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L'OBBLIGO DI ASTENSIONE NELLA DISCIPLINA DEL PROCEDIMENTO DOPO LA LEGGE N. 190 DEL 2012 1.Corruzione, conflitto di interessi e strategie di prevenzione. La legge n. 190 del 2012 — volta a prevenire oltre che a reprimere la corruzione nelle pubbliche amministrazioni (1) — detta alcune rilevanti norme in tema di conflitto d'interessi (2). Situazioni di conflitto di interessi non adeguatamente affrontate e risolte possono infatti facilmente portare a fenomeni di corruzione. E anche quando tale effetto in concreto non si verifica, rimane il danno d'immagine che deriva da un pubblico funzionario che opera in situazione di conflitto d'interessi, ledendo così la credibilità delle istituzioni e dello stesso sistema democratico, il quale si fonda sulla fiducia dei governati nei confronti dei governanti (3). Quest'ultima affermazione non si attaglia solo ai casi in cui in conflitto di interessi si trovi il membro del Parlamento o del Governo, ma anche a quelli in cui è coinvolto un funzionario non politico, ferma restando la differenza dei rispettivi ruoli e delle relative responsabilità, con inevitabili conseguenze circa le situazioni di conflitto di interessi in cui si possono rispettivamente trovare. Per evitare che il pubblico funzionario operi in una situazione di conflitto di interessi, ossia di commistione fra i propri interessi e quelli pubblici alla cui cura è preposto, l'ordinamento può prevedere una disciplina di incompatibilità predefinite in generale per i casi in cui il conflitto, già avvertibile in astratto, assume carattere permanente e radicale (cd. incompatibilità strutturale o statica). Ad essa peraltro può essere opportuno se non necessario affiancare una disciplina che regoli i casi in cui, il conflitto emerga in relazione a singole e concrete fattispecie (cd. incompatibilità funzionale o dinamica). Ulteriore strumento utile e estremamente diffuso, anche se di per sé solo insufficiente, per prevenire devianze legate al conflitto di interessi è poi senza dubbi un'adeguata public disclosure, ossia la diffusione all'esterno di informazioni circa gli interessi privati, in particolare di carattere economico-finanziario (financial disclosure), dei titolari di cariche pubbliche di un certo livello. Questo agevola la messa in atto di misure volte a risolvere in via preventiva la situazione di conflitto d'interessi. Più in generale, la trasparenza della pubblica amministrazione consente a ciascun cittadino e soprattutto agli osservatori qualificati (stampa, sindacati, ricercatori...) il controllo 1

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L'OBBLIGO DI ASTENSIONE NELLA DISCIPLINA DEL PROCEDIMENTO DOPO LA LEGGE N. 190 DEL 2012

 1.Corruzione, conflitto di interessi e strategie di prevenzione.

La legge n. 190 del 2012 — volta a prevenire oltre che a reprimere la corruzione nelle pubbliche amministrazioni  (1) — detta alcune rilevanti norme in tema di conflitto d'interessi   (2). Situazioni di conflitto di interessi non adeguatamente affrontate e risolte possono infatti facilmente portare a fenomeni di corruzione. E anche quando tale effetto in concreto non si verifica, rimane il danno d'immagine che deriva da un pubblico funzionario che opera in situazione di conflitto d'interessi, ledendo così la credibilità delle istituzioni e dello stesso sistema democratico, il quale si fonda sulla fiducia dei governati nei confronti dei governanti  (3). Quest'ultima affermazione non si attaglia solo ai casi in cui in conflitto di interessi si trovi il membro del Parlamento o del Governo, ma anche a quelli in cui è coinvolto un funzionario non politico, ferma restando la differenza dei rispettivi ruoli e delle relative responsabilità, con inevitabili conseguenze circa le situazioni di conflitto di interessi in cui si possono rispettivamente trovare.

Per evitare che il pubblico funzionario operi in una situazione di conflitto di interessi, ossia di commistione fra i propri interessi e quelli pubblici alla cui cura è preposto, l'ordinamento può prevedere una disciplina di incompatibilità predefinite in generale per i casi in cui il conflitto, già avvertibile in astratto, assume carattere permanente e radicale (cd. incompatibilità strutturale o statica). Ad essa peraltro può essere opportuno se non necessario affiancare una disciplina che regoli i casi in cui, il conflitto emerga in relazione a singole e concrete fattispecie (cd. incompatibilità funzionale o dinamica). Ulteriore strumento utile e estremamente diffuso, anche se di per sé solo insufficiente, per prevenire devianze legate al conflitto di interessi è poi senza dubbi un'adeguata public disclosure, ossia la diffusione all'esterno di informazioni circa gli interessi privati, in particolare di carattere economico-finanziario (financial disclosure), dei titolari di cariche pubbliche di un certo livello. Questo agevola la messa in atto di misure volte a risolvere in via preventiva la situazione di conflitto d'interessi. Più in generale, la trasparenza della pubblica amministrazione consente a ciascun cittadino e soprattutto agli osservatori qualificati (stampa, sindacati, ricercatori...) il controllo sociale sull'esercizio delle funzioni pubbliche e questo costituisce un incentivo a comportamenti corretti  (4). Non per caso la legge n. 190 promuove contestualmente l'integrità del pubblico funzionario  (5) e la trasparenza amministrativa  (6).

Al profilo dell'incompatibilità funzionale — tradizionalmente valorizzato soprattutto negli Stati Uniti, essendo nei Paesi europei più radicato il sistema delle incompatibilità strutturali   (7) — si rivolge l'attenzione del presente studio, che è dedicato all'analisi e all'inquadramento sistematico della nuova norma sull'obbligo di astensione del funzionario  (8) nell'esercizio della funzione amministrativa in caso di conflitto di interessi introdotta dalla legge n. 190 del 2012.

 2.Il contesto internazionale e in particolare le Linee guida dell'OECD.

Il tema del conflitto di interessi è stato in tempi recenti oggetto di importanti indicazioni in un quadro di ‘soft law' da parte di alcuni organismi internazionali quali il Consiglio d'Europa, in particolare attraverso le Raccomandazioni del cd. gruppo GRECO costituito al suo interno, e l'OECD, attraverso le ben note Linee guida  (9).

La norma della legge n. 190 oggetto di queste pagine invero si colloca nel contesto: infatti «  a seguito del Rapporto OECD sull'implementazione delle politiche atte a prevenire e disciplinare il conflitto di interessi, si

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è assistito ad una progressiva armonizzazione dei sistemi nazionali nel senso indicato dalle Linee guida individuate nel Rapporto stesso, che si ispirano ai modelli più maturi di legislazione sul conflitto di interesse ed in particolare a quello statunitense »  (10).

Il modello statunitense — che riflette anche la particolare attenzione di tale ordinamento agli aspetti patrimoniali del conflitto di interessi  (11) —, sulla base di una ‘public disclosure' estesa alle alte cariche di tutti e tre i poteri dello Stato, si avvale, oltre che di strumenti particolarmente gravosi quali la ‘divestiture', cioè la dismissione di attività economiche e la costituzione di un ‘blind trust' rispetto al patrimonio di proprietà, anche dell'istituto del ‘recusal' (abstention), cioè l'astensione dall'intervento in questioni specifiche e dall'adozione di atti in relazione ai quali possa riscontrarsi un pericolo grave ed attuale (clear and present danger) di conflitto di interessi.

Anche le Linee guida dell'OECD  (12), elaborate sulla scorta delle best practices, indicano tra gli strumenti per la gestione del conflitto di interessi il ‘recusal'.

Vari governi sono stati indotti dalle Linee guida, che offrono un completo quadro di riferimento con le soluzioni esistenti a riguardo, a introdurre o a ridefinire la disciplina volta a garantire l'integrità nella condotta dei pubblici funzionari. Si è assistito perciò negli anni successivi a un incremento di attenzione verso il tema del conflitto di interessi e anche all'adozione di discipline non così distanti tra loro, con l'affermarsi di taluni istituti tipici  (13), come l'istituto del recusal. Si pensi, ad esempio, tra i Paesi europei vicini alla nostra tradizione culturale alla Spagna, che con la Ley 5/2006 ha dettato una disciplina dettagliata sul conflitto di interessi e ha fatto riferimento, per quel che qui rileva, anche all'obbligo di astensione da decisioni che interferiscano con la sfera degli interessi privati (art. 7)  (14).

 3.L'obbligo di astensione nella Costituzione e nel previgente assetto normativo.

La legge n. 190 del 2012 si pone sulla scia di una generale attenzione per il tema del conflitto di interessi nell'esercizio delle funzioni pubbliche e, oltre a promuovere la trasparenza con numerose disposizioni (art. 1 co. 15-36), introduce nella l. n. 241 del 1990, che contiene la disciplina generale del procedimento amministrativo, l'art. 6-bis, sull'obbligo di astensione del funzionario (art. 1 co. 41).

In questo modo il legislatore attribuisce, carattere di generalità a un istituto sino a quel momento riposto nelle pieghe del diritto amministrativo con alcune disposizioni di carattere speciale, ancorché, di fatto, diffusamente utilizzato, per le ragioni di cui si dirà. L'obbligo di astensione del funzionario trovava invero già un consolidato riferimento nella norma di cui all'art. 323 del Codice penale sull'abuso d'ufficio. Ma la norma penale prevede requisiti specifici: aver cagionato un danno oppure essersi procurato un vantaggio. E d'altra parte, rinvia, per definire i comportamenti vietati, agli “altri casi prescritti”, quindi ancora a disposizioni di carattere speciale.

Le pagine che seguono sono volte a verificare in che misura l'art. 6-bis risponda all'esigenza di una disciplina coerente ed esaustiva dell'istituto e come si raccordi con le norme esistenti, al fine di pervenire a possibili soluzioni quanto alla sua interpretazione e alla sua portata. Preliminare, ai fini di una valutazione della portata innovativa della disposizione e di un suo inquadramento sistematico, appare la considerazione del previgente assetto normativo e degli orientamenti espressi a riguardo dalla giurisprudenza.

Va però anzitutto sottolineato che l'obbligo di astensione del funzionario pubblico in posizione di conflitto di interessi, ancorché privo di un richiamo testuale nella Costituzione, non è orfano di riferimenti costituzionali indiretti: in particolare, l'art. 54 co. 2, che sancisce l'obbligo per i cittadini a cui sono affidate

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funzioni pubbliche « di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge », e poi gli artt. 97, co. 2 e 98  (15). L'art. 98 Cost. sancisce il principio di esclusività del servizio dei pubblici impiegati  (16). Se i pubblici dipendenti devono operare esclusivamente in favore della collettività, va escluso che possano perseguire interessi personali o di gruppi  (17). Soprattutto rilevante è l'art. 97 Cost. co. 2, che pone i principi di imparzialità e buon andamento, richiamato dalla legge n. 190 proprio in relazione alle fattispecie di conflitto di interessi. L'imparzialità, in particolare, dà fondamento all'istituto in esame e indica una posizione del soggetto sia rispetto all'organizzazione, che rispetto all'attività   (18). L'imparzialità è un valore anche dell'Unione Europea, richiamato nella Carta dei diritti fondamentali all'art. 41 co. 1 e il legame tra imparzialità e conflitto di interessi è sottolineato anche dall'OECD, secondo la quale il danno provocato dal conflitto di interessi deriva dal fatto che esso indebolisce l'adesione da parte dei pubblici funzionari all'ideale di imparzialità  (19).

Proprio a partire dalle citate norme costituzionali e in particolare dalla norma sull'imparzialità, la giurisprudenza, come si vedrà più avanti, ha avuto modo di affermare in via pretoria la sussistenza dell'obbligo de quo, anche in assenza di norme apposite.

Quanto invece alle disposizioni di carattere speciale, all'istituto fa in particolare riferimento (oltre a qualche legge regionale  (20)) il testo unico degli enti locali (TUEL), d.lgs. 267 del 2000, art. 78 co. 2, risalente nei suoi contenuti, per quanto qui interessa, addirittura alla fase precostituzionale   (21). Esso dispone l'obbligo per gli amministratori locali di astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti interessi propri e di parenti e affini sino al quarto grado, con una, comunque parziale, eccezione per gli atti normativi o generali  (22). Il riferimento ai soli amministratori degli enti locali — espressione da correlarsi ai funzionari onorari e non a quelli burocratici, secondo la definizione del legislatore all'art. 77 TUEL — determina che — stando alla lettera della disposizione — l'ambito specifico di operatività della disciplina risulti limitato oltre che oggettivamente, riguardando solo l'amministrazione locale, anche soggettivamente, in particolare a seguito della valorizzazione del ruolo dirigenziale nell'adozione di atti amministrativi (art. 4 co. 2 d.lgs. 165 del 2001). Peraltro, si rinvengono in giurisprudenza pronunce in cui si è affermato che « l'obbligo di astensione [di cui al TUEL], in quanto espressione dei principi di legalità, imparzialità, buon andamento dell'azione amministrativa, fissati dall'art. 97 della Costituzione, è espressione di una regola generale ed inderogabile, di ordine pubblico, applicabile quindi anche al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dalla legge »  (23). E dal canto suo la dottrina ha considerato incongruo, se non paradossale esimere dall'obbligo di astensione coloro (cioè i dirigenti) «  a favore dei quali si è spostato l'asse del concreto agire amministrativo »  (24).

In alcuni casi il legislatore, per introdurre l'obbligo in questione in determinati ambiti dell'azione amministrativa, ha invece fatto riferimento al codice di procedura civile (artt. 51 e 52), laddove viene imposto al giudice un obbligo di astensione, quando abbia un interesse personale nel giudizio in cui è chiamato a pronunciarsi  (25). Così ad esempio nell'art. 11, comma 1 del Regolamento sui concorsi di cui al d.p.r. 9 maggio 1994, n. 487 che rinvia alle suddette disposizioni per disciplinare la materia de qua con riguardo alle commissioni di concorso per l'accesso ai pubblici impieghi. Lo stesso dicasi per i componenti delle commissioni aggiudicatrici, ai quali ex art. 84 co. 7, d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 sono estese le cause di astensione previste dal codice di procedura civile.

Infine, un riferimento all'obbligo di astensione si rinviene nel Codice di comportamento dei dipendenti pubblici del 2000, che ha preceduto quello attualmente in vigore. La portata della relativa disposizione è comunque piuttosto modesta in ragione della limitata efficacia riconosciuta al Codice stesso, ma sul punto ci si sofferma nel par. 5.

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A fronte di un quadro normativo che lasciava comunque formalmente ‘scoperti' estesi ambiti dell'azione amministrativa, la dottrina e la giurisprudenza hanno spesso sostenuto la possibilità di ricavare direttamente dal principio di legalità e di imparzialità ex art. 97 Cost. un generalizzato obbligo di astensione in tutti i casi i cui i funzionari fossero portatori di interessi personali in conflitto con quello affidato alle loro cure. La dottrina ha sottolineato come « l'obbligo di astensione nel procedimento amministrativo ... a differenza delle ipotesi di incompatibilità dei giudici, che sono tassative, sorga ogni qual volta la composizione dell'organo ne metta in pericolo l'imparzialità  »  (26) e come a venire in rilievo sia il principio secondo cui « l'interferenza attuale o potenziale d'interessi personali e diretti o indiretti nell'esercizio di pubbliche funzioni vizia la legittimazione del soggetto agente  », principio questo da applicarsi dunque anche agli organi amministrativi per i quali l'astensione non è espressamente prevista   (27). La giurisprudenza ha talora in parallelo affermato che l'obbligo di astensione « essendo finalizzato ad assicurare soprattutto nei confronti di tutti gli amministrati la serenità della scelta amministrativa discrezionale (...), costituisce regola di carattere generale, che non ammette deroghe ed eccezioni, di ordine pubblico, applicabile quindi anche al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dalla legge (Cons. St., sez. V, 9 dicembre 1997, n. 1484), che scatta automaticamente allorquando sussiste un diretto e specifico collegamento tra la deliberazione ed un interesse proprio di colui che vota o dei suoi congiunti »  (28).

Il principio costituzionale d'imparzialità ha svolto invero un ruolo centrale ai fini di un'estensione del raggio di operatività dell'istituto, ma per lo più i giudici hanno avvertito la necessità di ancorare l'obbligo di astensione come principio generale anche a specifiche disposizioni legislative.

In proposito un primo richiamo va all'art. 51 c.p.c., di cui il giudice ha talora affermato l'estensibilità «  a ogni campo dell'azione amministrativa »  (29) e quindi l'applicabilità delle relative cause di astensione ai collegi amministrativi seppur con eventuali adattamenti.

Si tratta di una posizione non priva di pregio. Invero, se le norme sull'obbligo di astensione del c.p.c. rappresentano « il necessario svolgimento processuale »  (30) del principio di rango costituzionale dell'imparzialità del giudice, esse ben possono anche rappresentare il necessario svolgimento procedimentale del principio costituzionale di imparzialità dell'amministrazione   (31). Con questo non si intende affermare l'equivalenza del significato di imparzialità con riguardo ai due poteri, ma solo sottolineare che in entrambi i casi si pone la necessità che non si operino favoritismi o discriminazioni, che è il profilo dell'imparzialità che accomuna l'esercizio delle due funzioni, ferma restando la sussistenza di valenze ulteriori che sono peculiari di ognuna: in particolare la terzietà per la funzione giurisdizionale, il perseguimento di un interesse pubblico specifico per la funzione amministrativa.

Consideriamo ad esempio, fra le situazioni di incompatibilità di cui all'art. 51 c.p.c., l'ipotesi della grave inimicizia  (32). Esistono dei motivi giuridici o di generale ragionevolezza per ritenere inapplicabile al funzionario amministrativo tale situazione conflittuale? La risposta della prevalente giurisprudenza è negativa  (33). Peraltro, i criteri mutuati dalla disciplina che regola l'astensione dei giudici sono stati applicati talvolta in modo ampliativo « talvolta in modo più restrittivo »  (34).

In altri casi, come in una recente sentenza del Tar Lombardia, insieme all'art. 97 Cost., il giudice ha evocato l'art. 78 del d.lgs. 267 cit., e, si noti, la controversia sul conflitto di interessi concerneva l'atto di un'università e quindi di un'amministrazione di tipo decisamente diverso da quella locale   (35). Per evitare inutili ‘acrobazie' in sede giurisprudenziale e per accrescere la certezza del diritto, pare opportuno l'inserimento di un'apposita norma all'interno della legge generale sul procedimento.

 4.L'art. 6-bis della l. n. 241 del 1990 quale norma di carattere generale: potenzialità e limiti.4

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L'art. 6-bis l. n. 241 del 1990 ambisce ad essere la norma di carattere generale sull'obbligo di astensione. Sotto il titolo « Conflitto di interessi » essa dispone l'obbligo per il responsabile del procedimento e per i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale, di astenersi in caso di conflitto di interessi e di segnalare ogni situazione di conflitto, anche potenziale. In assenza di una diversa indicazione normativa, la norma deve intendersi riferibile sia ai titolari di organi monocratici che ai titolari di organi collegiali. Risultano invece esclusi quei dipendenti che, pur coinvolti in modo indiretto nella elaborazione dell'atto, non sono titolari di funzioni esternamente rilevanti. Si pensi a coloro che, svolgendo un'attività di studio, sono potenzialmente in grado di influenzare in una qualche misura la valutazione del decisore: una loro inclusione sarebbe stata forse opportuna. Peraltro, si potrebbe far riferimento a un'estensione maggiore dell'obbligo di astensione da questo punto di vista secondo i principi generali elaborati da dottrina e giurisprudenza in base all'art. 97 Cost.

Sebbene il legislatore taccia, deve poi ritenersi che, come già sostenuto in passato   (36), all'obbligo corrisponda il diritto del funzionario ad astenersi dall'esercizio della funzione, senza incorrere nel reato dell'omissione di atto d'ufficio.

Si tratta invero di una disposizione alquanto scarna, che porta all'estremo le pur condivisibili esigenze di sintesi normativa e che lascia spazi ampi all'interpretazione, pur avendo il merito di attribuire carattere di generalità all'istituto de quo e di colmare una lacuna all'interno della legge che disciplina in via generale la funzione amministrativa e che richiama all'art. 1, tra i suoi principi ispiratori, l'imparzialità e l'efficacia.

