, llegaron finalmente por detrás a lagran amargura de que todo lo habían conocido falsamente. Murieron y huyeron conel deseo de la verdad. Así fue la casta de animales desesperados que habían inventa-do el conocer.

Esta sería la suerte del hombre si fuera precisamente sólo un ser que conoce; laverdad le arrojaría a la desesperación y al aniquilamiento, la verdad de estar condena-do eternamente a la no-verdad. Pero al hombre sólo le conviene la fe en una verdadalcanzable, en una ilusión que se acerca cordialmente. ¿No vive propiamente de uncontinuo ser embaucado? ¿Acaso no le oculta la naturaleza la mayoría de las cosas,precisamente lo más próximo, por ejemplo su propio cuerpo, del que sólo tiene unaengañosa “conciencia”? Está encerrado en esta conciencia y la naturaleza arrojó lallave. ¡Ay de la funesta pasión del filósofo por lo nuevo, que exige mirar por una ren-dija hacia fuera de esa habitación de la conciencia! Quizás vislumbre entonces que elhombre está fijado sobre la avidez, la insatisfacción, la repugnancia, la impiedad, locriminal, colgado a la vez de la indiferencia de su ignorancia y de las espaldas de untigre en sueños.

“Déjalo colgado”, dice el arte. “Despiértalo”, dice el filósofo en el pathos de laverdad. Pero éste naufraga, mientras cree sacudir al que duerme, en una mágica dor-mición todavía más profunda — quizás sueñe entonces con las “ideas” o con lainmortalidad. El arte es más poderoso que el conocimiento, pues él quiere la vida,mientras que el otro alcanza como último fin tan sólo la aniquilación4.

La contraposición de Nietzsche se explica y a la vez es deudora de la restricciónracionalista que trató de asimilar lo verdadero a lo apodíctico y exacto, mientras

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4 KSA, 1, pp. 759-760 (cito según la edición Colli-Montinari, Kritische Studienausgabe,Berlin 1980).

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entregaba el vasto espacio de la opinión, de lo razonable, del relato verosímil al som-brío poder de la irracionalidad. Reconocer que existe una dimensión cognoscitiva enel arte y una dimensión artística en la filosofía se presenta como la única manera desuperar la estéril contraposición entre el discurso de la verdad objetiva y el de la fic-ción fantasiosa. El arte y la filosofía conspiran juntos en la tarea de ampliar la expe-riencia humana y fortalecer su atención. Están igualmente interesados en la vigiliadel hombre, que no quisieran pagar con el precio de despojar a la realidad de riquezay significación. Ambos rechazan tener que elegir entre los hechos y el sentido. Lasficciones son susceptibles de una verosimilitud que se hace patente en su rendimientocognoscitivo al explorar las posibilidades humanas. Esto no significa que el arte seala ilustración de una tesis filosófica. La única razón de ser del arte consiste en deciraquello que tan sólo el arte puede decir. Se trata de esclarecer estéticamente el mundode la vida aventurándose en el reino de las posibilidades humanas. Efectivamente, elarte proporciona consuelo, pero podemos distinguir entre los consuelos legítimos ylos demasiado fáciles o escapistas. Del arte no queremos sólo que nos consuele, sinoque haga descubrimientos sobre la dura realidad, que suavicen pero no oculten el ver-dadero dramatismo de la vida. En esto no hay nada perverso. Sólamente los librosque hacen pasar lo posible por real, que pretenden suplantar la vida y nos impidenatender a la realidad, los que nos transportan temporalmente a un ámbito del queregresamos sin ninguna ganancia, que no nos ayudan a comprender mejor la existen-cia humana, solamente estas mentiras inverosímiles merecen acabar, una vez pasadoel efecto de la droga, en el basurero de los aliviaderos.

La parábola de Nietzsche puede ser más cierta si es invertida y se intercambianlos papeles. En no pocas ocasiones la filosofía contiene menos realidad que el arte ynos deja literalmente colgados, mientras que el arte es un medio colosal de espabila-miento. Cuanto más tiende la realidad moderna a pasar de la experiencia a la expec-tativa, tanto más tiende el arte moderno a recorrer el camino inverso y salvar estética-mente la experiencia. No se trata tanto de descubrir lo estético en la experiencia coti-diana, como de salvar la experiencia cotidiana en lo estético. Pero esto sólo es posi-ble si lo estético (el arte y su recepción) es entendido y querido como experiencia. Locual, a su vez, no se logra a pesar, sino debido a que lo estético es un placer, un rega-lo, una posesión: el gozo de la experiencia5. El gozo recupera la fuerza de la expe-riencia para desmentir y para aprobar, que había desaparecido en presencia de la rigi-dez subjetiva o en la nebulosa de una expectativa siempre remota. La experienciaestética nos confirma en lo que somos y esperamos, pero nos hace gozar con el cum-plimiento de una expectativa. Vuelve a trazar un puente entre la experiencia y laexpectativa. Gracias a la experiencia estética ponemos fin a nuestra desatención ydesacuerdo hacia lo que ya somos, y al mismo tiempo nos libera de la sospecha deque no estemos haciendo otra cosa que un ejercicio de autocomplacencia, nos quitade encima la estrechez de miras, de quedar ciegos y necios. Y la estupidez más habi-tual —la que rige el mundo de hoy: “cuánto nos está costando sacarlo adelante”— esla expectativa etérea e inexperta que —al no conocer satisfacción plena— se vuelvecontra el mundo dado para anularlo en nombre de la salvación, aunque generalmente

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5 H. R. Jauß ha llamado la atención sobre este aspecto olvidado por la ascética estética de lanegatividad: la acción de disfrutar, que desencadena y posibilita el arte, es la experienciaestética originaria (Kleine Apologie des ästhetischen Erfahrung, Konstanz 1972, p. 7).

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la aniquilación no pase de ser una incapacidad para reconocer todo lo bueno que nosea resultado de nuestra esforzada construcción.

A un sujeto así le contradice y rectifica la experiencia estética, en la medida enque ésta mantiene y conserva el mundo que al negador se le estaba volviendo lejano.La experiencia estética torna las anteojeras en horizontes, desilusiona y pluraliza lasexpectativas por el cauce de lo beau relatif. Si esto es así, todos los vocablos con pre-tensiones de ocupar un lugar central en la definición del arte —utopía, manifestación,crítica, provocación, revuelta— deberían dejar paso a otros más tranquilos y reflexi-vos: experiencia, placer, variación, pluralidad, recuerdo, catarsis, identificación. Elarte de la expectativa debe ser sustituido por el arte de la experiencia para frenar esacreciente extrañeza del mundo, ese peculiar contemptus mundi de la desrealización.Las obras de arte son los medios de que se sirve la realidad para seducirnos, sonaprobaciones de lo existente, evidencias contra las escatologías precipitadas, reme-dios contra el abandono del mundo.

6. El error como falta de atención

El filósofo que no atiende a las seducciones de lo real se convierte en un serhostil y poco simpático, desconocedor del gozo del descubrimiento. Su pathos críticole lleva a tener dificultades para decir que sí, para aprobar6. El gesto de descontentohacia la realidad forma ya parte del estereotipo filosófico y da a entender que decirno es la auténtica relación con la realidad. Marquard habla a este respecto de unanostalgia del malestar en el mundo del bienestar. La cultura había sido definida porGehlen como una descarga de lo negativo; gracias a ella los hombres son aliviadosdel peligro, la enfermedad, la necesidad, el cansancio, el miedo. Los hombres tienenpues una disposición a negar, a deshacerse de lo negativo. Cuando lo negativo vadesapareciendo de la realidad, no desaparece al mismo tiempo la disposición humanaa negar. Se queda en paro y busca nuevas ocupaciones —males—, y los encuentraprecisamente en aquella cultura que libera de lo negativo, precisamente porque liberade lo negativo. Inicia un turismo frenético a la caza de confirmaciones de lo siniestro.A causa de esta nostalgia del malestar en el mundo del bienestar, el bienestar mismotermina siendo denominado malestar. Cuanto mejor nos va, tanto peor nos pareceaquello en virtud de lo cual nos va mejor. La descarga de lo negativo conduce a lanegativización de lo que efectúa la descarga. Mencionaré algunos ejemplos de estainclemente inversión de la disposición a negar: cuanto más enfermedades vence lamedicina tanto más se tiende a declarar a la medicina misma como enfermedad,cuanto más ventajas proporciona la química a la vida humana más se hace acreedorade la sospecha de haber sido inventada para el envenenamiento del hombre, cuantomás represión ahorra la democracia liberal tanto más es increpada ella misma comorepresiva. Quizá sea esta inversión la que explique también que precisamente en unacultura que logra superar las crisis se tienda a concebir la cultura misma como crisis.

Quisiera mencionar un ejemplo de ceguera filosófica y pathos de cercanía del

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6 Cfr. O. MARQUARD, Einheit und Vielheit. Ein philosophischer Beitrag zur Analyse dermodernen Welt, en Stifterband für Deutsche Wissenschaft: Mitgliedversammlung, Stuttgart8 de mayo de 1986, pp. 11-19.

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fin del mundo advertida desde el despiste trascendental disfrazado de privilegio. Enun seminario que tuvo lugar en 1942 acerca de la Teoría de las necesidades y cuyoprotocolo para la discusión ha sido publicado no hace mucho en las Obras completasde Max Horkheimer, se recogen algunas observaciones sin duda muy esclarecedorasdel alcance de la teoría crítica7. En el momento en que se presentía la posibilidad deque el capitalismo pudiera satisfacer en buena medida las necesidades elementales,aparece una nueva preocupación: que los hombres no se ocupen de las cosas más ele-vadas cuando están satisfechos. En una discusión con la novela de Aldous HuxleyBrave New World se expresa el temor de que la supresión de la necesidad pudieraequivaler a la supresión de la cultura. Con la desaparición de los viejos miedos seinsinúa una nueva amenaza. Adorno califica la reacción de los intelectuales ante lamaquinaria de cosificación como pánico8. Horkheimer declara que si se hace unadistinción entre las necesidades materiales e ideales, hay que mantenerse sin dudaen la satisfacción de las materiales, pues en esta satisfacción está implícita el cam-bio social. Esta pretensión de realismo se traduce en el empeño por evitar la demen-cia que supondría apelar a exigencias individuales. En la tranquilidad crítica delseminario, Adorno realiza la siguiente afirmación: no es que el chicle dañe a lametafísica; es que el chicle mismo es ya metafísica. La mala filosofía es expresión deque los hombres, en la abundancia de la vida asegurada, terminan por arreglárselascon la miseria y la injusticia. La metafísica es una distracción.

La discusión continúa con la inquietud no disimulada de que la supresión de lanecesidad pudiera llevarla a cabo el capitalismo y no el socialismo. La teoría críticade la cultura debería garantizar que la necesidad no fuera vencida por el falso salva-dor. Este era el sentido de la transformación del arte y de toda la cultura en crítica. Elarte es el guardián de esa verdad utópica. Por eso el arte es desrealizado en un senti-do inédito: hablamos hoy de arte, aunque no lo haya. En el arte que no se ha perdidoen la cultura se esconde un presentimiento de la situación en la cual no habrá domi-nio.

Una confirmación de que la idea de una sociedad sin clases es el único pensa-miento que está libre de toda sospecha de ideología la proporciona Horkheimer alconfesar: todo lo que tengo que afirmar hace referencia a la sociedad sin clases; elresto se me cae de las manos como una mentira. Este planteamiento llevaba consigola exigencia de mantener el ideal alejado de cualquier intento de llenarlo de conteni-do por medio de una intuición o identificarlo en la realidad de algo presente. Lavaguedad del ideal es la condición de su pureza incontaminada. Es difícil, piensaHorkheimer, decir cómo será la sociedad sin clases. Tan sólo se puede estar segurode que todo lo que actualmente se llama cultura es mentira. Los discos de gramófonono existen sino para cargarse la idea de la sociedad socialista. ¿Por qué vamos adefinir como un valor algo que sabemos que sólo existe hoy para impedir la sociedadsin clases? Si la cultura presente es excluida de participar en el futuro abstracto, estosignifica que la cultura actual en un sentido afirmativo sólo es posible como críticade la cultura. Cualquier tentación de construir puentes entre el presente y el futuro es

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7 Cfr. Gesammelte Schriften, Fischer, Frankfurt 1985, 12, pp. 559-586.8 La posición de Adorno, posteriormente matizada, será recogida en su escrito Aldous Huxley

und die Utopie, integrado en Prismen, Gesammelte Werke, Suhrkamp, Frankfurt 1977, 10,pp. 97-122.

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ahuyentada en estas discusiones. Todas las objeciones contra la realidad de la caverna—sobre la que los filósofos deberían actuar— son tan fuertes que al filósofo sólo lequeda la función de erigirse en un vigilante. En el fondo de la cueva rige una cegueratan generalizada que, como dice Adorno en un juicio severo acerca de las piezas deBeckett, hasta la muerte sale mal. El apocalipsis es el punto de fuga negativo de larelación hacia la idea originaria.

En estas discusiones, la dialéctica resulta ser el oscilar entre preguntas ingenuasy respuestas dogmáticas, un esfuerzo por salvarse de la ruina total presagiada por laimagen espectral de un fascismo ubicuitario. Su negativa a claudicar ante lo existenteconfiere a los filósofos un gesto crítico, les da la apariencia de estar emitiendo un jui-cio definitivo. Pero la idea de una sociedad sin clases no es más que un ticket quepermite liberarse de las lealtades frente a las circunstancias en las que se vive, circu-lar con un orgullo filosófico que vive del desprecio de todo saber empírico, desacre-ditar la empiria limitada de los habitantes de la cueva. En un excelente comentario almito platónico de la caverna y a su recepción histórica, Blumenberg ha hablado —apropósito del filósofo que ha visto las ideas y viene a mostrárselas a los habitantes dela penumbra interior— de las manos vacías del que regresa9. Esta vaciedad es otramanera de llamar a la falta de experiencia. La verdadera ingenuidad filosófica no esesa falta de experiencia que se disimula con un gesto de superioridad sobre lo real.

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9 Cfr. Höhlenausgänge, Suhrkamp, Frankfurt 1989.

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Tre teorie sulle emozioni: cognitiva, fenomenologica ecomportamentistica (seconda parte)*

ANTONIO MALO**

III. Teoria fenomenologica

Un altro modo di spiegare l’emozione è quello proprio della teoria fenomenolo-gica1. Prima di incominciare a parlare di questa importante corrente teoretica, ènecessario stabilire ciò che intendiamo come teoria fenomenologica. Con questo ter-mine non ci riferiamo soltanto alle tesi della fenomenologia di Husserl e dei suoiseguaci, ma anche a tutte quelle teorie sull’affettività che la considerano come unfenomeno di coscienza.

1. Si può considerare Cartesio come il precursore di questa tesi. Questo filosofoconsidera l’emozione come un sentimento soggettivistico concomitante ai processifisiologici ed alla condotta: l’uomo è capace di rendersi conto dello stato del suoorganismo e della condotta che ne deriverà, e tramite questa conoscenza può sceglie-re tra il seguire l’impulso degli spiriti animali o no2. C’è un punto di contatto con lateoria cognitiva, in quanto l’emozione è un modo di conoscere, ma si differenzia daessa perché non si tratta di una conoscenza sul nostro rapporto con il mondo — incontrapposizione a Aristotele — e neppure del nostro atteggiamento tendenziale —in contrapposizione a San Tommaso —, bensì si tratta di un sentimento soggettivisti-co concomitante. Ad esempio, la paura è il sentimento concomitante alla fuga e al

ACTA PHILOSOPHICA, vol. 3 (1994), fasc. 2 - PAGG. 339/352

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* La prima parte del presente articolo è stata pubblicata sul precedente fascicolo di «ActaPhilosophica», 3 (1994), pp. 97-111.

** Ateneo Romano della Santa Croce, Piazza Sant’Apollinare 49, 00186 Roma

1 Invece di teoria fenomenologica, Lyons parla di teoria dei sentimenti. Ci sembra che sia pre-feribile parlare di corrente teoretica fenomenologica, perché ciò che le diverse teorie di que-sta amplia corrente hanno in comune non è il concetto di sentimento, bensì l’identificazionedell’emozione con un fenomeno particolare di coscienza.

2 Cfr. Les passions de l’âme, AT XI, p. 347. Su questo argomento può vedersi il nostro artico-lo Coscienza e affettività in Cartesio, in «Acta Philosophica», 2 (1993), pp. 281-299.

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trovarsi fisiologicamente in un certo stato. Abbiamo così che l’emozione — secondoCartesio — ha un carattere complesso e quasi paradossale: non è una tendenza senti-ta, perché la tendenza appartiene alla sostanza estesa che in sé è inconscia (l’emozio-ne è, invece, un sentimento e quindi un fenomeno di coscienza) ma, allo stessotempo, essa si trova naturalmente collegata a determinati processi fisiologici.

L’ascrizione dell’emozione all’ambito dei fenomeni di coscienza, benché sem-bri di grande chiarezza (secondo Cartesio, non si può avere paura senza sentire paura,giacché la paura non è altro che un determinato oggetto di coscienza), pone dueimportanti problemi. In primo luogo, il tipo di oggettività che hanno le emozioni è —secondo Cartesio — diverso da tutti gli altri fenomeni di coscienza, perché, oltre adavere oscurità e confusione come nelle sensazioni e nei sentimenti organici, si speri-menta anche un’interiorizzazione o commozione nella propria anima, dalla quale haorigine il nome di emozione3.

In secondo luogo, Cartesio afferma che nell’emozione c’è un rapporto tra cam-biamenti fisiologici-emozione-condotta che non si trova negli altri oggetti di coscien-za. Ciò fa ipotizzare l’esistenza di un rapporto stretto tra la sostanza estesa e quellapensante che metafisicamente apparivano indipendenti. Certamente non si tratta —sempre secondo Cartesio — di un rapporto necessario, bensì contingente, in cui nonsi può parlare di causalità propriamente detta — Cartesio accetta soltanto quella effi-ciente —, ma di occasione naturale o di abito volontario. La contingenza di tale rap-porto fa sì che le passioni abbiano conseguenze morali, giacché attraverso la ragionee l’abito — questo concepito fondamentalmente come una tecnica — è possibilerompere il rapporto naturale.

D’altra parte, l’oggettività peculiare dell’emozione e il suddetto rapporto ven-gono messi in difficoltà dalla scoperta cartesiana di emozioni pure — l’amore, l’odio,l’allegria, la tristezza, ecc. — che non hanno un’origine corporale. Perciò si vedeobbligato a introdurre un altro aspetto nella sua teoria delle emozioni: la valutazionerazionale. Ciò nonostante non risolve il problema, perché la valutazione non serveper spiegare l’emozione in se stessa ma soltanto la sua origine. L’emozione continuaad essere un sentimento che accompagna uno stato fisiologico e una condotta e, quin-di, Cartesio deve sdoppiare ogni passione pura in una passione pura — sentimentodell’anima senza stato fisiologico — e in una passione impura — sentimentodell’anima che accompagna uno stato fisiologico particolare4.

2. Con la psicoanalisi, il concetto di emozione come fenomeno di coscienza siarricchisce dei risultati delle moderne teorie fisiologiche. La teoria di Freud5 collegail punto di partenza cartesiano — l’emozione è la registrazione soggettiva dei cam-biamenti fisiologici e dei movimenti corporali in un sentimento o percezione — conla tesi di Hume sul ruolo capitale che il piacere o il dispiacere hanno nell’emozione.Ma lo fa in un modo completamente nuovo. Freud accetta — come Hume — chel’emozione non sia un evento mentale o first impression, bensì un’impressione

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note e commenti

3 Cfr. Les passions de l’âme, AT XI, p. 348.4 Cfr. ibid., p. 397.5 Ci sembra che la tesi di Freud sull’emozione, sia per il punto di partenza sia per il ruolo

essenziale che in essa ha il sentimento, debba essere considerata come appartenente alla cor-rente fenomenologica, intesa nel senso ampio che usiamo qui.

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secondaria o reflective impression. La differenza tra Freud e Hume consiste in que-sto: secondo Freud, quest’impressione secondaria non deriva dalle impressioni origi-nali — né immediatamente e neppure tramite l’interposizione della loro idea — per-ché la causa dell’emozione non ha nulla a che vedere né con la coscienza né con ilcogito.

