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1 1 LA (IN)COMPATIBILITÀ DELLA RIFORMA DEI LICENZIAMENTI NEL JOBS ACT 2 NEL PRISMA DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA di Vincenzo DE MICHELE 1. Il Governo Renzi e il negato primato del diritto dell’Unione sulla tutela dei diritti fondamentali. - 2. L’ingerenza a corrente alternata e differenziata delle Istituzioni europee sulle riforme nazionali del lavoro nell’anno 2011. - 3. La riforma del lavoro del 2012 in Italia secondo i desiderata delle Istituzioni europee e la nuova legge quadro sul recepimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza all’UE, ai sensi dell’art. 117, c.1, Cost. - 4. Il Jobs Act e la deviazione del Governo Renzi dagli strumenti legislativi della l. n. 234/2012 sul recepimento degli obblighi UE. - 5. I licenziamenti individuali e il diritto dell’Unione Europea. L’idea del “contratto unico” della Commissione e l’esperienza del CNE francese. - 6. Il contratto a tempo indeterminato di sostegno agli imprenditori in Spagna e la sentenza Poclava della Corte di Giustizia. - 7. L’applicazione diretta ed orizzontale dell’art. 30 della Carta di Nizza in caso di licenziamenti ingiustificati, nell’attuazione del diritto dell’Unione. - 8. La tutela reale in materia di licenziamenti nella giurisprudenza della Cassazione tra Carta di Nizza e direttiva 1999/70/CE. - 9. L’unificazione delle tutele contro il recesso illecito o irregolare dei contratti a tempo determinato e contro i licenziamenti ingiustificati nel pubblico impiego e nel lavoro privato. - 10. Conclusioni. La vera ratio a termine del Jobs Act. 1

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LA (IN)COMPATIBILITÀ DELLA RIFORMA DEI LICENZIAMENTI NEL JOBS ACT 2 NEL PRISMA DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

di Vincenzo DE MICHELE

1. Il Governo Renzi e il negato primato del diritto dell’Unione sulla tutela dei diritti fondamentali. - 2. L’ingerenza a corrente alternata e differenziata delle Istituzioni europee sulle riforme nazionali del lavoro nell’anno 2011. - 3. La riforma del lavoro del 2012 in Italia secondo i desiderata delle Istituzioni europee e la nuova legge quadro sul recepimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza all’UE, ai sensi dell’art. 117, c.1, Cost. - 4. Il Jobs Act e la deviazione del Governo Renzi dagli strumenti legislativi della l. n. 234/2012 sul recepimento degli obblighi UE. - 5. I licenziamenti individuali e il diritto dell’Unione Europea. L’idea del “contratto unico” della Commissione e l’esperienza del CNE francese. - 6. Il contratto a tempo indeterminato di sostegno agli imprenditori in Spagna e la sentenza Poclava della Corte di Giustizia. - 7. L’applicazione diretta ed orizzontale dell’art. 30 della Carta di Nizza in caso di licenziamenti ingiustificati, nell’attuazione del diritto dell’Unione. - 8. La tutela reale in materia di licenziamenti nella giurisprudenza della Cassazione tra Carta di Nizza e direttiva 1999/70/CE. - 9. L’unificazione delle tutele contro il recesso illecito o irregolare dei contratti a tempo determinato e contro i licenziamenti ingiustificati nel pubblico impiego e nel lavoro privato. - 10. Conclusioni. La vera ratio a termine del Jobs Act.

1. Il Governo Renzi e il negato primato del diritto dell’Unione sulla tutela dei diritti fondamentali

Il principio del primato del diritto “comunitario” sulle legislazioni nazionali è sancito “soltanto” nella dichiarazione n. 171, allegata ai Trattati Ue di quella formidabile e fragilissima costruzione politico-amministrativa che chiamiamo ora Unione europea: «Per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza.».

1 V. Gianniti, 2015, 149.

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Quindi, la primazia del diritto dell’Unione non è un dato così scontato sul piano generale del sistema delle fonti del diritto, sicuramente non lo è per l’attuale Governo italiano, sin dal primo atto normativo dopo il suo insediamento con il d.l. 20 marzo 2014, n. 342 e con le modifiche apportate d’urgenza alle discipline del contratto a tempo determinato, della somministrazione di lavoro e dell’apprendistato.

Il decreto Poletti ha, infatti, destrutturato e reso inefficace la tutela interna contro gli abusi nell’utilizzazione dei contratti flessibili di tipo subordinato, e questa situazione di sostanziale mancata attuazione delle direttive n. 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato e n. 2008/104/CE sul lavoro alle dipendenze di agenzie interinali sarà suggellato entro il 2015 dall’abrogazione anche formale del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, con l’art. 46, c. 1, lett. b), dello schema di decreto legislativo recante il «Testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183», presentato il 9 aprile 2015 per il parere delle Camere.

I provvedimenti normativi che hanno già recepito i contenuti della delega di cui all’art. 1, c. 7, lett. b) e c), l. 10 dicembre 2014, n.183 - cioè l’art. 1, cc. 118-124, l. 23 dicembre 2014, n. 190, con gli sgravi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato e il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, contenente la disciplina del contratto a tempo indeterminato impropriamente denominato a “tutele crescenti” – si muovono nel solco già tracciato dal d.l. n. 34/2014 e, quindi, non operano né «in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali» (art. 7, c. 1, ultima parte, d.lgs. n. 23/2015) né in coerenza con l’art. 117, c. 1, Cost. e con le norme generali che recepiscono tale disposto della Carta fondamentale per consentire la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, cioè la l. 24 dicembre 2012, n. 234.

Pare a chi scrive, infatti, che il legislatore del Jobs Act 2 e dell’emergenza costituzionale3, approfittando del semestre europeo di presidenza italiana del Consiglio Ue e della grande tolleranza dimostrata dalla Commissione europea rispetto alla necessità dell’Italia le riforme istituzionali per far ripartire l’economia di uno dei principali Stati membri, abbia ricevuto una specie di mandato implicito pieno ma temporaneo (fino al 31 dicembre 2015, cioè fino al termine dell’anno sabbatico dal

2 Si rimanda per i rilievi di incompatibilità con il diritto dell’Unione europeo del decreto Poletti, soprattutto in sede di conversione con la l. n. 78/2014, a De Michele, 2014a.

3 Si tratta di un’attività legislativa del Governo, d’urgenza o su delega parlamentare, che prima subisce e poi cavalca l’emergenza della crisi socio-economica e che muove dalla sostanziale delegittimazione del Parlamento a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale della legge elettorale c.d. “Porcellum”, dopo Corte Cost. 13 gennaio 2014, n.1, in www.giurcost.org

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rispetto delle regole dell’Unione per accedere agli sgravi triennali della legge di stabilità e per tutta la durata dell’Expo) per tentare di ricostruire la disciplina interna in materia di diritto del lavoro e di previdenza sociale, sepolta sotto le macerie di oltre venti anni di interventi normativi contraddittori, discriminatori nei confronti delle imprese e dei lavoratori, settoriali per creare sacche di clientele e di privilegi quasi sempre legati agli interessi dello Stato e delle imprese pubbliche, del tutto indifferente rispetto al problema della compatibilità con il diritto europeo e con l’attuazione corretta delle direttive sociali sovranazionali.

2. L’ingerenza a corrente alternata e differenziata delle Istituzioni europee sulle riforme nazionali del lavoro nell’anno 2011

In altri ordinamenti nazionali, come la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo, la crisi del sistema regolativo del mercato del lavoro è stata condivisa con le Istituzioni europee, fino al punto di arrivare ad un vero e proprio commissariamento dell’attività normativa e del controllo sull’effettività delle misure adottate per uscire dalla recessione economica e sociale (con elevatissimi livelli di disoccupazione).

Se si pensa alla Spagna, ad esempio, il cui contratto a tempo indeterminato “di sostegno” ha molte affinità con il nostro “modello” del sedicente contratto a t.i. a tutele crescenti4, lo Stato iberico ha ricevuto due raccomandazioni del Consiglio Ue del 12 luglio 2011 e del 10 luglio 2012 sul programma nazionale di riforma rispettivamente per il 2011 e per il 2012, con relativi pareri sul programma di stabilità nazionale per il 2011-2014 e per il 2012-2015.

Esse sono state molto più incisive e più penetranti nelle indicazioni di riforma del lavoro dell’ordinamento iberico di quelle blande ed evanescenti che, vedremo, sono contenute nella raccomandazione del Consiglio UE del 2 giugno 2014 sul programma nazionale di riforma 2014 dell’Italia, con parere sul programma di stabilità 2014, in cui invece avremmo dovuto intravvedere quanto meno le linee guida dell’attuale nuova riforma del lavoro denominato Jobs Act, mentre si colgono anticipati (e ovviamente concordati, a due mesi dall’inizio del semestre italiano di Presidenza del Consiglio Ue e in concomitanza con l’esito delle elezioni europee molto favorevoli al principale partito della attuale maggioranza del Governo italiano) i suggerimenti di riforma della

4 Come immediatamente evidenziato in dottrina, si tratta di un comune contratto a tempo indeterminato, che prevede unicamente la crescita dell’indennizzo economico in relazione all’anzianità di servizio, in caso di licenziamenti illegittimi: v. Carinci F., 2015; Miscione M., 2015a.

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scuola, in pendenza delle questioni pregiudiziali sul precariato scolastico, che si concluderanno con la sentenza Mascolo5 della Corte di giustizia del 26 novembre 2014.

Sul programma nazionale di riforma 2011 dell’Italia il Consiglio Ue espresse le sue raccomandazioni il 12 luglio 20116, formulando un parere sul programma aggiornato 2011-2014 e chiedendo al Governo nazionale di «rafforzare le misure intese a combattere la segmentazione del mercato del lavoro, anche rivedendo aspetti specifici della legislazione a tutela dell’occupazione, comprese le procedure che disciplinano i licenziamenti» (raccomandazione n. 3), contestualmente rivedendo il «sistema di indennità di disoccupazione, attualmente frammentario.».

Subito dopo, come è noto, l’Italia, sull’orlo del default, ricevette la lettera della BCE a firma congiunta Trichet e Draghi del 5 agosto 20117 che, sul problema della tutela dei licenziamenti e sulla flessibilità e la tutela del lavoro atipico, forniva al punto c) le seguenti indicazioni di intervento strutturale, del tutto in linea con le raccomandazioni del Consiglio Ue: «Dovrebbe essere adottata un accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi».

L’intervento quasi contestuale del Consiglio Ue e della Banca centrale del luglio-agosto 2011 sulla materia dei licenziamenti individuali rientra nelle competenze dell’Istituzioni europee che, in base all’art. 153, pt. 1, lett. d), del Trattato per il funzionamento dell’Unione europea (TFUE), ha il potere di dettare agli Stati membri direttive che fissino gli standards minimi comuni di «protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro.». È , dunque, vero che non è mai stata adottata una direttiva sociale che armonizzi le discipline nazionali in materia di licenziamenti individuali, dopo il fallimento della proposta di direttiva della Commissione del 1998, ma il potere di iniziativa legislativa dell’Unione comporta anche la facoltà di suggerire misure nazionali di intervento in caso di situazione di criticità, come era apparsa (ed era sul piano finanziario) quella italiana.

Gli eventi successivi sono noti, con l’autocommissariamento dell’Italia con il Governo “straordinario” di Mario Monti, a sua volta designato dall’allora Presidente della Commissione Barroso quale salvatore della patria europea con la lettera di

5 Su cui cfr. De Michele, 2015; Coppola, 2015; Galleano, 2015; Menghini, 2015; Calafà, 2015; Nunin, 2015; Miscione M., 2015b; Irmici, 2015; Santoro Passarelli G., 2015, 189; De Luca, 2014.

6 Le raccomandazioni sono pubblicate su G.U.U.E. C 215/4 del 21 luglio 2011.7 V. De Michele, 2013, 36 ss.

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incarico del 20 ottobre 20098 sulle misure che l’UE avrebbe dovuto adottare dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona a decorrere dal 1° dicembre 2009 per mantenere la coesione sociale ed economica e, soprattutto, per individuarne il ruolo come ordinamento sovranazionale idoneo ad affrontare la crisi degli Stati membri, evitando le naturali derive nazionalistiche.