Anzitutto, il legislatore non dà una definizione di conflitto di interesse e non delimita in particolare la natura dell'interesse che determina l'obbligo di astensione. In assenza di specifiche indicazioni   (37), è comunque da preferirsi una interpretazione, tale da includere nella fattispecie non solo gli interessi di carattere economico, invero spesso al centro dell'attenzione nel dibattito al riguardo, ma qualsiasi interesse diretto o indiretto idoneo a influenzare l'esercizio della pubblica funzione. Tale è l'orientamento espresso dalle cit. Linee guida dell'OECD, di cui si è già sottolineata la rilevanza, e anche quello sinora prevalso nella dottrina   (38) e nella giurisprudenza anteriori alla disposizione in esame   (39). Il Consiglio di Stato ha significativamente affermato che il conflitto d'interesse « comprende ogni situazione di conflitto o di contrasto di situazioni personali, comportante una tensione della volontà, verso una qualsiasi utilità che si possa ricavare dal contribuire alla adozione della delibera  »  (40). E ha ritenuto quindi incluso anche un interesse negativo, come quello di provocare un danno a terzi  (41).

Secondariamente, non si rinvengono nell'art. 6-bis indicazioni quanto alla possibilità di attribuire o meno rilevanza alla violazione dell'obbligo di astensione a seconda degli effetti in concreto prodotti. La disposizione non richiama requisiti analoghi a quelli del vantaggio o del danno di cui alla norma penale e questo induce a concludere che nel caso in esame essi non rilevino.

A proposito del conflitto potenziale, di quello apparente e delle relazioni soggettive rilevanti, si evidenzia quanto segue.

L'art. 6-bis considera oltre alla situazione di conflitto attuale, anche quella di conflitto potenziale, che comporta un obbligo di segnalazione, preliminare rispetto a una successiva eventuale astensione: classico il caso del responsabile acquisti che riceve e accetta un regalo di per sé lecito   (42) da un potenziale fornitore. Una situazione di potenziale conflitto è per esempio anche quella del docente che ha un figlio iscritto alla stessa facoltà in cui insegna. L'obbligo di segnalazione si collega alla necessità di una adeguata disclosure, che nella fattispecie sorgerebbe da una situazione contingente (c.d. ad hoc disclosure   (43)).

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Non si rinviene invece nell'art. 6-bis alcun riferimento al conflitto d'interessi cd. apparente, che ricorre quando ragionevolmente seppur erroneamente una persona esterna all'amministrazione potrebbe supporre che l'interesse primario del soggetto decisore possa venire compromesso da interessi secondari di varia natura. Si pensi ad esempio a un caso di omonimia tra il membro di una commissione di concorso e un candidato oppure al caso di un funzionario regionale il cui fratello intrattenga relazioni contrattuali con l'ente, ma con riguardo ad uffici del tutto distinti ed autonomi da quello in cui lavora il funzionario in questione. Sembra a riguardo comunque doveroso affermare che nella formula « ogni situazione di conflitto » rientri anche quello apparente. Non mancano precedenti giurisprudenziali   (44) e tale è la scelta operata a livello sovranazionale sia dal Consiglio d'Europa in una Raccomandazione diretta ai governi degli Stati membri  (45) sia dall'OECD, che ha individuato tre categorie di conflitto di interesse: quello effettivo (o reale), quello potenziale e quello apparente. Anche quest'ultima categoria di fattispecie richiede un intervento da parte dei pubblici poteri, in modo da evitare che sia minata l'immagine della pubblica amministrazione e quindi la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni.

Ulteriore aspetto problematico deriva dalla mancata delimitazione nell'art. 6-bis dell'insieme delle relazioni soggettive rilevanti per il sorgere di situazioni di conflitto d'interesse. Esiste un nucleo minimo a riguardo che è quello dei familiari e probabilmente dei conviventi del funzionario, ma al di là di questo si aprono spazi d'incertezza per esempio circa la definizione del grado fino a cui rilevano i rapporti di parentela e affinità. Nelle norme di settore si rinviene il riferimento ai legami di parentela di regola fino al quarto grado, mentre per l'affinità si è preso in considerazione a volte il secondo e a volte il quarto grado. Peraltro, vi possono essere altre relazioni rilevanti; quanto contano in questa prospettiva le frequentazioni abituali, i rapporti di amicizia/inimicizia o le appartenenze ad associazioni quali ad esempio partiti o sindacati? Sono interrogativi ai quali si può cercare di rispondere, anzitutto tenendo presente che la legge non pone limiti e che quindi nei casi dubbi sembra più in linea con il principio costituzionale dell'imparzialità, oltre che con la stessa scelta di intervenire da parte del legislatore, ampliare piuttosto che contrarre l'ambito di applicazione dell'art. 6-bis.

Invero si rinviene, come osservato, giurisprudenza che ha valorizzato le potenzialità dell'istituto, anche in assenza di una previsione legislativa. A maggior ragione una valorizzazione s'impone, beninteso nei limiti della ragionevolezza, oggi, in seguito all'introduzione nella legge generale sul procedimento della disposizione in esame.

Un ausilio a fini interpretativi viene comunque dal Codice di comportamento dei dipendenti pubblici. Quello vigente è successivo all'art. 6-bis e strettamente correlato alle novità introdotte con la l. n. 190   (46), quindi assai rilevante ai fini della presente analisi.

 5.Il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici e l'art. 6-bis: profili di integrazione.

Il dovere dei funzionari di servire la Nazione con «  disciplina e onore »  (47) nel rispetto dei principi di esclusività e imparzialità ha trovato una regolamentazione specifica (oltre che nella legge) nei codici di comportamento. La legge n. 190 del 2012 (art. 1, co. 44) ha riscritto l'art. 54 del d.lgs. n. 165 del 2001, base legislativa del Codice vigente, innovandone le modalità di adozione, la forza giuridica, le finalità e il contenuto minimo.

Sulla base di tale disciplina è stato emanato con d.p.r. 16 aprile 2013 n. 62 il nuovo Codice di comportamento  (48). Ad esso si debbono affiancare con funzione integrativa e di specificazione — sulla base di linee-guida adottate dall'Autorità anticorruzione — i codici di comportamento che ogni amministrazione è tenuta a emanare (art. 54 d.lgs. n. 165 del 2001 cit.)   (49).

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Va anzitutto rilevato che, tra i principi individuati all'art. 3 co. 2 del Codice, viene incluso l'obbligo di astensione in caso di conflitto di interessi, obbligo che coinvolge non solo il funzionario che svolge attività esternamente rilevanti come disposto dall'art. 6-bis, ma qualunque dipendente   (50). In questo modo viene in qualche misura superato un limite che segna, come rilevato, l'art. 6-bis della l. n. 241.

La disciplina dell'obbligo di astensione è contenuta negli artt. 6 co. 2 e 7   (51). Ivi viene specificata anzitutto la caratterizzazione in termini non meramente patrimoniali degli interessi giuridicamente rilevanti   (52). Infatti, il conflitto può riguardare interessi di qualsiasi natura e nascere anche «  dall'intento di voler assecondare pressioni politiche, sindacali e dei superiori gerarchici ».

Inoltre viene precisato l'insieme delle relazioni soggettive con il dipendente pubblico che assume rilevanza ai fini dell'operatività dell'obbligo di astensione, differenziando a seconda che a venire in rilievo sia l'adozione di decisioni e attività rientranti nelle mansioni o la mera partecipazione a decisioni altrui. Si tratta di un insieme molto ampio che comprende non solo conviventi, parenti e affini, ma anche persone con le quali il dipendente abbia rapporti di frequentazione abituale.

Come si può notare, si rinvengono nel Codice indicazioni utili per colmare le lacune dell'art. 6-bis. Ma a riguardo occorre interrogarsi sulle modalità attraverso cui il Codice di comportamento si correla con la disposizione in esame nonché sui rapporti tra il medesimo e i Codici di condotta adottati dalle singole amministrazioni.

A tal proposito si rileva che il legislatore attribuisce ai suddetti Codici una funzione integrativa e specificativa rispetto al Codice generale, al quale spetta di indicare « i doveri minimi di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta che i pubblici dipendenti sono tenuti ad osservare  » (art. 1, d.p.r. n. 62 del 2013). Quindi sembra doversi concludere a riguardo che il contenuto del Codice costituisce una sorta di standard minimo per le amministrazioni che possono ampliare ma non ridurre l'insieme dei doveri dei dipendenti  (53). Va anche osservato che una difformità di disciplina può talora sortire effetti negativi sul piano della parità di trattamento; si pensi al caso della individuazione delle situazioni soggettive rilevanti ai fini del sorgere dell'obbligo di astensione. Peraltro, nella fattispecie, la facoltà di integrare la casistica delle situazioni soggettive rilevanti appare vanificata dall'ampiezza della formulazione proposta dal Codice generale.

Quanto invece al rapporto tra legge e Codice, si rileva che tradizionalmente controversa è stata la natura così come la concreta efficacia dei Codici di comportamento   (54). In una prima fase — quella corrispondente alla vigenza del primo Codice adottato nel 1994 — aveva prevalso la tesi della natura meramente etica; si concludeva che il documento fosse sprovvisto di rilevanza giuridica in ragione della carenza di esplicite conseguenze in esito alla sua violazione. In una seconda fase — segnata dall'adozione di un nuovo Codice nel 2000 — se ne era riconosciuta invece per lo più la rilevanza giuridica, peraltro attribuendogli, seppur non senza incertezze, natura contrattuale per la prevista correlazione ai contratti collettivi  (55). Oggi, a seguito della modifica dell'art. 54 del d.lgs. n. 165 del 2001, ferma restando la rilevanza giuridica, è possibile al contrario affermarne, come subito si vedrà, la natura pubblicistica, rectius regolamentare.

L'incertezza, protrattasi a lungo, quanto alla natura dei Codici ha costituito indubbiamente uno degli elementi principali di ‘debolezza' degli stessi nel nostro ordinamento, ove invero il loro apporto è risultato, per comune valutazione, marginale persino nell'implementare l'etica del funzionario pubblico   (56).

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Questa, peraltro, non è una costante per i Codici di comportamento. É sufficiente ricordare che la disciplina del Regno Unito in materia di conflitto di interessi di coloro che rivestono cariche ministeriali è contenuta nel Ministerial Code del 2005, fonte non legislativa di carattere deontologico, senza che ciò abbia determinato una marginalità del ruolo svolto da tale atto. Di converso nonostante le raccomandazione dell'OECD circa l'opportunità di adottare Codici etici per i dipendenti pubblici, vi sono realtà come quelle di numerosi cantoni svizzeri riluttanti ad introdurli, ritenendoli inutili se non addirittura controproducenti   (57) forse anche perché i valori e le regole in essi contenuti sono piuttosto radicati in quella società.

Ritornando all'esperienza del nostro Paese, va comunque ora rilevato che nel nuovo art. 54 vi sono elementi che consentono di superare le precedenti incertezze, riscontrando una forza giuridica diretta derivante dal valore regolamentare del Codice.

Anzitutto il legislatore non fa più espresso riferimento all'acquisizione di efficacia del Codice attraverso il recepimento da parte dei contratti collettivi, ferma restando la previsione che esso debba essere «  consegnato al dipendente, che lo sottoscrive all'atto dell'assunzione ». Nel senso della forza giuridica diretta è anche a disposizione del nuovo art. 54 che configura come «  fonte di responsabilità disciplinare » la violazione dei doveri contenuti nel Codice, di tutti dunque, a prescindere dal fatto che il contratto collettivo consideri espressamente o meno la violazione stessa  (58). Inoltre, pur se l'argomento potrebbe ritenersi per sé solo non decisivo, deve darsi anche rilievo al fatto che l'atto con cui è stato emanato il Codice, cioè il d.p.r. n. 62 del 2013 cit. si autoqualifichi espressamente come regolamento e sia stato emanato ai sensi dell'art. 17 comma 1, l. n. 400 dell'1988, seguendo la procedura ivi prevista. D'altra parte, un Codice di comportamento quale quello in esame ben può essere configurato non in termini contrattuali. Infatti, spetta al legislatore definire gli spazi da lasciare alla disciplina contrattuale in materia d'impiego presso le pubbliche amministrazioni. È il caso di sottolineare come la scelta di ridurre l'area della contrattazione nel caso del Codice conferma un orientamento del legislatore espresso dalle riforme Brunetta del 2009 e, in materia disciplinare, dal d.lgs. n. 150 del 2009  (59), volto a tutelare, sia pur in un contesto di disciplina privatistica, i tratti di specialità del rapporto di impiego con le pubbliche amministrazioni   (60). In particolare, nella fattispecie, ai fini della responsabilità disciplinare viene approntato un sistema di doveri pubblici fissati unilateralmente che si affianca a obblighi privati individuati dalla contrattazione collettiva   (61).

Ciò premesso, il Codice nell'ampiezza delle sue formule senza dubbio impone anzitutto ciò che è già vincolante per legge (si pensi al divieto di ricevere regali salvo che di modico valore, indicato come contenuto necessario del Codice dallo stesso art. 54 del d.lgs. 165). Esso poi impone in certa misura anche qualcosa di più: si pensi all'inclusione di tutti i dipendenti e non solo di quanti sono titolari di funzioni esternamente rilevanti nell'insieme di soggetti tenuti all'astensione in caso di conflitto di interessi. Dunque, quando a proposito dell'art. 6-bis si è parlato di una lacuna con riguardo ai dipendenti che, pur coinvolti nella elaborazione dell'atto, non sono titolari di funzioni esternamente rilevanti, va precisato che non si tratta di una vera lacuna nel senso che l'ipotesi del conflitto di interessi per tali soggetti è contemplata normativamente, seppur a livello amministrativo.

Dove le fattispecie del Codice e della legge sono sovrapponibili, il Codice ha, e invero aveva già in passato, valenza interpretativa, andando ad esempio ad ‘imporre' un'interpretazione estensiva degli interessi rilevanti (v. art. 6 co. 2 cit.)  (62) oppure integrativa-specificativa, individuando le relazioni soggettive che valgono a far emergere una situazione d'interesse.

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Al di là di tale ambito, le disposizioni del Codice in tema di obbligo di astensione, che introducono fattispecie ulteriori rispetto a quelle individuate dalla legge — si pensi alla violazione dell'obbligo da parte di un dipendente sprovvisto di mansioni giuridicamente rilevanti — hanno sì valenza integrativa dell'art. 6-bis, stante la loro natura regolamentare, ma, in caso di mancata osservanza, le conseguenze sono diverse da quelle che si avrebbero nel caso di una violazione di legge. Dalla mera violazione del Codice   (63) deriveranno conseguenze di natura disciplinare, ma non anche gli effetti ricollegati dall'art. 6-bis alla violazione della legge, non in particolare l'illegittimità dell'atto. Chi non ha un ruolo formale nel procedimento, chi non incide sul processo decisionale, non può infatti influire direttamente sull'atto e sarebbe quindi irragionevole trarre conseguenze sul piano della validità dell'atto. Come caso limite si può ipotizzare un'influenza indiretta: si pensi al ruolo di un impiegato dell'ufficio studi che debba effettuare una ricerca e che selezioni alcuni dati invece di altri per proprio interesse. Nel caso di specie pare eccessivo far conseguire l'illegittimità dell'atto, ma altrettanto irragionevole non punire il dipendente che abbia operato nel proprio interesse.

 6.L'atto adottato in situazione di conflitto di interessi.

Si è detto che la violazione della legge determina l'invalidità dell'atto. Peraltro, il legislatore tace sugli effetti della violazione dell'art. 6-bis.

La collocazione dell'articolo all'interno della sezione dedicata al responsabile del procedimento, quindi nella parte della legge dedicata all'organizzazione, potrebbe essere letta come tale da proporre una valenza meramente organizzativa della norma. Ne deriverebbe che l'inosservanza potrebbe non riflettersi sull'atto, invalidandolo, mentre rileverebbe sempre sul piano disciplinare e amministrativo.

Peraltro, tale prospettazione appare poco convincente. Anzitutto è possibile contestarla sullo stesso piano formale, valorizzando la scelta del legislatore di collocare la disposizione all'interno della legge n. 241, che disciplina in via primaria l'azione amministrativa e interviene su profili di organizzazione nella misura in cui ciò risulti strettamente funzionale alla disciplina del procedimento. Non va poi trascurato il peso dell'opposta preesistente valutazione delle fattispecie d'incompatibilità nell'esercizio della funzione amministrativa, considerate tali da determinare l'invalidità degli atti adottati.

In passato la giurisprudenza prevalente ha invero assunto a riguardo un orientamento rigoroso.

E, si noti, l'orientamento è stato più rigoroso di quello espresso con riferimento agli atti giurisdizionali. La sentenza, infatti, ancorché emessa in violazione di un obbligo di astensione, è stata riconosciuta valida, in carenza di istanza di ricusazione, con qualche eccezione per i casi in cui il giudice avesse un interesse proprio e diretto nella causa  (64). Invece, con riguardo agli atti amministrativi la giurisprudenza non ha ritenuto necessaria per l'invalidità dell'atto la previa presentazione di un'analoga istanza   (65).

Se si affermasse dopo la nuova legge la non-invalidità, l'esito sarebbe quello addirittura di rovesciare la situazione, non potendosi certo introdurre analogicamente la logica della invalidità in caso di ricusazione.

In conclusione, deve ritenersi, che si applichino le regole generali in tema di invalidità degli atti amministrativi e in particolare l'art. 21-octies 1° comma della l. n. 241 del 1990 che disciplina l'annullabilità dell'atto illegittimo.

Da escludersi pare, invece, la più radicale conseguenza della nullità — ipotizzata in passato, sia pur raramente, per casi simili  (66) —, ma che postula oggi la sussistenza di una delle ipotesi indicate all'art. 21-septies, l. n. 241  (67). In tali ipotesi, considerate tassative dalla giurisprudenza  (68), non sembra poter

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rientrare la fattispecie in esame. Infatti, della mancanza di una espressa indicazione legislativa circa gli effetti della violazione già si è detto e non è certo su questa base che si potrebbe sostenere la tesi della nullità, così come irrilevante risulta qui l'ipotesi relativa al giudicato. Quanto alla nullità per difetto assoluto di attribuzione, si tratta di un'ipotesi da considerarsi estranea al caso in esame, perché ad essa vengono oggi ricondotte comunemente solo le fattispecie di incompetenza assoluta e di straripamento di potere, ma non quelle di cd. carenza di potere in concreto, «  nelle quali il potere sussiste in concreto in capo a quella determinata autorità, nel senso che ad essa è legislativamente imputato; ma nel concreto non sussistono i presupposti per il suo esercizio »  (69). La giurisprudenza successiva all'introduzione dell'art. 21-septies riconduce di regola la carenza di potere in concreto al cattivo esercizio del potere e quindi a una delle ipotesi di annullabilità di cui all'art. 21 octies  (70). Infine, quanto all'ipotesi di nullità per mancanza di un elemento essenziale, nonostante l'incertezza che caratterizza l'individuazione delle relative fattispecie (stante la permanente lacuna normativa in tema di elementi dell'atto amministrativo), la giurisprudenza è orientata a riconoscere la nullità laddove vi sia una carenza grave e immediatamente rilevabile dalla struttura dell'atto per la sua natura estrinseca  (71). Dagli elementi strutturali dell'atto andrebbero distinti i « requisiti di legittimità, i quali attengono invece al concreto svolgimento della funzione amministrativa sfociata nella determinazione provvedimentale, configurando quindi un'ipotesi di cattivo esercizio del potere, contro il quale è data la tradizionale azione di annullamento  »  (72). La violazione dell'obbligo di astensione non si traduce d'altra parte in una omissione attinente alla struttura dell'atto, ma concerne piuttosto la modalità di esercizio della funzione.

In generale va sottolineato che la tendenza della giurisprudenza è quella di considerare l'annullabilità quale conseguenza ‘normale' per i casi di difformità dell'atto dal modello legislativo e di configurare la nullità come sanzione eccezionale da riferirsi a un insieme di ipotesi tipizzate e tassative, in cui dunque non rientra la violazione dell'obbligo di astensione  (73).

Non si rinvengono perciò ragioni per negare continuità all'orientamento sinora espresso dalla giurisprudenza di far discendere dalla inosservanza dell'obbligo di astensione l'annullabilità dell'atto e non la sua nullità.

