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La rappresentazione della città contraddittoria The representation of the contradictory city DANIELA PALOMBA, MARIA INES PASCARIELLO Nell’ambito dei temi propri della rappresentazione dell’architettura e della città, la sessione intende indagare le modalità di manipolazione della realtà oggettiva attraverso il disegno, al fine di enfatizzare i luoghi e i paesaggi dei privilegi, omettendo gli elementi di contraddizione quale l’alterità espressiva di minoranze sociali, culturali e religiose. La sessione raccoglie contributi rivolti all’interpretazione dell’iconografia storica e della rappresentazione urbana contemporanea che mettano in luce gli elementi di difformità. Tali tematiche potranno essere sviluppate facendo riferimento alle modalità e ai metodi di rappresentazione dell’architettura e della città che hanno escluso l’alterità (o che ancora la escludono) nel prefigurare contesti celebrativi (per esempio nella vedutistica) o immaginari (per esempio nelle utopie, e nei progetti non realizzati), oppure, di contro, nelle forme documentative (cartografie digitali, fotografia sociale, etc.). Within the themes of representation of architecture and city, the session intends to investigate the modalities of manipulation of the objective reality through drawing, in order to emphasize the places and landscapes of privilege, omitting the contradiction's elements of contradiction such as the expressive alterity of social, cultural and religious minorities. The session gathers together contributions to addressing the interpretation of historical iconography and contemporary urban representation that highlight the elements of differences. These themes can be developed by referring to the architecture's rules and methods of representation and of the city that have excluded the alterity (or which still exclude it) in prefiguring celebratory contexts (for example in landscape painting) or imaginary (for example in utopias, and in unrealized projects), or, in contrast, in documentary forms (digital cartography, social photography, etc.).

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La rappresentazione della città contraddittoria

The representation of the contradictory city

DANIELA PALOMBA, MARIA INES PASCARIELLO

Nell’ambito dei temi propri della rappresentazione dell’architettura e della città, la sessione intende indagare le modalità di manipolazione della realtà oggettiva attraverso il disegno, al fine di enfatizzare i luoghi e i paesaggi dei privilegi, omettendo gli elementi di contraddizione quale l’alterità espressiva di minoranze sociali, culturali e religiose. La sessione raccoglie contributi rivolti all’interpretazione dell’iconografia storica e della rappresentazione urbana contemporanea che mettano in luce gli elementi di difformità. Tali tematiche potranno essere sviluppate facendo riferimento alle modalità e ai metodi di rappresentazione dell’architettura e della città che hanno escluso l’alterità (o che ancora la escludono) nel prefigurare contesti celebrativi (per esempio nella vedutistica) o immaginari (per esempio nelle utopie, e nei progetti non realizzati), oppure, di contro, nelle forme documentative (cartografie digitali, fotografia sociale, etc.).

Within the themes of representation of architecture and city, the session intends to investigate the modalities of manipulation of the objective reality through drawing, in order to emphasize the places and landscapes of privilege, omitting the contradiction's elements of contradiction such as the expressive alterity of social, cultural and religious minorities. The session gathers together contributions to addressing the interpretation of historical iconography and contemporary urban representation that highlight the elements of differences. These themes can be developed by referring to the architecture's rules and methods of representation and of the city that have excluded the alterity (or which still exclude it) in prefiguring celebratory contexts (for example in landscape painting) or imaginary (for example in utopias, and in unrealized projects), or, in contrast, in documentary forms (digital cartography, social photography, etc.).

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Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi e del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità

La Brenta reale e immaginata: la costruzione di un mito basato sull‟omissione delle disuguaglianze sociali The real and imagined Brenta river: the construction of a myth based on the omission of social inequalities MAURO MANFRIN Ricercatore indipendente Abstract La Riviera del Brenta è una “città lineare” sorta tra Padova e Venezia, lungo una delle principali vie d‟acqua d‟Europa, cantata da poeti, descritta dai viaggiatori del noto Grand Tour nonché dipinta dai maggiori vedutisti. Grazie a questa operazione di “marketing” si trasmise un‟idea di Riviera non reale: la miserevole vita dei contadini che vivevano in case di paglia non traspare mai, eppure gli ultimi casoni, emblema della miseria, sono stati distrutti nel Novecento. Nel Settecento la Riviera era un fondale da teatro, un archetipo di paradiso terreste che ad alcuni piaceva addirittura più di Venezia perché vi si associava insieme il genio artistico dell‟uomo, delle sue architetture, e la natura, il territorio, nonché la nobiltà della vita agreste. The Riviera del Brenta is a “linear city” built between Padua and Venice, an area of particular cultural interest due to the great architectural heritage of the Venetian Villas built between the 15th and 18th centuries by the nobles of the Venetian Republic along one of the main waterways of Europe, described by poets and the travelers of the famous Grand Tour, and also painted by the major painters of landscapes. Thanks to this “marketing operation”, an idea of Riviera was transmitted but actually it was not real: the miserable life of the peasants who lived in thatched houses, called “casoni”, never transpired. The last casone, that it was an emblem of poverty, were destroyed in the twentieth century. In the eighteenth century the Riviera was described like a paradise because it has been proposed like an ideal territory where to live in the best way: a perfect rural life. Keywords Iconografia, paesaggio, fiume Brenta, ville venete, Grand Tour. Iconography, landscape, river Brenta, venetian villas, Grand Tour. Introduzione Il presente lavoro è volto a dimostrare che nell’ambito dei temi propri della rappresentazione storica dell’architettura, della città e del paesaggio, vi è stato per quanto riguarda l’illustrazione – intesa sia nel senso di mostrare che di dare lustro – del territorio solcato dal nastro fluviale della Brenta (declinata appositamente al femminile, come facevano i veneziani) una manipolazione della realtà oggettiva attraverso disegni, cartografie e racconti di viaggio celebrativi ed enfatici che hanno veicolato in tutta Europa un’idea quasi utopica del percorso fluviale divenuto, suo malgrado, un mito topografico poiché usato per propagandare un ideale rapporto armonioso tra uomo e natura che era tuttavia in gran parte irreale. Il periodo storico abbracciato è molto ampio: prese avvio nel Cinquecento ma ebbe il suo massimo splendore nel Settecento quando il tragitto fluviale tra Padova e Venezia divenne passaggio obbligato del Grand Tour, facendoci assistere ad una vera esplosione di vedute e narrazioni odeporiche; proseguì, infine, nell’Ottocento e nel

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Novecento – pur con declinazioni molto diverse dalle precedenti – quando prese avvio un periodo romantico prima e decadente poi, sino al totale oblio avvenuto nel secondo dopoguerra. Particolare attenzione è stata quindi posta al periodo settecentesco che ha dato i natali ad una vasta produzione di arti visive e letterarie atte ad enfatizzare i luoghi dei privilegi omettendo gli elementi contradittori ed escludendo così l’alterità. È per questo che nell’immaginario collettivo le ville dei patrizi veneziani divennero solo luogo ameno di piacere stagionale e persero agli occhi del mondo tutte le caratteristiche di aziende agricole quali erano, inizialmente in modo esclusivo, poi dividendo la scena con la moda della villeggiatura [Goldoni, 1761]. Un malinteso culturale che perdura anche ai nostri giorni. 1. La Brenta come mito topografico “Rives de la Brenta, paysage enchanteur, / Séjour ou cent palais annoncent la splendeur, / L'oeil suit dans les détours de votre onde limpide / Les jardins, les bosquets et le luxe d'Armide” [Jean–Louis Brad 1814]. Così ebbe a scrivere Jean–Luis Brad all’inizio di un lungo elogio che ricalcava centinaia di descrizioni che per secoli si fecero della Riviera del Brenta, un brano di paesaggio il quale prende il nome dal corso del fiume, domato dai veneziani e divenuto un naviglio, che unisce Padova a Venezia e che sino alla modernità – ovvero sino alla costruzione della ferrovia e in particolare del ponte translagunare che tolse Venezia dal millenario e strenuamente difeso isolamento tra le sue acque – rappresentava la principale via di comunicazione verso la città lagunare per tutti quei viaggiatori che vi approdavano seguendo quel “grande fiume rigoglioso che attraversa la letteratura e le arti” che è il Grand Tour [de Seta 1999]. In un recente testo lo scrivente si è cimentato nel descrivere la nascita ed affermazione del mito della Riviera brentana [Manfrin 2015], e in questo breve saggio lo daremo per assodato. Il termine “mito” deriva dal greco mythos, che significa “parola, racconto”. È, infatti, “attraverso un’operazione prevalentemente narrativa che alcuni luoghi vengono sottratti alla geografia reale, ingigantiti nell’evocazione e collocati nella dimensione fantastica del mito” [Ferlenga 2014]. Essi perdono di identità geografica e ne acquistano una immaginifica, come accadde al fiume Brenta, il cui fascino maggiore stava in “questo equilibrio miracoloso fra natura e arte: l’uomo vi ha lungamente lavorato, ma il suo stesso intervento sembra persino naturale, e questo fa da contrappunto all’emozione dell’artificiale che invece comunica Venezia” [Pasqualetto 2013] sicuramente luogo meraviglioso e magico, ma sentito come estremo. In fin dei conti l’agricoltura e la pastorizia erano ancora i settori per eccellenza dello sviluppo economico e in un certo senso, agli occhi di alcuni visitatori, lungo la Brenta avvenne qualcosa di miracoloso: essa univa la prosperità del paesaggio agreste con la bellezza delle architetture urbane come se l’eterna conflittualità tra città e campagna avesse avuto, finalmente, una soluzione definitiva. Non a caso quindi si inizia questo contributo sull’immagine della Riviera partendo da un elogio poetico francese e non da una veduta pittorica. È evidente che parallelamente allo sviluppo del vedutismo si è assistito a quello “di uno degli affluenti che vanno a comporre il grande fiume dell'immensa letteratura odeporica che racconta, celebra, vagheggia, ricostruisce viaggi reali o immaginari” [Colombo 2013] e tale fenomeno, sia per l’accrescimento del Grand Tour stesso sia per la costruzione di miti topografici, è stato di primaria rilevanza. Nel caso della Riviera del Brenta Pasqualetto ha individuato, dividendoli per fasi storiche, centinaia tra romanzi, diari di viaggio, poemi che hanno trattato il tema del viaggio lungo il corso del fiume. La Brenta era un luogo conosciuto in tutta Europa e anche Brad, nelle note del suo elogio, si chiedeva chi non abbia quantomeno sentito parlare “delle rive così ricche della Brenta dove tutti i grandi di Venezia hanno costruito palazzi di marmo e piantato magnifici giardini e delle eleganti barche che vi si conducono” [Brad 1814]. Aggiungiamo che è stato scelto tra tutti ed a titolo

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esemplificativo il suo componimento poetico perché paragona il paesaggio brentano al Giardino di Armida. Nel lavoro del Tasso [Gerusalemme Liberata, XV, 53–66; XVI, 1–16], il giardino di Armida appare agli occhi del lettore come un palcoscenico teatrale: è una sorta di ricostruzione dell’Eden ma con un significato fortemente negativo dal momento che non si tratta di una creazione divina, bensì altro non è che frutto dell’arte magica di Armida e perciò, come tale, finzione. Rispetto al topos letterario più noto, quello di Arcadia, usato spesso in ambito brentano cercando di veicolare l’idea di mondo idilliaco in cui non era necessario lavorare la terra per sostenersi – perché una natura generosa provvedeva già a donare all'uomo il necessario per vivere –, nel giardino di Armida è possibile rintracciare il tema dell'alterazione e della distorsione dello spazio e del tempo: il tempo è alterato in quanto è sempre un periodo compreso tra primavera ed estate, quindi irreale; lo spazio, invece, è illusionistico, è finzione diabolica, solo teatralità. Questa associazione di idee è interessante: la villeggiatura lungo la Brenta non era forse limitata nel tempo al periodo estivo? E la lunga cortina di dimore lungo la Brenta, uno sviluppo edilizio continuo e lineare atto a mostrare il suo lato migliore, quello dei palazzi e dei giardini, non poteva forse sembrare una quinta scenica, da teatro? 2. La rappresentazione della Brenta Della teatralità della Riviera del Brenta era ben conscio lo scenografo Giovanni Francesco Costa che a metà del Settecento realizzò la fortunata serie di 136 vedute, ottenute con l’ausilio della camera ottica, pubblicate “appresso l’autore” con il titolo Delle delicie del fiume Brenta. Come sappiamo, non era una novità: “le Delicie riproponevano, a distanza di circa quarant'anni dalle opere di V. Coronelli (c. 1711) e J. C. Volkammer (1714), la formula della grande raccolta documentaria sulle ville del Brenta, ma con un impegno completamente nuovo, ispirato dal più moderno vedutismo topografico, ebbero grande fortuna, come provano le riedizioni” [AA.VV. 1997]. Se al lavoro del Costa e dei suoi predecessori si aggiungono una serie di vedutisti di chiara fama (Canaletto, Guardi, Cimaroli) e molti altri pittori minori, possiamo comprendere come sia stato possibile addirittura arrivare a ricostruire con buona approssimazione la situazione della cortina edilizia esistente tra Padova e Venezia a metà Settecento [Baldan 2000] e realizzare una mostra e un catalogo con interventi di grande prestigio [AA.VV. 1996]. Una recente scoperta ha evidenziato anche l’esistenza presso il Victoria and Albert Museum di Londra di vari rilievi architettonici di ville rivierasche, collezionati dal Conte Bute lungo il suo Grand Tour, di grande interesse poiché riguardano – in alcuni casi – gioielli dell’architettura andati perduti [Manfrin 2015]. Pochi brani di paesaggio italiani, al di fuori dei maggiori centri urbani, possono vantare una tale quantità di arti visive ad esso dedicate. E proprio per la vastità della produzione si possono individuare dei tratti comuni: attenzione particolare è riservata alla vita fluviale, letteralmente esibita, tanto che sono quasi sempre presenti il famoso burchiello e una moltitudine di tipi di imbarcazione. Sono rappresentate le chiuse per il superamento dei dislivelli, i tiranti e i loro cavalli che lungo l’alzaia conducevano i natanti, e le ville facevano da coronamento a questa vita punteggiata dalla presenza di pastori, donne intente a lavare i panni, zattieri che conducevano i tronchi provenienti dai boschi e diretti a Venezia, giardinieri indaffarati a sistemare i parchi e signore impegnate in un gioioso chiacchiericcio. Tuttavia appare evidente che tutte queste figure sono prevalentemente delle macchiette, figuranti ed interpreti sul palcoscenico del teatro brentano. Le poche pecorelle con il pastore zufolante non rappresentavano certo le greggi di pecore che percorrevano le rive; in egual modo il contadino sul carro di fieno non rappresenta le decine di famiglie di braccianti che lavoravano gli ettari di terreni in capo ai nobili veneziani; come il questuante che si avvicina ai nobili (sempre pronti, nelle raffigurazioni, ad elargire qualcosa) non rappresenta la povertà che serpeggiava tra i più umili.

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3. Il confronto con la documentazione d’archivio Diverso il racconto che emerge da altra testimonianza iconografica, la quale aveva uno scopo ben diverso da quello di esaltare le peculiarità – comunque innegabilmente presenti – di un territorio, poiché avevano una funzione tecnica: la documentazione disegnata custodita presso l’Archivio di Stato di Venezia. Questa preziosa raccolta di informazioni oggettive nacque come supporto grafico a incartamenti scritti da proti della Serenissima, ingegneri dei fiumi, e così via, i quali si prefiggevano il compito di risolvere difficoltà tecniche come l’individuazione e la sistemazione delle rotte delle acque che continuamente dilagavano sul territorio uscendo dagli alvei dei fiumi, oppure redimere problemi giuridici e fiscali. È documentazione precisa, quindi, per provare a risolvere quel dato problema a cui era allegata, e non sempre è utile a raccontare altre storie. Va quindi trattata con cautela, alla stregua di un’incisione o una veduta che poteva – per omissione, ovvero con la volontà di celare e lasciare nascoste alcune caratteristiche del territorio – non voler raccontarci tutti gli elementi del paesaggio. Tra i molti esempi che si potrebbero fare (gli interessi della Serenissima in terraferma erano tali che la documentazione d’archivio è copiosissima) si propone il dettagliato rilievo dei periti per l’ampliamento del tratto della Brenta da Vigodarzere a Stra, passando per Noventa Padovana. Qualsiasi confronto, per essere sostenibile in termini scientifici – per quanto l’approccio rigoroso e razionale in campo storiografico non sia sempre applicabile – abbiamo qui scelto di analizzare lo stesso brano di territorio, nei dintorni di Stra, visto con gli occhi del vedutista, un tale Dominichini, e dell’ingegnere Scalfurotto Tommaso che fece il preciso rilievo della Brenta dove sono indicati gli edifici posti nelle immediate vicinanze del fiume che sarebbero dovuti essere demoliti per la sistemazione degli argini e dell’alveo. I terreni appartenevano tutti a famiglie importanti, ma vi erano collocate casette bracciantili o casoni con il tetto in paglia e pavimento in terra battuta; strutture composte di una o due stanze in cui vivevano promiscuamente intere famiglie con i loro animali. Il vedutismo e la letteratura di viaggio ignorarono – quasi nella totalità dei casi – di descrivere, anche solo con un cenno, le abitazioni della grande maggioranza della popolazione che viveva di agricoltura nelle terre dei possidenti veneziani o padovani. In fin dei conti, chi poteva esplorare l’Europa e acquistare una veduta da riportare in patria dopo un lungo viaggio non apparteneva di certo a quella classe sociale analfabeta e che viveva di stenti in case di paglia, e non poteva avere nessun interesse nel riportare con sé un ricordo di povertà quando poteva raccontare di aver visto il giardino delle esperidi, come volle ricordarlo il Volkamer [Volkamer 1714]. I due quadri sono attributi ad Apollonio Domenichini [Manfrin 2015] e ci mostrano la Brenta nel nodo fluviale di Stra (incrocio tra Tergola, Piovego e Brenta) verso Padova – esiste un terzo quadro della vista verso Venezia, non oggetto di confronto – dove si può notare che il solito burchiello fa pigramente capolino e varia umanità si affaccia al fiume: dame a passeggio; sabbionari che con una carriola raccolgono le sabbie depositate dal fiume davanti alla villa Foscarini; alcuni lavoranti si danno da fare e una zattera di legname è condotta verso Venezia. Evidentemente la scena è incentrata sulla vita fluviale e sulle ville poste in evidenza con un bel gioco di luce e dettagli, il tutto coronato da altri edifici pittoreschi. Il rilievo consta in una mappa – nella prima figura il dettaglio del cartiglio e del tratto di fiume indagato – e alcuni casoni destinati a essere demoliti per l’ampliamento degli argini. In questi edifici si perpetuava nel Settecento il vero male delle campagne venete: l’indifferenza del grande proprietario terriero nei confronti delle sue terre.