3. La riforma del lavoro del 2012 in Italia secondo i desiderata delle Istituzioni europee e la nuova legge quadro sul recepimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Ue, ai sensi dell’art. 117, c. 1, Cost.

Con la l. 28 giugno 2012, n. 92, sembrava essersi realizzata per l’Italia quella «riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita», che potesse soddisfare le indicazioni “congiunte” del Consiglio UE e della BCE, e della Commissione nella Comunicazione del 18 aprile 2012, riguardando la nuova disciplina sia i contratti flessibili che il contratto “dominante” a tempo indeterminato (e un particolare rito processuale per i licenziamenti assistiti da stabilità reale), sia gli ammortizzatori sociali, sia (anche se in modo estremamente marginale) le politiche attive del lavoro e i servizi per l’impiego.

In particolare, la sostanziale riduzione della tutela contro i licenziamenti illegittimi sia individuali che collettivi per “motivi economici” ad una forte misura indennitaria pareva poter soddisfare le indicazioni della Commissione, che aveva evidenziato apoditticamente9 la rigidità della legislazione protettiva della flessibilità in uscita negli Stati dell’area mediterranea, sottolineando nella Comunicazione del 18 aprile 2012, COM(2012)173, al § 2.1.1. sulla preferenza delle imprese per gli strumenti di flessibilità lavorativa in entrata che «se i datori privilegiano marcatamente queste forme di rapporto contrattuale, ciò è forse dovuto ai costi di licenziamento assai più elevati associati ai contratti a tempo indeterminato/classici. In molti casi, inoltre, questi posti di lavoro non costituiscono un punto di partenza verso forme di lavoro più stabili. Occorrono dunque riforme misurate ed equilibrate della legislazione in materia di tutela del lavoro allo scopo di correggere la segmentazione o di frenare l’eccessivo ricorso a contratti atipici e l’abuso del falso lavoro autonomo».

Il Governo Monti, peraltro, pareva aver considerato esaurita la stagione delle riforme del lavoro, nel momento in cui aveva fatto approvare dal Parlamento la l. 24 dicembre 2012, n. 234, che, in attuazione dell’art. 117, c. 1, Cost., contiene le norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa

8 Sul punto si rimanda a De Michele, 2011b, 304 ss.9 Orlandini, 2012, 15.

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e delle politiche dell’Unione europea, sostituendo la 2ª legge quadro comunitaria 4 febbraio 2005, n. 11 (che, a sua volta, aveva sostituito la fondamentale legge “La Pergola” 9 marzo 1989, n. 86).

Diversamente dai due precedenti interventi normativi che costruivano un percorso obbligato di tempestivo recepimento delle direttive europee in scadenza, attraverso la legge delega annuale e i decreti legislativi attuativi, la l. n. 234/2012 ha invece restituito al Parlamento un ruolo non marginale per la formazione e l’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione, attraverso i due strumenti della «legge di delegazione europea» da presentare entro il 28 febbraio di ogni anno (art. 29, c. 4), che assorbe e mutua il meccanismo della legge delega annuale comunitaria e dei decreti legislativi attuativi, e soprattutto della «legge europea», che consente alle Camere - sulla base di un disegno di legge governativo “dedicato” (cioè recante esclusivamente disposizioni da approvare con le modalità e i contenuti della “legge europea”) - di approvare, tra le altre, disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti oggetto di procedure d’infrazione avviate dalla Commissione europea nei confronti della Repubblica italiana o di sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea [art. 30, c. 3, lett. b), che coincide con lo spazio di intervento della “legge di delegazione europea” definito dal c. 2, lett. b), dello stesso articolo].

L’art. 37 della l. n. 234/2012 prevede per il Governo (su iniziativa del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro degli affari europei) la possibilità di adottare misure urgenti per l’adempimento agli obblighi derivanti da atti normativi dell’Unione o da sentenze della Corte di giustizia ovvero dall’avvio di procedure d’infrazione nei confronti dell’Italia che comportano obblighi statali di adeguamento, con provvedimenti diversi dalla legge di delegazione europea e dalla legge europea, qualora il termine per provvedervi risulti anteriore alla data di presunta entrata in vigore della legge di delegazione europea o della legge europea relativa all’anno di riferimento.

Il successivo art. 38, infine, consente la possibilità per il Governo di un disegno di legge, limitato all’attuazione di singoli atti normativi dell’Unione europea di particolare importanza politica, sociale ed economica, riguardante le materie di competenza legislativa statale.

Come già nella l. n. 11/200510, per evitare deroghe a questo numerus clausus di iter legislativi che consentono di adempiere agli obblighi europei, la stessa l. n. 234/2012 prevede all’art. 58, c. 1, una norma di salvaguardia rispetto ad interventi normativi extra ordinem, in base alla quale le disposizioni della stessa legge possono essere

10 L’art. 21, ult. c., 4 febbraio 2005, n. 11, così disponeva: «1. Ai fini dell’attuazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, le disposizioni della presente legge possono essere modificate, derogate, sospese o abrogate da successive leggi solo attraverso l’esplicita indicazione delle disposizioni da modificare, derogare, sospendere o abrogare.».

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modificate, derogate, sospese o abrogate da successive leggi solo attraverso l’esplicita indicazione delle disposizioni da modificare, derogare, sospendere o abrogare.

Infine, a sottolineare la valenza sub-costituzionale della 3ª legge quadro sulle disposizioni attuative del diritto dell’Unione europea (legge, peraltro, “concordata” con le Istituzioni europee) l’art. 53, come l’abrogato art. 14-bis11, l. n. 11/2005, prevede, in materia di parità di trattamento, il divieto di discriminazione “indiretta” nei confronti dei cittadini italiani12, verso i quali non trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento garantiti nell’ordinamento italiano ai cittadini dell’Unione europea.

Né va dimenticato che con la l. cost. n. 1/2012 e con decorrenza dal 1° gennaio 2014 nel testo dell’art. 97, Cost., è stato inserito il comma “premesso”, in base al quale le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico. Questa disposizione crea la regola costituzionale della parità di bilancio (con contestuale modifica dell’art. 81 Cost.) legando l’operato delle pubbliche amministrazioni in attuazione dei principi di legalità, buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 Cost. all’osservanza dell’intera normativa dell’Unione, e non solo di quelle della contabilità

11 V. l’art. 14-bis, l. n.11/2005, introdotto dalla l. 7 luglio 2009, n. 88, così disponeva: «1. Le norme italiane di recepimento e di attuazione di norme e principi della Comunità europea e dell’Unione europea assicurano la parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea residenti o stabiliti nel territorio nazionale e non possono in ogni caso comportare un trattamento sfavorevole dei cittadini italiani. 2. Nei confronti dei cittadini italiani non trovano applicazione norme dell'ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento dei cittadini comunitari residenti o stabiliti nel territorio nazionale.».

12 La disposizione in commento, introdotta a seguito della nota vicenda degli ex lettori universitari, stabilizzati in applicazione del principio di libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, recentemente ribadito dal Regolamento UE n. 492/2011 del 5 aprile 2011 (che ha abrogato il precedente Regolamento n.1612/1968 del 15 ottobre 1968) e del divieto di discriminazione legata alla cittadinanza e a seguito di numerose decisione della Corte di giustizia di condanna per inadempimento nei confronti dell’Italia, non ha però trovato alcuna pratica attuazione. Ciò non esclude la sua effettività e particolarità come disposizione che direttamente disapplica o non applica norme discriminatorie, senza alcun preventivo sindacato di legittimità costituzionale. Non sembra un caso che la Suprema Corte di cassazione con la apodittica Cass. 15 ottobre 2014, n. 21831, in LG, 2015, 257 ss., con nota di Bresciani, 2015) abbia, stravolgendo gli orientamenti precedenti della stessa Corte di legittimità e della Corte di giustizia, negato il diritto del collaboratore linguistico alla riqualificazione in contratto a tempo indeterminato conversione dei contratti a termine illegittimi, estendendo anche a questa ipotesi il divieto di conversione di cui all’art. 36, c. 5, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

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pubblica, come ribadito dall’art. 18, c. 4, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella l. 7 giugno 2012, n. 134.

4. Il Jobs Act e la deviazione del Governo Renzi dagli strumenti legislativi della l. n. 234/2012 sul recepimento degli obblighi UE

Se questa è la cornice ordinamentale all’interno della quale devono collocarsi necessariamente tutti i provvedimenti legislativi nazionali che vanno ad incidere su discipline coperte da precedenti misure interne attuative di direttive europee, quali sono, allora, i presupposti per la legittimazione costituzionale e sovranazionale degli interventi del Governo Renzi su materie come la flessibilità in entrata (d.l. n. 34/2014) o la riforma degli incentivi alle imprese (con l’art. 1, cc. 118 ss., della legge di stabilità) o i licenziamenti collettivi (art. 10, d.lgs. n. 23/2015), se le norme di attuazione della direttiva n. 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato, della direttiva n. 2008/104/CE sulle lavoro alle dipendenze di agenzie interinali o del Regolamento n. 651/2014 della Commissione sugli aiuti di Stato o della direttiva n. 1998/59/CE sui licenziamenti collettivi erano già compiutamente definite nella legge n. 92/2012 o nella disciplina antecedente la riforma Fornero, senza seguire i percorsi normativi obbligati della legge n.92/2012?

Facciamo un esempio concreto. Nella l. 30 ottobre 2014, n. 161, sono state tempestivamente inserite - quasi al termine del lungo iter di approvazione della legge europea 2013 bis - le disposizioni che andavano a modificare l’art. 24, cc. 1, 1-quinquies e 2, l. 23 luglio 1991, n. 223, per adempiere alla sentenza della Corte di giustizia del 13 gennaio 201413, che ha condannato per inadempimento lo Stato italiano, per aver escluso la categoria dei dirigenti dal campo di applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi di cui alla l. n. 223/1991, in contrasto con l’art. 1, §§ 1 e 2, della direttiva n. 1998/59/CE.

Viceversa, per le modifiche alla disciplina dei contratti a tempo determinato e della somministrazione di lavoro, degli incentivi straordinari alle imprese con gli sgravi triennali della legge di stabilità e dei licenziamenti collettivi dei lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 non è stata seguita nessuna delle procedure legislative imposte dalla l. n. 234/2012.

Né le predette procedure di adempimento agli obblighi europei sono state impiegate, per rimediare alla situazione di inadempimento all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva 1999/70/CE, a seguito della

13 CGUE, sez. II, 13 gennaio 2014 in causa C-596/12 Commissione c. Italia, in LG, 2014, 233 ss., con nota di Miscione M., 2014

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durissima censura all’attuale sistema di reclutamento scolastico contenuta nei collegati provvedimenti del parere motivato del 20 novembre 2013 della Commissione nell’ambito della procedura di infrazione n. 2124-2010 sui docenti e ata supplenti della scuola statale e della citata sentenza Mascolo della Corte di giustizia.

Né si è fatto ricorso allo strumento della “legge europea” per adempiere agli obblighi derivanti dalla responsabilità dello Stato per il risarcimento dei danni causati dalla violazione manifesta del diritto dell’Unione europea commessa nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali del Giudice nazionale di ultima istanza, a seguito della procedura di infrazione n. 2009/2230 della Commissione e della sentenza di inadempimento della Corte di giustizia del 24 novembre 201114.

Anzi, era stato correttamente attivato l’iter legislativo per giungere sulla materia a rimediare alla situazione di mancata attuazione delle prescrizioni Ue nell’art. 23 del disegno di legge europea 2013 bis, ma il Parlamento sotto la guida del Governo Renzi, in concomitanza con la inevitabile preventivata censura sul reclutamento scolastico e sulla mancata applicazione della normativa interna in materia di tutela contro gli abusi nella successione dei contratti nel pubblico impiego, che sarebbe stata adottata dalla Corte di giustizia nella sentenza Mascolo, ha preferito rinunciare al percorso normativo costituzionalmente orientato per adottare con l. 27 febbraio 2015, n. 18, la (motivatamente) contestata soluzione (introdotta solo il 7 novembre 2014 nel testo della 2ª Commissione del Senato a modifica dell’originario e completamente diverso disegno di legge n. S1070) della modifica alla l. 13 aprile 1988, n. 117, sulla responsabilità civile dei magistrati, che nel novello art. 2, c. 3-bis incredibilmente mette sullo stesso piano la violazione flagrante della legge e la violazione flagrante del diritto dell’Unione europea.