Nemmeno si ritiene poi che vi siano motivi per negare continuità alla giurisprudenza prevalente che ha sostenuto la tesi dell'invalidità con estremo rigore.

L'atto in passato è stato per lo più riconosciuto invalido a prescindere da ogni ulteriore valutazione, per esempio in ordine al fatto che il funzionario avesse proceduto in modo imparziale   (74) o con riguardo all'effettivo conseguimento di un vantaggio da parte di colui che aveva esercitato la funzione in posizione di conflitto d'interessi  (75), elemento rilevante, come già ricordato, in sede penale. L'atto è stato considerato illegittimo, anche se « nella specie la decisione [era] stata dannosa anziché vantaggiosa per il congiunto del consigliere comunale »  (76) che teoricamente avrebbe dovuto trarre beneficio dalla violazione dell'obbligo di astensione  (77).

Lo stesso dicasi, pur con qualche rara eccezione  (78), per l'ipotesi in cui il soggetto in conflitto di interessi non avesse cagionato un pregiudizio all'amministrazione pubblica  (79) e comunque avesse perseguito con il proprio anche e nel modo più opportuno il pubblico interesse  (80).

L'avvento dell'art. 6-bis non contiene in sè elementi nuovi atti a modificare tali posizioni. Oltretutto l'orientamento rigoroso della giurisprudenza ha saldi riferimenti dottrinali, in particolare a livello internazionale, dove il tema del conflitto d'interessi è stato molto studiato   (81). La principale argomentazione proposta per affermare che la mera violazione dell'obbligo — in assenza di diverse

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indicazioni normative — comporta automaticamente l'illegittimità dell'atto, si lega a una ragione pratica: invero può risultare arduo valutare in che misura la scelta del funzionario pubblico sia stata influenzata da interessi ‘altri', con l'esito di introdurre un elemento di soggettività in sostituzione di un criterio oggettivo ed univoco, che risponde all'esigenza di certezza del diritto. Un altro argomento almeno altrettanto rilevante attiene alla necessità di tutelare non solo la correttezza dell'agire amministrativo ma anche il prestigio della Pubblica Amministrazione. Il mero fatto che chi ha agito si trovasse in una situazione poco ‘limpida' fa scattare conseguenze sul piano dell'immagine dell'istituzione e della sua “dignità”. Detta immagine va tutelata, quale che sia l'esito in concreto della scelta amministrativa   (82). Infatti, in caso contrario, a essere minata è la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, obiettivo non meno importante dell'efficacia/efficienza dell'azione amministrativa. La fiducia dei cittadini nel potere è alla base della stessa esistenza di un ordinamento democratico, dell'idea di contratto sociale. Un comportamento contra legem merita una reazione in uno Stato di diritto.

Quest'ultima tesi sembrerebbe comportare, tra l'altro, l'invalidità anche per gli atti vincolati, malgrado il primo alinea del co. 2 dell'art. 21-octies. La questione richiede però un approfondimento a cui si procede nel successivo paragrafo.

(Segue) 7. Il caso degli atti vincolati.

Vanno ora considerati alcuni orientamenti giurisprudenziali e dottrinali precedenti alla novella legislativa in esame, secondo cui la violazione dell'obbligo di astensione nel procedimento amministrativo in determinati casi non produce effetti sull'atto. Ciò è avvenuto in particolare con riguardo agli atti vincolati e alle delibere degli organi collegiali.

Si tratta di verificare se qualcosa cambi a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 6-bis.

Si considerino anzitutto gli atti vincolati.

In passato, si è non di rado ritenuto illogico ipotizzare la rilevanza di un interesse privato conflittuale al quale sarebbe dovuto corrispondere astensione, in situazioni in cui non si possono introdurre interessi né tanto meno si può svolgere un'attività di ponderazione dei medesimi, perché tutto è stato predeterminato dal legislatore  (83).

Oggi, questa tesi trova un potenziale fondamento giuridico nell'art. 21-octies co. 2, primo alinea della l. n. 241 del 1990. Tale disposizione sancisce che a fronte di un atto vincolato il vizio di forma o di procedimento non comporta l'annullamento dell'atto, qualora sia palese che il risultato non sarebbe stato diverso. Il legislatore abbraccia espressamente dal 2005 — anno di entrata in vigore della disposizione citata — tesi sostanzialistiche, che cioè valorizzano il raggiungimento dello scopo, al fine di stabilire l'annullabilità o meno del provvedimento illegittimo.

La disposizione ha suscitato ampio dibattito in dottrina, divisa, in particolare, sulla relativa qualificazione in termini meramente processuali o anche sostanziali  (84). Non si intende ripercorrere in questa sede i termini di un dibattito invero assai articolato, ma si ritiene di dover respingere le tesi che correlano la non pronunciabilità dell'annullamento alla legittimità del provvedimento, poiché, come è stato dimostrato, si tratta di due profili tra loro scindibili.

Ciò premesso, esclusa immediatamente come priva di ogni fondamento logico l'ipotesi che la violazione dell'art. 6-bis sostanzi un vizio di forma, appare non irragionevole verificare se essa possa invece configurare un vizio di procedura. A riguardo si osserva che l'obbligo di astensione attiene certo al profilo

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funzionale. Peraltro, pur non trattandosi di norma meramente organizzativa per le ragioni già esposte, essa riguarda anche gli aspetti organizzativi direttamente correlati al profilo funzionale. Invero, in passato nella fattispecie de qua si è riconosciuto prevalentemente un vizio di incompetenza, in quanto vizio che attiene a tutte le anomalie relative all'elemento soggettivo  (85). Seguendo tale orientamento, non risulterebbe applicabile il co. 2 dell'art. 21-octies.

Peraltro, la disposizione, come rilevato, ha una valenza funzionale  (86) e potrebbero invero valorizzarsi quegli orientamenti che negano la riconducibilità al vizio dell'incompetenza delle ipotesi di violazione dell'obbligo di astensione  (87); in ogni caso, poi, si è manifestata in passato la tendenza, di cui si è detto, a non annullare l'atto vincolato adottato in conflitto di interessi. E allora ci si può chiedere, in un'ottica di amministrazione di risultato, se non sia ragionevole valorizzare la suddetta valenza funzionale, che consente l'applicazione dell'art. 21-octies co. 2 primo alinea e quindi la conservazione dell'atto che ha raggiunto il suo scopo  (88).

A ben vedere, seguendo questa via, il valore costituzionale dell'imparzialità dell'azione amministrativa non subirebbe alcuna menomazione. E anzi, l'aver fatto salvo l'atto, implementerebbe l'efficienza/efficacia amministrativa.

Va tuttavia osservato che, c'è un altro bene protetto dalla norma di cui all'art. 6-bis che merita comunque sempre una tutela. Si tratta dell'immagine della pubblica amministrazione, come già sottolineato. Infatti, chi ha agito in conflitto di interesse non solo ha violato la legge, ma ha anche in linea di principio determinato un danno all'immagine della pubblica amministrazione, minata in una qualche misura dal fatto che ad esempio un'autorizzazione sia rilasciata dal fratello dell'interessato, anche se si tratta di un atto vincolato e nel caso di specie la soluzione non avrebbe potuto essere diversa. Si è rilevato come la tutela dell'immagine si leghi strettamente alla fiducia nelle istituzioni e in ultima istanza al principio democratico. Si ribadisce perciò la necessità che l'ordinamento preveda delle reazioni a fronte di simili fattispecie.

Tali reazioni, peraltro, non necessariamente devono tradursi nell'annullamento dell'atto. L'annullamento non è l'unica misura possibile a fronte di un fenomeno di contrarietà alla legge, ben potendosi configurare nel nostro ordinamento misure diverse, quali potrebbero essere, per quanto qui rileva, l'obbligo del risarcimento del danno d'immagine cagionato alla pubblica amministrazione e l'irrogazione di sanzioni disciplinari  (89).

Deve invero distinguersi, come rilevato da attenta dottrina, il caso in cui la contrarietà alla legge «  ridonda in una invalidità, la quale giustifica una misura che colpisce l'atto, da quello in cui la medesima contrarietà non rileva sul piano attizio »  (90). E la fattispecie in esame sembra davvero configurare una delle ipotesi in cui la reazione dell'ordinamento più coerente con la natura dell'illecito, che non concerne il provvedimento in sé ma il comportamento, non è l'annullamento dell'atto — il quale dovrebbe infatti essere riadottato con i medesimi contenuti — bensì l'adozione di sanzioni nei confronti del soggetto che con la violazione ha commesso un danno, sanzioni che ben si possono ravvisare sul piano disciplinare, erariale ed eventualmente penale.

(Segue) 8. e il caso delle delibere degli organi collegiali.

Una questione particolare, che non viene presa in considerazione dall'art. 6-bis, concerne le ipotesi in cui il conflitto d'interesse riguarda uno o più membri di un organo collegiale. L'interrogativo centrale a riguardo è se la violazione dell'obbligo di astensione con la mera presenza si traduca automaticamente nell'invalidità

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dell'atto o se questo effetto si abbia solo nel caso di partecipazione alla discussione e di votazione con effetto determinante.

I precedenti legislativi e giurisprudenziali sono tutt'altro che univoci: il contenuto dell'obbligo di astensione all'interno degli organi collegiali ha assunto nella sporadica legislazione che si è succeduta nel tempo caratteri disomogenei  (91) e, in assenza di prescrizioni, la giurisprudenza e la dottrina hanno assunto posizioni diverse.

Accanto a posizioni minoritarie più rigoriste   (92), si rinviene come frequente — ricorrendo l'obbligo di astensione — la scelta di operare una distinzione tra presidente e altri membri del collegio. Per il presidente si ritiene che la mera presenza alla seduta renda l'atto invalido. Per gli altri membri, si afferma un orientamento dottrinale e giurisprudenziale, invero tutt'altro che pacifico, che considera invece legittimo l'atto, ancorché il soggetto in conflitto di interesse non solo abbia presenziato alla seduta, ma addirittura abbia votato, se la maggioranza prescritta per la delibera sarebbe stata comunque raggiunta anche senza il voto di tale soggetto, cioè se si sia superata la cd. prova di resistenza   (93), di regola alla ulteriore condizione che il soggetto non abbia partecipato alla discussione  (94).

La ratio della distinzione poggia sul fatto che il presidente in virtù del suo ruolo influenza comunque i lavori del collegio, il che non accadrebbe per gli altri membri, ferma restando la rilevanza di una loro partecipazione attiva alla discussione.

Questo approccio sostanzialista appare coerente con l'attuale tendenza del legislatore — espressa dall'art. 21-octies co. 2 cit. — a far salvi gli atti idonei a raggiungere lo scopo.

Tuttavia non si ritiene di poter condividere siffatto approccio.

Infatti, nel caso dell'atto vincolato si può sostenere che il legislatore con l'art. 6-bis abbia voluto occuparsi della illiceità della condotta, ma non abbia escluso e quindi abbia ammesso che l'atto si salvi, perché in presenza dell'art. 21-octies co. 2 c'è un fondamento normativo a cui agganciare la ‘salvezza' dell'atto, (naturalmente ove si accolga la tesi della qualificazione del vizio come violazione di legge). Invece manca un analogo fondamento normativo per il caso in esame e quindi il silenzio del legislatore all'art. 6-bis a riguardo va considerato in modo diverso.

In particolare, a fronte di posizioni dottrinali e giurisprudenziali non rigoriste, in cui si sostiene la tesi della validità dell'atto adottato da un collegio in cui è presente un membro in posizione di conflitto di interessi, non solo difetta una norma equivalente al 21-octies co. 2, ma nemmeno si può ritenere applicabile tale norma in via analogica. A riguardo va osservato che la clausola del 21- octies co. 2 si fonda sul giudizio dell'irrilevanza sull'atto del fatto illecito, ma non pare possibile sostenere analoga irrilevanza per il caso di specie. È infatti quanto meno discutibile — come è stato da tempo messo in evidenza   (95) — che la presenza ‘passiva' all'interno di un collegio di chi abbia un interesse nella vicenda discussa, non finisca per influenzare la discussione e quindi il voto degli altri membri del collegio. Il mero dato che un soggetto interessato sia presente (con un suo semplice sguardo o gesto) può falsare non solo la votazione, se palese, ma la stessa discussione dei partecipanti alla seduta  (96) (oltre che ovviamente incidere sulla formazione del quorum  (97)), tanto più quanto più si tratta, come spesso accade, di atti ampiamente discrezionali. Non per caso si rinvengono alcune disposizioni nell'ordinamento che impongono l'allontanamento dall'aula durante la trattazione degli affari per i quali sussista incompatibilità. Per questo motivo, perché sia garantita la regolarità della dialettica interna al collegio, si ritiene inaccettabile la tesi dell'applicabilità della cd. prova di resistenza.

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Alla luce delle considerazioni svolte circa la rilevanza del fatto illecito, viene meno la possibilità di un'applicazione analogica dell'art. 21-octies co. 2 e rimane il silenzio normativo. A questo punto risulta agevole sostenere a riguardo che il legislatore ubi voluit dixit, ma ha taciuto e quindi il rigore della formula dell'art. 6-bis resta inalterato.

 9.Il raccordo dell'art. 6-bis con la legislazione speciale vigente.

Resta infine da esaminare un'altra questione rilevante che si pone per effetto della nuova disposizione, vale a dire il rapporto con le norme speciali vigenti.

A riguardo risulta anzitutto necessario, in quanto emblematico, il riferimento a una delle più rilevanti norme vigenti in materia, ossia l'art. 78 del TUEL più volte cit., concernente gli amministratori degli enti locali. Di specifico interesse è il co. 2 che, anche se non esclude tout court, l'ambito di operatività dell'obbligo di astensione per gli atti normativi, ne prescrive l'applicabilità solo ai «  casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado  ». Inoltre lo stesso articolo individua in via generale le relazioni rilevanti al fine del configurarsi di un conflitto d'interessi: di nuovo, relazioni di affinità e parentela fino al quarto grado. Da un lato dunque l'art. 78 co. 2 individua delle limitazioni all'obbligo quanto a particolari tipi di atti, non previste dalla norma generale, dall'altro contiene indicazioni, di cui l'art. 6-bis è carente, quanto ai soggetti coinvolti dall'obbligo in questione.

Ci si deve dunque chiedere quale sia l'ambito di operatività di tale disposizione a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 6-bis in esame.

Il tema del rapporto tra le richiamate disposizioni, che ripropone il classico schema norma generale — norma speciale, è già stato affrontato proprio con riguardo al rapporto tra la l.n. 142 del 1990 (legge sul nuovo ordinamento degli enti locali trasfusa poi con modifiche nel TUEL) e la legge generale sul procedimento amministrativo, cosicché pare utile attingere alle soluzioni ivi elaborate   (98). A tal riguardo si rileva la tendenza a far salva la norma speciale anteriore tutte le volte in cui essa risponda a una ratio peculiare della fattispecie disciplinata oppure ponga uno standard di tutela del bene giuridico uguale o superiore a quello indicato dalla norma generale.

Si pensi all'individuazione dei rapporti di parentela e affinità fino al quarto grado come gli unici rilevanti al fine della configurabilità di un conflitto di interessi. Si tratta invero di una limitazione rispetto allo standard dell'art. 6-bis che, utilizzando un'espressione molto ampia, non pone a priori limiti soggettivi ai ‘legami' rilevanti. In effetti, le situazioni di conflitto d'interesse possono sorgere in relazione a rapporti ulteriori rispetto a quelli di affinità e parentela. Lo standard più elevato è quello della legge generale (anche secondo l'interpretazione che ne dà il Codice di comportamento) e non si rinviene un motivo per affermare che a livello locale non rilevi ad esempio un rapporto di convivenza.

Quanto alle più stringenti condizioni stabilite dall'art. 78 co. 2 per i regolamenti e gli atti generali — ossia l'esistenza di una “correlazione immediata e diretta” —, va invero osservato che una giustificazione a riguardo può ben rinvenirsi nella molto più elevata probabilità che in un contesto geografico limitato, ossia quello del Comune-tipo, l'amministratore abbia pressoché sempre un qualche generico interesse nella fattispecie su cui deve deliberare  (99), di talché potrebbe diventare difficile assicurare l'esercizio della funzione amministrativa con la necessaria continuità, se si imponesse l'astensione a fronte di situazioni in cui assuma « carattere soltanto eventuale e riflesso la “correlazione” tra la posizione del soggetto agente e le prescrizioni singole che di quel contenuto fanno parte  »  (100). Inoltre, il conseguente maggior pericolo

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che una scelta sia dettata da interesse personale può dirsi almeno in parte compensato da una maggior facilità di controllo sociale, che la stessa piccola dimensione della comunità locale certamente determina   (101).

Sembra dunque del tutto ragionevole ammettere che la norma speciale continui a dispiegare i propri effetti, per questo profilo.

Tra l'altro, va rilevato che l'orientamento della giurisprudenza anche successiva all'entrata in vigore dell'art. 78 co. 2 non è stato univoco, talora richiedendosi per il ricorso all'obbligo di astensione un interesse attuale e diretto  (102), ma in altri casi ritenendosi necessaria l'astensione al «  minimo sentore di conflitto di interessi »  (103), col risultato di aggravare il problema dell'adozione degli atti normativi e generali. Si è allora delineata la soluzione della nomina di un commissario, come previsto per le ipotesi di amministrazioni inadempienti  (104). Ma a riguardo la dottrina ha giustamente obiettato che «  i costi istituzionali sono.. assai rilevanti in quanto il commissariamento sottrae al circuito della decisione democratica e al suo controllo aspetti e momenti particolarmente rilevanti nella vita delle istituzioni locali  »  (105). L'istituto in esame pare invero adeguato nella misura in cui non viene ad alterare i meccanismi di rappresentanza politica e una interpretazione coerente con la necessità di salvaguardare tali meccanismi non può che essere preferibile.

Accanto alle incertezze della giurisprudenza e alle perplessità della dottrina si registrano soluzioni pragmatiche delle amministrazioni. Ci si riferisce in particolare all'escamotage, praticato in particolare nei Comuni di medie e ridotte dimensioni, di una votazione frazionata dei piani urbanistici o delle loro varianti, in cui di volta in volta gli amministratori in posizione di conflitto di interessi si astengono. A tali votazioni segue quella conclusiva di approvazione dell'atto nel suo complesso, cui partecipano anche i soggetti astenutisi. Questa soluzione è stata giudicata « ragionevole e realistica » dalla giurisprudenza recente e fatta propria con un parere positivo dallo stesso Ministero dell'interno   (106). Peraltro, essa non risulta provvista di alcuna copertura legislativa anche indiretta e quindi desta fondati dubbi di legittimità.

Nulla quaestio, poi, quanto alla prevalenza della norma generale successiva, che estende la disciplina a qualunque organo coinvolto nel procedimento, su quella speciale che ne limita l'applicabilità ai soli «  amministratori ». Come rilevato, si rinviene giurisprudenza che già in passato ha ritenuto, in base ai principi posti dall'art. 97 Cost., di dover estendere a tutti gli organi amministrativi la portata dell'obbligo in questione, nonostante il limite contenuto nella lettera della norma. La tesi dell'estensibilità dell'obbligo a tutti gli organi amministrativi s'impone dunque oggi a fortiori in virtù della generalizzazione operata dall'art. 6-bis.

Un accenno merita infine per la sua rilevanza anche la materia dei concorsi pubblici ove, come già osservato, il d.p.r. n. 487 del 1994 rinvia all'art. 51 del c.p.c. Anche in questo caso ci si può chiedere, se si debba mantenere come riferimento normativo la disciplina posta con la norma richiamata.

Nella fattispecie il prevalere della norma speciale precedente potrebbe forse trovare un fondamento nella peculiarità della materia: la funzione ‘giudicante' svolta dalla commissione di valutazione di una procedura concorsuale sarebbe la ratio sulla quale fondare tale conclusione. Sembra altresì possibile in siffatta prospettiva sostenere che nei casi ‘dubbi' la presenza dell'art. 6-bis operi come incentivo ad ampliare le fattispecie rilevanti ai fini dell'applicabilità dell'obbligo di astensione. Del resto la giurisprudenza ha talora teso a estenderne l'ambito di applicazione  (107), facendo leva sulla formula di chiusura dell'art. 51 c.p.c., la quale stabilisce che « in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza, il giudice può richiedere al capo dell'ufficio l'autorizzazione ad astenersi ».