La distinzione tra la causa dell’emozione e l’emozione stessa risolve il proble-ma cartesiano dell’oscurità e confusione presenti nell’emozione. Infatti — secondoFreud — l’emozione, in quanto fenomeno di coscienza, è chiara, ma si tratta di unachiarezza falsa perché nasconde la sua origine oscura e confusa. La sorgentedell’emozione, come pure quella di ogni altro fenomeno di coscienza, è l’Es. L’Es, lacui materia prima è la libido6 o pulsione istintiva più impersonale e antica, è il fonda-mento delle altre due parti della psiche: l’Io — costituito dal pensiero e dal giudizio— è la parte dell’Es modificata dal contatto e dall’influsso del mondo esterno, e ilSuper-Io, che reprime gli istinti censurandoli o ricacciandoli nell’oblio.

Nella spiegazione dell’emozione, Freud si serve di questa triplice distinzione.L’emozione include in primo luogo particolari innervazioni o scariche, e in secondoluogo certi sentimenti di due tipi: percezioni delle azioni motrici che si sono prodottee sentimenti di piacere o dispiacere che danno all’emozione la sua caratteristicaessenziale. L’unione di questi due aspetti — sempre secondo Freud — nasce dallaripetizione di una esperienza particolare che si deve collocare nella preistoria, nondell’individuo, bensì della specie. Quando si presenta una situazione simile a quellaesperienza originale, gli stati affettivi sono vissuti nuovamente come simboli mnemi-ci. Secondo Freud, l’esperienza originale che è alla base di tutta l’affettività è il desi-derio sessuale dell’infanzia che rimane represso e inconscio. L’oggetto o la personache produce l’emozione deve, dunque, essere collegata a questo desiderio. Quandol’energia istintiva che risiede nell’inconscio è alta, c’è bisogno di una scarica che lariconduca a livelli normali. Se questa scarica non si produce tramite i canali appro-priati (la condotta sessuale), si fa attraverso valvole di sicurezza come gli affetti7.L’affetto viene considerato così un segno dell’energia istintiva.

L’impostazione freudiana dell’emozione ha un valore retorico ed etico contrarioa quello assegnatole da Aristotele. Lo psicoanalista analizza l’emozione, perché vivede il simbolo di qualcosa di nascosto. A differenza del retore, lo psicoanalista noncerca di suscitare l’emozione nel paziente ma di scoprirne la causa. Una volta trovatii desideri censurati o repressi cercherà di convincere il paziente di ciò che deve fareper tornare alla situazione ottima di equilibrio psichico. Arrivati a questo punto laretorica e l’ermeneutica psicoanalitiche si trasformano in etica: il dovere psicoanaliti-co non deriva — come è logico — dal giudizio dell’intelletto sulla molteplicità deidesideri (come accadeva in Aristotele), perché il giudizio stesso è fondato sullalibido, radice di tutti i desideri; ma è proprio questo impulso originario la sorgentedel dovere: la tendenza della libido al proprio soddisfacimento è l’unico dovere reale.

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6 Nella riduzione della psiche umana e, quindi, di tutte le manifestazioni culturali a libidoinfluisce grandemente la filosofia di Schopenhauer (vid. J. CHOZA, Conciencia y afectivi-dad, o. c., specialmente il primo capitolo).

7 Nell’impossibilità di liberare quest’energia istintiva si troverebbe l’origine della frustrazione,dei complessi e dei conflitti dell’uomo (vid. S. FREUD, The Psychopathology of EverydayLife, Holt, New York 1915).

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3. Con la filosofia fenomenologica, questa corrente teoretica sull’emozione rag-giunge i risultati più interessanti. Il suo punto di partenza è la concezione dell’emo-zione come un fenomeno di coscienza diverso dagli atti di pensiero e dalle volizioni:l’emozione non è un’idea o un oggetto di pensiero — contrariamente a Cartesio —,perché non corrisponde al logos, bensì è anteriore e, di conseguenza, ha un carattereprerazionale. L’emozione non è neppure l’aspetto conscio degli istinti biologici, né sipuò ridurre al sentimento di piacere o di dispiacere — contro gli psicanalisti.

Nel suo saggio Filosofia della Volontà, Ricoeur sistematizza il pensiero dellafenomenologia sul problema dell’emozione. Accetta la tesi di Husserl, secondo laquale il sentimento è intenzionale giacché si sente sempre «qualche cosa», ma a dif-ferenza di questo filosofo, che non pone nessun limite alla noematizzazione, Ricoeursottolinea la peculiarità dell’intenzionalità del sentimento8; si tratta di un’intenziona-lità strana perché «da una parte designa delle qualità sentite sulle cose, sulle persone,sul mondo, d’altra parte manifesta, rivela il modo in cui l’io è intimamenteaffettato»9. Nello stesso vissuto convivono, dunque, un’intenzione e un’affezione, unvissuto trascendente e la rivelazione di un’intimità. Secondo Ricoeur, in questo para-dosso consiste l’essenza del sentimento per la quale il sentimento è anteriore e irridu-cibile a qualsiasi polarità oggettiva.

L’intenzionalità dei sentimenti corrisponde — sempre secondo questo autore —all’intenzionalità delle nostre tendenze, perché ogni desiderio di «qualche cosa» con-tiene un «sentimento e amore di se stesso». Perciò, Ricoeur propone come metodoper studiare l’affettività, l’analisi intenzionale delle tendenze. Richiamandosi alladistinzione platonica delle tre parti dell’anima (bios, thymós, e logos) concepiscel’affettività come il thymós o mediazione tra il bios e il logos10. L’emozione nonsarebbe né puramente biologica né puramente razionale, ma parteciperebbe di ambe-due i livelli. In quanto legata al bios, l’affettività ha un desiderio vitale — oepithymía—; in quanto legata al logos, l’affettività ha un amore intellettuale — o

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note e commenti

8 Levinas sostiene qualcosa di molto simile: l’intenzionalità del «vivere di ...» (ciò che è senti-to) è diversa dall’intenzionalità della percezione perché il gioco della costituzione cambia disenso. Ciò — sempre secondo questo filosofo — è stato intuito da Cartesio, quando ha nega-to il rango di idee chiare e distinte alle sensazioni, ma non da Husserl. «Le monde où je visn’est pas simplement le vis-à-vis ou le contemporain de la pensée et de sa liberté constituan-te, mais conditionnement et antériorité. Le monde que je constitue me nourrit et me baigne»(E. LEVINAS, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, 4ª ed., Nijhoff, La Haye 1971, p. 102).

9 P. RICOEUR, o. c., p. 100.10 Prima di Ricoeur, Strasser concepisce l’affettività — seguendo Platone — come thymós o

Gemüt. Ma, mentre per Platone il thymós è inferiore al logos, per lo Strasser è il livello diesistenza più alto, perché lo concepisce come l’ambito proprio di uno spirito finito, capacedi assoluto tramite la mediazione del finito. Secondo lo Strasser, nel sentimento c’è unmovimento temporale che cerca di superare la stessa temporalità: alla condizione pre-inten-zionale, intesa come disposizione ad agire, segue l’atto, che è già intenzionale; il risultatodell’atto, in quanto rinforza la preferenza o gerarchia delle valutazioni, costituisce uno statopost-intenzionale o meta-intenzionale. Tallon sostiene che «with the help of affective con-naturality and habitude, Strasser’s metaphysics of the Gemüt is complete» (A. TALLON, o.c., pp. 341-360). Secondo questo critico, la conoscenza per connaturalità, che si identifica inun certo senso con l’intuizione, e l’abito fanno sì che l’uomo si avvicini agli spiriti angelici,i quali per intendere non hanno bisogno di ragione e il loro volere non nasce da un atto dellavolontà, bensì è l’atto di volontà a nascere dal loro volere.

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eros —. Tra questi due desideri esiste una sproporzione originaria che rende impossi-bile il tentativo di classificare le passioni a partire da un numero limitato di passionisemplici, perché le passioni umane non possono mai ricondursi all’unità. Questa dua-lità dei desideri si riflette nella dualità del piacere e della felicità: il piacere perfezio-na atti o processi isolati e parziali, mentre la felicità si riferisce ad un progetto esi-stenziale.

Il momento etico di questa teoria dell’emozione arriva con la distinzione trafelicità e piacere. La felicità — sempre secondo Ricoeur — è più perfetta del piacere,perché questo è finito, mentre quella è infinita. Nel contrarre la felicità in un istante,il piacere minaccia di paralizzare il dinamismo dell’agire nel festeggiamento delvivere. Il desiderio vitale non può essere, dunque, sorgente di eticità perché non èfondamento di un progetto esistenziale; lo è invece l’amore intellettuale, perché que-sto non si riferisce a ciò che è gradevole o sgradevole, bensì al valore o a priori delbene e del male qua e adesso11.

1. Obiezioni e critiche alle tesi fenomenologiche

La principale obiezione fatta a Cartesio, e in generale a tutta la psicologia che sifonda sull’analisi dei fenomeni di coscienza, è stata quella del Wittgenstein, il qualeha negato la possibilità stessa di ogni analisi considerando che la nostra esperienzainterna — completamente differente da quella esterna — non ne permette alcuna.Secondo Wittgenstein, l’errore di questi autori deriverebbe dalla tesi razionalista edempirista, secondo le quali per sentire qualsiasi tipo di evento mentale è necessarioun innersense o senso interno, simile ai sensi esterni, e questo — sempre secondo ilWittgenstein — è falso come dimostra l’asimmetria che esiste tra la prima e la terzapersona dei verbi che esprimono emozioni: io ho paura (l’emozione non ha bisognodi nessuna osservazione per essere verificata) e lui ha paura, in cui è necessarial’osservazione12.

L’errore consiste, dunque, nello stabilire una simmetria tra i fatti che sono cono-sciuti e verificati attraverso i sensi esterni e i fatti di coscienza — eventi, processi,stati d’animo, ecc. In realtà — opina Wittgenstein — non esistono propriamente fattidi coscienza, perché, mentre i fatti esterni possono essere espressi tramite il linguag-gio, gli eventi mentali sono inesprimibili e, quindi, incomunicabili. Il carattere mute-vole dell’evento mentale renderebbe impossibile la descrizione diretta e interna dellostato di coscienza associato ad una parola isolata. L’impossibilità di comunicarel’evento mentale deriva dalla specificità propria dell’espressione linguistica, perché— secondo questo pensatore — ogni espressione linguistica ha un carattere compara-tivo, negativo e oppositivo, la cui significazione non procede da un’esperienza vissu-ta, bensì da una scelta e da una valutazione escludenti13.

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11 Cfr. P. RICOEUR, o. c., p. 106.12 Cfr. J.V. ARREGUI, Descartes y Wittgenstein sobre las emociones, «Anuario Filosófico»,

24/2 (1991), p. 299.13 Cfr. L. WITTGENSTEIN, Remarks on the Philosophy of Psychology, I, eds. G.E.M. Anscombe,

G.H. von Wright, Blackwell, Oxford 1980, § 648. Commentando queste idee, Petit scrive:«nous nous rapportons aux choses avec tout notre langage, avec tout le système de nos con-

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La tesi di Wittgenstein non corrisponde completamente all’esperienza che tuttinoi abbiamo. Certamente i vissuti interni non sono come i fatti esterni, perfettamenteoggettivabili, esprimibili e comunicabili, né l’osservazione esterna è uguale all’espe-rienza interna, ma ciò non impedisce l’esistenza di vissuti né la loro conoscenza. Adesempio, l’allegria si sperimenta come luminosità interna, che non è osservabilecome un fatto esterno, bensì come un vissuto. Ci sembra che si possa fare aWittgenstein una critica simile a quella che lui ha fatto ai razionalisti: questo autoretenta di trovare una simmetria, lì dove c’è asimmetria, e siccome non la scopre, fini-sce per negare l’esistenza di ciò che è asimmetrico.

L’impostazione cartesiana non si deve, quindi, rifiutare completamente, perchél’emozione è anche conosciuta per mezzo dei nostri vissuti. Ciò che della tesi carte-siana non si può, invece, sostenere è la considerazione dell’emozione come un ogget-to di pensiero, benché si affermi che è oscuro e confuso. Infatti, la considerazionedell’emozione come un semplice evento mentale fa sorgere dei problemi irresolubili:come differenziare una paura da un’altra (ad esempio la paura di perdere la vita, lapaura di essere tradito, la paura di ciò che è sconosciuto, ecc.)? Se si parla di paura intutti questi casi, è perché c’è qualcosa di comune; ma in cosa consiste? Nel sentimen-to che può essere identificato come paura, nell’azione o nello stato fisiologico?

I filosofi analitici inglesi, sulla scia di Wittgenstein, hanno criticato anche ilconcetto cartesiano di causalità contingente. Kenny afferma infatti che le connessionitra l’emozione e l’oggetto, e tra l’emozione, i cambiamenti corporali e la condottanon sono contingenti, bensì necessari, giacché non si può definire un sentimentosenza tenere conto dell’oggetto, delle alterazioni corporali e della condotta né reiden-tificarlo14.

Tutte le critiche mosse contro Cartesio si possono ricondurre — secondoRicoeur — alla sua falsa visione antropologica, secondo la quale l’uomo sarebbe unasostanza pensante e, pertanto, la sua coscienza s’identificherebbe con il logos. Ma èugualmente sbagliato — sempre secondo questo autore — ridurre l’uomo a un sem-plice essere biologico, la cui coscienza sarebbe esclusivamente coscienza di istintibiologici, specie dell’istinto sessuale.

Nel situare l’origine delle emozioni nella preistoria della specie, Freud proponel’esistenza di una tendenza che è anteriore alla conoscenza razionale. Ma — comehanno messo in rilievo i filosofi fenomenologi — non si tratta di una tendenza unicabensì di una molteplicità: la repressione sessuale non può spiegare l’affetto di unpadre o di una madre per il bambino appena nato (l’interesse sessuale è rilevabile tra-mite la secrezione di un ormone, ma tale secrezione non appare in questo tipo diaffetto). D’altra parte è interessante sottolineare — come fa Freud — che la tendenza,benché sia inconscia, influisce sulla nostra condotta, ma certamente non con l’assolu-tezza e il determinismo che propone Freud.

Riguardo alla tesi di Ricoeur, ci sembra che questa non sia così contraria a quel-la di San Tommaso come ad un primo sguardo potrebbe sembrare, perché l’Aquinateparla anche dell’esistenza di due tipi di appetiti: quello sensibile e quello intelligibile,

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note e commenti

cepts. Holisme: un mot est solidaire de la structure grammaticale d’une phrase, et cette phra-se est à la langue comme une pièce de machine à la machine entière. Or le système completde la langue ne correspond à rien dans notre expérience vécue» (J.-L. PETIT, La Philosophiede la Psychologie de Wittgenstein, «Archives de Philosophie», 54 (1991), p. 595).

14 Cfr. A. KENNY, o. c., pp. 12-13.

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che hanno una certa somiglianza con i due desideri di cui parla Ricoeur. Ciò nono-stante esiste un’importante differenza: San Tommaso vede un rapporto stretto traquesti due appetiti, come tra la conoscenza sensibile e quella intelligibile, mentreRicoeur sottolinea la loro dualità che finisce molte volte in contrasto o in tensione.

Questa sproporzione originaria tra la epithymía e l’eros è —secondo noi — ilpunto più debole della tesi di Ricoeur. La possibilità dell’integrazione di questi desi-deri si fonda — a suo avviso — non sulla capacità che ha l’eros di assumere tutti glialtri desideri, per il fatto di derivare dalle istanze conoscitive e volitive alle quali sisubordinano naturalmente le istanze conoscitive inferiori (questa è la soluzione diAristotele e di San Tommaso), bensì sulla possibilità che ha lo spirito di cogliere idiversi valori mediante la riduzione all’essenza e l’intuizione preferenziale.Certamente la possibilità di cogliere i valori suppone un’apertura dell’eros rispettoagli altri desideri, ma se il desiderio vitale non ha una certa subordinazione naturalenei riguardi dell’eros, il dominio di questo ultimo non potrà non essere dispotico.

D’altra parte, Ricoeur stabilisce una dicotomia tra la epithymía o affettività vita-le e l’eros o affettività spirituale; ma — a nostro parere — l’uomo ha una sola affetti-vità, perché l’affettività è inseparabile dalla coscienza, che è unica15.

IV. Teoria comportamentista

Un’altra tesi è quella dei comportamentisti che riducono l’emozione ai suoiaspetti osservabili. Il precursore di questa tesi è James, che critica le entità psichichedelle emozioni cartesiane. A suo avviso, benché si debba accettare che le emozionisono sentimenti, questi sono il risultato dei cambiamenti fisiologici che, proprio perquesto, costituiscono l’essenza dell’emozione (siamo tristi perché piangiamo, ma nonpiangiamo perché siamo tristi) 16. Certamente, il pianto ha a sua volta una causa, lapercezione di un oggetto che ci fa piangere, ma questa percezione — a suo avviso —non fa parte dell’emozione, bensì è il suo antecedente. In questo modo, nell’emozione— sempre secondo questo autore — non c’è nessun fattore cognoscitivo. L’elementoconoscitivo non appartiene all’essenza dell’emozione e, di conseguenza, non serve astabilire differenze tra le emozioni. Per fare ciò è sufficiente — secondo James — ana-lizzare e misurare quantitativamente i cambiamenti fisiologici osservabili17.

La tesi di James è stata approfondita e corretta dalla psicologia comportamenti-sta. Secondo Watson, un’emozione è un pattern-reaction ereditato che contiene in séprofondi cambiamenti nei meccanismi corporali, specie nel sistema limbico. Questopattern-reaction — sempre secondo Watson — viene modificato molto presto, perciò

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15 Ugualmente ci sembra inesatta la tesi di Alquié, secondo cui ci sarebbero due coscienze:una razionale ed un’altra affettiva (vid. F. ALQUIÉ, La conscience affective, Vrin, Paris1979).

16 Cfr. W. JAMES, The principles of Psychology, Holt, New York 1890, pp. 452 e sgg. Jamesstabilisce una distinzione tra «coarser emotions», come la collera, il dolore e la paura, e«subtler emotions», come l’amore, l’indignazione e l’orgoglio; questo secondo tipo di emo-zioni contiene meno sentimenti del primo.

17 Il problema è — come afferma Munn — che l’aspetto fisiologico non racconta tutta la storiadell’emozione. Cannon, d’altra parte, ha sperimentato che gli stessi cambiamenti avvengonoin emozioni differenti ed anche negli stati non emozionali (cfr. W. LYONS, o. c., pp. 15-16).

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negli adulti è difficile differenziare, in riferimento ai patterns della condotta, un’emo-zione da un’altra o da un sentimento non emozionale. Il problema principale perWatson consiste nell’individuare questi pattern-reaction prima della loro modifica,altrimenti non si conoscerà mai il tipo di emozione; né, d’altra parte, si potrà stabilireuna classificazione, giacché le reazioni non sono mai identiche, neppure nello stessosoggetto.

Watson riduce, dunque, tutte le emozioni ai pattern-reaction del bambino appe-na nato e questi, a loro volta, a reazioni provocate da cambiamenti fisiologici. Lapaura, la rabbia e l’amore (questo ultimo inteso nel senso freudiano di libido) costi-tuiscono i tre tipi di cambiamento fisiologico che si producono nel bambino; e diquesti tre, soltanto la paura e la rabbia sono emozioni. Siccome l’emozione consistein una semplice reazione, ciò che causa l’emozione è — secondo Watson — la situa-zione. Davanti alla stessa situazione, conclude questo psicologo, l’emozione è più omeno la stessa, perché i cambiamenti fisiologici sono gli stessi18.

Skinner, il più noto esponente del comportamentismo contemporaneo, si rendeconto dell’insufficienza della tesi di Watson. Benché accetti che il comportamento sifonda su due fattori — la fisiologia e lo stimolo esterno o ambiente — non considerai cambiamenti fisiologici come essenza dell’emozione, bensì la condotta che agisce oproduce un risultato desiderato e, perciò, tende a ripetersi. Sono, quindi, le predispo-sizioni ad agire in un modo determinato quelle che definiscono un’emozione specifi-ca: un uomo adirato colpisce il tavolo, sbatte la porta..., perché il suo comportamentotende a raggiungere i risultati desiderati, propri della persona che è stata offesa19.