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1: Apollonio Domenichini (1715–1757). First view of the Villa Foscarini at Stra on the Brenta Canal. Oil on canvas, stretcher stencilled 'B.Q.' for Buccleuch and Queensberry.

2: Apollonio Domenichini (1715–1757) Second view of the Villa Foscarini at Stra on the Brenta Canal.

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Egli era l’unico che disponeva di mezzi sufficienti per permettere tutte le riforme che venivano promosse dalle accademie agrarie in giro per l’Europa, ma la sua gestione aveva come obiettivo la ricerca di un reddito tranquillo che gli permettesse di continuare una vita oziosa [Torcelan 1964]. La squallida povertà di questi manufatti, legati a persone appartenenti al più basso gradino della scala sociale, strideva con il lusso ostentato dalle sontuose “villeggiature” delle ricche famiglie nobiliari [Gallo, Zanetti 2014]. Ne Il giornale d‟Italia del 1768 – quindi coevo al rilievo – gli abitanti dei casoni venivano chiamati i “pisnenti”, ovvero così “chiamasi il povero contadino a differenza dei ricchi che chiamasi massariotti”, i braccianti che non disponevano di terra in proprietà ed avevano appena una casupola o spesse volte un tugurio per abitare e vivevano del lavoro saltuario delle loro braccia, parte dell’anno disoccupati, e che per sopravvivere erano costretti a qualunque cosa, compresi l’elemosina e il furto. Nell’esempio qui riportato si richiama alla presenza, a poche centinaia di metri dalle ville Pisani e Foscarini a Stra, veri gioielli dell’architettura, di situazioni abitative tra le peggiori immaginabili – situazione riscontrabile lungo tutta l’asta fluviale e per tutto il Settecento – ignorate dai maggiori interpreti del paesaggio del Grand Tour: vedutisti e letterati. Nel corso del secolo successivo le cose cambiarono e vi fu una rivoluzione nei rapporti sociali (le terre passarono dal residuo di quello che fu il patriziato veneto ai borghesi ed ai piccoli contadini proprietari del loro appezzamento) con una rivalutazione della vita agreste e varie denunce della miserevole condizione del “pisnente”. Ma ancora una volta è in agguato la manipolazione della realtà se una delle vedute ottocentesche più belle – anche se poco conosciuta – della Brenta riguarda villa Foscari alla Malcontenta, opera di Andrea Palladio, in cui si vede il piano nobile usato come fienile dai contadini. L’autore, tale Luigi Martens, uno dei figli del console danese a Venezia, compose una scena di chiaro gusto nostalgico, simile alle vedute settecentesche del Costa, di quanto già nel 1808 Leopoldo Cicognara lamentava: “il palazzo Foscari alla Malcontenta deperisce ogni giorno di più, e la residua sala può dirsi perennemente destinata ad uso di fienile” [Reale Accademia 1808] quasi rimpiangendo i fasti del Settecento.

3: Estratto del disegno dell‟andamento del fiume Brenta da Pontevigodarzere fino al Ponte di Stra realizzato da Tommaso Scalfurotto, 1769. Sea Brenta. ASVE. Particolare.

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4: Estratti dei rilievi delle decine di casoni presenti lungo il tratto di Brenta esaminato. Tommaso Scalfurotto, 1768. Sea Brenta. ASVE. Particolari accostati.

5: Luigi von Martens. The Malcontenta near Venice, 1829. Collezione privata.

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Conclusioni Nella nascita e perpetuazione del mito topografico della riviera della Brenta, in particolare nel corso del Settecento, attraverso la rappresentazione iconografica e la narrativa di viaggio, grande importanza ebbe la manipolazione della realtà oggettiva attraverso il disegno ed il racconto odeporico al fine di enfatizzare i luoghi ed i paesaggi dei privilegi, come quello delle ville venete, trasformando talvolta i luoghi del disagio sociale in “pittoresco” o, nella maggior parte dei casi, omettendo gli elementi di contraddizione ed escludendo quindi un’intera classe sociale, quella dei braccianti ma non solo, sulla quale si basava totalmente l’economia della terraferma veneziana. È sempre più necessario, quando ci si approccia allo studio dei luoghi, utilizzare tutte le fonti a disposizione e metterle a confronto affinché emergano eventuali contrasti. La singola fonte iconografica, letteraria o d’archivio che stiamo osservando potrebbe, infatti, risultare parziale e finalizzata ad uno scopo preciso, assecondare gli interessi del committente oppure del pubblico a cui era rivolta. Bibliografia AA.VV. (1768). Giornale d'Italia: Spettante alla scienza naturale, e principalmente all'agricoltura, alle arti, ed al commercio, Volume quarto. Appresso Benedetto Milocco in Venezia. AA.VV. (1808). Atti della reale Accademia e del Regio Istituto di belle arti in Venezia. AA.VV. (1978). Gli affreschi nelle ville venete dal Seicento all'Ottocento, Alfieri, Venezia. AA.VV. (1996). Immagini della Brenta. Ville venete e scene di vita sulla Riviera nel „700 veneziano, Electa, Milano. AA.VV. (2000). Civiltà e cultura di villa tra „700 e „800: a Mirano e nella terraferma veneziana, Marsilio Ed., Venezia. BALDAN G. (2000). Ville della Brenta. Due rilievi a confronto 1750 – 2000, Venezia, Marsilio. BRAD J.L. (1814). L‟Italie, poème en quatre chants, Alessandria, Capriolo. COLOMBO L. (2013). Il Viaggio ai tempi del Post Turismo. Lady Bell e i "piccoli giochi per viaggiatori". CORONELLI V. (1710). La Brenta quasi borgo della città di Venezia luogo di delizia de' veneti patrizi delineata e descritta dal P. ex generale Vincenzo Coronelli, Venezia. COSTA G.F. (1750). Delle delizie del fiume Brenta espressa ne' palazzi e nei casini situati sopra le sue sponde dalla sboccatura nella laguna di Venezia fino alla città di Padova disegnate ed incise da G.F. Costa architetto e Pittore veneziano, 2 voll., Venezia. DE SETA C. (1999). Vedutisti e viaggiatori in Italia tra Settecento e Ottocento, Torino, Bollati Boringhieri. DILLON G.V. (1976). Aspetti dell'incisione Veneziana nel Settecento, Venezia, Tipografia Commerciale. FERLENFA A. (2014). Topografi a leggendaria della Grande guerra in Strategie della memoria. Architettura e paesaggi di guerra, Venezia, Università Iuav. GALLO D.; ZANETTI P.G. (2014). Paesaggi agrari della pianura veneta, Padova, Veneto Agricoltura. GOLDONI C. (1749). l‟Arcadia in Brenta. Dramma comico per musica, Venezia. GOLDONI C. (1761). La trilogia della villeggiatura, Venezia. GUIOTTO M. (1983). Monumentalità della Riviera del Brenta, Limena, Signum. MANFRIN M. (2015). Riviera del Brenta reale e immaginata. La costruzione di un mito in Luoghi e itinerari della Riviera del Brenta e del Miranese a cura di Draghi A. Treviso, Panda Edizioni. PASQUALETTO G. (2013). Nel giardino di Armida: viaggiatori sulla Brenta dalle origini al Grand Tour, Cleup. PASQUALETTO G. (2014). Diabolica Arcadia. La Brenta nelle memorie e nelle fantasie dell‟Ottocento, Cleup. PASQUALETTO G. (2015). Altri labirinti. Sguardi e sogni sulla Brenta nel ventesimo secolo, Cleup. SAGREDO G. (1667). Arcadia in Brenta ovvero la melanconia sbandita, Venezia. TASSO T. Il giardino di Armida, in Gerusalemme Liberata, XV, 53–66; XVI, 1–16. A cura di TOMASI F., BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2009. TIOZZO C.B. (1977). Le ville del Brenta, Venezia, Cavallino. TORCELLAN G. (1964). Un tema di ricerca: le accademie agrarie del Settecento, in “Rivista storica italiana”, a. 76, fasc. 2, Napoli. VOLKAMER C. (1714). Continuation der Nürbergishen Hesperzdum, Norimberga.

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The viral image of the high city and the clandestine reportage of the other ground MATTEO GIUSEPPE ROMANATO Politecnico di Milano Abstract Le recenti trasformazioni delle aree dismesse di Milano hanno accolto residenza di alta gamma e funzioni direzionali. La massimizzazione dell'investimento ha portato ad un'edificazione in altezza ed una strategia pianificata ha saputo utilizzare selezionate immagini di progetto per raccogliere il consenso. Si può riconoscere il successo di questa campagna iconica attraverso la diffusione “virale” di immagini nel Web mentre a recuperare l'umanità ai margini resta solo il reportage fotografico. The recent transformations of the dismissed areas of Milan have made way for high-end residences and directional functions. The maximization of investments has led to tall buildings and a planned strategy could use selected project images to gain consensus. The success of this iconic campaign can be understood through the “viral” diffusion of images in the Web while only the photo reportage can recover marginal mankind. Keywords Neoliberismo, Trasformazioni Urbane, Immagine virale. Neoliberalism, Urban Transformations, Viral image. Introduction After September 11 attacks, it was a common opinion that skyscrapers would finish their run in height. The iconic symbol of Western civilization appeared to be linked to a world that could not sustain the fragility of history that collapsed upon itself. In other words, it seemed that “the iconic city center is no longer a viable institution of social life” [Barron, Frug 2002]. As a matter of fact it is easy to understand that economic and social issues have still the power, in the long term, to feed on the one hand the urban sprawl of the suburbs and on the other the concentration of value in the core of the cities [Berube, Rivlin 2002]: tall building actually continue to strongly spread in Europe and the United States. Furthermore, it is a paradox that in those parts of the world that have seen their own traditions, even architectural ones, overcome by globalization instead of reacting, as in a certain sense the radical movements expected, have confirmed a trend that does not seem to be weakened at all but, on the contrary, tends to flourish: Dubai, Abu Dhabi, Gedda and Ryad offer, or are just planning, urban landscapes now fully integrated into a globalized context. The list of skyscrapers that dot the world is well known: Shenzen (Shun Hing Square), Kaohsiung (Tuntex Sky Tower), Hong Kong (Cheung Kong Center), Aurora Place (Sydney), Paris (Tour Edf), Bonn (Deutsche Post Tower), London (8 Canada square), Barcelona (Torre Agbar), New York (Hearst Tower), Beijing (CCTV Headquarters) and the sequence could go on as far as Burj Khalifa, Shanghai Tower or Abraj Al Bait. Such a continuous and long-lasting phenomenon cannot be explained anymore only with the classical theory of the accessibility of central places [Burgess 1925]. In the age of neoliberalism, the intertwining of finance and urban image is in fact evident [Sklair 2016] and

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the engagement of archistars is mainly intended to create a precise urban image, recognizable, with a specific purpose and, above all, incontestable by ordinary people. 1. Media and expectations The sensationalism of the architectural marvel is only one of the screens behind which large interventions of urban transformation are often promoted. Financial investments are often the basis of large urban transformations, but it is interesting to note how the urban imagination is tickled to envisage a future urban rebirth and to attract international attention. The case of Milan is emblematic in this regard. Large areas such as Porta Nuova, Ex-Varesine and Citylife, after the abandonment of the original use for rail lines and Milan Fair have been subject to many years of planning interventions. The Garibaldi Repubblica district, as an example, covers an area of about 290,000 square meters for the construction of about 350,000 square meters of gross floor area widely publicised by the builders. Basically, we face with projects for a high-income population since the sale price of the residences in the Citylife district reaches 12,000 euro per square meter. The investment in events, presentations, press coverage, interviews with designers is a perfectly intuitive phenomenon, but it is more interesting to note that Web communication, which has now largely overcome traditional media, is overflowed by an impressive amount of more or less explicit messages. A simple Web search with the terms “Citylife Milano” gave about 454,000 indexed results, 16th May 2018 on google.it, with a multitude of texts and images of various origins. In this multimedia hubbub a preponderant role is played by the urban image. A large amount of photographs, renderings, design projects are the main evidence of the investment in design icons that has been implemented to support the consensus and feed the citizens' expectations. In other words, the urban image is the most pervasive and effective vehicle to reach the largest number of people and to drive public sentiment in favour of transformations. The vision of a dense city, height-built, futuristic, on the cutting edge and basically not different from other similar capitals in the rest of the world becomes a standard to be combined with the hypothesis of future proposed to the citizens. It is therefore above all the digital channel that now appears as the most profitable frontier for any opinion campaign. Web 2.0 [O 'Reilly 2005], that is the empowerment of users to interact with each other by exchanging and producing data of many kinds, about which opinions are shared without a preordained hierarchy, has offered the unexpected opportunity to use cooperation and to share digital contents to increase the effectiveness of communication, not just commercial but also political and social. A phenomenon related to Web 2.0 is the so-called “Viral Marketing” [Bonnetti 2005] which is the opportunity to use self-replicating viral processes of the Network to propagate ideas, messages, proposals for both trade or propaganda. The viral Web is nowadays considered one of the most powerful strategies of communication and it is easy to experience the quantity of representations, circulating on the Net often by their own iconic power, that appear on the connected screens. A successful iconography can be found in several images uploaded and shared on blogs, websites, discussion forums, social networks, virtual communities etc. Such an overview may look like a simple side effect of the interconnected world. However, there are other clear signs that we are in front of a conscious project to build an urban imaginary.

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Unicredit, the corporation that currently owns the main building of Porta Nuova and which had initially provided financial support for the construction, promoted in 2013 a photo contest open to citizenship with the slogan: “PinTower: rising city” echoing the homonymous painting by Boccioni. The strategy in this case was to involve ordinary people and make them, more or less consciously, the protagonists of a precise urban iconographic project. The announcement explicitly required photographic images that, having as their object the recent building, expressed the concept of innovation. The 24 best photographs were then the core of a temporary exhibition set up in Piazza Gae Aulenti at the base of the Unicredit Tower. Creating events, involving people and promoting an urban image are, ultimately, part of an approach much more effective and stratified than a simple traditional press campaign. Another side of this communication system are events that inevitably have a lot of space on the media. The “Sacrilege” installation by the English conceptual artist Jeremy Deller, for example, already displayed in London in 2012 for the

Olympics and brought to Milan Citylife at the foot of the three towers, could draw, with the motto of “Have fun”, a large crowd to have a good time among the inflatable reproductions of Stonehenge in 1: 1 scale. Of course, that is the exact opposite of the deep conceptual matter raised by Tschumi who links architecture to the event [Tschumi 2009] or programs involving the town such as in the memorable “Estati Romane” [Nicolini 2011]. The most evident fact is here, however, the key role of the urban image that is developed not by chance even by the site dedicated to the construction of the Citylife district. Here we can find a group of webcams, a photogallery and a time-lapse video of the stages of the construction. All this panorama, in an era of digital communication, clearly has a huge media and iconic effect if we know how to take it into consideration within the viral perspective above mentioned. 2. Iconography and bottom up images We can really question whether there is a spontaneous iconography that arises from city users, passionate citizens or simple curious of urban events. The phenomenon of “user generated content” can give an answer. The opportunity that technological developments offered to ordinary people to produce and share contents fostered large discussions about the potential birth of a participatory culture [Turner 2013] but it is certain that the contributions, that are now entrusted to the Net, are changing common sensibility.

1: The viral image of the incoming Milan. Images of Citylife project on the Web.

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Although precise boundaries cannot be established between the official productions, that are planned and consciously displayed by institutional or professional sources, and the discussions of non-expert people the interesting point is the new dialogic and mutant dimension of web contents between these two sides of the Net. A successful professional representation can migrate, be hybridized, enriched, edited etc. finally made viral. This is the opportunity that the production of iconic contents can exploit for a wider diffusion of expectations. Precisely those big real estate companies, which aim to radically change the urban landscape, can provide accurate representations, rich of details, professionally realized and endowed with a high visual performance.

2: Rendering of of Citylife project. Title: “artist's impression 2” by Daniel Libeskind Studio. The image above, for example, can be found in about 70 copies of different sizes on the Web. Often those digital representation foreshadows a modern city in which iconic buildings are selected to stand out for their height, also in comparison with the surrounding fabric. The bird's eye view stresses the size of the project and its spatial effect. Such a precise choice on the one hand seems to confirm a very strong belonging to the context, on the other it clashes with the clear limitations of a project that retracts from the borders of the area, concentrates land values at the centre of the district and emphasizes the buildings more as works of industrial design than as edifices. This dissemination and availability of iconic buildings on the Web must obviously influence the vision of the network users. It is possible in other words to recognize a kind of visual impriting able to shape the aesthetic conscience of the digital audience and to direct it towards precise formal and visual contents with which to interpret the projects and ultimately the city itself that is forming. There are many digital spaces where this trend can be checked. On these websites citizens upload their own images of the city and in turn offer them to public

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view. On Wikipedia [Reagle 2010], a website that has become almost proverbial, we can find an endless number of articles provided with visual material, especially photographs, taken by amateurs and enthusiasts.