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Peraltro, la stessa tensione quantomeno di una parte della giurisprudenza ad ampliare la casistica delle fattispecie rilevanti è sintomatica dell'esigenza di valorizzare l'istituto dell'astensione per accrescere la tutela dell'imparzialità e del buon andamento dell'amministrazione a cui è finalizzato. Sembra quindi preferibile sostenere una tesi interpretativa più in linea con l'accresciuta consapevolezza della rilevanza del conflitto di interessi e della necessità di porvi rimedio con il rigore, di cui la non solo l'art. 6-bis, ma l'intera legge n. 190 del 2012 è espressione. Tale tesi può fondarsi sul criterio sopra menzionato dello standard più elevato. Detto standard risulta espresso non dalla legge speciale, ma dall'art. 6-bis, che opta per l'atipicità delle fattispecie di conflitto di interessi. L'accoglimento di questa impostazione, in linea con i principi del nostro ordinamento, induce a ritenere superata la norma speciale più restrittiva nella individuazione dell'obbligo  (108).

 10.Questioni aperte.

L'introduzione dell'art. 6-bis nella legge n. 241 rappresenta un'evoluzione positiva del nostro ordinamento, essa conferisce formalmente portata generale all'obbligo di astensione del funzionario nell'esercizio della funzione amministrativa in caso di conflitto di interessi e porta con sé in particolare il vantaggio di una maggiore certezza del diritto, almeno per quel che concerne la vigenza dell'istituto.

La disposizione risulta, peraltro, ictu oculi carente, sia dal punto di vista dell'oggetto, non definendolo, sia dal punto di vista della disciplina e degli effetti, tacendo a riguardo. Si è ritenuto perciò necessario operare una ricostruzione interpretativa dell'istituto.

A tal fine, rispetto alla nozione di conflitto di interessi, nel silenzio della legge, si è tenuto conto dell'orientamento espresso a livello internazionale e in particolare dalle Linee guida dell'OECD, così come degli orientamenti prevalsi nella dottrina e giurisprudenza del nostro Paese precedenti all'art. 6-bis e si è proposta un'accezione ampia, inclusiva di qualsiasi interesse idoneo a influenzare l'esercizio della pubblica funzione, così come di ogni tipo di conflitto e quindi anche del conflitto apparente (sebbene la disposizione menzioni espressamente solo quello attuale e quello potenziale). Per quel che concerne poi l'ambito delle relazioni soggettive atte a determinare situazioni di conflitto si è ritenuto di poter trarre ausilio dal nuovo Codice di comportamento, caratterizzato da una valenza giuridica regolamentare e quindi idoneo a integrare il contenuto della legge.

Tuttavia, permangono le criticità derivanti dalla omessa considerazione dei modi attraverso cui conciliare il vincolo dell'obbligo di astensione con le esigenze di continuità e celerità dell'azione amministrativa, nel rispetto in particolare del dovere di concludere il procedimento entro un termine dato. Invero non dovrebbe trascurarsi nella disciplina dell'istituto la tensione che può insorgere tra principio di imparzialità e principio parimenti costituzionale di efficienza. Il problema risulta di particolare importanza laddove si ponga mente all'ampio spettro di interessi rilevanti, che non sono solo economici.

Ciò postula che si definisca in via preventiva a chi spetti all'interno dell'apparato esercitare il potere sostitutivo e, a monte, rilevare la sussistenza dell'obbligo. Va osservato che con riguardo a quest'ultimo profilo un'indicazione viene dal Codice di comportamento, ove dispone che «  Sull’astensione decide il responsabile dell'ufficio di appartenenza » (art. 7). Si potrebbe ipotizzare che al medesimo organo spetti l'individuazione di un sostituto, tuttavia questi potrebbe non disporre di personale adeguato all'interno dell'ufficio di cui è responsabile e allora nel silenzio delle norme appare necessario procedere altrimenti. Si può ad esempio considerare la possibilità che in presenza di un superiore gerarchico (ipotesi ormai marginale nel nostro ordinamento) o di un dirigente di livello superiore, sia questi a provvedere alla nomina del sostituto. Oppure, si può sostenere in base a una lettura sistematica della legge n. 190 che tale compito

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sia svolto dal responsabile della prevenzione della corruzione di cui all'art. 1 co. 7, al quale viene affidato un ruolo di vigilanza sul corretto funzionamento del piano anticorruzione e in particolare di alcuni meccanismi volti a prevenire la corruzione, come quello della rotazione degli incarichi in uffici dove, per il tipo di attività svolta, il rischio di corruzione è più elevato (art. 1 co. 10 lett.b).

Tuttavia, nel silentium legis la soluzione forse preferibile ci pare piuttosto il ricorso per analogia alla disciplina prevista dall'art. 2 co. 9-bis e 9-ter della l. n. 241 del 1990 per i casi di inerzia rispetto all'obbligo di conclusione del procedimento: si tratta infatti di una disciplina compiuta, a cui avrebbe ben potuto far rinvio lo stesso legislatore. In particolare viene attribuito all'organo di governo il compito di individuare nell'ambito delle figure apicali dell'amministrazione il soggetto a cui attribuire il potere sostitutivo e vengono indicate sia le modalità secondo cui l'azione sostitutiva si attiva, sia le conseguenze in caso di mancata ottemperanza.

Meglio comunque sarebbe stato che il legislatore avesse introdotto una norma espressa, anche solo di rinvio, a riguardo.

Peraltro, l'individuazione di un sostituto può divenire particolarmente complessa nel caso dei piccoli Comuni, dove le risorse umane sono scarse, sicché possono mancare in concreto soggetti esenti da situazioni di conflitto d'interesse. Nei piccoli Comuni, come noto, non solo l'ambito delle relazioni di affinità e parentela, così come di convivenza e amicizia tra amministrati e amministratori è spesso molto elevato, ma in aggiunta a ciò il legame di questi ultimi con gli interessi economici e non del territorio da amministrare assai frequente. Potrebbe addirittura verificarsi che all'interno di un organo collegiale i membri in conflitto di interesse siano in numero superiore a quelli sostituibili e il ricorso al commissario straordinario in sostituzione di un organo collegiale desta le perplessità a cui si è accennato. Non per caso è stata individuata e ‘legittimata' una soluzione pragmatica, qual è quella sopra richiamata, di consentire, dopo una votazione frazionata in cui di volta in volta gli amministratori in posizione di conflitto di interessi si sono astenuti, la partecipazione di tali soggetti alla votazione finale. Peraltro, il ricorso a un escamotage siffatto presta il fianco, come rilevato, a obiezioni sul piano della legittimità, posto che nessuna norma lo prevede e che esso dà luogo a standard di gestione degli interessi differenziati (il che sembra poco compatibile con i principi).

Una modalità per ridimensionare la portata del problema è la gestione associata da parte di più enti locali, che consente di ampliare la platea dei funzionari amministrativi che possono essere utilizzati ed è questa, opportunamente, la direzione indicata con sempre maggiore determinazione dal nostro legislatore   (109). Del resto, anche l'OECD per i casi in cui, come avviene nei piccoli Comuni, il conflitto non è occasionale bensì sistemico, suggerisce di non ricorrere al ‘recusal' bensì a misure organizzative che risolvano il problema alla radice  (110). « Ove, infatti, si ricorresse ad esso [al recusal] in modo generalizzato, si determinerebbe una sostanziale paralisi delle funzioni pubbliche di competenza del soggetto tenuto ad astenersi di continuo »  (111).

Ultima considerazione: tutto l'articolarsi del ragionamento sin qui condotto, muove dal postulato che porre norme giuridiche in tema di conflitto di interessi, tra cui quella sull'obbligo di astensione qui esaminata, sia un fatto da valutare positivamente. Peraltro, vi è chi sottolinea che il livello di corruzione (o la relativa percezione) è più elevato nei Paesi con una disciplina legislativa compiuta e puntuale piuttosto che in quelli che essenzialmente si affidano a norme etiche che poggiano su una tradizione di integrità   (112).

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Ma a riguardo è facile ribattere che proprio perché in certi Paesi tale tradizione è carente, risulta necessario moltiplicare gli sforzi, combinando l'intervento della legge con iniziative volte a promuovere un diverso atteggiamento culturale, un adeguato senso dell'etica nell'esercizio delle funzioni pubbliche.

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Rassegna di giurisprudenza amministrativa in tema di conflitto d’interesse

T.A.R. Abruzzo – Pescara – sez. I – sentenza 24 aprile 2014 n. 195

NOTA

La sentenza accoglie il ricorso e ritiene illegittimo il provvedimento di annullamento in autotutela della procedura di gara relativa all’affidamento dei servizi di supporto delle mense scolastiche, motivato dal fatto che il figlio del Responsabile Unico del Procedimento (Rup) si trovava alle dipendenze della società aggiudicataria. La Sezione ritiene, in particolare, inapplicabile al caso la norma, invocata dalla stazione appaltante, di cui all’art. 6-bis, L. 7 agosto 1990 n. 241 e s.m.i., inserito dall’art. 1, co. 41, L. 6 novembre 2012 n. 190, che stabilisce che il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale, devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni eventuale situazione anche potenziale. Osserva il Collegio che “La presente fattispecie, come esattamente rilevato, attiene al campo dei contratti pubblici che ha la sua specifica normativa negli artt. 10 d.lgs. n. 163/2006 e 272-273 Dpr n. 207/2010. Nella procedura ad evidenza pubblica, ogni potere decisionale spetta alla Commissione giudicatrice di cui non fa parte il Rup che ha una posizione di supporto esterno, senza alcuna effettiva incidenza né in fase istruttoria, né in quella decisionale; in ragione di ciò, non si può configurare, neppure in via potenziale ed ai sensi dell’art. 6-bis l. n. 241/1990, alcun conflitto d’interessi proprio per i compiti del Rup, che sono limitatissimi (indicazione dei dati numerici per determinare l’importo a base d’asta), del tutto preliminari, né sono stati oggetto di contestazione alcuna. Ad ulteriore conforto di quanto ritenuto vi sono i verbali di gara che attestano in modo in equivoco la non presenza del Rup e come ogni decisione è stata presa dalla Commissione di gara.”.

FATTO

Viene impugnata la determinazione n. 99/18.11.2013 del comune di Pescara (affidamento dei servizi di supporto nelle mense scolastiche 2013/17), il suo avviso del 22.11.2013, nonché agli atti pregressi indicati in ricorso, con declaratoria dell’avvenuta aggiudicazione in favore della soc. CIR Food, con l’eventuale riapertura delle operazioni di gara ancora da espletare in punto di congruità dell’offerta. Si chiede, altresì, la caducazione della eventuale nuova gara e la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla società.

La causa dell’annullamento, ex art. 21nonies l. n. 241/90, è nel fatto che il figlio del Responsabile Unico del Procedimento (Rup) sia alle dipendenze della Cir e/o società collegata, che avrebbe svolto le sue funzioni presso il centro di Montesilvano fino al 30.06.2013.

La ditta ricorrente sostiene la totale ininfluenza della circostanza, sia perché la ditta non era affatto a conoscenza di ciò, avendo circa 11000 dipendenti in tutta Italia, sia perché Paolo Di Crescenzo, quale Rup, non ha ricoperto alcun ruolo attivo nell’assegnazione, essendosi limitato a determinare l’importo base d’asta; il figlio Angelo, a sua volta, è un semplice magazziniere (livello sesto super) che comunque passerebbe, in caso di aggiudicazione ad altra società, alle dipendenze della stessa, come da CCNL (comparto turismo) e da capitolato speciale d’appalto(art.10).

L’annullamento, pertanto, sarebbe del tutto ingiustificato, facendosi errata applicazione dell’art. 6-bis l. n. 241/90.

DIRITTO

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In via preliminare, trattandosi di annullamento dell’intera gara, senza scorrimento della graduatoria, non ha senso parlare di contro-interessati, poiché gli effetti negativi, immediati e diretti, sono unicamente per l’aggiudicatario; gli altri partecipanti, invero, se hanno interesse a conservare la loro posizione, avrebbero dovuto impugnare anch’essi l’atto di annullamento.

L’eventuale possibile ripetizione della gara, si prospetta come aspettativa di mero fatto, del tutto irrilevante ai fini del contraddittorio e/o della sua integrazione.

Superata l’eccezione d’inammissibilità e/o d’improcedibilità, va esaminato il merito della vicenda.

Il problema della regolarità della gara per un possibile conflitto d’interessi, sollevato da un consulente di altra ditta non aggiudicataria, concerne un rapporto di parentela tra un soggetto, appartenente all’Amministrazione comunale, incaricato come Rup nella procedura di appalto, ed un dipendente della ditta risultata vincitrice, che risulta essere figlio del primo.

Una volta verificata la sussistenza del segnalato rapporto personale esistente tra il responsabile del procedimento ed il magazziniere della ditta aggiudicataria, s’impone per l’Amministrazione il problema di valutare in concreto la rilevanza della circostanza, atteso che, essendo mancata ogni preventiva segnalazione di un tale eventuale conflitto potenziale, non è stato possibile sostituire il Rup.

Il Segretario generale del Comune ha, infatti, richiesto una dettagliata relazione che analizzasse ogni singolo passaggio della procedura. In essa, si fa presente che trattasi di un appalto ripetitivo che si svolge dal 2004/2005: medesime prestazioni, stesse strutture scolastiche, stesse tipologie di lavoratori, capitolati d’appalto immutati, salvo le innovazioni normative e di clausole. Dal 2007 vi è sempre il medesimo Rup che, che essendo anche Responsabile del Servizio Ristorazione (Rss), si limita “a corredare i vari capitolarti d’appalto dei dati numerici ed economici necessari per determinare l’importo a base d’asta” ed ha definito in n. 152 ore giornaliere il monte orario lavorativo delle n. 22 cuoche, quale stima del fabbisogno prefigurabile per la durata dell’appalto quadriennale.

La relazione pone in evidenza che non si comprende quale sarebbe, sul piano logico-razionale, l’incidenza del conteggio del personale a 35 ore sul progetto, che non risulta essere affatto indicato nella nota che ha sollevato il conflitto d’interesse in modo del tutto astratto e generico.

Quel che va rilevato sul piano oggettivo, è che il dipendente del Comune è stato nominato Rup in quanto Rss ed in base alla sua esperienza pluriennale; il di lui figlio è un magazziniere, di livello sesto super, della ditta e che comunque conserverebbe tale posizione presso qualsiasi altra ditta aggiudicataria per norma contrattuale (art. 329 Ccnl) e di capitolato d’appalto (delibera G.M. n. 297/2014, art.5) e di quello speciale allegato al bando (art.10). Quella del magazziniere é una posizione di coordinamento tecnico esecutivo ed ha una sua autonoma tutela di continuità del servizio, che prescinde da ogni dipendenza attuale e/o futura.

Il dato normativo cui si fa riferimento sono gli artt. 6 e 6-bis, inserito dall’art. 1, comma 41 l. n. 190/2012, che stabiliscono come il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale, devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni eventuale situazione anche potenziale.

La norma, che prevede una notevole ampiezza di compiti, stabilisce un obbligo d’astensione da parte del dipendente pubblico, mentre nessuna preclusione di partecipazione alla gara vi è per la ditta che, da parte sua, non è tenuta a verificare alcunché, potendo ignorare la parentela esistente e che comunque non avrebbe alcun altro mezzo per eliminare l’ostacolo, se non il licenziamento del proprio subordinato. La

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disposizione esprime un principio generale dell’attività amministrativa, che implica tutta una seria di compiti da parte del Rup, con una puntuale indicazione della sfera delle situazioni di conflitto d’interesse.

La presente fattispecie, come esattamente rilevato, attiene al campo dei contratti pubblici che ha la sua specifica normativa negli artt. 10 d.lgs. n. 163/2006 e 272-273 Dpr n. 207/2010.

Nella procedura ad evidenza pubblica, ogni potere decisionale spetta alla Commissione giudicatrice di cui non fa parte il Rup che ha una posizione di supporto esterno, senza alcuna effettiva incidenza né in fase istruttoria, né in quella decisionale; in ragione di ciò, non si può configurare, neppure in via potenziale ed ai sensi dell’art. 6-bis l. n. 241/1990, alcun conflitto d’interessi proprio per i compiti del Rup, che sono limitatissimi (indicazione dei dati numerici per determinare l’importo a base d’asta), del tutto preliminari, né sono stati oggetto di contestazione alcuna. Ad ulteriore conforto di quanto ritenuto vi sono i verbali di gara che attestano in modo in equivoco la non presenza del Rup e come ogni decisione è stata presa dalla Commissione di gara.

Significativo è anche il fatto che il consulente di una delle aziende concorrenti, non aggiudicatarie, si sia limitato a fare una tardiva segnalazione postuma, senza che nessuna di tali ditte abbia ritenuto di dover impugnare l’aggiudicazione, né eventualmente il bando di gara.

Con l’annullamento, il Comune ha ritenuto di dover fare una rigorosa quanto astratta applicazione dell’art. 6-bis citato, sul presupposto che il Rup si sarebbe dovuto comunque astenere pur non avendo preso parte attiva alla procedura, rimettendo ogni decisione alla Commissione aggiudicatrice.

L’annullamento d’ufficio appare essere una soluzione estrema ed abnorme della cd. mera legalità, rispetto a quella che doveva essere un’attenta e ponderata analisi critica della fattispecie, in considerazione del concreto svolgimento della gara e dell’avvenuta aggiudicazione, evidenziando il reale interesse pubblico.

Le regole in punto di anticorruzione (l. n. 190/12) hanno a presupposto la violazione effettiva, da parte del dipendente, di un suo puntuale obbligo di condotta e la mancanza di trasparenza ed imparzialità nella procedura d’appalto, che nessuna delle ditte concorrenti ha mai sollevato, né in concreto la stessa Amministrazione ha saputo indicare, rilevando anzi la posizione esterna e di mero supporto del Rup, nonché la standardizzazione della stessa gara in base ai precedenti dal 2007 in poi.

La potenziale situazione di conflitto d’interesse non significa dare valore decisivo ad ogni osservazione strumentale, ma deve essere sempre verificata una valida ragione d’incompatibilità che possa inficiare in modo visibile il buon andamento della P.A..

Nel caso in esame, la procedura di gara si è conclusa con l’aggiudicazione e non ha senso parlare di un intervento di prevenzione ante-corruttiva, né in punto l’Amministrazione e le ditte partecipanti hanno sollevato alcunché, limitandosi a porre un dubbio a mezzo di un consulente di una delle società partecipanti.

Il Comune potrà per l’avvenire separare il Rss dal Rup, ma dire che l’annullamento d’ufficio è stato doveroso solo perché con la ditta aggiudicataria vi lavora in posizione esecutiva un parente del dipendente pubblico, appare eccessivo, proprio in considerazione della verificazione fatta e non potendo imputare al medesimo alcunché di irregolare e/o poco lineare, essendosi limitato a fare un adempimento preliminare (indicazione dei dati numerici ai fini della formulazione dell’offerta), sulla cui rilevanza nessuna ditta ha sollevato un’espressa censura.

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La difesa del Comune sostiene che non sarebbe decisivo il fatto che non vi sia stata alcuna alterazione della gara, ma trattasi di una tesi che cade nella retorica della mera legalità, senza alcuna parvenza di fondamento e con grave danno dell’interesse pubblico concreto.

La cd. ottica preventiva dell’anticorruzione non può trasmodare in un uso strumentale ed improprio in mano alle ditte perdenti; la non influenza, nel caso di specie, dell’art. 6-bis l. n. 241/1990, toglie rilevanza all’eccezione di costituzionalità sollevata, in via subordinata, da parte ricorrente nella memoria depositata in data 1.4.2014.

Sul piano risarcitorio, trattandosi, in via teorica, di un’ipotesi di astensione da parte del dipendente pubblico, la richiesta sarebbe plausibile e fondata, ma il regime di proroga tecnica in favore della Cir e l’accoglimento del gravame, con la riviviscenza dell’atto annullato, vengono ad elidere ogni danno eventuale per equivalente, che stessa parte ricorrente pone come soluzione alternativa alla reintegrazione in forma specifica.