Infatti, l’art. 2, c. 3-bis, l. n. 117/1988, all’evidente scopo di condizionare la funzione giurisdizionale in favore degli interessi dello Stato, pone il Giudice nazionale di fronte alla scelta - che comunque venga esercitata è causa di responsabilità civile e disciplinare nei confronti dello Stato nelle cause in cui parte sostanziale è la stessa

14 CGUE, sez. III, 24 novembre 2011, causa C-379/10 Commissione contro Repubblica italiana. La Corte ha così statuito: «La Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.».

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amministrazione pubblica - se violare la normativa interna che non rispetta i precetti comunitari (nel caso dei precari della scuola statale, gli artt. 4, c. 14-bis, l. n. 124/1999, 10, c. 4-bis, d.lgs. n. 368/2001, 36, cc. 5-ter e 5-quater, d.lgs. n. 165/2001), applicando il diritto dell’Unione europea (nella fattispecie del reclutamento scolastico, le clausole 4, pt. 1, 5, pt. 1 e 2, 8, pt. 1 e 3, dell’accordo quadro comunitario sul lavoro a tempo determinato; l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali Ue), come interpretato dalla Corte di giustizia (sentenze Mascolo e Valenza15 in particolare sul diritto alla stabilità lavorativa; sentenza Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres16 sulla disapplicazione delle norme che regrediscono la tutela già riconosciuta), o invece violare il diritto dell’Unione europea applicando le predette norme interne ostative alla stabilità lavorativa.

Né le procedure legislative per l’attuazione degli obblighi Ue sono state utilizzate per la disciplina dei licenziamenti individuali del contratto dei nuovi assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015, come introdotta dal d.lgs. n. 23/2015, all’interno del quale è allocata anche la modifica in peius della tutela in caso di licenziamenti collettivi adottati in violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5, c. 3, l. n. 223/1991.

Del resto, la figura istituzionale del Ministro (senza portafoglio) degli Affari esteri, introdotta per la 1ª volta dal Governo Monti nella formazione della compagine governativa per il collegamento costante nei rapporti tra Parlamento e Istituzioni europee sulle politiche dell’Unione europea, era stata inserita “strutturalmente” all’interno della l. n. 234/2012, il cui disegno di legge del resto è stato predisposto dallo stesso titolare pro tempore del Ministero, Moavero.

Non appare casuale, dunque, che l’implicita “abrogazione” (o sospensione dell’efficacia) della l. n. 234/2012 e delle procedure di recepimento degli obblighi europei in essa previste sia stata preceduta, nella formazione del Governo Renzi, dalla mancata nomina di un Ministro degli Affari europei, concentrando nella persona del nuovo Capo del Governo anche i rapporti diretti con le Istituzioni europee, poco prima dell’inizio del semestre italiano di Presidenza del Consiglio UE.

A tal proposito, interessante (ma molto contestata), in particolare, è la proposta del Presidente del Consiglio UE Renzi di raddoppiare il numero dei Giudici del Tribunale (già Tribunale di 1° grado) di Lussemburgo17, subito raccolta dall’Istituzione

15 CGUE, sez. VI, 18 ottobre 2012, cause riunite C-302-303-304-305/11, Valenza e a.contro AGCM, su cui cfr. De Stefano, 2012, 33-34.

16 CGUE, sez. II, 22 dicembre 2010, cause riunite C-444/09 Gavieiro Gavieiro e C-459/09 Iglesias Torre, su cui cfr. De Michele, 2011c, 781; Driguez, 2011, 43-44; Jeansen, 2011; Sardina Cámara, 2011, 1-3; Siotto, 2011, 1294-1299

17 Così viene riferito a pag. 5 nella relazione annuale sulla giurisprudenza della Corte di giustizia del 2014, pubblicata su www.curia.eu: «Resta da compiere un passo ancora più

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giudiziaria europea, anche se sorprende per incoerenza l’assenza di analoga iniziativa di necessario potenziamento degli organici della magistratura nazionale.

Anzi, la giurisdizione italiana da un lato ha perso molto personale qualificato soprattutto negli incarichi di vertice degli Uffici giudiziari con l’estensione solo interna18 dell’applicazione dell’art. 23, c. 2, CEDU (che precede il pensionamento automatico dei giudici CEDU al raggiungimento del 70° anno di età), Convenzione che per il resto viene contestatamente disattesa dall’Italia nelle tantissime pronunzie della Corte di Strasburgo sulla non effettività della tutela dei diritti fondamentali in Italia; dall’altro, ha visto diminuito il potere di contrasto interpretativo ad interventi legislativi in manifesta violazione con il diritto dell’Unione europea con la ricordata l. n. 18/2015 di modifica della precedente normativa sulla responsabilità civile dei giudici.

Nè la ricordata raccomandazione del Consiglio UE del 2 giugno 2014 sul programma nazionale di riforma 2014 dell’Italia offre spunti per giustificare la necessità e l’urgenza di una riforma così incisiva del lavoro come quella del Jobs Act, dopo quella operata con la legge Fornero.

importante in futuro. Infatti, invitata in tal senso dalla presidenza italiana del Consiglio durante il secondo semestre 2014, la Corte ha presentato al Consiglio una proposta di raddoppiare, in tre successive tappe fino al 2019, il numero dei giudici del Tribunale. Tale proposta, avendo ottenuto l’accordo di massima del Consiglio, dovrà essere elaborata nei primi mesi del 2015.». In realtà, la proposta della Presidenza italiana, sostenuta dal Presidente greco Skouris della Corte di giustizia, contrasta con la proposta meno onerosa per le finanze e più organica presentata dal Presidente del Tribunale di Lussemburgo, il lussemburghese Marc Jaeger, rigettata dall’Italia e, successivamente anche dalla Germania, creando così un forte dibattito sull’unità e sulla efficacia della giurisdizione europea, particolarmente acceso in Gran Bretagna (e totalmente ignorato in Italia), su cui riferisce esaustivamente Curti Gialdino, 2015.

18 Si evidenziava in De Michele, 2014a, 412 che, per quanto riguarda la Corte di giustizia e le sue contraddizioni troppo “italiane” e nelle cause “italiane”, un’accelerazione dell’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo consentirebbe un necessario ricambio generazionale della magistratura comunitaria con l’applicazione dei limiti di età per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali fissato dall’art. 23, c. 2, CEDU, anche se, purtroppo, colpirebbe soltanto la componente nazionale, rinnovata per altri 6 anni nel 2012 dal Governo Monti. La risposta della Corte di giustizia non si è fatta attendere, con il parere n.2/13 dell’adunanza plenaria del 18 dicembre 2014, con cui la Corte di Lussemburgo ha precisato - inaspettatamente per molti osservatori soprattutto dopo la favorevole presa di posizione dell’Avvocato generale Kokott del 13 giugno 2014 - che «l’accordo sull’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali non è compatibile con l’art. 6, § 2, TUE, né con il Protocollo (n. 8) relativo all’art. 6, § 2, del Trattato sull’Unione europea sull’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».

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Infatti, il Consiglio raccomanda all’Italia al punto 5, per quanto riguarda le politiche per il lavoro, di valutare entro la fine del 2014 gli effetti delle riforme del mercato del lavoro e del quadro di contrattazione salariale sulla creazione di posti di lavoro, sulle procedure di licenziamento, sul dualismo del mercato del lavoro e sulla competitività di costo, valutando la necessità di ulteriori interventi; adoperarsi per una piena tutela sociale dei disoccupati, limitando tuttavia l'uso della cassa integrazione guadagni per facilitare la riallocazione dei lavoratori; rafforzare il legame tra le politiche del mercato del lavoro attive e passive, a partire dalla presentazione di una tabella di marcia dettagliata degli interventi entro settembre 2014, e potenziare il coordinamento e l'efficienza dei servizi pubblici per l'impiego in tutto il paese; intervenire concretamente per aumentare il tasso di occupazione femminile, adottando entro marzo 2015 misure che riducano i disincentivi fiscali al lavoro delle persone che costituiscono la seconda fonte di reddito familiare e fornendo adeguati servizi di assistenza e custodia; fornire in tutto il paese servizi idonei ai giovani non registrati presso i servizi pubblici per l'impiego ed esigere un impegno più forte da parte del settore privato a offrire apprendistati e tirocini di qualità entro la fine del 2014, in conformità agli obiettivi della garanzia per i giovani; per far fronte al rischio di povertà e di esclusione sociale, estendere gradualmente il regime pilota di assistenza sociale, senza incidenza sul bilancio, assicurando un’assegnazione mirata, una condizionalità rigorosa e un'applicazione uniforme su tutto il territorio e rafforzandone la correlazione con le misure di attivazione; migliorare l’efficacia dei regimi di sostegno alla famiglia e la qualità dei servizi a favore dei nuclei familiari a basso reddito con figli.

Non vi è traccia, dunque, di ragioni oggettive di particolare gravità ed urgenza segnalate dall’Istituzione UE, prima dell’inizio del semestre italiano di Presidenza del Consiglio europeo, che possano giustificare le riforme - introdotte al di fuori del recinto costituzionale della l. n. 234/2012 e dell’art. 117, c. 1, Cost. - dal d.l. n.34/2014 sulla flessibilità in entrata, dall’art. 1, cc. 118-124, della legge di stabilità n. 190/2014 in materia di sgravi triennali/aiuti di Stato, infine dal d.lgs. n. 23/2015 sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e “assimilati” né dallo schema di decreto legislativo sul riordino delle tipologie contrattuali.

A meno che non si voglia ricavare l’urgenza e la necessità di tali riforme dalla raccomandazione di cui al n. 7, in cui il Consiglio Ue invita l’Italia ad approvare la normativa in itinere volta a semplificare il contesto normativo a vantaggio delle imprese e dei cittadini e colmare le lacune attuative delle leggi in vigore. Ma la raccomandazione sulla semplificazione e razionalizzazione del quadro normativo interno abbraccia tutti i settori di intervento segnalati nel documento e non può costituire un alibi, che poi è l’alibi della legge delega n.183/2014, per cambiare in maniera così significativa un settore già interessato da una riforma così profonda come quella del lavoro, appena realizzata a luglio 2012.

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Senza dubbio, vi erano ragioni di urgenza e di necessità per interventi entro il 2014 sull’efficientamento dei (rectius, la ricostruzione, dopo la distruzione, di efficienti) servizi pubblici per l’impiego in Italia nonché di servizi idonei ai giovani non registrati presso i servizi pubblici per l'impiego e di offerte lavorative del settore privato di apprendistati e tirocini di qualità.

Ma di questi ultimi interventi quasi a metà 2015 non si vede alcuna traccia.

5. I licenziamenti individuali e il diritto dell’Unione europea. L’idea del “contratto unico” della Commissione e l’esperienza del CNE francese

Alla mancata adozione delle procedure della l. n. 234/2012 sulla materia dei licenziamenti individuali, tuttavia, l’obiezione è semplice e all’apparenza dirimente: non vi è nessuna direttiva europea sui licenziamenti individuali da attuare nell’ordinamento interno, semmai l’opportunità di seguire le linee guida della Commissione sul c.d. “contratto unico”, delineate nell’Agenzia per l’occupazione del 23 novembre 201019 per «ridurre l’attuale divario tra i lavoratori con contratti a tempo determinato e quelli con contratto a tempo indeterminato», utilizzando «accordi contrattuali a tempo indeterminato che prevedano un periodo di prova sufficientemente lungo e un aumento graduale dei diritti di protezione sociale, accesso a formazione, apprendimento permanente e servizi di orientamento professionale per tutti i lavoratori».