3: Images by Web users. From the left: CityLife Recidences by Simone Utzeri, Torre Isozaki by Luca Galli, TorreHadid by ALBBYALBBY (ww.commons.wikimedia.org/wiki/Category:CityLife?uselang=it). These photos are an important clue of a widespread knowledge and of the power of digital communication that links different sources in the web space. Some examples can be really interesting in this regard. From the photos posted on Wikipedia we can see how the transformation is received. Very often the vertical dimension irresistibly attracts the photographers and the buildings are taken from the bottom with a deliberately dramatic view that sometimes seems to hide the building frame to enhance the sculptural and inorganic design. When the photos do not portray extreme perspectives the base of the buildings, and generally the ground, are often represented without people. Both these trends reflect, in a certain sense, the architectural drawings but probably they consider buildings just as monuments in themselves without relevance to the population or to human kinds that should make these spaces a part of the city. This vision can be seen as an idea of a city simply built by full and empty spaces that are arranged on the ground as in a collection of architectural wonders with the same value of their representations: a city as a work of art. The same attention is then paid to the buildings during their construction stages which are documented just as the finished work and updated on the website as soon as the progress of works allows it. Thanks to the easy way to have digital photos, with little expense and in no time, users do not wait until the works are completed to document on the Web the existence of buildings. Also, the constructive stages and the technological issues, which could appear to be the most difficult aspects for a non-expert audience, arouse interest among web users, quite unexpected if we consider the strictly formal premises that have just been outlined but the power of intriguing images can compensate for the lack of expertise. A more careful attention

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must so be put on technical drawings, obviously not at the executive level but at least of the preliminary design, which illustrate the choices behind some even complex solutions. In this regard, the creation of the so-called “Bosco Verticale”, in the Garibaldi Repubblica district, deserved praise on the media so as to induce the creation of a manifesto for urban reforestation [Muzzonigro, Musante 2015]. It is easy to understand how that is a project destined to very high-end consumers with luxury equipment and with a need for extremely high maintenance performances (one of the slogans concerns the “Flying Gardeners” who must use climbing harnesses to reach the trees to prune and contain) but fascinating drawings showing the layout of the irrigation system can overcome every objection and be very popular on the Web as well. The examples made so far could be associated with many others both in the mentioned sites and in many others while keeping close to what is reported. On the whole it is clear how the symbolic reference that emerges from this panorama, in which various currents and stimuli are overlapped, merge into a fairly precise urban iconography that proposes a dense, technological, avant-garde, precious, competitive, international, deeply formalist and ultimately elitist city.

4: Bosco Verticale irrigation by ForgemindArchiMedia (www.flickr.com/photos/eager/7155294403/). 3. Reportage of the invisible city A scenario favourable to urban transformations and to private capitals was actually predictable. However, an element that does not appear on the professional web neither on the widespread web concerns the exclusion that the upper-class city reserves for the marginal urban groups. The new urban poverty that has emerged in Europe since the 1990s has shown its virulence with urban revolts that have surprised the establishment due to their intensity and duration

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[Lagrange, Oberti 2006]. The marginality of certain districts has been studied both in America and in Europe [Wacquant 2016] and, even with the obvious differences, can be justified with the contemporary withdrawal of public welfare and the inability of the institutions to oppose neoliberal policies. It is an epochal phenomenon that can also drive well integrated people into a condition of extreme poverty as far as to the loss of their housing or to be expelled even from the minimum economic and social cycle in which it is not impossible, but difficult, to return [Molteni 2012]. From this point of view it is very difficult to find a narrative that recovers the low and invisible city, or what we do not want to see, at the foot of the high city. Homeless people do not occupy a defined space, they do not affect the market as they do not have minimal resources to be interesting and the same protection system has difficulty in approaching them. A sort of lack of visual narratives is, in a certain sense, the counterpart of the preponderance of the urban iconography: expression of a city that is built on economic-financial parameters. The ethnographic investigations carried out on the site through the photographic medium [Scandurra 2005] can be anyway more interesting than quantitative analyses that could not make the drama of a precarious condition stand out. Therefore, artistic photographic projects can often highlight a reality that is transparent to the eyes of many people. Among the most

significant examples we can see the experience of Joan Fontcuberta (exposed at Mufoco in Cinisello Balsamo) with the work “Homeless” that shows a homeless person reproduced by a countless number of cards portraying the richest men in the world and collected through a freeware mosaic photo software. Much more interesting is the photographic project by Dino Bertoli, Sofiene Bouzayebe, Karim Hamras and Massimo La Fauci, four “homeless photographers” who, for the “Riscatti” association, portrayed the world of Milanese homeless to which the authors belonged before a rehabilitation program.

Conclusions For these last representations we can speak anyway of collections of images that have little penetration on the major communication channels and are known mostly by fans of photography. The coexistence of different imaginations should not surprise us. From an historical point of view in the medieval and Renaissance city there have often been noble areas overlapping with marginal situations. Suffice it to think of Palazzo Massimo alle colonne under whose porch, by ancient law, the homeless had the right to sleep at night or the spaces next to the Palais Royal in Paris that housed prostitution. Moreover, every city has always had its courts of miracles where, as the sun went down, the deformities of beggars disappeared. After the phase of the disciplining of the masses that Foucault talks about in “Discipline and Punish” [Foucault 1975] it is difficult to establish the future arrangement of the permanence in western cities of a privileged class that can has access to precious urban resources and of a class of excluded people.

5: Homeless sleeping in Milan underground.

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It is however at least clear that the images related to these two distant citizenships, and even more their diffusion through the communication systems, will have a central role in participation to urban policies which can turn to diametrically opposed directions: in what Bernard Secchi called “City of the rich and the city of the poor” [Secchi 2013] representation can act as a viaticum to a fascinating but dangerous path or, on the contrary, as a witness against society. Bibliography BARRON, D. J., FRUG, G. E. (2002). After 9/11: Cities, in The Urban Lawyer, vol. 34, n. 3, p. 583. BERUBE, A., RIVLIN, A. M. (2002). The Potential Impacts of Recession and Terrorism On U.S. Cities (available at: https://www.brookings.edu/research/the-potential-impacts-of-recession-and-terrorism-on-u-s-cities/). BONNETTI P. (2005). “Marketing Virale” nella diffusione di nuove tecnologie: teoria e casi, in Proceedings of the II National congress of Società Italiana di Marketing, Trieste 2-3 December (available at: http://www.simktg.it/MTF/Content/convegno/PaperBonetti.pdf). BURGESS, E. W. (1925). The Growth of the City: an Introduction to a Research Project, in The City, edited by E. W., Burgess, R. E Park, R. D. McKenzie. Republished in The Heritage of Sociology, edited by M. Janowits, Chicago, University of Chicago Press. FOUCAULT, M. (1975). Surveiller et punir: Naissance de la prison. Paris, Gallimard. LAGRANGE, H., OBERTI, M. (2006). La rivolta delle periferie. Precarietà urbana e protesta giovanile: il caso francese. Milano, Mondadori. MOLTENI, W. (2012). Io sono nessuno. Storia di un clochard alla riscossa. Milano, Dalai Editore. MUZZONIGRO, A., MUSANTE, G. (2015). Stefano Boeri. Un bosco verticale. Libretto di istruzioni per il prototipo di una città foresta. Mantova, Corraini Edizioni. NICOLINI R. (2011). Estate Romana 1976-1985. Un effimero lungo nove anni. Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni. O’ REILLY, T. (2005). What Is Web 2.0 Design Patterns and Business Models for the Next Generation of Software (available at: https://www.oreilly.com/pub/a/web2/archive/what-is-web-20.html). REAGLE, J. M. (2010). Good Faith Collaboration: The Culture of Wikipedia. Cambridge Ma, MIT Press. SCANDURRA, G. (2005). Tutti a casa. Il Carracci: etnografia dei senza fissa dimora a Bologna. Rimini, Guaraldi universitaria. SECCHI, B. (2013). La città dei ricchi e la città dei poveri. Bari, Laterza. SKLAIR, L. (2016). The Icon Project: Architecture, Cities, and Capitalist Globalization. New York, Oxford University Press. TSCHUMI, B. (2009). Architettura come evento, in (eds.) Lʼinvisibile linea rossa. Osservatorio sullʼarchitettura , edited by P. Brugellis. Macerata, Quodlibet. TURNER, G. (2013). Ordinary People and the Media: The Demotic Turn. London, Sage: Macmillan. WACQUANT, L. (2016). I reietti della città. Ghetto, periferia, stato. Pisa, ETS. Website www.porta-nuova.com/area/dati-di-progetto/ www.artbooms.com/blog/jeremy-deller-stonehenge-gonfiabile-sacrilege-milano www.city-life.it/it/citylife-webcams www.city-life.it/it/photogallery www.city-life.it/it/cantiere

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Napoli nella Belle Époque. Rappresentazioni di una città contraddittoria Naples in the Belle Époque. Representations of a contradictory city MANUELA PISCITELLI Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli Abstract Le contraddizioni di Napoli raggiunsero l’apice nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento. Città antica ed allo stesso tempo moderna, centro culturale tra i più fervidi d’Europa ma abitata da un popolo analfabeta in condizioni miserabili, da poco uscita dalla tragica epidemia di colera cercava di darsi un volto nuovo attraverso le operazioni di ristrutturazione urbanistica. Mentre le descrizioni letterarie riportano questi contraddittori elementi, il “ventre di Napoli” è per lo più escluso dalle rappresentazioni figurative che riproducono uno scintillante ambiente urbano tipicamente Belle Époque. The contradictions of Naples reached their peak in the period between the nineteenth and twentieth centuries. Ancient city and modern at the same time, cultural center among the most fervid in Europe but inhabited by illiterate people in miserable conditions, just out of the tragic epidemic of cholera, was trying to assume a new face through urban restructuring operations. While the literary descriptions bring these contradictory elements, the "belly of Naples" is excluded from most of the graphic representations, reproducing a sparkling urban environment typically Belle Époque. Keywords Napoli, iconografia, pittoresco. Naples, iconography, picturesque. Introduzione “Le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore belle e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata con racconti di miserie.” [Serao 1884, 1-2]. Le parole del celebre saggio di Matilde Serao ci portano nel vivo delle contraddizioni della Napoli di fine Ottocento, consolidata icona del pittoresco ed ambitissima meta dei viaggiatori da ogni parte di Europa per la bellezza del golfo, che celava un ventre fatto di vie buie, sporche, malsane e pericolose, abitate da centinaia di migliaia di persone in condizioni miserabili. Se, come lamenta la Serao, questo lato oscuro della città raramente compare nelle descrizioni letterarie, ancor più è escluso dalle rappresentazioni figurative: le vedute dall’alto, le cartoline, i manifesti promozionali per la nascente industria turistica, per i café chantant o per i nuovissimi Magazzini Mele, le copertine delle pubblicazioni musicali in occasione dell’annuale Festa di Piedigrotta, propongono l’immagine dell’icona del golfo come cornice di uno scintillante ambiente urbano tipicamente Belle Époque, popolato da divi del teatro ed aristocratiche dame in abiti eleganti. I popolani, quando inseriti nelle rappresentazioni, sono trattati come elementi folkloristici del paesaggio, che contribuiscono a

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veicolare l’immagine pittoresca alla base del successo turistico della città. D’altra parte, questa immagine della città, sebbene parziale, non è irreale ma riflette quello che è stato uno dei periodi di maggiore modernità e fervore culturale di Napoli, che per un breve periodo fino allo scoppio della Prima guerra mondiale fu una vivace capitale europea all’avanguardia nella musica, teatro, commercio, arte [Barbagallo 2015], epoca di cui le immagini restano oggi una delle più vive testimonianze. 1. L’immagine turistica Alla fine dell’Ottocento la cornice del golfo con il Vesuvio era ormai indissolubilmente parte dell’iconografia della città, rendendo la baia di Napoli un emblema del pittoresco. Era la conclusione di un processo di standardizzazione visiva avviato agli inizi dell’Ottocento, quando la domanda turistica era enormemente cresciuta in tutta Europa e la città di Napoli, già meta privilegiata dei viaggiatori settecenteschi, aveva saputo intercettare le richieste di un pubblico nuovo che inaugurava una nuova idea del viaggio. [Cirafici e Piscitelli 2016]. Il punto di vista verso il mare, con il lungomare in primo piano ed il Vesuvio sullo sfondo, aveva conquistato le vedute sia dei pittori locali della cosiddetta scuola di Posillipo, sia degli stranieri, al punto che anche un artista come Renoir ne diede una propria interpretazione giocata sui toni tenui ed i tratti tipici dell’impressionismo.

1: Pierre-Auguste Renoir, Baie de Naples au matin, 1881. Olio su tela. Metropolitan Museum of Art, New York.

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Nelle vedute sono spesso inseriti personaggi tipici della vita napoletana, considerati parte integrante del colore locale e rappresentati idealizzati, come i pescatori intenti nel lavoro quotidiano, che nella realtà erano abbrutiti dalle misere condizioni di vita. [Alisio et al 1990]. Dalla fine dell’Ottocento, accanto alle vedute che fino a quel momento avevano costituito il principale ricordo di viaggio, si diffusero le cartoline. I bassi costi di spedizione, nonché il potere evocativo delle immagini, ne permisero un vasto utilizzo specialmente da parte delle nascenti classi sociali della media e piccola borghesia, mentre inizialmente venivano disdegnate dall’aristocrazia e poco usate dalle classi più povere, analfabete. La stessa diffusione del turismo, ed anche la scarsa presenza di altri sistemi di comunicazione, ne decretarono il successo. [Fanelli 2009]. Le numerose cartoline di inizio Novecento ci mostrano, accanto alla tipica veduta del golfo con il Vesuvio, le principali vie napoletane, come la riviera di Chiaia, la via Toledo o la via Caracciolo, le maggiori piazze, prima di tutte piazza del Plebiscito, i luoghi della recente ristrutturazione edilizia, i monumenti. Si tratta dei luoghi frequentati da aristocratici e borghesi, mentre le strette vie del centro antico sono escluse dalle rappresentazioni.

2: Napoli nelle cartoline di inizio Novecento.

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I personaggi presenti in queste immagini appartengono a due opposte categorie: da una parte ci sono gli aristocratici frequentatori delle passeggiate, con le carrozze e gli abiti eleganti; dall’altra i personaggi folkloristici: danzatori di tarantella, musicisti di strada, scugnizzi, mangiatori di maccheroni. Nel primo caso, la città appare raffigurata con ampie strade ed edifici eleganti, simile alle principali città europee, nel secondo trasmette l’atmosfera festosa ed idilliaca ancora legata al gusto del pittoresco. I popolani, nelle cartoline come in precedenza nelle gouaches commerciali, sono rappresentati felici e spensierati secondo quella che è stata definita “la dorata menzogna” [Cione 1950], ovvero l’assenza del conflitto sociale dovuta alla possibilità per tutti di fruire dei benefici della natura: il cielo, il sole, il mare, il clima mite, la bellezza della natura. È per lo più questa l’immagine che artisti e letterati napoletani o stranieri residenti a Napoli vogliono trasmettere della città, un’immagine che certamente esclude una parte significativa dell’ambiente cittadino, ma che non di meno è reale per chi la interpreta, come testimoniano le parole di Nicola Lazzaro pubblicate nella rivista L’illustrazione Italiana a commento del quadro Una discesa del Vesuvio di Vincenzo Montefusco riprodotto nello stesso numero. “Nell’attualità della lotta fra il verismo e la poesia, fra la realtà e l’immaginario, il Montefusco ha trovato il punto veramente vero. I suoi quadretti rappresentano sempre una realtà; solo che invece di scegliere una realtà nauseante, schifosa, come vorrebbero i neofiti della scuola verista, egli sceglie soggetti che parlano al cuore, all’intelligenza ed all’arte. Si attiene al vero, senza lasciarsi trasportare in un ambiente pestifero”. [Lazzaro 1880]. Si tratta dunque di una scelta consapevole di ambientazioni, personaggi, elementi visivi da veicolare, contro la quale si scagliarono intellettuali come la già citata Matilde Serao. Sicuramente l’immagine di un salotto elegante e festoso è quella che viene trasmessa anche dai numeri di queste prime riviste italiane illustrate, nelle quali è da notare come Napoli sia l’unica città del Sud Italia ad essere stabilmente presente nelle cronache e nelle rappresentazioni. Ci sono diversi motivi per questa presenza. “Nessuna città d’Italia, né meno Roma, richiamava il numero di forestieri di Napoli. […] Aveva Napoli la più ricca corte d’Italia, imparentata con le più grandi corti d’Europa: era soggiorno di principi e di principesse e aveva stagioni teatrali che godevano di rinomanza europea”. [Nitti 1901]. 2. Moda, musica, spettacolo Le parole di Nitti, - con cui voleva sottolineare la contraddizione tra questi splendori ed una secolare arretratezza produttiva - pongono l’accento sulla dimensione europea di Napoli alla fine dell’Ottocento. Le cronache sulle riviste nazionali riportano numerosi eventi mondani in città: visite della regina, feste di carnevale, regate, spettacoli. Le raffigurazioni di questi eventi includono gli spazi cittadini, le sale delle feste, i circoli esclusivi, contribuendo a veicolare l’immagine attrattiva di una delle città più vitali d’Europa. Una data importante per lo sviluppo di Napoli in una direzione più produttiva fu il 1880, anno dell’inaugurazione della funicolare sul Vesuvio. All’evento venne dedicata la famosa canzone Funicolì funicolà, scritta da Giuseppe Turco e musicata da Luigi Denza, eseguita in occasione dell’annuale festa di Piedigrotta e diventata celebre in tutto il mondo. Il 1880 segna così la nascita della canzone napoletana d’autore, momento importante per la costruzione dell’immagine di Napoli moderna grazie agli scambi in ambito musicale con le grandi capitali europee. A partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, infatti, la presentazione delle canzoni d’autore alla festa di Piedigrotta ne attenuò il carattere popolare e religioso, rendendola un importante momento economico e commerciale della città, attraverso moderne forme di pubblicità.

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3: Napoli. La regina alle regate del 30 maggio. (Disegno del signor Cosenza). Da: L’illustrazione italiana, anno VII, n. 25, 20 giugno 1880.