Scott, un altro comportamentista, cerca di studiare il comportamento in accordocon le attuali teorie di sistemi. In un articolo molto discusso20, studia la funzionedelle emozioni nei sistemi di comportamento. Le conclusioni a cui arriva sono leseguenti:

1. Le emozioni sono aspetti dei complessi rapporti che si stabiliscono tra i siste-mi dell’organismo: ingestivo, protettivo-ricercativo, investigativo, sessuale,epimeletico (cura dei piccoli della propria specie), et-epimeletico (di espres-sione di aiuto e di attenzione), agonistico, allelomimetico (di imitazione) edeliminativo (di secrezione).

2. C’è un piccolo numero di emozioni, la cui funzione varia secondo il livello diorganizzazione del sistema in cui appaiono: alcune emozioni si trovano pri-mariamente collegate al mantenimiento della stabilità interna o omeostasi(come la fame, la sete, il respiro, la tenerezza, la collera, l’ansietà); altreemozioni, come quell’agonistica e quella sessuale, contribuiscono fortementeall’approfondimento dei rapporti sociali.

3. Nessuna emozione può essere usata come modello delle altre, giacché ognu-na ha una funzione diversa secondo il sistema a cui appartiene; così l’amore

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note e commenti

18 Cfr. J. B. WATSON, Psycology as the Behaviorist views it, «Psycological Review», XX(1913), pp. 158-177. Può vedersi anche la sua opera Behaviorism, Norton, New York 1930.

19 B.F. SKINNER-HOLLAND, The Analysis of Behavior, p. 214; cit.: W. LYONS, o. c., p. 21.20 J. P. SCOTT, The function of emotions in behavioral systems: a systems theory analysis, in

AA. VV., Emotion: Theory, Research, and Experience I: Theories of Emotion, AcademicPress, Inc., London 1980, pp. 35-56.

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dei genitori verso i piccoli è diverso dall’amore tra maschio e femmina, per-ché il primo appartiene al sistema epimeletico, mentre il secondo corrispondeal sistema sessuale.

4. Non c’è una separazione chiara e netta tra sensazione ed emozione, bensì unacontinuità graduale.

5. Tutte le emozioni hanno due funzioni nei sistemi organici: mantenere il com-portamento per lunghi periodi affinché l’adattamento si produca, e rafforzareil comportamento in un modo positivo o negativo, contribuendo cosìall’apprendistato delle risposte necessarie per vivere.

1. Obiezioni e critiche alle tesi comportamentiste

Benché i comportamentisti differiscano tra loro nel modo di considerare l’emo-zione (alcuni sottolineano l’importanza del pattern-reaction, altri mettono l’accentosullo stimolo esterno, sul comportamento o sulla funzione biologica dell’emozione),tutti concordano nell’identificare l’emozione a partire esclusivamente dalle manife-stazioni esterne (siano cambiamenti fisiologici, siano comportamenti determinati).

Questa tesi viene rifiutata dalla semplice esperienza, giacché nonostante lemanifestazioni esterne possano indicare l’emozione che prova una persona, non sem-pre lo fanno in un modo veritiero. Contro la tesi di Watson, si deve affermare, dun-que, che la situazione non è in grado di spiegare l’origine dell’emozione perché unastessa situazione può provocare emozioni diverse o non provocarne nessuna. Watsonnon può spiegare perché davanti al pericolo uno fugga e un altro resti fermo. D’altraparte, le alterazioni fisiologiche non sono il fondamento dell’emozione, perché, adesempio, nel coma si verificano delle alterazioni fisiologiche che non corrispondonoa nessuna emozione.

Si potrebbe per lo meno accettare che l’emozione si trovi legata a un determina-to comportamento come vorrebbe lo Skinner? Questo autore vede bene che l’azioneappartiene al concetto di emozione, ma quest’azione non sempre è una condottadeterminata come egli vorrebbe. Alla tesi di Skinner si può fare, perciò, la seguenteobiezione, seguendo il Lyons21. L’uomo adirato agisce in una molteplicità di modidiversi: arossisce, contrae i muscoli, grida, ecc. Come capire se la faccia rossa corri-sponda al comportamento dell’uomo adirato o a quello dell’uomo in preda alla ver-gogna? Skinner farebbe probabilmente appello ad un altro fattore, la situazione. Macosì è impossibile evitare di cadere in un circolo logico: la condotta viene identificatacome adirata a partire dallo stimolo della situazione e, a sua volta, lo stimolo vieneidentificato come provocatore dell’ira a partire dalla condotta che stimola.

D’altra parte, secondo Skinner, l’emozione nasce quando non c’è una reazioneadeguata tra lo stimolo e la risposta, perché quando la reazione è adeguata la rispostaè così subitanea che non ha bisogno di emozioni. L’emozione avrebbe allora la fun-zione di trovare una risposta adeguata. Ma, come sottolinea la Heller, «la tesi è asso-lutamente falsa quando la reazione adeguata non è parte organica del processo ma,per esempio, del prodotto finale. Chi non ha mai ancora provato la soddisfazione e

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21 Cfr. W. LYONS, o. c., p. 22.

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gioia incontenibile se a una domanda inaspettata ha risposto con prontezza e precisio-ne?»22.

La tesi di Scott sfugge a questa seconda obiezione perché l’emozione non appa-re come sostitutivo della risposta adeguata, bensì si trova legata necessariamente asistemi di comportamento ben determinato. Ciò nonostante, non riesce a sottrarsi allaprima obiezione, perché il solo metodo che egli adopera è quello dell’eteroosserva-zione esterna. Da qui l’indistinzione tra sensazione e sentimento, giacché dal punto divista della loro funzione nel sistema non ci sono differenze. D’altra parte non puòconcepire sentimenti che non siano collegati ai sistemi che egli individua. Ad esem-pio, l’amore è — secondo lui — collegato al sistema epimeletico o al sistema sessua-le, ma l’amore per Dio o l’amicizia non hanno nulla a che vedere con questi duesistemi.

V. Conclusione

La storia filosofica dell’emozione si può interpretare come la ricerca di unarisposta alla domanda sull’oggettività dell’emozione. Oltre ad essere centrale inambito teoretico — soprattutto nel campo della teoria della conoscenza e dell’antro-pologia —23 la questione ha delle conseguenze molto importanti in ambito pratico,poiché la negazione del carattere oggettivo dell’emozione significa di racchiuderlanell’ambito della coscienza e, di conseguenza, di rendere impossibile la sua comuni-cazione (l’emozione sarebbe qualcosa di ineffabile), la sua razionalizzazione (l’emo-zione potrebbe essere soltanto intuita) e la sua educazione (l’unico controllo possibilesull’emozione sarebbe quello dispotico della ragione). D’altra parte, affermarel’oggettività dell’emozione presenta meno problemi, ma ciò non corrispondeall’esperienza che noi abbiamo dell’emozione, secondo la quale ci rendiamo contoche essa non è perfettamente comunicabile né può essere assolutamente oggettivatané controllata.

I cognitivisti hanno visto molto bene quando sostengono che l’emozione è inrapporto con la valutazione di una realtà — sia attraverso la semplice presenzadell’oggetto in una circostanza determinata, sia attraverso l’impulso che l’oggetto fasorgere in noi — e, di conseguenza, che l’emozione non è fenomeno meramente sog-gettivo. Infatti, siccome l’emozione ha un rapporto con la valutazione fatta dal sog-getto, essa ha un carattere soggettivo; ma, poiché la valutazione si riferisce ad unarealtà che appare nell’emozione come il suo oggetto, l’emozione ha un’oggettività.

Dal canto suo, il cognitivismo moderno, sotto la spinta della psicoanalisi e delcomportamentismo, ha sottolineato altri elementi che sono presenti nell’emozione:l’impulso, il desiderio, il sentimento e l’azione. L’emozione appare così come unarealtà complessa in cui c’è un’interiorità — impulso, cambiamenti fisiologici, senti-mento, valutazione o opinione — e un’esteriorità — realtà, evento o azione davantialla quale essa viene provata; manifestazioni esterne dei cambiamenti fisiologici,gesti e azioni.

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note e commenti

22 A. HELLER, Teoria dei sentimenti, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 27.23 Autori come Scheler, Strasser, Lersch, Wojtyla, Ricoeur, ecc. hanno prestato un’attenzione

speciale al ruolo dell’affettività nella struttura della persona.

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Due sono i problemi che emergono dall’impostazione cognitivista:

a) Esiste un rapporto tra tutti questi elementi?b) Qual è il tipo di rapporto?

I comportamentisti negano l’esistenza di un rapporto tendenza-sentimento-com-portamento perché il loro metodo di accesso allo studio dell’emozione è esclusiva-mente l’eteroosservazione. Siccome attraverso questo tipo di esperienza non è possi-bile accedere alle tendenze né ai sentimenti, l’emozione è identificata con il compor-tamento, con le differenze già viste a seconda degli autori.

I cognitivisti e i fenomenologi accettano invece l’esistenza di questo rapporto,perché, oltre all’eteroosservazione, considerano lecita l’autoosservazione. La distin-zione tra queste due correnti sta nel modo di concepire il sentimento: nel cognitivi-smo — sia quello classico, sia quello moderno — il sentimento è una valutazione ouna tendenza sentita che dipende da una valutazione (la valutazione o giudizio èl’elemento essenziale dell’emozione), mentre nella fenomenologia il sentimento è unfenomeno di coscienza, che nasconde un impulso originario (questo è il pensiero diFreud) o è un fenomeno di coscienza, la cui intenzionalità è peculiare perché supponela propria affezione e, di conseguenza, il livello tendenziale della nostra personalità(questo è il pensiero di Ricoeur, Levinas, ecc.).

Le differenze tra queste due correnti si osservano meglio se si analizza il modoin cui ognuna concepisce il tipo di rapporto tendenza-sentimento-comportamento.Tutti i cognitivisti accettano l’esistenza di un rapporto. Nella tesi di San Tommaso,seguita dalla Arnold, la valutazione è la causa dell’emozione, giacché muove l’appe-tito — lo fa passare dalla potenza all’atto — e, come abbiamo spiegato, questo movi-mento, in quanto viene sentito, costituisce propriamente l’emozione.

Lyons però critica questa tesi, perché — secondo lui — l’emozione non è unappetito sentito bensì una valutazione. Per mostrare l’inconsistenza della tesi tomista,Lyons usa l’esempio dell’emozione della tristezza cagionata dalla morte di un amico,nella quale non si sente nessun impulso o tendenza ad agire e, dunque, non è spiega-bile attraverso lo schema impulso-verso il bene o impulso contro-il male percepito.In definitiva — conclude questo critico — ci sono emozioni che non sono attive,come la tristezza o, in misura minore, l’allegria, ma quello che non manca mainell’emozione è la valutazione.

A nostro avviso, il problema della tesi di San Tommaso non è identificare il sen-timento con l’appetito sentito, bensì il fare dipendere l’attivazione dell’appetito da unavalutazione della cogitativa. Infatti se così fosse, il rapporto valutazione-sentimento-azione sarebbe molto simile a quello di causalità efficiente, ma in questo tipo di rap-porto non è possibile distinguere con chiarezza la causa dall’effetto. Certamente, lavalutazione di qualcosa come pericolosa può attivare l’appetito che spinge alla fuga oa fare fronte al pericolo, ma la valutazione stessa è possibile soltanto se si ha appetitoo tendenza alla propria conservazione. Un problema simile si presenta alla tesi diLyons, in quanto la valutazione, oltre ad essere causa dell’emozione, costituisce unelemento dell’emozione stessa. Infatti, l’attaccamento del soggetto ad un valore —come l’amicizia verso una persona — appare come condizione antecedente dell’emo-zione della tristezza per la morte dell’amico. Ma come stabilire se il soggetto sia attac-cato a un valore, se non tramite la constatazione che egli reagisce emotivamente nelle

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situazioni in cui questo valore è messo in gioco o viene perduto, come accade appuntonel caso della morte dell’amico24?

Perciò — in questo siamo d’accordo con Ricoeur — più che parlare di un rap-porto causale tendenza-sentimento-azione si deve parlare di un rapporto intenzionale,in quanto il sentimento contiene in sé il riferimento alla tendenza. È proprio questoriferimento alla tendenza ciò che appare nella coscienza come una valutazione. Latristezza per la morte di un amico si fonda sulla percezione di quella morte come unmale, ma è un male non perché venga valutata così da un giudizio razionale, bensì daun giudizio naturale che è previo e, a volte contrario, al giudizio razionale. Se possia-mo valutare come un male la morte dell’amico, è necessario accettare l’esistenza diun appetito nell’uomo verso l’amicizia. La possibilità di poter percepire questo benedi natura spirituale, dimostra che nell’uomo oltre alle tendenze biologiche ci sonoanche quelle spirituali25. La classificazione tomista degli appetiti deve essere, dun-que, ampliata da questi appetiti o tendenze spirituali.

Per fare ciò è necessario stabilire altri criteri nella classificazione degli appetiti.San Tommaso usa come criterio l’oggetto dell’appetito così come appare nella rifles-sione: l’appetito irascibile ha come oggetto il bene arduo o difficile da raggiungere,l’appetito concupiscibile quello concupiscibile e l’appetito intelligibile quello intelli-gibile. Ma gli appetiti, tranne quelli spirituali, non possono avere come oggetti questerealtà astratte che non soddisfano i bisogni, bensì realtà concrete che li soddisfino,come il cibo, una bibita, ecc. Dunque gli oggetti che specificano le tendenze sarannotali perché le soddisfino. Ci sembra che la definizione tomista di appetito non corri-sponda a ciò che è l’appetito o tendenza in se stessa, bensì alla valutazione che derivadalla tendenza — qualcosa è conveniente o sconveniente — o al modo in cui apparel’oggetto nella coscienza — la coscienza di piacere, la coscienza di difficoltà, ecc.

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note e commenti

24 Neuberg critica tanto la teoria cognitiva quanto la fisiologica o comportamentista, perché —secondo lui — spiegare la reazione emotiva di un individuo non consiste nell’indentificaregli antecedenti causali dell’emozione, bensì nel farla apparire come espressione della perso-na, presente in una situazione che essa considera come qualcosa che la coinvolge. Benchénon neghi l’esistenza di un elemento conoscitivo nell’emozione, considera che questo ele-mento non sembra essere una valutazione puramente cognitiva come sarebbe, invece, quelladell’intelletto che, considerando da un lato la situazione e dall’altro i valori a cui la personaè attaccata, giudicherebbe questa situazione come pericolosa (a questo giudizio seguirebbeun sentimento di paura). È — sempre secondo questo autore — la persona che fin dall’ini-zio sente quella situazione come paurosa, la sperimenta come fastidiosa, ecc. Ciò non vuoldire — conclude Neuberg — che senta delle sensazioni di pericolo, bensì che la persona èpresente in tale situazione in uno stato di tensione, di eccitazione, di agitazione, ecc. (vid.M. NEUBERG, o. c., pp. 479-508). Neuberg non spiega però perché la persona è presente inuna data situazione in un determinato stato.

25 Un’ampliazione delle tendenze in questa direzione è stata fatta dal Lersch, per il quale c’èuna pluralità di tendenze somatiche-psichiche-spirituali che, nell’essere vissute, dannoluogo alle diverse emozioni. Lersch stabilisce una corrispondenza piena tra tendenza edemozione (vid. Ph. LERSCH, o. c., pp. 99-303), ma — secondo noi — questa corrispondenzanon è perfetta, perché, ad esempio, la tendenza al nutrimento è sentita come fame e noncome emozione. C’è bisogno dunque di stabilire una distinzione tra l’emozione e le altretendenze sentite. D’altra parte non sempre le tendenze sono conscie: molte volte la tendenzaall’autostima in un modo esagerato non si sperimenta ma il soggetto ha questa tendenza,come dimostra il giudizio sbagliato che dà di se stesso e degli altri.

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Infatti la coscienza della valutazione di qualcosa come piacevole o difficile non è unappetito, bensì un sentimento.

Si potrebbe obiettare che se la tendenza è all’origine della valutazione nonsarebbe possibile spiegare perché davanti alla stessa realtà, ad esempio, un cane cheabbaia, alcune persone hanno paura mentre altre non hanno nessuna emozione. Ladistinzione tra le valutazioni che fanno le persone davanti alla stessa realtà può illu-strarsi nel seguente modo: benché tutti gli uomini abbiano in genere le stesse tenden-ze — come quella alla sopravvivenza —, il temperamento, le esperienze e, soprattut-to, l’educazione ricevuta le va foggiando in un modo determinato. In definitiva latendenza di unione a ciò che è ritenuto come conveniente per la vita e il suo contrario— di separazione — spiegano perché l’uomo sia in grado di amare e di odiare, ma laconcretizzazione di questo amore o odio di una certa persona verso una determinatarealtà non si può spiegare facendo appello soltanto alle tendenze.

Un’altra obiezione si riferisce al rapporto intenzionale del sentimento conl’azione. Secondo Lyons questo rapporto non esistirebbe perché una stessa emozionepuò dare origine a diversi comportamenti. La critica di questo autore non ci sembrapertinente, perché l’azione non deve sempre intendersi come un comportamento con-creto. Certamente nell’emozione dell’ira, le azioni si possono situare all’interno d’uncomportamento aggressivo, ma nelle emozioni che nascono da tendenze spirituali —desiderio di potere, amicizia, religiosità — non esiste un collegamento necessariocon un comportamento determinato, perché la condotta non è data nella tendenza senon come differenti possibilità di agire che devono essere concretizzate. La culturagioca in questo punto un ruolo essenziale.

Il sentimento però non può ridursi alla valutazione, perché la sua intenzionalitàè allo stesso tempo un’affezione. L’affezione si presenta come una totalità dotata dicaratteristiche somatiche e psichiche. Dal punto di vista psichico, il vissuto affettivopuò essere analizzato in termini di intensità, interiorità, attualità ed altri analoghi.L’emozione dell’allegria, ad esempio, si percepisce come luminosità interna e comemancanza di tre note penose dell’esistenza: il suo peso, la sua tensione e la sua stret-tezza e, in fine, come vissuto singolare del tempo, in quanto la coscienza rimanetotalmente immersa nella visione del presente26. Non è casuale che la beatitudine,paradigma dell’allegria, sia rappresentata proprio in questo modo, né che una misticacome Santa Teresa d’Avila descriva l’inferno, il paradigma opposto, come un corri-doio buio, molto stretto27.

In conclusione per accedere all’emozione abbiamo una doppia via: l’esperienzainterna che permette di analizzare la valutazione e il sentimento, e l’esperienza ester-na che permette di osservare le manifestazioni esterne. Ognuna di queste due espe-rienze, nonostante la loro utilità, non serve da sola né per sentire l’emozione né perspiegarla. Ciò si osserva, ad esempio, nella nostra comprensione dell’allegria, cheparte sempre dal sentimento di allegria che abbiamo sperimentato qualche volta.

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26 Per la caratterizzazione fenomenologica dell’allegria può vedersi Ph. LERSCH, o. c., p. 37.Oltre a queste esperienze dell’allegria ne abbiamo un’altra, quella che corrisponde ad untono vitale alto manifestato nei toni acuti della voce — alle volte sono vere e proprie grida—, nei gesti di aprire le braccia o di sollevarle e nell’attività diligente.

27 SANTA TERESA DE AVILA, Obras completas, 8ª edizione, La Editorial Católica S.A., Madrid1986, p. 173.

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Infatti se non esistesse questa esperienza interna dell’allegria, le sue manifestazioniesterne rimarrebbero per chi le osserva vuote di significato, sarebbero come il signifi-cante di una parola in cinese per una persona che non ha nessuna conoscenza di que-sta lingua o come la descrizione di un colore per un cieco dalla nascita. D’altra partese non ci fossero delle manifestazioni, l’allegria — come qualsiasi altra emozione —sarebbe incomunicabile, non soltanto in quello che ha di esteriorità ma anche in quel-lo che corrisponde al proprio modo di sentirla. La connessione tra aspetto interno edesterno si presenta quindi come qualcosa di necessario nella costituzione dell’emo-zione e nella sua comprensione, ma non è una connessione spiegabile in termini dicausalità efficiente28, bensì in termini dell’intenzionalità specifica che corrispondeall’affettività.

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note e commenti

28 Certamente è possibile scoprire dei collegamenti tra il sentimento interno dell’allegria e lesue manifestazioni esterne, come il tono vitale alto e il vissuto di ampiezza, o tra il senti-mento di godimento del presente e la visione fiduciosa o l’atteggiamento diligente. Ma nellamanifestazione esterna non c’è nulla che si identifichi o, per lo meno, che assomigli al vis-suto di luminosità o di chiarezza. Così come la diligenza nell’agire non è vissuta nel senti-mento interno di allegria.