L’idea della Commissione del contratto unico o del contratto a tempo indeterminato a tutele “crescenti”, fondato sostanzialmente su un lungo periodo di prova con conseguente regime di (quasi) libera recedibilità per i datori di lavoro compensato, eventualmente, da benefici fiscali e previdenziali che rendessero meno conveniente l’anticipata risoluzione del rapporto di lavoro, è stata proposta in Francia nel 2005 con l’introduzione del Contrat nouvelles embauches (CNE), in base al quale le imprese con meno di 20 dipendenti potevano licenziare dietro indennizzo i neoassunti nei primi due anni di occupazione senza possibilità di controllo da parte del giudice della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo della risoluzione.

Il CNE è stato contestato addirittura davanti alla Corte di giustizia con la causa pregiudiziale C-361/07, ma la Corte con l’ordinanza Polier20, nell’esame del “contratto di nuovo impiego” francese, si è dichiarata incompetente a rispondere alla questione pregiudiziale sollevata dal Giudice del rinvio anche con richiamo dell’art.30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, rilevando che, sebbene la tutela dei

19 Orlandini, 2012, 15-16.20 CGUE, sez. VII, 16 gennaio 2008 (ord.), in causa C-361/07 Polier c. Najar EURL.

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lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro sia uno dei mezzi per raggiungere gli obiettivi fissati dall’art. 151 TFUE e il legislatore dell’Unione sia competente in tale settore, in base alle condizioni di cui all’art. 153, § 2, TFUE, le situazioni che non sono state oggetto di misure adottate sul fondamento di tali articoli non rientrano nel campo di applicazione del diritto dell’Unione (pt. 13).

Va anche evidenziato che nel 2007 il CNE francese era stato abrogato, a seguito della censura dell’OIL21 per la violazione dell’art. 4 della Convenzione n. 158/1982 (ratificata dalla Francia, ma non dall’Italia) sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro, che ha giudicato irragionevole la durata biennale del periodo di prova e, quindi, in contrasto con il divieto di licenziamenti ingiustificati.

6. Il contratto a tempo indeterminato di sostegno agli imprenditori in Spagna e la sentenza Poclava della Corte di Giustizia

Sulla base delle sollecitazioni sul contratto unico della Commissione, ribadite nel documento di accompagnamento alla Comunicazione del 18 aprile 2012, anche la Spagna con la l. n. 3/2012 del 6 luglio 2012, recante misure urgenti per la riforma del mercato del lavoro, ha introdotto tra le misure di promozione dell’occupazione a tempo indeterminato per favorire la creazione di posti lavoro il «contratto di lavoro a tempo indeterminato di sostegno agli imprenditori» (art.4), che può essere utilizzato dalle imprese con almeno 50 lavoratori (quindi favorendo le imprese con un organico più consistente, a differenza del CNE francese) e che prevede un regime giuridico identico a quello dei contratti a tempo indeterminato “standard” con la sola eccezione della durata del periodo di prova, che è fissato in ogni caso per la durata di un anno e che è escluso qualora il lavoratore abbia già assunto le stesse funzioni nell’impresa, qualunque siano le modalità del contratto di lavoro (art. 4, § 3).

Il «contratto di lavoro a tempo indeterminato di sostegno agli imprenditori» o contratto unico nella versione spagnola ricorda molto, nella prima parte della sua regolamentazione, il primo e unico contratto a tempo determinato dichiaratamente “acausale” introdotto, contestualmente con la l. n. 92/2012, dal c. 1-bis aggiunto all’art. 1, d.lgs. n. 368/2001. E tuttavia, a differenza del “periodo di prova” a tempo determinato acausale italiano della durata massima di un anno (abrogato dal d.l. n. 34/2014), più costoso dell’ordinario contratto a tempo indeterminato (denominato contratto “dominante” nella riforma Fornero), il contratto a tutele crescenti spagnolo comporta vantaggi fiscali e previdenziali (anche attraverso l’utilizzo di fondi

21 Cfr. ILO Governing Body, Report of the Director-General, GB.300/20/6, Genova, novembre 2007. Ne riferisce Orlandini, 2012, 17.

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strutturali) e, quando il contratto di sostegno agli imprenditori serve anche a “sostenere” l’occupazione di lavoratori disoccupati iscritti all’ufficio di collocamento, il datore di lavoro gode di incentivi (art. 4, §§ 4 e 5).

Il «contratto di lavoro a tempo indeterminato di sostegno agli imprenditori» non può essere però concluso da un’impresa che, nei sei mesi precedenti la conclusione del contratto, abbia effettuato dei licenziamenti dichiarati illegittimi o abusivi (art. 4, § 6).

Inoltre, ai fini dell’applicazione dei vantaggi fiscali e previdenziali, l’impresa deve assumere il lavoratore interessato per almeno tre anni a decorrere dalla costituzione del rapporto di lavoro (clausola di durata minima garantita che esclude casi di licenziamenti per motivi economici) e deve mantenere il livello di occupazione offerto dal contratto “di sostegno” per almeno un anno dalla conclusione di tale contratto, perdendo, in caso di mancato adempimento di tali obblighi (clausola di garanzia da licenziamento per g.m.o. o mantenimento del livello occupazionale per almeno un anno) i benefici ricevuti (art. 4, § 7).

Molto interessante la norma transitoria di durata della descritta misura di sostegno all’occupazione, che può essere utilizzata fino a quando il tasso di disoccupazione in Spagna non sia inferiore al 15% (IX disp. Trans., § 2, l. n. 3/2012).

Il contratto a tempo indeterminato di sostegno agli imprenditori è stato sottoposto all’attenzione della Corte di giustizia nella causa C-117/14 Poclava sulle due questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale del lavoro di Madrid, che interroga la Corte europea innanzitutto sul fatto che, se la normativa nazionale secondo cui il contratto di lavoro a tempo indeterminato di sostegno agli imprenditori comporta un periodo di prova di un anno, durante il quale è consentito il libero licenziamento, sia in contrasto con il diritto dell’Unione e, in particolare, sul diritto fondamentale garantito dall’art.30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; in secondo luogo, se il periodo di prova di un anno previsto dal contratto di lavoro a tempo indeterminato di sostegno agli imprenditori sia contrario agli obiettivi e alla disciplina della direttiva n. 1999/70 e, in particolare, alle clausole 1 e 3 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.

La fattispecie della causa principale è quella di una lavoratrice di nazionalità boliviana, assunta come cuoca con un contratto a tempo indeterminato di sostegno agli imprenditori, cofinanziato dal fondo sociale europeo, il 16 gennaio 2013 e fino al 31 maggio 2013, giorno in cui è stata licenziata per mancato superamento del periodo di prova della durata massima di un anno.

Nel caso di specie, la sanzione per il mancato rispetto della clausola di durata minima di un anno ha fatto perdere al datore di lavoro i benefici fiscali e previdenziali che aveva maturato, e questa circostanza, in rapporto alla specifica disciplina contrattuale spagnola, consente di compararla con la regolamentazione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti nel modello italiano, in particolare nell’ipotesi – implicitamente costruita come “normale” dal legislatore delegato del d.lgs. n. 23/2015

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– in cui l’assunzione a tempo indeterminato sia legata ai benefici degli sgravi triennali della legge di stabilità.

Nel caso spagnolo l’azienda ha il riconoscimento della libera recedibilità limitata al periodo dell’anno di prova, ma perde le agevolazioni del minor costo del lavoro nel caso di anticipato recesso. Nel caso italiano, in caso di licenziamento illegittimo l’ammontare dell’indennizzo per il licenziamento produce un saldo positivo per le imprese tra il totale dei benefici (sgravi contributivi e taglio IRAP) e le indennità erogate al lavoratore, mettendo seriamente in discussione la effettività della tutela contro il licenziamento per la mancanza di dissuasività dell’indennità22.

La soluzione fornita dalla Corte di giustizia con la sentenza Poclava23 sul contratto a tempo indeterminato di sostegno agli imprenditori sull’applicazione dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è identica a quella dell’ordinanza Polier sul CNE francese, cioè di incompetenza interpretativa della Corte europea, dal momento che l’ambito di applicazione della Carta di Nizza, per quanto riguarda l’operato degli Stati membri, è definito all’art. 51, § 1, della medesima, ai sensi del quale le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione (pt. 29) e risulta chiaro al Collegio a tre di Lussemburgo che la normativa spagnola che istituisce e disciplina il contratto di lavoro a tempo indeterminato di sostegno agli imprenditori non costituisce un’attuazione del diritto dell’Unione (pt. 44).

Infatti, il collegamento del patto di prova di durata annuale con la direttiva 1999/70/CE non convince la Corte di giustizia, perché il periodo di prova non è un contratto a tempo determinato, dal momento che serve essenzialmente a verificare l’idoneità e le capacità del lavoratore, mentre il contratto a tempo determinato è utilizzato quando la cessazione del contratto o del rapporto di lavoro è determinata da condizioni oggettive (pt. 36).

7. L’applicazione diretta ed orizzontale dell’art.30 della Carta di Nizza in caso di licenziamenti ingiustificati, nell’attuazione del diritto dell’Unione

La sentenza Poclava, apparentemente, sembrerebbe segnare un punto di sostanziale difficoltà ad applicare alla disciplina italiana del contratto a t.i. a tutele crescenti una disposizione dotata di efficacia diretta, anche orizzontale, quale l’art. 30 della Carta dei

22 Sul punto v. De Luca, 2015, 31. Sul rapporto tra la Carta di Nizza, la Cedu e la tutela dei diritti fondamentali v., in particolare, Bronzini, 2015. Sul rapporto tra il d.lgs. n. 23/2015 e la Carta di Nizza, v. Buffa, 2015; nonché Cosio, 2015.

23 CGUE, sez. X, 5 febbraio 2015, causa C-117/14 Poclava c. Toledano.

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diritti fondamentali Ue che riconosce il diritto dei lavoratori alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, norma che ha lo stesso valore giuridico del Trattato ai sensi dell’art. 6 del TUE24, anche nel senso limitato dalla stessa dottrina non alla garanzia di un regime di stabilità lavorativa, che sarebbe escluso dalla mancata costituzionalizzazione della tutela reale25, negata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 46 del 2000, ma alla identità della sanzione (indennizzo economico) tra situazioni identiche e da trattare in modo eguale.

Qual è, allora, l’ambito di diretta applicazione dell’art. 30 della Carta comunitaria dei diritti fondamentali, se non vi è una direttiva sociale europea da recepire che intervenga specificamente in materia di licenziamenti individuali? È evidente, infatti, che la parità di trattamento enunciata dall’art. 20 della Carta di Nizza e il successivo art. 21 sul divieto di discriminazione non potrebbero trovare applicazione in combinato disposto con il divieto di licenziamenti privi di giustificatezza, se la norma specifica di tutela non operasse mai ratione materiae.

Viceversa, come opportunamente sottolineato in dottrina26, la (teorica) Carta costituzionale europea e l’obbligo del datore di lavoro di giustificazione del licenziamento individuale possono trovare applicazione diretta e orizzontale (cioè anche tra privati) in riferimento ad altre direttive in materia di lavoro, come i limiti posti alla possibilità di licenziare un lavoratore che rifiuta la trasformazione del rapporto da tempo pieno a part-time (art. 5.2 direttiva 97/81/CE); o quelli fissati dalla direttiva 2001/23/CE (art. 4.1), che esclude che il trasferimento dell’azienda o di parte di essa possa costituire valido motivo di licenziamento, sempre che non sussistano altre ragioni economiche, tecniche o organizzative; o quelli individuati dalla legislazione nazionale di recepimento della direttiva 98/59/CE in sede di procedure di licenziamenti collettivi; quelli derivanti dal diritto antidiscriminatorio, fondato sugli artt. 18 e 19 TFUE e sulle direttive in materia di discriminazioni di genere (2006/54/CE) o dovute ad altre ragioni (2000/43/CE e 2000/78/CE), con particolare riferimento alle discriminazioni per età dalla sentenza Mangold27 alla sentenza Kücükdeveci28, comprese le discriminazioni basate sulla nazionalità, in attuazione dei principi in

24 Specificamente in dottrina v. De Luca, 2015, 7.25 In termini v. De Luca, 2015, 6.26 Orlandini, 2012, 1.27 V. CGUE, gr. sez., 22 novembre 2005, causa C–144/2004 Mangold c/ Helm. Sulla

sentenza Mangold, in LG, 2006, 459 ss., con nota di Nodari; in FI, 2006, IV, 341 ss., con nota di Piccone e Sciarra, 2006; in RIDL, II, 251 ss., con nota Bonardi, 2006; in RGL, 2007, II, 205, con nota di Calafà; in RCDL, 2006, 387 ss., con nota di Guariso; in DL, 2006, 3, con nota di Vallebona; in MGL, 2006, 230 ss., con nota di Franza, 2006b; in dottrina, Ciaroni, 2006; Imberti , 2008; Cappuccio, 2011; D’Aloia, 2011; De Michele, 2009, 48 ss.; Cosio, 2012.