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“La stampa quotidiana e periodica, dove lavorava la gran parte degli autori delle canzoni, svolgeva un ruolo fondamentale nella diffusione dei prodotti musicali e nella costruzione del mito della canzone napoletana. […] La diffusione internazionale era affidata alle tournée di musicisti e cantanti nelle maggiori città d’Europa”. [Barbagallo 2015, 108-109]. Le copertine delle pubblicazioni musicali, spesso raffiguranti i temi tipici già descritti, si ponevano come un ulteriore veicolo per la diffusione dell’immagine di Napoli nella sua vivacità culturale. La sola casa editrice Bideri produceva una media di 60 canzoni l’anno, a cui si aggiungevano quelle scritte per la festa di Piedigrotta. La canzone divenne il primo prodotto della cosiddetta industria culturale, a cui ben presto si aggiunse il famoso teatro di Scarpetta. Strettamente collegata alla rinascita della canzone napoletana è la diffusione dei cafè chantant, a partire dal Salone Margherita inaugurato nel 1890 sotta la nuova Galleria, e poi degli altri locali in cui si esibivano le sciantose. Napoli divenne il primo e più vivace palcoscenico d’Italia, seconda solo a Parigi, ed ospitava artisti di fama internazionale oltre ad artisti locali di successo. Le canzoni si adeguarono al nuovo modello di spettacolo e si indirizzarono alle nuove figure degli attori-cantanti che le interpretavano. [Sommaiolo 2013]. La differenza con quanto era avvenuto in Francia è nel pubblico di questi spettacoli, che a Napoli inizialmente fu costituito dallo strato sociale più elevato, e solo in un momento successivo si allargò ai ceti più bassi. I locali del centro storico rimasero riservati al pubblico aristocratico e borghese, mentre sorsero locali in periferia e nei vicoli destinati ad un pubblico popolare. [De Matteis 2008]. Proprio la partecipazione di un pubblico aristocratico è rilevante rispetto all’immagine che si è conservata di quest’epoca, a partire dai manifesti sul modello francese che pubblicizzavano gli spettacoli raffigurando i principali artisti e l’ambiente scintillante delle sale che li ospitavano. Accanto alla musica e allo spettacolo, un ruolo fondamentale nella costruzione dell’immagine della Napoli Belle Époque è quello della moda. Nel 1889 venne fondata dai fratelli Emiddio e Alfonso Mele l’azienda Grandi Magazzini Italiani E. & A. Mele, ispirata ai grandi magazzini francesi Lafayette e Le Bon Marché. [Mele 2017]. Al di là dell’enorme successo e dell’innovativo sistema di vendita per corrispondenza, quello che qui interessa è l’immagine di Napoli veicolata dalle prime forme di pubblicità commerciale. Nell’epoca della diffusione del manifesto come strumento promozionale, i magazzini Mele furono tra i primi ad investire su una cartellonistica di alta qualità artistica, affidandola ai nomi di maggiore spicco operanti nell’ambito della grafica: Aleardo Villa, Leopoldo Melticovitz, Achille Beltrame, Emilio Malerba, Franz Laskoff, Marcello Dudovich, Leonetto Cappiello e Achille Mauzan. Il poster pubblicitario aveva lo scopo di catturale l’attenzione al primo sguardo, attraverso un’innovativa composizione visiva in cui la grafica era predominante ed integrava il testo, ed accendere il desiderio dello spettatore mostrando un ambiente raffinato ed esclusivo di cui, attraverso l’acquisto, avrebbe potuto entrare a far parte. Infatti, nonostante lo slogan scelto dalla ditta “massimo buon mercato” fosse rivolto ad un pubblico vasto, allargato a comprendere la piccola borghesia, le donne abbienti erano le maggiori frequentatrici dei magazzini e protagoniste indiscusse delle rappresentazioni. La classe popolare operaia e contadina, esclusa dal benessere e dunque dai nuovi consumi, era esclusa anche dalle rappresentazioni. Per questo motivo, ancora una volta l’immagine della Napoli dell’epoca risulta parziale e limitata ai luoghi del privilegio ed ai suoi frequentatori, ignorando completamente quanti da quell’ambiente risultavano esclusi. L’estremo lusso dell’aristocrazia e la modernità dell’alta borghesia imprenditoriale non sembrano condividere lo stesso spazio cittadino dei miseri fondaci e della delinquenza della plebe.

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4: Achille Beltrame, Manifesto promozionale per i Magazzini Mele, inizio Novecento.

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3. La fotografia tra realismo e folklore La fotografia di fine Ottocento cerca di veicolare l’idea della sostituzione della falsità interpretativa dell’opera pittorica con l’obiettività di una copia esatta della realtà ottenibile attraverso l’obiettivo della macchina da presa. Si tratta ovviamente di un’illusione, in quanto la scelta dell’inquadratura e del soggetto non è mai neutrale, ma sempre funzione dell’immagine che si vuole veicolare. Le foto di fine secolo tendono a propagandare all’estero il nuovo ruolo di Napoli come città europea, mostrandone gli hotels eleganti sorti sul lungomare, la galleria Umberto I, le funicolari, i quartieri borghesi di nuova costruzione, le strade ferrate. [Miraglia 1977]. In una prima fase, i fotografi operanti a Napoli furono prevalentemente stranieri, come Bernoud e Sommer, ed operarono con un intento comunicativo molto simile a quello delle precedenti vedute. Alcune delle loro immagini ebbero grande successo come cartoline, riproponendo i personaggi folkloristici che avevano già fatto parte delle vedute. Successivamente giunsero a Napoli i maggiori fotografi italiani, come i fiorentini fratelli Alinari. “Napoli non poteva essere fotografata secondo i modelli utilizzati per altre città: solo pochi edifici permettono, a Napoli, riprese frontali o per angolo, inquadrature simmetriche, grandi spazi liberi; e così gli Alinari propongono diversi tipi di lettura, una della folla, della gente, come quasi mai in precedenza era accaduto; un altro capitolo è dedicato alle arti e mestieri, ai lavori e alla verità di una Napoli che esce dal bozzetto dei presepi settecenteschi ed entra nella tradizione del realismo”. [Quintavalle 2003, p. 298]. In effetti però, analizzando la produzione fotografica degli anni tra fine Ottocento e inizio Novecento, ci rendiamo conto che il realismo è spesso una “messa in scena”, una costruzione artificiale con i personaggi in posa. Sommer, ad esempio, costruiva in studio le scene con i personaggi ed i costumi tipici. I figuranti erano messi in posa in atteggiamenti realistici e con la gestualità tipica delle scene che si potevano osservare in strada. L’artificio è tale che gli stessi figuranti si ritrovano in diverse fotografie. Quando invece le scene erano riprese davvero in strada, la macchina da presa era posta sempre a distanza, evitando di riprendere in primo piano le persone. Lo sfondo mostrava una parte del contesto urbano, in una composizione accuratamente calcolata nel suo insieme per ottenere l’effetto desiderato. [Picone Petrusa 1989]. Maggiore realismo si ritrova nei ritratti realizzati dai fratelli Alinari. La serie di immagini che ritraggono mestieri e costumi tipici di Napoli (a conferma che si tratta di un “genere” di successo), sebbene costruite con estrema attenzione, mostrano le classi emarginate con un intento maggiormente documentale. Attraverso le fotografie si propone una riflessione che non è drammatica ma neppure comica o folkloristica. “Vittorio Alinari non aveva alcuna intenzione di combattere una battaglia di riscatto civile, ma la lingua prescelta, il realismo, al di là di tutto, impedisce che queste immagini possano interpretarsi soltanto come tipiche, caratteristiche, semplicemente folkloristiche, esse restano fotografie di un mondo posto in qualche modo sotto accusa ma anche di un mondo fortemente presente, un mondo dove la drammatica condizione umana delle classi subalterne prive di ogni bene appare comunque chiarissima e, per contrappunto, evoca l’esistenza di altre classi che invece posseggono tutto”. [Quintavalle 2003, 420]. Si tratta, in ogni caso, di uno dei rari casi in cui la classe più umile entra a far parte delle rappresentazioni figurative in modo oggettivo e non come elemento caratteristico del colore locale. Questo non avviene nelle fotografie che mostrano la modernità che avanza con i primi stabilimenti industriali: prima i cantieri navali di Castellamare, poi gli stabilimenti metallurgici e le fonderie, la grande fabbrica di armi Armstrong, infine i reparti dell’Ilva di Bagnoli. In queste

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rappresentazioni è assente il conflitto sociale: gli operai sono fotografati accanto alle macchine come se fossero parte di esse. Una sorta di evoluzione in chiave industriale del contadino come elemento del paesaggio bucolico, che ben chiarisce la considerazione che la classe privilegiata aveva dei più poveri.

5: Giorgio Sommer. Napoli, veduta pittoresca delle case del centro antico. Catalogo n° 1187. Bibliografia ALISIO, G., DE ROSA, P. A., TRASTULLI, P. E. (1990). Napoli com’era nelle gouaches del Sette e Ottocento. Roma, Newton Compton. BARBAGALLO, F. (2015). Napoli, Belle Époque. Bari, Editori Laterza. CIONE, E. (1950). Napoli di ieri e di oggi. Napoli, Morano. CIRAFICI, A., PISCITELLI, M. (2016). Tra sublime e pittoresco: Vesuvio, icona del golfo di Napoli, in: Delli Aspetti de Paesi. Vecchi e nuovi Media per l’Immagine del Paesaggio. Tomo primo. Costruzione, descrizione, identità storica, Napoli, 27-29 ottobre 2016. Napoli, CIRICE, pp. 1089-1099. DE MATTEIS, S. (2008). Il teatro delle varietà. Lo spettacolo popolare in Italia dal cafè chantant a Totò, Firenze, La casa di Usher. DE SETA, C. (1981). Le città nella storia d’Italia. Napoli. Bari, Laterza. FANELLI, G. (2009). Storia della fotografia di architettura. Bari-Roma, Laterza.

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GALASSO, G., PICONE PETRUSA, M., DEL PESCO, D. (1981). Napoli nelle collezioni Alinari e nei fotografi napoletani tra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra. Napoli, Macchiaroli editore. LAZZARO, N. (1880). La discesa del Vesuvio. (Quadro del signor Vincenzo Montefusco). In: L’illustrazione italiana, anno VII n. 1, 4 gennaio 1880. Milano, Fratelli Treves Editori. MELE, F. (2017). I Grandi Magazzini Mele nella Napoli della Belle époque. Napoli, Arte'm. MIRAGLIA, M. (1977). L'immagine tradotta dall'incisione alla fotografia, Napoli, Studio Trisorio. MOZZILLO, A. (1975). La dorata menzogna. Società popolare a Napoli tra Settecento e Ottocento. Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Napoli e dintorni. Album di Giorgio Sommer fotografo del Re, a cura di G. Petagna. Napoli, Irace editore, 1980. NITTI, F. S. (1901). Napoli di ieri e di oggi, in: La Tribuna di Roma, a. XIX. PAVONE, M. A. (1987). Napoli scomparsa nei dipinti di fine Ottocento. Roma, Newton & Compton. PICONE PETRUSA, M. (1989). Iconografia del costume popolare. Modelli fotografici in studio, in: La Fotografia a Roma nel Secolo XIX. La Veduta, il Ritratto, l’Archeologia, Atti del convegno, Roma, pp. 52-74. QUINTAVALLE, A. C. (2003). Gli Alinari. Firenze, Fratelli Alinari spa. SERAO, M. (1884). Il ventre di Napoli. Milano, Fratelli Treves editori. SOMMAIOLO, P. (2013). Il cafè chantant e la spettacolarizzazione della canzone a Napoli tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale. In: La canzone napoletana. Tra memoria e innovazione, a cura di P. Pesce e M. Stazio, Napoli, CNR – ISSM. Sitografia http://www.fondazionemele.it/ https://artsandculture.google.com/search/asset/?p=alinari-archives&em=m0fhsz&categoryId=place http://www.internetculturale.it/

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La città dimenticata: narrazioni eidomatiche di memorie storico culturali The forgotten city: eidomatic narratives of historical cultural memories DANIELE CALISI, MARIA GRAZIA CIANCI, MATTEO MOLINARI Università degli Studi Roma Tre Abstract La città di Roma si mostra al giorno d’oggi come una stratigrafia di scelte architettoniche e urbanistiche che si sono susseguite nel corso della storia. Nei secoli di vita della città, molte personalità hanno “fotografato” la situazione urbanistica di Roma, mettendo in evidenza gli interventi realizzati e quelli che sono rimasti solo un disegno, un’idea. La ricerca si pone come una lettura critica della città contemporanea, analizzando, partendo dalla pianta del Nolli del 1748, gli sviluppi spaziali urbanistici della città. The city of Rome is shown today as a stratigraphy of architectural and urban choices that have occurred throughout history. In the centuries of life of the city, many personalities have "photographed" the urban situation of Rome, highlighting the interventions made and those that remained only a drawing, an idea. The research presents itself as a critical reading of the contemporary city, analyzing, from the plan of the Nolli of 1748. Keywords Analisi Urbana, Sventramenti, GIS. Urban Analysis, Demolitions, GIS. Introduzione La storia del tessuto urbano e delle relative leggi urbanistiche della città di Roma, risulta una delle più complesse delle capitali europee. Lo sviluppo della città è stato fortemente connotato dalle condizioni politiche italiane, proprio il continuo mutare della città ha determinato condizioni di trasformazione riconducibili a momenti storici ben definiti e soprattutto riconoscibili dal punto di vista morfologico e non solo. Si possono identificare per questo tre periodi fondamentali: il primo riguarda il governo dello Stato Pontificio sulla città, che fino al 1871 con l’annessione di Roma, come capitale del Regno d’Italia ne decretava lo sviluppo; il secondo comprende il lasso di tempo che intercorre tra la nomina di Capitale e l’inizio del ventennio fascista e in ultimo proprio il periodo del regime. La ricerca qui presentata, parte proprio dal presupposto che Roma è stata ed è una città complessa che ha subito trasformazioni importanti e che tali trasformazioni ne hanno determinato l’attuale forma urbana. Tramite il confronto tra le cartografie appartenenti a ciascuna delle tre fasi appena descritte con le cartografie attuali si è voluto mettere in evidenza proprio la complessità e la ricchezza di tali trasformazioni e allo stesso tempo ci si è posti l’obiettivo di raccoglier, catalogare, archiviare e rendere visibile e consultabile digitalmente le trasformazioni urbane più interessanti della città di Roma. I tre periodi storici presi in esame dalla ricerca si caratterizzano per degli specifici interventi che hanno cambiato irreversibilmente, in positivo o in negativo il volto della città. Gli interventi della Roma Papale erano caratterizzati dalla volontà di recuperare l’immagine della città e per mezzo di un forte incremento del mecenatismo papale si viene a formare la Instauratio Urbis1. 1 Instauratio Urbis ovvero, la volontà di riqualificare il volto della città dopo il ritorno dei papi da Avignone. I principali interventi papali a Roma nel Rinascimento possono essere riconducibili a tre passaggi fondamentali:

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1: Rielaborazione della “Nuova Pianta di Roma” di Antonio Tempesta del 1593. Identificazione degli interventi papali sul tessuto urbano: in azzurro quelli realizzati fino al 1492, in giallo quelli dal 1492 al 1549 e in rosso quelli dal 1550 al 1590. Dopo la nomina di Roma a capitale del Regno d’Italia, si iniziarono a mettere in moto una serie di interventi pubblici volti a trasformare il tessuto urbano della città con la finalità di ospitare tutte le funzioni inerenti e indispensabile per una capitale. Si inizia dunque, in questo periodo, a parlare di sventramenti del tessuto storico, o in funzione di pubblica utilità o per far spazio a nuovi luoghi di rappresentanza. Nel primo caso uno degli interventi urbanistici che ancora oggi determina una modalità totalmente nuova di vivere e percepire la città, è stata la scelta di erigere i muraglioni come strumento di controllo delle piene del fiume Tevere. Questo intervento urbano, il più imponente che ha riguardato la capitale negli ultimi secoli, ha portato con sé la realizzazione di interventi sull’assetto della città profondi e radicali. È innegabile che la demolizione di un patrimonio costruito di inestimabile valore e la deviazione con la costruzione dei muraglioni del fiume sono stati interventi che hanno annullato il rapporto di Roma con il Tevere. Un ulteriore importante intervento da ricordare è il concorso per il Vittoriano e piazza Venezia, il cui esito ha portato alla perdita di tutto il tessuto della città storica consolidata, tessuto compreso nell’area di Piazza Venezia, del colle Campidoglio fino alle rispettive pendici. Nel periodo fascista gli sventramenti del tessuto urbano aumentarono e assunsero un significato diverso, un significato fortemente simbolico. La volontà da parte del regime di imporsi, è possibile riscontrarla proprio nello sviluppo urbanistico di Roma. Degli interventi fascisti è importante ricordare con maggiore attenzione la demolizione del quartiere Alessandrino, demolizione attuata con l’obiettivo di costruire la Via dell’Impero, oggi Via dei Fori Imperiali. Ulteriore intervento non meno importante è stato programmare la demolizione della spina di borgo per realizzare Via della Conciliazione. Nel tempo altri interventi di riqualificazione della

fino al pontificato di Innocenzo VIII (1492), da Alessandro VI (1492) a Paolo III (1549) e da Giulio III (1550) a Sisto V (1590).

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città prevedranno il recupero del Mausoleo di Augusto, le conseguenti demolizioni delle superfetazioni formatesi nel corso dei secoli e l’intervento affine realizzato a Largo Argentina. Questi sono solo alcuni degli interventi presi in esame dal lavoro di ricerca, cambiamenti che, come è stato più volte affermato, hanno cambiato radicalmente le caratteristiche fisiche, architettoniche e percettive della città.