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Cronache di filosofiaA cura di DANIEL GAMARRA

La verità scientifica

Nei giorni 24 e 25 febbraio 1994 si è svolto all’Ateneo Romano della Santa Croce il IIIConvegno annuale organizzato dalla Facoltà di Filosofia, sul tema La verità scientifica. La scien-za attuale di fronte all’intellegibilità del reale.

La tematica trova la sua motivazione nella fiducia riposta oggi nella scienza, apparentementepiù credibile della filosofia come sapere oggettivo, insieme alla crescente convinzione epistemolo-gica della scienza come conoscenza congetturale in perenne revisione di se stessa.

V. Cappelletti, vicepresidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ha inaugurato la sedutadel primo giorno con un’ampia e penetrante presentazione del pensiero umano sempre rivolto allaricerca della molteplice unità della natura, sin dai presocratici (in particolare Parmenide) fino allascienza moderna. Nella dialettica universale-individuale, quantità-qualità (ma sottolineando il pri-mato del qualitativo), il pensiero cerca l’intellegibilità del mondo fisico e approda ad una menteuniversale che trascende la natura stessa.

Dalla metafisica si è passati alla scienza con l’esposizione di T. Arecchi, presidentedell’Istituto Nazione di Ottica. Il suo intervento ha rilevato la crisi effettiva della scienza univocacartesiana e galileiana, una scienza deduttiva basata sul dualismo teoria-osservazione e su unagrammatica semanticamente riduttiva, la cui formalizzazione completa fu vanamente tentata daCarnap nel contesto del neopositivismo logico. I teoremi di limitazione di Gödel e di altri matema-tici e l’attuale indirizzo delle scienze fisiche non lineari hanno evidenziato l’intrattabilità dellesituazioni complesse e l’indicibilità e non computabilità come caratteristiche che emergonodall’approccio matematico e analitico nei confronti della natura. Arecchi propone un nuovo schemascientifico basato su un linguaggio “adattivo” che rivaluta il senso della verità come “adeguamentoalla realtà” (San Tommaso), purché venga abbandonata la concezione definita “schizofrenica” divoler cogliere completamente la natura attraverso procedure di computazione.

M. Baldini, ordinario di storia della medicina all’ Università di Roma “La Sapienza”, terzorelatore della prima giornata, ha fatto notare il ruolo positivo degli errori nella conoscenza scientifi-ca. Pur nella sua negatività, l’errore riconosciuto e sempre in agguato non è solo un segno dellalimitazione umana ma è anche un collaboratore nella ricerca della verità. Possiamo imparare dainostri errori e come indici negativi essi sono indicatori della strada più giusta. Dopo aver illustratol’importanza dell’errore epistemologico nelle filosofie di Popper e di Bachelard, Baldini ha conclu-so invitando la filosofia della scienza a prendere nota di un punto pratico fondamentale: la scienzanon nasconda gli errori storici commessi nelle indagini, altrimenti non imparerà a rettificare.

La seconda giornata del Convegno ha avuto inizio con la relazione di R. Martínez, docente difilosofia della scienza all’Ateneo della Santa Croce. La scienza è riconosciuta come intrinsecamen-te fallibile dall’odierna epistemologia, ma la fallibilità non è assoluta, osservò il relatore, nel sensoche non sempre le teorie scientifiche superate finiscono “nel cestino dei rifiuti”. Se la cosmologiatolemaica ad esempio può considerarsi come semplicemente falsa, la scienza newtoniana nei con-fronti della teoria della relatività e della fisica quantistica non merita certamente un’identica valuta-zione. In quest’ultimo caso abbiamo a che fare con una scienza superata eppure vera a un certolivello. Questa conclusione, che porta anche al ridimensionamento dell’incommensurabilità di para-

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digmi di Kuhn, si comprende meglio con un concetto adeguato di verità scientifica, non assolutisti-co o razionalista.

La relazione di M. Artigas, decano della Facoltà ecclesiastica di filosofia dell’Università diNavarra (Spagna), si pone in continuità con la medesima tematica. La verità delle scienze speri-mentali è parziale, contestuale e approssimativa. La sua contestualità, punto discusso con particola-re vivacità nella tavola rotonda del pomeriggio, deriva dal fatto che le scienze fisiche elaboranooggettivazioni precise per capire la realtà in rapporto a strumenti di misura e di osservazioni (conl’uso, di conseguenza, delle definizioni operazionali). In queste condizioni (cioè in un contesto con-cettuale e sperimentale) è possibile determinare il significato e il riferimento dei termini degli enun-ciati scientifici, onde nasce il rapporto veritativo come adeguamento dell’enunciato scientifico conla corrispondente realtà naturale.

Infine mons. J. Zycinski, vescovo di Tarnów e membro della Pontificia Accademia Teologicadi Cracovia, si è soffermato sulla convinzione realistica degli scienziati, sempre riconfermata dallescoperte scientifiche che alle volte avvengono anche indipendentemente dalle teorie, da una parte, eal contempo e convergentemente previste dai teorici (come avvenne con la scoperta della radiazio-ne cosmica di fondo nel 1965). Non sorprende allora la rinascita odierna della filosofia della naturaispirata alle scienze sperimentali, anche se praticata spesso in modo dilettantesco. Si apre così, con-cluse mons. Zycinski, un panorama di ricerca promettente per la filosofia: «esiste un ampio numerodi problemi scientifici, soprattutto nel campo della cosmologia, della meccanica quantistica e dellabiologia che può avere una funzione euristica positiva per lo sviluppo della metafisica».

Juan José SANGUINETI

CONVEGNI

� Sul tema Le passioni di Simone Weil. Politica, cultura, religione, si è svolto un convegno, il27 e 28 gennaio 1994, organizzato dal Dipartimento di Ermeneutica filosofica dell’Università diTorino, e dal Centre Culturel Français e dall’Association pour l’Étude de la pensée de SimoneWeil. Dopo il saluto del prof. U. Perrone, sono intervenuti come relatori: A. Devaux, Simone Weilou la passion de la vérité; G. Gaeta, Simone Weil, una lettura politica; P.C. Bori, Ogni religione èl’unica vera; G. Forni, Simone Weil e il cristianesimo. L’incontro è terminato con una tavola roton-da in cui erano presenti: U. Perrone, G. Fiori, B. Manghi, A. Marchetti, L. Ronconi, A. Devaux, G.Forni, G. Gaeta, N. Bosco. Le sessioni del convegno si sono tenute presso il Centro di Studi T.S.T.,Piazza San Carlo, 161, 10123 Torino.

� Su Il mistero del male e la libertà possibile: lettura delle ‘Confessiones’ e del ‘De Trinitate’di Agostino, è stato organizzato dal Centro Studi Agostiniani, a Perugia, un convegno di studiosvoltosi dal 22 al 23 marzo 1994. Hanno partecipato con diverse relazioni: N. Cipriani, IstitutoPatristico di Roma: L’autonomia della volontà umana nell’atto di fede; V. Grossi, Istituto Patristicodi Roma: Libero arbitrio, libertà e antropologia nelle Confessioni; J. Oroz Reta, Università diSalamanca: Esigenze della libertà e del male nelle Confessioni; M. Cristiani, Università di Siena:Manicheismo e responsabilità personale. Inoltre sono state lette le seguenti comunicazioni: I.Sciuto, La volontà del male tra libertà e arbitrio; M. Bettetini, Libertà e male nel XII libro delleConfessioni; G. Balido, Realtà divina e virtualità antropologica nel De Trinitate; V. Paccioni,Auctoritas et ratio, via alla vera libertà; P.A. Ferrisi, Male, misticismo e sessualità nel pensiero dis. Agostino. Le riunioni si sono svolte presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, Sala delle Adunanze,Piazza Morlacchi, Perugia. Segreteria organizzativa: Via Aquilone 8, 06123 Perugia.

� La Commissione Diocesana per la pastorale universitaria del Vicariato di Roma ha organizzato il7 maggio 1994, presso l’Aula Paolo VI della Pontificia Università Lateranense, Piazza SanGiovanni in Laterano 4, 00184 Roma, il Simposio dei docenti delle Università di Roma sul tema:Verità e Cultura. Il simposio era diviso in quattro sessioni: Verità e Cultura; Verità e Cultura

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nell’Università (I e II); Molteplicità e unità del sapere, e vi hanno partecipato diversi professori eautorità accademiche delle Università romane: U. Betti, Rettore della Pontificia UniversitàLateranense, G. Tecce, Rettore dell’Università degli Studi “La Sapienza”, A. Bausola, Rettoredell’Università del Sacro Cuore, P. Bucci, Rettore del Libero Istituto Universitario CampusBiomedico, B. Tedeschini Lalli, Rettore della III Università di Roma, L. Clavell, Rettoredell’Ateneo Romano della Santa Croce, A. Brancati, Rettore dell’Università “Tor Vergata”, G.Dalla Torre, Rettore della LUMSA, M. Arcelli, Rettore della LUISS. Inoltre sono intervenuti nellediverse sessioni: il Cardinale Camillo Ruini, V. Cimagalli, R. Cortesini, F. D’Agostino, C. diAgresti, R. Farina, G. Iacovitti.

� Due importanti incontri si sono tenuti nel corso del 1994 nel campo della filosofia fenomenologi-ca; entrambi sono stati organizzati dall’Istituto Mondiale di Ricerca e di Studi Avanzati diFenomenologia, presieduto dalla prof.ssa A.T. Tymieniecka. Il primo, il cui titolo è stato Gli idealidell’umanità, si è svolto a Graz (Austria), dal 22 al 28 agosto, in occasione della celebrazione del25º anniversario dell’Istituto. In questi anni di lavoro questa istituzione ha organizzato ben 35 con-vegni internazionali, ha pubblicato 48 volumi della serie Analecta Husserliana, e 17 corrispondentialla collana Phenomenology Inquiry. Il secondo convegno si è svolto a Parigi dal 6 all’8 ottobre, eha avuto come tema centrale La fenomenologia della vita come punto di partenza della filoso-fia. Per informazioni sulla pubblicazione degli atti ci si può rivolgere a: A.T. Tymieniecka, 348Payson Rd., 02178 Belmont, Mass., Stati Uniti.

� Il Departement of Moral Philosophy, dell’University of St. Andrews, ha organizzato per il pros-simo mese di marzo del 1995, dal 23 al 26, la Conference of Moral Philosophy, a cui partecipe-ranno, fra gli altri, D. Brink, T. Irwin, Ch. Korsgaard, P. Railton, M. Smith, D. Velleman. Per infor-mazioni è possibile rivolgersi a: G. Cullity, B. Gaut, J. Skorupski, Departement of MoralPhilosophy, University of St. Andrews, Scotland KY16 9 AL, tel.: 0334-62486/7; fax: 0334-6248.

RIVISTE

� ANGELICUM (Universitas a Sancto Thoma Aquinate in Urbe)71/1 (1994)

A. Lobato, Filosofía y “Sacra Doctrina” en la escuela dominicana del s. XIIIL’A. mette in risalto la novità culturale della scuola domenicana che, soprattutto attraversoTommaso d’Aquino, dà vita ad una nuova ed originale filosofia al servizio del sapere teologico.Una delle basi fondamentali di questa novità, valida ancor oggi, è la portata trascendente dellaintelligenza umana che permette di capire l’essere e i primi principi. L’articolo si chiude conun’appendice con una selezione di testi riguardanti la legislazione dell’Ordine Domenicanosugli studi. I testi appartengono a documenti del 1228 e del 1259.

J.A. Merino, Filosofía y teología en la escuela franciscana medievalL’articolo prende in esame i rapporti fra filosofia e teologia in tre grandi autori francescani:Bonaventura, Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham, ma anche con qualche riferimentoa Alessandro di Hales. L’orizzonte speculativo della scuola francescana, sottolinea l’A., non èfondamentalmente antagonico rispetto ad altre scuole del XIII secolo, ma rappresenta una lettu-ra originale e, allo stesso tempo, complementare dell’universo medievale.

H. Barbour, Tra “lectio” e “disputatio” negli studi monastici del XIII secoloL’A. mette in risalto il ruolo della retorica nella costituzione della filosofia scolastica, e comequesta ars non venne trascurata né in ambito filosofico-accademico né in ambito liturgico, cioènelle disputationes e nella lectio divina, rispettivamente.

Cronache di filosofia

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� THE JOURNAL OF THE BRITISH SOCIETY FOR PHENOMENOLOGY (JBSP)25 (1994), fascicolo monografico: The Philosophy of Merleau-Ponty

A. Grieder, How Phenomenologists Rediscovered the WorldL’A. afferma che la fenomenologia non è un’unica filosofia, ma che si tratta soprattutto di uninsieme di filosofie la cui connessione si deve cercare nell’aria di famiglia che esiste fra diesse. Nell’articolo vengono delineate alcune caratteristiche comuni alle diverse filosofie feno-menologiche per individuare il contesto nel quale si colloca la filosofia di Merleau-Ponty.

T. O’Connor, Foundations, Intentions and Competing TheoriesL’articolo presenta una prospettiva critica riguardo all’avvicinamento e alla valutazione fonda-mentale della filosofia di Merleau-Ponty. L’A. afferma che la sola lettura positiva dei testi delfilosofo francese non è sufficiente per capire la portata del suo pensiero; lo si dovrebbe leggereinvece con una certa dose di scetticismo, motivato dal fatto che la filosofia di Merleau-Pontyha, secondo l’A., problemi di unità interna e dall’esistenza di autori che contestano più o menoradicalmente l’idea stessa di filosofia così come la intende Merleau-Ponty.

P.L. Bourgeois, Merleau-Ponty and Heidegger: The Intentionality of Transcendence, The Being ofIntentionality

Il modo in cui Merleau-Ponty affronta il tema dell’intenzionalità e quello della trascendenza èambiguo, secondo l’A., e ciò è dovuto, in parte, alla questione della continuità o discontinuità, aseconda delle interpretazioni, fra le opere giovanili e il suo pensiero più maturo. L’A. comun-que afferma che tale ambiguità si potrebbe in buona misura superare attraverso uno studio orga-nico della totalità delle opere di Merleau-Ponty che rivelerebbero anche una vicinanza rispettoad alcune tematiche heideggeriane, di cui lo stesso Merleau-Ponty sarebbe l’ispiratore.

M. Villela-Petit, Selfhood and CorporeityA differenza di Heidegger, la considerazione del se (selfhood) secondo Merleau-Ponty implica,malgrado la via indiretta e talvolta esitante attraverso cui conduce la sua ricerca, una considera-zione esplicita e centrale del problema della corporeità, che in ultima analisi lo conduce, secon-do l’A., a tentare un vero sviluppo di un’ontologia della carne.

F. Dastur, Perceptual Faith and the InvisibleL’A. esegue un’attenta analisi fenomenologica della questione della percezione sensibile e dellafede nella realtà risultante dalla percezione, allo scopo di individuare quali sono, secondoMerleau-Ponty, le percezioni originarie che servono ad innestare il vero discorso filosofico.L’A. conclude che la fede nella percezione è l’esperienza dell’appartenenza all’essere che per-mette una visione indiretta di ciò che in se stesso è invisibile.

G.A. Johnson, The Colors of the Fire: Depth and Desire in Merleau-Ponty’s “Eye and mind”La filosofia si trova nella situazione di dover cogliere il profondo a partire da ciò che il filosofovede e che è appunto superficiale. La tematica del profondo in Merleau-Ponty è un punto cen-trale del suo pensiero giacché compare a proposito di diverse analisi e questioni fenomenologi-che. L’A. dell’articolo spiega come Merleau-Ponty intende il profondo in rapporto con ladimensione spaziale, e come mette in evidenza la tematica del profondo del mondo con ilprofondo del desiderio.

M.S. Münchow, Seeing Otherwise - Merleau-Ponty’s LineLa finalità dell’articolo è quella di esplorare un elemento che appare nella fenomenologia dellapittura secondo Merleau-Ponty, cioè la tematica della fenomenologia della linea che evidenziacome l’universo onirico, che la pittura realizza, è un arricchimento dell’esperienza umana.

W.S. Hamrick, Perception, Corporeity and KindnessIl soggetto centrale che sviluppa l’A. è quello di mostrare, seguendo il pensiero di Merleau-Ponty, come il fenomeno della qualità viene illuminato attraverso la fenomenologia della perce-

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zione e della corporeità. Esistono, secondo l’A., percezioni immediate della presenza della qua-lità, che fondano e sono il presupposto delle nostre più complesse relazioni percettive con gradidiversi di qualità. Il chiarimento di questi rapporti è possibile attraverso l’analisi fenomenologi-ca della percezione della qualità come specificamente diversa dalla percezione ordinaria.

R. McLure, SeeingL’A. tenta di chiarire alcuni aspetti centrali del dibattito sul vedere epistemico e il vedere non-epistemico, che è tuttora in corso fra diversi autori inglesi e americani. L’A. prende posizionenel senso che considera il vedere in se stesso come un atto non-epistemico sulla base del con-cetto di Merleau-Ponty del vedere pre-predicativo.

� THE PHILOSOPHICAL QUARTERLY (University of St. Andrews)175 (1994)

D.W. Hamlyn, Perception, Sensation and Non-conceptual ContentL’A. prende in considerazione la questione dei rapporti fra oggetto e conoscenza sensibile, conl’intenzione di chiarire se tale rapporto possa essere concettualizzato attraverso uno schemacausa-effetto, oppure se c’è nella percezione qualche elemento che non si riduce ad un rapportocausale e che potrebbe di conseguenza essere più adatto ad una spiegazione di taglio fisiologista.

R. Moran, Interpretation Theory and the First PersonEsiste il consenso, afferma l’A., che ogni volta che nell’ambito della filosofia della mente siparla di argomenti come la fiducia, il desiderio, la percezione, e via dicendo, questi concettiimplicano l’applicazione di un determinato tipo di teoria. Il discorso sul riconoscimento dellaprima e della terza persona implica invece una serie di concetti che appartengono alla psicolo-gia del senso comune, che non costituisce una teoria fittizia oppure preconcetta, ma si tratta,come dice l’A., di una “teoria teoria”, cioè di una vera spiegazione dei fatti psicologici.Vengono discusse quindi due posizioni intorno alla questione degli stati mentali nel riconosci-mento della prima e terza persona, e l’A. prende posizione per quella denominata“Interpretation theory”, che si rifà a D. Davidson.

H.O. Mounce, The Philosophy of the ConditionedL’A. prende in considerazione alcuni aspetti della filosofia di J.S. Mill e di W. Hamilton perstabilire in che modo entrambi gli autori possano dirsi realisti. Il filo dell’argomentazionedell’A. è la considerazione delle tesi fondamentali della gnoseologia sia di Mill che diHamilton; malgrado il diverso successo dell’uno e dell’altro —si afferma—, la filosofia diHamilton è “l’unica forma coerente di realismo”.

J. McDowell, The Content of Perceptual ExperienceL’A. esamina alcuni punti della teoria di D. Dennett sul rapporto fra il contenuto percettivo emondo, per affermare che, secondo Dennett, le intuizioni non sono indipendenti da ogni conte-nuto concettuale, e che appunto non può affermarsi un dualismo, di stampo kantiano, fra intui-zione e concetto.

� SAPIENTIA (Universidad Católica Argentina, Facultad de Filosofía y Letras)187-190 (1993)

Vengono pubblicati gli indici generali della rivista, dalla sua fondazione nel 1946 fino al 1992,in due fascicoli doppi. Gli indici, come scrive nella Presentazione il prof. R.E. Aras, compren-dono gli indici di autori di articoli e di note, gli indici di materie generali, e gli indici di concettirilevanti.Vol. 48, fasc. 187-188: Indice general (1946-1992), I: Editoriales y ArtículosVol. 48, fasc. 188-189: Indice general (1946-1992), II: Notas, Comentarios y ReseñasBibliográficas

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� ETHICS. AN INTERNATIONAL JOURNAL OF SOCIAL POLITICAL AND LEGAL PHILOSOPHY

In un fascicolo non numerato, la rivista di etica dell’Università di Chicago, pubblica: OneHundred Year Index, Volumes 1-100 (October 1890 - July 1990). Articles and DiscussionsIndexed by Author. Si tratta degli indici completi di cento anni di pubblicazioni.