Il ricorso è accolto per la parte impugnatoria.

Le spese di causa seguono la soccombenza

Il dovere di astensione riguarda anche chi è chiamato ad espletare compiti di natura gestionale, ai sensi dell'art. 6 bis della l. n. 241/90, aggiunto dal comma 41 dell'art. 1, l. 6 novembre 2012 n. 190 (cosiddetta legge anticorruzione) - secondo il quale "il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale"-; il legislatore ha per tal via coniato un canone di generale applicazione, che postula ineludibili esigenze di imparzialità, trasparenza e parità di trattamento; l'alveo applicativo di tale principio va ricondotto alle determinazioni dal contenuto discrezionale, che implicano quindi apprezzamenti di stampo soggettivo che ben possono, anche solo in astratto, essere condizionati dal fatto che chi concorre all'adozione dell'atto versa nella vicenda un interesse personale, ma non anche quando l'atto si fondi sulla oggettiva verifica di requisiti, presupposti o condizioni predeterminati da rigide previsioni normative.

Fatto

Con ricorso notificato il 26 febbraio 2013 e ritualmente depositato in pari data, la Sig.ra Ca. Ga., dipendente del Comune di Salerno, impugna la delibera, meglio distinta in epigrafe, con la quale l'Amministrazione ha disposto la sospensione dei provvedimenti di stabilizzazione del personale precario, con conseguente interruzione del rapporto di lavoro e della relativa retribuzione. Premette che ha prestato servizio presso l'Ente sin dal 2000 sulla base di plurime convenzioni, succedutesi nel tempo, fino all'intervento del provvedimento di stabilizzazione a seguito di una procedura selettiva per la verifica della idoneità professionale dei candidati alla copertura dei posti disponibili (delibera di G.M. n. 813 dell'11.07.2008), con conseguente stipula del contratto di lavoro risalente ad oltre quattro anni fa. Avverso la delibera impugnata, che trae fondamento nei rilievi sollevati dalla Procura regionale della Corte dei Conti circa la legittimità della procedura di stabilizzazione a suo tempo attivata, il ricorrente solleva, sotto plurimi e concorrenti profili, i vizi della violazione di legge e dell'eccesso di potere, lamentando quanto segue: l'atto non sarebbe preceduto dal necessario avviso di avvio procedimentale nelle forme dell'art. 7 l.n. 241/90,

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non emergendo esigenze di urgenza tali da giustificare la pretermissione di tale diaframma dialogico; non sussisterebbero i presupposti per l'applicazione dell'art. 21 quater l.n. 241/90 laddove disciplina il potere dell'Amministrazione di sospendere l'efficacia degli atti amministrativi; nemmeno sussisterebbero gli estremi per l'esercizio del potere cautelare, non essendo tra l'altro previsto che l'accertamento contabile della Corte dei Conti sia presupposto per la sospensione del rapporto di impiego; non sussisterebbero i profili di illegittimità della procedura di stabilizzazione essendo essa avvenuta in applicazione di una norma di legge speciale (art. 1, comma 558, L. 296/2006) e sulla base dello svolgimento di prove selettive; l'Amministrazione avrebbe omesso di valutare la possibilità di conversione della procedura di stabilizzazione in quella contemplata dall'art. 1, comma 560, L.n. 296/2006. Il ricorrente conclude pertanto per l'annullamento dell'atto impugnato.

Il Comune di Salerno si costituisce in giudizio al fine di resistere.

Alla Camera di Consiglio del 28.03.2013 la domanda di sospensiva è accolta.

Con gravame integrativo, notificato il 27 novembre 2013 e ritualmente depositato in pari data, la Sig.ra Ca. Ga. impugna la sopravvenuta delibera di Giunta Municipale del Comune di Salerno, meglio distinta in epigrafe, con la quale l'Ente ha disposto l'annullamento della delibera di G.M. n. 813/2008 di stabilizzazione presso l'Ente del personale precario.

Avverso tale delibera, emessa a seguito di procedimento di autotutela d'ufficio dopo la revoca dei sequestri cautelari disposti dalla Corte dei Conti sui beni del precedente Direttore del Personale e di gran parte degli attuali componenti della Giunta comunale di Salerno, il ricorrente solleva, sotto plurimi e concorrenti profili, i vizi della violazione di legge e dell'eccesso di potere, lamentando quanto segue: 1) il Responsabile del Procedimento e cinque componenti della Giunta avrebbero dovuto astenersi perché coinvolti nel procedimento contabile presso la Procura della Corte dei Conti; 2) la delibera impugnata non si fonderebbe sull'accertamento negativo circa la sussistenza di un rapporto di subordinazione di fatto, ancorché riconosciuto nel provvedimento di stabilizzazione e non escluso dalla stessa Corte dei Conti; inoltre, la delibera n. 813/2008, per il suo carattere transattivo, non sarebbe annullabile per errore di diritto ex art. 1969 c.c.; 3) sarebbero infondate le contestazioni sollevate dalla Corte dei Conti essendo riservata alla p.A. la stabilizzazione del personale precario, sulla base di un potere di accertamento dei relativi presupposti, ed in considerazione del superamento delle prove selettive alle quali il ricorrente è stato comunque sottoposto; 4) l'ampio intervallo temporale (circa quattro anni) decorso dalla disposta stabilizzazione non consentirebbe di procedere all'autotutela d'ufficio, non ricorrendo un interesse pubblico in re ipsa; 5) l'Amministrazione si sarebbe sottratta all'obbligo di valutare la possibilità di rimuovere i vizi della procedura prima di annullare gli atti della procedura, anche mediante la conversione del titolo giuridico di stabilizzazione in tempo determinato ex art. 1, comma 560 della L. 296/2006, anche in considerazione della sopravvenienza normativa costituita dalla L. 125/2013 che avrebbe riaperto i termini per la stabilizzazione; 6) non avrebbero fondamento, infine, i rilievi sollevati dalla Procura erariale con riferimento alla specifica posizione del ricorrente, non richiedendosi in materia di stabilizzazione la corrispondenza tra profilo professionale, oggetto del rapporto convenzionale, e profilo lavorativo nella dotazione organica dell'Ente, e configurandosi in concreto il requisito di anzianità triennale.

Il Comune di Salerno, con memoria di controdeduzioni del 10 dicembre 2013, contesta la fondatezza dei plurimi rilievi sollevati con detto gravame integrativo.

Alla camera di consiglio del 18 dicembre 2013, la domanda cautelare è accolta.

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Alla pubblica udienza del 30 gennaio 2014, il ricorso e i relativi motivi aggiunti, sulle conclusioni delle parti costituite, sono trattenuti in decisione.

Diritto

I. Va preliminarmente accolta l'eccezione di improcedibilità del ricorso introduttivo, proposto avverso la deliberazione n. 43 del 15.2.2013, di sospensione dei provvedimenti di stabilizzazione del personale precario presso il Comune di Salerno, essendo tale atto ormai superato dalla successiva deliberazione di annullamento, quale atto terminale del procedimento di autotutela attivato dalla Giunta Municipale. La ricorrente, infatti, non potrebbe trarre alcun concreto vantaggio dall'ipotetico annullamento del suddetto provvedimento cautelare, trasferendosi il profilo di interesse di parte alla contestazione del successivo atto dagli effetti repressivi della procedura di stabilizzazione.

Il ricorso introduttivo è conclusivamente da dichiarare improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.

II. Il gravame integrativo è fondato.

II. 1 Col primo mezzo parte ricorrente lamenta, inter alia, la violazione dell'art. 6 bis della l.n. 241/90, dalla quale conseguirebbe l'alterazione del principio di imparzialità consacrato dall'art. 97 della Carta costituzionale. Secondo la ricorrente, sia il Dirigente del Settore Personale che cinque membri della Giunta avrebbero dovuto astenersi dalla decisione siccome interessati alla rimozione degli atti di stabilizzazione per esigenze difensive connesse al coinvolgimento nel giudizio contabile.

La censura, ad avviso del Collegio, coglie nel segno.

Non vi è dubbio che il canone dell'imparzialità dell'azione amministrativa assume un ruolo pregnante nell'informare l'operato della pubblica Amministrazione, costituendo diretta derivazione del principio costituzionale consacrato dall'art. 97 della Costituzione, tanto che parte della giurisprudenza ritiene che vada al di là delle fattispecie circostanziate e tipizzate di cui all'art. 51 c.p.c.. Si osserva infatti, in sede pretoria, che "Il dovere di astensione è funzionale al principio di imparzialità della funzione pubblica che ha rilievo costituzionale ex art. 97 Cost., che deve orientare l'interprete ad un'applicazione ragionevole della disposizione di cui all'art. 51 c.p.c., rifuggendo da orientamenti formalistici e riconoscendo invece il giusto valore a quelle situazioni sostanziali suscettibili in concreto di riflettersi negativamente sull'andamento del procedimento per fatti oggettivi di anche solo potenziale compromissione dell'imparzialità oppure tali da suscitare ragionevoli e non meramente strumentali dubbi sulla percepibilità effettiva dell'imparzialità di giudizio nei destinatari dell'attività amministrativa e nei terzi (circostanza che l'art. 51 c.p.c è parimenti volto a presidiare)" (cfr. T.A.R. Reggio Calabria, sez. I, 19 dicembre 2013, n. 731).

Il principio di imparzialità e terzietà dell'azione amministrativa abbraccia in primo luogo l'attività di competenza degli organi politici dell'ente locale, in quanto, come parimenti rilevato in giurisprudenza, "La regola dell'astensione dell'amministratore locale dalle deliberazioni assunte dall'organo collegiale trova applicazione in tutti i casi (ivi compresi gli atti di pianificazione generale del Comune), in cui il medesimo, per ragioni di ordine obiettivo, non si trovi in posizione di assoluta serenità rispetto alle decisioni da adottare, di natura discrezionale; il concetto di "interesse" ricomprendendo ogni

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situazione di conflitto o di contrasto di situazioni personali, comportante una tensione della volontà verso una qualsiasi utilità che si possa ricavare dal contribuire all'adozione di una delibera" (cfr. T.A.R. Roma Lazio sez. II, 09 aprile 2013, n. 3597). Così pure si osserva che "L'obbligo di astensione dei consiglieri comunali per conflitto di interessi unisoggettivo (cioè facente capo al medesimo consigliere) o plurisoggettivo, trova fondamento nei principi costituzionali di legalità, imparzialità e trasparenza dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), essendo finalizzato ad assicurare e mostrare nei confronti di tutti gli amministrati l'oggettività, efficacia ed efficienza delle scelte amministrative discrezionali; tale obbligo costituisce regola di carattere generale, che non ammette deroghe ed eccezioni e ricorre, quindi, ogni qualvolta sussiste una correlazione diretta ed immediata fra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della deliberazione, pur quando la votazione non potrebbe avere altro apprezzabile esito e quand'anche la scelta fosse in concreto la più utile, la più vantaggiosa e la più opportuna per lo stesso interesse pubblico. Il dovere di astensione degli amministratori vale, dunque, a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia dell'Amministrazione, scattando, perciò, a fronte di situazioni di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi in cui sussistano condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo l'assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell'ente stesso" (cfr. T.A.R. Trento Trentino Alto Adige sez. I, 07 novembre 2012, n. 326).

Ma il dovere di astensione riguarda anche chi è chiamato ad espletare compiti di natura gestionale, statuendo l'invocato art. 6 bis della legge n. 241/90, aggiunto dal comma 41 dell'art. 1, L. 6 novembre 2012, n. 190 (cosiddetta legge anticorruzione), che "Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale". Il legislatore ha per tal via coniato un canone di generale applicazione che postula ineludibili esigenze di imparzialità, trasparenza e parità di trattamento. Non può invero non evidenziarsi che l'alveo applicativo dei menzionati principi vada ricondotto alle determinazioni dal contenuto discrezionale, che implicano quindi apprezzamenti di stampo soggettivo che ben possono, anche solo in astratto, essere condizionati dal fatto che chi concorre all'adozione dell'atto versa nella vicenda un interesse personale, ma non anche quando l'atto si fondi sulla oggettiva verifica di requisiti, presupposti o condizioni predeterminati da rigide previsioni normative. Orbene, ritiene il Collegio che la condizione di soggetto coinvolto nel giudizio contabile nella veste di presunto responsabile di danno erariale sia destinata ad inficiare la necessaria serenità di giudizio ai fini dell'adozione di un atto che trova la sua principale ragione giustificativa proprio nella esigenza di rimuovere la "fonte di grave danno erariale passato, presente e futuro" (cfr. deliberazione di G.C. n. 271 del 19 luglio 2013). Tale dimensione teleologica dell'atto postula pertanto quell'atteggiamento psicologico del danneggiante che avverte l'impulso di attivarsi per far cessare la situazione di illiceità che si sia cagionata e sia suscettibile di produrre ulteriori conseguenze pregiudizievoli, pena altrimenti la dilatazione incontrollata del danno che potrebbe dover essere risarcito. Infatti dall'adozione dell'atto impugnato non possono che discendere effetti benefici nella sfera giuridica degli incolpati, in quanto, col travolgimento del rapporto di lavoro si avrebbe la immediata cessazione della corresponsione degli emolumenti in favore dei dipendenti stabilizzati, esborso che costituisce appunto la fonte del danno erariale ipotizzato a loro carico. In tale condizione soggettiva risultano versare ben cinque componenti dell'organo giuntale (Ev. Av., Do. De Ma., Ge. Ca. [per vero assente alla votazione], Lu. Ca., Fr. Pi.) e lo stesso Direttore del Personale Lu. Cr.. Non vale a superare la fondatezza del rilievo quanto osservato dalla difesa comunale dell'estraneità di quest'ultimo alla procedura

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di stabilizzazione per essere intervenuto nelle predette funzioni soltanto successivamente, in quanto spetta al giudice contabile la disamina delle singole posizioni ascrivibili a ciascun soggetto incolpato, nel cui novero allo stato figura anche il Cr.. Né assume l'auspicato rilievo il fatto che la deliberazione impugnata sia sostenuta dal voto degli altri componenti della Giunta estranei al giudizio contabile, atteso che " Il dovere di astensione degli amministratori locali sussiste in tutti i casi in cui essi versino in situazioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano anche solo potenzialmente idonee a minare l'imparzialità dei medesimi ed opera indipendentemente dalla cd. "prova di resistenza" del voto, in quanto la semplice partecipazione alla seduta in posizione di conflitto o incompatibilità può influenzare il voto degli altri componenti del consesso" (cfr. T.A.R. Roma Lazio sez. II, 09 aprile 2013, n. 3597). Non resta che rilevare, accedendo alle precise coordinate della vicenda di causa, che la deliberazione odiernamente impugnata è stata assunta in sede di autotutela decisoria ed è pertanto frutto di una potestà repressiva di atti precedentemente emessi che è per sua natura intrinsecamente discrezionale, come confermato di recente dal Supremo Consesso, secondo cui "L'annullamento d'ufficio di un atto amministrativo è il risultato di un'attività discrezionale dell'Amministrazione e non deriva in via automatica dall'accertata originaria illegittimità dell'atto, essendo altresì necessaria la sussistenza di un interesse pubblico attuale al ripristino della legalità che risulti prevalente sugli interessi dei privati che militano in senso opposto". Del resto, secondo la disciplina generale del procedimento amministrativo, l'art. 21 nonies della L. 7 agosto 1990 n. 241 stabilisce che l'annullamento d'ufficio di un provvedimento amministrativo non può fondarsi sulla mera esigenza di ripristino della legalità violata, ma è necessario che sussistano precise e concrete ragioni di interesse pubblico (TAR Piemonte, sez. I, 23 luglio 2013, n. 905; Cons. Stato, sez. III, 30 luglio 2013 n. 4026), che nel caso di specie non sono state evidenziate nella motivazione dell'atto impugnato. Tanto più che la procedura di stabilizzazione annullata non ha potuto non ingenerare l'affidamento della ricorrente sulla legittima instaurazione del rapporto di lavoro in ragione del lungo lasso di tempo trascorso (circa quattro anni). Della natura discrezionale dell'atto in autotutela decisoria ha mostrato di avere contezza la stessa Amministrazione, attivando il necessario diaframma dialogico nelle forme dell'art. 7 della l.n. 241/90, al fine di consentire eventuali contributi del ricorrente. Pur potendosi astrattamente ritenere che l'interesse pubblico sussiste "in re ipsa", come opinato da recente giurisprudenza (T.A.R. Campobasso Molise sez. I, 25 novembre 2013, n. 684) in analoga fattispecie, trattandosi dell'interesse ad evitare un esborso di denaro a carico delle finanze pubbliche, la piattaforma valutativa include anche la possibilità di confermare il rapporto di lavoro in essere, peraltro instaurato da un notevole lasso di tempo (oltre quattro anni), facendo leva su previsioni normative diverse o sopravvenute, ed in particolare sull'art. 4, comma 6 quater L. 125/2013, come peraltro richiesto dallo stesso interessato nel corso del procedimento. Tale disposizione, infatti, prevede che "Per gli anni 2013, 2014, 2015 e 2016, le regioni e i comuni che hanno proceduto, ai sensi dell'articolo 1, comma 560, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, a indire procedure selettive pubbliche per titoli ed esami possono, in via prioritaria rispetto al reclutamento speciale di cui al comma 6 del presente articolo e in relazione al proprio effettivo fabbisogno e alle risorse finanziarie disponibili, fermo restando il rispetto delle regole del patto di stabilità interno e nel rispetto dei vincoli normativi assunzionali e in materia di contenimento della spesa complessiva di personale, procedere all'assunzione a tempo indeterminato, a domanda, del personale non dirigenziale assunto con contratto di lavoro a tempo determinato, sottoscritto a conclusione delle procedure selettive precedentemente indicate, che abbia maturato, alla data di entrata in vigore del presente decreto, almeno tre anni di servizio alle loro dipendenze negli ultimi cinque anni". La verifica dei presupposti applicativi dello jus superveniens non esorbita dal perimetro valutativo che

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compete all'Amministrazione, cospirando per la conservazione della stabilizzazione del personale precario già disposta con la procedura a suo tempo attivata.

La dedotta violazione del canone di imparzialità degli atti amministrativi consentirebbe già di ravvisare la divisata illegittimità della deliberazione impugnata, della quale quindi occorre disporre l'annullamento.