2: Sovrapposizione della Pianta del Nolli (1748) con la Carta tecnica Regionale (?) in scala 1:5000 redatta dalla Regione Lazio. L’elaborazione grafica è stata effettuata in ambito GIS, tramite lo strumento della georeferenziazione, in modo da eliminare l’errore di scala e la deformazione tra le due cartografie. 1. Le fonti: le cartografie come strumento di controllo La città di Roma è sempre stata oggetto di studio per la sua capacità di incorporare in spazi di città contemporaneamente stratificazioni culturali architettoniche di epoche differenti. Il Dipartimento di Architettura di Roma Tre, negli ultimi anni ha iniziato un progetto di ricerca interdisciplinare volto allo studio del tessuto della città di Roma, alle stratificazioni e cosa ciò ha comportato nello sviluppo della città contemporanea. La ricerca in atto si sviluppa sotto molteplici aspetti, attraverso l’analisi cartografica tramite GIS (Geographic Information System), alla creazione di una banca dati Open Source, contenente tutte le informazioni riguardati i cambiamenti del tessuto urbano di Roma. Un altro aspetto importante preso in considerazione all’interno dello sviluppo della ricerca è la ricostruzione planimetrica e in seguito anche tridimensionale dei tessuti demoliti, una

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modalità questa che ha lo scopo di rendere più diretta e fruibile la consultazione e la visione dei dati raccolti. Infine, l’ultimo aspetto che si sta sviluppando all’interno della ricerca, forse quello più complesso, che resta ancora un nodo non risolto completamente, è il modo in cui il tessuto della città sarebbe potuto essere senza le interferenze politico/economiche che ne hanno determinato il cambiamento. La zona presa in esame come caso studio, consiste nell’area annessa allo sviluppo del Tevere compresa tra Ponte Regina Margherita e Ponte Sublicio. Per approfondire lo studio del tessuto urbano sono state selezionate delle cartografie della città specifiche, in modo da poter fotografare la situazione urbanistica in un determinato momento. Le cartografie per lo studio in ambito GIS sono state la pianta del Nolli del 1748, il Catasto Gregoriano finito nel 1835, la pianta dell’Istituto Geografico Militare IGM del 1954 e la carta tecnica regionale, prodotta dalla Regione Lazio. L’utilizzo di queste quattro cartografie, ha permesso di capire la situazione romana a cavallo dei periodi presi in esame e di comprenderne i cambiamenti. Si è scelto di lavorare su cartografie georeferenziate della Regione Lazio e conseguentemente di georeferenziare le cartografie storiche all’interno dell’unico sistema di riferimento (SR) ED50 UTM 33N2, uno dei più utilizzati in Italia e nello specifico a Roma. La georeferenziazione3 delle cartografie storiche, data la percentuale di imprecisione (che tuttavia nel caso della Pianta del Nolli risulta ridotta) viene annullata tramite un processo di deformazione, nello specifico polinomiale di grado 1, in modo da permettere una corrispondenza tra le planimetrie con una percentuale di errore minima. Il numero di punti in comune per la georeferenziazione degli edifici, va da un minimo di 3 fino a un massimo di 9, a seconda del processo di deformazione utilizzato; più il procedimento è complesso più si richiedono punti. Nel caso preso in esame, sono stati utilizzati dei punti che nel corso dei secoli sono rimasti fissi (eg. Castel Sant’Angelo, le Chiese Gemelle di Piazza del Popolo ecc.). La precisione della georeferenziazione non è proporzionale al numero di punti utilizzati, anzi dopo una certa soglia, la percentuale di errore aumenta, in questo caso si è scelto di utilizzare dai 6 a 9 punti per mappa. La sovrapposizione di questi documenti storici con la cartografia aggiornata al 2003, permette di comprendere i cambiamenti che ci sono stati nel corso dei secoli e in particolare nel corso del novecento. Per rendere chiari e visibili le trasformazioni avvenute si è scelto di redigere un file vettoriale specifico per l’utilizzo in programmi GIS, uno shapefile, cioè un file condiviso e utilizzabile da più personalità. Il file è impostato su due scale differenti, la prima più ampia dove si identificano le aree interessate agli sventramenti e la seconda più specifica, dove sono rappresentati i singoli edifici demoliti. Il file è stato redatto utilizzando i tre strumenti nel pieno delle loro possibilità: il primo è lo strumento dei punti, utilizzato per identificare le emergenze architettoniche di elevato 2 L’SR utilizzato ED50 UTM 33N si basa su European Datum 1950 in riferimento all’ellissoide Internazionale di Hayford orientato in base a Potsdam in Germania. Sistema utilizzato: UTM (Universal Transverse Mercator). L’UTM suddivide la superficie terresetre in 60 fusi di 6° l’uno, a loro divisi in 20 fasce di 8°. L’intersezione delle proiezioni di fasce e fusi individua delle zone. Il territorio italiano è posizionato tra i fusi 32 e 33 e in parte nel fuso 34. 3 Processo di deformazione di file raster che ne permette la geolocalizzazione all’interno di un sistema di riferimento. Nella ricerca seguente è stato utilizzato il plug-in Georeferenziatore del software QGis. Perché si possa attuare il processo bisogna già possedere una base di riferimento georeferenziata, in formato shape o raster. Nel caso studio è stato utilizzato il CTR scala 1:5000 della Regione Lazio.

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interesse andato perduto, il secondo è lo strumento linea per identificare i tracciati perduti nel corso di questi sventramenti e infine lo strumento poligonale, fondamentale per il disegno dei singoli edifici. Ad ogni elemento disegno sono stati assegnati dei dati caratteristici in modo da comprendere in modo interattivo e parametrico il tessuto urbano.

3: Identificazione in ambiente GIS dei tessuti demoliti suddivisi nelle diverse epoche analizzate. In blu sono riportate le demolizioni pre-umbertine, in ocra le demolizioni in seguito a Roma Capitale d’Italia, in Verde gli sventramenti relativi al ventennio fascista. Inoltre è Segnato il tracciato storico del Tevere prima della realizzazione dei Muraglioni. La divisione in strumenti di rappresentazione diversi, punto linea e poligono, corrisponde a una divisione in shapefile tematici e a ognuno di questi elementi corrispondono delle precise coordinate geografiche nell’SR ED50 UTM 33N. Questa impostazione permette una condivisione e una lettura dei dati su qualsiasi programma GIS; esemplificando il sistema di riferimento all’interno dei file, ciascuna di queste forme può essere proiettata su qualunque sistema all’interno dei programmi di georeferenziazione. La possibilità di usare tre stili di rappresentazione del tessuto, permette di leggere i dati ricavati dalle cartografie storiche sia singolarmente che in una visione d’insieme. Lo strumento del punto, a differenza di quello poligonale è stato utilizzato per le emergenze architettoniche di elevato interesse in quanto non delimita un’area precisa, ma solamente un elemento singolo senza proprietà di superficie. Ad esempio, questa tipologia di rappresentazione è stata utilizzata per visualizzare il Palazzo Rusticucci – Accoramboni prima della sua demolizione e ricostruzione su Via della Conciliazione. Ognuno di questi

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elementi dello shapefile, contiene dati intrinseci come: anno di costruzione, demolizione, architetto, funzione e immagini storiche. La possibilità di assegnare diverse informazioni allo shapefile, attraverso una tabella attributi, permette, tramite una legenda interattiva e allo strumento delle etichette, di visualizzare più informazioni senza dover interrogare ogni singolo elemento. Attraverso la shape linea, come citato precedentemente sono stati rappresentati i tracciati storici, scomparsi ed esistenti. Ad ogni tracciato è assegnato, come nel caso dei punti, dei dati specifici come nome della via, anno di costruzione e anno di scomparsa. Ogni linea, possiede delle caratteristiche intrinseche di un valore superiore rispetto a quelle del punto. Se nel primo caso ad un singolo elemento corrispondevano solo le coordinate, nel caso dei tracciati, si possono già ottenere le dimensioni originali delle antiche vie. La misura, si deve considerare solo in lunghezza, in quanto il valore della sezione stradale non è rappresentabile, ma è assegnato solo come attributo all’interno di ciascun elemento. L’elemento forse più complesso, ricco e che effettivamente mette in evidenza i diversi periodi storici è lo shape dei singoli edifici.

4: Identificazione dei quattro elementi di disegno utilizzati e delle diverse funzioni, paragonati al tessuto urbano odierno. 1. Elementi di rilevanza storica-architettonica andati persi 2. Tracciati storici persi a causa delle demolizioni 3. Tessuti storici demoliti 4. Tracciato delle Mura Aureliane, delle porte e dell’antico tracciato del Tevere.

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Un livello, formato da elementi poligonali chiusi che racchiude informazioni di archivio, oltre che immagini storiche, come per esempio nel caso del livello delle emergenze storiche. Ogni elemento poligonale è un oggetto chiuso, formato da polilinee realizzate all’interno del software quando la forma non è complessa. In presenza di forme complesse è stato necessario disegnarle precedentemente in programmi CAD e poi importarle e convertirle in elementi poligonali GIS. All’interno di questa organizzazione dei file sono state fatte due eccezioni, la prima riguardo il corso del Tevere, la seconda per le Mura Aureliane e degli altri sistemi di mura interni alla città. Idealmente, il corso del fiume si sarebbe dovuto rappresentare attraverso lo strumento del tracciato, ma, data l’importanza dell’elemento all’interno del tessuto della città e il modo in cui si relaziona con il costruito, si è scelto di rappresentare l’antico corso del fiume come un elemento poligonale con numerosi punti di controllo. Questo tipo di visualizzazione permette di comprendere l’entità dell’intervento dei muraglioni del Tevere sul tessuto Urbano. Le mura Aureliane e le Mura Vaticane invece, sono composte da due shapefile differenti per ogni tipologia di mura. Il primo, composto da linee, riprende l’antico tracciato delle mura, differenziando ogni elemento in base alle demolizioni o mantenimento all’interno della Roma Contemporanea. Il secondo file che si inserisce all’interno di questo sistema invece è uno shape di punti, che identifica le antiche torri e le porte di ingresso alla città. 2. I tessuti della città La ricerca, non si è potuta esimere da uno studio tridimensionale del tessuto storico, la possibilità di interrogare un file bidimensionale come un file GIS, non è sufficiente a comprendere a pieno le volumetrie che una volta definivano l’aspetto della città. Già all’interno dell’ambiente GIS è possibile tramite i dati inseriti di altezza, volumetria e altitudine, ottenere un modello tridimensionale generico della città, questo risulta però un modello vuoto privo di informazioni che definiscono nello specifico l’apparato compositivo architettonico del singolo edificio. E’ possibile quindi ottenere un 3D volumetrico che può in un certo senso rispecchiare concettualmente il catasto gregoriano e rendere graficamente la lettura per piani data dai brogliardi, ma tuttavia ogni possibile informazione stilistica di facciata, delle soluzioni di copertura, delle corti è inevitabilmente negata. Per questi motivi la ricerca si sviluppa a partire da un file bidimensionale come base comune su due binari differenti, uno del WebGIS e dell’Open Source, l’altro della ricostruzione filologica del tessuto urbano nelle tre dimensioni, così come in parte è stato fatto già, attraverso le ricerche dipartimentali passate, con la ricostruzione virtuale e filologica del quartiere Alessandrino e della realizzazione del modello ligneo dell’area Archeologica Centrale al 1871, donato al Museo di Roma a palazzo Braschi4. La scelta di aprire la ricerca e di identificarla come un progetto di crowdfunding delle informazioni permette attraverso il web di ottenere una quantità di dati molto più ampia. Consentendo a persone non interne al Dipartimento, ma in possesso di documentazioni, fotografie storiche private di aderire attivamente alla banca dati, è possibile ottenere un database digitale di memoria fotografica molto più ampio e in continuo sviluppo. La

4 Il modello in massello di pero raffigurante una porzione significativa dei rioni Monti e Campitelli è in scala 1:500. Il lavoro è l’esito di ricerche condotte nel Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Roma Tre. Lo studio per la restituzione ideale del Quartiere Alessandrino fa parte della medesima ricerca coordinata dalla Professoressa Maria Grazia Cianci insieme a Francesca Geremia e Daniele Calisi,; mentre la ricerca sulla ricostruzione del paesaggio archeologico di Roma tra Ottocento e Novecento è coordinata dalla Professoressa Elisabetta Pallottina con Paola Porretta.

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scelta dell’utilizzo di questi documenti deve poi essere dettata da attente verifiche scientifiche per poterne confermare la veridicità. La possibilità di interrogare i singoli elementi che compongono il tessuto storico all’interno dello shapefile, permette di visualizzare oltre a dati specifici anche documenti fotografici o di archivio. Parallelamente alla formulazione di un progetto di apertura della piattaforma di ricerca GIS in ambito web, si è iniziato a lavorare sulla ricostruzione digitale degli edifici tramite software dedicati per la ricostruzione bidimensionale e tridimensionale del tessuto storico.

5: Immagine di dettaglio sulla Spina di Borgo. Identificazione di Palazzo Rusticci Accoramboni con le informazioni intrinseche inserite all’interno della geometria. Uno dei dati fondamentali che si può ricavare, nel lavorare in ambito 3D in QGis, prima di passare alla modellazione su altri software dedicati, è la comprensione del cambio dell’orografia della parte centrale della città. I file dtm, sono file altimetrici da cui è possibile ricavare l’orografia del terreno e estrarre curve di livello e modelli tridimensionali del territorio. Importando infatti i file dtm del Comune di Roma, all’interno dei file realizzati è possibile ottenere un paragone immediato di come il cambiamento del corso del fiume abbia avuto un forte impatto nell’orografia della città. A differenza del modello volumetrico generale, generato dal file GIS, quest’ultimo, dettagliato alla singola modanatura dell’edificio permette di comprendere nello specifico l’apparato architettonico. I due modelli, il bidimensionale e il tridimensionale realizzati su due piattaforme differenti, possono essere comunque implementati in un unico sistema. La possibilità di renderizzare i modelli su software specifici, permette di realizzare delle immagini non statiche, dove si può osservare la singola architettura a 360°. In questo modo data la possibilità di collegare le immagini, alla singola shape all’interno del file GIS è possibile navigare e rendere

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molto più facilmente comprensibile le trasformazioni avvenute e le caratteristiche architettoniche dei singoli manufatti. Conclusioni La ricerca, ancora in corso di sviluppo all’interno del Dipartimento di Roma Tre, ha lo scopo di realizzare la digitalizzazione delle più importanti cartografie storiche, in modo da creare un database utilizzabile e fruibile da più competenze ma soprattutto di realizzare un modello tridimensionale che possa permettere una navigazione all’interno dei quartieri e nei singoli edifici. Un aiuto concreto, non solo alla progettazione e comprensione della città, ma anche uno strumento di memoria storica che senza le adeguate risorse si rischia di perdere. Il modello virtuale è implementabile ed estensibile, l’obiettivo di questa ricerca è riuscire a coprire una consistente area urbana non solamente interna alle mura ma con step successivi arrivare anche alle fasi di trasformazione urbana più contemporanee. Le applicazioni per questa tipologia di ricerca possono essere numerose, non si esplicitano semplicemente in una maggiore consapevolezza della scala urbana di Roma, ma possono essere anche utilizzata per la comprensione e divulgazione dei processi di trasformazione della città attraverso la realizzazione di modelli e video per allestimenti museali. Una delle prime applicazioni la si può vedere nel plastico del quartiere Alessandrino, esposto al Museo di Roma. Le possibilità offerte della ricerca sono molteplici, da una metodologia di lavoro Open Source, alla redazione di un WebGis in continuo aggiornamento, come fine ultimo a conclusione del lavoro. La volontà di semplificare la conoscenza e la fruizione del tessuto urbano, lo scopo didattico e didascalico sono i principi fondamentali che hanno portato alla redazione di questo progetto. Bibliografia ACCASTO G., FRATICELLI V., NICOLINI R. (1971). L'architettura di Roma capitale 1870-1970, Torino, Golem. CALISI D., CIANCI M.G. (2017). Un modello virtuale scientifico e filologico per la ricostruzione del tessuto urbano ottocentesco del quartiere alessandrino nell’area archeologica centrale di Roma. In atti del convegno 3D Modeling and BIM 2017. CALISI D., CIANCI M.G. (2015). Methods and principles for the reading, analysis and virtual reconstruction of urban fabrics that have disappeared. In Vol. 4 of SCIRES-IT, SCIentific RESearch and Information Technology. CIUCCI G. (2002). Gli architetti e il fascismo. Architettura e città 1922-1944, Torino, Einaudi. FRUTAZ AP. (1962) Le piante di Roma, Roma, Tip. L. Salomone e A. Staderini. INSOLERA I. (2001). Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica. 1870-1970, Roma, Einaudi. TAFURI M. (2002). Storia dell’Architettura italiana. 1944-1985, Torino, Einaudi. VIDOTTO V. (2006). Roma contemporanea, Bari, Laterza. VILLANI L. (2012). Le borgate del fascismo. Storia urbana, politica e sociale della periferia romana, Milano, Ledizioni.

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La stanza degli specchi. Il riuso del costruito storico fra materia e memoria The room of mirrors. The reuse of the historical built between matter and memory ANNA MAROTTA Politecnico di Torino Abstract Nella Torino ottocentesca, è molto densa l’edilizia di qualità, non ricadente nella fascia protetta come patrimonio storico-artistico dalle leggi del 1939 e successive modifiche e integrazioni. Si tratta di episodi legati all’urbanizzazione di parti della città, promossi da Vittorio Emanuele II, anche lungo il corso a lui dedicato. L’esempio qui presentato si riferisce proprio a un importante progetto, posto su questo asse rettore, firmato da Luigi Formento nel 1852 e da lui realizzato – in prossimità del quartiere ebraico – per un’agiata famiglia di questa comunità ivi residente. In analogia con altri esempi simili, tale costruito era (fino al 2009) soggetto a gravi processi di degrado e di trasformazione incongrui e impropri (con soppalchi, superfetazioni, ecc.). Oggetto di un attento restauro conservativo, attualmente è destinato ad abitazione privata. In nineteenth-century Turin, it is very dense the quality of buildings, not falling in the range as a protected historical and artistic heritage by the laws of 1939 and subsequent amendments and additions. These incidents of urbanization of parts of the city, promoted by Vittorio Emanuele II, also along the course dedicated to him. The example presented here is intended to refer to an important project, located on this axis rector, signed by Luigi Formento in 1852 and realized by him - near the Jewish quarter - for a wealthy family of this community living there. In analogy with other similar examples, this building was (until 2009) subject to serious processes of incongruous and improper decay and transformation (with mezzanines, surfacing, etc.). Subject of careful conservative restoration, it is currently used as a private home. Keywords Costruito Storico, Decorazione, Semiotica della Visione, Paesaggi della Memoria. Historical Building, Decoration, Semiotics of Vision, Landscapes of Memory. Introduzione L‟esperienza, precedentemente discussa con le competenti amministrazioni e istituzioni di tutela, è qui proposta per suggerire protocolli, al fine di meglio conoscere (attraverso repertori e schedature) le mappature di detto patrimonio costruito per conservarlo, cosa che appare in controtendenza con l‟attuale trend, che favorisce attività non coerenti, come i – talvolta deleteri – bed and breakfast. L‟appartamento preso in esame, rilevato in pessimo stato di conservazione e snaturato nei suoi caratteri essenziali, materiali e immateriali (edilizi, tipologico-strutturali, visivi e formali), appare ora riportato nella sua forma primitiva – come abitazione privata – e nel suo stato originario, confermandosi come architettura di grande interesse. Questa sarà ancor più valorizzata in maniera appropriata come lascito ereditario con una successiva destinazione a casa-museo, a fini filantropici.