SOCIETÀ FILOSOFICHE

La Sociedad Iberoamericana de Estudios Kierkegaardianos, dell’UniversitàPanamericana di Città del Messico, ha presentato il libro di Luis Guerrero Martínez, Direttore dellaSocietà, intitolato: Kierkegaard: los límites de la razón en la existencia humana (PublicacionesCruz O, México, 1993). L’opera di Guerrero presenta una biografia del filosofo danese, un resocon-to dei suoi scritti, per un’ulteriore e più profonda analisi ermeneutica di Kierkegaard. Altri temi svi-luppati nella pubblicazione sono: i presupposti antropologici nel divenire esistenziale; coscienza escelta nei modi di esistenza; l’io come sintesi; dimensione antropologica del peccato; esistenza emondo; la fede come realizzazione esistenziale.

Da poco più di un anno ha cominciato la sua attività l’Istituto S. Tommaso (IST), presso laPontificia Università S. Tommaso d’Aquino di Roma, presieduto dal P. Dietrich Lorenz. L’Istitutoorganizza corsi di complemento degli studi tomistici, indirizzati alla specializzazione nella letturaed ermeneutica delle opere di Tommaso d’Aquino. È associato alla Fédération Internationale desInstituts d’Études Médiévales (FIDEM) e si «propone di formare allo studio e all’approfondimentodi S. Tommaso e del tomismo, e di evidenziare il contributo che essi offrono alla riflessione con-temporanea». I corsi comprendono un biennio di studio, suddiviso in quattro semestri. Il primosemestre è stato dedicato ad una Introduzione storico-critica e allo studio di alcune opere di sanTommaso, e vi hanno partecipato come professori: D. Lorenz, A. Lobato, L.-J. Bataillon, R. Busa,L. Boyle e S. Tugwell. Durante il secondo semestre sono state studiate le Opere filosofiche diTommaso d’Aquino, con speciale riferimento a suoi opuscoli, con la partecipazione, fra gli altri, diE. Berti, D. Mongillo, P. Nowacki e F. Compagnoni. La terza parte del corso è stata dedicata fonda-mentalmente allo studio delle Opere di Teologia e Sacra Scrittura, con corsi tenuti da E.Kaczynski, R. Imbach, M.M. Rossi, L. Sileo, A. Cacciotti, B. Douroux, G. Muraro e T. Centi. Perl’anno accademico 1994-95 sono previsti invece una serie di corsi il cui tema centrale sarà la Storiadel tomismo e rapporto col pensiero moderno; i professori che interverranno sono: R.Scognamiglio, S. Fernández, M. Fitzgerald, E. Platti, A. Cortavarría, A. Eszer, P. Conforti, U.Horst, J. Castaño, C. Soria e J. Montero. Col titolo Studi 1994, l’IST ha pubblicato una raccolta distudi, conferenze e discussioni che hanno avuto luogo in questo suo primo anno di vita. Al terminedel biennio di studi l’IST rilascia un Diploma; l’indirizzo è: Largo Angelicum 1, 00184 Roma. Tel.:67021; Fax: 679.04.07.

In occasione del 50º anniversario della morte del filosofo idealista Giovanni Gentile, e del250º anniversario della morte di Giambattista Vico, l’Accademia d’Ungheria in Roma, con sede aPalazzo Falconieri, Via Giulia, 1, 00186 Roma, ha organizzato le Giornate di Studio sulla FilosofiaItaliana, dal 25 al 27 maggio 1994. Ha presentato e introdotto i lavori János Kelemen, Direttoredell’Accademia e professore dell’Università di Budapest, e sono intervenuti in qualità di relatori:A. Negri, che ha parlato su: Neoidealismo italiano - Ricupero di Vico - Ermeneutica; J. Pál, Sullafortuna di Vico; A.M. Jacobelli, Vico e il linguaggio; C. Castellani, Metafisica della mente e«verum factum»; J. Jacobelli, Il carteggio di Gentile; V. Stella, La filosofia dell’arte di Gentile; A.Jannazzo, Gentile e il fascismo. Fra gli altri hanno presentato comunicazioni: K. Kaboklicki, T.Szabó, A. Wessely, F. Rizzo Celona, B. Somlyó, A. Sabatini, L. La Porta, E. Ördögh, A. Infranca eM. Montori. Le Giornate di studio si sono concluse con una tavola rotonda, presieduta da G.Vattimo, sulla filosofia ermeneutica italiana, cui hanno preso parte anche B. Bacsó, G. Carchia, J.

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Kelemen, G. Nicolaci e B. Samlyó. Nel corso della tavola rotonda è stato presentato un numeromonografico della Rivista «Athenaeum» di Budapest, con il titolo Olasz filozófai hermeneutika(Filosofia ermeneutica italiana).

La Katholische Hochschulgemeinde, di Vienna, ha pubblicato gli atti dei suoi due ultimiconvegni. Il primo volume, il cui titolo è Naturwissenschaft und Weltbild. Mathematik undQuantenphysik in unserem Denk- und Wertesystem, ed è curato da H.-Ch. Reichel e Enrique Prat(Verlag Hölder, Wien 1992), raccoglie i contributi del simposio tenutosi dal 15 al 17 gennaio 1991.Il volume è diviso in tre sezioni: Matematica e immagine del mondo, con interventi di H.-Ch.Reichel, G.J. Chaitin, K. Sigmund; Fisica e immagine del mondo: W. Kummer, K. Baumann, J.S.Bell, A. Zeilinger, D. Flamm; Scienza della natura, filosofia e fede: P. Weingartner, G. Pöltner, J.Seifert, A. Suarez. Il secondo volume, intitolato Ökonomie, Ethik und Menschenbild, a cura di E.Prat (Verlag Fassbaender, Wien 1993), presenta gli atti del simposio corrispondente al 24-25 marzo1992. Nella prima sezione, Etica e immagine dell’uomo nella teoria economica, scrivono H.-Ch.Biswanger, H. Matis, M. Spieker, E. Prat, J. Hanns Pichler; la seconda, Etica, razionalità ed econo-mia, è a carico di P. Koslowski, F.R. Hrubi, R. Alvira; e l’ultima, intitolata: Etica e immaginedell’uomo nella prassi economica, raccoglie le relazioni di A. Maculan, K. Czempirek, M.Hofmann, H. Stremitzer; il libro si chiude con un Epilogo di Ch. Schönborn. Entrambi i volumivengono corredati da un ampio indice di nomi e di materie.

La Fondazione Ezio Franceschini, presieduta dai proff. M. Olivi e C. Leonardi, bandisceogni anno diverse borse di studio sia per avviare programmi di ricerche, che per tesi di laurea giàdiscusse. Fra l’altro quest’anno le borse istituite sono state dedicate alla miglior tesi di laurea incultura mediolatina e a ricerche in storia della letteratura mistica del Medioevo, teoria musicale nelMedioevo, filologia e letteratura latina medievale. Le informazioni per participare ai diversi con-corsi si possono richiedere alla Fondazione: Certosa del Galluzzo - 50124 Firenze; tel. (055)204.9749.

In occasione della pubblicazione dell’opera di Paul Ricoeur, Sé come un altro, a cura diDaniela Iannotta (Jaca Book, Milano 1993), l’8 gennaio 1994 hanno parlato sull’Ermeneutica delSé, presso la sede del Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche (Via dei Serpenti 100, 1º): F.Brezzi, D. Iannotta, D. Iervolino, T. Imamichi e M. Sánchez Sorondo. Il 26 febbraio, in occasionedella presentazione dell’opera di Marco Ivaldo, Libertà e Ragione. L’etica di Fichte (Mursia,Milano 1992), sono intervenuti sul tema: Fatto morale e metodica trascendentale, i proff. F.Bianco, A. Rigobello, A. Ales Bello e M. Ivaldo. Entrambe le sessioni sono state seguite da undibattito.

RASSEGNE EDITORIALI

� La casa editrice Laterza (Roma-Bari 1993) ha pubblicato di H. Althaus, Vita di Hegel. Annieroici della filosofia, in cui l’autore presenta una ricostruzione unitaria della vita, opere e sviluppodel pensiero di Hegel.

� Il noto studioso di Aristotele Pierre Aubenque ha curato un interessante lavoro collettivo sullapolitica aristotelica: P. Aubenque - A. Tordesillas (a cura di), Aristote politique: études sur la‘Politique’ d’Aristote, PUF, Paris 1993.

� G. Duso pubblica un approfondito studio: Il contratto sociale nella filosofia politica moderna,Franco Angeli, Milano 1993.

� Sono stati pubblicati gli Atti dell’Internationales-Edith Stein-Symposion tenutosi a Eichstatt nel

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1991: R.L. Fetz - M. Rath - P. Schulz (a cura di), Studien zur Philosophie von Edith Stein, KarlAlber Verlag, 1993.

� È uscito un nuovo volume della opera omnia di Hans-Georg Gadamer che include scritti di este-tica: Gesammelte Werke, vol.: VIII: Ästhetik und Poetik I. Kunst als Aussage, J.C.B. Mohr,Tübingen 1993.

� Presso la casa editrice Payot di Parigi è uscito: George Gusdorf, Le Romantisme, 2 voll. (Payot,Paris 1993).

� Una traduzione di un importate libro di S. Kierkegaard è stata pubblicata da Rizzoli: S. Kier-kegaard, Stadi sul cammino della vita, Rizzoli, Milano 1993. L’edizione è stata curata daLudovica Koch.

� Un interessante libro su un aspetto di singolare importanza per la cultura filosofica tedesca diquesto secolo è uscito di recente: K.-Ch. Köhnke, Entstehung und Aufstieg des Neukantismus.Die deutsche Universitätproblem zwischen Idealismus und Positivismus, Suhrkamp Verlag,Frankfurt a.M. 1993.

� Nella collana “La Nuova Italia Scientifica”, diretta da C. Cesa, sono stati pubblicati due interes-santi volumi sulla filosofia di Kant: S. Landucci, La Critica della ragion pratica di Kant.Introduzione alla lettura, La Nuova Italia, Firenze 1993; e G. Tognini (a cura di), Introduzionealla morale di Kant. Guida alla critica, La Nuova Italia, Firenze 1993.

� Un importante strumento di lavoro viene pubblicato da Vrin di Parigi: si tratta del carteggio fraLeibniz e Thomasius che appare per la prima volta in versione completa: G.W. Leibniz - J.Thomasius, J., Correspondances: 1663-1672, a cura di R. Bodéüs (Vrin, Paris 1993).

� La casa editrice Einaudi (Torino 1993), pubblica il volume: Novalis, Opera filosofica.

� Un classico di filosofia della religione è stato tradotto in italiano: W.F. Otto, Il Mito, IlMelangolo, Genova 1993.

� Il primo volume di un progetto comprendente l’intera storia della filosofia è stato presentato aFirenze: P. Rossi - C.A. Viano, Storia della Filosofia, Laterza, Roma-Bari 1993. Il corso completosarà di sei volumi.

� La traduzione di un importante testo di G. Simmel, uno dei fondatori della moderna sociologia, èstato pubblicato da Guanda (Parma 1994): G. Simmel, Saggi di cultura filosofica; si tratta dellatraduzione di Philosophische Kultur, apparso per la prima volta nel 1913.

� Curata da G. Santinello, è stata pubblicata la traduzione di: K.-H. Volkmann-Schluck, NicolòCusano. La filosofia nel trapasso dal Medioevo all’Età Moderna, traduzione di Umberto Proch,Morcelliana, Brescia 1993.

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recensioni

AA. VV., Filosofia e democrazia in Augusto Del Noce (a cura di GiuseppeCeci e Lorella Cedroni), Cinque Lune, Roma 1993, pp. 233.

La filosofia delnociana, come ha segnalato Gaetano Vairo nella postfazione a Filosofiae Democrazia in Augusto del Noce, costituisce un’analisi prospettica che trova “una evidenteattuazione” nella situazione politica italiana di oggi. Perciò possiamo anche affermare chel’opera che adesso commentiamo riveste un notevole interesse non solo per chi vuoleapprofondire la conoscenza del noto filosofo, ma per chi sia veramente interessato ad unariflessione sul collegamento tra la prassi socio-politica e le sue radici filosofiche.

Infatti, la struttura dell’opera consente di seguire i passi principali dell’analisi di DelNoce sulla storia della filosofia moderna, facendo vedere nello stesso tempo che tale riflessio-ne critica prende spunto sempre dal confronto con la cultura laica del suo tempo.

Andrea Parisi apre la prima sezione del libro con il saggio La genesi della modernità e ilproblema del realismo nel pensiero di Augusto del Noce (pp. 27-64), nel quale cerca di ricom-porre a grandi linee il quadro della concezione che il filosofo propose come alternativa alrazionalismo moderno. Partendo dallo studio del 600 francese, Del Noce intendeva arrivare aduna filosofia cristiana “per essenza”. Riesce a concepire un realismo cristiano, incompatibileperò con il cartesianesimo, caratterizzato dal separatismo, dall’antinaturalismo e dalla conse-guente dualità tra vita spirituale e storia. Perciò il suo realismo è un tentativo di riproporrel’essere partendo dall’esistenza e dalla storia.

Il secondo saggio, Del Noce critico del totalitarismo (pp. 65-94), è di Gianni Dessì. Si trat-ta della ricostruzione di come si è sviluppata la critica delnociana al totalitarismo dal 1936 al1957, periodo in cui egli formula le tesi che verranno esposte in seguito nei suoi volumi piùconosciuti, come Il problema dell’ateismo e Il suicidio della rivoluzione. Gianni Dessì difende laseguente interpretazione: Del Noce, quindi il suo pensiero, è contraddistinto dall’apertura,dall’accettazione della sfida della storia, che mette alla prova un presupposto da lui assunto, cheè sostanzialmente il suo cattolicesimo e la posizione antropologica ad esso connessa. La stradache l’Autore propone per verificare tale ipotesi di lettura del pensiero delnociano passa attraver-so l’analisi della formazione delle sue posizioni politiche, lo studio della sua nozione di totalita-rismo e il nucleo di problemi alla quale essa rimanda, soprattutto l’antitesi forza-persuasione.

Pasquale Serra si sofferma sulla Metafisica e democrazia in Augusto del Noce (pp. 95-108). In questo scritto, tendente — come tutti e cinque i saggi che compongono la prima partedel libro — a far comprendere il complesso itinerario speculativo delnociano, Serra sottolineache è stato l’incontro con Marx a costringere Del Noce a ripensare il modo tradizionale di inten-dere i rapporti tra metafisica e storia, tra filosofia e politica. Questo dialogo critico col marxismogli ha fatto capire il bisogno di una nuova posizione metafisica, capace di mostrare il fallimentodella filosofia moderna attraverso l’uso del loro stesso metodo, quello dell’evidenza critica.

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Tale confronto col marxismo e col totalitarismo, insieme all’analisi critica del concettodi modernità, porta a una democrazia che è un punto di arrivo nella filosofia di Del Noce.Lorella Cedroni dà un orientamento per l’approfondimento di tale dimensione speculativanelle pagine intitolate Democrazia e filosofia politica in Augusto Del Noce (pp. 109-139).

Il filosofo, sottolinea la Cedroni, cerca di superare lo stato di precarietà della democra-zia, l’unico regime che «rischia continuamente la possibilità della propria autodistruzione».Ciò significherà per Del Noce raggiungere una giustificazione della democrazia come “valorein sé” e non più “democrazia procedurale” o accordo convenzionale sulle regole del gioco rag-giunto dalla maggioranza. La condizione per tale superamento è recuperare la dimensione“trascendente” della democrazia, che il razionalismo cerca di ignorare. Del Noce affronta cosìil vero problema della filosofia: quello dell’interpretazione transpolitica della storia. È questala chiave per capire anche il senso della critica delnociana alla democrazia pura: una demo-crazia fondata sulla forza rappresentata dalla quantità dei voti e retta dal principio della quan-tità, in pratica si traduce, secondo Del Noce, in democrazia manipolata.

Nel quinto saggio, Il problema politico dei cattolici in Augusto del Noce (pp. 141-169),Massimo Borghesi giustifica l’immagine che lo stesso filosofo accreditava di sé: quella di un“pensatore solitario”, almeno fino al suo incontro con “Comunione e liberazione”.

La prospettiva di impegno politico di Del Noce non coincideva con la violenza antifa-scista, per cui verso il 1945 avvenne la sua rottura col cristianesimo di sinistra; ma nemmenotrovava nella proposta democristiana una prassi comune. A partire dalla spiegazione di questedifficoltà, Massimo Borghesi presenta un Del Noce che da una parte difende la laicità dellapolitica, contro la prassi clericale di diversi settori democristiani, ma che d’altra parte sa rifiu-tare l’atteggiamento laicista di quei cristiani che adottano una separazione tra religione e vitapubblica, che cancellano più o meno coscientemente la rilevanza storica della fede.

Il saggio del Borghesi trova continuità nei primi tre studi che compongono«Argomenti», la seconda sezione dell’opera. Infatti, Giuseppe Ceci (Augusto del Noce:l’uomo, il pensiero, pp. 173-181) descrive in poche pagine qual è stata la posizione delnocianasull’unità politica dei cattolici. Del Noce la concepiva sì come un bisogno di questo momentostorico italiano, per salvare la democrazia, ma continuava a sostenere il carattere relativo ditale necessità, perché, secondo lui, partendo da una morale basilare comune anche ai non cat-tolici, saremmo arrivati ad un dibattito politico riguardante l’opportunità o meno di certe viepolitiche. Ciò renderebbe superflua l’unità politica dei cattolici.

Nello studio di Bruno Iorio (Del Noce e la crisi del moderno nella filosofia politicadell’Italia del novecento, pp. 183-194), troviamo descritto l’atteggiamento di Del Noce difronte alla filosofia politica dell’Italia moderna e contemporanea. L’obiettivo è quello diaddurre una serie di ipotesi di verifica della validità dell’interpretazione fatta dal filosofo.Attraverso quest’analisi, l’Autore mette in risalto la funzione delnociana di stimolo e di criti-ca, indispensabile per la ricostruzione della storia del nostro tempo.

L’ultimo lavoro della sezione è di Alfredo Omaggio (L’itinerario della storiografia spe-culativa di Augusto del Noce, pp. 195-214), che ci propone il “filosofo teoretico” o lo “storicodella filosofia” in contrapposizione al filosofo della politica. Seguendo la traccia indicata daVittorio Mathieu, Alfredo Omaggio presenta la storiografia delnociana come il mezzo che haliberato la riflessione speculativa di Del Noce.

L’opera si chiude con l’intervista di Massimo Borghesi e Lucio Brunelli a Augusto delNoce, risalente al 1984, e apparsa su «Trentagiorni», nell’aprile dello stesso anno. A conclu-sione delle analisi del pensiero di Del Noce, la rilettura di queste sue dichiarazioni rilasciatepochi anni prima della sua morte, è come mettere in rilievo ancora una volta che la sua chia-rezza di idee è stata resa possibile da una grandezza intellettuale che il filosofo ha saputo vin-colare a una volontà sempre aperta ad accogliere ogni conquista umana della verità e del bene.

Maria Aparecida FERRARI

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recensioni

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ARISTOTELE, Metafisica (a cura di G. Reale), Vita e Pensiero, Milano 1993,pp. 408 (vol. 1), 706 (vol. 2) e 712 (vol. 3).

L’edizione maggiore rinnovata della Metafisica di Aristotele che Reale ora presentaoffre al lettore alcune novità rispetto alle edizioni precedenti — nella forma di presentazione ein alcuni complementi —, anche se, come egli stesso afferma, la sua ben nota interpretazionedell’unità della Metafisica di Aristotele non viene mutata; anzi, viene ribadita sulla base dellediverse acquisizioni fatte negli ultimi anni, dedicati allo studio di Platone e i Platonici.

L’edizione è composta di tre volumi: un primo che contiene un Saggio introduttivo e gliindici, il secondo contenente la sua ormai classica traduzione della Metafisica, con testo grecoa fronte — ottimo strumento di lavoro per chi si occupa di quest’opera —, e infine un altrovolume con il commento di Reale.