II. 2 Va tuttavia, in prospettiva conformativa, rilevata la fondatezza del secondo motivo di ricorso, col quale l'istante lamenta la mancata effettuazione dell'accertamento sulla natura subordinata del rapporto controverso. Va sul punto in primo luogo osservato che la procedura seguita dal Comune di Salerno per l'assunzione del ricorrente nel profilo di Istruttore Direttivo, Categoria D, ha previsto la sottoposizione della stessa ad una prova orale all'esito di una procedura selettiva indetta con avviso del direttore del Settore Personale. Invero, la stabilizzazione del ricorrente è avvenuta in espressa applicazione del combinato disposto degli artt. 1, comma 558. della l.n. 296/2006 e 3, comma 94, lett. b), l. 244/2007. La prima di tali statuizioni normative testualmente prevede che: "A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, gli enti di cui al comma 557 fermo restando il rispetto delle regole del patto di stabilità interno, possono procedere, nei limiti dei posti disponibili in organico, alla stabilizzazione del personale non dirigenziale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che consegua tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 29 settembre 2006 o che sia stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di entrata in vigore della presente legge, nonché del personale di cui al comma 1156, lettera f), purché sia stato assunto mediante procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge. Alle iniziative di stabilizzazione del personale assunto a tempo determinato mediante procedure diverse si provvede previo espletamento di prove selettive". L'art. 3, comma 94, l.n. 244/2007(Finanziaria 2008) prevede a sua volta che "Fatte comunque salve le intese stipulate, ai sensi dei commi 558 e 560 dell'articolo 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, prima della data di entrata in vigore della presente legge, entro il 30 aprile 2008, le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, predispongono, sentite le organizzazioni sindacali, nell'ambito della programmazione triennale dei fabbisogni per gli anni 2008, 2009 e 2010, piani per la progressiva stabilizzazione del seguente personale non dirigenziale, tenuto conto dei differenti tempi di maturazione dei presenti requisiti:

a) in servizio con contratto a tempo determinato, ai sensi dei commi 90 e 92, in possesso dei requisiti di cui all'articolo 1, commi 519 e 558, della legge 27 dicembre 2006, n. 296;

b) già utilizzato con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, in essere alla data di entrata in vigore della presente legge, e che alla stessa data abbia già espletato attività lavorativa per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio antecedente al 28 settembre 2007, presso la stessa amministrazione, fermo restando quanto previsto dall'articolo 1, commi 529 e 560, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. È comunque escluso dalle procedure di stabilizzazione di cui alla presente lettera il personale di diretta collaborazione degli organi politici presso le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, nonché il personale a contratto che svolge compiti di insegnamento e di ricerca nelle università e negli enti di ricerca". Il comma 519, come sopra richiamato, a sua volta statuisce che "Per l'anno 2007 una quota pari al 20 per cento del fondo di cui al comma 513 è

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destinata alla stabilizzazione a domanda del personale non dirigenziale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che consegua tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 29 settembre 2006 o che sia stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di entrata in vigore della presente legge, che ne faccia istanza, purché sia stato assunto mediante procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge. Alle iniziative di stabilizzazione del personale assunto a tempo determinato mediante procedure diverse si provvede previo espletamento di prove selettive. Le amministrazioni continuano ad avvalersi del personale di cui al presente comma, e prioritariamente del personale di cui all'articolo 23, comma 1, del decreto legislativo 8 maggio 2001, n. 215, e successive modificazioni, in servizio al 31 dicembre 2006, nelle more della conclusione delle procedure di stabilizzazione. Nei limiti del presente comma, la stabilizzazione del personale volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco è consentita al personale che risulti iscritto negli appositi elenchi, di cui all'articolo 6 del decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139, da almeno tre anni ed abbia effettuato non meno di centoventi giorni di servizio. Con decreto del Ministro dell'interno, fermo restando il possesso dei requisiti ordinari per l'accesso alla qualifica di vigile del fuoco previsti dalle vigenti disposizioni, sono stabiliti i criteri, il sistema di selezione, nonché modalità abbreviate per il corso di formazione. Le assunzioni di cui al presente comma sono autorizzate secondo le modalità di cui all'articolo 39, comma 3-ter, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni".

La giurisprudenza si è interrogata sull'effettivo significato della locuzione utilizzata dal legislatore al comma 558, "prove selettive", opinando il Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa (Cons. St., sez. IV, 12 luglio 2010 n. 4495; in tal senso anche Cass., sez. un., 15 settembre 2010 n. 19552; Cass., sez. un., 7 luglio 2010 n. 16041, TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 8 aprile 2011 n. 968; TAR Piemonte, sez. II, 22 gennaio 2011 n. 84; TAR Campania, Napoli, 3 agosto 2010 n. 17226; Trib. Trani 18 luglio 2011) nel senso che esse non hanno natura concorsuale, in quanto "la giurisprudenza della Corte Costituzionale la quale, occupandosi di precedenti previsioni normative in tema di procedure selettive riservate a soggetti che già avessero svolto rapporti a tempo determinato con l'amministrazione procedente, ha individuato in esse una deroga alla regola costituzionale del concorso pubblico di cui all'art. 97, comma 2, Cost., che può essere considerata legittima nei limiti in cui la valorizzazione della pregressa esperienza professionale, acquisita dagli interessati tramite forme contrattuali non a tempo indeterminato, non si traduca in norme di privilegio in danno degli altri aspiranti, con eccessiva violazione del carattere "pubblico" del concorso (cfr. le sentenze nr. 24 del 26 gennaio 2004 e nr. 141 del 22 aprile 1999)". L'opinione sul punto di altra giurisprudenza (v. T.A.R. L.'Aquila, I, 28 dicembre 2013, n. 1080; T.A.R. Potenza Basilicata sez. I, 06 aprile 2012, n. 163) è di segno contrario accedendo ad una lettura sistematica che svilisce il dato letterale della norme citate laddove non recano la specificazione "natura concorsuale" nel richiedere che gli stabilizzandi siano sottoposti a "prove selettive", ove difetti la procedura concorsuale "a monte". La Corte di Cassazione a Sezioni Unite (22 febbraio 2012, n. n. 2568) si è espressa di recente sul punto osservando che <<conseguentemente, le amministrazioni, con riguardo al personale da stabilizzare che ha già sostenuto "procedure selettive di tipo concorsuale", non "bandiscono" concorsi, ma devono limitarsi a dare "avviso" della procedura di stabilizzazione e della possibilità degli interessati di presentare la domanda; d) diversamente, ove il personale non abbia già superato prove concorsuali, e il numero dei posti oggetto della stabilizzazione sia inferiore a quello dei soggetti aventi i requisiti, l'amministrazione può fare ricorso ad una selezione onde individuare

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il personale da assumere >>. Ad ogni modo, pur nell'incertezze ermeneutiche innescate dalla normativa in esame, non è revocabile in dubbio che la disciplina in materia di stabilizzazione del personale precario contempli due distinte procedure a seconda che si tratti di lavoratori "con contratto a tempo determinato" o di personale "con contratti di collaborazione coordinata e continuativa". Ebbene, nonostante le risultanze positive del rapporto instaurato con il ricorrente siano state evidenziate diffusamente nel corpo della deliberazione n. 813/2008, al fine di rilevare "la sottoposizione del prestatore di lavoro al potere direttivo, organizzativo e gerarchico del datore di lavoro", l'atto impugnato, come denunciato in ricorso, non contiene alcun riferimento a tale circostanza al fine di confutarla sulla base di nuovi accertamenti o rinnovate valutazioni, con la conseguente divisata carenza motivazionale non essendo le argomentazioni poste a suo fondamento in grado di superare le risultanze di segno contrario poste a fondamento della deliberazione annullata. La necessità di procedere a tale accertamento, che avrebbe richiesto l'approfondita ed attenta disamina delle caratteristiche peculiari del rapporto al fine di verificare la ricorrenza o meno degli indici sintomatici del lavoro subordinato, non può dirsi disattivata dalla semplice constatazione della mancata sottoposizione del ricorrente a prove di natura concorsuale per così dire "a monte" ovvero "a valle", cioè preordinate alla stabilizzazione, sulla base dell'assunto che esse sarebbero richieste dalla disciplina in materia di stabilizzazione di personale precario. Invero, l'indagine sulla natura del rapporto instaurato con l'Amministrazione ha costituito passaggio fondamentale nel percorso logico compiuto ai fini della disposta stabilizzazione, di guisa che la riedizione del potere in sede di autotutela decisoria non poteva trascurare tale fondamentale circostanza di fatto.

In conclusione, l'accertamento circa la natura del rapporto instaurato a suo tempo tra il ricorrente e l'Amministrazione comunale assume carattere dirimente, costituendo presupposto applicativo della procedura di stabilizzazione attivata. Di tale accertamento, secondo gli indici sintomatici del rapporto di lavoro subordinato, non vi è traccia nel rapporto, di cui in atti, n. 55726 del 25.3.2013 del Direttore del Personale, posto a base della delibera giuntale n. 271/2013 e quindi della successiva delibera oggetto di gravame.

Tanto premesso, il ricorso per motivi aggiunti è fondato e pertanto va accolto, con conseguente annullamento degli atti impugnati con tale gravame.

III. Le spese, stante la particolare complessità del quadro normativo di riferimento, si possono compensare.

TAR Brescia, sentenza n. 1467/2014 depositata in data 31 dicembre 2014, recante l’annullamento delle delibere di adozione e approvazione della variante generale al PGT del Comune di Volta Mantovana per il motivo, ritenuto assorbente, della violazione dell’art. 6 bis della l. 241/1990, aggiunto dall’art. 1, comma 41 della l. 6 novembre 2012 n.°190, cd. “anticorruzione”, ma da ritenere per inciso espressione del principio generale di cui all’art. 97 Cost., secondo cui “Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”.

Al riguardo il Tar di Brescia ha precisato che la norma si interpreta, così come ritenuto ad esempio da TAR Campania Salerno sez. II 17 marzo 2014 n°580, nel senso che la mancata astensione di chi sia portatore di un interesse proprio, che potrebbe, anche in teoria, soddisfare solo con detrimento dell’interesse pubblico sia di per sé sufficiente ad annullare l’atto. Nel caso di specie, il responsabile del servizio tecnico comunale nonché Autorità competente per la VAS, e come tale incaricato di redigere i profili tecnici della variante, quando ha rilasciato il parere tecnico favorevole in calce alla delibera di approvazione risultava indagato per abuso d’ufficio proprio per vicende relative al PGT comunale impugnato col ricorso principale. Tale circostanza ha indotto il Tar a concludere che “è quindi evidente come lo stesso – anche a prescindere dall’eventuale

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accertamento di sue responsabilità penali a tal titolo – fosse all’epoca portatore di un interesse personale alla propria difesa in conflitto per lo meno potenziale con la corretta amministrazione dell’interesse pubblico”. La sussistenza di un conflitto di interessi potenziale e la mancata astensione da parte del funzionario pubblico, ha comportato l’illegittimità dell’atto amministrativo e la conseguente sanzione dell’annullamento da parte del giudice amministrativo. Ne consegue che, allo stato, il Comune si trova sprovvisto di piano urbanistico e dovrà pertanto rinnovare l’istruttoria del piano “mediante tecnici nella necessaria posizione di imparzialità”.

FATTO

Italia Nostra Onlus, odierna ricorrente, ritenendosi a ciò legittimata in forza della sua ben nota qualità di associazione di tutela ambientale storicamente attiva in tutto il territorio nazionale, contesta con la presente causa vari momenti, succedutisi nel tempo, in cui si è articolata la pianificazione urbanistica del Comune di Volta Mantovana.

Nell’ordine, l’associazione in parola ha anzitutto impugnato la prima versione del nuovo strumento urbanistico generale comunale, approvato con la delibera del 2012 di cui meglio in epigrafe (doc. 1 ricorrente, copia di essa) ed ha articolato a sostegno tredici censure, riconducibili in ordine logico ai seguenti dodici motivi:

- con il primo di essi, corrispondente alla censura seconda alle pp. 20-22 dell’atto, deduce violazione dell’art. 4 commi 3 bis e 3 ter della l. r. Lombardia 11 marzo 2005 n°12, per asserito difetto di imparzialità dell’autorità competente a redigere la valutazione ambientale strategica – VAS. L’autorità competente, nel caso concreto, risulta individuata in una società privata esterna, certa Sister S.r.l., di cui responsabile tecnico e presidente del consiglio di amministrazione è tale arch. Giulio Mondini, ad un tempo funzionario del Comune in qualità di Direttore responsabile dell’Ufficio di piano: in tal modo, controllore e controllato verrebbero a coincidere;

- con il secondo motivo, corrispondente alla censura terza alle pp. 22-23 dell’atto, deduce violazione dell’art. 78 del T.U. 18 agosto 2000 n°267, per avere il sindaco partecipato alla votazione ancorché il proprio nipote, parente di quarto grado, fosse comproprietario di una delle aree interessate, distinta al catasto al foglio 20 mappale 1046 e compresa nell’ambito cd. “perequativo Levoni”;

- con il terzo motivo, corrispondente alla censura ottava alla p. 30 dell’atto, deduce violazione dell’art. 57 della l.r. 11/2005, in quanto a suo dire nel piano mancherebbe la richiesta considerazione delle aree a rischio geologico, idrogeologico e sismico;

- con il quarto motivo, corrispondente alla censura nona alle pp. 30-31 dell’atto, deduce violazione dell’art. 15 della stessa l.r. 12/2005, in quanto a suo dire il piano non recepirebbe gli ambiti agricoli indicati dal Piano territoriale provinciale- PTCP;

- con il quinto motivo, corrispondente alla censura decima alle pp. 31-32 dell’atto, deduce violazione degli artt. 8 comma 2 lettera e) e 10 della stessa l.r. 12/2005. A dire dell’associazione, il PGT contestato inserisce i vari ambiti di trasformazione – AT nel

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Piano delle regole: ciò sarebbe illegittimo perché li renderebbe vincolanti e non revocabili;

- con il sesto motivo, corrispondente alla censura undecima alle pp. 32-37 dell’atto, deduce violazione dell’art. 47 del PTCP. A dire dell’associazione, il PGT contestato calcolerebbe il tessuto urbano consolidato – TUC includendo in esso aree di ampia dimensione che invece ne dovevano rimanere escluse: ciò avrebbe consentito un sovradimensionamento della superficie urbana prevista – SUP e degli AT, ovvero in sintesi consentito nuove edificazioni in misura eccessiva rispetto a quanto sarebbe stato ammesso con un calcolo corretto;

- con il settimo motivo corrispondente alla censura sesta alle pp. 28-29 dell’atto, deduce violazione dell’art. 17 comma 5 delle norme tecniche di attuazione – NTA al PTCP. Sempre a dire dell’associazione, il PGT non conterrebbe le richieste norme di sistema paesistico ambientale conformi agli indirizzi regionali, in particolare per l’area detta “Guidelli”;

- con l’ottavo motivo, corrispondente alla censura prima alle pp. 18-20 dell’atto, deduce violazione dell’art. 13 comma 14 bis della stessa l.r. 12/2005. A dire della ricorrente, nella procedura di VAS non sarebbe stata depositata la scheda relativa all’ambito ATinC, ovvero quello comprendente l’area Guidelli: ciò avrebbe comportato la impossibilità di presentare osservazioni;

- con il nono motivo corrispondente alle censure quarta e quinta alle pp. 23-27 e 28 dell’atto, deduce eccesso di potere per illogicità. Assume la ricorrente che il PGT contestato considera l’area Guidelli, già classificata D6, ovvero produttiva, come AT presupponendo che essa sia un’area degradata ovvero dismessa; ciò peraltro non risponderebbe al vero, perché sul posto vi sarebbe un allevamento attivo; in tal modo il PGT stravolgerebbe la pianificazione regionale e provinciale, che considera l’area come da tutelare;

- con il decimo motivo, corrispondente alla censura settima alla p. 30dell’atto, deduce violazione delle deliberazioni della Giunta regionale lombarda 27 dicembre 2007 n°VIII/6415 e 26 novembre 2008 n°VII/8515, in quanto la pianificazione dell’area Guidelli non rispetterebbe le reti ecologiche provinciali già individuate dalla Regione;

- con il motivo undecimo, corrispondente alla censura dodicesima alle pp. 28-29 dell’atto, deduce violazione dell’art. 25 comma 2 delle norme tecniche di attuazione – NTA al PTCP, perché la previsione dell’ambito di trasformazione ATinB05a danneggerebbe il sito della storica Villa De Marchi;

- con il motivo dodicesimo, corrispondente alla censura prima alle pp. 18-20 dell’atto, deduce infine ulteriore violazione dell’art. 13 della stessa l.r. 12/2005 quanto all’accoglimento parziale dell’osservazione 88, concernente l’ambito ATinA08a, che a suo dire integrerebbe una nuova previsione di piano, soggetta a ripubblicazione.

Si è costituito a fronte del ricorso principale, domandandone la reiezione, il Comune di Volta Mantovana, con memoria formale del 24 settembre 2012.

Nelle more, a fronte dell’approvazione, con la delibera consiliare n°34/2012 di cui pure meglio in epigrafe (doc. 1 ricorrente allegato ai primi motivi aggiunti, copia di essa), di un piano attuativo, detto “via Sordello nord”, in variante al predetto strumento

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generale, l’associazione articolava motivi aggiunti, assistiti da domanda cautelare, di seguito esposti in ordine logico:

- con il primo di essi, rubricato come quarto a p. 16 dell’atto, deduce violazione dell’art. 78 del T.U. 18 agosto 2000 n°267 negli stessi termini di cui al secondo motivo del ricorso principale;

- con il secondo motivo, rubricato come quinto a p. 18 dell’atto, deduce eccesso di potere per incompleta istruttoria, in ordine a non meglio precisate carenze della VAS di piano;

- con il terzo motivo, rubricato come terzo a p. 13 dell’atto, deduce ulteriore eccesso di potere in ordine ad una presunta errata individuazione delle aree inserite nel piano;

- con il quarto motivo, rubricato come primo a p. 7 dell’atto, deduce vizio di invalidità derivata in relazione all’undecimo motivo di ricorso principale, dato che il Piano andrebbe appunto a pregiudicare il complesso storico della citata Villa Marchi;

- con il quinto motivo, rubricato come secondo a p. 10 dell’atto, deduce infine violazione degli artt. 9 comma 3, 46 comma 1 lettera a) e 28 comma 5 della l.r. 12/2005, perché a suo dire il piano prevedrebbe una dotazione insufficiente di standard.

A fronte dei primi motivi aggiunti, resistevano la Provincia, con memoria 4 gennaio 2013, il Comune, con memoria 3 gennaio 2013, e la controinteressata Mincio Resort, con memoria in pari data, i quali:

- in via preliminare (memoria Mincio Resort 3 gennaio 2013, p. 4), eccepivano l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione della ricorrente in ordine ai motivi in concreto proposti, ritenuti non attinenti agli interessi alla cui tutela essa è preposta;

- nel merito, ne chiedevano la reiezione.

Con memorie 5 gennaio e 7 gennaio 2013, la ricorrente ribadiva invece le proprie asserite ragioni.

Con ordinanza 10 gennaio 2013 n°12, la Sezione accoglieva l’istanza cautelare, fissando per la trattazione del merito l’udienza del 18 dicembre 2013.

In vista dell’udienza predetta, le parti precisavano le rispettive difese, rispettivamente la ricorrente con memoria 16 novembre e replica 27 novembre 2013; la Provincia, il Comune e la Mincio Resort con memorie e repliche distinte, depositate il 15 novembre e 27 novembre 2013. In particolare:

- in via preliminare il Comune (memoria 27 novembre 2013 p. 2) eccepiva la improcedibilità del ricorso principale, per avere nelle more adottato, come da delibera consiliare 7 ottobre 2013 n°41, una variante generale al PGT, tale quindi da superare i contenuti della delibera di approvazione in origine impugnata. Sul punto specifico, replicava la ricorrente: sosteneva anzitutto la inutilizzabilità delle memorie depositate appunto il 15 novembre, perché a suo dire tardive; si opponeva poi alla declaratoria di improcedibilità, sostenendo di avere ancora interesse all’annullamento del piano

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originario, a suo dire sostanzialmente non modificato (memoria Italia Nostra 27 novembre 2013 pp. 5 e ss.);

- sempre in via preliminare, il Comune (replica 27 novembre 2013 p. 20 e doc. 33 Comune, copia ultimo provvedimento di diniego) e la Mincio Resort (replica 27 novembre 2013), eccepiva la improcedibilità anche del primo ricorso per motivi aggiunti. In proposito, spiegava che la delibera impugnata, di approvazione del piano attuativo “via Sordello nord”, era stata revocata; la controinteressata Mincio Resort aveva presentato una nuova istanza in merito, ma aveva ricevuto un diniego (doc. 33 Comune, cit.), sì che al momento nessun piano attuativo per la zona considerata era in essere.

In esito all’udienza pubblica del 18 dicembre 2013, la Sezione, essendo in particolare controversa la portata della variante generale di cui s’è detto, e non concordando quindi le parti sulla improcedibilità del ricorso principale, disponeva verificazione – come da ordinanza 28 dicembre 2013 n°1174- volta ad appurare se il nuovo intervento pianificatorio costituisse effettivamente una variante generale e se esso riguardasse gli aspetti di fatto dell’originario PGT già censurati; rinviava per prosecuzione alla pubblica udienza del 18 dicembre 2014. Il verificatore, dott. arch. Marco Cassin, dirigente della Struttura pianificazione territoriale presso la Direzione generale territorio e urbanistica della Regione Lombardia, depositava il 9 aprile 2014 il proprio elaborato.