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1. L'architettura della memoria, la casa dell’infanzia a Napoli Cosa c‟è di più immateriale della memoria, anche visiva? L‟architettura ad essa relativa, cui si fa qui riferimento - quella dell‟individuo, del patrimonio edilizio e urbano - privilegia l‟approccio di metodo alle “immagini della memoria” di Aby Warburg. La memoria è dunque un irrinunciabile parametro di progetto, a maggior ragione nell‟intervento di restauro. È quanto ricorda Marcella Graffione nel suo testo quando descrive modalità, soggetti e strumenti di trasmissione della stessa memoria. Per questo, passando dalla dimensione impersonale a quella strettamente personale, la “mia storia” inizia nella casa della mia infanzia, a Napoli, in piazza Sannazaro, nell‟antica villa-casale della duchessa Isabella Amendola d‟Alessandro, già esistente sembra a metà „600 sull‟antica spiaggia di Mergellina. Non si conoscono particolari sull‟origine dell‟immobile. Carlo Celano così scrive: «Usciti da questa chiesa (S. Maria a Piedigrotta), e calando per l‟uscita che va alla marina, nel principio di Mergellina a destra vedesi un casino nuovamente fabbricato dalla già fu Duchessa di Pescolanciano della casa Mendola […]. Sta questo situato nel principio della salita di S. Antonio, […] la salita al monte di Posillipo» La villa si distribuiva originariamente su due livelli. Dall‟antico portale, con stemma dei d‟Alessandro si accedeva alla corte da cui dipartiva la scalinata al piano nobile. Due piani sono sopraelevati tra la fine dell‟800 e gli inizi del „900, in occasione del riempimento umbertino, che portò alla creazione di viale Elena (oggi viale Gramsci) e di piazza Sannazaro. Allo stato attuale della mia ricerca, in assenza di sufficienti materiali storico-documentari, i caratteri formali – nella “Cultura della Visione” – possono in qualche misura suffragarci nell‟individuazione di elementi distintivi, propri del gusto neoclassico, ovvero possono desumersi da immagini storiche, primi fra tutti allineamenti, “quadratoni” ed enfilade. 2. Dalla casa della memoria alla “casa della vita” a Torino Il continuo dialogo con la mia memoria (personale, ma anche, più in generale, storica) mi ha spinto a ritrovare alcuni dei caratteri (anche visivi) della casa dove sono nata, in quella dove attualmente risiedo: un‟abitazione di metà Ottocento a Torino, sita nel quartiere San Salvario in un edificio del quartiere ebraico, in corso Vittorio Emanuele Il (angolo via Principe Tommaso). Il progetto fu firmato nel 1852 da Luigi Formento (direttore anche del cantiere) e passò nel 1867 alla prestigiosa famiglia Malvano. La comunità ebraica fu anche promotrice della Sinagoga, (in piazza Primo Levi - via San Pio V n° 12), realizzata nel 1884 su disegno orientalista di Enrico Petiti, dopo la rinuncia a costruire la Mole. 3. Definizione delle metodologie Secondo quanto finora espresso, sono state adottate metodologie molteplici, integrate e incrociate, con la Cultura della Visione come obiettivo e mezzo, qui se ne riferiscono solo due, in particolare: A - Rilievo e conoscenza del costruito storico. Mediante forme della rappresentazione tradizionale, secondo normative vigenti: disegni di progetto, indagini storico-documentarie di rito, per la periodizzazione della fabbrica e le sue tematizzazioni, fino a riprese fotografiche e filmiche, per una “narrazione visiva” dinamica, congruente alla destinazione anche museale nel progetto finale, in progress. Senza dimenticare la “materia”, il costruito storico è valutato dalla tipologia edilizia e strutturale (e dai caratteri connotanti) alla struttura urbana e viceversa. B - Spazio abitativo significante e semiotica della visione.

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Alla precedente fase si è aggiunta la programmatica ricerca dei significati simbolici originari, confrontata e integrata congruentemente con quelli propri della cultura e del vissuto dei “nuovi abitanti”. L‟architettura è stata intesa come comunicazione e “memoria da vivere”, fra psicologia e semiotica, con particolare attenzione ai percorsi visivi, decorativi, alle geometrie formali, (anche mediante ricostruzione virtuale).

1: Modi e media della rappresentazione e della cultura visuale. Immagini tra storia e memoria a: Leonardo Di Mauro, Cento disegni per un Grand Tour del 1829. Napoli (e dintorni), Sicilia, Roma e Italia nelle vedute di Antonio Senape, Napoli, Grimaldi Editori, 2001. In fondo, a destra, il palazzo d’Alessandro, in seguito sede di Casa Marotta. b: 1858, Hippolyte Jouvin, La Villa/casale della famiglia d’Alessandro di Pescolanciano, sulla Spiaggia di Mergellina (poi Piazza Sannazaro) a Napoli. Casa Marotta verrà ubicata al secondo piano, nelle successive trasformazioni dello stabile (http://www.palazzidinapoli.it/quartieri/chiaia/piazza-e-via-sannazaro/). c: Palazzo d’Alessandro allo stato attuale, con i due piani aggiuntivi in sopraelevazione. d: Anna Marotta, 2005, rilievo di casa Marotta. I locali contornati in nero sono posizionati all’interno della collina di Posillipo. e: Emblema della famiglia d’Alessandro, recante la data 1789, sul portale del palazzo di Piazza Sannazaro, 71.

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2: Modi e media della rappresentazione e della cultura visuale. Immagini dalla Storia Le immagini, a partire dal progetto storico, testimoniano le varie fasi di trasformazione. Il progetto originale, a: 1852. Progetto di una fabbrica che il sig. Penasso Giuseppe intende costruire in Borgo Nuovo facciente angolo colla Via della Meridiana e Viale del Re. Pianta del piano terra, scala 1:100, s.d., AScT; b: 1852. Progetto di una fabbrica che il Sig. Penasso Giuseppe intende costruire in Borgo Nuovo facciente angolo colla Via della Meridiana e Viale del Re. Spaccato e Elevazione su via della Meridiana, scala 1:100, s.d., AScT. Nell’angolo in basso a destra di entrambi i disegni si legge: «Dichiaro d’essere l’autore e incaricato della direzione. Luigi Formento architetto». c: Rappresentazione del 1921: s.t., s.a., riproduzione della prima pianta dello stabile, data non indicata, AScT. Stralcio della Pianta del piano primo, scala 1:200, datato Torino 20 giugno 1921. Allegato C al numero 17 326/11698 di Repertorio. Siglato da Edoardo, Enrico, Mario, Ugo Malvano. È possibile riconoscere già realizzata la copertura sul balcone verandato, per cui la data del 1921 costituisce un termine ante quem. d: 2009, Torino, Casa Marotta-Carboni in corso Vittorio Emanuele II, 25. G., De Simone: rilevo dello stato di fatto con indicate in giallo e in rosso demolizioni e nuove costruzioni. e: 2010, Soluzione di progetto con restauro conservativo per la messa in pristino di spazi e strutture: in rosso le nuove costruzioni.

4. Vedere, conoscere, riconoscere consapevolmente. Le fasi della trasformazione Sulla scorta dei suddetti metodi incrociati, indagini storiche e rilievi hanno condotto all‟individuazione di tre periodi. I) Prima fase (1852 – 1943): la distribuzione interna si basa su di un sistema ibrido, che si articola attraverso una enfilade di stanze e un lungo disimpegno. Le tecniche costruttive risentono della tradizione edilizia piemontese e prevedono strutture verticali in muratura portante, realizzate con l'impiego di mattoni pieni inframmezzati con sassi probabilmente della Dora e del Po. Gli orizzontamenti sono realizzati con struttura a travi lignee e impalcato, con soffitti costituiti da finte volte in canniccio. Gli impianti previsti in

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fase di progetto sono quello di riscaldamento - comprendente camini e caloriferi in ghisa - e quello idraulico, che serve sia il bagno che lo stanzino di servizio. All'interno della prima fase viene effettuata una modifica: la cucina viene spostata nella veranda. Negli anni Venti del Novecento il balcone/ballatoio verso cortile viene chiuso con una veranda in ferro e vetro. II) Seconda fase (1943-2009): nel corso della Seconda Guerra Mondiale, durante l‟occupazione tedesca dell‟Italia, l‟immobile diventa infermeria per gli ufficiali tedeschi. Tra il 1942 e il 1943 uno spezzone incendiario colpisce il vano scala del palazzo. Nel dopoguerra, l‟immobile perde la sua funzione residenziale ospitando gli uffici di un istituto di credito. I caratteri distributivi del sistema originario vengono stravolti: l‟enfilade viene chiusa e si rimodella la distribuzione essenzialmente intorno e tramite un corridoio/disimpegno che conduce in tutti gli uffici, ottenuti con il posizionamento di nuovi tramezzi, in cartongesso o in mattoni forati, nei vani esistenti. Sui pavimenti originari vengono incollati pavimenti in mattonelle di grés bianche. I soffitti vengono in molti casi controsoffittati con elementi in cartongesso: solo nella sala da pranzo è stato necessario (nella terza fase) risarcire 85 buche, dove erano assicurati i cavi atti a sostenere il peso dei condizionatori ivi allocati. Questi controsoffitti, nascondevano le volte, mentre i nuovi tramezzi alteravano completamente la percezione dello spazio. L'impianto di riscaldamento si serve degli antichi caloriferi in ghisa, probabilmente riposizionati a seconda delle necessità, con sistema moderno. L'impianto elettrico viene inserito sotto traccia, mentre l'impianto idraulico resta quello delle origini. III) Terza Fase dal 2009: grazie agli interventi di restauro conservativo occorsi a partire dal 2009, l‟immobile torna alla destinazione d'uso residenziale d‟origine. Viene quasi totalmente ripristinato il sistema distributivo del progetto storico, che rivive integralmente anche nel suo linguaggio formale e visivo. I saloni continuano a mantenere il loro ruolo di modello spaziale e sistema visuale centrale, organizzatore del “pensiero visivo” nell'abitazione. I controsoffitti sono rimossi e le volte restaurate. I tamponamenti di aperture preesistenti sono effettuati con l'impiego di mattoni forati. Porte ed infissi vengono completamente sostituiti con elementi nuovi eseguiti su disegno degli originali. Con l‟eliminazione dei tramezzi, dei controsoffitti e, in generale, di tutte le superfetazioni che alteravano la struttura, la percezione totale e integrata di tutti gli ambienti dello spazio risulta essere particolarmente affine a quella primigenia. Vengono puntualmente ripresi tutti gli apparati decorativi, a stucco e ad affresco. 5. Architettura significante e semiotica della visione nella consapevolezza dell’abitare In una felice condizione psicologica, di simbiosi fra l‟efficacia comunicativa degli spazi riscoperti e l‟abitare consapevole, da quegli spazi favoriti, i metodi semiotici applicati sono derivati da approcci specifici, criticamente selezionati, ma ancora in via di perfezionamento. In questa fase le indagini hanno evidenziato caratteri visivi, riconosciuti, poi ripristinati, valorizzati e vissuti, in un processo costantemente in crescita: enfilade, allineamenti e “quadratoni”, ma anche simmetrie e regolarità, traguardi visivi con ampie prospettive, sistemi voltati, aperture interne ed esterne, fino all‟ornatus (in tutte le sue forme, anche le più minute) come sistema complesso. La regolarità è intesa come criterio ordinatore del sistema distributivo, ma ancor prima strutturale. L‟enfilade (o galleria) realizza dei cannocchiali ottici molto allungati, consentendo delle interazioni spaziali fra diversi ambienti, fino ad arrivare alla percezione “a distanza” del paesaggio urbano a più di 50 metri e oltre. Anche per via visiva, si conferma lo stretto rapporto fra tipologia edilizia e struttura urbana. L‟architettura si può qui percepire anche come "un pezzo di città".L‟apparato decorativo si è rivelato nella sua ricchezza e complessità, sistematicamente omogeneo: la fig. 4 dà conto della raffinata attenzione posta da Formento a questo aspetto.

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3: Modi e media della rappresentazione e della cultura visuale: Tracce materiali del passato nel costruito storico. La prospezione e l’interrogazione (anche visiva) della materia originale, una volta eliminate le pesanti e incongrue superfetazioni, hanno svelato aspetti insospettati, come i decori nelle volte dei saloni (a, b) e nelle pareti (c, d). Anche la veranda (e, f) è stata messa in valore, eliminando l’improprio tamponamento, realizzato in periodi diversi (1920-1990).

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È in fase di completamento la schedatura (insieme agli altri apparati dell‟architettura) dei singoli tipi e sememi decorativi, secondo il PLR (Progetto Logico del Rilievo, Marotta), anche nei rispettivi significati, originari o “aggiornati”. L‟ornatus architettonico si rivela carattere forte che esalta il costruito storico e il suo spazio costituito: icone e sememi, come “memoria visiva”, raccontano le storie di chi vi abita e di chi vi ha abitato. Fra i tanti “modi” decorativi, se ne possono annotare - fra l‟altro - due: il primo è quello geometrico, espressione del gusto neoclassico del tempo, il motivo a meandro (come semema nella cultura architettonica neoclassica), si ritrova nel soffitto dell‟ingresso, nelle ringhiere, nell‟acciottolato storico nel cortile e “rinnovato” nel pavimento. Il secondo (dalla matrice culturale ebraica dei primi proprietari) è rivelato nei decori dei soffitti della sala pranzo: nel tessuto damascato bianco e blu, come (presumibilmente) nei paesaggi nelle cornici ovali. Poiché non è stato possibile recuperare questi paesaggi originali, per la perdita delle tracce materiali, mi è sembrato congruente citare la mia casa di Napoli in un paesaggio della spiaggia di Mergellina. Così, il cerchio si chiude: la casa della mia infanzia rivive adesso nella mia “casa della vita” torinese insieme - e intenzionalmente - all‟antica memoria dei Malvano.

4: Modi e media della rappresentazione e della cultura visuale: Sememi nella semiotica della memoria. Il sistema degli apparati decorativi si è rivelato nella sua ricchezza e complessità, ma sistematicamente omogeneo. Nella cornice del decoro a calce nell’ingresso, il meandro come emblema del gusto neoclassico di Luigi Formento – a, b, c, d, declinato in modo attento e raffinato in molti dettagli dell’architettura: un segno distintivo, ma anche uno status symbol. Conclusioni Inquadrate in un più ampio e articolato processo di restauro, la Conoscenza e la Cultura della Visione come parametri di progetto hanno confermato la destinazione futura dell‟abitazione

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presa in esame: una casa-museo, grazie a un legato testamentario, aperta al pubblico per fini divulgativi e di beneficenza per la collettività: una testimonianza di un “modo di abitare”, conoscere, individuare, conservare e valorizzare un caso significativo del patrimonio edilizio torinese di qualità, da trasmettere e condividere, nel tempo. Fra gli esiti concreti si registrano l‟interesse di Guido Montanari (vicesindaco di Torino e professore di Storia dell‟architettura al Politecnico di Torino) e dell‟Assessorato alla Cultura della stessa Amministrazione; è in fase di completamento un progetto di schedatura dei dati di analisi e rilievo, (organizzata secondo il PLR), così come una pubblicazione per la collana “Cultura della visione” edita da Aracne e diverse tesi di laurea, nate dall‟adesione entusiastica degli studenti. Attraverso la Rappresentazione di materiale e immateriale, si conferma dunque che, anche grazie alle immagini e ai simboli, il costruito storico torna a rivivere, dall‟abbandono al riuso, fino alla valorizzazione come museo. La divulgazione si pone come modo per “educare all‟architettura, per esplicitare matrici e modelli culturali, come processi costitutivi che la qualificano. Attraverso lo sguardo la bellezza dell‟architettura può parlare alla mente e all‟anima: di chi la vive oggi e di chi domani la visiterà [Day 1996, Vigna 1996]. Perché ”non conta avere le risposte, conta vivere le domande” [R.M. Rilke].

5: Modi e media della rappresentazione e della cultura visuale: Sememi nella semiotica della memoria. Un’immagine del pavimento di Casa Marotta a piazza Sannazaro replicato nella casa torinese di Corso Vittorio Emanuele II (a, b). Nel conservare la logica dei “paesaggi di famiglia” (non più riconoscibili) dei primi proprietari, nel soffitto della sala da pranzo è stata citata “l’immagine della memoria” di piazza Sannazaro a Napoli, appartenente al vissuto dei nuovi abitanti (c); 1848, Achille Gigante, spiaggia di Mergellina, litografia lumeggiata a biacca (d).

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Bibliografia ACKERMAN J. (2000). Imitation, in Antiquity and its Interpreters. Cambridge: Cambridge University Press. CELANO C. (1692). Delle notitie del bello, dell‟antico, e del curioso della città di Napoli. Vol. IX. Napoli: Giacomo Raillard. COMOLI MANDRACCI V. (1984). Beni culturali e ambientali nel Comune di Torino. Torino: Celid. Scalvini M. L. (1975). L’architettura come semiotica connotativa. Milano: Bompiani. DAY C. (1996). La casa come luogo dell’anima. Milano: Red. DE FUSCO R. (2005). Architettura come mass-medium. Note per una semiologia architettonica. Milano: Dedalo. GRAFFIONE M. (2012). Nell’officina di Warburg. Le immagini della memoria nel progetto di architettura. Milano: Franco Angeli. μ (2007). Trattato del segno visivo. Per una retorica dell'immagine. Milano: Mondadori.LUPO G. M. (1990). Ingegneri architetti geometri in Torino. Progetti edilizi nell'Archivio storico della città (1780-1859). Roma: Kappa. MAROTTA A. (2005). Decoration as a system. Survey and critical interpretation. Proceeding of the International cooperation to save the world's cultural heritage, pp. 1090-1095. MAROTTA A. (2010)a. Dal segno al simbolo: geometria e significato delle volte tra percezione e cognizione, in Disegnare il tempo e l'armonia. Il disegno di architettura osservatorio nell'universo. II. Atti del Convegno internazionale AED, a cura di E. Mandelli, G. Lavoratti, Firenze: Alinea, pp. 726-735. MAROTTA A. (2010)b. Metodologie di analisi per l'architettura: il Rilievo come conoscenza complessa in forma di database, in Sistemi informativi integrati per la tutela, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio architettonico e urbano, a cura di M. Centofanti, Roma: Gangemi, 2010, pp. 69-141. MARSCIANI F. (2000). Tra semiotica ed ermeneutica / Paul Ricoeur e Algirdas Julien Greimas. Roma: Meltemi. PINOTTI A. (2009). Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo. Milano: Raffaello Cortina. TRAINI S. (2006). Le due vie della semiotica. Teorie strutturali e interpretative. Milano: Bompiani. VIGNA D., ALESSANDRIA M. S. (1996). La casa tra immagine e simbolo. Torino: Utet. Sitografia www.famigliadalessandro.it/mergellina.html (consultato 31 marzo 2018).

6: Una prima restituzione 3D molto esemplificata dell'appartamento torinese allo stato attuale. Rappresenta la testimonianza di come il lavoro potrà continuare con l'applicazione dei vari tematismi: cronologia della fabbrica e stratificazioni storiche, elementi strutturali, sistemi decorativi e simbolici, ricostruiti in modo sistematico (Restituzione tridimensionale di Gaetano De Simone, 2018).