Il primo volume, con il Saggio introduttivo, è una vera e propria monografia, doveReale studia tutta la problematica della Metafisica aristotelica, in particolare il suo rapportocon Platone e i Platonici — rapporto che è stato concentrato in questo primo volume per nonappesantire il commento. I primi sette capitoli contengono l’introduzione originariadell’opera, con solo qualche modifica formale rispetto alle prime edizioni: vengono considera-ti i concetti chiave e la struttura della Metafisica, con un particolare riferimento alle quattrodimensioni della Metafisica aristotelica segnalate da Reale: aitiologia, ontologia, usiologia eteologia. I capitoli 8-12 sono invece del tutto nuovi, e contengono lo studio del suo rapportocon Platone e i Platonici, cioè, l’interpretazione delle posizioni assunte da Aristotele nei con-fronti di questi pensatori, e la credibilità della sua testimonianza sulle dottrine platoniche nonscritte.

Anche i sedici diversi indici con cui finisce questo primo volume sono un ottimo stru-mento di lavoro. Essi «hanno il preciso scopo di dimostrare in quale misura la Metafisica diAristotele sia una vera e propria miniera per la ricostruzione del pensiero di filosofi anteriorie contemporanei ad Aristotele medesimo» (vol. 1, p. 23). La molteplicità degli indici acquisi-sce perciò un suo interesse particolare se viene considerata nella prospettiva della posizioneassunta da Reale sul rapporto di Aristotele con questi filosofi precedenti e contemporanei:attraverso gli indici si può vedere infatti in quale grande misura la sua testimonianza su di essisia stata accolta nelle moderne edizioni critiche di quei filosofi.

Rispetto alla ormai ben nota traduzione di Reale, contenuta nel secondo volume, si devetener conto dell’avvertenza dell’autore stesso: «ho scelto di rendere nella nostra lingua soprat-tutto i concetti e non le mere parole» (vol. 1, p. 16). Egli crede che in effetti una moderna tra-duzione non possa essere più ad litteram, come quelle latine, ma debba necessariamente esse-re una traduzione-interpretazione.

Il terzo volume contiene il commento di Reale, che considera in maniera analitica

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ciascun testo della Metafisica, aiutando però il lettore con sommari sintetici. Perciò comeegli stesso indica, questa è una fra le pochissime edizioni a livello internazionale che pre-sentino un commentario completo.

Sia la traduzione-interpretazione di Reale sia il suo commento vengono illuminati dallaspiegazione contenuta nel primo volume della sua particolare interpretazione di Aristotele, edell’importanza che riveste una corretta comprensione del suo rapporto con Platone per potercapire la struttura stessa della Metafisica. Voglio quindi presentare alcune delle idee chiavicontenute nel Saggio introduttivo.

Si deve tener conto anzitutto che Reale opera una particolare rilettura della Metafisicaalla luce del pensiero di Platone. Questa intenzione, che era già presente fin dalla prima edi-zione di quest’opera, si è fatta ancora più presente dopo gli anni trascorsi studiando Platone e,perciò, risulta ancora più evidente in questa nuova edizione. Ciò risalta, oltre che nell’interpre-tazione dell’influsso di Platone sulla struttura e il contenuto della Metafisica, nell’interpreta-zione di alcuni dei concetti metafisici più importanti, e dello stesso oggetto della metafisica.

Valga come esempio ciò che dice sui concetti di essere e di sostanza. Secondo Reale ilsenso primo dell’essere — il senso principale e fondamento degli altri — è la sostanza (cfr.vol. 1, pp. 85-86; 105-109). La divisione dell’essere nelle categorie è quindi la distinzione ori-ginaria, su cui si poggia necessariamente la distinzione degli ulteriori significati. L’esserecome atto e come potenza, perciò, non esiste fuori od oltre le categorie: sono modi di essereche si poggiano sull’essere stesso delle categorie (cfr. vol. 1, p. 100).

Il capitolo quinto dell’introduzione è dedicato alla polivocità della concezione aristoteli-ca della sostanza (senso primo dell’essere), per tentare di liberare la teoria da tutte le interpre-tazioni successive (la rielaborazione medioevale, che vede l’individualità come una caratteri-stica della sostanza prima; i presupposti storiografici, che portano a vedere nella sostanza ari-stotelica un’antitesi della forma platonica; e l’interpretazione storico-genetica, già considerataaltre volte nelle opere di Reale). Dopo aver fatto questa liberazione dagli indebiti presupposti,Reale segnala cinque caratteristiche definitorie della sostanza: l’essere soggetto di inesione esussistenza separata, la determinatezza, l’unità e l’attualità (cfr. vol. 1, p. 124). La materia —che lo stesso Aristotele alcune volte chiama “sostanza” — esaurisce in effetti la prima caratte-ristica elencata; ma gli altri due sensi di sostanza (la forma e il composto di materia e forma,cioè, il sinolo) esauriscono tutte e cinque le caratteristiche.

Qual è quindi la sostanza per eccellenza: la forma o il sinolo?, si domanda Reale. Larisposta è chiara, e consona alla sua “rilettura platonica”: anche se in prospettiva empirica(quoad nos) è il sinolo, in prospettiva metafisica (in se) è la forma.

Un altro punto saliente nella sua nuova interpretazione, strettamente connesso con quel-lo precedente, è l’insistenza sul fatto che sono le sostanze soprasensibili — e non quelle sensi-bili, individuali, oggetto della fisica — l’oggetto dell’indagine metafisica (cfr. vol. 1, p. 68);quindi la metafisica è fondamentalmente teologia: «La metafisica è teoria dell’essere o ontolo-gia; ma l’essere è un molteplice che fa capo — come meglio si vedrà più avanti — struttural-mente alla sostanza, sicché l’indagine ontologica si configura, necessariamente, principalmen-te come usiologia, cioè indagine di quell’essere (l’ousia) che è il fondamento di tutti gli altriesseri. Ora, se ci fossero solo sostanze sensibili, la metafisica come tale non sussisterebbe, inquanto si ridurrebbe a mera fisica. Pertanto, il darsi di una ontologia e usiologia non fisiche (onon meramente fisiche) dipende dall’esserci o no di una sostanza sopra-fisica. In questosenso, allora, l’ontologia e l’usiologia non-fisiche o meta-fisiche sono possibili solo a pattoche si aprano in senso teologico» (vol. 1, p. 64).

La proposta di Reale riguardante la necessità di liberare alcuni concetti aristotelici daalcune aggiunte posteriori, che era già presente nelle sue prime edizioni della Metafisica diAristotele, si è ancora più confermata da quando ha cominciato ad approfondire le questionilegate al rapporto fra il nostro filosofo e il suo maestro Platone. Lo studio della veracità di

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tutto ciò che Aristotele afferma su Platone, infatti, è rilevante, secondo Reale, sia per un’ade-guata interpretazione del pensiero platonico, sia per la stessa interpretazione della Metafisicadi Aristotele.

È ben certo, ammette Reale, che quando si tratta di polemizzare con Platone e i PlatoniciAristotele perde spesso «il senso della giusta misura, del greco equilibrio, di qualsiasi raffina-to gusto, e non poche volte perde anche la correttezza» (p. 254); e dedica il capitolo 10 del suoSaggio introduttivo per mostrare che Aristotele in effetti deforma alcuni punti chiave del pen-siero platonico, per facilitare lo scopo che si era proposto nella sua Metafisica. Ciononostante,«tali polemiche sono essenziali, perché solo se si capisce a fondo che cosa Aristotele vuoledistruggere, si comprende a fondo ciò che egli intende presentare in antitesi. Tanto più che,proprio ciò che egli costruisce, lo costruisce con materiale in larga misura proveniente daquel pensiero con cui polemizza» (p. 257). La metafisica di Aristotele viene perciò definitacome una «prosecuzione della platonica “seconda navigazione”».

È proprio questa considerazione di Aristotele nel suo rapporto con Platone — prosecu-zione — ciò che porta Reale, come detto, ad insistere sulla priorità della forma nella metafisi-ca aristotelica: «è una nuova cifra teoretica emblematica di Platone, che Aristotele ha ripensa-to a fondo in modo del tutto nuovo» (p. 296). Ma questa novità radicale della Metafisica puòportare il lettore proprio a una perplessità sull’interpretazione che di essa dà lo stesso Reale:ciò che fa non è forse avvicinargli troppo Platone?

L’interpretazione di Reale, in ogni caso, suggerisce al lettore — anche a chi non è deltutto d’accordo con lui — molte questioni e domande che sono state tante volte dimenticate.Chi non creda adeguate alcune delle risposte che dà Reale, non avrà certo facile il camminoper contestargliele, visto l’enorme apparato critico su cui poggia le sue opinioni.

Miguel PÉREZ DE LABORDA

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Angelo CRESCINI, L’enigma dell’essere. Introduzione a una metafisicaintegrale, Tilgher-Genova, Genova 1990, pp. 279.

L’opera che intendiamo recensire merita l’attenzione di chi è preoccupato per il futurodella metafisica, apparentemente arrivata a un punto morto negli ultimi decenni. L’autoreimbocca la strada di una metafisica “integrale” che, a differenza della metafisica classica, nonsolo inizia dall’esperienza ordinaria ma anche da quella scientifica.

Il primo percorso della metafisica (parte I) incomincia con l’analisi dell’esperienzacomune nel suo volgersi sul mondo di oggetti caratterizzati da reciproche differenze e varia-zioni. Le differenze “di primo ordine” sono le diverse presentazioni fenomeniche delle coseche pur perseverano nella loro identità. Le differenze “di secondo ordine” (essenziali) inter-corrono invece tra gli oggetti diversamente nominati. La conoscenza completa di una cosa è ilsuo “riconoscimento”, una sintesi originaria in cui si tiene conto della memoria e delle diverseesperienze di una medesima cosa. Nel riconoscimento si arriva ai contenuti essenziali dellerealtà del mondo, mai catturabili in un modo definitivo in quanto ad essi appartengono innu-merevoli relazioni (nei confronti di tutte le altre cose dell’universo) e in quanto sono sempreincompleti dal momento che nessun oggetto è esauribile dalla conoscenza umana. Il soggettodotato di contenuti essenziali è detto “soggetto alla prima potenza” (la sostanza della filosofiaclassica).

Ora è la coscienza umana, il “soggetto alla seconda potenza”, il luogo privilegiato dovesi compiono tutte le operazioni prospettiche di riconoscimento che portano al concetto di“cosa”, di realtà di mondo, proprio nel confronto tra le diverse e contrapposte essenze e nelpassaggio indefinito di oggetto in oggetto, indipendentemente dalla loro presenza fisica. Ma lacoscienza umana, essendo limitata, non può vedere le cose se non prospetticamente e semprein funzione dell’esperienza e del linguaggio, il che non si oppone al rapporto veritativo comecorrispondenza della mente con la realtà. D’altra parte, nell’incontro con le altre coscienze,due mondi o due prospettive possono compenetrarsi, superando così in parte i limiti inerenti alrelativo isolamento di ogni individuo umano.

Seguono alcune analisi ontologiche, sempre in questa linea, dei concetti metafisici disostanzialità, causalità, tempo e spazio. La causalità non va intesa come regolarità nelle pre-sentazioni fenomeniche (Hume) bensì come interazione costitutiva (agire e reagire vicendevo-le) tra “cose” nel senso prima illustrato. La scienza moderna si è fermata solo alle manifesta-zioni fenomeniche della casualità efficiente, ma bisogna ricuperare tutta l’ampiezza della cau-salità considerata dalla metafisica classica. Il tempo generale o fluire unidirezionale deglieventi (da cui deriva poi ogni tempo particolare, con i propri ritmi) viene visto da Crescinicome una sorta di “intuizione astratta” derivata dalla percezione intellettuale del passare dauna cosa all’altra, nelle variazioni che ciò comporta. Una sezione trasversale (resa “statica”)

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del tempo è lo spazio, intuizione, secondo l’A., dell’infinita possibilità di “percorsi” di situa-zioni. Così lo spazio risulta derivato dal tempo, ma insieme lo spazio cresce all’infinito nellalinea delle possibilità, mentre il tempo rimane un’intuizione più ancorata alla realtà nel suodivenire concreto. Ovviamente tempo e spazio, concepiti in questo modo, si capiscono solonell’ambito della coscienza umana (sono cioè derivazioni dal nostro modo di conoscere larealtà naturale).

Vediamo ora che cosa succede nell’esperienza scientifica (parte II). La via tradizionalesi affidava troppo alle prime presentazioni fenomeniche del mondo. La scienza moderna con-sidera invece che il mondo osservabile immediato non si giustifica da solo. Si scopre allorauna realtà, il metacosmo, allargata grazie ai nuovi strumenti tecnici e concettuali di ricerca,che è divisa nel microcosmo e nell’ultramacrocosmo. I concetti metafisici fondamentali(sostanzialità, causalità, atto e potenza) sono applicabili alla nuova realtà, anche se non univo-camente. Ma non bisogna illudersi: non conosciamo il metacosmo come se fosse semplice-mente un ampliamento del cosmo ordinario. Il mondo della scienza è solo indirettamenteosservabile e non riceve facili concettualizzazioni: il microcosmo subisce le conseguenzedell’indeterminazione quantistica, che non consente di farne delle rappresentazioni univoche;l’ultramacrocosmo è dominato dall’idea relativistica di campo, che riempie in qualche modolo spazio vuoto, dandogli la valenza di una realtà dinamica.

La scienza moderna sviluppa una particolare dialettica di manifestazione e nascondi-mento, ma già a livello ordinario sappiamo che le cose si manifestano e al contempo sinascondono, poiché le cose sono molto di più di quanto vi si presenta nell’atto del loro ricono-scimento. Solo che il metacosmo ci è essenzialmente nascosto. Il nascondimento normaledelle cose è rivelante, in quanto presentazione parziale delle cose all’uomo; il nascondimentodell’esperienza scientifica è occultante, dato che il metacosmo non ricade propriamente sottola nostra esperienza, ma è piuttosto una costruzione derivata e soggetta a molti limiti.

In definitiva la spaccatura tra mondo e metacosmo è uno degli indici più caratteristicidella limitazione ineliminabile del pensiero umano. Senz’altro il metacosmo spiega il mondoordinario, ma siccome lo spiega in un modo parziale e congetturale, vale anche la verità reci-proca, cioè per capire quel mondo bisogna fare assegnamento su quello che conosciamo prima-riamente nella vita ordinaria. Concretamente, i modelli del microcosmo sono inadeguati, men-tre non sappiamo bene che cosa sia ontologicamente lo spazio-tempo che sembra ricoprire uni-vocamente tutte le entità dell’ultramacrocosmo. In conclusione, la scienza ci offre ombre dicose e di sostanze: i campi e le particelle sono realtà ombratili, che noi ci illudiamo di poterconoscere come se si trattasse delle cose della vita ordinaria. Anche le scienze formali (logica ematematica) trovano dei limiti, e tutte insieme, cioè le scienze sia formali che reali, proprio inquesti limiti dimostrano di non poter essere autonome e di avere sempre un riferimento ontolo-gico (molto opportune a questo riguardo le illustrazioni dell’autore sul calcolo infinitesimale).

Nella terza parte, più breve ma senz’altro più ardua, si evidenzia alla fine con più chia-rezza il senso completo di questo libro. La dispersione fenomenica veniva superata dal sogget-to alla prima potenza (cane, rosa, casa, cielo), mentre le differenze formali venivano a lorovolta rivelate come tali solo nel confronto di ciascuna con tutte le altre, un confronto operatosolo dal soggetto cosciente, che diventa perciò il “fondamento” delle cose come cose cioè del“mondo”. Solo che nel riconoscimento la manifestazione della cosa include il suo ben piùampio nascondimento, tra l’altro perché il mondo è incluso nel metacosmo che in quanto taleci è nascosto.

Occorre risalire dunque all’ultimo livello, quello del riconoscimento totale delle cose, incui si vede la vera unità del mondo nella rivelazione del suo essere, un livello che corrispondeall’Essere assoluto (Dio), l’identica alterità, l’immanente trascendenza, l’immobile movimen-to, l’istantanea e simultanea eternità, la sussistente infinità (ciascuna di queste denominazioniè un singolo breve capitolo del libro).

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Per capire queste ultime pagine bisogna rileggerle parecchie volte: vi si trovano risonan-ze heideggeriane (dialettica di svelamento e nascondimento dell’essere) e una vicinanza alladistinzione di Tommaso tra l’essere e l’essenza, indicata esplicitamente nell’ultima pagina. Lasintesi dell’autore è evidentemente personale. Crescini ha preso senz’altro la via metafisico-gnoseologica della manifestazione-occultamento sposata con la dialettica platonica della diffe-renza, sul grandioso sfondo parmenideo dell’esigenza d’identità dell’essere.

Le cose in quanto si manifestano come presenza attuale rivelano l’essere di ogni cosa,che pure non è una cosa. L’essere del mondo si manifesta ma insieme si occulta in un giocoreciproco di presenze e di assenze. «Le cose sono fatte dal nascondimento di ciò che è» (p.266). Ma tutte le cose del mondo, compresi anche i soggetti coscienti, finiscono col distrug-gersi completamente nella loro dissoluzione nel metacosmo: l’essere delle cose è un passareche porta così, paradossalmente, all’essere senza nascondimento che non può non essere, chenon “passa” perché non è nel tempo: è l’Essere eterno, «la coscienza dell’essere» (p. 264).«L’essere non può essere distrutto» (p. 268) e perciò esiste necessariamente ed è l’attualecompleta presenza, la totale manifestazione dell’essere, il suo completo riconoscimento.«L’attualmente disvelato è tale per il suo disvelamento, ossia l’essere è tale per l’Essere, ossiaper il suo passare senza nascondimento» (p. 268).

Merito indubbio di questo lavoro è il suo aprirsi in modo convincente a una metafisicache cerca di incorporare le concezioni classiche più profonde con alcune intuizioni, ci sembra,della filosofia moderna, che pure viene sostanzialmente criticata, e inoltre con l’esperienzascientifica, in un quadro di ampio respiro in cui compare tutta la realtà, vista dinamicamentecome unità pur sempre fragmentata e segnata dalla contingenza e particolarmente elevata nellacoscienza umana, nonostante le sue limitazioni. In quest’opera la contrapposizione di nascon-dimento e rivelazione è analoga a quella tra potenza ed atto della metafisica classica. La cono-scenza scientifica non è semplicemente relegata dall’autore al posto di un sapere secondarioche nulla dice al filosofo, ma viene integrata nella riflessione filosofica in modo molto natura-le e specifico, sempre associata alla conoscenza ordinaria da cui non si può prescindere. Laprospettività del pensiero umano rende ragione di certe istanze della filosofia moderna chenon necessariamene sboccano nell’idealismo o nel relativismo. Il libro poteva forse essere piùesplicito sul significato dell’essere delle cose, di cui si parla nelle ultime pagine con una certaoscurità. L’opera in definitiva lascia molte porte aperte e in questo senso è suggestiva, indu-cendo nel lettore un positivo stimolo per una metafisica rinnovata della realtà che oggi sembraassente ma che è anche presentita nelle istanze speculative che stiamo vivendo.

Juan José SANGUINETI

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Pierpaolo DONATI, La cittadinanza societaria, Laterza, Bari 1993, pp. 330.

Il prof. Donati, ordinario di Sociologia presso l’Università di Bologna, propone in que-sto libro una riflessione sociologica, profonda e di grande valore, sulla emergenza della citta-dinanza post-moderna. In quanto opera di natura sociologica, l’analisi sviluppata dall’autoresu questo fenomeno sociale è in parte descrittiva e interpretativa, e in parte “normativa” (insenso sociologico: cioè, nello stesso senso in cui, ad esempio, si assume che parlare di biso-gni-diritti implichi allo stesso tempo parlare di obbligazioni-doveri per i medesimi titolari).Ma, in quanto opera di Donati, questa “lettura” non poteva non essere fatta che in chiave“relazionale” (cfr. P. Donati, Teoria relazionale della società, F. Angeli, Milano 1991): dav-vero una chiave che apre le porte alla comprensione della struttura e della dinamica dellasocietà, a giudicare dai risultati di questo suo lavoro.

Veniamo però ai contenuti. Nel primo capitolo l’autore mette a fuoco il codice simboli-co moderno della cittadinanza democratica come codice problematico dal punto di vista evo-lutivo. Essa, nel suo processo storico di crescita che sfocia nel welfare state così come oggi loconosciamo, sarebbe giunta ad un punto-limite oltre il quale tende ad auto-distruggersi: perquesto motivo la gente non si identifica più con i propri rappresentanti politici, la convergenzasu valori e mete comuni alla generalità dei consociati è sempre più astratta e formale, il distac-co fra società civile e Stato si accentua, ecc.