Nelle more, essendo intervenuta, con la delibera consiliare 51/2013 di cui pure meglio in epigrafe, la approvazione della variante al PGT di cui si è detto, l’associazione ricorrente la impugnava a sua volta, con il secondo ricorso per motivi aggiunti, articolato in cinque censure, riconducibili in ordine logico ai seguenti quattro motivi:

- con il primo di essi, corrispondente alla prima censura a p. 9 dell’atto, ripropone con espressa qualifica di vizi di invalidità derivata i motivi già proposti nei termini spiegati sopra a sostegno del ricorso principale contro l’originaria versione del PGT;

- con il secondo motivo, corrispondente alla seconda censura a p. 12 dell’atto, deduce violazione dell’art. 6 bis della l. 7 agosto 1990 n°241, per esser stato responsabile del procedimento concernente la variante per cui è causa un funzionario in conflitto di interessi, ovvero certo Giovanni Manuzzi, che al contempo risulta indagato per abuso d’ufficio quanto alle stesse vicende concernenti l’approvazione del PGT;

- con il terzo motivo, corrispondente alle censure terza e quarta alle pp. 16-21 dell’atto, deduce violazione degli artt. 8 comma 2 lettera e) e 10 della l.r. 12/2005 quanto alla previsione di taluni ambiti di trasformazione. La ricorrente osserva che tali AT dovrebbero essere correttamente inseriti nel documento di piano, e come tali assoggettati alla relativa VAS; ritiene quindi illegittima la scelta dell’amministrazione, che li ha invece inseriti nel Piano delle regole: ciò avrebbe ottenuto il risultato di renderli immediatamente vincolanti, e di sottrarli alla VAS stessa;

- con il quarto motivo, corrispondente infine alla quinta censura a p. 21 dell’atto, deduce eccesso di potere per irragionevolezza, quanto all’ulteriore aumento delle superfici di espansione degli insediamenti, ritenute sovrabbondanti.

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Presentava memoria finale il 17 novembre 2014 la sola Provincia di Mantova, ribadendo le eccezioni di improcedibilità del ricorso principale e dei primi motivi aggiunti e domandando la reiezione dei secondi motivi aggiunti. Per parte sua, il Comune, con atto 18 novembre 2014, dava atto della nomina di un nuovo difensore, di impulso dell’amministrazione neoeletta, e concludeva rimettendosi a giustizia.

Alla udienza del 18 dicembre 2014, fissata nei termini predetti, la Sezione ha da ultimo trattenuto il ricorso in decisione.

DIRITTO

In ordine logico, va anzitutto accolta l’eccezione preliminare di improcedibilità del ricorso principale per sopravvenuta carenza di interesse proposta dalla Provincia nei termini di cui in narrativa.

Per risalente orientamento giurisprudenziale, espresso per tutte già da C.d.S. sez. IV 24 febbraio 2004 n°731 e condiviso da questo Giudice, non si è fino ad epoca recente mai dubitato che il ricorso proposto avverso un piano urbanistico che, nelle more del relativo giudizio sia sostituito da altro piano di pari livello per scelta dell’amministrazione interessata, divenga puramente e semplicemente improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che nessuna utilità potrebbe più derivare al ricorrente dall’annullamento dell’atto impugnato. Tale orientamento, peraltro, dopo l’entrata in vigore del c.p.a. è stato messo in discussione dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato di cui appresso.

Tale giurisprudenza infatti in via generale afferma, ad esempio nei termini di C.d.S. sez. IV 18 maggio 2012 n°2916, che si cita per tutte, che quand’anche l'annullamento dell'atto impugnato non risultasse più utile per la parte ricorrente, e quindi la relativa domanda fosse divenuta improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, il giudice dovrebbe comunque accertare l'illegittimità dell'atto stesso ove sussistesse un interesse della parte

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medesima a fini risarcitori, e che in pratica tale interesse sussiste sempre, dato che l’accertamento va compiuto anche qualora la domanda di risarcimento, non proposta in via congiunta con la domanda di annullamento, non sia in effetti ancora stata proposta nemmeno in sede separata, e difettino dichiarazioni dell’interessato di intento in tal senso. E’ però il caso di ricordare che non in tutte le decisioni ciò si afferma in termini assoluti e perentori: si ricorda ad esempio C.d.S. sez. IV 7 novembre 2012 n°5674, secondo la quale l’accertamento della illegittimità dell’atto va compiuto in funzione di una domanda risarcitoria “rappresentata o proposta”.

Da tale orientamento, questo Giudice ritiene di doversi motivatamente discostare. L’impostazione seguita dal Consiglio di Stato comporta, con ogni evidenza, che un giudizio di regola unitario, il giudizio di danno, venga in tal modo scisso in due distinti processi: il primo è residuo dell’originario processo di annullamento, ed ha ad oggetto l’accertamento di illegittimità dell’atto, in virtù di una conversione per volontà di legge della domanda originaria, ovvero una delle questioni pregiudiziali alla decisione sulla domanda di condanna al risarcimento il secondo processo, di proposizione oltretutto futura ed eventuale, ha invece per oggetto tutte le residue questioni del medesimo giudizio risarcitorio.

Tale risultato è all’evidenza contrario al principio di economia processuale, e per logica conseguenza potrebbe confliggere anche col principio di ragionevole durata dei processi, perché banalmente un processo che fa impiego non economico di mezzi giuridici ben potrebbe consumare più tempo del ragionevole per svolgersi. In tali termini, si tratta di un esito non necessariamente incompatibile con l’art. 111 Cost., che appunto prevede il principio di ragionevole durata, ma non ha un contenuto esplicito e stringente in proposito; si tratta però di risultato certo non nel senso di promuovere il principio stesso.

Per tal motivo, e per la regola secondo la quale, nel dubbio fra più interpretazioni di una norma, va preferita quella maggiormente conforme alla Costituzione, il risultato in questione va ad avviso del Collegio evitato, a meno che non sia imposto da una norma di legge esplicita. Tale non è la norma invocata in proposito dall’indirizzo giurisprudenziale che si critica, ovvero il combinato disposto degli artt. 34 comma 3 e 30 comma 5 c.p.a. La prima disposizione, infatti, si limita a stabilire che “quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori”, ma non dice in concreto quando tale interesse sussista; la seconda stabilisce che “nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza”, ma ancora una volta nulla dice sulle modalità di decisione di tale domanda, se in un unico giudizio o in giudizi necessariamente sdoppiati.

Tanto premesso, ai fini del decidere, va precisato in quali casi si produca l’effetto dell’improcedibilità appena descritto, ovvero quando in concreto ricorra la citata sostituzione di un piano urbanistico da parte di altro piano di pari livello. Per ragioni logiche, prima che giuridiche, è evidente che decisivo sul punto sarà non il dato formale della denominazione del piano, ma quello sostanziale, del suo contenuto.

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In altre parole occorre – e basta- che all’assetto urbanistico del territorio comunale espresso dal piano precedente se ne sostituisca uno nuovo, frutto di una nuova istruttoria e di una nuova scelta politica, che può anche riconfermare alcune delle soluzioni del passato, ma in ogni caso ciò fa all’esito di un distinto percorso critico ed analitico. Tale sostituzione è l’effetto normale della successione di un nuovo piano urbanistico generale, qualificato ed approvato come tale, al precedente; si riscontra però anche in altri casi, e segnatamente allorquando ad un piano urbanistico generale, che come tale resta in vigore, venga apportata una variante pure generale.

La tecnica urbanistica – così come chiarito dalla relazione del verificatore (documento 27 maggio 2014 p. 11)- definisce infatti variante generale “lo strumento che procede ad una riconsiderazione di buona parte del territorio comunale e che, conseguentemente, conduce a modifiche riguardanti una pluralità di ambiti territoriali”. Nello stesso senso è la giurisprudenza, secondo cui “le varianti generali costituiscono, in sostanza, in una nuova disciplina generale dell’assetto del territorio” all’esito di una periodica sua revisione: così per tutte C.d.S. sez. IV 6 febbraio 2002 n°664, correttamente citata anche dal verificatore. Nel caso di variante generale, allora, anche la disciplina urbanistica che resta immutata trova fonte nella variante stessa, perché è frutto della scelta che quest’ultima variante ha espresso: si sono riconsiderate le scelte precedenti e si è deciso, a ragion veduta, di confermarne alcune.

Nel caso di specie, l’effetto di improcedibilità di cui s’è detto si produce: al PGT approvato con le delibere impugnate col ricorso principale si è sostituita una variante che è generale non solo nella propria denominazione, ma anche nella sostanza, così come appurato dal verificatore in termini che il Collegio condivide perché sviluppati in modo logico e coerente da premesse in fatto non contestate.

Va parimenti dichiarata la improcedibilità anche del primo ricorso per motivi aggiunti, rivolto, così come eccepito dal Comune (replica 27 novembre 2013 p. 20 e doc. 33 Comune, copia ultimo provvedimento di diniego, cit.) e dalla Mincio Resort (replica 27 novembre 2013, cit.). Non è contestato in fatto che il piano attuativo impugnato in tal sede non esista più e l’annullamento di un atto non più esistente non può apportare alcuna utilità alla ricorrente; integra anzi una vera impossibilità giuridica: sul principio, si veda TAR Puglia Bari 19 ottobre 2006 n°1487.

Rimane in conclusione da scrutinare nel merito il solo secondo ricorso per motivi aggiunti, quello rivolto verso le delibere consiliari di adozione ed approvazione della variante generale, cioè in sostanza avverso il nuovo piano urbanistico generale del Comune di Volta.

Di tale ricorso, risulta inammissibile, nei termini eccepiti dalla Provincia (memoria 17 novembre 2014, p. 4 § terzo), il primo motivo, che, come detto in narrativa, ripropone come censure di illegittimità derivata i motivi- dei quali si limita a ritrascrivere il titoletto-già proposti nel ricorso principale, per contestare il piano urbanistico previgente.

La ragione della predetta inammissibilità va rintracciata nel disposto dell’art. 40 commi 1 lettera d) e 2 c.p.a., per cui risultano appunto inammissibili i motivi non specifici: nel caso di specie, la parte non si sarebbe dovuta limitare ad un richiamo

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della semplice intestazione di censure svolte a proposito di un atto diverso, ma avrebbe dovuto identificare con precisione le scelte pianificatorie rimaste in tesi immutate anche con la variante generale e riproporre contro di esse in termini discorsivi la propria critica.

E’invece fondato e va accolto il secondo motivo di ricorso, incentrato sull’asserita violazione dell’art. 6 bis della l. 241/1990, aggiunto dall'art. 1, comma 41 della l. 6 novembre 2012 n.°190, cd. “anticorruzione”, ma da ritenere per inciso espressione del principio generale di cui all’art. 97 Cost., secondo cui “Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”. La norma si interpreta, così come ritenuto ad esempio da TAR Campania Salerno sez. II 17 marzo 2014 n°580, nel senso che la mancata astensione di chi sia portatore di un interesse proprio, che potrebbe, anche in teoria, soddisfare solo con detrimento dell’interesse pubblico sia di per sé sufficiente ad annullare l’atto.

Nel caso di specie, non è contestato in fatto quanto la ricorrente afferma alle pp. 4-5 dell’atto, ovvero che certo Giovanni Manuzzi, responsabile del servizio tecnico comunale nonché Autorità competente per la VAS, e come tale incaricato di redigere i profili tecnici della variante (v. a riprova il suo parere tecnico favorevole in calce alla delibera di approvazione, doc. 1 ricorrente, copia di essa), fosse all’epoca dei fatti indagato per abuso d’ufficio proprio per vicende relative al PGT comunale impugnato col ricorso principale (v. doc. ti 5 e 6 ricorrente, copie articoli di stampa). E’ quindi evidente come lo stesso – anche a prescindere dall’eventuale accertamento di sue responsabilità penali a tal titolo-fosse all’epoca portatore di un interesse personale alla propria difesa in conflitto per lo meno potenziale con la corretta amministrazione dell’interesse pubblico.

Il motivo suddetto riveste carattere assorbente, poiché comporta che il Comune debba rinnovare l’istruttoria del piano mediante tecnici nella necessaria posizione di imparzialità, con esiti concreti che non possono esser previsti né tantomeno sindacati nella sede attuale. Restano quindi assorbiti i motivi ulteriori, relativi a concrete scelte di piano. Ne consegue che vanno annullate, come da dispositivo, le delibere di adozione e approvazione della variante, mentre è solo per chiarezza che si precisa come l’annullamento non si riferisca al decreto 1 ottobre 2013 relativo alla VAS, che è atto endoprocedimentale.

Consiglio di Stato IV Sezione, sentenza 25 settembre 2014 n. 4806, in tema di conflitto di interessi degli amministratori locali chiamati a deliberare in materia di piani urbanistici (nel caso di specie si trattava di piano di lottizzazione).

Il Giudice di secondo grado ha innanzitutto ribadito che “il dovere di astensione si impone al consigliere, per così dire, ex ante, ogniqualvolta cioè incidendo l'atto da adottare su un interesse dell'amministratore, in senso vantaggioso o svantaggioso, vi sia il pericolo che la volontà dello stesso non sia immune da condizionamenti, e che vi

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sia invalidità della delibera adottata con il concorso di chi avrebbe dovuto astenersi. E ciò a prescindere dai vantaggi o svantaggi in concreto conseguiti; v’è un contrasto dunque tra due interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali di tipo «istituzionale» ed un altro di tipo personale che va risolto con l’astensione dal partecipare alla discussione e alla votazione sulla deliberazione.1”

Premesso quindi che il dovere di astensione ha portata generale atteso altresì che la deroga prevista per gli atti generali e normativi, oltre a non essere assoluta, è comunque da considerarsi tassativa2, il Giudice ha precisato che “se sussiste un interesse immediato e diretto in caso di adozione di piano attuativo (cosa molto più facile a verificarsi, data la maggiore determinatezza del piano di livello esecutivo o attuativo), sussiste certamente l'obbligo di astensione, né tale obbligo viene meno per la maggiore possibilità che sia l’intero piano attuativo ad essere coinvolto”.

La sentenza si allinea ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato secondo cui, in applicazione delle previsioni di cui all’art. 78 del D.lgs. n. 267/2000, l'amministratore pubblico deve astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi suoi o di parenti o affini fino al quarto grado; tale obbligo di allontanamento dalla seduta, in quanto dettato al fine di garantire la trasparenza e l'imparzialità dell'azione amministrativa, sorge per il solo fatto che l'amministratore rivesta una posizione suscettibile di determinare, anche in astratto, un conflitto di interessi, a nulla rilevando che lo specifico fine privato sia stato o meno realizzato e che si sia prodotto o meno un concreto pregiudizio per la P.A. (ex multis Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, n. 693).

Ciò premesso, si segnala che, al fine di evitare difficoltà insormontabili nei Comuni di medie e piccole dimensioni, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha ritenuto legittima l’approvazione dello strumento urbanistico per parti separate, con l’astensione per ciascuna di esse di coloro che in concreto vi abbiano interesse, purché a ciò segua una votazione finale dello strumento nella sua interezza; in tale ipotesi a quest’ultima votazione non si applicano le cause di astensione, dal momento che sui punti specifici oggetto del conflitto di interesse si è già votato senza la partecipazione dell’amministratore in conflitto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sentenza 14 aprile 2014 n. 1816; Cons. Stato, sez. IV, sentenza 16 giugno 2011 n. 3663).

TAR PUGLIA – BARI – sentenza 19 febbraio 2015* (sui casi in cui sussiste l’obbligo di astensione previsto dall’art. 78 del TUEL nei confronti degli amministratori degli EE.LL. che abbiano un interesse proprio o di loro parenti od affini fino al quarto grado, con particolare riguardo agli atti generali).

1. Il dovere di astensione degli amministratori degli enti locali, previsto dall’art. 78, comma secondo, del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, sussiste in tutti i casi in cui essi versino in situazioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano idonee anche solo in via potenziale a minare l’imparzialità dei medesimi, rendendo quindi del tutto irrilevante sia il superamento dell’eventuale prova di resistenza del voto (1), sia anche il mancato

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raggiungimento del risultato sperato e del pregiudizio dell’Amministrazione (2).

2. Nel caso di adozione di un atto avente carattere generale, in base a quanto disposto dall’art. 78 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, l’obbligo di astensione degli amministratori deve ravvisarsi solo nel caso in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.

3. L’art. 78 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, ha legislativamente tipicizzato le conseguenze della violazione dell’obbligo di astensione nell’ipotesi di provvedimenti di carattere generale quali i piani urbanistici, individuandole non nell’annullamento “in toto” dello strumento urbanistico, ma nell’annullamento delle sole parti dello strumento urbanistico che costituiscono oggetto di correlazione con gli specifici interessi degli amministratori locali; tale norma ha nella sostanza limitato il potere di annullamento del giudice amministrativo in relazione alla violazione dell’obbligo di astensione, nel senso cioè che il vizio in parola incide solo parzialmente sull’atto assunto in violazione di tale obbligo (3). Pertanto, nell’ipotesi in cui il vizio dedotto sia fondato, i ricorrenti debbono necessariamente dimostrare di trarre una qualche utilità da tale limitato annullamento, pena l’inammissibilità del motivo (4), non ritenendosi possibile attribuire in capo a qualsiasi componente di una comunità una sorta di interesse generalizzato all’impugnativa (5).

4. I pareri previsti per l’adozione delle deliberazioni comunali (prima ai sensi dell’art. 53 della legge 8 giugno 1990, n. 142 e poi ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267) non costituiscono requisiti di legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, in quanto sono preordinati all’individuazione sul piano formale, dei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile, così che la loro eventuale mancanza costituisce una mera irregolarità che non incide sulla legittimità e la validità delle deliberazioni stesse (6).

5. Il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento non vizia l’atto conclusivo sopravvenuto alla scadenza di questo (7). Tale principio si fonda sull’applicazione di consolidate categorie di teoria generale di diritto, in base alla quale vanno tenute distinte le norme di comportamento dalle norme di validità degli atti giuridici e le conseguenze rispettivamente discendenti dalla violazione dell’une o delle altre, nel senso che solo in quest’ultimo caso la sanzione ricade sull’atto medesimo, determinandone a seconda dei casi la nullità o

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l’annullabilità, laddove nella prima ipotesi sorgono conseguenze esclusivamente di carattere risarcitorio (8).

6. Nel processo amministrativo, la consulenza tecnica, pur se disposta d’ufficio, non è destinata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dedotti e posti a base delle richieste (fatti che devono essere dimostrati dalla medesima parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell’onere della prova posti dall’art. 2697 Cod. civ.), ma ha la funzione di fornire all’attività valutativa del giudice l’apporto di cognizioni tecniche non possedute (9).

7. In base al nuovo codice del processo amministrativo, spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni (art. 64, comma 1); al mancato assolvimento di tale onere non può sopperire il giudice, che deve porre fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite (art. 64, comma 2), senza poter attivare i suoi poteri istruttori officiosi in caso di mancato assolvimento degli oneri probatori gravanti sulle parti (art. 63, comma 1) (10).

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(1) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 17 novembre 2009 n. 7151.(2) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 gennaio 2011, n. 693 e Cons. Stato, sez. IV, 20 dicembre 2013, n. 6177, pag. http://www.lexitalia.it/a/2013/8959Dispone l’art. 78, comma secondo, del D.Lgs. n. 267 del 2000 che: “Gli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L’obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”.(3) Cfr. T.A.R. Lombardia, sez. II, 31 luglio 2014, n. 2180; T.A.R. Abruzzo – Pescara, 22 febbraio 2002, n. 271, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarabruzzopesc_2002-02-22.htm(4) T.A.R. Abruzzo – Pescara, 22 febbraio 2002, n. 271, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarabruzzopesc_2002-02-22.htm(5) Cfr. T.A.R. Abruzzo – Pescara, 9 novembre 2001, n. 910.In applicazione del principio nella specie, poichè dagli atti di causa non si rilevava quale sia l’utilità che i ricorrenti (cui incombe il relativo onere della prova) possano trarre dall’eventuale annullamento in parte qua della deliberazione di che trattasi, il motivo è stato ritenuto inammissibile per difetto di interesse atteso che i ricorrenti non hanno dimostrato quale utilità potrebbero conseguire dall’annullamento in parte qua della deliberazione di che trattasi.(6) Cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 8 aprile 2014, n. 1663, pag. http://www.lexitalia.it/a/2014/10535; Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4766,

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pag. http://www.lexitalia.it/a/2013/7897(7) Cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez. IV, 12 giugno 2012, n. 2264; 10 giugno 2010 n. 3695; Sez. VI, 1 dicembre 2010, n. 8371; 14 gennaio 2009, n. 140; 25 giugno 2008 n. 3215.(8) Cfr. Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26724 e 26725 e Cons. Stato, sez. V, 11 ottobre 2013, n. 4980, pag. http://www.lexitalia.it/a/2013/8108(9) Cons. Stato, sez. V, 10 febbraio 2015, n. 680.(10) T.A.R. Toscana, sez. III, 5 febbraio 2015, n. 227.