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Storie e immagini di una città contraddittoria Stories and images of a contradictory city FRANCESCO MAGGIO Università degli Studi di Palermo Abstract Una città “bella e immensa” è, per Idrisi, Palermo. I monumenti, il mare, il monte Pellegrino, “promontorio più bello del mondo” così come definito da Goethe. E poi, la capacità di produrre del nuovo, che nuovo non è, per affermare la sua esistenza superando facilmente il suo essere “luogo di intrighi e imbrogli”. Una città che, nel suo centro storico, si è adeguata al consumismo e che ha lasciato la sua storia al profumo di un hamburger e che è riuscita a dimenticare il senso del suo disegno urbano. According to Idrisi Palermo is a “beautiful and immense” city. Its monuments, the sea, the Mount Pellegrino as Goethe defined it “the most beautiful promontory in the world”. And then, the ability to produce something new, which is not new, to affirm its existence by easily surpassing its being “place of intrigues and scams”. A city that, in its historic center, has adapted to consumerism and has left its history to the smell of a hamburger forgetting the sense of its urban drawing. Keywords Città, storia, contraddizioni. City, history, contradictions.

Introduzione Palermo è una città contraddittoria; un luogo in cui a una parola che l‟ha descritta sinteticamente è esistito sempre, oltre ad un sinonimo, un suo contrario. Famoso è l‟aforisma di Leonardo Sciascia, uno dei più illustri intellettuali siciliani, che così descrisse il capoluogo dell‟isola: “La contraddizione definisce Palermo. Pena antica e dolore nuovo, le pietre dei falansteri impastate di sangue ma anche di sudore onesto. La Mafia che distribuisce equamente lavoro e morte, soperchierìa e protezione”. Le parole dello scrittore di Racalmuto evidenziano il “cuore” di Palermo, il suo “senso”. Un‟essenza definita dalla presenza mafiosa che, per Sciascia, rappresenta l‟atteggiamento di una società, tant‟è che nella sua frase il termine mafia è scritto con la prima consonante in maiuscolo, cosa che indica un‟arresa ed anche una consapevolezza amara. Gli aspetti politici e sociali, da sempre, hanno influito e determinato il disegno di una città e conseguentemente della sua architettura. Negli anni „50 e „70 del secolo scorso, il capoluogo siciliano è stato oggetto di un‟indiscriminata speculazione edilizia definita come il “sacco di Palermo” caratterizzata da un‟espansione edilizia con evidenti collusioni tra Amministratori della res pubblica, Operatori edili, Cittadini, Esponenti della Borghesia e Altri ancora che, attraverso un uso assolutamente improprio della città, hanno agito per propri interessi economici. Tutti soggetti la cui identità non può che essere dichiarata con l‟iniziale lettera maiuscola, così come Leonardo Sciascia insegna nel suo lucido aforisma. L‟eclatante demolizione della villa Deliella, piccolo capolavoro di Ernesto Basile, perché avvenuta il tempo di una notte, ancora grida vendetta; nella memoria collettiva il “sacco di

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Palermo” coincide con la distruzione della villa appartenuta, in ultimo, a Franco Lanza di Scalea. Attualmente il luogo dove essa sorgeva è un vuoto urbano. Intellettuali, Associazioni Culturali, Cittadini “Attenti”, oggi si attivano per ricostruire la villa in stile per restituire l‟immagine della storia della città evitando, in tutti i modi, la possibilità di realizzare un‟architettura contemporanea. Ancora una contraddizione; alla richiesta di nuove architetture si risponde con una ricostruzione pedissequa: com‟era e dov‟era. Questa cultura del rifiuto di una nuova architettura scaturisce, probabilmente, dal ricordo di ciò che è avvenuto negli anni del “sacco” ma anche per una politica di recupero del centro antico segnata da “paradossi architettonici”, vere e proprie contraddizioni. Il centro storico della città, la cui attenzione della politica verso la sua architettura, e più amaramente, verso la sua esistenza, ha avuto inizio nel 1993 con il piano particolareggiato esecutivo redatto da Leonardo Benevolo, Pierluigi Cervellati e Italo Insolera. Ridotto per gran parte a cumuli di macerie, residui degli eventi del secondo conflitto bellico e di evidenti saccheggi (ancor oggi è possibile acquistare per strada pregiate maioliche, porte e sovra porta dipinti, tavolati affrescati di soffitti lignei), il nuovo disegno del centro antico della città è stato ideato secondo il principio della ridefinizione della sua antica identità morfologica, linguistica e tipologica. Le macerie provocate dai devastanti esiti del conflitto bellico sono state sostituite con edifici in stile; palazzi con struttura intelaiata di cemento armato i cui fronti mostrano balconi in ferro battuto su mensole in finta pietra, persiane lignee e una distribuzione degli spazi interni seguita secondo le indicazioni catastali del 1939. Normativa redatta da chi non ha mai capito, che, come diceva Heidegger, abitare viene prima di costruire. 1. Il sacco di Palermo Nel primo numero del 1960, il settimanale L’Espresso pubblica un articolo di Bruno Zevi che “rilancia in campo nazionale, denunziandola, la vicenda di Villa Deliella, la cui demolizione notturna e proditoria era avvenuta, poco più di un mese prima, in una notte di fine novembre del 1959. Zevi ricostruisce magistralmente l‟intera vicenda dalle origini, concludendo con amara ironia verso il sindaco Lima che prometteva di percorrere l‟Italia per trovare architetti illustri disposti a sostituire quelli dimissionari della Commissione Urbanistica: Signor sindaco si risparmi il viaggio”. La demolizione di Villa Deliella è stata di rilevanza senza precedenti perché significò che l‟avvento dei “nuovi barbari” rendeva tutto possibile: c‟era l‟impunità per tutti e il sacco di Palermo poteva avere inizio. E tuttavia esso va guardato nella ormai lunga prospettiva del tempo senza schematismi e senza pregiudizi. Nessuno parla di coloro che, silenti hanno venduto le proprie ville al fine di potere possedere, in cambio, alcuni appartamenti utili a incrementare il proprio reddito; nessuno parla perché nuovi edifici furono costruiti e costituiscono l‟immagine della città odierna non configurandosi come il vuoto urbano determinato dalla demolizione di villa Deliella. Episodi infami, tutti, conosciuti e relegati a un silenzio inspiegabile. Anche note famiglie palermitane hanno consentito al disegno del “sacco di Palermo” vendendo le proprie abitazioni a favore di una speculazione edilizia, dagli eredi abiurata, e del proprio salvadanaio. Se le parole sono le cose, parafrasando il celebre saggio di Foucault, e se queste hanno nella lingua italiana un significato che rimandano a un sinonimo, Palermo è stata, ed è ancora, oggetto di “saccheggio, razzia, ruberia, scorreria, incursione, spoliazione”. Tutto ciò accade ancor oggi e in parte, con un differente vestito. Come ha scritto lucidamente Salvatore Butera, e le parole di questo paragrafo non fanno altro che condividere il suo pensiero, “il sacco fu perpetrato dai “nuovi barbari” che da esso

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lucrarono somme enormi, ma il resto della città non fu certo esente da colpe. A cominciare dal Principe Lanza di Scalea che l‟operazione aveva contrattato e concordato senza il minimo riguardo al valore architettonico dell‟opera di Basile della quale anzi aveva sollecitato la rimozione del vincolo e di conseguenza la demolizione. Ma Lanza di Scalea non era certo solo. Tutta l‟aristocrazia e l‟alta borghesia cittadina che si era trovata a possedere spazi, immobili e aree in Via Libertà e successivamente nella direttrice Nord Ovest della città fece la stessa operazione. Barattò cioè ville e villini art nouveau con enormi palazzoni in cemento che raggiungevano dieci, dodici, tredici piani. Stava succedendo in pratica su scala cittadina ciò che era successo circa un secolo prima fra i Salina e i Sedara: scambio ineguale fra feudi ad alto reddito agricolo e debiti impagati e impagabili, il tutto spesso sanzionato dai

matrimoni fra Angeliche e Tancredi di tutti i tipi. Quello che voglio dire, e spiegherò meglio avanti, è che questa mutazione genetica della città avvenne certo ad opera della mafia e dell‟intreccio col malaffare della politica ma che contro di essa non vi si erse un popolo di vittime innocenti. Dai professionisti, notai, avvocati, ingegneri, architetti, geometri, alla gente comune, a coloro che della casa avevano bisogno” [Butera 2010]. Queste parole fanno capire che tutto ciò è avvenuto con il silenzio e la complicità di tutti; certo, chi potava tirarsi indietro davanti l‟offerta della grande torta del P.R.G. che prevedeva la costruzione di 21 mc/mq?

Conoscenza e silenzio, aspetto eloquente di una città contraddittoria. Nel 1989 Mario Botta ha presentato un progetto di uno spazio multimediale di arte contemporanea nel vuoto urbano lasciato da villa Deliella; un‟azione promossa e fortemente voluta dal critico e storico di arte contemporanea Vittorio Fagone. Un‟architettura rimasta nel cassetto; 1989 – 2018, “solo” ventinove anni separano la possibilità di realizzazione di un progetto di architettura contemporanea (a quel tempo) da una parte della cultura di una città che oggi ha addirittura il coraggio di riproporre villa Deliella in stile. Forse qualcuno ha necessità di azioni purificatrici della coscienza? Parte di quelle “vittime innocenti” complici del “sacco”? Contraddizioni di una città condannata a una sorte autofagica. Palermo come Erisittone, il cui mito è ben espresso nelle Metamorfosi di Ovidio: ipse suos artos lacero divellere morsu coepit et infelix minuendo corpus alebat, “egli stesso cominciò a lacerarsi gli arti a morsi e l‟infelice si nutriva a prezzo del suo corpo” [Ovidio VIII, versi 877-878].

1: Mario Botta. Progetto per uno spazio multimediale d'arte contemporanea a Palermo. Schizzo di progetto.

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2: Mario Botta. Progetto per uno spazio multimediale d'arte contemporanea a Palermo. Sezione di progetto. 2. Il centro storico. Un nuovo “sacco”? Nel 1993 viene approvato dall‟Assessorato Regionale Territorio Ambiente il piano particolareggiato del centro storico di Palermo affidato a Pierluigi Cervellati, Leonardo Benevolo ed Italo Insolera, noti urbanisti del contesto italiano, che avevano già operato in realtà similari (Bologna, Roma, Brescia, Urbino, etc.) coadiuvati dai tecnici del comune di Palermo che, nel frattempo, aveva istituito l‟apposito ufficio del Centro Storico. Negli anni „90 del secolo scorso il centro antico si presentava privo dell‟illuminazione pubblica, con strade dissestate, macerie ovunque, evidente degrado. Una vera e propria rovina oggetto di un piano che ha previsto un‟edificazione che ha seguito pedissequamente le immagini e le tipologie del passato di una città rasa, praticamente, al suolo. Un piano che, rifiutando l‟architettura contemporanea, ha fatto della falsificazione storicistica la distruzione, come ben esprimeva Ruskin. I progettisti individuarono le tipologie edilizie sia specialistiche che insediative inserendo la tipologia del “catoio”, la cui conservazione è anacronistica per il concetto dell‟abitare moderno. Attraverso l‟attribuzione tipologica e la modalità d‟intervento per singole unità edilizie, vennero stabilite le gamme delle destinazioni d‟uso compatibili con i singoli fabbricati. Ma il centro storico, pian piano è rinato. Tra la fine del secolo scorso e quello attuale la città antica ha assunto una configurazione “solida”. Dopo aver cacciato via moltissimi dei suoi abitanti, indigenti e incapaci di potere ristrutturare con le proprie forze le proprie abitazioni, una nuova speculazione edilizia ha preso il sopravvento per costruire in “finto antico” case per una generazione di radical chic che, nel frattempo, potevano acquistare a poco prezzo. Il sacco al contrario. Se negli anni „60 e „70 vendevano esosamente le proprie ville per evidenti aspetti speculativi, adesso comprano e vendono per lo stesso motivo. Ancora una contraddizione, legata ad aspetti prettamente economici. Ma una volta riconfiguratasi l‟immagine della città antica, con tutte le sue storture, cosa è successo? Come si presenta, oggi, il centro storico?

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3: La via Maqueda nel passato vista dai Quattro Canti. Gli assi principali, corso Vittorio Emanuele e via Maqueda, sono diventati dei veri e propri suk, reminiscenze della dominazione araba della città. La giusta pedonalizzazione di parte del centro antico (alla quale non si è accompagnata una precedente realizzazione di parcheggi) ha determinato uno scellerato uso della città attraverso la concessione di una moltitudine di licenze ad attività commerciali prettamente gastronomiche. Una città donata allo street food piuttosto che alla valorizzazione della sua storia.

4: La via Maqueda oggi.

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Come scrive giustamente Giuseppe Di Benedetto “…E se da un lato vi è ancora una Palermo, assai minoritaria e fragile, che si manifesta attraverso testimonianze, sempre più residuali, di una storia unica e irripetibile, dall‟altro cresce, accanto e dentro questa città, un‟altra Palermo antropofaga e cannibalesca come il suo Genio, ma questa volta al di fuori e lontana dal mito e soprattutto distante dalla bellezza. È la Palermo misera e luttuosa dei suoi spazi interstiziali, dell‟abbandono, del degrado fisico, sociale e culturale, dei sventramenti in corpore sano, del saccheggio e della spoliazione sistematica di quel poco che resta. Ma è anche quella Palermo che, improvvidi e incolti interventi di finto recupero, ci hanno restituito, in questi ultimi anni, con un aspetto caricaturale e grottesco. Il confronto tra queste due diverse e contrastanti dimensioni, fa emergere il ruolo costruttivo della distanza di chi comprende come il più alto grado della presenza sia l‟assenza. Assenza da una città nella quale si vive, ma che non può essere più “abitata” se non per mezzo della mediazione di complessi e fluttuanti processi di ri-memorizzazione, che ne fanno rivivere la sua perduta antica condizione. Assenza da una Palermo che in fondo si finisce per guardare con “dispregio”, ma cui, nel contempo, non si riesce a rinunciare” [Di Benedetto 2016, 32-33]. Alla città, Palermo non si rinuncia, ma si aspettano, con speranza, solo esiti. Infatti, se da un lato la città ha “dimenticato” il progetto del 1989 di Mario Botta nell‟area occupata da villa Deliella, dall‟altro ha accolto favorevolmente il progetto del 1985 di Ludovico Quaroni pensato in un‟area prospicente anche la via Maqueda, per poi realizzarlo nel 2016, soltanto 31 anni dopo!

5: Palazzo Quaroni.

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Un‟architettura nata obsoleta e accolta con grande entusiasmo, tant‟è che testate giornalistiche on-line hanno così descritto la sua edificazione “c‟è chi in quell‟area, dove un tempo sorgevano l‟oratorio dei Gerosolimitani e l‟ex cinema Basile, e per anni trasformata in discarica, sognava un parco verde per palermitani e turisti. Se è vero che il desiderio di molti - nonostante dossier, proposte di consiglieri e proteste ambientaliste - non è stato esaudito, Palazzo Quaroni ha però finalmente trovato nuova luce. I più attenti avevano già notato la novità, ma per molti - abituati a passare oltre - è stata invece una vera sorpresa. All‟interno dello storico monumento che si affaccia su via Maqueda, via Sant‟Agostino e sul vecchio piano di Sant‟Onofrio, ha da qualche settimana aperto al pubblico una galleria commerciale, che vede al momento l‟avvio di soli due negozi ma che promette ai passanti dell‟area pedonale del centro storico grandi marchi e aree ristorazioni, come i centri commerciali delle periferie. Vittima dei bombardamenti, preda di lavori e nascosto da ponteggi senza fine, lo storico palazzo, progettato dall‟architetto romano Ludovico Quaroni e il cui recupero è stato affidato all‟impresa romana Eurocostruzioni, è stato per anni considerato una ferita nel cuore di Palermo. Oggi, però, dal sangue di quei ruderi a pochi passi dal Teatro Massimo, che hanno visto la Curia in veste di imprenditrice, trova linfa uno spazio a cielo aperto, elegante e luminoso. All‟interno dell‟ala sinistra di Piazza commerciale Quaroni, con i suoi colori crema e grigio e i suoi 2550 metri quadri, sono già presenti due boutique: Gioia, un outlet di marchi pregiati e Mondo Bellezza, un rivenditore di cosmetici naturali e biologici. E ancora l‟Auditorium della Curia e l‟agenzia assicurativa UnipolSai. A breve saranno inaugurati anche un bistrot e una pizzeria specializzata in prodotti a lievitazione naturale e senza glutine. L‟area presenta inoltre un ampio parcheggio sotterraneo, a due piani. Il tutto si andrà ad aggiungere ai negozi - Pop Cocoon, Wander, Ever Cream, Primafila Pop Culture e Minacapelli - che si affacciano su via Maqueda e che facevano già precedentemente parte della struttura” [Bonfardino, 2017]. Palermo, ancora una volta saccheggiata. Storia recente di una città contraddittoria. Conclusioni Che Palermo sia di straordinaria bellezza è cosa indiscutibile; resistono i suoi monumenti, il suo paesaggio, il percorso arabo-normanno, il mare. Il centro antico, uno dei più grandi di Europa per estensione, è stato il luogo in cui si è concentrata la maggior parte dell‟edilizia della città negli ultimi anni; è assolutamente innegabile che chi ha amministrato la città dopo il sacco di Palermo ha ricostruito l‟immagine di com‟era la città prima subire i bombardamenti del secondo conflitto bellico. Ma con quali contraddizioni? Palermo ha rifiutato, e continua a evitare, qualsiasi forma di architettura contemporanea e questo rigetto non può che spiegarsi con un‟assoluta incapacità politica e amministrativa di “saper vedere l‟architettura”, parafrasando il celebre libro di Bruno Zevi. Per decenni, molto prima ancora che fosse redatto il Piano Particolareggiato del Centro Storico, la Facoltà di Architettura di Palermo ha prodotto un‟enorme quantità di progetti nel centro storico soprattutto nei corsi di progettazione e di urbanistica e ha inoltre presentato innumerevoli tesi di laurea. Fiumi di inchiostro rimasti nel cassetto assolutamente non considerati da coloro che si sarebbero occupati della cosa pubblica. Una città che ha escluso l‟Università da qualsiasi forma di interlocuzione fattiva, talvolta volontariamente rifiutandola.