Questi ed altri fatti, anziché portarci a pensare in termini di limitazioni ad un astrattoprincipio di inclusione delle richieste dei cittadini (ridimensionamento delle politiche socialientro i binari di quel tanto di controllo sistemico che è effettivamente perseguibile e imple-mentabile), dovrebbero indurci ad operare una ridefinizione della cittadinanza come cittadi-nanza societaria. Per tanto, le limitazioni allo Stato sociale dovrebbero essere riferite solo especificamente al tipo di inclusione che è stato istituzionalizzato nell’assetto del welfare stateindustriale.

Ma, quali sono i tratti essenziali della cittadinanza societaria? Non si tratta, ci tiene apremettere l’autore, di rispolverare la vecchia dottrina dei corpi intermedi; tra l’altro perchéoccorre assolutamente preservare l’universalismo acquisito con la modernità. L’idea è piutto-sto che, in una prospettiva a lungo termine, essere cittadino non dovrà più significare sempli-cemente avere uno status ascrittivo conferito dallo Stato, ma appartenere alle soggettivitàsociali “nuove” e “vecchie” che fanno pluralistiche e complesse le nostre società, perché talisoggettività sono politicamente rilevanti per i beni comuni che devono essere prodotti. In altreparole, si tratterà di intendere la cultura dei diritti di cittadinanza come capacità di esprimereuna solidarietà autonoma dotata di senso proprio, che chiede di essere riconosciuta e tutelata, equindi anche regolata e sostenuta, dallo Stato, ma mantenendo in sé la propria ragion d’essere,la propria giuridicità, la propria progettualità, la propria gestione. Anche se altri possono con-

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dividerla e farla propria, al limite diventando universalistica, essa può essere praticata solo sulterreno del “senso associativo” della società.

Nel secondo capitolo viene argomentata questa tesi con riferimento a quelle specifichesfere di relazioni sociali che costituiscono il “privato-sociale” (detto anche “Terzo Settore”).Un fenomeno sociale questo che sfida la lettura che la modernità ha fatto dei bisogni sociali edei diritti sociali, e che invece nella società attuale viene sempre più spesso inteso e praticatocome un modo per costruire un ambiente padroneggiabile su scala inter-soggettiva, o come unmodo per garantire l’accesso, l’esigibilità e il controllo dei diritti relativi a interessi legittimi ediffusi da parte di comunità (minori e/o periferiche), o, tanto per citare qualche altro esempio,come un modo per elaborare una cultura dei nuovi diritti di vita quotidiana a fini di umanizza-zione del lavoro e dei servizi di cure alle persone.

Mancano ancora, è vero, le categorie interpretative sufficienti per capire tale fenomeno,e quelle politico-giuridiche che possano osservarlo e regolarlo. Ma lo scopo dovrebbe esserechiaro: occorre prevedere e mettere in atto un sistema di incentivi e sostegni, anziché di pena-lizzazioni dirette o indirette, per chi porta la cittadinanza ad essere concreta espressione e rea-lizzazione delle virtù civiche.

Nel terzo capitolo viene ampliata l’argomentazione precedente. Non è più solo questio-ne di “privato-sociale”. È la società complessa nel suo insieme che manifesta nuove esigenzedi autonomia, in ogni ambito della vita e ad ogni livello della organizzazione sociale, cultura-le, economica e politica, come esigenza di nuova cittadinanza. La società europea contempo-ranea sviluppa una “eccedenza di socialità” che — entro il quadro della modernità — rimanelatente, rimossa e repressa. La cittadinanza in senso moderno non può riportare questi feno-meni al suo codice simbolico-normativo. Deve perciò esserci uno spostamento fondamentale:o le esigenze di una nuova cittadinanza sono disattese e allora la società si frantuma, oppurele esigenze di cui si parla sono riconosciute e tradotte in pratiche sociali, lungo linee di diffe-renziazione e integrazione fra diversi ambiti di autonomia, e allora la soggettività dellasocietà potrà esprimersi in una cittadinanza più universale e più particolare insieme, attraver-so — appunto — “autonomie universalistiche”.

Nel quarto capitolo, la tesi iniziale è ulteriormente approfondita e sviluppata con riferi-mento al fatto che le richieste di autonomia sociale non sono impersonali e anonime, non sonopiù quelle della società di massa con i suoi specifici “movimenti sociali” (studenteschi, fem-ministi, ecc.), ma provengono da “nuove soggettività sociali”. Se vogliamo comprendere que-ste soggettività sociali dobbiamo elaborare un paradigma nel quale la soggettività è compresae definita in rapporto alla relazionalità degli attori. Occorrerà, in altre parole, collocarsi in unsistema di osservazione secondo il quale la soggettività non può essere definita se non attra-verso, con e nelle relazioni (si tratta del paradigma “relazionale” o della “società come rete”sviluppato dall’autore nell’opera sopra citata). Comprendere questi soggetti sociali e le loroistanze significa ri-disegnare la cittadinanza in una società post-moderna come cittadinanzasocietaria.

Si apre una fase storica — conclude Donati — «in cui la cittadinanza assume la forma diun complesso di diritti-doveri delle persone e delle formazioni associative che articola la vitacivica in “autonomie universalistiche” capaci di integrare la generalità dei fini con pratiche diautogestione. Questa è la sfida che la società complessa lancia a se stessa. Tale sfida si chiama“cittadinanza societaria” o delle autonomie sociali» (p. 300) .

Gabriel CHALMETA

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Sandro NANNINI, Cause e Ragioni. Modelli di spiegazione delle azioniumane nella filosofia analitica, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 367.

L’opera di Nannini, ordinario di filosofia morale all’Università di Urbino, entra neldibattito tra naturalisti (Hempel, Nagel) e antinaturalisti (Ryle, Dray, Wittgenstein, vonWright) nella proposta di modelli di spiegazione delle azioni umane che possano caratterizza-re il metodo delle scienze storiografiche e sociali.

I modelli hempeliani, tratti dalle scienze naturali, sono schemi nomologico-deduttivi chespiegano gli eventi a partire dalla congiunzione logica tra leggi universali e condizioni parti-colari. La loro estensione alle scienze storiche non è incompatibile con il riconoscimento degliatti liberi, secondo l’A., visto che nell’uomo sono individuabili comportamenti razionali rego-lari sia a livello individuale che sociale. L’applicazione all’indagine storica di quei modellirichiede l’intervento di leggi generali induttive (psicologiche, sociali, economiche), di solitonon esatte come le leggi naturali ma valide e importanti come generalizzazioni empiriche pro-babilistiche, talvolta a livello di senso comune (per es., «il malcontento popolare può provoca-re rivoluzioni in determinate condizioni»).

L’autore si schiera con franchezza a favore di questi modelli, pur accogliendo l’istanzadegli atti intenzionali, compiuti cioè con uno scopo prescelto dall’individuo, come elementoindispensabile per capire il comportamento umano e la storia. Le correnti storicistiche, analiti-che ed ermeneutiche hanno sostenuto l’irriducibilità degli atti intenzionali agli eventi dellanatura e di conseguenza l’eterogeneità radicale del metodo storico rispetto a quello dellescienze naturali. Secondo Nannini comunque lo schema naturalista, se depurato da alcuni ele-menti positivisti, è irrinunciabile per la comprensione e la spiegazione dei comportamentiumani, il che peraltro serve per non cadere nel neostoricismo cui tende oggi l’approccio erme-neutico.

L’opera conduce con rigore e chiarezza una forma di dibattito (senza propositi storici)tra l’indirizzo naturalistico (cap. I) e quello denominato “antinaturalistico” (cap. II), impernia-to più sull’analisi della singola azione umana anziché sulla metodologia storica, per conclu-dersi con una proposta di ricostruzione ideale della spiegazione delle azioni individuali altrui(cap. III).

La filosofia analitica contemporanea (Wittgenstein, von Wright, Anscombe) ha abban-donato la tesi dualistica che vede nell’intenzione, nell’atto volontario, una sorta di eventomentale che può fungere da causa quasi-meccanica degli atti esterni dell’uomo. Senza arrivarenecessariamente al comportamentismo, la spiegazione analitica respinge tale concezione,chiamata solitamente “teoria causale dell’azione”, per vedere invece l’intenzione (lato interno)e l’azione umana (lato esterno) come intrinsecamente associate (al modo di un significato e ilsuo segno). Prendiamo ad esempio l’azione di muovere le mani per pompare dell’acqua (cfr p.

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254 ss): l’intenzione di fare quest’atto, per la filosofia analitica, è un tutt’uno con l’atto ester-no e viceversa, poiché anche se è vero che quell’intenzione può esistere prima della sua realiz-zazione, non si capirebbe come siffatta intenzione se non fosse riferita all’atto oggettivo, ecertamente noi non potremmo mai riconoscerla negli altri se non viene manifestata attraversocerte formalità empiriche socialmente riconosciute (come il linguaggio). Vuol dire che tral’intenzione e l’azione altrui (il che vale anche per le mie intenzioni non immediatamenteconosciute, per esempio ricordate) esiste un legame concettuale quasi-analitico, in quanto diun’intenzione non manifestata almeno linguisticamente, tramite cioè qualche segno esterno,non sappiamo niente (critica wittgensteniana del linguaggio privato).

Nannini arriva a chiarire il concetto di azione umana dei filosofi analitici superando conmaestria le difficoltà esegetiche e le sottigliezze dei diversi autori, pur ritenendo insoddisfa-cente questo tipo di analisi. La sua posizione cerca invece di rendere compatibile lo schemacausale humiano (successione regolare tra eventi logicamente indipendenti, quindi di caratterenomologico almeno statistico o probabilistico) con lo svolgersi dell’azione umana, ancheinterpretata come veramente intenzionale.

L’intenzione altrui viene considerata dall’A. come conosciuta tramite un concetto dispo-sizionale teorico, non osservativo, che si manifesta empiricamente attraverso molteplici sinto-mi, così come una causa fisica teorica ipotizzata (per es. una disposizione, una propensione) èconoscibile induttivamente a partire dai suoi effetti sensibili regolari. L’atto volontario eintenzionale può essere visto come una causa di azioni umane: ad esempio, l’azione teleologi-ca di “aprire una finestra per far entrare nella sala un po’ d’aria fresca” è conoscibile comeazione intenzionale grazie a generalizzazioni empiriche, nel senso che noi quando vediamoche una persona apre materialmente una finestra, dalla situazione concreta in cui si trova (lastanza è calda, la persona è normale, è vestita pesante, non ci sono altri motivi per aprire lafinestra, non c’è fumo nella stanza), compiamo naturalmente l’inferenza induttiva, grazieall’accertamento di molti casi simili del passato, secondo cui, quando la persona producequell’atto, la sua intenzione quasi certamente sarà quella di rinfrescare la sala.

In conclusione, il lavoro di uno storico, pur presentandosi nella forma di una narrazione,non può limitarsi secondo Nannini alla comprensione simpatetica degli atti altrui, come harilevato l’indirizzo storicistico, ma deve anche spiegarli secondo ipotesi basate su generalizza-zioni empiriche, visto che la conoscenza dell’interiorità degli altri sarà sempre indiretta, cosìcome fa il detective che cerca di ricostruire i fatti avvenuti. L’intento principale dell’A. è benriassunto nelle ultime righe della sua opera: «Non solo dunque tra la conoscenza dell’uomo equella della natura, ma anche tra il senso comune e la scienza, non si apre alcun abisso: ilponte per passare dall’una all’altra sponda è ampio e facile a trovarsi. Perché non usarlo allo-ra, invece di esasperare un contrasto tra il sapere scientifico e le discipline umanistiche che,malgrado l’ascolto riscosso oggi da cultori dell’ermeneutica e di un nuovo storicismo, non hain effetti nessuna solida giustificazione?» (p. 327).

Il lavoro di Nannini può essere valutato sia dal punto di vista dell’analisi dell’attoumano, sia nella prospettiva del suo contributo alla metodologia delle scienze storiche.Riguardo al primo punto, ci sembra di poter condividere solo parzialmente la sua tesi sullaconoscenza altrui medianti ipotesi induttive. La riteniamo giusta quando è in gioco un’ideamediata delle persone (lontane, del passato, poco familiari) ma crediamo che esista anche unambito, seppur limitato, di percezione quasi-immediata dell’altro come persona, con i suoi attiintenzionali: dinanzi a una persona che ci parla noi non impieghiamo l’“ipotesi causale”secondo cui chi ci parla molto probabilmente è una persona con una intenzione, ma piuttosto“vediamo la sua anima” (come direbbe Wittgenstein ma anche S. Tommaso, per cui è possibi-le vedere un amico o un uomo), vale a dire non occorre restringere la nozione di osservabile aidati fenomenici dei sensi esterni.

Una ricostruzione ideale dei processi induttivi che ci portano al riconoscimento di una

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condotta intenzionale negli altri rischia di essere superflua, se intesa come ricostruzione logicaper ciò che invece sembra una percezione immediata dotata di evidenza propria. In verità que-sto punto non è così distante da quanto si sostiene in questo libro, a patto che tale proceduralogica basata su generalizzazioni empiriche sia vista piuttosto come un processo psicologicomediato di imparare a conoscere, così come s’imparano una lingua o gli usi sociali. Una voltache si crea una maggior distanza tra noi e il comportamento altrui, allora entrano in funzionele forme logico-induttive rilevate da Nannini, che fanno anche perno sulla coscienza di noistessi e perciò sono sorrette anche da corrispondenze analogiche a partire dalla conoscenzaimmediata di noi stessi e di quelli che ci sono più familiari.

Riguardo al metodo delle scienze storiografiche, ci sembra che l’intento dell’autore dicorreggere gli eccessi storicistici non sia da trascurare. La storia non cerca ovviamente di for-mulare delle leggi generali, al contrario di quanto fanno le scienze naturali, ma la comprensio-ne e la spiegazione delle vicende umane implica il ricorso (ordinariamente presupposto) allaconoscenza degli usi umani tramite generalizzazioni di natura empirica, una conoscenza otte-nuta peraltro con l’aiuto delle scienze antropologiche e della filosofia. L’opera di Nanninirisulta opportuna in questo senso e, nell’evidenziare la presenza nel lavoro degli storici dienunciati generali sintetici, soprattutto di senso comune, senz’altro contribuisce all’auspicatacontinuità tra le scienze naturali e il sapere umanistico.

Juan José SANGUINETI

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Leonardo POLO, Curso de teoría del conocimiento, vol. IV, parte I, Eunsa,Pamplona 1993, pp. 421.

La scansione temporale con cui è stato dato alle stampe il pensiero di Polo manifestauna singolarità che a mio giudizio è indice dell’operosità dell’autore. Nella presentazione delsuo filosofema più caratteristico — la limitazione della mente umana —, fatta in un librodell’anno 1964 (El acceso al ser), vennero promessi quattro volumi in cui sarebbero state svi-luppate le quattro dimensioni dell’innovatore abbandono del limite mentale, ma solo il primodi essi vide la luce nel 1966 (El ser. I: La existencia extramental). Poi, quanto in seguito ci èpervenuto non sono stati i tre successivi volumi promessi ma qualcosa di meglio. Dopo ventianni di attesa apparvero, fra il 1984 e il 1988, tre volumi d’un corso di teoria della conoscenzache giustificavano e verificavano con maggiore ampiezza di vedute e più matura esposizionela precedente proposta di un limite per la mente umana e la possibilità di abbandonarlo. Queitre volumi dovevano essere affiancati da un quarto che ancora una volta si fece attendere.Adesso, a dieci anni dal primo, appare questo quarto volume ma, come in precedenza, il ritar-do viene controbilanciato dal fatto che il libro offre molto più di quanto era stato promesso.Certamente esso non è una semplice parte di un manuale di gnoseologia ma qualcosa in più.

Se io dovessi precisare quel qualcosa in più metterei l’accento su tre punti. Da una parte,il libro costituisce l’esposizione della seconda dimensione dell’abbandono del limite mentaleproposto da Polo; è dunque uno sviluppo della sua filosofia annunciato già dal 1964. In secon-do luogo, esso è l’esposizione d’una parte — quella mancante — della teoria della conoscenzaumana: l’esposizione della ragione umana, delle operazioni unificatrici e degli abiti razionalifino all’abito dei primi principi. Inoltre, in un terzo ma non perciò meno importante luogo, èun libro di fisica, di fisica filosofica: un’esposizione del modo in cui l’uomo intende la naturafisica, le sostanze ed i movimenti, gli esseri viventi e le loro funzioni vitali, ecc. Non c’è dastupirsi, perciò, che sia stato necessario dividere in due parti questo volume: quella appenaapparsa, e un’altra in fase di stampa. Tutto ciò serve a mettere sull’avviso il lettore che nontroverà un testo di facile lettura ma, al contrario, materia di molto studio e meditazione.

Penso di essere in grado di affermare senza particolari remore che questo libro è l’operapiù importante di Polo, quasi un lascito della maturità al termine della carriera accademica; èper lo meno l’opera che fornisce il maggior numero di precisazioni, conseguenza della granmole di lavoro di cui è il risultato (sono testimone, perché le ho battute a macchina, delleprime stesure che ne faceva Polo già dal 1980). Perciò è difficile fare una scelta fra i suoi con-tributi. L’impressione che provoca una lettura veloce del libro è quella d’un eccesso: una pro-fusione di questioni studiate. Sono sicuro, per esempio, che nel campo della filosofia dellanatura gli studiosi riceveranno con gratitudine molti dei suggerimenti poliani come, scegliamoa caso, l’idea di ritardo temporale (anticipazione) o quella di riserva della materia con cui Polo

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illustra il cosiddetto principio della sua conservazione. Dal campo della logica vengono sug-gerite anche molteplici osservazioni fra le quali spicca il posto eminente che viene aggiudicatoalla matematica come modo di conoscenza. Altrettanto potremmo dire della psicologia, allaquale certamente interesserà la distinzione fra le intenzionalità della sensazione, l’immagina-zione e il pensiero, ben descritte da Polo. Abbiamo a che fare, insomma, con una quantità dispunti davvero rilevante. Tuttavia, se veniamo al fondo argomentativo del libro, penso che ciòche Polo ci offre possa essere ricondotto ad alcune nozioni o questioni di base che forse valela pena di ricordare qui.

Da un punto di vista gnoseologico questo volume costituisce la proposta formale delmodo in cui gli abiti intervengono nella crescita conoscitiva dell’intelligenza umana. L’abitoè, rigorosamente, l’illuminazione dell’operazione conoscitiva: la conoscenza non riflessa delconoscere. Quest’importante incorporazione della nozione di abito nella teoria della conoscen-za permette di fare, a mio avviso, la sintesi fra critica moderna — interessata al conoscere — egnoseologia classica — più attenta a ciò che è conosciuto — e rende possibile risponderefinalmente alla domanda su come venga conosciuto l’essere, domanda che un idealista potreb-be obiettare ad un realista oggettivo.

Da un punto di vista tematico, ciò che in questo libro si dice sulla natura è l’aggiusta-mento [ajuste] necessario di cui la fisica di Aristotele ha bisogno per diventare un interlocuto-re valido della nostra scienza attuale. In paragone con altri tentativi analoghi che la storia dellafilosofia recente ci offre, c’è da evidenziare come Polo ricuperi in modo preciso le nozioni ari-stoteliche di elemento, ciclo di trasformazioni fra sostanze elementari, movimento circolarecome causa di tali trasformazioni, ecc., come anche la loro incorporazione nella biologia ari-stotelica. Troviamo, quindi, non soltanto una permanenza delle nozioni o principi più radicali— come la materia e la forma o le cause —, ma l’intero intreccio della fisica teorica, sia pureaggiustata in ciò che è necessario (e talvolta in modo tale che un aristotelico genuino rifiute-rebbe simili aggiustamenti). Particolare portata riveste, in questo senso, la rettificazione delluogo che Aristotele assegna alla circonferenza come forma di un movimento — chiave delsuo superato geocentrismo —, ma bisogna riconoscere che, senza di essa, la natura inerte nonpuò essere capita pienamente. È anche da rilevare, dalla prospettiva della filosofia classica, lariduzione poliana delle categorie alle cause.