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materia di libertà di circolazione dettati dall’art.21 TFUE, come nel caso degli ex lettori universitari29.

Quindi, l’ambito di applicazione e attuazione delle norme della Carta dei diritti e, in particolare, dell’art. 30 sui licenziamenti individuali è potenzialmente esteso a tutte le situazioni di diritto del lavoro nazionale in cui si controverte di risoluzioni illegittime di contratti di lavoro a tempo indeterminato, soprattutto ove si consideri la nozione di «lavoratore subordinato» enunciata dalla giurisprudenza comunitaria, che sta costringendo il legislatore nazionale ad eliminare, seppure ancora con eccessiva lentezza, tutte le forme di lavoro atipico.

In particolare, nella recentissima sentenza Fenoll30 la Corte di giustizia ha avuto modo di approfondire e riaffermare la nozione comunitaria di lavoratore subordinato ai fini dell’applicazione della direttiva n. 2003/88/CE (che ha sostituito la direttiva n 89/391/CE), concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, tra cui il diritto alle ferie controverso nel giudizio principale, in combinato disposto con l’art. 31, § 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Di particolare rilievo è il fatto che il Giudice di rinvio sia la Cassazione francese, costantemente protagonista di un dialogo diretto con la Corte di giustizia anche in contrapposizione alle posizioni assunte sulla tutela dei diritti soggettivi dalla Corte

28 Corte di Giustizia, Grande Sezione, sentenza 19 gennaio 2010 in causa C-555/07, Kücükdeveci c/ Swedex GmbH & Co. KG. Sulla sentenza v. Sciarabba, 2010; Cosio, 2010; Di Leo, 2010; De Michele, 2011a, 88 ss.

29 Per una recente applicazione del divieto di discriminazione in ragione della cittadinanza e del principio di libera circolazione dei lavoratori, v. Corte di giustizia, II Sezione, sentenza 5 dicembre 2013, causa C-514/12 Zentralbetriebsrat der gemeinnützigen Salzburger Landeskliniken Betriebs GmbH contro Land Salzburg. La Corte ha dichiarato che gli articoli 45 TFUE e 7, paragrafo 1, del regolamento (UE) n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale in forza della quale, per determinare la data di riferimento ai fini del passaggio dei dipendenti di un ente territoriale agli scaglioni retributivi superiori della loro categoria, sono computati integralmente i periodi di servizio maturati ininterrottamente presso tale ente, mentre qualsiasi altro periodo di servizio in altri enti in territorio di altri Stati membri (e anche dello stesso Stato in cui opera il datore di lavoro attuale) è computato solo parzialmente.

30 CGUE, sez. I, 26 marzo 2015, causa C-316/13 Gérard Fenoll contro Centre d’aide par le travail «La Jouvene». Le conclusioni sono state presentate dall’avvocato generale Mongozzi il 12 giugno 2014.

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costituzionale, come è avvenuto nelle importantissime sentenze Melki31 e Association de médiation sociale32 della Corte europea di Lussemburgo.

La Suprema Corte transalpina interroga la Corte di giustizia sulla possibilità di estendere la nozione di lavoratore di cui all’art. 3 delle direttive n. 89/391/CE e n. 2003/88/CE anche ad una persona disabile inserita in un «centre d’aide par le travail» (CAT).

Come ricostruisce l’Avvocato generale italiano nelle sue conclusioni (punti 5-7), i centri di aiuto attraverso il lavoro erano strutture di accoglienza di persone disabili di tipo medico-sociale prive di scopo di lucro. I CAT si proponevano di accogliere gli adolescenti e gli adulti disabili che non possono, temporaneamente o permanentemente, lavorare nelle normali imprese né in un laboratorio protetto o per conto di un centro di distribuzione di lavoro a domicilio, né esercitare un’attività professionale indipendente. Detti centri offrivano la possibilità di svolgere diverse attività di carattere professionale, un sostegno medico-sociale ed educativo e un ambiente di vita tale da favorirne lo sviluppo personale e l’integrazione sociale.

La persona disabile, la cui capacità lavorativa doveva essere, in linea di principio, inferiore a un terzo della capacità normale, era ammessa in un CAT su decisione di una commissione, con un reddito garantito proveniente dal suo lavoro senza che, tuttavia, il calcolo della retribuzione fosse basato sul numero di ore lavorate. Tale reddito garantito era reputato espressamente una «retribuzione» del lavoro soltanto ai sensi dell’articolo L. 242-1 del code de la sécurité sociale (codice della previdenza sociale). Per contro, le sole disposizioni del code du travail (codice del lavoro francese) applicabili alle persone disabili soggiornanti in un CAT erano quelle relative all’igiene e alla sicurezza sul lavoro, poiché il disabile inserito nel CAT non era considerato lavoratore subordinato dall’ordinamento interno.

I primi CAT hanno visto la luce negli anni 60. A partire dal 2002, i CAT sono stati sostituiti da istituti e servizi di aiuto tramite il lavoro (ESAT), ma i centri già esistenti hanno conservato la loro denominazione di CAT. La Repubblica francese ne conta attualmente quasi 1.400, i quali accolgono più di 110.000 persone.

La Corte di giustizia evidenzia che, ai fini dell’applicazione della direttiva n. 2003/88/CE, la nozione di lavoratore non può essere interpretata in vario modo, con riferimento agli ordinamenti nazionali, ma ha una portata autonoma propria del diritto dell’Unione, in base a criteri obiettivi che caratterizzino il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi delle persone interessate. La caratteristica essenziale

31 CGUE, gr. sez., 22 giugno 2010, causa C-188/10 Melki e Abdeli, su cui si rimanda a v. De Michele, 2011a, 77.

32 CGUE, gr. sez., 15 gennaio 2014, causa C-176/12 Association de médiation sociale, su cui si rimanda a De Michele, 2014b, 221.

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del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione (pt 2733).  

In conseguenza, la Corte europea al punto 43 precisa, accogliendo le conclusioni dell’Avvocato generale Mengozzi, che al disabile inserito nei CAT si applica la nozione di lavoratore di cui all’art. 3 della direttiva n. 2003/88/CE e, quindi, ha diritto alle ferie previste dall’art. 7 della stessa direttiva.

Infine, per quanto riguarda l’applicazione diretta ed orizzontale tra privati dell’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali e la possibilità di disapplicare una norma interna che non riconosca al lavoratore (così definito ai sensi dell’art. 3 della direttiva n. 2003/88/CE) il diritto alle ferie annuali retribuite, la Corte conferma l’efficacia diretta dell’art. 31, § 2, della Carta di Nizza come norma avente lo stesso valore del Trattato (pt. 46), ma precisa di non poterla applicare alla fattispecie del giudizio principale ratione temporis (pt. 45), in quanto l’efficacia diretta decorre soltanto dall’entrata in vigore dell’art. 6 del TUE, cioè dal 1° dicembre 2009, mentre i fatti di causa si sono esauriti con il “licenziamento” del disabile prima di quella data.

L’importanza di questa decisione della Corte di giustizia sia sulla nozione di lavoratore secondo il diritto dell’Unione sia sull’applicabilità diretta della Carta dei diritti fondamentali a decorrere dal 1° dicembre 2009 è di agevole comprensione e il suo impatto critico su un ordinamento interno come quello italiano è altrettanto percepibile.

Infatti, la sentenza Fenoll, depositata con grande ritardo dopo ben nove mesi dalle conclusioni, è stata tradotta in tutte le lingue ufficiali dell’Unione europea tranne che in italiano, sicuramente per una forma di rispetto nei confronti della appena trascorsa Presidenza italiana del Consiglio Ue e della promessa di raddoppio entro il 2017 del numero dei Giudici del Tribunale di Lussemburgo.

33 Il punto 27 della versione francese della sentenza Fenoll, infatti, precisa: «Dans ce contexte, il y a lieu de rappeler que, selon une jurisprudence constante de la Cour, la notion de «travailleur» dans le cadre de la directive 2003/88 doit être définie selon des critères objectifs qui caractérisent la relation de travail en considération des droits et des devoirs des personnes concernées. Ainsi, doit être considérée comme «travailleur» toute personne qui exerce des activités réelles et effectives, à l’exclusion d’activités tellement réduites qu’elles se présentent comme purement marginales et accessoires. La caractéristique de la relation de travail est la circonstance qu’une personne accomplit pendant un certain temps, en faveur d’une autre et sous la direction de celle-ci, des prestations en contrepartie desquelles elle touche une rémunération (voir, en ce sens, arrêts Union syndicale Solidaires Isère, C-428/09, EU:C:2010:612, point 28, et Neidel, C-337/10, EU:C:2012:263, point 23)».

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8. La tutela reale in materia di licenziamenti nella giurisprudenza della Cassazione tra Carta di Nizza e direttiva n. 1999/70/CE

Dirimente, tuttavia, ad estendere il campo di applicazione dell'art. 30 della Carta di Nizza a tutte le possibili situazioni interne in cui si controverte di legittimità della risoluzione del rapporto di lavoro su iniziativa del datore di lavoro è il collegamento che la Cassazione propose, immediatamente dopo l'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 101 Cost. e del d.lgs. n.368/2001 attuativo dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, della stretta relazione tra il principio affermato dalla direttiva n. 1999/70/CE, secondo cui i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati ed a migliorarne il rendimento, e il principio della necessaria giustificazione di ogni licenziamento enunciato nella Carta europea dei diritti fondamentali, collegato agli artt. 1 e 4 Cost.

Mentre, infatti, la Corte costituzionale con le sentenze 7 febbraio 2000, nn. 41 e 45 negava al legislatore interno la discrezionalità nel recepire le direttive sociali sul lavoro a tempo determinato e sul part time dichiarando inammissibili i referendum abrogativi delle normative nazionali che regolamentavano la materia, ammettendo nel contempo con la citata sentenza 7 febbraio 2000, n. 46 il referendum abrogativo dell'art. 18 della l. n. 300/1970, la Cassazione afferma l'opposta posizione interpretativa, secondo cui la stabilità del posto di lavoro costituisce principio di ordine pubblico internazionale, grazie al progressivo processo di conformazione dell'ordinamento al valore costituzionale del lavoro, che si salda con il patrimonio di tradizioni costituzionali comuni ai paesi dell'Unione, di cui l'art. 30 della Carta di Nizza è espressione, così come il principio della centralità e ordinarietà del contratto a tempo indeterminato rispetto alle eccezioni dei contratti temporanei, enunciato nella direttiva sul lavoro a tempo determinato34.

Nel richiamare la propria giurisprudenza sul punto nel vigore dell'abrogata l. 18 aprile 1962, n. 230, la Suprema Corte ha sottolineato che il quadro interpretativo non è cambiato con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 368/2001 e che esso risponde alla posizione della dottrina tedesca, francese ed italiana, che ha posto in evidenza come nella cultura della società europea il "diritto al lavoro" contiene necessariamente in se' l'immagine della stabilità e della tutela contro i licenziamenti ingiustificati, tutela che il diritto tedesco ha introdotto per primo, dai primi anni di Weimar.

A differenza di una parte significativa della dottrina italiana, la Cassazione non si è mossa da questa stabile opzione interpretativa del sistema interno ed europeo sui licenziamenti ingiustificati, richiamando nella propria giurisprudenza in materia di

34 Cass. 11 novembre 2002, n. 15822, in DL, 2004, II, 207 ss.

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licenziamento ritorsivo l'art.30 della Carta di Nizza, nel frattempo incardinata come norma di Trattato nel diritto primario dell'Unione35.