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Questa è un’altra contraddizione di Palermo, di quella città che oggi “disegna” la Strada Nuova, l’asse seicentesco della via Maqueda, come grande centro commerciale a carattere prettamente gastronomico. Bibliografia BONFARDINO, R. (2017). Pizzeria, outlet e boutique: nasce una galleria commerciale in via Maqueda, in «Palermo Today», 21 marzo 2017. BOTTA, M. (2004). Progetto per uno spazio multimediale d'arte contemporanea a Palermo, in «PER», n. 9, pp. 10-11. BUTERA, S. (2010). Tornare oggi a riflettere sul sacco di Palermo, in StrumentiRes-Rivista online della Fondazione Res, Anno II, n. 6, 2010. DI BENEDETTO, G. (2016). A tempo e a luogo. Palermo e le forme della temporalità, in Palermo interpretat, a cura di A. Torricelli. Siracusa, LetteraVentidue, pp. 19-33. Sitografia http://www.palermotoday.it/cronaca/palazzo-quaroni-galleria-commerciale-via-maqueda.html (maggio 2018). http://www.salvatorebutera.it/public/tornare-oggi-a-riflettere-sul-sacco-di-palermo.pdf (maggio 2018).

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Figure e rappresentazioni della città utopica delle neoavanguardie Figures and representations of the utopian city of the neo-avant-gardes NICOLÒ SARDO Università di Camerino Abstract Il contributo indaga le rappresentazioni delle città utopiche elaborate tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’70. La raffigurazione in questo ambito si è mossa tra convenzione e sperimentazione nell’uso di metodi capaci di assecondare il pensiero progettuale: si evidenzia così talora un realismo indicante la possibilità di una «costruibilità», ma anche la presenza della componente immaginifica che ha riferimenti in altri media come il cinema di fantascienza o il fumetto. This contribution analyzes the representations of the utopian cities elaborated between the end of the 50s and the beginning of the 70s. The representation in this area has spread between a conventionality and the experimentation of the use of the methods capable of supporting design thinking. Thus it is proposed a realism that wants to indicate the possibility of a constructibility, but also the exasperation of the imaginative component that seeks references in science fiction cinema or comics. Keywords Città, rappresentazione architettonica, utopia. City, architectural representation, utopia. Introduzione Il periodo che si estende tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta ha visto sviluppare in maniera significativa una serie di nuove idee progettuali che hanno ridefinito in modo sostanziale il progetto urbano a grande scala con un approccio che si può sicuramente definire utopistico e che si è posto indubbiamente in continuità con alcune grandi elaborazioni urbane delle avanguardie. L’entità dei progetti sviluppati e la molteplicità degli autori sono tali da poter far individuare in maniera decisa una vera e propria tendenza che Manfredo Tafuri è arrivato a definire «Internazionale dell’utopia» [Tafuri 1979]: «La tecnologia, letta come occasione di gioco e come “spettacolo”, dà origine a sogni di ristrutturazione globale di città e territori, rinnova la volontà di una “ricostruzione futurista dell’universo”» e «La “liberazione” nell’ironia ripercorre le utopie delle avanguardie storiche» [Tafuri 1979, 347]. Quella che ne deriva è una «produzione destinata a rimanere unicamente sulla carta» [Tafuri 1979, 352] dove l’orientamento visionario ha la necessità di pervenire anche a nuovi e significativi modi per raffigurare il pensiero progettuale. Pensiero che si trova a vivere in maniera quanto mai stretta con gli aspetti legati alla comunicazione e alla necessaria rappresentazione. Diviene così necessario mettere in atto speciali metodi capaci di consegnare in maniera idonea le riflessioni progettuali: ragionamenti che non riguardano solo la figurazione ma che si trovano ad occupare in maniera significativa anche lo spazio della definizione degli aspetti sociali che spesso appaiono inscindibili. Autori come Yona Friedman

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[Friedman 1970], Paolo Soleri (1969) o Constant [Constant 1974], con i loro progetti – proiettandosi verso un ipotetico «futuro» – finiscono per delineare anche nuove attese forme di società.

1: Superstudio, Monumento Continuo, 1969. 1. Rappresentare l’utopia La complessità dei temi messi in campo dagli sviluppi progettuali che si stanno qui considerando ha reso necessario l’utilizzo di criteri quanto mai speciali dove la complessità ha sollecitato la messa in opera di atteggiamenti compositi: sono piuttosto frequenti meccanismi di ibridazione e contaminazione che trovano riferimenti importanti nell’eredità di alcune delle avanguardie storiche del Novecento e, non di rado, in altri media come il cinema e il fumetto. Cristiano Toraldo di Francia, uno dei fondatori del Superstudio, sottolinea «Come la musica non si scriveva necessariamente più con lo spartito e il pentagramma, ma con immagini, colori e scritte, fino a rendere tale notazione visiva fruibile indipendentemente dal risultato sonoro finale, così il disegno di architettura esplorava tutte quelle tecniche e linguaggi, dal cinema alla grafica, al fumetto, alla nuova pittura pop, che meglio potevano rappresentare la complessità del nuovo progetto urbano» [Toraldo di Francia 2014, 11]. I dispositivi figurativi utilizzati per la comunicazione del pensiero progettuale, quanto mai innovativo e sovente destabilizzante, si fanno complessi e cercano di assecondare le complessità e specificità della struttura “fisica” e di quella “sociale”. L’approccio è quanto mai eterogeneo, pur in presenza di alcuni caratteri ricorrenti: quello che si evidenzia è da un lato la ricerca di una concretezza capace di proporre un «realismo del possibile» e l’asciutta astrazione di una figurazione che si fa ideogrammatica nell’esplicitare le proprie finalità. Un disegno che nella sua essenzialità arriva talvolta ad evocare – eloquenti

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molte delle immagini di Friedman – quello infantile a volere rimarcare anche l’aspetto ludico spesso presente nelle rappresentazioni messe in atto. Le megasoluzioni a scala urbana esibiscono spesso la loro indeterminatezza e trasformabilità: nei progetti come quelli di Friedman per la Ville Spatiale (1960) o di Constant per New Babylon (1959) diviene quanto mai necessario rappresentare non tanto figure stabili ma anche i principi generativi che ne sono alla base; una indeterminatezza «dove la forma si autodistrugge per far sprizzare comunicazioni dello stesso processo di autocontestazione» [Tafuri 1980, 348]. Diviene così evidente come la modificabilità, la stratificazione, la sedimentazione, si rivelano parallelamente in dispositivi come il fotomontaggio e il collage: strumenti che ancora una volta rendono esplicito lo stretto legame tra queste riflessioni e alcuni dei temi progettuali presenti nelle avanguardie dei primi decenni del ’900. In quest’ambito diventa importante anche lo sviluppo di proposte editoriali che partecipano in maniera significativa alla promozione dei principi innovatori presenti nelle proposte urbane che vengono sostenute. I libri e, soprattutto, alcune riviste – come «Archigram» proposta dall’omonimo gruppo inglese o l’italiana «Pianeta Fresco» – condividono l’importante momento comunicativo attraverso una sperimentazione che interessa non solo i «contenuti» ma anche il progetto grafico. In alcuni casi invece gli autori si muovono piuttosto alla ricerca di un atteggiamento rassicurante attraverso la reiterazione di modi più convenzionali nella presentazione dei loro lavori: emblematici i casi dei progetti di Geoffrey Jellicoe per Motopia [Jellicoe 1961] e di Walter Jonas per INTRA-HAUS [Jonas 1962].

2: Yona Friedman, Ville spatiale: a) Paris spatiale, 1960; b) Venezia Nova, 1969. Fondamentalmente i progetti che si stanno considerando, per loro vocazione, hanno una consistenza figurativa significativa; e il loro essere sostanzialmente «immagini» è stato spesso lo spunto per critiche, anche decise, che hanno portato a considerare queste elaborazioni «soltanto velleitaria esercitazione, dimostrazione dello stato di crisi nel quale versa ora la cultura architettonica» [Quaroni 1967, 215] e per la loro maniera «leggera» e aleatoria solo un «tentativo di dare voce al fenomeno di consumo» [Tafuri 1980, 348]. Ma se la tendenza ad una visione realistica porta all’uso di apparati figurativi tutto sommato convenzionali ed usuali, la maniera più interessante appare sicuramente quella proposta, tra gli altri, dal Superstudio o dagli Archigram: nei loro lavori anche i temi rappresentativi e comunicativi si muovono in perfetta sintonia – non raramente spiazzando l’osservatore – con l’indagine sperimentale insita all’interno dei presupposti del progetto. Quella che si evidenzia è

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un’indagine figurativa che si coniuga in maniera stretta con la ricerca di una «efficienza» comunicativa; una investigazione che trova una soluzione nella «elaborazione di un particolare gusto grafico e rappresentativo nato dalla fusione della moderna scuola di disegnatori britannici – pensiamo a Gordon Cullen e al Townscape – con gli spunti tratti dalla Pop Art. Ma da tale connubio e dal già citato avvertito senso della moderna figurazione deriva il superamento dello stesso enunciato estetizzante e la spinta a ridurre quell’estetica in azione largamente comunicativa» [De Fusco 1979, 469]. È importante anche sottolineare il richiamo a Cullen come indicativo di un atteggiamento che è interessato a rappresentare lo spazio urbano anche attraverso la messa in risalto degli elementi visivi dove: «La matrice metodologica di Cullen, inalveata nell’empirismo, tende dunque a far derivare il risultato estetico dalla percezione delle cose anziché da postulati formali […]. Il risultato ultimo di questa tensione è quindi costituito da una sorta di “categorizzazione empirica” della percezione come “progetto” e il townscape non è che un progetto per vedere le cose o, meglio, critica per immagini come progetto» [Albisinni 1992, 74].

3: Archigram (Peter Cook), Plug-in-City, 1964. 2. Figure e modi della raffigurazione Le tecniche spesso eterogenee cercano di sostenere le complessità insite nel progetto: «Dalla fotografia al collage, all’uso dell’aerografo, passando attraverso gli storyboard e i filmati, la rappresentazione del progetto recuperava aggiornandole le varie tecniche che avevano caratterizzato le avanguardie del primo ’900. La sperimentazione sui mixed-media, come si definivano allora le nuove esperienze estetiche basate sulla contaminazione tra generi e forme artistiche diverse, complice il rinnovato interesse per i fenomeni sinestetici e aiutata dalle nuove tecnologie, si riagganciava alla vasta eredità lasciata dalle avanguardie del primo ’900, che, dal futurismo, al dadaismo al surrealismo all’esperienza del Bauhaus, erano state bruscamente interrotte dalla guerra» [Toraldo di Francia 2014, 11]. Vengono chiaramente proposti un nuovo campionario di figure e un’iconografia immaginifica

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che prende a prestito dal fumetto e dal cinema di fantascienza; così come dalle suggestioni che scaturiscono dalle contemporanee missioni spaziali: film come 2001: Odissea nello spazio, che Stanley Kubrick realizza nel 1968, hanno un grandissimo impatto capace di imporre una nuova estetica che si estende anche nella comunicazione visiva e nel disegno industriale.

4: Geoffrey Alan Jellicoe, Motopia, 1961: a) vista prospettica (disegno di Gordon Cullen); b) modello. Il fumetto di fantascienza è una fonte iconografica (evidente soprattutto nei progetti degli Archigram) ma anche un indubbio referente per la presenza, così come nella cinematografia, di significative invenzioni urbane [Oppedisano 2005]. Tra i modelli di rappresentazione si evidenziano alcune preferenze che emergono come significative e rivelatrici dei particolari criteri scelti nella raffigurazione. Le viste in pianta, i prospetti, le sezioni, appaiono come più convenzionali strumenti e come mezzi per chiarire la complessità (anche funzionale, come nel caso di alcune articolate sezioni delle megastrutture di Soleri) delle ideazioni messe in atto nel progetto. Tali rappresentazioni, con la loro concretezza, tendono così a proiettare l’idea progettuale verso una possibile realizzabilità. La vista prospettica si mostra sicuramente come la scelta privilegiata: sia nella sua più convenzionale costruzione grafica sia come componente di più complesse strutture figurative, come nel caso dei fotomontaggi e dei collage. La prospettiva – sotto molteplici «punti di vista» – è anche lo strumento d’elezione nel mostrare le caratteristiche spaziali e le qualità delle proposte urbane: le immagini prospettiche trascinano l’osservatore all’interno dello spazio urbano e cercano di mostrare, spingendosi al di fuori dell’astrazione, l’inserimento dei complessi organismi all’interno del paesaggio. Il tutto arrivando in alcuni casi, come già sottolineato, a prendere una forma rassicurante e quasi consolatoria. Sono esemplari da questo punto di vista i disegni prospettici realizzati da Gordon Cullen per presentare Motopia, la città immaginata da Jellicoe: se alle immagini fotografiche (soprattutto a «volo d’uccello») del grande e dettagliato modello è demandata soprattutto la presentazione generale del piano, le raffigurazioni colorate proposte da Cullen avvicinano l’osservatore all’interno degli spazi urbani facendolo diventare partecipe della fruizione dello spazio urbano [Jellicoe 1961]. È interessante notare anche la posizione del punto di vista. Questo si pone spesso a distanza e collocato in alto: la veduta «a volo d’uccello» è una delle figure ricorrenti nella rappresentazione della città utopica; sicuramente per la sua capacità di far comprendere la struttura urbana ma, anche, per marcare in alcuni casi una «distanza» simbolica.

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Appare invece più raramente l’assonometria: questa, utilizzata spesso dalle avanguardie storiche con lo scopo di chiarire con la sua «oggettività» i caratteri di un inedito catalogo di forme, appare sicuramente in secondo piano tra le preferenze degli autori che si stanno considerando. Tra i metodi di rappresentazione ha invece un ruolo primario anche l’utilizzo di modelli plastici: anche in questo caso si manifesta un uso multiforme che va dall’essenzialità di modelli sostanzialmente monomaterici, come nel caso di quelli realizzati dai Metabolisti [Koolhaas-Obrist 2011], a quello ben più complesso e sperimentale come nel grande modello della New Babylon di Constant [Constant 1974], dove l’uso del colore e di materiali eterogenei sono fondativi di un atteggiamento del tutto speciale che partecipa anch’esso alla definizione del progetto. Con la sua evidenza tridimensionale, la figurazione plastica oscilla in sostanza tra la ricerca di un’astrazione – dove l’essenzialità scultorea consegna una lettura spoglia del progetto – e la disposizione a simulare un realismo «rassicurante». A modelli a grande scala – laconici nella loro essenza formale e materica – si affiancano quelli dettagliati e sostanzialmente convenzionali come quello del già citato plastico per la Motopia di Jellicoe. Anche le tecniche grafiche emergono quanto mai molteplici e caratterizzate dove al fotomontaggio e al collage si affiancano diversi metodi di colorazione. Se il collage è lo strumento per utilizzare anche immagini estrapolate da altri ambiti in una sorta di «ready made», il fotomontaggio permette di inserire il progetto in contesti urbani esistenti:

5: Walter Jonas, Intrapolis, 1960-1965.

La Città Altra

Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi e del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità

emblematiche le tante viste prospettiche così realizzate con cui Yona Friedman compie una forma di «verifica» sul campo della sua Ville Spatiale. E, con un atteggiamento simile, non è raro vedere – significative molte delle rappresentazioni degli Archigram – la presenza di «oggetti», privati della loro originaria funzione e alterati nella loro scala, che vengono inseriti all’interno del progetto in maniera del tutto decontestualizzata. Nella sostanza la rappresentazione del gruppo Archigram si mostra per mezzo di «disegni chiaramente in sintonia con quella felice e trasgressiva stagione del Pop britannico che trovò in Reyner Banham il suo mentore: collage, fotografia, aerografo e tecniche tradizionali coesistono in immagini straordinarie, che costituiscono in alcuni casi una interessante prefigurazione dell’estetica High Tech e di una larga parte degli esiti architettonici più recenti» [Sacchi 1994, 140]. Ugualmente il colore è un dispositivo capace ancora una volta di mettere in evidenza la contrapposizione tra i due poli su cui di muove la raffigurazione: quella realistica e quella astratta. Un colore che si fa in qualche modo realistico e sfumato (come nei curatissimi «montaggi» del Superstudio per il Monumento Continuo) o piatto e «ideogrammatico» (come negli schemi funzionali della Plug-In City degli Archigram). Matite colorate, pastelli, penne a feltro si accompagnano a tecniche più complesse come l’acquerello e l’aerografo. Il segno largo e deciso di penne a feltro – idonee anche alla realizzazione di campiture piatte – è caratteristico di molti disegni di Yona Friedman e di Walter Jonas. Così come si può vedere spesso utilizzato l’acquerello sempre da Friedman e da Constant. L’aerografo è invece tra gli strumenti per colorare privilegiati nelle rappresentazioni del Superstudio e che accompagna spesso i loro fotomontaggi. Conclusioni Dal ragionamento qui sviluppato si è evidenziato come la rappresentazione delle elaborazioni progettuali che sono state analizzate si sia configurata in maniera eloquente come strumento per costruire un vero e proprio «racconto»: una narrazione che si rende fondamentale nel descrivere gli spazi delle nuove urbanità immaginate e che spesso si fa carico in maniera significativa di chiarire gli imprescindibili aspetti sociali e culturali che ne derivano: «Dopo tutto, la città ideale, come la stessa Utopia, non dovrebbe essere giudicata in base a criteri visivi o pratici, poiché la sua ragion d’essere è cosmica e metafisica; ed è qui, ovviamente, che risiede la sua peculiare abilità nel sedurre l’intelletto» [Rowe 1990, 187]. Bibliografia ALBISINNI, P., La rappresentazione dell’ambiente nello sperimentalismo degli anni settanta, in «Disegnare. Idee immagini», n. 5, 1992, pp. 71-79. Architectures expérimentales 1950-2000 (2003), a cura di M.-A. Brayer, Collection du FRAC Centre, HYX. BANHAM, R. (1976), Megastructure. Urban Futures of the Recent Past, London, Thames and Hudson, (trad. it., Le tentazioni dell’architettura. Megastrutture, Roma-Bari, Laterza 1980). Buckminster Fuller. Starting with the Universe (2008), a cura di K. M. Hays, D Miller, New York Whitney Museum of American Art. BUSBEA, L. (2007), Topologies: the urban utopia in France, 1960-1970, Cambridge, MIT Press. Clip Stamp Fold. The Radical Architecture of Little Magazines 196X to 197X (2010), a cura di B. Colomina, C. Buckey, Barcelona, Actar. CONSTANT (1974), New Babylon, Den Haag, Haags Gemeentemuseum. COOK, P. (1970), Experimental Architecture, London, Studio Vista. COOK, P. (a cura di) (1972), Archigram, Basel-Boston, Birkhäuser (ristampa: New York, Princeton Architectural Press, 1999). Concerning Archigram (1988), a cura di D. Crompton, London, Archigram Archives.

Figure e rappresentazioni della città utopica delle neoavanguardie

NICOLÒ SARDO

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