FATTO

Con il ricorso indicato in epigrafe il Sig. Domenico Nardella ha impugnato la Deliberazione del Consiglio Comunale di Vieste con la quale sono stati approvati gli elaborati grafici predisposti dall’Ufficio Tecnico Comunale di perimetrazione dei “Territori Costruiti” di cui al punto 5 dell’art. 1.03 N.T.A. del Piano Urbanistico Territoriale Tematico/Paesaggio approvato dalla Giunta della Regione Puglia con Deliberazione n. 1748 del 15.12.2000.

Il ricorrente avverso la deliberazione impugnata ha dedotto la violazione dell’art. 78 del D.Lgs. n. 267 del 2000, la violazione dell’art. 97 della Costituzione, la violazione dei principi di imparzialità e buona amministrazione, l’incompatibilità, l’incompetenza, il malgoverno dell’art. 5.05 N.T.A. P.U.T.T., la violazione e il malgoverno dell’art. 1.03, punto 5.3 N.T.A. P.U.T.T., la carenza di potere, la violazione del procedimento, la violazione e malgoverno dell’art. 5.05, punto 1.2 N.T.A. P.U.T.T., la violazione e malgoverno dell’art. 1.03, punto 5.3. N.T.A. P.U.T.T., l’eccesso di potere per difetto di istruttoria, per illogicità , contraddittorietà e per erronea interpretazione, abnorme illogicità, errore di fatto, disparità di trattamento, l’indeterminatezza, la violazione dell’art. 149 del D.Lgs. n. 490 del 1999, la violazione e il malgoverno della L.R. n. 56 del 1980, il difetto di motivazione ed errata interpretazione, la disparità di trattamento e l’ingiustizia grave e manifesta.

Con atto depositato in data 13.06.2013 si è costituito in giudizio il Comune di Vieste chiedendo la reiezione del ricorso.

All’udienza del 20.11.2014 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

Il ricorso è infondato e va respinto.

1. – Con il primo motivo di ricorso il Sig. Domenico Nardella deduce l’illegittimità della deliberazione impugnata in quanto alcuni amministratori aventi, a parere dei ricorrenti, interesse diretto al contenuto dell’atto medesimo, non si sarebbero astenuti, contravvenendo a quanto previsto dall’art. 78 del D.Lgs. n. 267 del 2000.

Più nello specifico, i ricorrenti sostengono – allegando documentazione dimostrativa – che tra i territori costruiti perimetrati con gli elaborati grafici censurati, sarebbero state ricomprese aree in comproprietà di amministratori del Comune, con parenti entro il quarto grado (aree in comproprietà del Sindaco, con fratello e sorella germani ed aree in comproprietà tra quest’ultimi).

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Tale circostanza, a parere dei ricorrenti, avrebbe dovuto indurre gli amministratori ad astenersi dal partecipare all’approvazione degli elaborati grafici predisposti dall’Ufficio Tecnico Comunale di perimetrazione dei “Territori Costruiti”.

L’art. 78, comma secondo, del D.Lgs. n. 267 del 2000, in proposito recita “Gli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L’obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”.

Il Comune di Vieste, nella memoria di costituzione, sul punto ha osservato che la Deliberazione impugnata aveva natura meramente ricognitiva e che pertanto non era applicabile nel caso in esame l’art. 78 suddetto.

L’Amministrazione resistente sostiene anche che i ricorrenti avrebbero dovuto fornire la prova di resistenza: provare pertanto che senza l’intervento degli amministratori de quibus il contenuto della Deliberazione sarebbe stato diverso.

Sul punto ci si limita a ricordare quanto affermato dal Consiglio di Stato in proposito: “è pacifico in giurisprudenza che il dovere di astensione degli amministratori locali sussiste in tutti i casi in cui essi versino in situazioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano idonee anche solo in via potenziale a minare l’imparzialità dei medesimi, rendendo quindi del tutto irrilevante sia il superamento dell’eventuale prova di resistenza del voto (Consiglio di Stato, sez. V, 17 novembre 2009 n. 7151), sia anche il mancato raggiungimento del risultato sperato e del pregiudizio dell’amministrazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 28 gennaio 2011, n. 693)” (Cons. Stato, sez. IV, 20 dicembre 2013, n. 6177).

Questo Collegio osserva preliminarmente che, trattandosi di atto avente carattere generale, in base a quanto disposto dall’art. 78 del D.Lgs. n. 267 del 2000, l’obbligo di astensione degli amministratori debba ravvisarsi solo nel caso in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.

Ciò premesso, questo Collegio osserva che anche se si dovesse ravvisare tale immediata e diretta correlazione, alla luce di quanto disposto dal quarto comma dell’art. 78 del D.Lgs. n. 267 del 2000 –che si ritiene applicabile anche alla fattispecie in esame – nonché del generale principio di conservazione degli atti giuridici, ciò determinerebbe l’annullamento solo della parte della deliberazione de qua che costituisce oggetto della correlazione.

L’art. 78 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 ha infatti legislativamente tipicizzato le conseguenze della violazione dell’obbligo di astensione nell’ipotesi di provvedimenti di carattere generale quali i piani urbanistici, individuandole non nell’annullamento in toto dello strumento urbanistico, ma nell’annullamento delle sole parti dello strumento urbanistico che costituiscono oggetto di correlazione con gli specifici interessi degli amministratori locali; tale norma ha nella sostanza limitato il potere di

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annullamento del giudice amministrativo in relazione alla violazione dell’obbligo di astensione, nel senso cioè che il vizio in parola incide solo parzialmente sull’atto assunto in violazione di tale obbligo (T.A.R. Lombardia, sez. II, 31 luglio 2014, n. 2180; T.A.R. Abruzzo – Pescara, 22 febbraio 2002, n. 271).

Se tale è la conseguenza nell’ipotesi in cui il vizio dedotto sia fondato, sembra a questo Collegio che con riferimento a tale possibile effetto, i ricorrenti avrebbero necessariamente dovuto dimostrare di trarre una qualche utilità da tale limitato annullamento, pena l’inammissibilità del motivo (T.A.R. Abruzzo – Pescara, 22 febbraio 2002, n. 271), non ritenendosi possibile attribuire in capo a qualsiasi componente di una comunità, una sorta di interesse generalizzato all’impugnativa (così T.A.R. Abruzzo – Pescara, 9 novembre 2001, n. 910).

Ciò posto, deve rilevarsi che nel caso di specie dagli atti di causa non si rileva quale sia l’utilità che i ricorrenti (cui incombe il relativo onere della prova) possano trarre dall’eventuale annullamento in parte qua della deliberazione di che trattasi.

In estrema sintesi il motivo in parola – così come dedotto – appare inammissibile per difetto di interesse atteso che i ricorrenti non hanno dimostrato quale utilità potrebbero conseguire dall’annullamento in parte qua della deliberazione di che trattasi.

2. – Con il secondo motivo di ricorso (inserito peraltro nel motivo di ricorso n. 1) il Sig. Domenico Nardella deduce l’assenza del parere di regolarità tecnica del sostituto del Dirigente tecnico dell’U.T.C.

Sul punto si osserva che agli atti il parere di regolarità tecnica risulta essere apposto dal Responsabile del Servizio, Geom. Mario Fabrizio, sulla relazione tecnica allegata alla Deliberazione impugnata.

Sul punto, questo Collegio rinvia al consolidato indirizzo giurisprudenziale a mente del quale i pareri previsti per l’adozione delle deliberazioni comunali (prima ai sensi dell’ art. 53 della legge 8 giugno 1990, n. 142, e poi ai sensi dell’ art. 49 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267) non costituiscono requisiti di legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, in quanto sono preordinati all’individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile, così che la loro eventuale mancanza costituisce una mera irregolarità che non incide sulla legittimità e la validità delle deliberazioni stesse (ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 8 aprile 2014, n. 1663; Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4766).

Il secondo motivo di ricorso pertanto deve essere respinto perché infondato.

3. – Con il terzo motivo di ricorso (motivo di ricorso n. 2 per il ricorrente) il Sig. Domenico Nardella deduce l’illegittimità della Deliberazione in quanto a parere del ricorrente l’unico soggetto che avrebbe dovuto provvedere ai sensi dell’art. 5.05 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.U.T.T. era il Sindaco, mentre l’incarico di delimitazione dei Territori Costruiti era stato affidato all’Ufficio Tecnico con Deliberazione di Giunta e l’intera vicenda sarebbe stata illegittimamente gestita dalla Giunta ove non anche dal Consiglio.

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Sul punto preliminarmente si osserva che la Deliberazione della Giunta con la quale è stato affidato l’incarico di delimitazione dei Territori Costruiti all’Ufficio Tecnico non è stata oggetto di impugnazione e che pertanto la legittimità di tale atto non può in questa sede essere messa in discussione.

Per quanto riguarda la Deliberazione oggetto di impugnazione certamente non avrebbe potuto essere adottata dal Sindaco.

L’art. 5.05 delle N.T.A. del P.U.T.T. si limita a prevedere che il Sindaco debba riportare sulla cartografia dello strumento urbanistico generale vigente le perimetrazioni degli Ambiti Territoriali Estesi. La norma nulla dice sul soggetto competente ad effettuare tali perimetrazioni, né sul soggetto competente ad approvare tali perimetrazioni.

Trattandosi di atto amministrativo di carattere generale, adottato in attuazione di una norma contenuta nelle N.T.A. del P.U.T.T., si ritiene che esso rientri tra gli atti fondamentali sui quali, ai sensi dell’art. 42 del D.Lgs. n. 267 del 2000, ha competenza proprio il Consiglio. Più nello specifico, questo Collegio ritiene che tale atto possa rientrare nella categoria di atti di cui alla lett. b), dell’art. 42 citato.

Anche il terzo motivo di ricorso pertanto deve essere respinto perché infondato.

4. – Con il quarto motivo di ricorso (motivo di ricorso n. 3 per il ricorrente) il Sig. Domenico Nardella deduce l’illegittimità degli atti impugnati in quanto non sarebbe stato rispettato dal Sindaco il termine di 180 giorni dall’entrata in vigore del P.U.T.T. previsto dall’art. 5.05 delle N.T.A. del P.U.T.T. ai n. 1.1. e 1.2. per riportare, sulla cartografia dello strumento urbanistico generale vigente, la perimetrazione degli ambiti territoriali estesi, distinti e dei territori costruiti e per inviare tale documentazione all’Assessorato Regionale all’Urbanistica.

Non sarebbe stato altresì rispettato dal Consiglio il termine di novanta giorni dalla entrata in vigore del piano per adottare le deliberazioni volte a perimetrare su cartografia catastale quelle aree che, ancorché non tipizzate come zone omogenee “B” dagli strumenti urbanistici vigenti, o ne abbiano di fatto le caratteristiche, o siano zone intercluse.

In merito, ci si limita ad osservare che il mancato rispetto dei termini di che trattasi non determina l’illegittimità dei provvedimenti impugnati (per quanto riguarda la censura relativa al non aver provveduto a riportare la perimetrazione sulla cartografia dello strumento urbanistico generale vigente si rinvia al punto 5).

Per costante orientamento del Consiglio di Stato, infatti, il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento non vizia l’atto conclusivo sopravvenuto alla scadenza di questo (ex plurimis: Sez. IV, 12 giugno 2012, n. 2264; 10 giugno 2010 n. 3695; Sez. VI, 1 dicembre 2010, n. 8371; 14 gennaio 2009, n. 140; 25 giugno 2008 n. 3215).

All’indirizzo ora richiamato deve essere data continuità, perché “esso si fonda sull’applicazione di consolidate categorie di teoria generale di diritto, in base alla quale vanno tenute distinte le norme di comportamento dalle norme di validità degli atti giuridici e le conseguenze rispettivamente discendenti dalla violazione dell’une o

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delle altre, nel senso che solo in quest’ultimo caso la sanzione ricade sull’atto medesimo, determinandone a seconda dei casi la nullità o l’annullabilità, laddove nella prima ipotesi sorgono conseguenze esclusivamente di carattere risarcitorio (cfr. Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26724 e 26725)” (Cons. Stato, sez. V, 11 ottobre 2013, n. 4980).

Anche il quarto motivo di ricorso pertanto deve essere respinto perché infondato.

5. – Con la quinta censura (motivo di ricorso n. 4 per il ricorrente) il ricorrente deduce l’illegittimità degli atti impugnati in quanto il Comune di Vieste non avrebbe provveduto a riportare la perimetrazione sulla cartografia dello strumento urbanistico generale vigente determinando incertezza assoluta in ordine all’effettiva estensione dei territori costruiti e, quindi, sull’estensione anche dei vincoli del P.U.T.T.

Anche tale condotta integra semmai la violazione di una norma di comportamento e non di una norma di validità degli atti giuridici, non potendo pertanto determinare l’illegittimità degli atti impugnati (sul punto si richiama di nuovo la sentenza del Cons. Stato, sez. V, 11 ottobre 2013, n. 4980).

Anche tale motivo di ricorso va dunque rigettato perché infondato.

6. – Con la sesta censura (motivo di ricorso n. 5 per il ricorrente) il ricorrente deduce l’illegittimità degli atti impugnati in quanto in violazione dell’art. 1.03 “Efficacia delle norme tecniche di piano”, punto 5.3 delle N.T.A. (che definisce “Territori Costruiti” – all’interno dei quali non trovano applicazione le norme contenute nel Piano, di cui al titolo II “Ambiti territoriali estesi” ed al titolo III “Ambiti territoriale distinti” – anche le: “aree che, ancorché non tipizzate come zone omogenee “B” dagli strumenti urbanistici vigenti: – o ne abbiano di fatto le caratteristiche…- o siano intercluse nell’interno del perimetro definito dalla presenza di maglie regolarmente edificate…”), non avrebbero inserito il territorio del ricorrente nell’ambito della perimetrazione dei territori costruiti, nonostante esso, secondo il ricorrente, costituisca zona interclusa nel perimetro definito dalla presenza di maglie regolarmente edificate.

Sul punto l’Amministrazione eccepisce che il territorio del ricorrente non risulta essere intercluso atteso che non si troverebbe chiuso completamente all’interno da maglie regolarmente edificate.

6.2. – Il ricorrente sostiene che l’illegittimità degli atti impugnati discenda altresì dall’omessa indicazione del criterio logico-tecnico ermeneutico seguito ai fini della individuazione del concetto di “interclusione” delle aree. Ciò, a parere del ricorrente, renderebbe la perimetrazione de qua assolutamente arbitraria.

L’Amministrazione resistente in merito osserva che la definizione di area interclusa è puntualmente e “geometricamente” definita dall’art. 1.03, punto 5.3, delle N.T.A. del P.U.T.T secondo cui per aree intercluse devono intendersi quelle aree “intercluse nell’interno del perimetro definito dalla presenza di maglie regolarmente edificate e vengono perimetrale su cartografia catastale con specifica deliberazione di Consiglio Comunale”.

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Questo Collegio ritiene che la definizione di area interclusa contenuta nelle N.T.A. del P.U.T.T. sia sufficientemente chiara e comunque non tale da rendere la perimetrazione de qua assolutamente arbitraria.

Dalla documentazione in atti (cfr. Allegati n. 17 e 18 del fascicolo di parte ricorrente e Allegato n. 4 del fascicolo dell’Amministrazione resistente) non emerge in modo chiaro se l’area di proprietà del ricorrente risulti delimitata e perimetrata da maglie “urbanistiche regolarmente edificate” (unico ed imprescindibile presupposto per la qualificabilità dell’area come interclusa ai fini della perimetrazione dei territori costruiti), né il ricorrente – a fronte di quanto affermato dall’Amministrazione – ha fornito alcuna prova in senso contrario a supporto della propria domanda.

Sul punto ci si limita a ricordare che secondo il Codice del processo amministrativo: “Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardante i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni” (art. 64, comma 1, c.p.a.) (Sul punto T.A.R. Campania, sez. VI, 13 febbraio 2015, n. 1101).

A ciò si aggiunga che nel procedimento giurisdizionale, la consulenza tecnica, pur se disposta d’ufficio, non è destinata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dedotti e posti a base delle richieste (fatti che devono essere dimostrati dalla medesima parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell’onere della prova posti dall’art. 2697 Cod. civ.), ma ha la funzione di fornire all’attività valutativa del giudice l’apporto di cognizioni tecniche non possedute (Cons. Stato, sez. V, 10 febbraio 2015, n. 680).

In merito, recentemente, il T.A.R. Toscana, sez. III, 5 febbraio 2015, n. 227 ha affermato “in base al nuovo codice del processo amministrativo spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni (art. 64 comma 1); al mancato assolvimento di tale onere non può sopperire il giudice che deve porre fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite (art. 64 comma 2), senza poter attivare i suoi poteri istruttori officiosi in caso di mancato assolvimento degli oneri probatori gravanti sulle parti (art. 63 comma 1)”.

Tenuto conto che nel caso in esame il ricorrente non ha fornito la prova dell’ allegata “interclusione” – nel senso di cui alle N.T.A. del P.U.T.T. – dell’area di che trattasi (si ribadisce che dalle cartografia allegata dai ricorrenti non emerge in modo chiaro se l’area di proprietà dello stesso risulti delimitata e perimetrata da maglie “urbanistiche regolarmente edificate”), anche tale motivo di ricorso deve essere respinto perché infondato.

7. – Con l’ultimo motivo di ricorso (motivo di ricorso n. 6 per il ricorrente) il Sig. Domenico Nardella deduce l’illegittimità degli atti impugnati per disparità di trattamento atteso che “pur a fronte di aree tipizzate dagli strumenti urbanistici vigenti come zona omogenea “C”, ma non rispondenti ai criteri definiti al punto 5.2 delle N.T.A. (ossia non incluse in strumenti urbanistici esecutivi alla data del 6.6.90), utilizzando il criterio di cui al successivo art. 5.3 (…aree che ancor non tipizzate come zone omogenee “B”…siano intercluse…) ha considerato le ridette aree, appunto

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intercluse, onde farle rientrare ugualmente tra i territori costruiti e svincolarli dal parere paesaggistico”.

Il ricorrente riporta alcuni esempi in cui, a parere dello stesso, il Comune di Vieste avrebbe interpretato in modo estensivo il disposto di cui al punto 5.3.

Il Collegio si limita ad osservare che nessuna disparità di trattamento può essere ravvisata con riferimento alle zone suddette in quanto fattispecie differente rispetto a quella in esame.

Le aree in questione, infatti, sono tipizzate dagli strumenti urbanistici vigenti come zona omogenea di espansione “C”, mentre le aree dei ricorrenti, secondo quanto dagli stessi asserito (pagina 5 e 7 del ricorso), ricadono in zona omogenea Ct (turistica).

Inoltre, il Comune di Vieste nella memoria di costituzione evidenzia che il terreno del ricorrente non risulta alla data del 6.6.1990 incluso in strumento urbanistico esecutivo regolarmente presentato, atteso che fino a quella data era tipizzato quale zona agricola nell’allora vigente Piano di Fabbricazione.

In merito, il T.A.R. Bari, sez. I, con la sentenza 15 gennaio 2009, n. 55, confermata dal Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza 25 settembre 2014, n. 4820, ha ritenuto illegittimo il provvedimento regionale – concernente il diniego di attestazione di coerenza al PUTT/P della perimetrazione dei territori costruiti del Comune di Vieste – nella parte in cui non considerava interclusa la zona “C” “in quanto tipizzata nel PRG approvato successivamente al 6 giugno 1990”.

Secondo il giudice amministrativo di primo e di secondo grado tale zona, infatti, è edificata e definita “C” dal precedente piano di fabbricazione ed è “area interclusa” essendo posta all’interno di zone per attrezzature (F1, F2 e F3).

Anche tale motivo di ricorso deve pertanto essere respinto perché infondato.

In conclusione, il ricorso in parte deve essere dichiarato inammissibile e in parte deve essere respinto perché infondato.

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