Del resto, il collegamento tra la normativa regolatrice del contratto a termine nella vigenza dell’art. 1, l. n. 230/1962 e l'art.18 dello Statuto dei lavoratori (prima della riforma Fornero) ha portato a quella elaborazione giurisprudenziale della sanzione civilistica in caso di nullità del termine contrattuale con conseguente “conversione” in contratto a tempo indeterminato e ordine giudiziale di “reintegra” nel posto di lavoro (o ripristino del rapporto), su cui poi il legislatore è intervenuto con l’art. 32, l. 4 novembre 2010, n. 183, per introdurre ed equiparare il doppio regime di decadenza sostanziale e processuale in caso di licenziamenti individuali, di cui al comma 1 e alla corrispondente modifica dell'art. 6, l. n. 604/1966.

Del resto, la sanzione della automatica costituzione di un contratto a tempo indeterminato (e quindi, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, di un’ipotesi di “licenziamento” e non di illegittima apposizione del termine) dei contratti a termine successivi era già prevista dall'art. 2, l. n. 230/1962, anche per l’ipotesi di contratti in frode alla legge nella disposizione di cui al c. 2 dello stesso articolo, fino alla modifica “liberalizzatrice” della legge Treu 24 giugno 197, n. 196.

Peraltro, l’unificazione delle tutele sanzionatorie tra contratti a tempo determinato stipulati “illegittimamente” e il licenziamento ingiustificato nel campo di applicazione dell'art. 18, l. n. 300/1970, si è pienamente realizzata con l'art. 1, c. 2, d.lgs. n. 368/2001, nel momento in cui sia l’abuso “formale” della mancanza di forma scritta o di mancata specificazione nel contratto di assunzione delle ragioni oggettive giustificative dell’apposizione del termine sia l’abuso della illiceità del termine (per mancanza della effettiva temporaneità delle ragioni oggettive specificate nel contratto, con onere della prova a carico del datore di lavoro, come preciserà la Cassazione nella fondamentale sentenza n. 12985/200836) vengono sanzionati con l’inefficacia del termine e la trasformazione a tempo indeterminato dell’originario rapporto a termine sin dal 1° giorno di lavoro, sostituendo così il legislatore delegato del 2001 l’originaria

35 Cass. 27 ottobre 2010, n. 21967, in RIDL, 2012, II, 86; in senso conforme, cfr. Cass. nn.10336/2012 e n.21279/2011.

36 Cass., sez. lav., 21 maggio 2008, n. 12985, in LG, 2008, 903, con nota di De Michele, 2008; cfr., inoltre, Perrino, 2008, 3576; Olivieri, 2008, 891; Vallebona, 2008, 643.

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sanzione della “conversione giudiziale37” del contratto per nullità del termine di cui all’art. 1418 c.c.

9. L’unificazione delle tutele contro il recesso illecito o irregolare dei contratti a tempo determinato e contro i licenziamenti ingiustificati nel pubblico impiego e nel lavoro privato

È stato già ampiamente evidenziato38 che il Jobs Act, già dal momento iniziale della sua esternazione (d.l n. 34/2014), trova la sua giustificazione nel tentativo di contrastare l’effettività delle due decisioni del 12 dicembre 2013, con cui la Corte di giustizia è intervenuta sul precariato pubblico italiano in modo molto diverso e molto più incisivo ed efficace rispetto ad alcuni provvedimenti precedenti della stessa Corte, come per lo “Stato-PI” (PI è acronimo di Poste italiane) la sentenza Viscido39e le due

37 Come opportunamente sottolinea a pag. 18 il Tribunale di Locri (Est. D’Agostino) nella sentenza n. 808/2015 del 15 aprile 2015 con cui dichiara l’assunzione a tempo indeterminato di personale ata della scuola statale dopo il ripetuto ricorso a supplenze per una durata superiore a 36 mesi, «il termine “conversione” è mutuato dall’art. 1424 c.c., ed indica tutti i casi in cui attraverso l’intervento del giudice si recuperano gli effetti del contratto nullo», richiamando in nota la dottrina civilistica e, in particolare, Bianca C.M., 2000, 632; nonché Gazzoni, 1998, 931.

38 Cfr. De Michele, 2014a, 372 ss.39 CGUE, sez. IV, 7 maggio 1998, in cause riunite da C-52/97 a C-54/97 Viscido e a. contro

Poste italiane. L’avvocato generale Jacobs nelle conclusioni presentate il 19 febbraio 1998, nel negare che l’art. 9, c. 21, d.l. 1 ottobre 1996, n. 510, che negava la possibilità di stabilizzazione dei contratti a termine illegittimi di PI stipulati nel periodo 1° gennaio 1995 – 30 giugno 1997, potesse configurare una misura vietata di aiuti di Stato, ai punti 15 e 16 così precisava con argomentazioni che parrebbero aver ispirato l’attuale legislatore del d.l. n. 34/2014, degli sgravi triennali della legge di stabilità e del d.lgs. n. 23/2015: «15. Si potrebbe sostenere che da un rapporto di lavoro con contratto a tempo determinato possano derivare costi per lo Stato sotto forma di perdita di gettito tributario o di sussidi di disoccupazione. Tuttavia, come la Corte ha affermato nella sentenza Sloman Neptun, tali costi «sono inerenti a questa disciplina non costituiscono un mezzo per accordare» all’ente Poste italiane «un vantaggio determinato». In ogni caso detti costi non sono né certi né quantificabili giacchè, in mancanza della flessibilità consentita dalla disposizione contestata, le Poste Italiane non avrebbero forse assunto – o lo avrebbero fatto in misura minore – altro personale per coprire, a breve termine, carenze di organico. 16. Ci si potrebbe chiedere perché, dato il loro potenziale effetto sulla concorrenza, l’art. 92, n.1, non comprenda tutti i provvedimenti in materia di lavoro e altre misure di carattere sociale che, incidendo in modo selettivo, potrebbero alterare la concorrenza e, quindi, produrre un effetto equivalente agli aiuti di Stato. Forse la risposta è soprattutto di ordine pragmatico: l’esame di tutti questi regimi implicherebbe un’inchiesta in base al solo Trattato sull’intera vita

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ordinanze Vino40 e per lo Stato-SSN (SSN è acronimo di Servizio Sanitario Nazionale), le sentenze Marrosu-Sardino e Vassallo41, ordinanza Affatato42: la sentenza Carratù43 e l’ordinanza Papalia44, le cui risposte interpretative devono essere lette in modo combinato (in termini, Cass., sentenza n.27363/2014).

Tali risposte possono essere così schematizzate nella loro straordinaria valenza interpretativa ed applicativa:

il primo e unico contratto a tempo determinato entra nel campo di applicazione delle clausole 4, pt. 1, e 5, pt. 1, lett. a) e pt. 2, lett. b) dell’accordo quadro comunitario sul lavoro a tempo determinato anche per quanto riguarda le conseguenze sanzionatorie in caso di utilizzo illecito (sentenza Carratù, pptt. 22-24);

l’art. 32, cc. 5 a 7, l. n. 183/2010, ricade nell’ambito della direttiva n. 1999/70, anche se le disposizioni controverse sono state emanate per finalità e scopi diversi rispetto alla necessità di attuazione della direttiva (sentenza Carratù, punti 25-26);

Poste italiane è organismo statale, è lo Stato italiano che opera in settori economici totalmente aperti alla concorrenza, e non è una impresa privata (sentenza Carratù, pptt. 27-31);

a Poste italiane, in quanto organismo statale, e a tutte le pubbliche amministrazioni si applica direttamente il d.lgs. n. 368/2001 e la misura preventiva e sanzionatoria effettiva dell’art. 1, cc. 1 e 2, dell’unica normativa interna attuativa della direttiva n. 1999/70/CE delle ragioni oggettive temporanee sin dal primo ed eventualmente unico contratto a tempo determinato (sentenza Carratù, pptt. 5, 22 e 24);

economica e sociale di uno Stato membro.»». Dalle conclusioni dell’Avvocato generale Jacobs nella causa Viscido all’attualità non è cambiato molto in Italia nella prassi legislativa di favore alle imprese di Stato. Molto è cambiato, però, nelle risposte della Corte di giustizia.

40 CGUE, sez. VU, 11 novembre 2010 (ord.) e 22 giugno 2011 (ord.), rispettivamente in cause C-20/10 e C-161/11 Vino c/ Poste italiane.

41 CGUE, sez. II, 6 settembre 2006, cause non riunite C-53/04 Marrosu e Sardino e C-180 Vassallo, in entrambi i casi contro Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate. Sulle sentenze “gemelle” Marrosu-Sardino e Vassallo, cfr. Miscione A., 2006, 1639; Nannipieri, 2006, 742 ss.; Zappalà, 2006, 439-444; Franza, 2006a, 752-755; Perrino, 2007; De Angelis, 2007; Sciarra, 2008, 12-16; De Michele, 2009, 173-177.

42 CGUE, sez. VI, 1° ottobre 2010 (ord.), in causa C-3/10 Affatato contro ASL Cosenza, su cui v. Ferrante, 2011, 12-16; Borzaga, 2011, 859 ss.

43 CGUE, sez. III, 12 dicembre 2013, causa C-361/12 Carratù contro Poste italiane. Sulla sentenza Carratù cfr. De Michele, 2014b; Idem, 2014e; Menghini, 2014, 463-465 ss.; Coppola, 2014; Nunin, 2014, 124; Lughezzani, 2014; Guadagno, 2014; Gentile, 2014.

44 CGUE, sez. VI, 12 dicembre 2013 (ord.), in causa C-50/13, Papalia contro Comune di Aosta, commentata da Ales, 2014; nonché da Nunin, 2014 e da Cimino, 2014.

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per l’effetto, a tutte le pubbliche amministrazioni non si applica (né è stato mai applicabile) l’art. 36, c. 5, d.lgs. n.165/2001, in quanto misura inidonea a sanzionare l’utilizzo abusivo dei contratti a tempo determinato nel pubblico impiego (ordinanza Papalia, conclusioni) sia che si tratti di un unico contratto a termine (sentenza Carratù) sia che si tratti di una pluralità di contratti successivi (ordinanza Papalia, conclusioni) e il Giudice nazionale, in questo caso, è tenuto a dare effettività alla tutela dei lavoratori pubblici a tempo determinato applicando le disposizioni di diritto nazionale volte a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, cioè gli artt.1, cc. 1 e 2, 4 e 5, cc. 2, 3, 4 e 4-bis, d.lgs. n. 368/2001 come richiamati dall’art. 36, c. 2, d.lgs. n. 165/2001 (ord. Papalia, pptt. 7 e 35);

anche le conseguenze sanzionatorie in caso di illecito utilizzo del contratto a tempo determinato (anche del primo e unico rapporto a termine) entrano nella nozione di condizioni di impiego di cui alla clausola 4, n.1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (sentenza Carratù, pptt. 32-38);

le situazioni dell’utilizzo illecito di un contratto a tempo determinato e del licenziamento ingiustificato da un contratto a tempo indeterminato sono differenti e, dunque, normalmente non rientrano nei parametri di comparabilità previsti dalla clausola 4, punto 1, dell’accordo comunitario sul lavoro a tempo determinato (sentenza Carratù, pptt. 42-45);

tuttavia, poiché il legislatore nazionale ha introdotto disposizioni più favorevoli ai lavoratori a tempo determinato, cioè ha equiparato la tutela speciale prevista dall’art. 1, cc. 1 e 2, d.lgs. n. 368/2001 (caso della lavoratrice Carratù) o dall’art. 5, cc. 3, 4 e 4-bis, d.lgs. n. 368/2001 (caso del lavoratore Papalia) in caso di assunzione illecita ex tunc o ex nunc a tempo determinato con la tutela prevista per il licenziamento ingiustificato nel campo di applicazione dell’art. 18, l. n. 300/1970 (nella formulazione antecedente le modifiche della l. n. 92/2012), il combinato disposto della clausola 4, pt. 1, e della clausola 8, pt. 1, dell’accordo quadro impone la rimozione o non applicazione di tutte le disposizioni di legge successive al d.lgs. n. 368/2001 che impediscono l’applicazione diretta (anche a Poste italiane e a tutte le pubbliche amministrazioni) del principio di uguaglianza e non discriminazione di cui alla clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro (sentenza Carratù, pt. 28 e pptt. 46-48);

infine, non è necessario risolvere le questioni interpretative sul giusto processo e l’applicazione diretta dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, perché l’applicazione diretta della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro comunitario non rende necessaria la cogenza della norma primaria del Trattato UE (sentenza Carratù, pt. 49), con la disapplicazione della norma retroattiva che modifica la tutela già riconosciuta (v. sentenza Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, cit., richiamata sia nella sentenza Carratù sia nella sentenza Mascolo, che ha imposto alla

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Spagna la diretta non applicazione o disapplicazione di una norma interna che modificava in peius retroattivamente la tutela già assicurata nell’ordinamento interno in base al corretto recepimento della clausola di non discriminazione inserita nell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato45).