Infine, per quanto riguarda all’ispirazione strettamente poliana — che, del resto, costi-tuisce il nerbo che unisce tutti gli altri punti di vista — ritengo che la nozione cui si deva fareattenzione sia quella di esplicitazione. Essa è un tentativo di formulare il modo in cui la ragio-ne umana raggiunge la conoscenza della realtà fisica al di sopra del proprio limite. In questalinea c’è da segnalare che l’esplicitazione non è un compito mentale. Essa è ascritta alle pro-prie cause: affidata ad esse dalla mente. Ne risulta che la conoscenza delle cause non è ogget-tiva: le cause non sono oggetto della ragione ma principi extramentali. Perciò, fra loro e lamente si instaura una contesa [pugna] che la ragione compensa oggettivamente*; ma glioggetti della ragione (concetti, giudizi e dimostrazioni) sono consolidamenti logici di quellacompensazione e non la conoscenza delle cause, che è inoggettiva. Ripeto: ciò che è da sotto-lineare — e a mio avviso è anche la chiave per comprendere l’approccio poliano — è chel’esplicitazione non viene esercitata dalla ragione come operazione mentale commisurata adoggetti, ma sono le cause ad esplicitarsi in contesa con la ragione, una contesa, del resto, chela ragione non è sempre in grado di compensare.

Una simile ottica consente di intravedere, dalla prospettiva della realtà conosciuta, chela manifestazione dell’ente (Polo preferisce parlare di essenza anziché di ente) non è un’avve-nimento eventuale, come la tradizione heideggeriana attualmente ci suggerisce, perché sebbe-ne essa non si riduca alla logica umana (l’idealismo esigeva tale riduzione) è anche vero che

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* Pugna, compensación e ajuste sono termini tecnici [N. del T.].

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non si produce neppure al margine della ragione umana ma in accordo con essa, in corrispon-denza con essa.

D’altra parte, dal punto di vista del conoscente umano, la nozione di esplicitazionedetermina con precisione la differenza fra gli oggetti logici della ragione, con la loro particola-re intenzionalità, e la conoscenza della realtà causale che l’uomo può raggiungere nel ragiona-re, la quale non è intenzionale. In questa distinzione risiede ciò che Polo ha chiamato conaccortezza “minaccia d’ignoranza”. Se l’uomo non nota la finitezza del suo conoscere, ostaco-la il palesamento della concausalità esplicita e allora la conoscenza razionale della realtà soc-combe alla minaccia dell’ignoranza, il che significa ignorare il senso principiale della realtà,ovverosia il senso stretto in cui è reale la realtà fisica.

La teoria poliana della conoscenza, dunque, non solo procede all’aggiustamento tecnicofra i diversi approcci metafisici, tramite il ricorso alla distinzione delle operazioni intellettualiche ognuno di essi applica; non solo fa risiedere nell’oggettività intenzionale della ragione lazavorra che contraddistingue ciò che Polo chiama “metafisica prematura”; c’è qualcosa di piùradicale ed importante: la possibilità che il sapere umano come tale venga falsato per il fatto dinon aver avvertito il proprio limite. Il contrario di quella dotta ignoranza del Cusano diventaora quell’ignorante sapere che minaccia la ragione umana, in ultima analisi, se essa scambiacause per ragioni.

Infine mi rivolgo ai poliani per fare il punto sull’evolversi della formulazione della filo-sofia poliana: il libro presenta la seconda dimensione dell’abbandono del limite mentale comegraduale e la cui culminazione è la prima dimensione di tale abbandono. Il limite mentaleviene già notato negli abiti che rendono possibili le operazioni razionali e lo è progressiva-mente di più fino a quando viene avvertito in condizioni tali che è possibile abbandonarlo,cioè, nell’abito dei primi principi, abito non seguito da operazioni. Non sono dunque duedimensioni dell’abbandono del limite separate o sconnesse, né in esse viene abbandonato inmaniera uguale il limite mentale. In precedenza Polo non l’aveva posto in questi termini.

Juan A. GARCIA GONZALEZ

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AA.VV., The Past and the Present.Problems of Understanding,Grandpont House, Oxford 1993, pp.102.

The six papers collected in thisvolume are the fruit of a conferenceheld at Oxford, under the sponsorshipof Grandpont House, on the theme of“Pre-Modern Europe and the ModernStudent: Problems of Understanding”.As Andrew Hegarty explains in hisintroduction, the conference formedpart of an ongoing effort by GrandpontHouse to respond to John-Paul II’sappeal to Europeans to rediscover thetruth of their origins. The urgency ofthat appeal rests not only on theobvious fact that modern (and even“post-modern”) Europe cannot fullyunderstand itself except in light of itspast and its tradition, but also on thebelief that the tradition itself containsprecious resources for fortifying andguiding the search for truth, both histo-rical and otherwise. Gaining access tothose resources and using them discer-ningly, however, is anything but easy.Learning about the past, and learningfrom the past, encounter obstacles onall sides: in ourselves, in the past itself,and in the very nature of such aninquiry. The conference broughttogether six prominent scholars—threephilosophers and three historians—toreflect upon some of these difficultiesand ways of dealing with them.

In the first paper, “Knowledgeand Belief in Human Testimony”, Peter

Geach argues, with typical force andwit, for the inevitability and indispen-sability of human authority as a sourceof knowledge. He shows the significan-ce of this claim by drawing a sharpdistinction between knowledge andbelief. Belief is merely a kind of dispo-sition, e.g. to judge or to answer a que-stion in a certain way; but knowledge isa capacity, an ability—we might say akind of mastery of something. Geachthen takes up the acceptance of autho-rity or testimony as one of our mainnatural means of acquiring knowledge.He argues that although it is sometimesnecessary to choose between conflic-ting authorities, making such a choicedoes not imply having independentknowledge of the matter in question;“we cannot escape from resorting totestimony and authority”. It is “only byhis trusting the testimony of others”that “the experience of mankind…ismade available to an individual”.

Geach’s reflections bring to mindAristotle’s dictum that he who wants tolearn must trust his teacher. They alsoecho of Aquinas’ claim that theology,which rests on faith, is genuine science.Aquinas of course was speaking offaith in divine authority; but he did soin a cultural context in which humanauthority too was recognized as a sour-ce of knowledge. The medievals’ viewof authority is perhaps one of the mainobstacles to the modern student’staking them seriously and learningfrom them. This forms the target of thevolume’s second paper, “The Argument

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from Authority”, by ChristopherMartin. Martin thinks we can learnsomething from the medieval view ofauthority—not only something aboutthem but also something about oursel-ves and our own conception of know-ledge. This is that we too, willy-nilly,rely heavily upon authority, preciselybecause we still regard knowledge assomething to be taught and learned.Not acknowledging the role of autho-rity contradicts our own standards ofreasonableness, those which we oursel-ves have learned and teach, and pre-vents us from exercising it or control-ling it according to those standards.The medievals acknowledged it, andcontrolled it. For them the argumentfrom authority “was an argument.Admittedly it was the weakest argu-ment of all, so that any other argumentwas stronger: but it was none the lessan argument. You needed another argu-ment to refute it, before you couldignore it.”

The third paper, by John Haldane,presents a lucid account of four con-ceptions of human nature which havebeen prominent in the history of philo-sophy, and seeks to clarify and defendthe one which is perhaps the least sym-pathetic to the modern mind: that ofman as a bodily creature with a rationalsoul, a “psychophysical unity”, bothorganic and rational. This is by nomeans just one particular topic amongmany, in the domain of problems inhistorical understanding; it may be thisvery conception of man which bestdoes justice to his historicity, which isto say, his temporal and visible per-sonhood. As Haldane explains, tounderstand it is to perceive, “throughobservation of the multitude of activi-ties and artifacts that constitute thehuman world, that there are persons,i.e. creatures such as ourselves with

aspects whose souls we are everydaypresented.”

Limitations of space preventmuch discussion here of the volume’sremaining papers, by the three histo-rians; but they are well worth reading.Anne Duggan calls attention to variousideological obstacles to our doing “realhistory”—obstacles in our very con-ception of historical knowledge, andobstacles in our attitude toward certaindominant elements of Europe’s past,particularly our “aversion from the reli-gious”. Jonathan Riley-Smith arguesagainst the impossibility of an entirelyneutral approach to the past—the que-stions we ask of it are always our que-stions—urging instead that we strive tobe conscious of our own partial andconditioned vantage point, and that thehistorian seek to express “in com-prehensible terms a necessary vision ofsociety’s collective experience.”Finally, John Morrill insists that “youcan get to know people in the past”,just as you can get to know people inthe present: “you can come to have asense of the rhythms of their lives, ofthe way in which they behave, of theway in which they respond to a certainkind of thing.” He also insists upon thevalue of a “horizontal” approach to thepast, the effort to “re-create the con-temporary context of events andactions in their fuller sense.” Doing so“teaches us something of the poverty ofour understanding of our own culture.”

S.L. BROCK

Italo MANCINI, Come leggere Maritain,Morcelliana, Brescia 1993, pp. 57.

In questa opera, densa e breve,Mancini propone la sua ermeneuticadel pensiero maritainiano. Essa parte

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da un criterio preciso: il fenomenoMaritain è intraecclesiale, vale a dire,la sua opera può essere veramentecompresa soltanto all’interno dellacomunità credente. Egli, infatti, «hacurato una filosofia incurante del filo-sofare» (p. 11), non tanto preoccupatadi lasciare in eredità una scuola filoso-fica, ma di rendere un servizio in quan-to proposta di comprensione cattolica.

Da questa premessa emergono tremodi distinti di lettura. Ed essi hannonecessariamente un sapore autobiogra-fico perché altro non sono che le diver-se riletture che nel corso del tempo lostesso Mancini ha fatto dell’operamaritainiana.

La prima si colloca negli anni 50dove Maritain appare come uno “schia-ritore di concetti”; come la personalitàcapace — mediante opere come LaPétite Logique, Les sept leçons surl’être e Les degrés du savoir — di deli-neare «il nostro territorio di fronte allaontologia fondamentale di Heidegger,alla ontologia esistenziale di Sartre, allevarie forme fenomenologiche» (p. 17).

La seconda lettura, di tipo politi-co, corrisponde agli anni 60. In questadecade opere come Umanesimo inte-grale e L’uomo e lo Stato, furono capa-ci di illuminare la coscienza politicamediante una riflessione profonda. EMancini, a modo di esempio, indicacinque elementi ritenuti di particolarerilevanza: 1) la preminenza delle formecomunitarie e naturali di fronte a quellepiù propriamente sociali; 2) la attribu-zione del solo senso teologico al con-cetto di sovranità; 3) la critica all’iper-moralismo politico; 4) la dottrina deimezzi atti a conseguire i fini politici; 5)la sua teoria della legge naturale.

Il terzo criterio di lettura ci portainvece agli anni 70, all’epoca del post-Concilio tutta intesa a rispondere alladomanda sul tipo di cristianità possibi-

le. Anche in questo problema — comedimenticare Il Contadino dellaGaronna? — Maritain ha molto da diree da proporre: il rifiuto del medioevali-smo, la sua valutazione del marxismo,le proposte per la nuova cristianità, ecc.

Ma tale lettura ci porta inevitabil-mente ad un’altra, perché «la cristianitànon basta». Il kerigma cristiano eccedesempre ogni sua possibile particolariz-zazione culturale. E così appare l’ulti-mo Maritain. Scrittore non della cristia-nità, ma di cristianesimo, pensatore delrapporto personale con Dio. Paradigmaincompiuto di tale atteggiamento èApproches sans entraves, che non potécorreggere perché stroncato dallamorte.

Con questa ultima pennellatachiude Mancini il piccolo volume chelo vede ripercorrere in maniera lucidala maggior parte dell’opera maritainia-na. Tenuto conto inoltre della sua ric-chezza e densità di riflessioni esso sipone come una necessaria e bella intro-duzione al pensiero di JacquesMaritain. Un nome che, secondol’autore, «il mondo cristiano terrebbepiù vivo se fosse meglio abituato aisilenzi profondi e alla concentrazione»(p. 52).

J.M. BURGOS

Ricardo YEPES STORK, La doctrina delacto en Aristóteles, EUNSA,Pamplona 1993, pp. 510.

La obra se presenta como unainvestigación de las nociones de ener-geia y entelecheia en Aristóteles, quepretende, a partir de la recuperación detodos los sentidos del acto enAristóteles, superar una defectuosateoría del conocimiento — propia delracionalismo y las actuales doctrinas a

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él ligadas — y la consiguiente descali-ficación del conocimiento metafísicode la realidad.

Para ello, trata el autor de darcuenta de todos los estudios acerca deesta doctrina del acto, considerando sudiverso valor y las principales aportacio-nes de cada uno de ellos; e intenta asi-mismo, teniendo en cuenta el problemade la génesis y evolución de sus obras,analizar todos los textos en los que apa-recen estas nociones estudiadas, parahacer una interpretación sistemática yunitaria de las expresiones energeia yentelecheia en el Corpus Aristotelicum.

En la primera parte de la obraacomete la labor de mostrar que talprocedimiento unitario no es invalida-do por una supuesta evolución de talestérminos, puesto que la doctrina delacto, en todas sus dimensiones, estápresente ya desde el inicio de la espe-culación de Aristóteles, cuando aúnestaba en la Academia de Platón.

La tesis central de la obra — ela-borada en la segunda parte — es la deltriple sentido del acto: movimiento,forma (sustancia) y operación. Tal tesisno es, según afirma el autor (p. 29), una priori, sino resultado de la lectura yestudio de los textos.

Comienza esta segunda parte (c.4) con una consideración del sentidomás general de energeia — contrapue-

sto a la potencia (dynamis) —, parapasar después a analizar cada uno delos tres mencionados sentidos: el movi-miento (c. 5), la forma (c. 6) y la opera-ción (c. 7). En el c. 8 se hace un análi-sis de la aplicación que este tercer sen-tido (“operación”) tiene en la teologíaaristotélica, para acabar esta segundaparte con un último capítulo, el 9, en elque recoge otros diversos pasajes enlos que aparecen estas expresiones, demodo que se cumpla el objetivo que sehabía propuesto de analizar todos lostextos en los que están presentes lasexpresiones que trata de estudiar.

Acaba la obra (c. 10) con unaconsideración global del sentido últimoque tiene el descubrimiento aristotélicodel acto, exponiendo la interpretaciónque L. Polo hace de esta doctrina ari-stotélica del acto.

La obra resulta sin duda intere-sante para cualquier estudioso deAristóteles, por la exhaustividad delanálisis de los textos aristotélicos y delas principales interpretaciones, y porla indudable relevancia de la propiapropuesta de Yepes sobre la diferencia-ción de los sentidos del acto. Pero poresta misma exhaustividad puede serdifícil de seguir para quien se acerque aella sin un buen conocimiento del pen-samiento del Estagirita.

M. PÉREZ DE LABORDA

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Pubblicazioni ricevute

AA. VV., Ripensare Agostino: interiorità e intenzionalità (a cura di L. Alici, R.Piccolomini, A. Pieretti), Studia Ephemeridis “Augustinianum”, Roma 1993.

AA. VV., The Past and the Present: Problems of Understanding. APhilosophical and Historical Enquiry, Grandpont House, Oxford 1993.

Luigi ALICI, Presenza e ulteriorità, Edizioni Porziuncola, Assisi 1992.

ARISTOTELE, Metafisica. Edizione maggiore rinnovata, in 3 voll., con Saggiointroduttivo, testo greco con traduzione a fronte e commentario a cura di G. Reale,Vita e Pensiero, Milano 1993.

Juan Cruz CRUZ, Libertad en el tiempo. Ideas para una teoría de la historia,Eunsa, Pamplona 1993.

Manuel FONTAN, El significado de lo estético. La “Crítica del Juicio” y la filo-sofía de Kant, Eunsa, Pamplona 1994.

Umberto GALEAZZI, Ermeneutica e Storia in Vico. Morale, diritto e societànella “Scienza Nuova”, Japadre, L’Aquila 1993.

Antonio GALVANI, La danza del paradosso, Villa Verucchio 1993.

José Ángel GARCIA CUADRADO, Hacia una semántica realista. La filosofía dellenguaje de San Vicente Ferrer, Eunsa, Pamplona 1994.

Daniel INNERARITY, Hegel y el romanticismo, Tecnos, Madrid 1993.

Luigi PAREYSON, Prospettive di filosofia contemporanea, Mursia, Milano 1993.

Leonardo POLO, Curso de teoría del conocimiento, IV (primera parte), Eunsa,Pamplona 1994.

Armando RIGOBELLO, Oltre il trascendentale, Fondazione Ugo Spirito, Roma1994.

F.W.J. SCHELLING, Lecciones muniquesas para la historia de la filosofía moder-na, trad. Luis de Santiago Guervos, Edinford, Málaga 1993.

Orlando TODISCO, Parola e verità. Agostino e la filosofia del linguaggio,Anicia, Roma 1993.

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Indice del vol. 3 (1994)

Editoriale: Un dovere di gratitudine p. 197

Studi

GABRIEL CHALMETA

Il principio personalista p. 5

NICOLAS GRIMALDI

Dieu dans la philosophie de Descartes p. 201

JOSÉ LUIS FERNANDEZ

Dios en la filosofía de Malebranche p. 227

DANIEL GAMARRA

J. G. Fichte: l’affermazione dell’assoluto p. 247

MICHELE MARSONET

Logica e ontologia nella filosofia analitica p. 27

RAFAEL MARTINEZ

Il significato epistemologico del caso Galileo p. 45

ARMANDO RIGOBELLO

Dio nella modernità: Husserl p. 271

LUIS ROMERA

Dio e la questione dell’essere in Heidegger p. 287

IGNACIO YARZA

La razionalità dell’Etica Nicomachea p. 75

Note e commenti

RAUL ECHAURI

Sobre el origen del ser y la nada p. 315

DANIEL INNERARITY

Filosofía como arte y experiencia de la vida p. 327

ANTONIO MALO

Tre teorie sulle emozioni (I parte) p. 97(II parte) p. 339

JOSÉ MIGUEL ODERO

Filosofía de la religión en Kant p. 113

FRANCESCO RUSSO

La spiritualità della persona come autotrascendenza p. 127

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JAVIER VILLANUEVA

Intorno al body-mind problem p. 135

Cronache di filosofia

Storia della logica (R. JIMÉNEZ CATAÑO) p. 144

Gli studi su Xavier Zubiri (J. VILLANUEVA) p. 145

Libertà e morale (F. RUSSO) p. 146

La verità scientifica (J.J. SANGUINETI) p. 353

Recensioni

AA. VV., Filosofia e democrazia in Augusto del Noce (M.A. Ferrari) p. 361

AA.VV., Estudios sobre la “Centesimus annus” (E. Colom) p. 157

ARISTOTELE, Metafisica, a cura di G. Reale (M. Pérez de Laborda) p. 363

A. CRESCINI, L’enigma dell’essere (J.J. Sanguineti) p. 366

R. CUBEDDU, Il liberalismo della Scuola Austriaca (R. Crespo) p. 160

A. DEL NOCE, Da Cartesio a Rosmini e Filosofi dell’esistenza edella libertà (P. Armellini) p. 162

P. DONATI, La cittadinanza societaria (G. Chalmeta) p. 369

E. FORMENT, Lecciones de metafísica (J.J. Sanguineti) p. 166

S. NANNINI, Cause e ragioni (J.J. Sanguineti) p. 371

J.M. ODERO, La fe en Kant (D. Gamarra) p. 169

L. PAREYSON, Dostoevskij (F. Russo) p. 175

J. PIEPER, ¿Qué significa sagrado? (J. Villanueva) p. 177

L. POLO, Teoría del conocimiento (vol. IV) (J.A. García González) p. 374

G. SAVAGNONE, Theoria (J.J. Sanguineti) p. 180

Schede bibliografiche

AA.VV., The Past & the Present (S.L. Brock) p. 377

AA. VV., Metafisica e teologia civile in Giambattista Vico (F. Russo) p. 183

S. AZZARO, Politica e storia in Fichte (A. Livi) p. 183

E. BRITO, Filosofia della religione (D. Gamarra) p. 185

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G. CHALMETA (a cura di), Crisi di senso e pensiero metafisico(M. Pérez de Laborda) p. 186

J. HABERMAS, Il pensiero post-metafisico (A. Livi) p. 187

R. JIMÉNEZ CATAÑO, Octavio Paz: poética del hombre (J.P. Maldonado) p. 188

I. MANCINI, Come leggere Maritain (J. M. Burgos) p. 378

R. YEPES STORK, La doctrina del acto en Aristóteles (M. Pérez de Laborda) p. 379