Si è dimenticato che l’applicazione al lavoro pubblico delle stesse regole del diritto del lavoro (e previdenziali) che governano quello privato nasce dal principio della libera circolazione dei lavoratori e dal divieto di ogni discriminazione in ragione della cittadinanza per l’accesso al lavoro, di cui agli artt. 1 e 7, del regolamento n. 1612/1968.

In particolare, la Commissione CE, avendo constatato che in alcuni Stati membri un gran numero di posti considerati appartenenti al pubblico impiego non avevano alcun rapporto con l’esercizio di pubblici poteri e con la tutela degli interessi generali dello Stato (situazione questa che costituiva specifica deroga alla libera circolazione nell’accesso al lavoro in altri Stati), intraprendeva nel 1998 un’«azione sistematica» con la comunicazione 88/C 72/02 in materia di applicazione dell’art. 48, n. 4, del Trattato CEE.

In questa comunicazione la Commissione invitava gli Stati membri a consentire ai cittadini degli altri Stati membri l’accesso ai posti negli enti incaricati della gestione di un servizio commerciale, come i trasporti pubblici, la distribuzione dell’elettricità o del gas, la navigazione per via area o marittime, le poste e telecomunicazioni, nonché negli enti di radiotelediffusione, nei servizi operativi della sanità pubblica, nell’insegnamento pubblico e nella ricerca effettuata a scopi civili negli istituti pubblici. La Commissione, infatti, riteneva che i compiti e le responsabilità che caratterizzavano i posti rientranti in questi settori fossero solo in via del tutto eccezionale riconducibili alla deroga di cui all’art.48, n. 4, del Trattato CEE per gli impieghi nella pubblica amministrazione.

Seguirono negli Stati membri i faticosi processi di privatizzazione del pubblico impiego (per l’Italia con il d.lgs. n. 29/1993 e con la finta privatizzazione di PI del novembre 1994 con il 1° CCNL di diritto privato), con le tre contestuali sentenze di

45 Così conclude al pt. 5 la sentenza Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres sul potere di disapplicare la norma interna retroattiva in contrasto con il diritto dell’Unione: «Nonostante l’esistenza, nella normativa nazionale di trasposizione della direttiva 1999/70, di una disposizione che, pur riconoscendo il diritto dei dipendenti pubblici temporanei al versamento delle indennità per trienni di anzianità, esclude tuttavia l’applicazione retroattiva di tale diritto, le autorità competenti dello Stato membro interessato hanno l’obbligo, in forza del diritto dell’Unione, e nel caso di una disposizione dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, che figura nell’allegato della direttiva 1999/70, avente effetto diretto, di attribuire al citato diritto al versamento delle indennità un effetto retroattivo a decorrere dalla data di scadenza del termine impartito agli Stati membri per la trasposizione di tale direttiva.».

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condanna per inadempimento del 2 luglio 1996 nei confronti del Belgio (C-173/03), del Granducato di Lussemburgo (causa C-473/03) e della Grecia (causa C-290/04), per non aver limitato il requisito della rispettiva cittadinanza all’accesso ai posti di pubblico dipendente o impiegato che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri ed alle funzioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato e delle altre collettività pubbliche, estendendolo invece in violazione della libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità ai settori pubblici della ricerca, dell’insegnamento, della sanità, dei trasporti via terra, marittimi e aerei, delle poste e delle telecomunicazioni e nei servizi di distribuzione di acqua, gas ed elettricità.

Nonostante l’abile strumento elusivo delle assunzioni stabili nella pubblica amministrazione di cui all’art. 36, c. 2, d.lgs. n. 165/2001 e del divieto di conversione per violazione di norme imperative concernenti l’assunzione e l’impiego dei rapporti di lavoro flessibili, anche l’Italia ha subito ben due condanne per inadempimento sulla libera circolazione dei lavoratori nell’accesso all’impiego nella scuola statale sia nel 200546 che nel 200647, che hanno preceduto la sentenza Mascolo.

Tuttavia, la privatizzazione ritardata (ma integrale e silenziosa) del pubblico impiego contrattualizzato e non contrattualizzato con l’applicazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza comunitaria (che giunge ad equiparare anche giudici togati e giudici onorari48) era già entrata nel dna della stessa giurisprudenza costituzionale nel 2013, a dieci anni dalla imposizione del metagiuridico divieto di conversione nel pubblico impiego nel caso di mancato espletamento di concorso pubblico per tutti i lavoratori a tempo determinato, compresi i bidelli49, che il concorso per legge non lo hanno fatto mai fatto accedendo al reclutamento stabile attraverso le graduatorie permanenti per soli titoli, come la causa Napolitano C-418/13 sulla pregiudiziale Ue sollevata dallo stesso Giudice delle leggi con la doppia ordinanza “Mattarella” nn. 206 e 207 del 201350 dimostrerà.

46 CGUE, sez. II, 12 maggio 2005, causa C-278/03 Commissione contro Repubblica italiana, su cui v. De Michele, 2011d, 701ss.

47 CGUE, sez. II, 26 ottobre 2006, causa C-371/04 Commissione contro Repubblica italiana, su cui v. De Michele, 2011d.

48 CGUE, sez. II, 1 marzo 2012, causa C-393/10 O’Brien contro Ministero della giustizia, sulla applicazione diretta della clausola 4 di non discriminazione dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale in materia pensionistica, a tutela dei giudici onorari rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili, su questione pregiudiziale sollevata dalla Suprema Corte del Regno Unito.

49 Cfr. Corte Cost. 27 marzo 2003, n. 89.50 Corte Cost., Pres. Gallo, Est. Mattarella, 18 luglio 2013 (ord.), nn. 206 e 207, su cui cfr.

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Infatti, dopo la sentenza Valenza della Corte di giustizia del 2012, che ha citato sarcasticamente per la 1ª e unica volta l’art. 97, c. 3, Cost. e la regola dell’accesso al pubblico impiego mediante concorsi, «salvo i casi stabiliti dalla legge»51, nella nota vicenda degli ex precari dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato “stabilizzati” senza concorso con norma d’urgenza non convertita in legge, la Corte costituzionale52 si è finalmente adeguata alla giurisprudenza europea e, richiamando sentenze del Consiglio di Stato53 e della Cassazione a Sezioni Unite54, ha ineffabilmente affermato che «le aziende sanitarie si caratterizzano, secondo il prevalente e consolidato orientamento interpretativo, per essere enti pubblici economici esercenti la loro attività utendo iure privatorum».

Fa una certa sensazione il fatto che la Corte costituzionale abbia smentito se stessa a distanza di pochissimi anni dalle due declaratorie di illegittimità costituzionale della legislazione regionale in materia di stabilizzazione del personale precario del SSN, nulla per violazione della regola del concorso pubblico55.

De Michele, 2014c, nonché Idem, 2014d; Adamo, 2013; in senso conforme Menghini, 2013, 425; Guastaferro, 2013.

51 Giustamente il Tribunale di Locri nella citata sentenza n. 808/15 evidenzia il carattere “spaventoso” della norma costituzionale per la giurisprudenza di merito dopo Corte Cost. 27 marzo 2003, n. 89, sottolineando che l’interprete dimentica sempre per un’inspiegabile forma di oblio l’inciso «salvo i casi stabiliti dalla legge», che consente dunque deroghe alla regola del concorso, seppure legislativamente disposte. Il Giudice del lavoro, infatti, richiama il precedente Corte Cost. 7 aprile 1983, n. 81, che legittimava la discrezionalità del legislatore, salvo il rispetto del criterio della razionalità dell’intervento, cui aggiungerei Corte Cost. 4 giugno 1993, n. 266, con cui la stessa Corte costituzionale aveva dichiarato illegittima una norma della Regione Sicilia che aveva previsto un concorso riservato per figure professionali il cui accesso stabile alla pubblica amministrazione era invece regolamentato dalla norma statale dell’art. 16 della l. n. 56/1987, cioè per il tramite degli (ex) Uffici del lavoro, a differenza dei collaboratori scolastici di 10 anni dopo (Corte Cost. 27 marzo 2003, n. 89) che devono fare il concorso, ma come i collaboratori scolastici del 2013 (Corte Cost. n. 206/2013 – ord.) che invece potrebbero essere immessi in ruolo ai sensi dell’art. 5, c. 4-bis, d.lgs. n.368/2001. In effetti, prima dell’ordinanza “Mattarella” di rinvio pregiudiziale n. 207/2013 la Corte costituzionale, come sottolinea il Tribunale di Locri, non ha mai spiegato quale fosse il rapporto tra gli artt. 97, 117 e 11 Cost. e se le leggi di stabilizzazione regionale del precariato pubblico potessero considerarsi “applicazione” della direttiva n. 1999/70/CE.

52 Corte Cost. 20 marzo 2013, n. 49.53 Cons. Stato, sez. VI, 14 dicembre 2004, n. 5924; Cons. Stato, sez. V, 9 maggio 2001, n.

2609, in www.giustizia-amministrativa.it54 Cons. Stato, sez. VI, 14 dicembre 2004, n. 5924; Cons. Stato, sez. V, 9 maggio 2001, n.

2609, in www.giustizia-amministrativa.it

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Desta anche una sgradevole impressione di manipolazione della giurisprudenza comunitaria il fatto che nella sentenza n.293/2009 la Consulta richiami le citate sentenze della Corte di giustizia del 1996 di inadempimento alla libera circolazione dei lavoratori nell’accesso al pubblico impiego anche sanitario, argomentando che la stessa Corte europea avrebbe riconosciuto in quelle decisioni il principio/obbligo del pubblico concorso.

Così come si deve esprimere notevole disagio sul fatto che siano state sollevate per tre cause pregiudiziali sul precariato sanitario nei giudizi definiti dalle sentenze Marrosu-Sardino e Vassallo e dall’ordinanza Affatato sull’applicazione dell’art.36, comma 2 (poi 5), del d.lgs. n.165/2001 per poi scoprire che il TUPI non è applicabile alle aziende sanitarie, che sono dal 1999 Enti pubblici economici e quindi soggetti imprenditori.

In effetti, la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha definitivamente concluso al pt. 14 per la non applicazione del divieto di conversione in caso di abusivo ricorso a contratti a tempo determinato almeno nei confronti del personale precario degli Enti pubblici economici e delle società in house, con conseguente diritto alla riqualificazione a tempo indeterminato dei contratti flessibili almeno nella vigenza del d.lgs. n. 368/2001, richiamando l’ordinanza Papalia della Corte di giustizia e scaricando in buona parte la responsabilità della confusione sulla stabilizzazione del pubblico sulla Corte costituzionale e sull’uso eccessivamente restrittivo della regola del concorso, soprattutto per quei profili professionali in cui la regola per l’accesso stabile è un’altra (l’art. 16, l. n. 56/1987) o le procedure selettive sono state comunque espletate, seppure non con le caratteristiche del concorso pubblico per titoli ed esami56.

Se, dunque, applichiamo correttamente i principi enunciati dalla Corte di giustizia nella sentenza Carratù, ribaditi dalla sentenza Mascolo e, addirittura, riconfermati dalla sentenza Commissione contro Lussemburgo del 26 febbraio 201557, la 1ª decisione di condanna per inadempimento alla direttiva 1999/70/CE dichiaratamente anti Jobs Act I 58, già nella vigenza della l. n. 92/2012 la nuova sanzione prevista in caso di

55 V. Corte Cost. 13 novembre 2009, n.293 (Regione Veneto) e 11 febbraio 2011, n.42 (Regione Puglia), quest’ultima addirittura scritta dallo stesso Estensore di Corte Cost. 20 marzo 2013, n. 49.a distanza di appena due anni.

56 Cass., 9 marzo 2015, n. 4685, in GCMass., 2015.57 CGUE, sez. III, 26 febbraio 2015, causa C-238/14 Commissione contro Lussemburgo.

L’Avvocato generale italiano Mangozzi non ha presentato conclusioni scritte.58 Come anticipato in De Michele, 2014a, 374, il 7 maggio 2014 i difensori italiani dei

lavoratori (A. Notarianni e R. Garofalo) in sede di trattazione orale delle pregiudiziali sollevate dalla Cassazione sul lavoro marittimo nelle cause riunite C-362/13, C-363/13 e C-407/13 Fiamingo ed altri contro Rete ferroviaria italiana hanno contestato l’idoneità delle modifiche al

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licenziamento illegittimo perché privo di giustificato motivo oggettivo per “manifesta insussistenza del fatto” (che rappresenta l’ipotesi di invalidità della cessazione del rapporto a tempo indeterminato più direttamente assimilabile all’assunzione illecita a termine) consentirebbe la compatibilità comunitaria sotto il profilo dell’equivalenza dell’art. 32, c. 5, l. n. 183/2010 della sanzione tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità (da 6 a 12 mensilità di retribuzione è invece la sanzione in caso di licenziamento ingiustificato).

Dall’altro, l’applicazione dei predetti principi europei di equiparazione delle tutele in uscita trasformerebbe in obbligo di legge la facoltà discrezionale del Giudice di assicurare la tutela reintegratoria “attenuata” di cui al novellato art. 18, c. 4, della l. n. 300/1970, se non si vuole correre il rischio di creare una discriminazione indiretta dei lavoratori a tempo indeterminato “comparabili” rispetto alla più forte tutela assicurata

d.lgs. n. 368/2001, introdotte dal d.l. n. 34/2014, anche (e soprattutto) nel testo definitivo che si stava approvando in sede di conversione, ad assicurare gli obiettivi e le garanzie della direttiva 1999/70/CE contro gli abusi nella successione dei contratti a tempo determinato. Secondo gli avvocati dei lavoratori marittimi il legislatore d’urgenza avrebbe agito contra legem e contro la giurisprudenza della Cassazione e della Corte di giustizia, di cui ha voluto svuotare la capacità protettiva dei diritti. La III Sezione “italiana” della Corte di giustizia (Giudice Toader, estensore della sentenza Carratù) ha preteso nel corso dell’udienza la ripetizione dei punti critici della nuova disciplina del d.l. n. 34/2014, invitando la Commissione a prenderne atto e ad agire di conseguenza, attivando così sostanzialmente il ricorso per inadempimento nei confronti del Granducato di Lussemburgo, che sarà depositato una settimana dopo, il 14 luglio 2014, riguardante una limitatissima (se esistente, in uno Stato con un pil pro capite molto elevato) categoria di lavoratori precari, i “lavoratori saltuari dello spettacolo”, nei confronti dei quali operava, secondo la Commissione, una deroga alla ineccepibile normativa antiabusiva, introdotta in attuazione della direttiva 1999/70/CE. Nel dichiarare con la prima formale sentenza di inadempimento alla direttiva 1999/70/CE del “malcapitato” Lussemburgo la mancata predispozione di misure preventive contro gli abusi nella successione dei contratti a tempo determinato per i lavoratori saltuari dello spettacolo, la Corte di giustizia nella sentenza del 26 febbraio 2015 richiama ben nove volte la sentenza Mascolo, che considera effettivamente la 1ª vera e gravissima sentenza di inadempimento sull’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato sul precariato scolastico italiano, invitando così la Commissione a vigilare sulla stabilizzazione dei supplenti della scuola statale e di tutto il precariato pubblico nazionale (sentenza Mascolo, punto 55) e di intervenire nuovamente con ricorso per inadempimento all’esito della procedura di infrazione n. 2010-2124 e del parere motivato del 20 novembre 2014. In ogni caso, la censura della Corte di giustizia sulla scelta di escludere la temporaneità come causa giustificativa del ricorso sia ai contratti a tempo determinato sia alla somministrazione a tempo determinato, operata dal legislatore d’urgenza del d.l. n. 34/2014, è integrale e confermata dalla sentenza della Grande Sezione della Corte europea del 17 marzo 2015 in causa C-533/13 sull’interpretazione della direttiva 2008/104/CE in materia di lavoro alle dipendenze di agenzie interinali che ha confermato le conclusioni dell’Avvocato generale Szpunar, che aveva insistito

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ai lavoratori a tempo determinato anche nel caso in cui si ritenga di applicare l’art. 32, c. 5, l. n. 183/2010.

Inoltre, sempre mantenendoci nell’ambito della disciplina dei licenziamenti introdotta dalla l. n. 92/2012 e non preoccupandoci (ancora) delle “integrazioni” per i nuovi assunti del d.lgs. n. 23/2015, il combinato disposto della clausola 4, pt. 1, e della clausola 8, pt. 1, dell’accordo quadro comunitario sul lavoro a tempo determinato, nonché degli artt. 30 e 33 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sulla tutela in caso di licenziamenti ingiustificati potrebbe risolvere direttamente con l’applicazione diretta della disposizione di tutela più favorevole (la reintegrazione, anche in caso di violazione solo formale degli obblighi di comunicazione dei motivi o della procedura di cui all’art. 7, l. n. 604/1966) quella discriminazione indiretta di situazioni che il distratto legislatore della riforma Fornero e il disastroso legislatore del d.lgs. n. 368/2001 hanno generato, dopo la sentenza Carratù (e ora dopo la sentenza Mascolo).

Naturalmente, la discriminazione indiretta è ancora più evidente rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili quando il licenziamento ingiustificato sia stato intimato nel campo di applicazione della tutela “obbligatoria” dell’art. 8, l. n. 604/1966.

Inoltre, il riconoscimento della natura pubblica di Poste italiane e la certificazione comunitaria dell’equiparazione delle tutele sanzionatorie tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato comparabili risolve anche, in senso positivo59, l’applicazione del nuovo testo dell’art. 18, l. n. 300/1970 ai dipendenti pubblici, accentuando in questo caso la situazione di discriminazione indiretta dei dipendenti privati sia nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo con applicazione della procedura di cui all’art. 7, l. n. 604/1966 sia nell’ipotesi del licenziamento collettivo con tutela solo indennitaria, laddove invece nel pubblico impiego contrattualizzato (o privatizzato, come si potrebbe ora affermare dopo la sentenza Carratù) in “rinvio mobile” del combinato disposto degli artt.2, comma 2 e 51, c. 2, d.lgs. n. 165/2001 consente comunque l’applicazione degli artt. 33 e 34, d.lgs. n. 165/2001 del collocamento in disponibilità come soluzione comunque alternativa rispetto alla definitiva cessazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

sulla temporaneità come causa giustificativa del ricorso al lavoro interinale escludendo la legittimità a tale strumento negoziale per fabbisogno permanente di personale, così legittimando la conformità di quelle misure preventive antiabusive che, invece, il legislatore italiano ha integralmente soppresso anche per il contratto a tempo determinato.

59 Cfr. sul punto in particolare Olivieri, 2013, 373-405; nonché Cavallaro, 2012. In senso conforme all’applicazione dei nuovi regimi sanzionatori dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ai dipendenti pubblici dopo la l. n. 92/2012 e il d.lgs. n.23/2015, v. le conclusioni di Napoletano 2015.

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10. Conclusioni. La vera ratio a termine del Jobs Act

Pare evidente, alla luce di quanto sin qui evidenziato, che il complesso normativo realizzato denominato Jobs Act 1 (d.l. n. 34/2014) e Jobs act 2 (d.lgs. n. 23/2015), accompagnato e integrato dagli sgravi triennali della legge di stabilità - che sono aiuti di Stato perché non costituiscono tendenzialmente una forma generalizzata di riduzione dei costi del lavoro, ma una misura selettiva che favorisce quelle imprese che hanno abusato della precarietà lavorativa pagando costi leggermente più elevati di quelli ordinari (1,40% in più per i contratti a tempo determinato; l’utile d’impresa alle agenzie di lavoro nella somministrazione a termine) e che “stabilizzano” tale personale godendo non solo dei benefici previdenziali ma anche di un regime di minor tutela dei lavoratori in caso di licenziamento -, si ponga in totale (e consapevole, peraltro tollerata dalla Commissione) distonia con il diritto dell’Unione europea e con la giurisprudenza della Corte di giustizia, che della primazia del sistema normativo sovranazionale è l’unica garante nel dialogo attivo con le giurisdizioni nazionali.

Non vi è dubbio che, nella prospettiva sin qui delineata, non abbia molto senso preoccuparci dei singoli istituti e delle peculiari forme di tutela che, all’interno della nuove disposizioni impropriamente regolanti un inesistente contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Se l’applicazione diretta e in orizzontale delle regole europee alla luce della normativa antidiscriminatoria diretta e indiretta è in grado di assicurare, sul piano teorico, la piena equiparazione delle tutele (verso l’alto) tra i lavoratori del pubblico impiego e quelli operanti nel lavoro alle dipendenze di privati sia per quanto riguarda la flessibilità in entrata sia per quanto attiene la flessibilità in uscita, non pare che sia necessario approfondire la discriminazione di tutele fra vecchi e nuovi assunti a tempo indeterminato in ragione del momento dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015. Non ha senso, almeno in un’ottica europea e di compatibilità con il diritto dell’Unione europea.

Senza dubbio, gli interventi normativi del Jobs Act 1 e 2 rispondono all’esigenze dell’emergenza occupazionale e sono finalizzati, di fatto, ad incentivare il ricorso al contratto a tempo indeterminato per eliminare o ridurre il più possibile l’uso della flessibilità in entrata e dei contratti precari.

E’ difficile immaginare, in questo momento storico di gravissima crisi “motivazionale” del settore produttivo e degli imprenditori italiani, strumenti più efficienti e di immediata fruibilità per i datori di lavoro per attivare posti di lavoro stabili quali quelli realizzati dal Governo Renzi, alle prese anche (e soprattutto) con l’evento EXPO.

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Ebbene, tenuto conto della già maturata destrutturazione delle discipline dei contratti flessibili e della confusione delle tutele applicabili in caso di risoluzione ingiustificata dei rapporti di lavoro subordinato soprattutto nel pubblico impiego, forse tali innovative e discriminanti soluzioni normative sulla tutela in uscita dei lavoratori stabili rappresentano un passaggio necessario, ma sicuramente temporaneo, non oltre il 31 dicembre 2015 e, dunque, non oltre il termine per l’utilizzo di nuove assunzioni stabili agevolate.

Dopo quel momento il legislatore nazionale dovrà intervenire a modificare nuovamente la disciplina di tutela in caso di licenziamento ingiustificato (la cui nozione “unitaria” europea è facilmente ricavabile dall’art.30 della Carta dei diritti fondamentali Ue), evitando una volta per sempre di differenziare le sanzioni tra lavoratori a tempo indeterminato a seconda del numero di dipendenti stabilmente addetti presso il datore di lavoro, pubblico o privato che sia, dopo l’aborto conclamato dalla giurisprudenza comunitaria della riforma Fornero.

Altrimenti, sarà il caos integrale nel sistema processuale del lavoro, con una proliferazione del contenzioso dagli esiti imprevedibili ed esponenziali anche rispetto alle flagranti violazioni della normativa dell’Unione europea, come interpretata dalla Corte di giustizia, soprattutto quando lo Stato italiano sarà costretto a rivedere la legge sulla responsabilità dei magistrati dopo l’inevitabile ricorso della Commissione per inadempimento alla procedura di infrazione n. 2009-2230 sulla responsabilità dello Stato per i risarcimenti dei danni causati dalla flagrante violazione del diritto dell’Unione europea nell’esercizio della funzione giurisidizionale del Giudice di ultima istanza.

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